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Nelle odierne società siamo nati per consumare, e consumare significa culturalmente e implica
molto di più che soddisfare i propri bisogni quotidiani medianti delle merci. Consumare è agire da
consumatori. E una pratica sociale e culturale complessa, interconnessa a tutti i fenomeni più
importanti che hanno contribuito a definire le società occidentali: diffusione dell’economia di
mercato, globalizzazione, sviluppo dei media etc.
CAPITOLO 1 CAPITALISMO E RIVOLUZIONE DEI CONSUMI
Nella visione produzionista, la società dei consumi è un effetto dello sviluppo del modo di
produzione capitalistico. L’industrializzazione ha portato alla diffusione di una grande quantità di
merci standardizzate economicamente accessibili a fette crescenti di popolazione. La rivoluzione
industriale, sarebbe sarebbe alla radice della rivoluzione della domanda. Dopo il periodo della
forte critica al consumismo negli anni 70, si è rafforzata la consapevolezza che la società dei
consumi non è una tarda deriva del capitalismo. Un chiaro incremento dei consumi si ha dalla
seconda metà del 600 e per tutto il 700, ma non si può dire in maniera esatta ilritmo di cresceti dei
consumi, in quanto i consumi variavano a seconda delle classi sociali.
Anche l’utilizzo dello zucchero e nuove sostanza, tabacco, tè, cacao, sembrano aver giocato un
ruolo importante nel rivoluzionare i consumi. Questi dati però non sono riferibili a produzioni di
massa. Sino dall’800 il modello dell’offerta era quello della produzione flessibile in piccole unità,
piuttosto che standardizzata. La loro distribuzione passava attraverso il piccolo commercio al
dettaglio.
-dalla produzione al consumo
La visione produzionista collocava la società dei consumi a inizio 900, interpretabile come una
reazione quasi meccanica alla rivoluzione industriale e quindi alla penetrazione in tutte le classi
sociali di beni di consumo di massa standardizzati.
Vengono prese in esame delle tesi sulla rivoluzione dei consumi. Esse hanno in comune il tentativo
di mostrare che la domanda si configura come un fattore importante del processo economico e
culturale. Essi vogliono dire che i desideri di consumo hanno svolto un ruolo attivo nel dar forma
alla modernità
Cominciando con l’esporre le visioni antiproduzioniste: Mc Kendrick sostiene che la rivoluzione dei
consumi si colloca nella seconda metà del 700 in inghilterra e va vista sullo sfondo di una società
flessibile e meno gerarchica, come il risultato delle aspirazioni di status delle nuovi classi borghesi
che trovavano una possibilità di elevazione sociale attraverso l’emulazione dei consumi della
nobiltà. Vengono menzionate le porcellane come oggetti di valore. Wedgwood fu uno dei primi ad
adottare tecniche di marketing e design per soddisfare i gusti della borghesia. Egli si fa promotore
di una cultura promozionale in cui gli oggetti sono prodotti e commercializzati in vista di uno
specifico mercato. Mc kendrick offre una spiegazione della nascita della società dei consumi che
definiamo CONSUMISTA. La società viene spiegata con il consumismo, il quale si velocizza
attraverso le dinamiche della moda innescato dall’emulazione sociale e favorito dalle tecniche di
vendita manipolatorie di abili produttori.
In opposiione a queste tesi cè Campbell che offre una spiegazione che definiamo MODERNISTA.
Egli mostra che non solo l’orientamento alla produzione ma anche quello al consumo ha portato
alla nascita della modernità capitalistica. Il consumatore moderno è un edonista che si allontana
dalla realtà appena la incontra, spostando i suoi sogni sempre piu avanti nel tempo. Ciò che
distingue il consumo moderno è l’essere un esercizio privato di un edonismo particolare.
Edonismo della mente piuttosto del corpo. I base a ciò, il consumo diviene non tanto la capacità di
contrattare l’acquisto di prodotti, ma la ricerca del piacere dell’immaginazione cui conduce
l’immagine del prodotto. Egli colloca la rivoluzione agli inizi 800, i soggetti riproducono i propri
sogni mediante gli ogetti, attraverso insegnamenti romantici. ( i romantici sostenevano che il
compito degli esseri umani era quello di realizzarsi come singoli, in opposizione alla società). La
ricerca di nuove forme i edonismo è da contrapporre alle forme tradizionali di edonismo( legato a
pratiche sensoriali: mangiare, bere). Esso è invece definito dai piaceri dell’immaginazione. Il
personaggio che esprime uesto atteggiamento è il dandy, figura connessa ad una particolare
accezione del piacere, esperienza orientata al nuovo. Nella società borghese sono soprattutto le
donne che devono divenire le consumatrici per eccellenza, che devono sognare ad occhi aperti.
Jan De Vries vuole riconciliare lo studio del consumo con quello dei processi produttivi, mettendo
a fuoco il ruolo della distribuzione e delle relazioni commerciali nei mercati moderni. Egli propone
una spiegazione della società dei consumi definita SCAMBISTA. Egli nota che in un periodo di
contrazione dei salari, le famigli non si sono comportate in maniera razionale, risparmiando, ma
hanno teso a consumare di più. Il consolidarsi di meccanismi di scambio monetario sempre più
libero e sicuro, avrebbe offerto l’opportunità e lo stimolo per modificare orientamenti economici
tradizionali, improntati alla conservazione. Quindi la necessita di partecipare agli scambi monetari
segna l’avvio della società dei consumi. Gli scambi commerciali in questa epoca sono anche
investiti da un valore culturale.( es: oggetti esotici). Emerge una necessità di promuovere non solo
le merci ma anche la visione del consumatore, il quale si fa carico delle proprie scelte e dei propri
gusti.
Nel settecento nascono le vetrine, veri e propri palcoscenici rivestiti di vetro sui quali
disporre la merce. Essa viene spettacolarizzata per attirare il cliente. I consumatori non solo
acquistano ma godono dello spettacolo delle merci, ampliato dalla creazione delle gallerie
commerciali coperte o passages. Anche i grandi magazzini si propongono come luoghi da
visitare. Cio che cambia è la caratterizzazione delle merci che si configurano come uno
spettacolo. Alla spersonalizzazione dei rapporti di venditacorrisponde un rapporto più
ndivisualizzato con gli oggetti e i loro significati. In tutto ciò si inseriscono principi di
selezione e riduzione della complessità di cui i consumatori possono avvalersi. Andare per
compere diventa una attivita ludica e il consumatore si avvale di una serie di strumenti che
gli consentono di giocare con le merci.
A differenza della visione economica, la Sociologia ritiene che il consumo non possa essere
considerato un qualcosa di individuale. Seppure il momento dell’acquisto sia un momento
individuale, i ragionamenti da cui esso dipende sono condizionati dalle persone che ci circondano.
Noi compriamo certe cose perché siamo immersi in una serie di relazioni che ci spingono o meno a
compiere un acquisto. Allo stesso modo si può sostenere che il consumo non è razionale (quando
compriamo qualcosa che in realtà non ci serve) e che non è mono-prodotto in quanto siamo
immersi in un sistema di scelte che dobbiamo cercare di mantenere coerenti tra di loro, come
evidenzia l’ “effetto Diderot” di Grant McCracken. Il nome di tale effetto si ispira a un racconto in
cui l’omonimo filosofo francese narra di una vestaglia lussuosa che era stata regalata allo scrittore
ma, dato che stonava con tutte le cose che aveva, avvertì l’esigenza di modificare il proprio
modesto studio per renderlo più adatto a questo nuovo oggetto (e allora inizia a pensare di voler
cambiare e comprare cose nuove perché). Questo accade perché egli sente la necessità di ricreare
una coerenza a partire da un nuovo centro di classificazione culturale rappresentato dalla
vestaglia. McCracken (come altri autori come J.Baudrillard, M.Douglas, B.Isherwood) mostra
quindi come i beni possono comunicare i propri significati solo se sono sorretti da altri beni: il
singolo bene deriva la sua funzione simbolica dal sistema di oggetti in cui è inserito. Quindi quando
compriamo qualcosa ci sono tutte le altre persone che idealmente entrano all’interno dell’acquisto
e così anche l’oggetto in realtà si collega a tutta un’altra serie di oggetti che potremo essere spinti
a comprare. Gli oggetti che compriamo quindi non sono solo ed esclusivamente utili ma si fanno
portatori di una qualche funzione simbolica e relazionale (affermazione evidente soprattutto
nell’acquisto di vestiti: li compriamo perché con essi vogliamo esprimere qualcosa). Questo non
era affatto considerato dall’approccio neoclassico, che non pensava minimamente che il mondo
delle cose fosse organizzato culturalmente secondo principi che legano gli oggetti tra di loro. Non
considerava nemmeno l’esistenza tra le merci di differenze di ordine qualitativo che prefigurano
diversi contesti e logiche d’uso. Anche quando facciamo la spesa è comunque difficile ridurre le
nostre preferenze e acquisti a una serie di singole e precise decisioni interamente riconducibili a
un calcolo strumentale. Questo non solo perché raramente abbiamo il tempo di dotarci di tutte le
informazioni che ci servono per valutare strumentalmente le merci (es: le etichette vengono lette
molto poco) ma anche perché la situazione di scelta si allontana da una mera decisione tra
alternative con probabilità certe. Inoltre, anche in un’attività che ci può sembrare banale (es. fare
la spesa) mettiamo in gioco una varietà di significati simbolici che superano il modello di azione
proposto dall’economia neoclassica. Ad esempio Daniel Miller, attraverso una ricerca etnografica,
ha mostrato che fare la spesa al supermercato è anche e soprattutto una forma rituale. Si tratta di
un’azione carica di significati simbolici condivisi che permette il rinnovo di tali significati: la spesa
sottolinea il legame che chi ne è responsabile ha nei confronti degli altri membri del nucleo
familiare e la sua relazione rispetto a ideali di famiglia, parentela, ecc… Molti studi hanno anche
sottolineato l’importanza dei contesti, delle situazioni e dei luoghi in cui avviene il consumo e delle
interazioni che vi avvengonoA differenza della visione economica, la Sociologia ritiene che il
consumo non possa essere considerato un qualcosa di individuale. Seppure il momento
dell’acquisto sia un momento individuale, i ragionamenti da cui esso dipende sono condizionati
dalle persone che ci circondano. Noi compriamo certe cose perché siamo immersi in una serie di
relazioni che ci spingono o meno a compiere un acquisto. Allo stesso modo si può sostenere che il
consumo non è razionale (quando compriamo qualcosa che in realtà non ci serve) e che non è
mono-prodotto in quanto siamo immersi in un sistema di scelte che dobbiamo cercare di
mantenere coerenti tra di loro, come evidenzia l’ “effetto Diderot” di Grant McCracken. Il nome di
tale effetto si ispira a un racconto in cui l’omonimo filosofo francese narra di una vestaglia
lussuosa che era stata regalata allo scrittore ma, dato che stonava con tutte le cose che aveva,
avvertì l’esigenza di modificare il proprio modesto studio per renderlo più adatto a questo nuovo
oggetto (e allora inizia a pensare di voler cambiare e comprare cose nuove perché). Questo accade
perché egli sente la necessità di ricreare una coerenza a partire da un nuovo centro di
classificazione culturale rappresentato dalla vestaglia. McCracken (come altri autori come
J.Baudrillard, M.Douglas, B.Isherwood) mostra quindi come i beni possono comunicare i propri
significati solo se sono sorretti da altri beni: il singolo bene deriva la sua funzione simbolica dal
sistema di oggetti in cui è inserito. Quindi quando compriamo qualcosa ci sono tutte le altre
persone che idealmente entrano all’interno dell’acquisto e così anche l’oggetto in realtà si collega
a tutta un’altra serie di oggetti che potremo essere spinti a comprare. Gli oggetti che compriamo
quindi non sono solo ed esclusivamente utili ma si fanno portatori di una qualche funzione
simbolica e relazionale (affermazione evidente soprattutto nell’acquisto di vestiti: li compriamo
perché con essi vogliamo esprimere qualcosa). Questo non era affatto considerato dall’approccio
neoclassico, che non pensava minimamente che il mondo delle cose fosse organizzato
culturalmente secondo principi che legano gli oggetti tra di loro. Non considerava nemmeno
l’esistenza tra le merci di differenze di ordine qualitativo che prefigurano diversi contesti e logiche
d’uso. Anche quando facciamo la spesa è comunque difficile ridurre le nostre preferenze e acquisti
a una serie di singole e precise decisioni interamente riconducibili a un calcolo strumentale.
Questo non solo perché raramente abbiamo il tempo di dotarci di tutte le informazioni che ci
servono per valutare strumentalmente le merci (es: le etichette vengono lette molto poco) ma
anche perché la situazione di scelta si allontana da una mera decisione tra alternative con
probabilità certe. Inoltre, anche in un’attività che ci può sembrare banale (es. fare la spesa)
mettiamo in gioco una varietà di significati simbolici che superano il modello di azione proposto
dall’economia neoclassica. Ad esempio Daniel Miller, attraverso una ricerca etnografica, ha
mostrato che fare la spesa al supermercato è anche e soprattutto una forma rituale. Si tratta di
un’azione carica di significati simbolici condivisi che permette il rinnovo di tali significati: la spesa
sottolinea il legame che chi ne è responsabile ha nei confronti degli altri membri del nucleo
familiare e la sua relazione rispetto a ideali di famiglia, parentela, ecc… Molti studi hanno anche
sottolineato l’importanza dei contesti, delle situazioni e dei luoghi in cui avviene il consumo e delle
interazioni che vi avvengono. In una situazione dicena, non bisogna considerare solo il valore del
cibo, delle pietanze, ma capire i significati culturali a essi associati.
-Moda, stile, e consumo vistoso.
Consideriamo il rapporto tra consumo e relazioni sociali. Ci interroghiamo sul modo in cui l’attore
arrivi a formulare i propri giudizi di valore. Il valore delle cose dipende dalla valutazione che il
soggetto ne da, esso però è a sua volta condizionato dal contesto storico e culturale in cui ha
luogo.
(Simmel) raccontò in particolare la funzione del fenomeno nascente della moda agli inizi del ‘900
come delle tendenze estetiche condivise da alcuni gruppi di persone dalle quali presero forma due
logiche fondamentali: la coesione (sentirsi parte di un gruppo grande) e la differenziazione (ci si
concepisce come persone differenti dalle altre). Egli individuava quindi la moda come mezzo per
segnalare agli altri la propria identità, sia come appartenenza ad un gruppo, sia come originalità e
individualità. Seguendo la moda ci affiliamo ad alcune persone e di differenziamo da altre, ma allo
stesso tempo possiamo esprimere noi stessi in un linguaggio comune e quindi comprensibile
anche agli altri*. Secondo Simmel poi la moda assolutizzava il cambiamento in quanto non solo
proponeva delle novità, ma le metteva continuamente in circolo. Egli affronta poi la questione
dello stile, affermando che, adottando un certo stile, ci si esprime e può anche rappresentare uno
spazio per l’originalità individuale. Infatti, scegliendo di combinare stili diversi, l’individuo fornisce
un nuovo significato alle cose, che acquistano valore nel loro insieme, come combinazione, e
sottolinea così la propria capacità di esprimere un gusto proprio. Simmel era però legato ancora ad
una società di tipo tradizionale; infatti nella sua descrizione la moda rimaneva qualcosa che era
creato, innovato e fatto circolare dalle classi sociali superiori per poi filtrare nelle classi inferiori
che ne adottano gli stili. Infatti, secondo Simmel, la moda appartiene solo alle classi superiori e non
appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene, le classi superiori passano da questa
moda ad un’altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse. I gruppi sociali
meno favoriti non sarebbero quindi in grado di proporre mode proprie e si limiterebbero a imitare
i più fortunati. Simmel descrive tutto ciò come l’effetto trickle-down, ovvero un meccanismo si
diffusione delle mode per sgocciolamento dall’alto verso il basso. Simmel mise quindi a fuoco
alcuni dei meccanismi centrali delle forme di consumo.
Contemporaneo di Simmel e importante sociologo fu Thorstein Veblen che elaborò il concetto di
‘consumo vistoso’ (concetto contrario alla logica economica della massimizzazione dell’utilità al
minor costo).
il valore di alcuni beni sarebbe determinato esclusivamente dalla loro capacità di rendere visibile
una data posizione sociale. Il consumo vistoso funge quindi da dispositivo di dimostrazione-
riconoscimento di una posizione elevata nella società. Egli ha in mente i nouveaux riches, un
gruppo socialeche aveva i soldi per finanziare la propria scalata ai circoli più esclusivi, e al
contempo aveva bisogno di legittimare mediante la dimostrazione visibile del proprio successo, la
posizione sociale. La dimostrazione di status più efficace si ha mediante l’ostentazione di alcune
merci. Secondo Veblen però, nelle metropoli industriali, il consumo vistoso finisce per coinvolgere
l’intera popolazione (modello dell’emulazione): i gruppi inferiori non avrebbero fatto altro che
imitare quelli superiori, acquistando non appena possibile le stesse merci che avrebbero così perso
il loro potere distintivo e sarebbero state abbandonate dai gruppi superiori che avrebbero presto
trovato nuovi oggetti capaci di testimoniare il loro primato sociale.
- I limiti dell’emulazione
Il modello dell’emulazione, incarnato pienamente dalle riflessioni vebleniane, presenta il limite
di ricondurre il consumo a una sola logica sociale. Un secondo limite è imputabile sul paragone
invidioso che non permette di concepire l’imitazione come mimesi e identificazione. Un altro
limite è dato laddove sono solo le pratiche di consumo esibite ad apparire sociali. Si ha cosi
una socializzazione solo parziale dei fenomeni di consumo.
Il limite più grave dell’analisi di veblen è dato dal fatto che l’intera gamma dei fenomeni di
consumo, viene ad essere inserita nel quadro delle dinamiche della moda, a loro volta
riportate in una struttura gerarchica e piramidale, in cui gruppi subalterni rincorrono i gruppi
superiori senza mai raggiungerli e senza avere una cultura propria.
(Se Veblen -e anche Simmel- trascura il fatto che anche coloro che sono più in basso nella scala
sociale possano creare moda (è il caso della moda punk. E del piercing,), Herbert Blumer
invece afferma che uno stile diventa moda non quando l’élite lo adotta, ma quando
corrisponde al gusto nascente di un pubblico che consuma moda. Le classi privilegiate possono
influenzare la direzione del gusto ma non possono controllarlo. Nell’ottica di Blumer le mode
sono anche, almeno in parte, il prodotto di scelte selettive compiute dall’industria della moda
CAPITOLO 4 BISOGNI INDOTTI E SIMULAZIONE
Le prime analisi sociologiche leggevano i consumi come fenomeni sociali e culturali, ma
raramente tematizzavano l’influenza dei media e dell’industria culturale, concentrandosi
piuttosto sulle dinamiche distintive della moda. Nel periodo del secondo dopoguerra, con lo
sviluppo dei mezzi di comunicazione i pensatori iniziano a denunciare il carattere che
definiscono manipolatorio della pubblicità per far rendere conto di come le aziende, mirino
attraverso l’uso della pubblicità, a portare le persone ad acquistare beni di cui magari non
hanno bisogno. Un aspetto che pongono in rilievo è il fatto che il consumo e il mercato vanno
letti come degli specchi dei rapporti di potere e di dominazione del tardo-capitalismo
(=meccanismi del mercato in cui particolare importanza ha la pubblicità per convincere le
persone a spendere soldi nei prodotti delle industrie). Sostanzialmente il concetto di base è
quindi che le persone che sono soggiogate al potere delle grandi imprese credono di essere
libere nel scegliere cosa comprare ma, in realtà, non lo sono affatto in quanto vi è
un’impossibilità di scelta che li rende schiavi di questo sistema. Quindi, se il consumatore
neoclassico è il sovrano del mercato, quello della teoria critica è lo schiavo delle merci: compra
più perché è indotto a farlo che perché davvero desidera farlo. L’idea fondamentale esposta
dalle teorie critiche è che consumare non è solo qualcosa di superficiale ma va a toccare le
relazioni di potere e dominazione che caratterizzano la società. I meccanismi di consumo sono
così indissolubilmente legati alla nostra condizione di cittadini.
-DAL FETICISMO ALLA TEORIA CRITICA
Queste idee critiche nascono con Karl Marx, economista e sociologo dell’800, che descrive il
consumo come qualcosa di necessario e fondamentale per lo sviluppo dell’economia
capitalistica. Quello che Marx pone chiaramente in evidenza è che uno degli obiettivi di tale
sistema è quello di indurre bisogni finti nelle persone in modo da spingerle a comprare
qualcosa che in realtà non gli serve. Secondo lui, nelle società capitalistiche i consumatori non
sanno più capire cosa è davvero utile e cosa non lo è e finiscono per consumare merci la cui
unica utilità è quella di arricchire coloro che hanno organizzato la loro produzione e
circolazione, sfruttando la manodopera a basso costo. Per questo, egli considera le merci come
dei “feticci”, ovvero qualcosa che sta per qualcos’altro, perché servono per nascondere le
relazioni di potere del sistema capitalistico e la dominazione dei grandi capitalisti (che
posseggono le industrie) nei confronti dei consumatori che sono gli schiavi di questo sistema.
Nella visione di Marx, le merci sono quindi solo l’ombra delle relazioni sociali di cui sono
espressione. Tra gli anni ’40 e gli anni ’60 altri studiosi si ispirarono alle idee marxiste (di
alienazione e feticismo delle merci) per criticare il sistema dei media, dell’industria culturale e
della pubblicità di metà ‘900. Tra essi importanti sono Horkheimer e Adorno appartenenti alla
cosiddetta Scuola di Francoforte. Il loro obiettivo critico era l’industria culturale e il riconoscere
come l’industrializzazione della cultura rappresentò un passaggio che segnò l’omologazione
della cultura. Se prima infatti la cultura era qualcosa di alto e che aveva l’obiettivo di mettere in
discussione l’esistenza umana (la cultura era uno strumento critico per riflettere sulla 5 Bisogni
indotti e simulazione Dal feticismo alla teoria critica società), con l’industrializzazione della
cultura tutto quello che era cultura divenne un prodotto di mercato (che aveva come unico
obiettivo quello di vendere). La prospettiva da cui partono per comprendere la società
americana è quella marxista, allargandone il pensiero alla società della comunicazione di
massa in cui loro osservano un esacerbarsi di alcune dinamiche che Mark aveva studiato nella
società capitalistica. Essi ritenevano che nella società di massa la cultura era diventata
un’industria che produceva prodotti in serie, standardizzati e che rispondevano alle esigenze
capitalistiche della società (e quindi alle esigenze sovrastrutturali del capitalismo). “L’industria
culturale” rappresenta dunque un’espressione altamente critica in quanto sostiene che la
cultura non è più frutto dell’intelletto e dell’ingegno degli individui ma è un’industria come
un’altra che produce prodotti che soddisfino la maggior parte degli individui, perdendo così la
sua caratteristica estetica e diventando un’industria e un prodotto che risponde a logiche di
profitto. I due consideravano dunque l’industria culturale come un sistema di tipo capitalistico
volto al profitto in cui tutti gli elementi si incastrano per creare dei prodotti omologati e che
escludono il nuovo: ritenevano che la stratificazione era solo apparente e che l’arte era
diventata merce (creazione di generi). L’individuo risulta essere quindi manipolato, ovvero non
può scegliere ciò che vuole ma prende ciò che gli viene offerto, diventando conformista,
acritico e omologato (il genere massmediatico prescrive ogni reazione): ogni manifestazione è
prevista e calcolata dall’industria culturale e dell’individuo non rimane più nulla. Avviene
dunque che quello che fanno gli individui è “divertirsi” (amusement) e ciò non è altro che un
consumo distratto in quanto non vengono richieste grandi dosi di riflessione e si tratta più che
altro di una fuga dalla realtà di cui l’individuo può fruire in modo superficiale. Ne deriva
pertanto un’euforia, data dal consumo distratto, e un’infelicità dell’individuo, data
dall’insoddisfazione del prodotto che non permette di elevarsi ed andare oltre sé stessi. Il
tempo libero, affermava Adorno, era tanto alienante quanto lo era il lavoro in fabbrica per
Marx: l’alienazione nella società di massa derivava per l’appunto dall’amusement. La critica
che fanno quindi è ritenuta deterministica, pessimista, perché rimanda ad un’idea di fruitore
passivo. Un altro pensatore tedesco degli stessi anni era Herbert Marcuse che divenne uno
degli filosofi simbolo di questa contestazione. Nel suo libro L’uomo a una dimensione, Marcuse
raccontò come la complessità culturale delle persone era ridotta (nel periodo dell’industria
culturale e della pubblicità) ad un'unica dimensione, che era la dimensione del consumatore.
Questa dimensione era generata dalla manipolazione dei bisogni e della finta libertà di
scegliere prodotti di consumo. Nella visione di Marcuse, il tardo capitalismo, attraverso
l’industria del divertimento e dell’informazione, promuoveva un’ideologia del consumismo che
generava bisogni falsi per controllare i consumatori. La stessa ricerca della novità sarebbe poi
un altro prodotto di tecniche manipolatorie. Tesi simili si ritrovano anche nel pensiero critico
statunitense. A questo proposito importante fu Galbraith che sottolineò come, con lo sviluppo
delle grandi società commerciali, si assista a una perdita di potere da parte del consumatore in
quanto è l’apparato tecnico-produttivo a determinare il contenuto del mercato. La pubblicità e
il marketing sono cioè estremamente efficaci nei loro sforzi persuasivi e questo anche perché i
consumatori sono ormai così lontani dal bisogno materiale che non sanno più ciò che vogliono.
Tuttavia c’è da dire che il marketing e la pubblicità non convincono semplicemente il
consumatore a comprare ciò che l’industria produce, ma devono anche adattarsi alle esigenze
dei consumatori. Inoltre, il sistema della moda contribuisce a orientare i consumatori ma, allo
stesso tempo, si nutre anche delle tendenze innovative che vengono dagli stili di strada. Questi
stili sono spesso il prodotto delle sottoculture che a volte agiscono come fonti di orientamento
del consumo. L’interazione tra produzione, consumo e sottoculture è stata illustrata dallo
studio di Dick Hedbige sulla diffusione della Vespa in Inghilterra. Egli mostra come tale
diffusione seguì percorsi non immaginati e non controllabili dai pubblicitari che avevano il
compito di promuoverla. Pubblicizzata come veicolo femminile, la Vespa divenne un oggetto di
culto per la sottocultura mod, composta da giovani maschi in ascesa sociale. Le industrie
devono dunque cercare di leggere il mercato per differenziare gli oggetti in base a divisioni
sociali già esistenti, ma non possono prevedere quei processi di consumo mediante i quali
nuovi gruppi sociali creano la propria identità. Una volta che un movimento sottoculturale si è
stabilizzato, gli oggetti da esso fatti propri possono essere nuovamente immessi nel circolo
commerciale (e diventare una moda). Nel caso dei mod si può quindi dire che i loro consumi
rappresentavano una sfida alle classiche distinzioni di genere e al contempo tendevano a
riprodurre le distinzioni di classe.
Il pessimismo della teoria critica sfocia, sul finire degli anni Sessanta, nelle prime
teorizzazioni postmoderniste nelle quali si tende a enfatizzare il ruolo centrale acquisito dal
consumo e dalla dimensione simbolica dei beni. Il consumo non si riferisce più al
miglioramento della vita umana ma, al contrario, è proprio a partire dal consumo di massa
che la realtà viene trasformata in un insieme di immagini privo di significati. Baudrillard fu
uno dei primi a ragionare attorno al consumo, riconoscendolo come una delle
caratteristiche tipiche della società di quel periodo. Il suo sguardo è profondamente critico:
riprendendo le argomentazioni di Marx (secondo cui le merci prodotte dal capitalismo sono
dei feticci), Baudrillard sviluppa l’idea che la società dei consumi è caratterizzata dalla
presenza di significati prodotti dalla pubblicità e dalle imprese e che il mondo sta
diventando un mondo semiotico in cui tutto diventa un segno (mondo fatto da una
costruzione di segni fittizi). Secondo Baudrillard questi segni diventano indipendenti dal
proprio referente (diventano autoreferenziali) e ciò porta allo sviluppo di un mondo in cui
quello che conta sono i significati costruiti attorno alle merci e non più il contenuto o la
qualità di un prodotto (conta la marca e non la qualità o i materiali — non esiste un valore
d’uso puro, naturale e materiale). Egli sostiene che gli oggetti si configurano come un vero
e proprio sistema ed è per questo che nella sua visione non si può capire il consumo
considerando la relazione tra un consumatore e il particolare bene che acquista in quanto i
bisogni sono prodotti come elementi di un sistema e non come relazione tra un individuo e
un oggetto. 7 Limiti della teoria critica Il postmodernismo pessimista Allora, proseguendo
su questa linea di pensiero, ci si ritrova in una società della simulazione o comunque in un
mondo fatto di una iper-realtà dove quello che conta è solamente il valore simbolico che le
aziende e i meccanismi promozionali riescono a costruire intorno alle marche (i media
creano attraverso le merci un mondo simulato, in cui le persone non godono del reale ma
di un suo segno tipicizzato). ESEMPI (VISITARE DYSNELAND, L’ITALIA IN MINIATURA PER
ESSERE CATTURATAIN UNA FOTO, IL BACIO DI DUE PERSONE A PARIGI, VIENE CATTURATA
UNA PARIGI ROMANTICA E NON IL BACIO). Baudrillard fu uno dei critici che elaborò la
visione di come la società dei consumi sia una società di sfruttamento. Tuttavia vanno
sempre tenuti in considerazione i tre punti critici analizzati in precedenza.
Gli studi sul consumatore onnivoro di Richard Peterson mostrano che, per beni diversi
come il cibo e la musica, si stanno sviluppando strategie di consumo che anziché realizzarsi
in un solo genere, stile o gusto si realizzano nella mescolanza di forme e prodotti diversi,
nella varietà e nella diversità dei generi. Mentre Bordieu ragiona nei termini di
un’associazione diretta tra differenti classi sociali e differenti stili di consumo, Peterson
(negli anni ’90 davanti ad una società in trasformazione) sostiene che se le classi popolari
sono comunque propense ad avere dei gusti differenti, quelle superiori sono caratterizzate
da una sorta di onnivorismo culturale in quanto sono in grado di consumare sia dei prodotti
che consumano soltanto loro sia delle cose che consumano anche le altre classi sociali.
Mentre il capitale culturale di Bordieu conduceva verso un percorso culturale molto
specifico (il ricco va a teatro e viene formato in scuole ad ascoltare ed apprezzare solo la
musica classica) nella nuova società e persone che hanno un alto capitale culturale sono in
grado di dominare più codici culturali (oltre alla musica classica ascoltano e comprendono
anche il rap del ghetto). Nella società di oggi i gusti culturali si sono moltiplicati ed un alto
capitale culturale corrisponde alla capacità di spaziare tra più generi culturali.
COMUNICARE L’IDENTITA’
Douglas vuole dimostrare quindi che il consumatore non è né reattivo, né passivo, né tanto
meno irrazionale, ma, quando ad esempio vaga fra i negozi, comunica a se stesso e agli altri
la propria identità. Il lavoro di Douglas ha fatto molto per consolidare un approccio
comunicativo che considera le merci come una “semantica” attraverso la quale si realizza il
consumo come linguaggio. I limiti in questo modello di analisi riguardano il fatto che non si
capisca bene cosa possa succedere al confine tra i diversi orientamenti culturali, se questi
siano individuali o sociali, come siano connessi precisamente alle condizioni sociali e
strutturali, e soprattutto se siano essi davvero universali. Questo schema analitico è certo
applicabile ad epoche diverse, ma proprio per questo tende a sottovalutare la questione
dei cambiamenti storici e culturali di lungo periodo.
Mary Douglas è un’antropologa che ha ragionato su come le forme di consumo
costituiscono un vero e proprio sistema di comunicazione nella società. Come per Bordieu,
anche per lei i beni possono essere usati per sottolineare alleanze ed estraneità sociali.
Tuttavia, a differenza di Bordieu, la sua visione del legame tra consumo e struttura sociale è
meno pregiudicata da una rappresentazione gerarchica delle differenze sociali. Per Mary D.
i beni possono essere trattati come mezzi simbolici di classificazione del mondo e di
comunicazione non verbale. Per lei, il consumo riflette le scelte fondamentali sul tipo di
società in cui si vuole vivere e sul tipo di persona che si vuole essere, e ovviamente su ciò
che non si accetta e non si vuole essere. E sono soprattutto i rifiuti a sottolineare il ruolo
culturale del consumo perché l’acquirente si rivela come essere coerente rispetto ai propri
consumi nel momento in cui si rifiuta di comprare. Lei sostiene che le azioni del
consumatore odierno non sono semplicemente determinate dal mercato o dalla moda: il
consumatore non è passivo ma comunica se stesso e agli altri la propria identità. Tale
filosofia si colloca in uno dei quattro orientamenti culturali (cultural biases) che sono
presenti in tutte le forme di organizzazione sociale. Questi orientamenti corrispondono
all’incrociarsi di due dimensioni dell’organizzazione sociale: la griglia o struttura sociale può
essere forte e gerarchica o debole e egualitaria; mentre i gruppi possono essere
fortemente integrati o deboli. Il bias gerarchico corrisponde a forme di vita definite da
strutture sociali forti e gerarchiche e da gruppi integrati; quello individualista al contrario
da deboli strutture e deboli gruppi; il bias autoritario da gruppi forti ed egualitari collocati
in una struttura debole; quello isolato da individui svincolati da gruppi ma inseriti in
strutture spesso gerarchiche e forti. I biases rappresentano degli orientamenti prevalenti in
società diverse: al gerarchico corrisponde l’economia tradizionale; all’individualista
l’economia capitalista 10 L’onnivorismo culturale di R. Peterson Comunicare l’identità:
Mary Douglas competitiva; all’autoritario la vita dei contadini e all’isolato quella dei monaci
nei conventi. In ciascuna società tali biases sono poi connessi a diverse condizioni di vita:
nelle società occidentali capitaliste, Douglas individua quattro stili di vita: lo stile di chi
sceglie svaghi sportivi, eccentrici, estremi, tecnologici; lo stile gerarchico, legato a tradizioni
e istituzioni consolidate di chi è parsimonioso e incentrato sulla famiglia; lo stile egualitario,
lontano dalla formalità e orientato alla semplicità; lo stile di vita eclettico, ritirato che
rifugge da ciò che gli altri stili abbracciano. Douglas vuole offrire uno schema analitico
utilizzabile in società ed epoche diverse ma tende, al pari di Bourdieu, a sottovalutare la
questione dei cambiamenti storici e culturali di lungo periodo. Dall’analisi di M. Douglas il
consumatore emerge come un attore storico che attualizza una visione del mondo unitaria.
Anche perché tende a schiacciare l’attore sociale su una dimensione cognitiva anziché
pratica, e quindi situata nel tempo e nello spazio, l’approccio della Douglas sembra
riproporre un consumatore dotato di razionalità strumentale che persegue come fine
ultimo l’espressione della propria collocazione socioculturale. Sia M. Douglas che Bourdieu
quindi descrivono l’idea per cui il consumo e gli oggetti del consumo costituiscono un
sistema di comunicazione. Uno dei limiti di questa visione è quello per cui i significati che
hanno gli oggetti non sono statici ma c’è tutto un lavoro di attribuzione di significati che
avviene nel momento dell’uso
Uno degli studiosi che ha cercato di mettere a fuoco questa dimensione creativa del consumo è
Grant McCracken. Egli propone l’idea di pensare questo modo di creare dei significati come dei
rituali (riprendendo l’idea del rituale dall’antropologia). I singoli gesti compiuti dai consumatori
non sono delle azioni meccaniche ma contengono una serie di micro-significati che fanno sì che gli
oggetti siano e diventino qualcosa di più di una mera merce astratta esposta in un negozio.
Sostituiamo i significati proposti e promossi dal produttore con dei significati personali che
costruiamo intorno all’oggetto nel corso del tempo (es. la maglietta con cui ho passato le vacanze
e mi ci affeziono). McCraken vede quindi il consumo come parte di un processo di attribuzione di
significati individua due stadi che danno inizio a questo processo, ovvero la pubblicità e la moda
che trasferiscono i significati dal mondo sociale alle cose. Questi significati saranno poi rielaborati
dai consumatori mediante una serie di attività rituali (individualistiche), cioè di azioni piene di
significati simbolici che fissano i significati dell’oggetto. In particolare, McCracken individua quattro
tipi di rituali di consumo: • lo scambio (tra la sfera commerciale e la sfera della vita del
consumatore - momento in cui una merce da astratta, passando nella sfera del nostro possesso,
inizia ad essere caricata di una serie di significati) • il possesso (ovvero le azioni che compiamo per
far sì che questo oggetto rimanga carico dei significati che gli abbiamo attribuito all’inizio. Noi
trattiamo anche gli oggetti a cui teniamo molto in maniera materialmente differente –es come
laviamo un vestito a cui teniamo molto, il posto che occupano i nostri libri preferiti. L’attenzione
che poniamo alla cura degli oggetti a cui teniamo di più rappresenta un rituale mediante il quale
riproduciamo l’attaccamento che abbiamo rispetto a certi oggetti. Il possesso può essere anche
espresso tramite una personalizzazione materiale delle cose) • il mantenimento (che mettiamo in
atto nel momento in cui tentiamo di rinnovare i significati intorno ad un oggetto –es un paio di
scarpe vecchie le portiamo dal calzolaio a farle aggiustare perché ci siamo troppo attaccati e non
vogliamo buttarle) • la svestizione (ovvero tutti gli atti che compiamo carichi di particolari
significati per disfarci di certi oggetti. Questa attenzione verso alcuni oggetti indica che il nostro
rapporto con essi è carico di significati che fanno sì che siamo portati a compiere delle azioni o a
porci dei problemi in maniera differente a come accadrebbe nei confronti di cose che per noi non
hanno alcun valore) Secondo McCracken, gli oggetti rappresentano dei ponti non solo verso gli
altri (come dicevano Mary Douglas e Bordieu) ma soprattutto verso degli ideali. Ciò si può
riscontrare nella crescente tendenza ad orientarsi verso alternative verdi ed ecologiche: anche se
la compiuta realizzazione di uno stile di vita totalmente ecologico rimane difficile, comprando ed
utilizzando almeno alcuni prodotti biologici, riciclando almeno parte delle merci usate, preferendo
trascorrere le vacanze in modo sano e contatto con la natura, i consumatori possono avere una
prova dell’importanza delle aspirazioni ecologiche e sentire di avere la capacità di contribuirvi.
L’idea che il consumo stesso si configuri come una forma di produzione poiché, usando le merci in
una miriade di modi diversi, i consumatori trasformano i loro significati culturali, è stata
sottolineata dal teorico Michel de Certeau. Secondo lui, il consumo è una forma di produzione del
valore che si contrappone a quella propria dei sistemi di produzione delle merci. Quest’ultima è
totalitaria, razionalizzata e spettacolare mentre il consumo è un lavoro mediante il quale i soggetti
si riappropriano, a volte in modo sovversivo, di beni ufficialmente destinati ad altri usi. In questo
modo il consumatore interpreta le merci in modo personale, estraendone qualcosa di diverso
dall’intenzione originale e creando un insieme di significati sempre nuovo e diverso. Una posizione
simile a quella di de Certeau è quella di Daniel Miller, un antropologo inglese autore di una ricerca
su come le persone attribuiscono agli oggetti che comprano al supermercato una serie di
significati, relativi a una serie di relazioni delle persone che acquistano con le persone per cui
acquistano. La sua riflessione sull’appropriazione delle merci lo porta a sostenere che consumare è
un lavoro creativo che facciamo per attribuire significati alle cose che possediamo. Questo atto di
appropriazione delle merci è come una seconda fase che segue all’espropriazione dei significati
delle merci che avL’idea di Miller è che viviamo in un modo che ha senso perché è carico di una
serie di significati che per noi hanno senso. Quello che ci viene proposto dal sistema commerciale
non ha un senso compiuto nelle nostre vite, è un qualcosa di astratto. Nella nostra vita poi questi
oggetti si caricano di altre esperienze e significati che non avranno più nulla a che vedere con i
significati iniziali che avevano. Consumare è quindi un atto di riassorbimento dei significati che ci
vengono proposti dal mondo commerciale e pubblicitario. Consumando le persone esprimo la
capacità di fare proprio un oggetto (attraverso l’appropriazione e l’assorbimento). Beni che sono
identici al momento dell’acquisto possono essere ricontestualizzati in un’infinita varietà di modi
diversi dai consumatori, tanto che le pratiche di consumo tendono a generare diversità più che a
promuovere omogeneizzazioneviene nel momento della produzione.
CRITICHE
Tuttavia è da sottolineare il fatto che non sempre i consumatori riescono a portare a termine i
propri rituali di consumo, appropriandosi con successo delle merci. I consumatori possono
ritrovarsi con oggetti che risultano inutili, superflui e persino alienati, o rammaricarsi di aver
ceduto un oggetto che ancora li rappresentava. Anche per questo è fondamentale ripensare
all’agire di consumo secondo il modello della pratica: l’agire di consumo è un agire pratico, ovvero
una serie di atti improvvisazioni portati a termine da attori che devono muoversi attraverso il
mondo sistematizzato degli schemi e delle immagini collettive. Consumiamo proprio perché
agiamo praticamente, non riflettiamo su tutto ma, al contrario, i significati che attribuiamo alle
nostre pratiche riflettono almeno in parte le condizioni in cui ci troviamo ad agire. Il consumo è
quindi un’azione non solo espressiva ma anche costitutiva (di un’identità, di un universo
simbolico): consumando, e quindi facendo propri gli oggetti o le esperienze di consumo, l’attore
sociale costituisce se stesso come consumatore ma anche come attore sociale che ha ruoli specifici
e diversi (legati al suo genere, al suo status sociale, ecc…) che si combinano con specifici stili di
consumo. L’attore-consumatore è sia il prodotto sia il produttore delle proprie azioni e
contribuisce attivamente a sovvertire o a riprodurre un ordine sociale del quale è parte e del quale
si avvantaggia per orientarsi nelle proprie azioni. Mediante il consumo, quindi, l’attore sociale non
solo concorre a fissare una serie di classificazioni culturali, non solo esprime se stesso attraverso
dei simboli o comunica la propria posizione sociale, ma anche costituisce se stesso e, così facendo,
riorganizza il mondo che lo circonda. Le merci vengono perciò utilizzato dai consumatori in modi
diversi a seconda delle circostanze e, utilizzando gli oggetti, gli attori ne elaborano i significati e gli
usi, articolandone più o meno consapevolmente proprietà simboliche e materiali in modi a volte
funzionali alla riproduzione della struttura di potere esistente, a volte no. Tutto ciò dimostra come
il consumo e le pratiche ad esso legate siano un terreno molto ambivalente in quanto, se da un
lato il mondo del consumo è molto vincolato a come le persone sono collocate all’interno della
struttura sociale, allo stesso tempo il consumo ha una dimensione di libertà e autonomia legata
alla sfera della creatività delle persone (che attribuiscono significati in maniera libera agli oggetti).
Il consumo è anche un terreno di conflitto rispetto alla vita delle persone nel mondo
contemporaneo perché il consumatore costantemente si muove e riesce in questo conflitto a
staccarsi e a conquistare delle parti autonomia all’interno di una serie di vincoli. Da un lato quindi
c’è un momento in cui il consumatore si appiattisce alle convenzioni e contribuisce a riprodurre il
sistema sociale; e un momento in cui invece egli ha la possibilità di sovvertire e trasformare i
significati e le strutture sociali. Il consumo è ambivalente perché dentro di noi come consumatori
queste due posizioni convivono ed emergono in momenti diversi.
PARTE TERZA
LA POLITICA DEL CONSUMO
IL consumo ha esiti ambivalenti: non libera i soggetti e non è nemmeno l’espressione di una libertà
assoluta. Esso non è nemmeno un’azione determinata totalmente determinata dalla pubblicità,
dai centri commerciali, dai parchi a tema, etc. proprio per questa sua ambivalenza, il consumo è
essenzialmente un fenomeno POLITICO. Si può parlare di una vera e propria politica di consumo,
poiché le pratiche di utilizzo dei beni offrono agli individui, la possibilità di realizzazione ed
emancipazione, ma allo stesso tempo li costringono. Le scelte di consumo hanno valenza politica:
sono mezzi di inclusione ed esclusione sociale. A questa valenza politica, legata alle funzioni
distintive delle pratiche di consumo, si aggiungono altre valenze più strutturali che hanno a che
fare con la normalità di certe pratiche di consumo e con la legittimità di certe merci. Ciò che noi
oggi consideriamo come ‘consumo normale’ è un costrutto sociale che si è sedimentato nel corso
della storia (es. consumo del tabacco). Nella nostra cultura esiste infatti una visione egemonica di
ciò che è ‘sbagliato’ e di ciò che è ‘giusto’ consumare e di come è ‘normale’ farlo; una visione che è
espressione delle forze culturali dominanti, sebbene possa essere articolata anche dai gruppi
meno avvantaggiati e possa essere connessa anche con la configurazione legale del mercato. Tale
visione normativa vuole che il consumatore sia alla ricerca di soddisfazione personale ma non gli
concede di cadere nell’eccesso e nella dipendenza. Inoltre, quando le persone consumano un bene
non fanno altro che negoziare con il processo di mercificazione (ovvero con la traduzione di oggetti
e beni in merci, scambiabili sul mercato mediante il denaro) e si avvalgono anche di significati che
provengono dal sistema di promozione e in particolare dalle immagini pubblicitarie.
Tuttavia in questa ultima parte tendiamo a considerare il consumo essenzialmente come un
processo di demercificazione, di traduzione dei significati e degli usi degli oggetti proposti dal
sistema commerciale nella vita quotidiana. Attraverso tale processo i consumatori giocano con il
mercato e persino lottano contro di esso per appropriarsi di merci perlopiù standardizzate e
trasformarle in beni dal significato personale. Solo così i consumatori potranno costruire se stessi
mediante le merci senza essere essi stessi ridotti a una merce
Alla sociologia del consumo interessa la pubblicità perché è una forma di discorso e
rappresentazione che si articola intorno al consumo. La questione del consumo e del ruolo del
consumo nella società è un argomento e oggetto di discussione. Due estremi attraverso cui nella
società si offre un discorso sul consumo sono: - retoriche anticonsumistiche - retoriche pro-
consumistiche Una delle retoriche normative cui più spesso si fa ricorso è quella che vede la
società contemporanea come una “società dei consumi” che incarna i vizi della nostra epoca
(materialismo, superficialità, edonismo…) e che si caratterizza per un’affannosa rincorsa a oggetti
superflui e spesso privi di gusto, rispondenti a bisogni falsi e tipicamente indotti dall’industria
pubblicitaria (= retorica anticonsumistica). A questa retorica se n’è contrapposta un’altra che
celebra le merci e i consumi come opportunità di realizzazione e felicità per tutti (= retorica pro-
consumistica). La pubblicità commerciale può essere considerata come una delle forme culturali
dominanti nelle società capitalistiche contemporanee. Anche se sta ai consumatori decodificare,
selezionare e tradurre nella concretezza delle loro esistenze i significati promossi dalla pubblicità,
difficilmente potranno sottrarsi totalmente ai messaggi pubblicitari. Nel tentare di adempiere alla
funzione commerciale che le è propria, la pubblicità si ritrova spesso a svolgere una funzione
ideologica: le immagini promozionali possono non solo proporre visioni dell’identità, della
famiglia, del genere, ecc. funzionali alla riproduzione delle gerarchie e delle differenze sociali
consolidate, ma anche ospitare visioni minoritarie e persino sovversive, soprattutto man mano che
si sviluppano mercati di nicchia sempre più diversificati. 14 La politica del consumo Consumismo e
promozione La retorica anticonsumistica è stata particolarmente influente nel secondo
dopoguerra. Secondo essa il consumo ha dato luogo a un impoverimento spirituale, per cui si
ricorrerebbe ai beni materiali quali surrogati di altre, tradizionali forme di soddisfazione,
autorealizzazione e identificazione che avevano luogo nella sfera del lavoro e della partecipazione
politica. Il consumo viene quindi individuato come uno dei problemi della società contemporanea,
associandolo con l’idea dell’acquisto superficiale e di oggetti che non servono (e con concetti di:
edonismo -ricerca di piaceri superficiali; massificazione -tipo di società volta nella direzione di
rendere tutto più standardizzato). Uno degli appartenenti alla schiera della retorica
anticonsumistica è Christopher Lasch, il quale sostiene che la disgregazione della sfera pubblica e
la burocratizzazione del lavoro si sarebbero combinate a una ‘cultura di consumo’ che ha
promosso un tipo di personalità narcisistica così ossessionata dai propri bisogni da vedere gli altri
solo in relazione ad essi. La sua idea è quindi che nella società moderna del dopoguerra,
soprattutto in quella americana, siano venuti meno i legami tradizionali (familiari) e si siano
affermati dei legami astratti e legati più al ruolo che le persone hanno nella società. Ciò ha
prodotto una disgregazione dei legami sociali e le società del consumo hanno colmato questi vuoti
producendo nelle persone la tendenza ad essere più narcisistiche, ovvero incentrandosi più sulla
propria apparenza. La formazione dell’identità pertanto non avverrebbe più in relazione a ideali
stabili sostenuti dalla famiglia tradizionale, ma alla possibilità di presentare un’immagine di sé
vendibile e convincente. In quest’ottica la cultura di consumo favorisce lo sviluppo di personalità
deboli e isolate, che vanno alla continua ricerca di una gratificazione negli oggetti e che sono
destinate a essere continuamente deluse: il piacere di cui sono alla continua ricerca per riempire il
loro vuoto interiore riconduce tutto a una merce. Secondo Lasch la cultura delle merci è quindi
una fonte costante di insoddisfazione: il consumo sarebbe positivo solo se fosse funzionale alla
produzione mentre diviene una minaccia se svincola da essa e dalle regole della famiglia
tradizionale. Un’altra studiosa che si inserisce nella retorica anticonsumistica è Susan Bordo, la
quale sostiene che il self contemporaneo si costituisce sulla base di richieste contraddittorie che ci
spingono a incorporare sia la disciplina dell’etica del lavoro sia la capacità di consumare quanti più
nemo possibile lasciandoci completamente andare al godimento immediato. La studiosa sviluppa
la sua idea mettendo in relazione le contraddizioni della società dei consumi con il moltiplicarsi dei
disturbi alimentari tra le persone. Susan Bordo parte dal concetto che una delle caratteristiche
della società dei consumi (che si riflette anche nella strutturazione della pubblicità) è la presenza di
una forte contraddizione a cui le persone vengono sottoposte: mentre da un lato le persone
vengono spinte a disciplinarsi ed essere molto attente sul mondo del lavoro (etica del lavoro),
dall’altro il mondo dei consumi spinge le persone ad essere edoniste e sviluppare sempre nuovi
desideri. Questo è uno dei motivi per cui le persone iniziano ad avere un problema di gestione dei
propri desideri. Uno dei risultati di tutto ciò, secondo la studiosa, sono i vari disturbi alimentari che
riflettono la ricerca di una forma di uscita da questa continua tensione contradditoria a cui si è
sottoposti. Per la studiosa l’anoressia e l’obesità sarebbero soprattutto tentativi di superare e
risolvere le contraddizioni indotte dalla cultura di consumo: l’anoressia sarebbe la somma capacità
di annullare se stessi e reprimere il desiderio mentre l’obesità sarebbe invece la somma capacità di
cedere al desiderio. Bordo finisce per sostenere che la gestione corretta del desiderio nella cultura
di consumo richiede una costruzione contradditoria della personalità e produce una personalità-
tipo bulimica e instabile come sua norma. Analisi come questa, che contrappongono in modo così
netto e radicale la sfera del lavoro a quella del consumo, tendono tutte ad affermare la priorità
funzionale e morale dei processi produttivi. Più recentemente, si è diffusa l’idea che la voracità del
consumatore moderno lo spinga a lavorare in modo smodato e privo di senso, unicamente per
procurarsi i soldi che occorrono per acquistare sempre nuove merci. La grande crescita della
cultura materiale viene quindi criticata come fonte di disorientamento e minaccia all’autenticità
del soggetto che si vuole capace di costituirsi a partire dalle sue opere e non dai suoi averi. Di
conseguenza gli uomini si misurano e vengono misurati meno per quello che fanno e più per
quello che hanno. Alla pubblicità viene affidato dagli autori di impostazione critica un ruolo
propulsivo: è il traino ideologico di un sistema in cui il lavoro ha perso senso, a cui tuttavia le
persone rimangono attaccate perché non sanno rinunciare ai beni che le immagini pubblicitarie 15
La retorica anticonsumistica e l’apologia del consumo Christopher Lasch e il narcisismo Susan
Bordo e le contraddizioni della società dei consumi propinano loro in una vana rincorsa verso
traguardi di benessere che rimarranno comunque possibilità di pochi. In questa retorica rientrano
quindi una serie di voci critiche nei confronti del consumo che si articolano in diversi aspetti come i
movimenti antiglobalizzazione che individuano nei simboli del capitalismo e delle multinazionali
degli obiettivi da distruggere e gli attivisti politici. Alle tesi critiche si sono opposte altre che hanno
a volte assunto il carattere di una vera e propria retorica pro-consumistica. Si è iniziato a sostenere
(a partire dalla fine del ‘600) che il libero mercato fosse una forza civilizzatrice e pacificatrice e che
i desideri umani e la loro gratificazione mediante una crescita dei consumi personali non era
pericolosa ne per la nazione ne per l’individuo. Il consumo viene così definito come la ricerca attiva
di gratificazione personale mediante i beni materiali. In questa impostazione il consumatore viene
visto come un essere sovrano e questa idea ha trovato sostenitori soprattutto all’interno del
marketing e della pubblicità commerciale, istituzioni queste che hanno avuto un ruolo importante
nel promuovere il consumo come ambito di azione significativo e legittimo. La pubblicità si
inserisce in questi discorsi positivi perché descrive il consumo come un qualcosa di positivo e
accettato socialmente (dopotutto il suo obiettivo è quello di far consumare di più). Sono infatti
soprattutto i messaggi pubblicitari ad articolare retoriche che interpellano il consumatore come
attore sovrano, libero di esprimere se stesso mediante il consumo. Per un verso la pubblicità serve
per alleggerire il senso di colpa che le persone possono provare quando comprano qualcosa.
Inoltre, la pubblicità contribuisce a descrivere il consumo come il giusto svago dopo il lavoro. A tal
proposito è da notare come, tendenzialmente, il consumo (e la pubblicità) tende sempre a
rappresentare gli aspetti della vita che riguardano il tempo libero delle persone. In quest’ottica il
consumo rappresenta quindi una soddisfazione che le persone si prendono nella pausa dal lavoro
(il momento del consumo viene rappresentato come una distrazione e uno svago che le persone
possono giustificatamente concedersi non per riuscire a lavorare meglio, ma per ripagarsi della
fatica lavorativa). Spesso poi le pubblicità tendono a creare forme di giustificazione per l’acquisto
(giustificano il consumo da parte delle persone). Tante pubblicità mirano a far leva sugli
atteggiamenti positivi che servono per convincere le persone che valga la pena acquistare un certo
oggetto. La pubblicità associa al consumo una serie di aspirazioni individuali positive (felicità,
divertimento, etc…) e anche i prodotto più banali e modesti vengono associati ad immagini di
realizzazione personale (es. L’Oréal – claim: Perché io valgo – Voi valete). Gli atteggiamenti di chi
condanna il consumo e di chi invece lo celebra sono accomunati da una stessa dimensione: di
consolare i consumatori e dimostrargli che sono pienamente autonomi di fare una scelta critica nei
confronti dei consumi. Quindi, una delle conseguenze della pubblicità nella società di oggi è quella
di ribadire la positività dell’acquisto e che rappresenta una delle vie di autorealizzazione che
hanno a disposizione oggi. Pertanto, la sociologia mira a capire quali sono le differenti
ripercussioni della presenza della pubblicità nella società di oggi e in che modo le immagini
riprodotte nella pubblicità si relazionano con le relazioni che ci sono nella vita delle persone. La
pubblicità intesa in senso moderno nasce intorno alla metà dell’800. In origine era molto fattuale,
ovvero relativa ad una descrizione più o meno obiettiva e analitica dell’oggetto pubblicizzato. Si
invitava il pubblico a considerare l’esistenza di un dato prodotto, senza specificare a cosa
esattamente potesse servire, quali bisogni potesse soddisfare, in quali contesti potesse essere
usato e per quali soggetti fosse maggiormente indicato. Le pubblicità, diversamente da come
accade oggi, non costruivano universi di senso per presentare i prodotti. Ad un certo punto però,
la pubblicità, ha iniziato a produrre dei significati simbolici intorno ai prodotti, costruendogli
attorno dei contesti (ponendolo all’interno di una serie di relazioni sociali), diventando evocativa.
In questo modo ha messo in moto intorno agli oggetti un processo di associazione simbolica (es.
associazione oggetto-classe sociale) che cambia con il passare del tempo (le associazioni di una
volta non valgono nel mondo di oggi). Si è quindi passati da una pubblicità di tipo referenziale,
focalizzata principalmente sul prodotto, a una contestuale, in cui il prodotto viene raccontato e
inserito in un contesto di vita più ampio.
RIMERCIFICAZIONE
L’idea che demercifichiamo le merci è onnipresente nella nostra vita di consumatori. Le
implicazioni di tale questione riguardano il fatto che tutti, consciamente o meno, siamo creatori di
significati attorno agli oggetti di consumo e che l’individuo contemporaneo è in qualche modo
obbligato a fare questo lavoro. Infatti, siamo tanto più apprezzati socialmente e riconosciuti come
individui autonomi tanto quanto riusciamo ad attribuire dei significati agli oggetti che acquistiamo.
Viviamo in una società che ci richiede di essere autonomi e creativi e quando non ci riusciamo
veniamo riconosciuti come delle persone meno individuali e autonome. Questa può essere vista
anche come una delle condizioni problematiche del vivere nella società dei consumi oggi. Il modo
in cui siamo spinti ad essere delle persone originali nel momento in cui acquistiamo prodotti, ha a
che vedere con la questione della soggettività del mondo contemporaneo, ovvero con quello che si
ritiene che sia un individuo adeguato a vivere nella società. Nella società c’è quindi una
dimensione di pressione sul fatto di essere dei bravi consumatori (la libertà è finta libertà: siamo
liberi di scegliere come vestirci ma non possiamo presentarci in giro in mutande). Quindi nella
nostra società è molto apprezzata e rappresenta un valore la capacità di produrre forme originali
di consumi e di produrre significati differenti (e dire ed essere quindi qualcosa di più rispetto alle
semplici imposizioni e costrizioni del mercato). La vita degli oggetti e il ciclo di mercificazione e de-
mercificazione a cui sono sottoposti può avere anche un successivo ciclo che è quello della
rimercificazione (nel momento in cui riacquisisce un valore economico). È tipico delle sottoculture
che ad esempio un tipo di vestito fatto per un ambiente di lavoro venga adottato da un gruppo
anche fuori da quell’ambiente e per questo la marca si diffonde gradualmente anche negli altri
ambiti della vita. Una cornice normativa del consumatore si ha quando si pensa all’idea di come
dovrebbe essere il consumatore e che si contrappone ad una visione pragmatica del consumatore
(ovvero come il consumatore articola le sue scelte in base alle pressioni che subisce).
LA NORMALIZZAZIONE DEL CONSUMO E L’EDONISMO ADDOMESTICATO
Nella società dei consumi si assiste dunque a due spinte contrapposte: se da un lato ci è richiesto
di essere capaci di sviluppare desideri autonomi e originali (che rappresenta la base poi per
costruire dei significati attorno agli oggetti che vadano al di là di quelli del mercato), dall’altro
siamo spinti a tenere quest’inclinazione sotto controllo (per evitare di trasformare i desideri
originali in comportamenti anti-sociali -es. persone che spendono tutti i propri soldi per comprarsi
ad esempio un disco o non escono mai di casa per stare ad ascoltare musica di artisti che nessuno
conosce- / si tratta di comportamenti di persone che hanno ecceduto nell’esprimere i propri
desideri e interessi / gli oggetti e le passioni diventano più importanti di tutto il resto). Pertanto si
può dire che il consumatore è sovrano del mercato solo se è sovrano di se stesso, solo cioè se
controlla la propria volontà. L’edonismo e la ricerca del piacere devono essere temperati da varie
forme di distacco che sottolineano la capacità dell’attore di guidare tale ricerca, di dosare i piaceri,
di non divenirne schiavo e di essere perciò riconoscibile come uno che può e sa scegliere
autonomamente. In ogni pratica di consumo vi è quindi la necessità di governare i desideri
mediante forme di distacco dagli oggetti (edonismo addomesticato). I consumatori possono
perseguire il piacere, ma il piacere deve venire sempre dopo di loro. Le pratiche di consumo
devono apparire per questo sia come la realizzazione sia come il contenimento dei desideri. Quindi
i consumatori devono saper godere degli oggetti di consumo ma devono sempre ribadire
attraverso discorsi, gesti, pratiche che i loro sentimenti sono più importanti e più profondi delle
cose e della dimensione commerciale del consumo. Il più potente mezzo che abbiamo a
disposizione per garantire che ciò che ci lega a un oggetto è davvero una scelta autonoma è,
paradossalmente, la nostra capacità di rinunciarvi. Gli attori che sono sovrani di se stessi, della
propria volontà e dei propri desideri, non hanno solo la capacità di continuare a volere ciò che
hanno scelto, ma soprattutto hanno la capacità di non volerlo più se le condizioni cambiano o se
rimangono insoddisfatti.