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SASSATELLI, CONSUMO, CULTURA E SOCIETA’

Nelle odierne società siamo nati per consumare, e consumare significa culturalmente e implica
molto di più che soddisfare i propri bisogni quotidiani medianti delle merci. Consumare è agire da
consumatori. E una pratica sociale e culturale complessa, interconnessa a tutti i fenomeni più
importanti che hanno contribuito a definire le società occidentali: diffusione dell’economia di
mercato, globalizzazione, sviluppo dei media etc.
CAPITOLO 1 CAPITALISMO E RIVOLUZIONE DEI CONSUMI
Nella visione produzionista, la società dei consumi è un effetto dello sviluppo del modo di
produzione capitalistico. L’industrializzazione ha portato alla diffusione di una grande quantità di
merci standardizzate economicamente accessibili a fette crescenti di popolazione. La rivoluzione
industriale, sarebbe sarebbe alla radice della rivoluzione della domanda. Dopo il periodo della
forte critica al consumismo negli anni 70, si è rafforzata la consapevolezza che la società dei
consumi non è una tarda deriva del capitalismo. Un chiaro incremento dei consumi si ha dalla
seconda metà del 600 e per tutto il 700, ma non si può dire in maniera esatta ilritmo di cresceti dei
consumi, in quanto i consumi variavano a seconda delle classi sociali.
Anche l’utilizzo dello zucchero e nuove sostanza, tabacco, tè, cacao, sembrano aver giocato un
ruolo importante nel rivoluzionare i consumi. Questi dati però non sono riferibili a produzioni di
massa. Sino dall’800 il modello dell’offerta era quello della produzione flessibile in piccole unità,
piuttosto che standardizzata. La loro distribuzione passava attraverso il piccolo commercio al
dettaglio.
-dalla produzione al consumo
La visione produzionista collocava la società dei consumi a inizio 900, interpretabile come una
reazione quasi meccanica alla rivoluzione industriale e quindi alla penetrazione in tutte le classi
sociali di beni di consumo di massa standardizzati.
Vengono prese in esame delle tesi sulla rivoluzione dei consumi. Esse hanno in comune il tentativo
di mostrare che la domanda si configura come un fattore importante del processo economico e
culturale. Essi vogliono dire che i desideri di consumo hanno svolto un ruolo attivo nel dar forma
alla modernità
Cominciando con l’esporre le visioni antiproduzioniste: Mc Kendrick sostiene che la rivoluzione dei
consumi si colloca nella seconda metà del 700 in inghilterra e va vista sullo sfondo di una società
flessibile e meno gerarchica, come il risultato delle aspirazioni di status delle nuovi classi borghesi
che trovavano una possibilità di elevazione sociale attraverso l’emulazione dei consumi della
nobiltà. Vengono menzionate le porcellane come oggetti di valore. Wedgwood fu uno dei primi ad
adottare tecniche di marketing e design per soddisfare i gusti della borghesia. Egli si fa promotore
di una cultura promozionale in cui gli oggetti sono prodotti e commercializzati in vista di uno
specifico mercato. Mc kendrick offre una spiegazione della nascita della società dei consumi che
definiamo CONSUMISTA. La società viene spiegata con il consumismo, il quale si velocizza
attraverso le dinamiche della moda innescato dall’emulazione sociale e favorito dalle tecniche di
vendita manipolatorie di abili produttori.
In opposiione a queste tesi cè Campbell che offre una spiegazione che definiamo MODERNISTA.
Egli mostra che non solo l’orientamento alla produzione ma anche quello al consumo ha portato
alla nascita della modernità capitalistica. Il consumatore moderno è un edonista che si allontana
dalla realtà appena la incontra, spostando i suoi sogni sempre piu avanti nel tempo. Ciò che
distingue il consumo moderno è l’essere un esercizio privato di un edonismo particolare.
Edonismo della mente piuttosto del corpo. I base a ciò, il consumo diviene non tanto la capacità di
contrattare l’acquisto di prodotti, ma la ricerca del piacere dell’immaginazione cui conduce
l’immagine del prodotto. Egli colloca la rivoluzione agli inizi 800, i soggetti riproducono i propri
sogni mediante gli ogetti, attraverso insegnamenti romantici. ( i romantici sostenevano che il
compito degli esseri umani era quello di realizzarsi come singoli, in opposizione alla società). La
ricerca di nuove forme i edonismo è da contrapporre alle forme tradizionali di edonismo( legato a
pratiche sensoriali: mangiare, bere). Esso è invece definito dai piaceri dell’immaginazione. Il
personaggio che esprime uesto atteggiamento è il dandy, figura connessa ad una particolare
accezione del piacere, esperienza orientata al nuovo. Nella società borghese sono soprattutto le
donne che devono divenire le consumatrici per eccellenza, che devono sognare ad occhi aperti.

Jan De Vries vuole riconciliare lo studio del consumo con quello dei processi produttivi, mettendo
a fuoco il ruolo della distribuzione e delle relazioni commerciali nei mercati moderni. Egli propone
una spiegazione della società dei consumi definita SCAMBISTA. Egli nota che in un periodo di
contrazione dei salari, le famigli non si sono comportate in maniera razionale, risparmiando, ma
hanno teso a consumare di più. Il consolidarsi di meccanismi di scambio monetario sempre più
libero e sicuro, avrebbe offerto l’opportunità e lo stimolo per modificare orientamenti economici
tradizionali, improntati alla conservazione. Quindi la necessita di partecipare agli scambi monetari
segna l’avvio della società dei consumi. Gli scambi commerciali in questa epoca sono anche
investiti da un valore culturale.( es: oggetti esotici). Emerge una necessità di promuovere non solo
le merci ma anche la visione del consumatore, il quale si fa carico delle proprie scelte e dei propri
gusti.

 LA genesi del consumatore moderno


Lo sviluppo della società dei consumi viene descritto come un fenomeno di lungo periodo.
Particolare attenzione è stata data alla formazione di nuovi bisogni e ai nuovi percorsi di
attribuzione di valore alle merci legati al commercio internazionale.
Pensiero di Sombart
Secondo Sombart gia dal 300 si possono rinvenire le tracce dello sviluppo di un nuovo tipo di
società, in cui l’accumulo di capitale è basato sullo sfruttamento delle colonie, sulla scoperta di
riserve e sul prestito di denaro e non su una economia feudale. Ma tuttavia, la nascita del del
capitalismo non la si puo far risalire semplicemente ad una estensione geografica. I beni che si
affacciano per la prima volta sul mercato, sono i generi voluttuari: merci non necessarie che
svolgono nuove funzioni: si tratat dei beni di lusso( spezie, droghe, profumi) sarebbe proprio la
natura di queste merci ad aver favorito l’organizzazione capitalistica.
Quindi la domanda di beni voluttuari occupa un posto importante tra i fattori genetici del
capitalismo. E queste forme di consumo hanno segnato il propagarsi di un orientamento
edonistico- estetico nei confronti degli oggetti. Orientamento edonistico all’andar per compere.
Nella visione sambartiana, economia, cultura e politica concorrono allo sviluppo del modo di vita
capitalistico. I modelli di consumo che stimolano la produzione, corrispondono ad un inedito
modello politico, caratterizzato dall’avvento dello stato assolutista. Le corti restano l’esempio più
importante. E a partire dalle corti che le aspirazioni di consumo si diffondono a tutto il tessuto
sociale, e le donne accrescono il loro ruolo.
Quindi nella visione di sombart, il mercato si allarga inizialmente da un punto di vista qualitativo,
con la produzione di oggetti di valore e che suscitano un orientamento edonistico, e poi in senso
quantitativo con la democratizzazione dei lussi.. Sombart quindi dice che con il progredire della
società capitalistica i lussi vengono prodotti in serie per cerchie sempre piu allargate di persone,
andandosi a democratizzare e razionalizzare. La circolazione dei lussi si velocizza anche in seguito
alla prossimità spaziale e allo sviluppo delle grandi città della modernità. Il consolidarsi della
grande città aumenta le esigenze di lusso.

-IL LUSSO E GLI AMBITI DELLA SOCIETA DEI CONSUMI

 Mc Cracken ( corti e consumi competitivi)


Le corti stimolano i consumi, e con lo sviluppo delle corti, il consumo è orientato alla competizione
di status interna alla corte. Il consumo alimenta il mercato dei lussi e solo indirettamente
attraverso i meccanismi della moda, arriva ad influenzare i gusti della borghesia. Le corti fanno dei
consumi uno dei terreni competitivi tra gli individui

 Laermans ( negozi e spettacolarizzazione)

Nel settecento nascono le vetrine, veri e propri palcoscenici rivestiti di vetro sui quali
disporre la merce. Essa viene spettacolarizzata per attirare il cliente. I consumatori non solo
acquistano ma godono dello spettacolo delle merci, ampliato dalla creazione delle gallerie
commerciali coperte o passages. Anche i grandi magazzini si propongono come luoghi da
visitare. Cio che cambia è la caratterizzazione delle merci che si configurano come uno
spettacolo. Alla spersonalizzazione dei rapporti di venditacorrisponde un rapporto più
ndivisualizzato con gli oggetti e i loro significati. In tutto ciò si inseriscono principi di
selezione e riduzione della complessità di cui i consumatori possono avvalersi. Andare per
compere diventa una attivita ludica e il consumatore si avvale di una serie di strumenti che
gli consentono di giocare con le merci.

 Simmel (città e moda come espressione di identità)


Man mano che la modernità si consolida anche i consumi voluttuar, vengono disciplinati
dal sistema della moda, dalle sue dinamiche. Si finsce per agevolare le divergenti tendenze
della culturaa materiale: standardizzazione e diversificazione. La moda dice simmel e
associata alla donna ella femminilità. Cio avrebbe radici storich, ovvero la debolezza
storica della loro posizione sociale. La moda consente di sfogarsi quando il loro
appagamento è negato in altri campi.

 Veblen (casa come regno dela donna)


Veblen si sofferma sul ruolo affidato alle donne dallo sviluppo del capitalismo. Con il consolidarsi
della famiglia borghese, i doveri del consumo vengono assolti dalle mogli, mentre ai mariti spetta il
compito di portare a casa il denaro. La casa si configura come uno spazio privato, dove non si
lavora ma si consuma. Viene concepita come un luogo di non lavoro, proprio grazie alle
caratteristiche estetiche dei beni che venivano a far parte dell’ambiente domestico. Nel design,
ogni riferimento al lavoro deve essere abolito. Esempio delle macchine da cucire
Singer( produceva macchine leggere e curate in modo da essere un bell’ornamento.

CAPITOLO2 LA PRODUZIONE CULTURALE DEL VALORE ECONOMICO


La società dei consumi nasce soprattutto quando si comincia a tematizzare il consumo come una
attività rilevante in se stessa e cruciale per definire i rapporti sociali.
-Flussi di merci, flussi di conoscenza
Per comprende la società dei consumi contemporanea occorre considerare un processo storico di
lungo periodo, in cui i nuovi modi di consumare si svincolano da una stratificazione sociale rigida e
finiscono per essere governati dalla moda e da esperti che danno consigli sul buon gusto. Bisogna
tematizzare un nuovo registro di consumo identificandolo con il consumo di lusso, la cui funzione è
sociale. Gli oggetti implicano sempre forme diconoscenza sociale: man mano che i flussi di merci
sono diventati globali, hanno portato flussi di conscenza più articolati ed hanno aperto una
moltitudine di spazi per la costruzione del valore.
L’enfasi viene posta sulla capacità del consumatore di riconoscere il valore delle cose, e solo
mostrando il valoe di alcune cose che si può incentivare il consumo. In questa nuova situazione,
l’accento passa dall’esclusività all’autencità dei beni. Cio si riscontr per esempio nei libri di cucina.
Solo mediante l’attribuzione di nuovi significati questi oggetti possono diventare merci dal valore
economico. Tale cultura fu favorita dalle nuove tecnologie di comunicazione, a partire dalla
stampa, che resero più facile la circolazione di valori culturali. Si sottolinea che il valore economico
è un prodotto culturale. Si mettono a fuoco il modo in cui gli oggetti vengono ad essere definiti,
percepiti socialmente. In questa prospettiva si analizza il processo di classificazione delle merci che
ha accompagnato l’avvento della modernità e dei nuovi modelli di consumo. I discorsi e le
retoriche normative sul rapporto tra oggetti e persone sono una dimensione importante dell’agire
sociale. Questi discorsi etichettano alcuni beni come nazionali, altri come esotici, alcuni come di
uso quotidiano. Mediante simili processi classificatori che vengono definite alcune necessità come:
lusso,, moda, buon gusto, che strutturano lo spazio in cui i consumi acquistano senso.
- La categoria del consumo e la vita sociale delle merci
I processi classificatori della cultura materiale e del nostro rapporto con essa è un assunto
particolare a partire dalla fine del 600. In questo periodo si assiste alla legittimazione di nuovi modi
di consumare e di nuove merci che cintribuiscono allo stile di vita borghese. Per molto tempo, il
lusso è stato il principale strumento discorsivo per stabilire i confini di un rapporto con la cultura
materiale. Sul finire del 600, il lusso comincia ad essere discusso in una cornice economica-politica,
anziché esclusivamnete morale. Il lusso viene progressivamente de-moralizzato: esso favorisce il
commercio e non può essere classificato su basi morali universali e oggettive. Man man che i beni
di lusso cominciano ad interessare ampi strati della popolazione, essa perde la sua forza morale
discriminante. Questo processo ne riflette un altro: la privatizzazione della sfera del consumo;
svincolata dalla forma di regolazione legale politica delle leggi santuarie ed agganciata a quella di
regolazione economico-culturale. La raffigurazione della vita come una continua e dinamica giostra
di produzione è dominante. La nuova configurazione culturale del valore economico propone
anche nuovi stili di vita: viene ripreso lo stile di vita di Urbano, un personaggio fittizio che incarna
la borghesia mondana e che combina la razionalità imprenditoriale con l’edonismo raffinato. Un
uomo che vive nello splendore e si preoccupa solo di se stesso. L’intera popolazione deve farei
conti con una nuova configurazione del rapporto tra produzione e consumo. I consumi, anche
quelli di generi alimentari che oggi sembrano scontati, sono sempre legati a processi di costruzione
del valore che hanno profonde radici e profonde remificazioni culturali. Il caffe, la cioccolata e il tè
si accompagnano ad un’altra rivoluzione alimentare: quella del saccarosio. Lo zucchero e le
bevande zuccherate divennero i primi lussi democratici. I desideri individuali, diventano
inesauribili e appaiono come l’origine del mondo sociale e la fonte di valore delle cose. Si apre un
dibattito sulla figura del consumatore che ha rinsaldato il legame tra identità e consumi che
caratterizza la cultura occidentale comtemporanea.
-La società dei consumi come tipo storico.
Possiamo considerare la società dei consumi un tipo storico di società che si afferma in occidente.
Per delineare i contorni dei fenomeni di consumo moderni, la storiografia si è soffermata su un
periodo piu recente, che va dalla fine dell800 al secondo dopoguerra. Sulla fine del 800 Si rileva la
diffusione dei grandi magazzini e del sistema pubblicitario. Sul secondo dopo guerra si riflette la
rilevanza della diffusione di una gran quantità di beni durevoli per uso domestico. A questi studi si
accompagnano contributi sociologici sulla contemporaneità che segnano il passaggio a un modello
produttivo post-fordista, il diffondersi, grazie alle tecnologie di modelli di consumo flessibili e
sempre piu individualizzati. E segnalato quanto i grandi magazzini hanno cambiato il modo di
consumare, il tempo libero è interconnesso con la commercializzazione e lo shopping, attività
tipicamente borghese. Il discorso sul commercio ha smesso di insistere sull’acquisto immediato,
ma sull’insorgere del desiderio. Gli studi ce si concentrano sul secondo dopo guerra hanno messo
in risalto i cambiamenti strutturali stimolati dalle nuove tecnologie diffuse dalla produzione di
massa. E proprio nel periodo post bellico che beni di lusso diventano fenomeni di massa,.
Vi e un consenso nel fatto che siamo entrati in un’era post-fordista, in cui la tendenza è
allontanarsi dai prodotti standardizzati eprodurre invece una infinita varietà di forniture.
Se la fase fordista era dominata dalla produzione di massa, le merci erano poco differenziate, e i
fenomeni di consumo erano beni durevoli standardizzati, nella fase post-fordista, l’economia è
caratterizzata da una maggiore varietà di merci in rapido mutamento e modelli di consumo ibridi,
fluidi e di nicchia. Le nuove classi medie acquistano maggiore potere. La nuova logica
dell’economia sostituisce alla morale della produzione e dell’accumulazione, basata sull’astinenza,
sul risparmio e sul calcolo, una morale edonista, basata sul credito, sulla spesa. Quella post
fordiata è anche un’epoca di design di massa e di esteticizzazione delle merci più umili ( pensiamo
ad ikea). E inoltre un’epoca di spiccata tipicizzazione delle esperienze di consumo, mediante
strategie di tematizzazione( parchi a tema), ma anche della generale organizzazione tematica dei
ristornati, degli spazi dei grandi centri commerciali. Esteticizzazione e tipicizzazione sono aspetti di
una cultura di consumo caratterizzata dall’elaborazione simbolica delle merci.
Per tratteggiare la nascita e la genesi della società dei consumi, gli storicipongono enfasi diverse su
cronologie e fenomeni diversi. Nel complesso, sono stati sottolineati momenti chiave di
trasformazione. Ripercorrendo 5 secoli di storia: dal rinascimento delle corti ad oggi, abbiamo
visto che è difficile stabilire una data di nascita. La società dei consumi è piuttosto emersa
gradualmente con il progressivo ma non lineare coagularsi di una varietà di fattori declinati in
forme innovative. Hanno contribuito sia fenomeni sociali ampi( mobilità sociale, evoluzione dei
rapporti di sesso, urbanizzazione), sia fenomeni più specifici come crescita di consumo di beni
voluttuari, sviluppo di servizi di credito. Si delinea unavasta trasformazione, il cui senso si legge
soprattto in chiave culturale. Consolidamento della figura del consumatore e delle azioni di
consumo.

PARTE SECONDA LE TEORIEDELL’AGIRE DEL CONSUMO


Per comprendere i processi di consumo, è importante mettere a fuoco il modo in cui gli attori
sociali definiscono e percepiscono il rapporto con le merci. Quali sono i principi che muovono
l’azione? Che tipo di azione è l’agire del consumo? Queste domande hanno portato allo sviluppo
di teorie sociologiche dell’agire di consumo. Queste teorie si sono contrapposte alla visione
indivdalistica proposta dall’economia. Il conumo in pratica non può essere ricondotto agli estremi
della dicotomia razionale/irrazionale, non può essere celebrato come un calcolo di costi e benefici.
Le pratiche di consumo, sono orientate secondo una ragionevolezza di tipo sociale. I sociologi
hanno indivisuato nella logica distintiva il principio che domina le pratiche di consumo
contemporanee.
Tre esempi di logiche dell’azione di consumo possono essere: 1. logica distintiva: secondo cui le
persone sono portate a comprare beni che possono fungere da simboli di status, dimostrando e
possibilmente migliorando la propria posizione sociale. Un esempio ne è la moda (che segna i
confini tra chi sa e può permettersi gli oggetti all’ultimo grido e chi invece è destinato a seguire le
oscillazioni del gusto degli altri).
2. logica comunicativa: il consumo è visto come un’azione orientata all’espressione e al
consolidamento dei legami sociali per esempio attraverso l’espressione di particolari identità,
secondo una logica relazionale
3. logica normativa: che vede il consumo come espressione di valori, di ciò che riteniamo giusto
oppure consideriamo di buon gusto e corretto (es. consumo critico, ovvero cose che acquistiamo
perché riflettono molto un insieme di valori e idee che attraverso il possesso di questi oggetti
possiamo veicolare – come il commercio equosolidale).
Le logiche del consumo sono molteplici e il più delle volte però le persone compiono un mix di
queste diverse logiche e non ne scelgono esclusivamente una. Infatti i processi di consumo degli
individui contengono sempre più logiche che interagiscono tra loro in base anche al contesto. La
sociologia contemporanea si concentra pertanto sui contesti in cui le pratiche di consumo hanno
luogo. I mille modi in cui si realizzano le pratiche di consumo si configurano come uno specchio
delle nostre relazioni, della struttura sociale e delle sue ideologie e, allo stesso tempo, come un
importante terreno in cui tutto ciò (modelli di relazione, struttura sociale e ideologie) viene di volta
in volta messo in gioco.

CAPITOLO 3: UTILITA’ E COMPETIZIONE SOCIALE


È stata sopratutto l’economia ad aver definito il posto del consumo nella società. Tuttavia, la
prospettiva economica è rimasta legata a una concezione imprenditoriale e individualistica della
sfera del consumo mentre le riflessioni sociologiche hanno interpretato il consumo come un
fenomeno sociale.
-Il consumatore sovrano
Nella teoria economica dell’800 il consumo era dato ancora per scontato e quindi l’economia non
si poneva domande sul perché i consumatori scegliessero determinati prodotti piuttosto che altri.
Era visto come una esigenza strutturale: per far crescere la ricchezza di una nazione, occorreva che
qualcuno consumasse abbastanza da stimolare la produzione.
Nella teoria economica dell’800 il consumo era dato ancora per scontato e quindi l’economia non
si poneva domande sul perché i consumatori scegliessero determinati prodotti piuttosto che altri.
Il fenomeno del consumo cominciò a essere tematizzato come variabile economica con Adam
Smith e l’economia classica nel tardo ‘700. Ai primi economisti, che vivevano in una società in cui si
avvertiva il problema della scarsità delle risorse, il consumo appariva come un esito naturale dei
processi produttivi: più produzione significa più ricchezza per una nazione, mentre potersi
permettere di consumare appare come l’esito del lavoro. Nell’economia classica il consumo era
quindi indicato come un fine scontato e come un’esigenza strutturale data dal fatto che per far
crescere la ricchezza di una nazione occorreva che qualcuno consumasse abbastanza da stimolare
la produzione. Quest’idea rispecchia la teoria di Malthus sulla domanda effettiva, secondo cui la
produzione dipende dall’esistenza di una domanda tale da far guadagnare abbastanza denaro al
produttore. Tale domanda non può essere generata solo dai capitalisti stessi o dai lavoratori, ma
da quella fetta di consumatori improduttivi composta da persone come servi, soldati, medici,
uomini di governo, etc… Dalla fine dell’800 ad oggi, la teoria economica ha invece iniziato a
considerare tutti i consumatori come sovrani del mercato. Secondo questa idea, da ciascun
consumatore partirebbero delle scelte che, sommandosi a quelle degli altri consumatori, creano
una domanda alla quale la produzione non potrà fare a meno di rispondere. Con la rivoluzione
neoclassica l’attore sociale viene perciò fatto coincidere con l’agente economico “consumatore”,
le cui decisioni d’acquisto costituiscono il motore di un sistema in cui, tramite il mercato, si
mantiene l’equilibrio tra la domanda e l’offerta. Tuttavia, l’economia non si interrogava sulle
ragioni delle loro scelte e vedeva il consumatore solo come un attore che può agire acquistando
solo ciò che gli è utile, indipendentemente dal giudizio o dalle esortazioni degli altri e valutando le
diverse opzioni sul mercato. In questa ottica quindi le sue scelte sarebbero orientate alla
massimizzazione dell’utilità, intesa da un lato come piacere individuale e dall’altro come una
comparazione (economica). Pertanto si può dire che il consumatore neoclassico è una scatola nera
in quanto le sue preferenze e i suoi gusti non vengono assolutamente presi in considerazione (si
studiano i loro atti di acquisto che sono visti come delle azioni strumentali e razionali). Nella
visione neo-classica, gli aspetti del sistema sono visti come stimolo-risposta, economia fondata su
una psicologia meccanicistica.
Tre sono sostanzialmente i problemi trascurati dall’impostazione neoclassica: 1. la formazione
delle preferenze (legata all’interdipendenza sociale e culturale delle stesse); 2. le caratteristiche
qualitative dei beni (ovvero il rapporto soggetto-oggetto) 3. la questione del potere, del controllo e
del bilanciamento dell’informazione. È per questi motivi/limiti che la scienza economica
contemporanea ha tentato di introdurre qualche forma di caratterizzazione sociale del
consumatore.
Nella seconda metà del 900 l’economia iniziò a cercare come si potessero comprendere meglio i
meccanismi del consumo. Duesenberry (macroeconomia) ha proposto l’idea che sia il reddito
relativo (e cioè mediato dalla posizione sociale e da effetti dimostrativi) a influenzare la domanda:
in una società con una forte mobilità sociale, l’espansione di beni di qualità superiore da luogo a
effetti di dimostrazione di status che sono più forti tra le classi meno abbienti e stimolano la
domanda anche se i redditi reali non crescono. Un’idea simile è stata proposta da Leibenstein
(microeconomia) che ha introdotto la rilevanza dei motivi di emulazione e di dimostrazione di
status, etichettandoli in tre diversi effetti: -
l’effetto Veblen (effetto che opera quando la funzione del consumo di un oggetto è quella di
dimostrare il potere d’acquisto del consumatore; più alto è il prezzo del prodotto, maggiore risulta
il suo valore dimostrativo = secondo cui se una cosa mi permette di far vedere che sono ricco, sarà
più richiesta delle altre –logica distintiva); -
l’effetto Bandwagon* (per il quale se tutti comprano qualcosa sarò più spinto a comprarlo – per cui
ad un certo punto tutti comprano un determinato oggetto che diventerà più attrattivo);
l’effetto Snob* (secondo il quale se tutti comprano un oggetto, sarò meno spinto a comprarlo –si
arriva così ad un momento di saturazione in cui si cambia e il prodotto invece di diventare più
attrattivo perché lo acquistano in tanti perde di interesse).
Tuttavia, né Duesenberry che Leibenstein, considerarono i significati simbolici che possono avere i
beni (e nemmeno lo stile e il gusto) o i luoghi e la situazione-contesto in cui vengono acquistati.
PENSIERO DI BECKER
Becker propone una nuova forma di utilità, in cui la biografia personale, l’etica e la cultura
vengono tradotte in variabili numeriche e influenzano il consumo alla stessa maniera di altre
classiche determinanti economiche come i prezzi e i salari. Quindi i gusti e l’azione del consumo,
non può essere lasciato fuori dalla formalizzazione economica.
Nella teoria economica neoclassica, le pratiche di consumo restano modellate come scelte
individuali strumentali.

A differenza della visione economica, la Sociologia ritiene che il consumo non possa essere
considerato un qualcosa di individuale. Seppure il momento dell’acquisto sia un momento
individuale, i ragionamenti da cui esso dipende sono condizionati dalle persone che ci circondano.
Noi compriamo certe cose perché siamo immersi in una serie di relazioni che ci spingono o meno a
compiere un acquisto. Allo stesso modo si può sostenere che il consumo non è razionale (quando
compriamo qualcosa che in realtà non ci serve) e che non è mono-prodotto in quanto siamo
immersi in un sistema di scelte che dobbiamo cercare di mantenere coerenti tra di loro, come
evidenzia l’ “effetto Diderot” di Grant McCracken. Il nome di tale effetto si ispira a un racconto in
cui l’omonimo filosofo francese narra di una vestaglia lussuosa che era stata regalata allo scrittore
ma, dato che stonava con tutte le cose che aveva, avvertì l’esigenza di modificare il proprio
modesto studio per renderlo più adatto a questo nuovo oggetto (e allora inizia a pensare di voler
cambiare e comprare cose nuove perché). Questo accade perché egli sente la necessità di ricreare
una coerenza a partire da un nuovo centro di classificazione culturale rappresentato dalla
vestaglia. McCracken (come altri autori come J.Baudrillard, M.Douglas, B.Isherwood) mostra
quindi come i beni possono comunicare i propri significati solo se sono sorretti da altri beni: il
singolo bene deriva la sua funzione simbolica dal sistema di oggetti in cui è inserito. Quindi quando
compriamo qualcosa ci sono tutte le altre persone che idealmente entrano all’interno dell’acquisto
e così anche l’oggetto in realtà si collega a tutta un’altra serie di oggetti che potremo essere spinti
a comprare. Gli oggetti che compriamo quindi non sono solo ed esclusivamente utili ma si fanno
portatori di una qualche funzione simbolica e relazionale (affermazione evidente soprattutto
nell’acquisto di vestiti: li compriamo perché con essi vogliamo esprimere qualcosa). Questo non
era affatto considerato dall’approccio neoclassico, che non pensava minimamente che il mondo
delle cose fosse organizzato culturalmente secondo principi che legano gli oggetti tra di loro. Non
considerava nemmeno l’esistenza tra le merci di differenze di ordine qualitativo che prefigurano
diversi contesti e logiche d’uso. Anche quando facciamo la spesa è comunque difficile ridurre le
nostre preferenze e acquisti a una serie di singole e precise decisioni interamente riconducibili a
un calcolo strumentale. Questo non solo perché raramente abbiamo il tempo di dotarci di tutte le
informazioni che ci servono per valutare strumentalmente le merci (es: le etichette vengono lette
molto poco) ma anche perché la situazione di scelta si allontana da una mera decisione tra
alternative con probabilità certe. Inoltre, anche in un’attività che ci può sembrare banale (es. fare
la spesa) mettiamo in gioco una varietà di significati simbolici che superano il modello di azione
proposto dall’economia neoclassica. Ad esempio Daniel Miller, attraverso una ricerca etnografica,
ha mostrato che fare la spesa al supermercato è anche e soprattutto una forma rituale. Si tratta di
un’azione carica di significati simbolici condivisi che permette il rinnovo di tali significati: la spesa
sottolinea il legame che chi ne è responsabile ha nei confronti degli altri membri del nucleo
familiare e la sua relazione rispetto a ideali di famiglia, parentela, ecc… Molti studi hanno anche
sottolineato l’importanza dei contesti, delle situazioni e dei luoghi in cui avviene il consumo e delle
interazioni che vi avvengonoA differenza della visione economica, la Sociologia ritiene che il
consumo non possa essere considerato un qualcosa di individuale. Seppure il momento
dell’acquisto sia un momento individuale, i ragionamenti da cui esso dipende sono condizionati
dalle persone che ci circondano. Noi compriamo certe cose perché siamo immersi in una serie di
relazioni che ci spingono o meno a compiere un acquisto. Allo stesso modo si può sostenere che il
consumo non è razionale (quando compriamo qualcosa che in realtà non ci serve) e che non è
mono-prodotto in quanto siamo immersi in un sistema di scelte che dobbiamo cercare di
mantenere coerenti tra di loro, come evidenzia l’ “effetto Diderot” di Grant McCracken. Il nome di
tale effetto si ispira a un racconto in cui l’omonimo filosofo francese narra di una vestaglia
lussuosa che era stata regalata allo scrittore ma, dato che stonava con tutte le cose che aveva,
avvertì l’esigenza di modificare il proprio modesto studio per renderlo più adatto a questo nuovo
oggetto (e allora inizia a pensare di voler cambiare e comprare cose nuove perché). Questo accade
perché egli sente la necessità di ricreare una coerenza a partire da un nuovo centro di
classificazione culturale rappresentato dalla vestaglia. McCracken (come altri autori come
J.Baudrillard, M.Douglas, B.Isherwood) mostra quindi come i beni possono comunicare i propri
significati solo se sono sorretti da altri beni: il singolo bene deriva la sua funzione simbolica dal
sistema di oggetti in cui è inserito. Quindi quando compriamo qualcosa ci sono tutte le altre
persone che idealmente entrano all’interno dell’acquisto e così anche l’oggetto in realtà si collega
a tutta un’altra serie di oggetti che potremo essere spinti a comprare. Gli oggetti che compriamo
quindi non sono solo ed esclusivamente utili ma si fanno portatori di una qualche funzione
simbolica e relazionale (affermazione evidente soprattutto nell’acquisto di vestiti: li compriamo
perché con essi vogliamo esprimere qualcosa). Questo non era affatto considerato dall’approccio
neoclassico, che non pensava minimamente che il mondo delle cose fosse organizzato
culturalmente secondo principi che legano gli oggetti tra di loro. Non considerava nemmeno
l’esistenza tra le merci di differenze di ordine qualitativo che prefigurano diversi contesti e logiche
d’uso. Anche quando facciamo la spesa è comunque difficile ridurre le nostre preferenze e acquisti
a una serie di singole e precise decisioni interamente riconducibili a un calcolo strumentale.
Questo non solo perché raramente abbiamo il tempo di dotarci di tutte le informazioni che ci
servono per valutare strumentalmente le merci (es: le etichette vengono lette molto poco) ma
anche perché la situazione di scelta si allontana da una mera decisione tra alternative con
probabilità certe. Inoltre, anche in un’attività che ci può sembrare banale (es. fare la spesa)
mettiamo in gioco una varietà di significati simbolici che superano il modello di azione proposto
dall’economia neoclassica. Ad esempio Daniel Miller, attraverso una ricerca etnografica, ha
mostrato che fare la spesa al supermercato è anche e soprattutto una forma rituale. Si tratta di
un’azione carica di significati simbolici condivisi che permette il rinnovo di tali significati: la spesa
sottolinea il legame che chi ne è responsabile ha nei confronti degli altri membri del nucleo
familiare e la sua relazione rispetto a ideali di famiglia, parentela, ecc… Molti studi hanno anche
sottolineato l’importanza dei contesti, delle situazioni e dei luoghi in cui avviene il consumo e delle
interazioni che vi avvengono. In una situazione dicena, non bisogna considerare solo il valore del
cibo, delle pietanze, ma capire i significati culturali a essi associati.
-Moda, stile, e consumo vistoso.

Consideriamo il rapporto tra consumo e relazioni sociali. Ci interroghiamo sul modo in cui l’attore
arrivi a formulare i propri giudizi di valore. Il valore delle cose dipende dalla valutazione che il
soggetto ne da, esso però è a sua volta condizionato dal contesto storico e culturale in cui ha
luogo.
(Simmel) raccontò in particolare la funzione del fenomeno nascente della moda agli inizi del ‘900
come delle tendenze estetiche condivise da alcuni gruppi di persone dalle quali presero forma due
logiche fondamentali: la coesione (sentirsi parte di un gruppo grande) e la differenziazione (ci si
concepisce come persone differenti dalle altre). Egli individuava quindi la moda come mezzo per
segnalare agli altri la propria identità, sia come appartenenza ad un gruppo, sia come originalità e
individualità. Seguendo la moda ci affiliamo ad alcune persone e di differenziamo da altre, ma allo
stesso tempo possiamo esprimere noi stessi in un linguaggio comune e quindi comprensibile
anche agli altri*. Secondo Simmel poi la moda assolutizzava il cambiamento in quanto non solo
proponeva delle novità, ma le metteva continuamente in circolo. Egli affronta poi la questione
dello stile, affermando che, adottando un certo stile, ci si esprime e può anche rappresentare uno
spazio per l’originalità individuale. Infatti, scegliendo di combinare stili diversi, l’individuo fornisce
un nuovo significato alle cose, che acquistano valore nel loro insieme, come combinazione, e
sottolinea così la propria capacità di esprimere un gusto proprio. Simmel era però legato ancora ad
una società di tipo tradizionale; infatti nella sua descrizione la moda rimaneva qualcosa che era
creato, innovato e fatto circolare dalle classi sociali superiori per poi filtrare nelle classi inferiori
che ne adottano gli stili. Infatti, secondo Simmel, la moda appartiene solo alle classi superiori e non
appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene, le classi superiori passano da questa
moda ad un’altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse. I gruppi sociali
meno favoriti non sarebbero quindi in grado di proporre mode proprie e si limiterebbero a imitare
i più fortunati. Simmel descrive tutto ciò come l’effetto trickle-down, ovvero un meccanismo si
diffusione delle mode per sgocciolamento dall’alto verso il basso. Simmel mise quindi a fuoco
alcuni dei meccanismi centrali delle forme di consumo.
Contemporaneo di Simmel e importante sociologo fu Thorstein Veblen che elaborò il concetto di
‘consumo vistoso’ (concetto contrario alla logica economica della massimizzazione dell’utilità al
minor costo).
il valore di alcuni beni sarebbe determinato esclusivamente dalla loro capacità di rendere visibile
una data posizione sociale. Il consumo vistoso funge quindi da dispositivo di dimostrazione-
riconoscimento di una posizione elevata nella società. Egli ha in mente i nouveaux riches, un
gruppo socialeche aveva i soldi per finanziare la propria scalata ai circoli più esclusivi, e al
contempo aveva bisogno di legittimare mediante la dimostrazione visibile del proprio successo, la
posizione sociale. La dimostrazione di status più efficace si ha mediante l’ostentazione di alcune
merci. Secondo Veblen però, nelle metropoli industriali, il consumo vistoso finisce per coinvolgere
l’intera popolazione (modello dell’emulazione): i gruppi inferiori non avrebbero fatto altro che
imitare quelli superiori, acquistando non appena possibile le stesse merci che avrebbero così perso
il loro potere distintivo e sarebbero state abbandonate dai gruppi superiori che avrebbero presto
trovato nuovi oggetti capaci di testimoniare il loro primato sociale.

- I limiti dell’emulazione
Il modello dell’emulazione, incarnato pienamente dalle riflessioni vebleniane, presenta il limite
di ricondurre il consumo a una sola logica sociale. Un secondo limite è imputabile sul paragone
invidioso che non permette di concepire l’imitazione come mimesi e identificazione. Un altro
limite è dato laddove sono solo le pratiche di consumo esibite ad apparire sociali. Si ha cosi
una socializzazione solo parziale dei fenomeni di consumo.
Il limite più grave dell’analisi di veblen è dato dal fatto che l’intera gamma dei fenomeni di
consumo, viene ad essere inserita nel quadro delle dinamiche della moda, a loro volta
riportate in una struttura gerarchica e piramidale, in cui gruppi subalterni rincorrono i gruppi
superiori senza mai raggiungerli e senza avere una cultura propria.
(Se Veblen -e anche Simmel- trascura il fatto che anche coloro che sono più in basso nella scala
sociale possano creare moda (è il caso della moda punk. E del piercing,), Herbert Blumer
invece afferma che uno stile diventa moda non quando l’élite lo adotta, ma quando
corrisponde al gusto nascente di un pubblico che consuma moda. Le classi privilegiate possono
influenzare la direzione del gusto ma non possono controllarlo. Nell’ottica di Blumer le mode
sono anche, almeno in parte, il prodotto di scelte selettive compiute dall’industria della moda
CAPITOLO 4 BISOGNI INDOTTI E SIMULAZIONE
Le prime analisi sociologiche leggevano i consumi come fenomeni sociali e culturali, ma
raramente tematizzavano l’influenza dei media e dell’industria culturale, concentrandosi
piuttosto sulle dinamiche distintive della moda. Nel periodo del secondo dopoguerra, con lo
sviluppo dei mezzi di comunicazione i pensatori iniziano a denunciare il carattere che
definiscono manipolatorio della pubblicità per far rendere conto di come le aziende, mirino
attraverso l’uso della pubblicità, a portare le persone ad acquistare beni di cui magari non
hanno bisogno. Un aspetto che pongono in rilievo è il fatto che il consumo e il mercato vanno
letti come degli specchi dei rapporti di potere e di dominazione del tardo-capitalismo
(=meccanismi del mercato in cui particolare importanza ha la pubblicità per convincere le
persone a spendere soldi nei prodotti delle industrie). Sostanzialmente il concetto di base è
quindi che le persone che sono soggiogate al potere delle grandi imprese credono di essere
libere nel scegliere cosa comprare ma, in realtà, non lo sono affatto in quanto vi è
un’impossibilità di scelta che li rende schiavi di questo sistema. Quindi, se il consumatore
neoclassico è il sovrano del mercato, quello della teoria critica è lo schiavo delle merci: compra
più perché è indotto a farlo che perché davvero desidera farlo. L’idea fondamentale esposta
dalle teorie critiche è che consumare non è solo qualcosa di superficiale ma va a toccare le
relazioni di potere e dominazione che caratterizzano la società. I meccanismi di consumo sono
così indissolubilmente legati alla nostra condizione di cittadini.
-DAL FETICISMO ALLA TEORIA CRITICA

Queste idee critiche nascono con Karl Marx, economista e sociologo dell’800, che descrive il
consumo come qualcosa di necessario e fondamentale per lo sviluppo dell’economia
capitalistica. Quello che Marx pone chiaramente in evidenza è che uno degli obiettivi di tale
sistema è quello di indurre bisogni finti nelle persone in modo da spingerle a comprare
qualcosa che in realtà non gli serve. Secondo lui, nelle società capitalistiche i consumatori non
sanno più capire cosa è davvero utile e cosa non lo è e finiscono per consumare merci la cui
unica utilità è quella di arricchire coloro che hanno organizzato la loro produzione e
circolazione, sfruttando la manodopera a basso costo. Per questo, egli considera le merci come
dei “feticci”, ovvero qualcosa che sta per qualcos’altro, perché servono per nascondere le
relazioni di potere del sistema capitalistico e la dominazione dei grandi capitalisti (che
posseggono le industrie) nei confronti dei consumatori che sono gli schiavi di questo sistema.
Nella visione di Marx, le merci sono quindi solo l’ombra delle relazioni sociali di cui sono
espressione. Tra gli anni ’40 e gli anni ’60 altri studiosi si ispirarono alle idee marxiste (di
alienazione e feticismo delle merci) per criticare il sistema dei media, dell’industria culturale e
della pubblicità di metà ‘900. Tra essi importanti sono Horkheimer e Adorno appartenenti alla
cosiddetta Scuola di Francoforte. Il loro obiettivo critico era l’industria culturale e il riconoscere
come l’industrializzazione della cultura rappresentò un passaggio che segnò l’omologazione
della cultura. Se prima infatti la cultura era qualcosa di alto e che aveva l’obiettivo di mettere in
discussione l’esistenza umana (la cultura era uno strumento critico per riflettere sulla 5 Bisogni
indotti e simulazione Dal feticismo alla teoria critica società), con l’industrializzazione della
cultura tutto quello che era cultura divenne un prodotto di mercato (che aveva come unico
obiettivo quello di vendere). La prospettiva da cui partono per comprendere la società
americana è quella marxista, allargandone il pensiero alla società della comunicazione di
massa in cui loro osservano un esacerbarsi di alcune dinamiche che Mark aveva studiato nella
società capitalistica. Essi ritenevano che nella società di massa la cultura era diventata
un’industria che produceva prodotti in serie, standardizzati e che rispondevano alle esigenze
capitalistiche della società (e quindi alle esigenze sovrastrutturali del capitalismo). “L’industria
culturale” rappresenta dunque un’espressione altamente critica in quanto sostiene che la
cultura non è più frutto dell’intelletto e dell’ingegno degli individui ma è un’industria come
un’altra che produce prodotti che soddisfino la maggior parte degli individui, perdendo così la
sua caratteristica estetica e diventando un’industria e un prodotto che risponde a logiche di
profitto. I due consideravano dunque l’industria culturale come un sistema di tipo capitalistico
volto al profitto in cui tutti gli elementi si incastrano per creare dei prodotti omologati e che
escludono il nuovo: ritenevano che la stratificazione era solo apparente e che l’arte era
diventata merce (creazione di generi). L’individuo risulta essere quindi manipolato, ovvero non
può scegliere ciò che vuole ma prende ciò che gli viene offerto, diventando conformista,
acritico e omologato (il genere massmediatico prescrive ogni reazione): ogni manifestazione è
prevista e calcolata dall’industria culturale e dell’individuo non rimane più nulla. Avviene
dunque che quello che fanno gli individui è “divertirsi” (amusement) e ciò non è altro che un
consumo distratto in quanto non vengono richieste grandi dosi di riflessione e si tratta più che
altro di una fuga dalla realtà di cui l’individuo può fruire in modo superficiale. Ne deriva
pertanto un’euforia, data dal consumo distratto, e un’infelicità dell’individuo, data
dall’insoddisfazione del prodotto che non permette di elevarsi ed andare oltre sé stessi. Il
tempo libero, affermava Adorno, era tanto alienante quanto lo era il lavoro in fabbrica per
Marx: l’alienazione nella società di massa derivava per l’appunto dall’amusement. La critica
che fanno quindi è ritenuta deterministica, pessimista, perché rimanda ad un’idea di fruitore
passivo. Un altro pensatore tedesco degli stessi anni era Herbert Marcuse che divenne uno
degli filosofi simbolo di questa contestazione. Nel suo libro L’uomo a una dimensione, Marcuse
raccontò come la complessità culturale delle persone era ridotta (nel periodo dell’industria
culturale e della pubblicità) ad un'unica dimensione, che era la dimensione del consumatore.
Questa dimensione era generata dalla manipolazione dei bisogni e della finta libertà di
scegliere prodotti di consumo. Nella visione di Marcuse, il tardo capitalismo, attraverso
l’industria del divertimento e dell’informazione, promuoveva un’ideologia del consumismo che
generava bisogni falsi per controllare i consumatori. La stessa ricerca della novità sarebbe poi
un altro prodotto di tecniche manipolatorie. Tesi simili si ritrovano anche nel pensiero critico
statunitense. A questo proposito importante fu Galbraith che sottolineò come, con lo sviluppo
delle grandi società commerciali, si assista a una perdita di potere da parte del consumatore in
quanto è l’apparato tecnico-produttivo a determinare il contenuto del mercato. La pubblicità e
il marketing sono cioè estremamente efficaci nei loro sforzi persuasivi e questo anche perché i
consumatori sono ormai così lontani dal bisogno materiale che non sanno più ciò che vogliono.
Tuttavia c’è da dire che il marketing e la pubblicità non convincono semplicemente il
consumatore a comprare ciò che l’industria produce, ma devono anche adattarsi alle esigenze
dei consumatori. Inoltre, il sistema della moda contribuisce a orientare i consumatori ma, allo
stesso tempo, si nutre anche delle tendenze innovative che vengono dagli stili di strada. Questi
stili sono spesso il prodotto delle sottoculture che a volte agiscono come fonti di orientamento
del consumo. L’interazione tra produzione, consumo e sottoculture è stata illustrata dallo
studio di Dick Hedbige sulla diffusione della Vespa in Inghilterra. Egli mostra come tale
diffusione seguì percorsi non immaginati e non controllabili dai pubblicitari che avevano il
compito di promuoverla. Pubblicizzata come veicolo femminile, la Vespa divenne un oggetto di
culto per la sottocultura mod, composta da giovani maschi in ascesa sociale. Le industrie
devono dunque cercare di leggere il mercato per differenziare gli oggetti in base a divisioni
sociali già esistenti, ma non possono prevedere quei processi di consumo mediante i quali
nuovi gruppi sociali creano la propria identità. Una volta che un movimento sottoculturale si è
stabilizzato, gli oggetti da esso fatti propri possono essere nuovamente immessi nel circolo
commerciale (e diventare una moda). Nel caso dei mod si può quindi dire che i loro consumi
rappresentavano una sfida alle classiche distinzioni di genere e al contempo tendevano a
riprodurre le distinzioni di classe.

-NATURALITA’, AUTENTICITA’, RESISTENZA


Gli approcci critici hanno il limite di fondarsi su una impostazione dualistica che contrappone
natura e cultura. Quando i beni erano meno abbondanti, si postulava l’esistenza di un consumo
naturale, guidato dal valore d’uso delle cose. Cio viene opposto ad una situazione in cui l’artificiale
attribuzione di valore simbolico diviene una operazione manipolante.
Per boudrillard, l’aurea di autencità dell’arte moderna, non risiede nella singolarità delle immagine
originale. Ma ci puo essere una forma autentica di simulazione laddove il copiare e l’estetica delle
merci sono state incorporate nella pop art di wahrol. Cio che conta è che l’oggetto d’srte appaia
come il prodotto dell’intenzionalità di un singolo creatore. L’autenticità, deriva dalla
partecipazione ad un processo di creazione sociale.
I consumatori trovano il modo di consumare le merci e i loro significati in maniera personale e a
volte, sovversiva, muovendosi come bricoleurs negli interstizi lasciati a loro disposizione dalla
cultura del consumo. Anche se siamo lontani da pratiche del consumatore sovrano, in quest’ottica,
le pratiche di consumo possono configurarsi come forme di resistenza. Cancellare questa
resistenza, vuol dire cancellare la dimensione emotiva, edonistica e comunicativa dei beni. Le
merci e le loro immagini non sono solo polisemiche ma anche accentate , ovvero possono essere
lette e articolate con accenti diversi.
-IL POSTMODERNISMO PESSIMISTA

Il pessimismo della teoria critica sfocia, sul finire degli anni Sessanta, nelle prime
teorizzazioni postmoderniste nelle quali si tende a enfatizzare il ruolo centrale acquisito dal
consumo e dalla dimensione simbolica dei beni. Il consumo non si riferisce più al
miglioramento della vita umana ma, al contrario, è proprio a partire dal consumo di massa
che la realtà viene trasformata in un insieme di immagini privo di significati. Baudrillard fu
uno dei primi a ragionare attorno al consumo, riconoscendolo come una delle
caratteristiche tipiche della società di quel periodo. Il suo sguardo è profondamente critico:
riprendendo le argomentazioni di Marx (secondo cui le merci prodotte dal capitalismo sono
dei feticci), Baudrillard sviluppa l’idea che la società dei consumi è caratterizzata dalla
presenza di significati prodotti dalla pubblicità e dalle imprese e che il mondo sta
diventando un mondo semiotico in cui tutto diventa un segno (mondo fatto da una
costruzione di segni fittizi). Secondo Baudrillard questi segni diventano indipendenti dal
proprio referente (diventano autoreferenziali) e ciò porta allo sviluppo di un mondo in cui
quello che conta sono i significati costruiti attorno alle merci e non più il contenuto o la
qualità di un prodotto (conta la marca e non la qualità o i materiali — non esiste un valore
d’uso puro, naturale e materiale). Egli sostiene che gli oggetti si configurano come un vero
e proprio sistema ed è per questo che nella sua visione non si può capire il consumo
considerando la relazione tra un consumatore e il particolare bene che acquista in quanto i
bisogni sono prodotti come elementi di un sistema e non come relazione tra un individuo e
un oggetto. 7 Limiti della teoria critica Il postmodernismo pessimista Allora, proseguendo
su questa linea di pensiero, ci si ritrova in una società della simulazione o comunque in un
mondo fatto di una iper-realtà dove quello che conta è solamente il valore simbolico che le
aziende e i meccanismi promozionali riescono a costruire intorno alle marche (i media
creano attraverso le merci un mondo simulato, in cui le persone non godono del reale ma
di un suo segno tipicizzato). ESEMPI (VISITARE DYSNELAND, L’ITALIA IN MINIATURA PER
ESSERE CATTURATAIN UNA FOTO, IL BACIO DI DUE PERSONE A PARIGI, VIENE CATTURATA
UNA PARIGI ROMANTICA E NON IL BACIO). Baudrillard fu uno dei critici che elaborò la
visione di come la società dei consumi sia una società di sfruttamento. Tuttavia vanno
sempre tenuti in considerazione i tre punti critici analizzati in precedenza.

-RELAZIONI SOCIALI E CONSUMI

È difficile descrivere i consumatori come una massa omogenea e indistinta di individui in


balia delle strategie pubblicitarie perché se è vero che nelle società contemporanee
occidentali siamo tutti consumatori, è anche vero che tutti consumiamo in modo diverso.
Le identità sociali si esprimono e si stabilizzano anche mediante i consumi e le nostre scelte
di acquisto e il nostro modo di utilizzare i beni esprime e stabilizza i nostri differenti
orientamenti culturali legati al genere, all’etnia, alla classe… Gli studi sulla cultura materiale
sottolineano la diversità di oggetti e l’esistenza di differenti categorie di oggetti, prodotte
sulla base di differenti condizioni, distribuite in base a principi diversi, godute e usate in
differenti contesti e ambienti. In tale cornice si finisce per ridurre il consumo a una sola
modalità di fruizione dei comunicati commerciali; i teorici del postmoderno parlano non
tanto di un consumatoreattore sociale, quanto di un consumatore tipizzato e astratto che
semplicemente gode delle sensazioni fornite dalle immagini che recepisce.

-la distinzione sociale


Pierre Bourdieu è un sociologo che ha messo a fuoco la relazione tra i consumi e la
posizione sociale dei consumatori. È l’autore del libro La distinzione sociale in cui riporta
uno studio fatto nella Francia degli anni ’60 in cui cercò di collegare i gusti culturali con la
collocazione sociale delle persone che li avevano. Egli parte dall’idea che i consumi sono
relativi all’articolazione sociale dei gusti (i gusti sono tutte le scelte che facciamo di
acquisto): i gusti sono socialmente stratificati, ovvero differenti categorie sociali hanno
gusti differenti. Nella sua visione quindi il consumatore opera in base a una logica distintiva
che ha incorporato nel proprio gusto. 8 Relazioni sociali e consumi Gusti, comunicazione e
pratiche: approcci comunicativi La distinzione sociale: Pierre Bourdieu Una seconda idea
fondamentale delle forme di distinzione è che i gusti sono incorporati attraverso un habitus
che dipende dall’origine e dalla cultura (habitus = sistema di disposizioni durevoli e
trasferibili, di strutture strutturate predisposte a funzionare come principi organizzatori di
pratiche e rappresentazioni che possono essere adattate al loro scopo senza supporre la
visione cosciente e il dominio esplicito delle operazioni necessarie per ottenerli). Secondo
Bourdieu i gusti esistono già nella società che ci precede e che le persone li incorporano
vivendo in un certo ambiente (= dipendono soprattutto dal nostro contesto familiare).
L’habitus è iscritto in noi attraverso esperienze passate, si standardizza nei primi anni di
vita ed è un meccanismo inconscio ma estremamente adattabile che determina
l’atteggiamento degli attori nei confronti degli oggetti, di se stessi e degli altri. Per Bourdieu
i gusti e le scelte che facciamo sono influenzati da quello che ci viene proposto nella
socializzazione iniziale e quindi tendenzialmente nel contesto familiare. Noi perciò
assumiamo una particolare disposizione rispetto ai vestiti, al mangiare, etc… (=habitus) che
ci proviene dal nostro ambito familiare. Se la famiglia contribuisce quindi a creare il nostro
habitus, questa disposizione è determinante per generare i gusti di consumo sempre in
relazione ad un determinato spazio o campo sociale fatto di sistemi di classificazione.
Perciò i gusti cambiano nel corso del tempo in relazione a come cambiano tutti i sistemi di
classificazione (es: le mode). Nell’ottica di Bourdieu consumi e gli stili di vita vengono
riportati al gusto, interpretato come la realizzazione soggettiva del meccanismo
dell’habitus. Il gusto agisce come una forma di potere simbolico per riprodurre il sistema
sociale fatto di diseguaglianze. L’idea è che nella scelta dei prodotti (vestiti, musica,
arredamento, etc…) si nasconde una forma simbolica di riproduzione delle differenze della
società. Ad esempio, un certo tipo di uso del vestiario è una forma estetica che serve per
rimarcare le differenze economico/sociali tra le persone (il diverso tipo di lavoro che si fa).
Bourdieu pone dunque l’accento su come in qualche modo le scelte di consumo riflettono,
anche indirettamente e inconsciamente, un nostro modo di entrare in un conflitto di
creazione di differenze e diseguaglianze sociali. A partire da queste idee teoriche, Bourdieu
costruì una mappa dei sistemi di stratificazione dei gusti, cominciando da due parametri di
base, ovvero dalla distinzione tra: • il capitale economico (il livello di risorse economiche e
materiali possedute –es. soldi) • il capitale culturale (il livello di cultura posseduto,
costituito dall’istruzione, dall’educazione familiare, dalle letture, dalle conoscenze
artistiche, etc… - più il capitale culturale è alto, più la persona sarà collocata in alto nella
gerarchia del mondo culturale). Egli quindi elabora una cartografia dei gusti e la
sovrappone a una mappa delle posizioni sociali determinate in base a diverse combinazioni
di questi due tipi di capitale. La mappa di Bourdieu si costituisce da due assi in cui si
evidenzia la quantità di capitale culturale e la quantità di capitale economico a partire dai
quali si creano 4 diverse aree. Si evidenzia quindi che c’è un’area della società costituita da
persone con poco capitale culturale e poco capitale economico (es. proletari), ci sono poi le
persone con un basso capitale economico ma un alto capitale culturale (i cosiddetti
“intellettuali”, ovvero gli insegnati), da un altro lato ci sono delle persone con un basso
capitale culturale e un alto capitale economico (gli “arricchiti” – che lavorando sono
diventati ricchi ma non hanno avuto la possibilità di fare gli studi), infine, c’è una quarta
categoria che ha sia un alto capitale culturale che un alto capitale economico (“ricchi di
famiglia” che hanno una collocazione molto alta nella gerarchia sociale). Tuttavia questa
mappa ha una serie di limiti, dovuti alla sua rigidità e al fatto che nella realtà le differenze
non sono così nette e lineari. Secondo Bourdieu poi è che a ognuna di queste 4 categorie
possa essere associata una forma di consumo. …critiche: Bourdieu riconduce tutto il
consumo a una logica distintiva di riproduzione della posizione sociale degli attori
individuata mediante la generalizzazione e l’astrazione del modello delle differenze sociali
in varie forme di capitale. I gusti, infatti, sono strutturati una tantum sulla base della
relativa posizione sociale, tanto che le scelte di consumo sono sempre, anche solo
inconsciamente, espressive di una logica posizionale e gerarchica. Nell’ottica di Bourdieu,
benché altre variabili siano prese in considerazione, capitale economico e capitale culturale
giocano un ruolo fondamentale, convergendo o lottando per la determinazione del gusto
dominante (cosiddetto ‘buon gusto’). Sono dunque coloro che possiedono un grado
elevato di risorse economiche e culturali a configurarsi come gli arbitri del gusto, riuscendo
a promuovere il proprio habitus. I nouveaux riches sembrerebbero così capaci solo di
strategie imitative, mentre gli altri sociali inferiori sono condannati a un ruolo residuale e
marginale. Da questo punto di vista sembra che venga riproposta una versione dell’effetto
trickle-down, finendo per negare alla sfera di consumo quella relativa autonomia che la
rende un campo effettivamente generativo di classificazioni e stili. 9 Non tutti gli stili di
consumo sono inoltre riportabili, neppure con la mediazione dell’habitus, esclusivamente
al capitale economico, culturale o sociale di chi li adotta. Si può ipotizzare che esista anche
un capitale di consumo e cioè che siano le pratiche di consumo stesse a fornire una
struttura per la standardizzazione del gusto. Ad esempio, gli stili giovanili e sottoculturali si
costituiscono a partire proprio dalle scelte di consumo e non sempre riflettono
appartenenze sociali dell’individuo. È anche possibile concepire alcuni stili come una
particolare dimensione dell’identità sociale che si stabilizza nelle interazioni di consumo,
magari con la mediazione di esperti (es. giornalisti) che tentano di orientare le nostre scelte
in direzioni socialmente riconoscibili e rilevanti (es. vegetariani: pur essendo un’opzione
influenzata dall’educazione, dal genere e dall’età, non è direttamente riconducile ad esse
perché si tratta di una scelta sostenuta soprattutto da abitudini, regole e opportunità
radicate nelle pratiche e nelle relazioni di consumo). In aggiunta, Bourdieu afferma che la
differenziazione dei gusti e la possibilità di segnare le differenze dei consumi posti
inevitabilmente alla gerarchizzazione di queste stesse differenze, e questo perché parte
dall’idea che i significati vengono strutturati gli uni in relazione agli altri all’interno di campi
finiti, stabili e tendenzialmente coerenti. Come invece sottolinea lo studioso Michèle
Lamont, le società contemporanee sono dinamiche e i diversi campi di potere, incluso
quello del gusto e delle preferenze di consumo, sono aperti, instabili e si intersecano in
modi sempre più complessi con altri campi (come la comunicazione di massa) rendendo le
distinzioni culturali assai più mobili, sfumate e sfaccettate.

CONSUMATORE ONNIVORO DI RICHARD PETERSON

Gli studi sul consumatore onnivoro di Richard Peterson mostrano che, per beni diversi
come il cibo e la musica, si stanno sviluppando strategie di consumo che anziché realizzarsi
in un solo genere, stile o gusto si realizzano nella mescolanza di forme e prodotti diversi,
nella varietà e nella diversità dei generi. Mentre Bordieu ragiona nei termini di
un’associazione diretta tra differenti classi sociali e differenti stili di consumo, Peterson
(negli anni ’90 davanti ad una società in trasformazione) sostiene che se le classi popolari
sono comunque propense ad avere dei gusti differenti, quelle superiori sono caratterizzate
da una sorta di onnivorismo culturale in quanto sono in grado di consumare sia dei prodotti
che consumano soltanto loro sia delle cose che consumano anche le altre classi sociali.
Mentre il capitale culturale di Bordieu conduceva verso un percorso culturale molto
specifico (il ricco va a teatro e viene formato in scuole ad ascoltare ed apprezzare solo la
musica classica) nella nuova società e persone che hanno un alto capitale culturale sono in
grado di dominare più codici culturali (oltre alla musica classica ascoltano e comprendono
anche il rap del ghetto). Nella società di oggi i gusti culturali si sono moltiplicati ed un alto
capitale culturale corrisponde alla capacità di spaziare tra più generi culturali.

COMUNICARE L’IDENTITA’

Douglas vuole dimostrare quindi che il consumatore non è né reattivo, né passivo, né tanto
meno irrazionale, ma, quando ad esempio vaga fra i negozi, comunica a se stesso e agli altri
la propria identità. Il lavoro di Douglas ha fatto molto per consolidare un approccio
comunicativo che considera le merci come una “semantica” attraverso la quale si realizza il
consumo come linguaggio. I limiti in questo modello di analisi riguardano il fatto che non si
capisca bene cosa possa succedere al confine tra i diversi orientamenti culturali, se questi
siano individuali o sociali, come siano connessi precisamente alle condizioni sociali e
strutturali, e soprattutto se siano essi davvero universali. Questo schema analitico è certo
applicabile ad epoche diverse, ma proprio per questo tende a sottovalutare la questione
dei cambiamenti storici e culturali di lungo periodo. 
Mary Douglas è un’antropologa che ha ragionato su come le forme di consumo
costituiscono un vero e proprio sistema di comunicazione nella società. Come per Bordieu,
anche per lei i beni possono essere usati per sottolineare alleanze ed estraneità sociali.
Tuttavia, a differenza di Bordieu, la sua visione del legame tra consumo e struttura sociale è
meno pregiudicata da una rappresentazione gerarchica delle differenze sociali. Per Mary D.
i beni possono essere trattati come mezzi simbolici di classificazione del mondo e di
comunicazione non verbale. Per lei, il consumo riflette le scelte fondamentali sul tipo di
società in cui si vuole vivere e sul tipo di persona che si vuole essere, e ovviamente su ciò
che non si accetta e non si vuole essere. E sono soprattutto i rifiuti a sottolineare il ruolo
culturale del consumo perché l’acquirente si rivela come essere coerente rispetto ai propri
consumi nel momento in cui si rifiuta di comprare. Lei sostiene che le azioni del
consumatore odierno non sono semplicemente determinate dal mercato o dalla moda: il
consumatore non è passivo ma comunica se stesso e agli altri la propria identità. Tale
filosofia si colloca in uno dei quattro orientamenti culturali (cultural biases) che sono
presenti in tutte le forme di organizzazione sociale. Questi orientamenti corrispondono
all’incrociarsi di due dimensioni dell’organizzazione sociale: la griglia o struttura sociale può
essere forte e gerarchica o debole e egualitaria; mentre i gruppi possono essere
fortemente integrati o deboli. Il bias gerarchico corrisponde a forme di vita definite da
strutture sociali forti e gerarchiche e da gruppi integrati; quello individualista al contrario
da deboli strutture e deboli gruppi; il bias autoritario da gruppi forti ed egualitari collocati
in una struttura debole; quello isolato da individui svincolati da gruppi ma inseriti in
strutture spesso gerarchiche e forti. I biases rappresentano degli orientamenti prevalenti in
società diverse: al gerarchico corrisponde l’economia tradizionale; all’individualista
l’economia capitalista 10 L’onnivorismo culturale di R. Peterson Comunicare l’identità:
Mary Douglas competitiva; all’autoritario la vita dei contadini e all’isolato quella dei monaci
nei conventi. In ciascuna società tali biases sono poi connessi a diverse condizioni di vita:
nelle società occidentali capitaliste, Douglas individua quattro stili di vita: lo stile di chi
sceglie svaghi sportivi, eccentrici, estremi, tecnologici; lo stile gerarchico, legato a tradizioni
e istituzioni consolidate di chi è parsimonioso e incentrato sulla famiglia; lo stile egualitario,
lontano dalla formalità e orientato alla semplicità; lo stile di vita eclettico, ritirato che
rifugge da ciò che gli altri stili abbracciano. Douglas vuole offrire uno schema analitico
utilizzabile in società ed epoche diverse ma tende, al pari di Bourdieu, a sottovalutare la
questione dei cambiamenti storici e culturali di lungo periodo. Dall’analisi di M. Douglas il
consumatore emerge come un attore storico che attualizza una visione del mondo unitaria.
Anche perché tende a schiacciare l’attore sociale su una dimensione cognitiva anziché
pratica, e quindi situata nel tempo e nello spazio, l’approccio della Douglas sembra
riproporre un consumatore dotato di razionalità strumentale che persegue come fine
ultimo l’espressione della propria collocazione socioculturale. Sia M. Douglas che Bourdieu
quindi descrivono l’idea per cui il consumo e gli oggetti del consumo costituiscono un
sistema di comunicazione. Uno dei limiti di questa visione è quello per cui i significati che
hanno gli oggetti non sono statici ma c’è tutto un lavoro di attribuzione di significati che
avviene nel momento dell’uso

-APPROPRIAZIONE DELLE MERCI

Compriamo delle cose perché se compriamo un certo oggetto comunichiamo verso


l’esterno un certo tipo di appartenenza, diventa uno status symbol. Tuttavia è riduttivo dire
che compriamo le cose solo perché siamo mossi dalla voglia di muoverci e distinguerci nella
gerarchia sociale. Il momento dell’acquisto è solo l’inizio di un processo complesso in cui il
consumatore lavora su una merce per ricontestualizzarla, sino a che essa finisce per non
essere più riconoscibile come tale (sostituzione del valore economico con quello simbolico
affettivo). Anche l’oggetto più semplice può nascere come merce ma poi arriva spesso a
essere qualcosa di diverso, almeno per chi lo consuma e lo possiede. Il consumo è una
forma di appropriazione culturale delle merci: quando noi consumiamo e scegliamo
qualcosa svolgiamo un lavoro di appropriazione che va al di là dell’agire strategico e
rappresenta una dimensione attraverso cui mettiamo in atto una forma di creatività
simbolico culturale rispetto agli oggetti. Mentre gli autori finora analizzati riconoscono il
consumo come il riflesso della struttura sociale, un’altra dimensione del consumo è quella
per cui noi creiamo significati nel momento stesso in cui consumiamo. Questi altri autori
vedono il consumo come una serie di azioni attive e concrete con cui trasformiamo le merci
sia dal punto di vista materiale che simbolico. Anche il momento del consumo diventa
quindi un momento di produzione sociale di significati (es: i computer macbook: nel
momento in cui non li utilizziamo finiamo un lavoro simbolico ma anche materiale di
costruzione di idee di senso intorno a questi oggetti, ad esempio attaccando un adesivo o
cambiandone la custodia). Spesso per appropriarci degli oggetti li trasformiamo. Ad
esempio, le caratteristiche dell’estetica punk derivano dal fatto che questo gruppo ha
iniziato a creare degli abbinamenti differenti di vestiti, aggiungendoci degli accessori (es.
spille e borchie). Questa forma di accoppiare cose che non vengono normalmente vendute
o comunque proposte all’immaginario comune come associate è una delle forme più
evidenti di produzione nella sfera di consumo di nuovi significati, nuove estetiche e nuovi
stili. Tutti noi, più o meno sempre, compiamo piccoli atti che non sono altro che attribuzioni
11 L’appropriazione delle merci di significato che rappresentano delle forme di creatività
nel mondo del consumo. Tutte queste scelte che le persone compiono sono dei piccoli gesti
con cui le persone creano del senso attorno a degli oggetti.

Uno degli studiosi che ha cercato di mettere a fuoco questa dimensione creativa del consumo è
Grant McCracken. Egli propone l’idea di pensare questo modo di creare dei significati come dei
rituali (riprendendo l’idea del rituale dall’antropologia). I singoli gesti compiuti dai consumatori
non sono delle azioni meccaniche ma contengono una serie di micro-significati che fanno sì che gli
oggetti siano e diventino qualcosa di più di una mera merce astratta esposta in un negozio.
Sostituiamo i significati proposti e promossi dal produttore con dei significati personali che
costruiamo intorno all’oggetto nel corso del tempo (es. la maglietta con cui ho passato le vacanze
e mi ci affeziono). McCraken vede quindi il consumo come parte di un processo di attribuzione di
significati individua due stadi che danno inizio a questo processo, ovvero la pubblicità e la moda
che trasferiscono i significati dal mondo sociale alle cose. Questi significati saranno poi rielaborati
dai consumatori mediante una serie di attività rituali (individualistiche), cioè di azioni piene di
significati simbolici che fissano i significati dell’oggetto. In particolare, McCracken individua quattro
tipi di rituali di consumo: • lo scambio (tra la sfera commerciale e la sfera della vita del
consumatore - momento in cui una merce da astratta, passando nella sfera del nostro possesso,
inizia ad essere caricata di una serie di significati) • il possesso (ovvero le azioni che compiamo per
far sì che questo oggetto rimanga carico dei significati che gli abbiamo attribuito all’inizio. Noi
trattiamo anche gli oggetti a cui teniamo molto in maniera materialmente differente –es come
laviamo un vestito a cui teniamo molto, il posto che occupano i nostri libri preferiti. L’attenzione
che poniamo alla cura degli oggetti a cui teniamo di più rappresenta un rituale mediante il quale
riproduciamo l’attaccamento che abbiamo rispetto a certi oggetti. Il possesso può essere anche
espresso tramite una personalizzazione materiale delle cose) • il mantenimento (che mettiamo in
atto nel momento in cui tentiamo di rinnovare i significati intorno ad un oggetto –es un paio di
scarpe vecchie le portiamo dal calzolaio a farle aggiustare perché ci siamo troppo attaccati e non
vogliamo buttarle) • la svestizione (ovvero tutti gli atti che compiamo carichi di particolari
significati per disfarci di certi oggetti. Questa attenzione verso alcuni oggetti indica che il nostro
rapporto con essi è carico di significati che fanno sì che siamo portati a compiere delle azioni o a
porci dei problemi in maniera differente a come accadrebbe nei confronti di cose che per noi non
hanno alcun valore) Secondo McCracken, gli oggetti rappresentano dei ponti non solo verso gli
altri (come dicevano Mary Douglas e Bordieu) ma soprattutto verso degli ideali. Ciò si può
riscontrare nella crescente tendenza ad orientarsi verso alternative verdi ed ecologiche: anche se
la compiuta realizzazione di uno stile di vita totalmente ecologico rimane difficile, comprando ed
utilizzando almeno alcuni prodotti biologici, riciclando almeno parte delle merci usate, preferendo
trascorrere le vacanze in modo sano e contatto con la natura, i consumatori possono avere una
prova dell’importanza delle aspirazioni ecologiche e sentire di avere la capacità di contribuirvi.
L’idea che il consumo stesso si configuri come una forma di produzione poiché, usando le merci in
una miriade di modi diversi, i consumatori trasformano i loro significati culturali, è stata
sottolineata dal teorico Michel de Certeau. Secondo lui, il consumo è una forma di produzione del
valore che si contrappone a quella propria dei sistemi di produzione delle merci. Quest’ultima è
totalitaria, razionalizzata e spettacolare mentre il consumo è un lavoro mediante il quale i soggetti
si riappropriano, a volte in modo sovversivo, di beni ufficialmente destinati ad altri usi. In questo
modo il consumatore interpreta le merci in modo personale, estraendone qualcosa di diverso
dall’intenzione originale e creando un insieme di significati sempre nuovo e diverso. Una posizione
simile a quella di de Certeau è quella di Daniel Miller, un antropologo inglese autore di una ricerca
su come le persone attribuiscono agli oggetti che comprano al supermercato una serie di
significati, relativi a una serie di relazioni delle persone che acquistano con le persone per cui
acquistano. La sua riflessione sull’appropriazione delle merci lo porta a sostenere che consumare è
un lavoro creativo che facciamo per attribuire significati alle cose che possediamo. Questo atto di
appropriazione delle merci è come una seconda fase che segue all’espropriazione dei significati
delle merci che avL’idea di Miller è che viviamo in un modo che ha senso perché è carico di una
serie di significati che per noi hanno senso. Quello che ci viene proposto dal sistema commerciale
non ha un senso compiuto nelle nostre vite, è un qualcosa di astratto. Nella nostra vita poi questi
oggetti si caricano di altre esperienze e significati che non avranno più nulla a che vedere con i
significati iniziali che avevano. Consumare è quindi un atto di riassorbimento dei significati che ci
vengono proposti dal mondo commerciale e pubblicitario. Consumando le persone esprimo la
capacità di fare proprio un oggetto (attraverso l’appropriazione e l’assorbimento). Beni che sono
identici al momento dell’acquisto possono essere ricontestualizzati in un’infinita varietà di modi
diversi dai consumatori, tanto che le pratiche di consumo tendono a generare diversità più che a
promuovere omogeneizzazioneviene nel momento della produzione.
CRITICHE
Tuttavia è da sottolineare il fatto che non sempre i consumatori riescono a portare a termine i
propri rituali di consumo, appropriandosi con successo delle merci. I consumatori possono
ritrovarsi con oggetti che risultano inutili, superflui e persino alienati, o rammaricarsi di aver
ceduto un oggetto che ancora li rappresentava. Anche per questo è fondamentale ripensare
all’agire di consumo secondo il modello della pratica: l’agire di consumo è un agire pratico, ovvero
una serie di atti improvvisazioni portati a termine da attori che devono muoversi attraverso il
mondo sistematizzato degli schemi e delle immagini collettive. Consumiamo proprio perché
agiamo praticamente, non riflettiamo su tutto ma, al contrario, i significati che attribuiamo alle
nostre pratiche riflettono almeno in parte le condizioni in cui ci troviamo ad agire. Il consumo è
quindi un’azione non solo espressiva ma anche costitutiva (di un’identità, di un universo
simbolico): consumando, e quindi facendo propri gli oggetti o le esperienze di consumo, l’attore
sociale costituisce se stesso come consumatore ma anche come attore sociale che ha ruoli specifici
e diversi (legati al suo genere, al suo status sociale, ecc…) che si combinano con specifici stili di
consumo. L’attore-consumatore è sia il prodotto sia il produttore delle proprie azioni e
contribuisce attivamente a sovvertire o a riprodurre un ordine sociale del quale è parte e del quale
si avvantaggia per orientarsi nelle proprie azioni. Mediante il consumo, quindi, l’attore sociale non
solo concorre a fissare una serie di classificazioni culturali, non solo esprime se stesso attraverso
dei simboli o comunica la propria posizione sociale, ma anche costituisce se stesso e, così facendo,
riorganizza il mondo che lo circonda. Le merci vengono perciò utilizzato dai consumatori in modi
diversi a seconda delle circostanze e, utilizzando gli oggetti, gli attori ne elaborano i significati e gli
usi, articolandone più o meno consapevolmente proprietà simboliche e materiali in modi a volte
funzionali alla riproduzione della struttura di potere esistente, a volte no. Tutto ciò dimostra come
il consumo e le pratiche ad esso legate siano un terreno molto ambivalente in quanto, se da un
lato il mondo del consumo è molto vincolato a come le persone sono collocate all’interno della
struttura sociale, allo stesso tempo il consumo ha una dimensione di libertà e autonomia legata
alla sfera della creatività delle persone (che attribuiscono significati in maniera libera agli oggetti).
Il consumo è anche un terreno di conflitto rispetto alla vita delle persone nel mondo
contemporaneo perché il consumatore costantemente si muove e riesce in questo conflitto a
staccarsi e a conquistare delle parti autonomia all’interno di una serie di vincoli. Da un lato quindi
c’è un momento in cui il consumatore si appiattisce alle convenzioni e contribuisce a riprodurre il
sistema sociale; e un momento in cui invece egli ha la possibilità di sovvertire e trasformare i
significati e le strutture sociali. Il consumo è ambivalente perché dentro di noi come consumatori
queste due posizioni convivono ed emergono in momenti diversi.

PARTE TERZA
LA POLITICA DEL CONSUMO
IL consumo ha esiti ambivalenti: non libera i soggetti e non è nemmeno l’espressione di una libertà
assoluta. Esso non è nemmeno un’azione determinata totalmente determinata dalla pubblicità,
dai centri commerciali, dai parchi a tema, etc. proprio per questa sua ambivalenza, il consumo è
essenzialmente un fenomeno POLITICO. Si può parlare di una vera e propria politica di consumo,
poiché le pratiche di utilizzo dei beni offrono agli individui, la possibilità di realizzazione ed
emancipazione, ma allo stesso tempo li costringono. Le scelte di consumo hanno valenza politica:
sono mezzi di inclusione ed esclusione sociale. A questa valenza politica, legata alle funzioni
distintive delle pratiche di consumo, si aggiungono altre valenze più strutturali che hanno a che
fare con la normalità di certe pratiche di consumo e con la legittimità di certe merci. Ciò che noi
oggi consideriamo come ‘consumo normale’ è un costrutto sociale che si è sedimentato nel corso
della storia (es. consumo del tabacco). Nella nostra cultura esiste infatti una visione egemonica di
ciò che è ‘sbagliato’ e di ciò che è ‘giusto’ consumare e di come è ‘normale’ farlo; una visione che è
espressione delle forze culturali dominanti, sebbene possa essere articolata anche dai gruppi
meno avvantaggiati e possa essere connessa anche con la configurazione legale del mercato. Tale
visione normativa vuole che il consumatore sia alla ricerca di soddisfazione personale ma non gli
concede di cadere nell’eccesso e nella dipendenza. Inoltre, quando le persone consumano un bene
non fanno altro che negoziare con il processo di mercificazione (ovvero con la traduzione di oggetti
e beni in merci, scambiabili sul mercato mediante il denaro) e si avvalgono anche di significati che
provengono dal sistema di promozione e in particolare dalle immagini pubblicitarie.
Tuttavia in questa ultima parte tendiamo a considerare il consumo essenzialmente come un
processo di demercificazione, di traduzione dei significati e degli usi degli oggetti proposti dal
sistema commerciale nella vita quotidiana. Attraverso tale processo i consumatori giocano con il
mercato e persino lottano contro di esso per appropriarsi di merci perlopiù standardizzate e
trasformarle in beni dal significato personale. Solo così i consumatori potranno costruire se stessi
mediante le merci senza essere essi stessi ridotti a una merce

CAPITOLO 6 CONSUMISMO E PROMOZIONE

Alla sociologia del consumo interessa la pubblicità perché è una forma di discorso e
rappresentazione che si articola intorno al consumo. La questione del consumo e del ruolo del
consumo nella società è un argomento e oggetto di discussione. Due estremi attraverso cui nella
società si offre un discorso sul consumo sono: - retoriche anticonsumistiche - retoriche pro-
consumistiche Una delle retoriche normative cui più spesso si fa ricorso è quella che vede la
società contemporanea come una “società dei consumi” che incarna i vizi della nostra epoca
(materialismo, superficialità, edonismo…) e che si caratterizza per un’affannosa rincorsa a oggetti
superflui e spesso privi di gusto, rispondenti a bisogni falsi e tipicamente indotti dall’industria
pubblicitaria (= retorica anticonsumistica). A questa retorica se n’è contrapposta un’altra che
celebra le merci e i consumi come opportunità di realizzazione e felicità per tutti (= retorica pro-
consumistica). La pubblicità commerciale può essere considerata come una delle forme culturali
dominanti nelle società capitalistiche contemporanee. Anche se sta ai consumatori decodificare,
selezionare e tradurre nella concretezza delle loro esistenze i significati promossi dalla pubblicità,
difficilmente potranno sottrarsi totalmente ai messaggi pubblicitari. Nel tentare di adempiere alla
funzione commerciale che le è propria, la pubblicità si ritrova spesso a svolgere una funzione
ideologica: le immagini promozionali possono non solo proporre visioni dell’identità, della
famiglia, del genere, ecc. funzionali alla riproduzione delle gerarchie e delle differenze sociali
consolidate, ma anche ospitare visioni minoritarie e persino sovversive, soprattutto man mano che
si sviluppano mercati di nicchia sempre più diversificati. 14 La politica del consumo Consumismo e
promozione La retorica anticonsumistica è stata particolarmente influente nel secondo
dopoguerra. Secondo essa il consumo ha dato luogo a un impoverimento spirituale, per cui si
ricorrerebbe ai beni materiali quali surrogati di altre, tradizionali forme di soddisfazione,
autorealizzazione e identificazione che avevano luogo nella sfera del lavoro e della partecipazione
politica. Il consumo viene quindi individuato come uno dei problemi della società contemporanea,
associandolo con l’idea dell’acquisto superficiale e di oggetti che non servono (e con concetti di:
edonismo -ricerca di piaceri superficiali; massificazione -tipo di società volta nella direzione di
rendere tutto più standardizzato). Uno degli appartenenti alla schiera della retorica
anticonsumistica è Christopher Lasch, il quale sostiene che la disgregazione della sfera pubblica e
la burocratizzazione del lavoro si sarebbero combinate a una ‘cultura di consumo’ che ha
promosso un tipo di personalità narcisistica così ossessionata dai propri bisogni da vedere gli altri
solo in relazione ad essi. La sua idea è quindi che nella società moderna del dopoguerra,
soprattutto in quella americana, siano venuti meno i legami tradizionali (familiari) e si siano
affermati dei legami astratti e legati più al ruolo che le persone hanno nella società. Ciò ha
prodotto una disgregazione dei legami sociali e le società del consumo hanno colmato questi vuoti
producendo nelle persone la tendenza ad essere più narcisistiche, ovvero incentrandosi più sulla
propria apparenza. La formazione dell’identità pertanto non avverrebbe più in relazione a ideali
stabili sostenuti dalla famiglia tradizionale, ma alla possibilità di presentare un’immagine di sé
vendibile e convincente. In quest’ottica la cultura di consumo favorisce lo sviluppo di personalità
deboli e isolate, che vanno alla continua ricerca di una gratificazione negli oggetti e che sono
destinate a essere continuamente deluse: il piacere di cui sono alla continua ricerca per riempire il
loro vuoto interiore riconduce tutto a una merce. Secondo Lasch la cultura delle merci è quindi
una fonte costante di insoddisfazione: il consumo sarebbe positivo solo se fosse funzionale alla
produzione mentre diviene una minaccia se svincola da essa e dalle regole della famiglia
tradizionale. Un’altra studiosa che si inserisce nella retorica anticonsumistica è Susan Bordo, la
quale sostiene che il self contemporaneo si costituisce sulla base di richieste contraddittorie che ci
spingono a incorporare sia la disciplina dell’etica del lavoro sia la capacità di consumare quanti più
nemo possibile lasciandoci completamente andare al godimento immediato. La studiosa sviluppa
la sua idea mettendo in relazione le contraddizioni della società dei consumi con il moltiplicarsi dei
disturbi alimentari tra le persone. Susan Bordo parte dal concetto che una delle caratteristiche
della società dei consumi (che si riflette anche nella strutturazione della pubblicità) è la presenza di
una forte contraddizione a cui le persone vengono sottoposte: mentre da un lato le persone
vengono spinte a disciplinarsi ed essere molto attente sul mondo del lavoro (etica del lavoro),
dall’altro il mondo dei consumi spinge le persone ad essere edoniste e sviluppare sempre nuovi
desideri. Questo è uno dei motivi per cui le persone iniziano ad avere un problema di gestione dei
propri desideri. Uno dei risultati di tutto ciò, secondo la studiosa, sono i vari disturbi alimentari che
riflettono la ricerca di una forma di uscita da questa continua tensione contradditoria a cui si è
sottoposti. Per la studiosa l’anoressia e l’obesità sarebbero soprattutto tentativi di superare e
risolvere le contraddizioni indotte dalla cultura di consumo: l’anoressia sarebbe la somma capacità
di annullare se stessi e reprimere il desiderio mentre l’obesità sarebbe invece la somma capacità di
cedere al desiderio. Bordo finisce per sostenere che la gestione corretta del desiderio nella cultura
di consumo richiede una costruzione contradditoria della personalità e produce una personalità-
tipo bulimica e instabile come sua norma. Analisi come questa, che contrappongono in modo così
netto e radicale la sfera del lavoro a quella del consumo, tendono tutte ad affermare la priorità
funzionale e morale dei processi produttivi. Più recentemente, si è diffusa l’idea che la voracità del
consumatore moderno lo spinga a lavorare in modo smodato e privo di senso, unicamente per
procurarsi i soldi che occorrono per acquistare sempre nuove merci. La grande crescita della
cultura materiale viene quindi criticata come fonte di disorientamento e minaccia all’autenticità
del soggetto che si vuole capace di costituirsi a partire dalle sue opere e non dai suoi averi. Di
conseguenza gli uomini si misurano e vengono misurati meno per quello che fanno e più per
quello che hanno. Alla pubblicità viene affidato dagli autori di impostazione critica un ruolo
propulsivo: è il traino ideologico di un sistema in cui il lavoro ha perso senso, a cui tuttavia le
persone rimangono attaccate perché non sanno rinunciare ai beni che le immagini pubblicitarie 15
La retorica anticonsumistica e l’apologia del consumo Christopher Lasch e il narcisismo Susan
Bordo e le contraddizioni della società dei consumi propinano loro in una vana rincorsa verso
traguardi di benessere che rimarranno comunque possibilità di pochi. In questa retorica rientrano
quindi una serie di voci critiche nei confronti del consumo che si articolano in diversi aspetti come i
movimenti antiglobalizzazione che individuano nei simboli del capitalismo e delle multinazionali
degli obiettivi da distruggere e gli attivisti politici. Alle tesi critiche si sono opposte altre che hanno
a volte assunto il carattere di una vera e propria retorica pro-consumistica. Si è iniziato a sostenere
(a partire dalla fine del ‘600) che il libero mercato fosse una forza civilizzatrice e pacificatrice e che
i desideri umani e la loro gratificazione mediante una crescita dei consumi personali non era
pericolosa ne per la nazione ne per l’individuo. Il consumo viene così definito come la ricerca attiva
di gratificazione personale mediante i beni materiali. In questa impostazione il consumatore viene
visto come un essere sovrano e questa idea ha trovato sostenitori soprattutto all’interno del
marketing e della pubblicità commerciale, istituzioni queste che hanno avuto un ruolo importante
nel promuovere il consumo come ambito di azione significativo e legittimo. La pubblicità si
inserisce in questi discorsi positivi perché descrive il consumo come un qualcosa di positivo e
accettato socialmente (dopotutto il suo obiettivo è quello di far consumare di più). Sono infatti
soprattutto i messaggi pubblicitari ad articolare retoriche che interpellano il consumatore come
attore sovrano, libero di esprimere se stesso mediante il consumo. Per un verso la pubblicità serve
per alleggerire il senso di colpa che le persone possono provare quando comprano qualcosa.
Inoltre, la pubblicità contribuisce a descrivere il consumo come il giusto svago dopo il lavoro. A tal
proposito è da notare come, tendenzialmente, il consumo (e la pubblicità) tende sempre a
rappresentare gli aspetti della vita che riguardano il tempo libero delle persone. In quest’ottica il
consumo rappresenta quindi una soddisfazione che le persone si prendono nella pausa dal lavoro
(il momento del consumo viene rappresentato come una distrazione e uno svago che le persone
possono giustificatamente concedersi non per riuscire a lavorare meglio, ma per ripagarsi della
fatica lavorativa). Spesso poi le pubblicità tendono a creare forme di giustificazione per l’acquisto
(giustificano il consumo da parte delle persone). Tante pubblicità mirano a far leva sugli
atteggiamenti positivi che servono per convincere le persone che valga la pena acquistare un certo
oggetto. La pubblicità associa al consumo una serie di aspirazioni individuali positive (felicità,
divertimento, etc…) e anche i prodotto più banali e modesti vengono associati ad immagini di
realizzazione personale (es. L’Oréal – claim: Perché io valgo – Voi valete). Gli atteggiamenti di chi
condanna il consumo e di chi invece lo celebra sono accomunati da una stessa dimensione: di
consolare i consumatori e dimostrargli che sono pienamente autonomi di fare una scelta critica nei
confronti dei consumi. Quindi, una delle conseguenze della pubblicità nella società di oggi è quella
di ribadire la positività dell’acquisto e che rappresenta una delle vie di autorealizzazione che
hanno a disposizione oggi. Pertanto, la sociologia mira a capire quali sono le differenti
ripercussioni della presenza della pubblicità nella società di oggi e in che modo le immagini
riprodotte nella pubblicità si relazionano con le relazioni che ci sono nella vita delle persone. La
pubblicità intesa in senso moderno nasce intorno alla metà dell’800. In origine era molto fattuale,
ovvero relativa ad una descrizione più o meno obiettiva e analitica dell’oggetto pubblicizzato. Si
invitava il pubblico a considerare l’esistenza di un dato prodotto, senza specificare a cosa
esattamente potesse servire, quali bisogni potesse soddisfare, in quali contesti potesse essere
usato e per quali soggetti fosse maggiormente indicato. Le pubblicità, diversamente da come
accade oggi, non costruivano universi di senso per presentare i prodotti. Ad un certo punto però,
la pubblicità, ha iniziato a produrre dei significati simbolici intorno ai prodotti, costruendogli
attorno dei contesti (ponendolo all’interno di una serie di relazioni sociali), diventando evocativa.
In questo modo ha messo in moto intorno agli oggetti un processo di associazione simbolica (es.
associazione oggetto-classe sociale) che cambia con il passare del tempo (le associazioni di una
volta non valgono nel mondo di oggi). Si è quindi passati da una pubblicità di tipo referenziale,
focalizzata principalmente sul prodotto, a una contestuale, in cui il prodotto viene raccontato e
inserito in un contesto di vita più ampio.

BARTHES, LA LOGICA DEL MITO


Roland Barthes (La logica del mito) raccontò i meccanismi simbolici di associazione tra un prodotto
e altri oggetti o persone carichi di un qualche tipo di valore simbolico. Egli ha mostrato che la
pubblicità funziona utilizzando la logica del mito: un particolare significante viene traslato per
significare qualcosa di diverso dal suo significato letterale (= l’immagine di una rosa che significa
innanzitutto fiore può alludere anche ad altri significati come amore, passione; ed è uno o più di
questi significati ‘mitici’ che entra nella formazione di messaggi pubblicitari). Egli inoltre afferma
che se in una pubblicità vengono accostati ad esempio due oggetti o un oggetto e una persona,
anche se non c’è alcuna connessione tra loro, il solo fatto che si trovino giustapposti nella stessa
immagine ci spinge a immaginarli in qualche modo interconnessi (es. profumo-attrice /
cioccolatini-rose). IL MITO SI PRESENTA ATTRAVERSO UN ALTRO SEGNO CHE DA UNA PARTE
SVUOTA E DALL’ALTRO SFRUTTA IL SENSO. LA NOSTRA SOCIETA’ E IL CAMPO PRIVILEGIATO DELLE
SIGNIFICAZIONI MITICHE: BARTHES
-IL dominio della marca
Il fenomeno del mito funziona in modo similare a quello della marca: la marca non è solo il nome
di un prodotto o di una casa produttrice, è piuttosto un simbolo che può evocare una serie di
significati che fungono da cornice interpretativa e affettiva. Alcune marche sono diventate
autoreferenziali, altre hanno in qualche modo preso il posto del prodotto ma questo non vuol dire
che tali marche effettivamente arrivino a vendere più delle atre. Le marche sono diventate un
linguaggio globale ma i consumatori acquistano ancora prodotti e servizi e il modo di consumarli è
sempre mediato dalle diverse realtà locali. Più in generale, le associazioni simboliche ci dicono che
le varie parti di un testo pubblicitario funzionano tra di loro come un linguaggio ma non ci
spiegano perché i pubblicitari hanno scelto proprio tali associazioni ne come o perché i
consumatori leggeranno le pubblicità. Per fare questo bisogna considerare i contesti di produzione
e di consumo dei messaggi pubblicitari. Esistono quindi ‘culture della produzione’ nel marketing e
nella pubblicità mediante le quali gli operatori costruiscono strategie promozionali. Al cambiare
nel corso del tempo dei ruoli produttivi sono cambiate anche le pubblicità. Infatti, la forma del
messaggio pubblicitario è intrinsecamente legata ai contesti in cui è stato prodotto e in cui doveva
essere consumato. Ad esempio, quando negli USA di inizio ‘900 il modello del consumatore era
quello di un soggetto che voleva stare al passo con i vicini di casa e curava particolarmente la sua
prima impressione, Stuart Ewen ha sostenuto che, per riuscire a creare domanda, la pubblicità
fece leva sui sentimenti di inadeguatezza che caratterizzava molti cittadini americani, instillandoli
insicurezza (es: “ad un -alito da posacenere- si può rimediare con una caramella alla menta”).
Rimane oggi in parte condivisa l’idea che la pubblicità continui a fare leva su quelli che Ewen ha
descritto come sentimenti di inadeguatezza (es. senza quel trucco non sei così bella) e che quindi,
inevitabilmente, le pubblicità sono costruite attorno a meccanismi psicologici (anche se oggi la
pubblicità più che alludere alle possibili mancanze dei consumatori, ne esalta le potenzialità).
Tuttavia, nella pubblicità odierna più che proporre la conformità, punta i suoi messaggi sulla
differenziazione del consumatore. Nella società inizia a diventare sempre più un valore quello di
essere differente e innovativo e quindi iniziano anche a diffondersi pubblicità in cui il valore
centrale è quello dell’anticonformismo. L’evoluzione della pubblicità procede poi insieme
all’evoluzione della società ma anche all’evoluzione della consapevolezza e della capacità di
interpretazione del messaggio pubblicitario da parte del pubblico. Gli spettatori-consumatori sono
diventati più critici e più attenti al potere di persuasione dei media e la pubblicità ha preso in
considerazione questo fatto, creando dei messaggi promozionali che utilizzano proprio le critiche
dei consumatori alla pubblicità (es. The Body Shop ha puntato: sull’ironia, la moralizzazione del
consumo mediante l’impiego di retoriche contro il consumo di massa, la defeticizzazione con il
ricorso alla logica del consumo equo solidale, alla naturalità dei prodotti e alla visibilità del
processo produttivo. Inoltre in molti casi la sua pubblicità viene incontro alla sensibilità delle
consumatrici -che criticavano le creme che promettevano miracoli e mostravano donne sempre
bellissime e magrissime-, utilizzando tale sensibilità per vendere i prodotti –dicendo che anche se
non tutte erano delle supermodelle tutte potevano comunque concedersi il piacere di una crema
che non prometteva loro di cancellare tutte le rughe dal loro viso ma di farle stare un po’ meglio e
farle sentire più belle). In relazione a come i messaggi pubblicitari vengono consumati si può
innanzitutto dire che non si può affermare che al solo possesso di una data merce corrisponda la
realizzazione di quelle associazioni simboliche che i pubblicitari hanno suggerito nella
presentazione di un prodotto. Questo concetto di determinismo testuale, secondo cui spesso
possiamo essere portati a pensare che una pubblicità produca nello spettatore l’effetto
interpretativo pensato dal pubblicitario, è stato molto criticato. Infatti, ogni spettatore interpreta il
messaggio pubblicitario a modo suo. 17 Roland Barthes Il dominio della marca L’evoluzione della
pubblicità Determinismo testuale e fallacia manipolazionista Inoltre, parte delle analisi delle
pubblicità è afflitta da una fallacia o errore manipolazionista, ovvero l’idea per cui la pubblicità sia
in grado di trasformare, manipolare o modificare i desideri e le intenzioni del consumatore. È
molto diffusa la concezione che siccome la pubblicità vuole veicolare una certa idea e vendere,
allora il consumatore si lasci convincere dal messaggio pubblicitario. Questo tipo di pensiero è
molto diffuso anche tra moti studiosi che pongono l’accento sul fatto che la pubblicità e il sistema
dei media alterino i desideri delle persone. Questo modo di concepire il rapporto tra pubblicità e
consumatore è quindi basato sul fatto che la pubblicità manipoli il consumatore. C’è un passaggio
continuo di riferimenti culturali e rappresentazioni dal mondo sociale alla pubblicità. La pubblicità
seleziona queste rappresentazioni, traducendole e riadattandole e spetta poi al consumatore di
ritrovare o riprodurre tali situazioni nella vita reale. La pubblicità presenta sempre un immagine
ideale e stilizzata di un oggetto, traendo dal mondo reale alcuni significati e trasportandoli,
codificati in modo particolare, in un messaggio che attribuisce alcune proprietà all’oggetto
reclamizzato. I consumatori utilizzano quindi un prodotto cui sono stati attaccati dei significati
dalla pubblicità o dalle aziende. Essi però non solo decodificano il messaggio pubblicitario,
modificandone parzialmente o totalmente i significati, ma usando il prodotto lo rendono
significativo in base al proprio gusto, alle proprie abitudini, alle situazioni sociali in cui si trovano
ad agire, ai rapporti sociali in cui lo inseriscono, etc…
-Funzioni della pubblicità
Sebbene la funzione esplicita della pubblicità si quella commerciale di promuovere delle merci e
contribuire a consolidare il prestigio di una marca, essa fatica ad aumentare la domanda di un
prodotto che non risponde alle aspettative dei consumatori. Ciò che però interessa lo studio della
sociologia del consumo è la funzione ideologica della pubblicità, ovvero la funzione che svolge
rispetto alle idee che veicola e fa circolare, secondo i propri codici. In base a questa funzione
ideologica, Come già detto, la pubblicità ha una funzione di generare legittimità e positività intorno
al consumo, può presentare e promuovere differenze e gerarchie sociali (quando la pubblicità
mostra una serie di contesti e relazioni ci propone delle letture privilegiate della realtà e dunque
delle relazioni che ci sono tra gli individui –es. nelle pubblicità di detersivi ci sono sempre le
donne). La pubblicità trasmette inoltre idee e fa circolare classificazioni culturali e lo fa secondo i
propri codici. In essa le forme simboliche che provengono dalla vita vissuta e dalle culture vengono
codificate: la pubblicità è un messaggio costruito per vendere che tipicizza le immagini. La
strumentalità della pubblicità la rende però spregiudicata, aperta cioè a diversi valori, tendenze,
suggestioni, ovvero a tutto ciò che può colpire e attrarre il pubblico. Vi è poi da dire che la
pubblicità può sia riprodurre le distinzioni socioculturali dominanti che appoggiarsi a nuovi
orientamenti culturali e a tendenze sociali innovative
(ad esempio veicolando immagini non tradizionali del genere; donne che fanno sport, che stanno
al passo degli uomini. L’emancipazione delle donne ha fatto sì che i pubblicitari dovessero
confezionare anche immagini di femminilità diverse da quelle tradizionali, costruendo le donne
come consumatrici forti. La seconda valenza ideologica della pubblicità commerciale è la
promozione e la legittimazione del consumo come attività sociale significativa. Se i messaggi si
rivolgono ai consumatori, adottando il punto di vista del consumo, la pubblicità va a naturalizzare il
ruolo del consumatore come identità sociale. E la pubblicità deve fare i conti anche con lo sviluppo
di consumi più esplicitamente politici e progressisti, come quelli versi ed etici e persino critici.

CAPITOLO 7 MERCI E CONSUMATORI


Tra le retoriche critiche del consumo quella che condanna il processo di mercificazione è una della
più influenti. La mercificazione rappresenta il processo sociale mediante il quale le cose vengono
prodotte, utilizzate e scambiate come merci. Questo processo viene spesso descritto come
dilagante in quanto sono poche le cose o i servizi che non possono mai e in nessun caso essere
venduti. Anche sugli oggetti che non hanno prezzo e che non sono in vendita (es. particolari opere
d’arte) incombe sempre la possibilità di essere trasformate in merci, così come persino ciò che a
prima vista non ha valore e non sembra interessare a nessuno può diventare una merce. Inoltre,
gli oggetti che compriamo sono dotati di tutta una serie di significati (costruiti dalla pubblicità,
prodotti dal marketing delle aziende) ma nel momento in cui questi oggetti passano dallo scaffale
del negozio ed entrano nelle nostre vite ne assumo degli altri. Il consumo consiste proprio nel
negare il valore puramente commerciale delle cose e dei servizi, nel sostituirlo con altre forme di
valore (affettivo, relazionale, simbolico, etc…). I fenomeni del consumo sono infatti pratiche di
riappropriazione delle merci che però sono inevitabilmente legate al processo di mercificazione
perché l’identità sociale delle persone deve essere costruita proprio in opposizione a quella degli
oggetti dei quali si serve per fissare vari aspetti della propria identità.
-MERCIFICAZIONE E DE-MERCIFICAZIONE
Nella teoria marxiana le merci hanno un valore di scambio (prezzo) che è il prodotto di una
situazione di dominio cristallizzata dal modo di produzione capitalistico. I prezzi rendono le merci
in qualche modo tutte equivalenti e sostituibili tra loro. Ma non è scambiando o consumando le
merci che gli attori sociali possono appropriarsi davvero del mondo: solo trasformandolo
materialmente con il proprio lavoro creativo e non vincolato agli imperativi della produzione
capitalistica, essi potrebbero aumentare il valore reale delle cose. Anche per Simmel l’equivalenza
delle merci è dovuta al denaro, che si pone come un equivalente universale. Secondo Simmel lo
scambio monetario è associato alle relazioni interpersonali, ma tali relazioni si fondano a loro volta
su forme di fiducia consolidata in istituzioni precise: lo stesso valore del denaro è infatti garantito
nel tempo e nello spazio dalle banche dei vari stati. Nella sua visione lo scambio è fondato su
forme e reti di tacito accordo e fiducia tra chi compra e chi vede e gli scambi sono riconducibili
solo alla logica dei prezzi. Chi stigmatizza la mercificazione parla spesso di mercati in cui le persone
spariscono e chi la celebra sottolinea che il mercato libera da obblighi di reciprocità personale. In
pratica però la diffusione del mercato si accompagna e si sovrappone alla tendenza a utilizzare le
proprie reti sociali di amicizia e parentela, soprattutto per far acquisti importanti. Inoltre, pur
essendo riducibili ad un’unica scala di valore e cioè il prezzo, una volta acquistate le merci entrano
in sfere sociali differenti e assumono anche altri valori. Considerante dal punto di vista del
consumo e cioè dei loro contesti d’uso, delle loro valenze simboliche ecc… le merci sono irriducibili
alle logiche della produzione e dello scambio monetario. La dimensione di mercificazione, il fatto
che ci confrontiamo con delle merci, è una parte costitutiva del mondo capitalistico (fatto di
produttori che creano e vendono beni in cambio di soldi) in cui viviamo. Le cose a cui possiamo
accedere nascono quindi come merci, che hanno un valore esclusivamente economico, ma nel
momento in cui compriamo questi oggetti siamo chiamati a creare attorno a questi oggetti dei
significati che vanno al di là del prezzo che abbiamo pagato per averli. Il valore economico non
soddisfa il nostro bisogno di dare senso alle cose che ci circondano e pertanto riempiamo questi
oggetti di significati che ci rendono attaccati ad essi. Quindi, oggi è sempre più evidente che il
processo di omogeneizzazione che accompagna la mercificazione è a sua volta accompagnato dai
continui tentativi da parte dei soggetti che hanno acquistato un dato bene di renderlo singolare, di
demercificarlo per esempio mediante qualche forma di sacralizzazione o individualizzazione e
quindi restrizione della sua possibilità di scambio. Le merci hanno dunque una loro vita sociale che
include momenti di mercificazione e momenti di demercificazione. Quando compriamo degli
oggetti essi rappresentano delle merci che hanno un valore espresso in denaro, ma nel momento
in cui questo oggetto diventa nostro noi lo iniziamo a caricare di tutta una serie di valori differenti.
Facendo ciò, noi in un certo senso eliminiamo il valore economico che l’oggetto aveva nel negozio
e lo sostituiamo con un valore simbolico (quando diamo valore alle cose che possediamo non lo
facciamo in base al loro valore economico ma in base a tutta una serie di valori che gli abbiamo
attribuito utilizzandoli). Quindi, il processo di demercificazione rappresenta il costante lavoro che i
consumatori devono fare per ricreare attorno alle merci che comprano in cambio di soldi una serie
di significati extra-economici per riportali ad una dimensione più umana. Un esempio di uno degli
oggetti più standardizzati e anonimi è la libreria Billy dell’Ikea. Tale oggetto nel momento in cui
entra nella nostra vita se ne cambiano i significati, anche attraverso una trasformazione materiale.
Quindi, quasi senza rendercene conto, rispetto a tutta una serie di oggetti che possediamo,
compiamo delle azioni finalizzate a creare significati differenti da quelli che avevano in negozio.
Compiamo degli atti attivi per trasformare materialmente degli oggetti che sono proposti in
maniera iper-standardizzata affinché inizino ad avere un valore proprio perché proiettiamo su di
esse dei significati.

RITUALI DI POSSESSO, SCAMBIO DEI DONI


Ogni nuovo oggetto dovrà inoltre passare per quelli che Grant McCracken definisce come rituali di
possesso. Nel caso delle merci più semplici tali rituali consisteranno ad esempio nell’eliminazione
dell’etichetta con il prezzo e nella riorganizzazione della geografia domestica. Infatti, ordinare gli
oggetti nello spazio e mescolarli tra di loro è uno dei modi che il soggetto ha di creare un ambiente
domestico personale. Così facendo egli attribuisce agli oggetti un valore diverso e nuovo, che si
esprime nelle diverse posizioni che occupano nello spazio. Tra i fenomeni di demercificazione
rientra anche lo scambio di doni. La logica del dono è quella della reciprocità: il dono lega due
unità attraverso la rivalità o l’alleanza. Oggi come nel passato i regali sono ancora un modo
importante per trasfigurare le merci, facendole divenire catalizzatori di legami personali,
demercificandole e ricaricandole di significati sentimentali ed esclusivi.
COLLEZIONISMO
Un altro fenomeno particolare è quello del collezionismo nel quale il tipo di relazione messo in
atto non è quello della reciprocità ma è riconducibile a una relazione di esclusività. Quando i beni
hanno una speciale esclusività, quando non sono facilmente ottenibili, scambiabili e riducibili a
merci, possono più facilmente divenire ponti ideali verso le nostre aspirazioni. Collezionare oggetti
quindi produce valore, un valore non riconducibile a quello del mercato (diventano un oggetto
importante, quasi sacro –anche se possono riacquistare un valore monetario

RIMERCIFICAZIONE
L’idea che demercifichiamo le merci è onnipresente nella nostra vita di consumatori. Le
implicazioni di tale questione riguardano il fatto che tutti, consciamente o meno, siamo creatori di
significati attorno agli oggetti di consumo e che l’individuo contemporaneo è in qualche modo
obbligato a fare questo lavoro. Infatti, siamo tanto più apprezzati socialmente e riconosciuti come
individui autonomi tanto quanto riusciamo ad attribuire dei significati agli oggetti che acquistiamo.
Viviamo in una società che ci richiede di essere autonomi e creativi e quando non ci riusciamo
veniamo riconosciuti come delle persone meno individuali e autonome. Questa può essere vista
anche come una delle condizioni problematiche del vivere nella società dei consumi oggi. Il modo
in cui siamo spinti ad essere delle persone originali nel momento in cui acquistiamo prodotti, ha a
che vedere con la questione della soggettività del mondo contemporaneo, ovvero con quello che si
ritiene che sia un individuo adeguato a vivere nella società. Nella società c’è quindi una
dimensione di pressione sul fatto di essere dei bravi consumatori (la libertà è finta libertà: siamo
liberi di scegliere come vestirci ma non possiamo presentarci in giro in mutande). Quindi nella
nostra società è molto apprezzata e rappresenta un valore la capacità di produrre forme originali
di consumi e di produrre significati differenti (e dire ed essere quindi qualcosa di più rispetto alle
semplici imposizioni e costrizioni del mercato). La vita degli oggetti e il ciclo di mercificazione e de-
mercificazione a cui sono sottoposti può avere anche un successivo ciclo che è quello della
rimercificazione (nel momento in cui riacquisisce un valore economico). È tipico delle sottoculture
che ad esempio un tipo di vestito fatto per un ambiente di lavoro venga adottato da un gruppo
anche fuori da quell’ambiente e per questo la marca si diffonde gradualmente anche negli altri
ambiti della vita. Una cornice normativa del consumatore si ha quando si pensa all’idea di come
dovrebbe essere il consumatore e che si contrappone ad una visione pragmatica del consumatore
(ovvero come il consumatore articola le sue scelte in base alle pressioni che subisce).
LA NORMALIZZAZIONE DEL CONSUMO E L’EDONISMO ADDOMESTICATO
Nella società dei consumi si assiste dunque a due spinte contrapposte: se da un lato ci è richiesto
di essere capaci di sviluppare desideri autonomi e originali (che rappresenta la base poi per
costruire dei significati attorno agli oggetti che vadano al di là di quelli del mercato), dall’altro
siamo spinti a tenere quest’inclinazione sotto controllo (per evitare di trasformare i desideri
originali in comportamenti anti-sociali -es. persone che spendono tutti i propri soldi per comprarsi
ad esempio un disco o non escono mai di casa per stare ad ascoltare musica di artisti che nessuno
conosce- / si tratta di comportamenti di persone che hanno ecceduto nell’esprimere i propri
desideri e interessi / gli oggetti e le passioni diventano più importanti di tutto il resto). Pertanto si
può dire che il consumatore è sovrano del mercato solo se è sovrano di se stesso, solo cioè se
controlla la propria volontà. L’edonismo e la ricerca del piacere devono essere temperati da varie
forme di distacco che sottolineano la capacità dell’attore di guidare tale ricerca, di dosare i piaceri,
di non divenirne schiavo e di essere perciò riconoscibile come uno che può e sa scegliere
autonomamente. In ogni pratica di consumo vi è quindi la necessità di governare i desideri
mediante forme di distacco dagli oggetti (edonismo addomesticato). I consumatori possono
perseguire il piacere, ma il piacere deve venire sempre dopo di loro. Le pratiche di consumo
devono apparire per questo sia come la realizzazione sia come il contenimento dei desideri. Quindi
i consumatori devono saper godere degli oggetti di consumo ma devono sempre ribadire
attraverso discorsi, gesti, pratiche che i loro sentimenti sono più importanti e più profondi delle
cose e della dimensione commerciale del consumo. Il più potente mezzo che abbiamo a
disposizione per garantire che ciò che ci lega a un oggetto è davvero una scelta autonoma è,
paradossalmente, la nostra capacità di rinunciarvi. Gli attori che sono sovrani di se stessi, della
propria volontà e dei propri desideri, non hanno solo la capacità di continuare a volere ciò che
hanno scelto, ma soprattutto hanno la capacità di non volerlo più se le condizioni cambiano o se
rimangono insoddisfatti.

CAPITOLO 8 CONSUMI E CONTESTI


Il consumo è legato ai gusti che vengono tradotti in pratica attraverso i luoghi, i tempi e le maniere
del consumo e altre strutture sociali. I consumi si concentrano in istituzioni tipicamente concepite
come luoghi del tempo libero.
-TEMPO LIBERO E LUOGHI DEL CONSUMO
I centri commerciali sono uno dei simboli della società dei consumi odierna e rappresentano anche
degli spazi di socializzazione al consumo in quanto è in essi che ci si confronta non solo con le
proposte dei negozi, ma anche con gli altri consumatori e i loro stili, i loro modi di vestire e di
usare le cose. Quando sono nati sono stati visti come un impoverimento delle relazioni sociali. Al
di là dei centri commerciali, ci sono tutta una serie di luoghi che non subito associamo ai luoghi di
consumo. Un esempio è quello della palestra che è un tipico luogo che appartiene alla sfera del
tempo libero nel quale compriamo un servizio. Se da un lato la palestra può essere vista come il
massimo esempio di espressione del desiderio e della volontà individuale (vado in palestra perché
sono libero di farlo), dall’altro rappresenta anche una situazione di profondo disciplinamento e
controllo di quello che si fa (perché in essa è tutto inserito in una serie di meccanismi determinati).
L’OZIO E IL DOLCE FAR NIENTE NON SONO CONTEMPLATI TRA LE ATTIVITA’ DEL TEMPO LIBERO
MODERNO. MA IL TEMPO LIBERO VIENE SEMPRE PIU’ ORGANIZZATO E STRUTTURATO DALLE
INDUSTRIE DEL DIVERTIMENTO E DEL TURISMO.
Un altro luogo di consumo è la casa perché, se il consumo e quello che consumiamo dipende dalle
nostre origini familiari (Bordieu), dalle relazioni che abbiamo con le persone della nostra famiglia,
con la nostra sfera intima, è un posto chiave per comprendere i processi di consumo. Consumare
ha a che vedere, più che l’atto dell’acquisto in sé, soprattutto con tutto ciò che succede prima e
dopo che si acquista qualcosa e che spesso ha a che vedere con la casa. Ad esempio è in casa che
noi prevalentemente consumiamo il cibo. La casa è poi il regno dei consumi culturali come film,
libri, musica.
-IL MONDO ALLA MAC DONALD’S
MAC DONALD è la punta di un diamante e il modello di un processo di mac donaldizzazione che
investe moltre altre aziende. Segnerebbe una nuova stagione dell’organizzazione produttiva che si
fonda sull’articolazione di quattro principi: controllo, calcolabilità, efficienza, prevedibilità. Il
controllo avviene tramite la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine. l’efficienza
(con conseguente risparmio di tempo e denaro), la prevedibilità (ricerca della replicabilità e della
standardizzazione dei prodotti), la calcolabilità (sostituzione della qualità con la quantità) e il
controllo tramite sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine. In questa visione i
mezzi di consumo della contemporaneità si connoterebbero essenzialmente come dei mezzi
razionalizzati e cioè efficienti per un rapido approvvigionamento.
Si tratta di principi organizzativi burocratici che dovrebbero mettere le persone in condizione di
sapere cosa aspettarsi in ogni momento e luogo. Il risultato, secondo River, è quello di un mondo
del consumo che non offre più sorprese. La razionalizzazione dei mezzi di consumo conduce al loro
disincanto. Per continuare ad attrarre i consumatori, le aziende mettono a punto una forma di
fantasia fredda ed utilitaristica offerta dai centri commerciali (dove tutto sembra una grande
occasione). In questa visione poi i prodotti tradizionali e locali sarebbero destinati a rimanere
marginali o ad essere assimilati dall’organizzazione razionale della produzione
Tuttavia, non si può derivare il senso delle pratiche di consumo direttamente dalle intenzioni dei
produttori di merci, né dare per contato che chi controlla la produzione di un oggetto o mette a
disposizione un servizio controlli anche il suo consumo. Infatti le aziende non rispondono alla
logica espressa da Ritzer perché alcune di esse, pur presentando un alto livello di
standardizzazione, meccanizzazione e burocratizzazione durante il processo produttivo, quando
questo raggiunge la distribuzione e quindi il consumatore, esse cercano di riumanizzarlo (es:
materie prime del commercio equo solidale –es. The Body Shop, il quale insiste su materie prime
chevengono dal commercio equo e solidale.
E indubbiamente vero che mac donald offre un’esperienza di consumo, più che una merce, ma il
modo in cui questa esperienza viene articolata è indipendente dalla cultura della produzione e del
servizio incarnato da mac donald. Una dimostrazione è data dal fatto che questi giovani usano gli
spazi in modo diverso rispetto ai loro coetanei americani. In asia il mac donald per esempio è un
luogo dove si passa l’intero pomeriggio. Sono più luoghi d’incontro che fast foood. I consumatori si
appoggiano alla cultura locale e alle diseguaglianza ad esse legate. Non ce un consumatore libero e
uno mac donaldizzato.
GLOBALE, LOCALE, ALTERNATIVO
VIENE esplorato il rapporto che intercorre tra consumi e globalizzazione. La diffusione di catene
globali come McDonald’s è solo uno dei molti aspetti della globalizzazione, un fenomeno
complesso che coinvolge attori nazionali, sovranazionali e locali. La nazionalità non è sempre
rilevante per le merci globali. più importante è il modo in cui le merci globali si inseriscono diverse
culture locali, mescolandosi con usi e merci differenti, venendo consumate in modi nuovi, e
assumendo significati di volta in volta particolari.
La globalizzazione poi non è solo omogeneizzazione ma anche eterogeneizzazione in quanto
espone le realtà locali a numerosi flussi di merci globali tanto che ciascuna realtà locale finisce per
avvicinarsi a una maggiore varietà di possibilità. Una globalizzazione totale della cultura
implicherebbe la creazione di un campo comune ma iperdifferenziato di gusti, valori, stili. In
questo caso le differenze e le relazioni non scomparirebbero ma verrebbero ad essere piu
articolate e Inoltre, la resistenza dei consumatori nei confronti delle grandi imprese multinazionali
e della standardizzazione si esprime anche mediante movimenti dal basso che organizzano non
solo il boicottaggio di particolari prodotti ma anche azioni di protesta di forte impatto simbolico. È
all’interno di queste istanze critiche e new global che dobbiamo collocare le richieste di quei
consumatori che rivendicano maggior rispetto per gli aspetti etici e politici della produzione su
larga scala. Esempio di nike che sfruttava il lavoro minorile. La rilevanza di questi fenomeni non è
da sottovalutare perché a volte basta una lieve flessione delle vendite per indurre anche grandi
multinazionali a modificare le proprie strategie o a darsi codici di buona condotta per recuperare
un’immagine positiva presso gli acquirenti finali. La globalizzazione appare uno spazio per mettere
in discussione i confini naturalizzati dal mercato. Il mercato appare meno capace di garantire
alternative vantaggiose per tutti. Non cè un altro posto dove andare al di fuori del mercato.
Bisogna intervenire sulle sue regole. Pratiche di consumo come come il commercio equo e
solidale, i gruppi di acquisto locali non sono ancora fenomeni di massa, ma si tratta di fenomeni in
crescita che implicano la messa in disscussione dell’operare del mercato e richiedono di porre
attenzione alle forme di responsabilità verso gli altri esseri umani.

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