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Il nuovo consumatore verso il

postmoderno
Semiotica della Pubblicità
Università degli Studi di Milano
18 pag.

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Il nuovo consumatore, verso il postmoderno. Di Giampaolo Fabris
1. IL CONSUMATORE POSTMODERNO

Il consumo può essere ridotto facilmente a una forma di metalinguaggio con cui costantemente comunichiamo, tramite le
nostre scelte, a noi stessi e agli altri. Il consumo diviene un’area straordinariamente ricca anche ai fini dello studio della
struttura e della dinamica sociale. Ci sono svariate ragioni per cui acquistare un bene, all’interno di un variegato sistema
di codici, dal voler esprimere l’appartenenza a un gruppo, o uno stato d’animo. La semplicità delle categorie usate
tradizionalmente contrasta vistosamente l’osservazione della sua complessità. I jeans, sdruciti, richiamavano la loro
origine legata alla working class, unisex, si potevano usare per sedersi tranquillamente per terra, erano diversi dai calzoni
con la piega in vigore ai tempi. Il nuovo consumatore è sempre più esigente. Stiamo assistendo, con la postmodernità,
alla nascita dell’homo aesheticus, che inventa nuove forme di socialità coerenti con l’epicureismo quotidiano, animato
dalle emozioni, proteso ad “epifanizzare” il reale. Ed il consumo, in molte circostanze, diviene collante e maieuta di
queste nuove forme di socialità.

Il consumatore come sinonimo di materialismo, isolamento e solitudine tanto caro alla cultura della modernità va
ribaltandosi, nella postmodernità, nel suo opposto. Si consumano segni, si parla coi prodotti, si investono nuove forme di
socialità. Una socialità senza scopo o progetto ma alimentata dal piacere di stare bene insieme, dove si riscatta la
categoria del banale, si valorizza il concreto e si amano le piccole cose. L’uomo di oggi, inoltre, non dovrebbe cercare di
risolvere la complessità, ma deve imparare a convivere con questa e a gestirla, traendone soddisfazione. La comodità del
navigare in internet piuttosto che andare in biblioteca ne è un esempio lampante. Questa complessità si articola in
sempre nuove evidenze che hanno come matrice la crescente interconnessione ed interdipendenza dei fenomeni nella
società moderna. (Calo di prezzo delle Marlboro -> calo repentino delle azioni della Philip Morris).
La società di massa, i consumi lungi dal produrre la società omologa ed eterodiretta che era stata preconizzata, hanno
generato continue stratificazioni e differenziazioni al loro interno: un mosaico di tessere sociali e segmenti, nicchie di
consumatori diversissime tra loro. Le differenze, anziché attenuarsi si moltiplicano ad infinitum. Complessità significa
anche eccedenza delle possibilità che si prospettano a ciascuno di noi. Una delle tante manifestazioni: l’iper-offerta con
cui ci si deve continuamente confrontare nei mercati. Il nuovo consumatore è un individuo flessibile che ama procedere
con percorsi ondivaghi, procede cioè in modo non lineare per conseguire i suoi scopi, si destreggia tra le tante trattative
del mercato. C’è un interesse alla ricerca di una razionalità più coerente all’oggi, ad un problema non corrisponde più solo
una soluzione.

Postmoderno non è un buon termine, perché non indica lo specifico della nuova fase storica in cui siamo, sottolinea
soltanto il superamento della fase precedente, quella appunto della modernità. La società postmoderna in cui stiamo
entrando si caratterizza per il convergere, in un analogo episteme, di tanti diversi settori del sociale che condividono un
comune orientamento epistemologico e culturale e non come mera adesione ad un fatto stilistico ed anche per la spiccata
interdisciplinarietà che caratterizza approcci e teorizzazioni. Il compito che molti hanno affrontato in questi anni è stata
l’individuazione di un fil rouge che accomunasse settori tanto disparati, spesso del tutto ignari delle analogie che li
riguardavano. La postmodernità non è solo presa di distanza dai grandi miti della modernità. Si esprimeva anche come
cesura col passato e non, come adesso, con il recupero eclettico di questo, con il ricorrente citazionismo di una
eterogenea varietà di elementi che si mescolano a piacimento.
Morra individua, nel dispiegarsi della storia, il susseguirsi di quattro tipi antropologici: dopo l’homo sapiens e l’homo
religiosus, è seguito l’homo faber, improntato sulla razionalità strumentale e l’autonomia di agire, e l’homo ludens, il quale
caratterizza la postmodernità. Siamo in una profonda rivoluzione tecnologica, con l’avvento di una società
dell’informazione e dei nuovi media, che utilizzano una tecnologia elettronica e digitale. I modi di produzione non sono
però più omologabili a quelli comuni sino a un recentissimo passato, perché la produzione ormai avviene in località del
mondo situate lontane da Paesi industrializzati e avanzati. Esauritasi la fase della crescita esponenziale dei mercati in cui
dominano strategie offensive, l’impresa si trova oggi a ripiegare su posizioni difensive. Mantenere un cliente, costa molto
meno che trovarne dei nuovi. Le nuove tecnologie della microelettronica costituiscono poi un evento storico non di minore
importanza rispetto alla Rivoluzione industriale del XVIII – XIX secolo e sanciscono la fine dell’era della modernità.
L’impatto di internet avviene poi in un lasso di tempo decisamente complesso, portando cambiamenti radicali. La nostra
società, che dilata a dismisura il concetto di società dell’informazione, è una società della “simulazione” dove la differenza
rai il reale e l’immaginario, tra realtà fisica e realtà virtuale, tra vero e falso, tende a sparire. La realtà come costante
simulazione, trova, nel mondo del consumo, continue evidenze. Nella postmodernità si osserva una costante reversibilità
che unisce la globalità e i diversi elementi che la compongono. L’apprendimento del mondo che ci circonda si sposta
dalla parola scritta all’immagine visiva, dal primato della vista alla mobilitazione globale dei sensi. Realtà come la crisi
delle ideologie, la complessità, la turbolenza, sono i pilastri su cui si fonda il nuovo ciclo storico verso cui ci stiamo
avviando. Nella postmodernità, l’interesse per l’apparenza rappresenta un’aria significativa, dove per apparenza si deve
intendere la superficie, l’esterno. In questi anni essa assume consensi e interesse. Emblematico di questo interesse per
l’apparenza dell’esistere è il successo di programmi come Il Grande Fratello e il Truman Show, lo stesso vale per la realtà
virtuale della Play Station. Per Brown, il postmoderno opta per l’ambiguità, la complessità, il disordine, il bicchiere mezzo
vuoto, il dubbio sistematico. Significa individualismo contrapposto a universalità, pluralità verso consenso, dissenso verso
conformismo, differenza verso somiglianza. Alla razionalità, la postmodernità contrappone il paradosso, l’incertezza, la
mutabilità. Il consumatore postmoderno non si caratterizza soltanto per dare più spazio alle emozioni, per impiegare il
consumo come segno e comunicazione della propria identità. L’apparire, in questa fase, diviene sempre più importante
così come lo divengono i contenuti simbolici dei beni. Il prodotto non deve più rappresentare sé stesso, prende distanza
dalla sua autoreferenzialità per farsi metafora. Deve quindi significare altro da sé, deve stimolare la fantasia.
I rapporti con le marche, con i prodotti di culto, sono riconducibili a una relazione d’amore, con tutta una serie di
dinamiche. L’acquisto “come dono” conferma questa situazione, laddove nel dono l’aspetto utilitaristico scompare e il

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bene diviene latore di ben altri messaggi. Nello scambio simbolico, che il dono illustra meglio di qualsiasi altra cosa,
l’oggetto non è un oggetto, non lo si può separare dalla relazione concreta entro la quale si scambia. È singolare come gli
economisti abbiano tradizionalmente dedicato poca attenzione al dono come momento, e movente, del processo di
circolazione delle merci. Il dono in realtà taglia trasversalmente una variegata gamma di momenti, rituali e non. Il dono è
presente in una variegata gamma di momenti, rituali e non. Dal momento della nascita la nostra esistenza è scandita dal
regalo. Le teorie del dono oscillano tra due opposte polarità. Da un lato si sottolineano tutti gli aspetti utilitaristici ed il
carattere di reciprocità, quel do ut des che c’è il più delle volte. Si tratterebbe di un meccanismo puramente economico e
strumentale di redistribuzione e circolazione delle merci. Si contrasta inoltre la riduzione economicista e si enfatizza il
dono come momento emblematico di quella matrice rituale e simbolica che sottostà ad ogni forma di scambio.
Ovviamente sono i legami a cui son legati che danno a quegli oggetti un valore affettivo. Spesso il dono non ha alcuna
utilità né valore economico, si pensi ai fiori, per il ricevente. I meccanismi del dono soggiacciono a delle regole non scritte
ma non per questo meno vincolanti: dare, ricevere, ricambiare. Il dono che persiste e si sviluppa ulteriormente anche
nella società postmoderna segnala il persistere di dimensioni oblative ed altruistiche. Che, con tutta franchezza, ci
appaiono estremamente evidenti anche senza l’avallo, pure importante, del dono.
Molte delle difficoltà che oggi attanagliano il mondo dell’industria sono imputabili al non aver compreso a fondo l’incisività
del cambiamento in atto, una vera e propria rivoluzione economica ed antropologica che interessa il consumo.
L’economia ha tradizionalmente considerato il reddito, fattore in grado di prevedere e spiegare le scelte di consumo,
come un fattore determinante, al punto di avventurarsi e formulare una legge psicologica fondamentale per cui gli
individui risparmierebbero solo dopo aver conseguito un livello di consumi soddisfacente. Una teoria cioè si crea da
quella connessione causale tra bisogni e consumi che appare ormai largamente superata. Il consumo considerato
soddisfacente è in realtà in funzione delle aspettative individuali. La propensione al consumo di determinati beni è più
legata ad alcune classi sociali. La classe sociale è dunque un previsore dei consumi, ha costituito per i sociologi ciò che il
reddito ha costituito per gli economisti. L’appartenenza di classe determinava con molta verosimiglianza lo stile di
consumo. Vi erano stili di consumo tipici degli operai, altri degli impiegati, o delle famiglie contadine e via dicendo. Grazie
al contributo di Luhmann che, in sociologia, si comincia a passare da una concezione di società stratificata ad una
differenziata. Gli stili di vita, più numerosi, sono apparsi come naturale evoluzione della classe sociale e dunque come
significativo predittore delle scelte di consumo. La stessa etichetta di consumatore è datata e riconducibile al vecchio
paradigma. Il termine postula infatti un soggetto economico che si comporti, nell’agire del consumo, in maniera dissimile
dagli altri momenti della sua esistenza. Consumatore è infatti l’individuo che, tra i tanti comportamenti della sua
quotidianità, annovera anche il consumare. Meglio parlare di Individuo consumatore. Anche il termine “mercato” è
inadeguato. Con questo termine si intende infatti il sociale che, fra le sue tante manifestazioni ed i suoi sottosistemi,
include anche quello del consumo. Per comodità però si useranno ancora termini quali mercato e consumatore. La
razionalità nelle scelte di consumo diviene una dimensione anacronistica ed obsoleta. Più fattori interagiscono
continuamente. In una società che ha cambiato i propri standard come quella postmoderna, i bisogni sono ampiamente
saturati ed i desideri si ravvisano alla base di gran parte delle scelte di consumo.
Forte discriminante del passaggio al postmoderno è la presa di distanza da una concezione forte della personalità,
ispirata all’ideologia e dai valori che caratterizzano invece l’individuo moderno. Un soggetto cioè che crede ancora in
valori che trascendono il suo stretto particolare. A quest’ego forte anche se problematico, unitario anche se complesso,
soggetto della storia anche se responsabile di sciagure, l’individuo postmoderno contrappone l’immagine di un soggetto
debole, frammentato, sfuggente, polimorfo e proteiforme che agisce più sotto la pressione delle circostanze che non
seguendo dei valori o delle convinzioni.

2. NUOVE REALTÀ, NUOVI SCENARI

Parliamo di una presa di distanza dalle interpretazioni del consumo come status symbol. Ciò che prima appariva come
una certezza acquisita, una presenza stabile nel firmamento dei consumi. Si parlava di must, i quali hanno caratterizzato
a lungo la società americana, perbenista e competitiva. Negli status, la sociologia ha individuato uno dei più significativi
fattori della dinamica dei consumi. Una consolidata prassi giornalistica ha da sempre segnalato le aree merceologiche
emergenti, in quanto portatrici ed espressioni di status. Sovente con i toni accorati dalla denuncia sociale: perché si
tratterebbe comunque di forme di consumo inessenziali ed espressione di spreco. Inoltre, come abbiamo indicato, i
simboli di status hanno rappresentato la prima occasione di teorizzazione e di testimonianza al tempo stesso,
dell’esistenza, nei prodotti che acquistiamo, di significati che trascendono il valore d’uso. Anche gli economisti, assai poco
propensi a cogliere queste dimensioni del consumo, hanno finito per metabolizzare quella che consideravano come una
vistosa anomalia dei processi di consumo.
Nel campo del consumo mai nulla è assoluto. Il concetto di status è ormai sul viale del tramonto. La natura dei simboli di
status è nota, in una società stratificata come la nostra (spesso rappresentata a piramide), esistono beni o servizi che
caratterizzano diversi strati o classi sociali. Prodotti che al di là del loro uso, stabiliscono anche l’appartenenza ad uno
status sociale. Ogni strato sociale ha i propri modelli di consumo che, in culture socialmente mobili e con una forte
tensione a migliorare la propria collocazione sociale divengono punto di riferimento, ed oggetto di desiderio, per la classe
sottostante. Gli appartenenti a questa sono orientato ad impossessarsi di alcuni beni della classe sovrastante per un
processo di socializzazione anticipatoria. Una volta che alcune scelte di consumo, per un processo di imitazione,
degradano ai livelli inferiori, tenderanno ad essere abbandonate. I meccanismi di emulazione ed ostentazione sono stati
considerati l’architrave che sorregge tutta la volta dei consumi. I prodotti che svolgono una maggiore funzione in termini di
connotazione di status sono stati, tradizionalmente, i gioielli, l’auto, l’abitazione, la dotazione di elettrodomestici e gli
apparecchi per la riproduzione del suono. La simbologia di status arrivava a codificare le microscelte della nostra
quotidianità. A seconda dei periodi storici è stato dapprima socialmente qualificante il possesso di un prodotto, poi
l’impossessarsi di una certa variante o modello più selettivo, poi la marca. In alcuni casi anche il paese di provenienza ha
validità, rappresenta qualcosa. Tutta questa simbologia è irrilevante per il consumatore postmoderno. Un’aspirazione
largamente diffusa e riguardante il consumo è quella di comunicare chi si è realmente senza apparire per forza diversi o
superiori agli altri.

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In concomitanza all’affievolirsi della perdita di significato degli status symbol, l’avvento della postmodernità porta al
decadere di un’altra significativa “forma” del consumo che prescinde da quella dell’utilità consacrata dal pensiero
economico. È il consumo come linguaggio della produzione, come più efficace strumento di controllo, integrazione
sociale ed alienazione da parte della società capitalistica. Non esiste poi alcuna autonomia del consumo, se non nelle
microscelte, perché questo è interamente indotto e determinato dalla produzione. Ai produttori interessa far credere ai
consumatori che sono estremamente liberi di comprare ciò che vogliono. La produzione che trasformò il lavoro umano in
salariato si accorse di aver bisogno della stessa merce che produceva. La libertà dal bisogno rappresenta un connotato
della società capitalistica moderna e il fondamento della sua legittimità e del suo potere. Si tratta in realtà di tautologia. Ci
si trova in un momento in cui è in atto una transizione da un monocentrismo a un policentrismo esistenziale dove il
lavoro, pur restando importante come ambito di vita e valore, vede affiancarsi una serie ulteriore di aree esistenziali
importanti e gratificanti. Fra cui il consumo. La pubblicità crea in continuazione dei falsi bisogni, inducendo il consumatore
a scelte che non corrispondono alle sue reali priorità, sovvertendo le naturali gerarchie dei bisogni, spingendo ad
acquistare molto più del necessario. Si è andato a creare un consumatore sinestetico che percepisce stimoli
polisensoriali se associati a contesti che li caratterizzano, come possono essere i colori. Il consumatore ha abbandonato i
vecchi termini di suggestione e persuasione per adottare quelli, certamente più realistici, di influenza e comunicazione.
Un consumatore regolare è centinaia di volte più profittevole di uno occasionale.

Il consumatore sta ottenendo una nuova legittimazione sociale, il consumo si laicizza e secolarizza, anche se continua a
mantenere una forte componente segnica questa si dispiega, sempre più, all’insegna del pragmatismo. La storia cambia i
consumi, i consumi cambiano la storia. Basti pensare alle guerre e ai momenti storici più salienti. Anche il cambiamento
socioculturale ha influito nel ridimensionare la preclusione ideologica al consumo (yuppismo, Milano da bere) fino a
portare all’ethos di pulizia e rigenerazione morale che ora è già dissolto.
Si parla spesso di consumismo come tratto caratterizzante delle società industrialmente avanzate. Tuttavia non è giusto
stereotipare così. Non è scorretto pensare che la crescita dei consumi ha rappresentato un enorme cambiamento nel
tenore di vita. Perché, dunque, scongiurare a tutti i costi il consumismo? La sindrome che più caratterizza oggi i nuovi
atteggiamenti di consumo è appunto quella di spendere bene. Il good value for money sta divenendo una sorta di must
per il moderno consumatore. Un nuovo imperativo che trova una collocazione privilegiata nell’immaginario collettivo.

La nostra società si sta trasformando nella società meno materialistica che ci sia, poiché i beni si stanno
dematerializzando e nel mentre si assiste anche a una miniaturizzazione dei prodotti, sempre più leggeri e di ridotte
dimensioni. Stiamo diventando sempre più una società legata ai servizi, dove il valore d’uso [l’utilità di una cosa, fa di
essa un valore d’uso (cit. Marx)] tende ad essere progressivamente oscurato dal valore simbolico del bene. Il valore di un
bene è anche un valore semantico valoriale con cui ci esprimiamo e con cui comunichiamo con gli altri. Comperiamo
degli oggetti non soltanto per i loro contenuti performativi ma per la loro capacità di veicolare messaggi. Tuttavia gli
oggetti hanno sempre avuto delle valenze comunicative, come poteva accadere nei rituali magici, nella vita quotidiana. Il
cibo, il vestire, la casa, hanno da sempre costituito un osservatorio privilegiato degli antropologi nello studio di una
cultura. Esiste nell’immaginario collettivo una sorta di dizionario del significato dei beni: per alcuni i significati sono stabili,
quasi immutabili nel tempo. Per la quasi totalità degli altri si tratta di un dizionario in progress, costantemente riscritto e
aggiornato. Un’auto non ha solo uno scopo, portarci in giro, ma è un complesso sistema di comunicazione che veicola
alla marca e al modello con precisi significati legati alla marca dell’auto. Un concetto a cui difficilmente si ricorre è quello
di utilità, dal momento in cui spesso si parla di beni non di prima necessità. La pubblicità contribuisce a restringere il
campo dei significati possibili, ad individuare quelli culturalmente più attuali e desiderabili e a fissarli sull’oggetto. Ai
contenuti materici subentra, nel processo di scelta, il significato che questo riveste all’interno di una complessa
grammatica sociale. Un oggetto, prima di diventare di consumo, diventa un sogno. Non merce, ma un sistema di segni
ben codificato all’interno della semiosfera. La pubblicità trasforma le merci in significati, crea una grande enciclopedia di
senso di facile accesso e cognita a tutti, genera un alfabeto e un linguaggio e svolge un ruolo primario nella etichettatura
sociale delle merci che il consumatore completerà poi divenendo parte attiva della costruzione di una sintassi del
consumo. I vari oggetti hanno talvolta perso la loro funzione primaria, per metamorfosarsi in comunicazione, ma è molto
importante ricordare che nel mercato moderno a competere sono i messaggi, non i prodotti. La funzione istituzionale
della pubblicità è sempre stata d’altronde quella di vendere promesse, sogni, desideri, di trasformare la fisicità dei prodotti
nell’immaterialità di un sogno. La marca esprime nei suoi orientamenti più recenti un mondo coeso di valori così che
l’adesione a questo può consentire credibilità in settori merceologici anche estremamente eterogenei. Laddove il
messaggio della marca sia molto forte, alcuni prodotti vengono consumati in quanto segni. La marca oggi, nelle sue
manifestazioni più evolute, esprime con grande trasparenza la nuova realtà della dematerializzazione dei mercati. Il
prodotto ha perso il suo protagonismo, il valore d’uso ha lasciato il posto allo scambio sociale, la materia si confonde
nell’universo dei segni e diviene essa stessa segno.

Il successo di un prodotto costituisce una cartina di tornasole dotata di grande reattività e trasparenza per comprendere
le dinamiche che interessano l’intero comparto merceologico. Aiuta a comprendere le tendenze di cambiamento in atto.
Casi lampanti sono il sushi, che cavalca l’onda del “fresco e naturale” e premia il minimalismo nel cibo. La pasta, invece,
è l’antitesi del sushi, in quanto poco costosa, legata alla tradizione, consumata a casa. Era dal futurismo considerata
negativamente, perché fa ingrassare. La pasta anni fa era data per persa, da non considerare più in futuro, ma così non è
stato. I consumi sono stabili da anni in Italia e paradossalmente stanno crescendo nei paesi a cui guardavamo come
modelli. La dieta mediterranea è stata considerata positivamente a livello internazionale, e ciò ha contribuito a far sì che
la pasta si conciliasse ai nuovi valori della salute e dell’efficienza fisica. Anche la tendenza al light eating riesce a
conciliarsi con la pasta, piuttosto viene messo da parte il secondo piatto.
Nel settore delle auto invece, sono noti i casi riguardanti le utilitarie e i SUV, che in un momento in cui il mercato delle
auto stava volgendo verso un “nulla di nuovo” proponevano un fuoristrada pieno di comfort. Anche la moto ha conosciuto
un enorme successo, facendosi emblema dell’uomo libero, comune denominatore di molti consumatori. In un periodo

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dove lo sport dilaga, è inoltre quasi considerata una pratica sportiva. Il tutto reso iconico da film come Easy Rider o Il
selvaggio, con Marlon Brando. In questi anni si è ridimensionato lo stereoti9po del motociclista come poco di buono, anzi
è visto come coraggioso. Inoltre, l’estetica della moto è ormai un simbolo culturale dei nostri tempi.
Nulla come i jeans è stato segno e comunicazione sapendo nel contempo evolvere i linguaggi del contesto storico. I
jeans sono scampati a tantissimi cambiamenti di mode e simbolismi. Hanno rappresentato il primato del tempo libero, la
centralità della classe operaia, il liberalismo sessuale, la contrapposizione a tutti i codici legati al vestiario, l’affermazione
della generation gap e molto altro. I jeans in certi locali che volevano mantenere vibes borghesi erano vietati, poi sono
diventati di moda ecc.

In un mercato maturo, che si avvia alla saturazione in gran parte dei suoi comparti, i bisogni lasciano lentamente spazio
ai desideri. I bisogni che il mercato può saturare, nella postmodernità, sono stati soddisfatti ormai in larga misura, o sono
in via di esserlo. Sono ora protagonisti i desideri, spesso gli stati d’animo che sono meno prevedibili, più duttili e più
facilmente fungibili. Nei mercati della postmodernità la competizione fra imprese si sviluppa a 360°. Un desiderio,
disancorato da un bisogno specifico, può essere sviluppato in molte maniere diverse. Rinviare l’espressione di un
desiderio è per un consumatore un piccolo sacrificio, ma un peso per il venditore. È l’area del desiderio (want) e non del
bisogno (need) a cui bisogna rapportarsi per dialogare con il consumatore postmoderno. L’aumento demografico e del
tenore di vita ha portato a una democratizzazione dei consumi, che ha interessato le più diverse tipologie di prodotti, ha
indotto un’evoluzione costante dei mercati. Si era così generata la convinzione che tale tendenza fosse irreversibile e
destinata a durare per sempre, ma non era così. I consumi attuali sono quasi tutti di sostituzione. La progressione da
parte di un’impresa nelle quote di mercato avviene quasi sempre a discapito di competitors. Rispetto a quando erano tutti
i settori a registrare continui incrementi, ora si tratterà con tutta probabilità di casi isolati.

Nel mercato postmoderno c’è spazio anche per le emozioni. Dapprima, per via della cultura misogina di merda in cui
eravamo, erano considerate solo “femminili”, quindi qualcosa da cui diffidare. Se un uomo le esprimeva, piangendo, ad
esempio, era da censurare. Negli anni la parità di genere ha portato a dei cambiamenti su questo frangente. Non è che
prima le emozioni non fossero considerate, ma erano una sorta di lusso, a cui andavano anteposte lucidità e razionalità.
Gran parte della problematica degli acquisti di lusso è legata appunto all’impulsività. Il legame tra emozioni e commercio
è in continua analisi. Le emozioni si differenziano dai sentimenti per il loro carattere non duraturo. Il sentimento
rappresenta la componente affettiva di un atteggiamento. Posso emozionarmi osservando la pubblicità di Levi’s e
l’emozione scompare con la fine di essa, mentre l’affezionarsi a una marca per svariate ragioni è altro rispetto a ciò. È
possibile attribuire lo stesso nome a un’emozione o a un sentimento: posso provare infatti un’emozione improvvisa e
piacevole ma anche accorgermi di come un sentimento di piacere caratterizzi un certo periodo della mia vita. Le Passioni
si distinguono dai sentimenti per la forza e la potenza con cui si manifestano. Comunque, emozioni, sentimenti, passioni,
fanno riferimento all’emisfero destro del cervello e si contrappongono al lucido raziocinio del consumatore che ci ha
descritto il pensiero economico. Ragione ed emozioni interagiscono in ogni nostra scelta, in realtà. Nell’era postmoderna
c’è uno shift dalla parte sinistra del cervello a quella destra, emotiva, intuitiva, che va a bilanciare il ruolo che l’emisfero
sinistro ha sempre avuto nella cultura occidentale.
C’è un vero e proprio protagonismo delle emozioni nel vivere sociale su tutti i fronti.
Il linguaggio delle emozioni parla al cuore più che alla mente, ai sentimenti più che alla ragione. La marca deve essere in
grado di flirtare con il mondo magico delle emozioni. Per ottenere un feedback forte dal consumatore deve poter creare
delle vibrazioni, un mood positivo, esprimere un linguaggio che parli alla globalità dei sensi. Una marca può essere
oggettivamente bella, memorabile, riconoscibile, ma non suscitare nessuna emozione che catalizzi l’interesse del
consumatore. Risultare così afona e poco attraente. Ogni marca deve trovare la propria vocazione e specifico.

Il comportamento del consumatore postmoderno appare sempre più imprevedibile. Ci sono sempre più incoerenze che
caratterizzano l’agire di consumo. Sempre più numerose sono le incoerenze, le contraddizioni che caratterizzano l’agire
di consumo. La crescente infedeltà alla marca, la nascita del marketing relazionale, la centralità della customer
satisfaction sono solo alcuni riflessi di questo nuovo scenario. È in atto un importante cambiamento nei paradigmi del
vivere sociale. I paradigmi sono convinzioni largamente diffuse, profondamente interiorizzate, trasmesse univocamente
dalle agenzie di socializzazione. Il paradigma è una sorta di paio di occhiali che indossiamo collettivamente: fornisce
certezze e, insieme, criteri di valutazione comuni. Qualcosa di simile alla funzione che svolgono le leggi per le scienze
esatte. Si predilige la ricchezza di significati alla linearità di essi. Se una volta regnava il paradigma della coerenza, ora
non è più così (uno con Mercedes non va a fare la spesa al discount, un cattolico non si interessa all’eros). Ora
interpretiamo molteplici ruoli sociali che possono essere contraddittori. Il case by case approach appare sostituire la
certezza ma anche la rigidità di chi aveva le soluzioni sempre a portata di mano. Nascono nuove regole che cambiano la
connettività dei nostri comportamenti. Quelle che una volta apparivano come contraddizione momentanee stanno
diventando la regola. La nostra società ci permette di avere una molteplicità di identità pluricentriche, molo legate a
hobby, ideologie e quant’altro. Abbiamo molteplici maschere. C’è quello che viene chiamato Cherry Picking, scegliamo
materiale di alta qualità in alcuni settori, e merci più dimesse per altri per cui non esistono sostantive differenze
qualitative.
L’ampiezza della gamma di beni con cui potersi esprimere genera una singolare nemesi. Diviene un catalogo di identità,
un dizionario di merci così voluminoso che rischia di diventare inconsultabile. C’è un imprevisto disorientamento a fronte
del moltiplicarsi di beni e servizi. L’iperscelta a disposizione del consumatore postmoderno valorizza il suo ruolo, e
accresce la sua autostima, ma si trasforma anche in disinformazione. C’è un continuo interesse verso le alternative
d’acquisto. La globalizzazione dei mercati ha indotto un continuo afflusso di prodotti in precedenza sconosciuti, ma anche
nei settori più tradizionali si è verificato un forte ampliamento dell’offerta. Nel mondo degli yogurt, ad esempio, ci sono
stati dei progressi (yogurt a più gusti, yogurt con batteri particolari) che sono stati oscurati dalla presenza di troppi yogurt
sul mercato. Ipermercati, discount, stocchisti, dilatano a dismisura la gamma dell’offerta. L’istanza di maggiore autonomia
ha indotto il consmatore ad aggirarsi fuori dal paniere delle grandi marche. La marca costituisce sempre il benchmark

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della qualità ma si considerano anche le alternative, tra cui le private labels, i generics, i primi prezzi. Pare quindi che
nell’universo delle merci non si riesca più a primeggiare.

Nel secolo scorso si è creato un ottimismo di fondo che supportava l’idea che il futuro ci avrebbe riservato tempi migliori,
il livello dei redditi appariva destinato a crescere nel tempo. Il livello dei consumi sarebbe stato destinato a crescere, era
una sorta di certezza messianica. Ora l’obiettivo pare più quello di mantenere lo status quo e le aspettative più
decrescenti. Così come la tradizionale sequenza dell’economia prosperità-recessione-depressione-ripresa si sviluppa in
tempi lunghi, poco o affatto influenzata dalle singole congiunture, così le aspettative del consumatore.

I consumatori ora non sono più ingenui. Sono autonomi, critici ma dialettici, vuole un dialogo con chi produce. Sono
competenti, poiché conoscono al meglio le proprie scelte di consumo, la provenienza delle materie prime e le
sfaccettature della qualità. Si parla di consumatori esigenti, la qualità è pretesa più che mai, sono inoltre selettivi,
capiscono che non è tutto oro ciò che luccica. Il consumatore è orientato in senso olistico, coinvolge più dimensioni nella
sua scelta del prodotto, poiché il consumo è ormai diventato un meta linguaggio di straordinaria importanza con cui si
comunica ed esprime la nostra identità. È poi disincantato, sa talvolta dimostrare il necessario distacco, non prende tutto
così sul serio. È poi difficile da accontentare.

La soddisfazione del consumatore rappresenta una nuova frontiera di grande complessità per l’impresa ed
assolutamente cruciale ai fini della sua redditività. L’attenzione al cliente è un indicatore attendibile per valutare la qualità
di un’impresa, il suo stato di salute, gli andamenti futuri. La produttività misura la quantità, una dimensione ormai già
inadeguata a dar conto delle performance di un’economia evoluta. L’attenzione al consumatore si è rapidamente estesa
con le imprese più piccole, al limite dell’artigianalità. Nata nelle imprese private troverà una particolare applicazione nel
settore pubblico dove l’assenza dei criteri tradizionali di redditività le assegna un rilievo tutto particolare. Soddisfazione
del consumatore vuol dire assicurarsi consumatori fedeli, valorizzare il patrimonio più prezioso di cui l’impresa dispone: la
propria clientela. Acquisire un nuovo cliente è più oneroso che mantenerne uno già acquisito. Un consumatore fedele
spende mediamente di più, è incline ad acquistare altri prodotti della stessa azienda. È meno sensibile al prezzo. Ci sono
poi diversi modi per assicurarsi la fedeltà di un cliente, ma si tratta di barriere effimere, clonabili. Se infrante l’impresa
diviene estremamente vulnerabile. L’obiettivo “difetti zero” che ha segnato un’epoca del lungo iter verso la qualità non ha
prodotto una clientela più soddisfatta. È solo il consumatore il vero arbitro.

L’aspetto più innovativo, nella relazione con il consumatore, sta nella presa di consapevolezza che la fedeltà alla marca
stia divenendo un rilevante fattore strategico. Una fedeltà che si conquista soddisfacendo nel modo più compiuto
possibile le aspettative del consumatore. Progressi più significativi si riscontrano per i prodotti di nicchia, e, in genere, per
l’alto valore aggiunto. La grande rete, che pure renderebbe praticabile un rapporto personalizzato con il consumatore,
viene perlopiù utilizzata come vetrina che aggiunge un modesto surplus di servizio (si vede che il libro è datato, alla
faccia del surplus).

Il compito più importante è mantenere prodotti e servizi in costante sintonia con l’evoluzione e le esigenze del
consumatore. Una sintonia che, essendo il consumatore un soggetto storico, è in continua mutazione. Sottovalutare
questa attività costante di fine tuning è negligenza, imputabile solo ad ignoranza. Solo riuscendo a prevedere i trend essi
si possono cavalcare. Tanti anni fa erano diffuse pubblicità maciste e sessiste, ciò si è andato lentamente sgretolando
grazie al cielo. Fine tuning significa procedere a correzioni millimetriche, ma costanti, della manopola del sintonizzatore
per mantenere la giusta lunghezza d’onda. Perché il consumatore, talvolta impercettibilmente, o con improvvise
accelerazioni, è in costante evoluzione. Seguire con grande attenzione questa evoluzione non rappresenta più
un’opzione ma una regola di sopravvivenza. Coca Cola e Levi’s hanno avuto la capacità di mantenere il dialogo inalterato
negli anni, restando in sintonia con un consumatore che cambia. Sempre con l’umiltà del mettersi in discussione. Come
può una marca mutare costantemente senza perdere la propria fisionomia? A livello tecnologico cerca di incorporare
nuove tecnologie, come nel caso di Gillette. Talvolta anche le Barbie hanno adottato l’elettronica. L’area prevalente
rimane sul fronte della comunicazione. I significati della marca, i suoi core values, devono restare invariati, pena la
perdita della propria identità. Una marca può non intervenire sui valori basici, facendolo su quelli periferici.

Spesso le pubblicità dei detersivi sono quelle che hanno toppato maggiormente con questo concetto, proponendo
continuamente una donna dedita alla missione del bucato, del bianco a tutti i costi. Si sono persi i valori della corporate e
della marca. Si è ignorato il fine tuning con il consumatore, con le nuove sensibilità emergenti, anche con quelle
ecologiche.

Si temeva un blocco dell’economia dopo l’11 settembre, che non c’è stato. Non c’è stato nessun cambio epocale. Se ci
sono dei cambiamenti, può essere il legame qualità-prezzo che risulta più interessante.

Più redditizi dei prodotti best-seller ci sono i long seller, che vengono venduti senza soluzione di continuità negli anni.
Sono il settore detto basic, o classic. Il modo in cui certi prodotti diventato ciò è totalmente casuale. Sono certamente
prodotti che esistono da talmente tanto da generare venerazione, prodotti quindi di culto. La loro esistenza trascende il
ciclo di vita di un prodotto. Film come Casablanca, libri come Siddharta o dischi come Sgt. Pepper’s non occupano mai i
primi posti nelle classifiche settimanale, ci si accorge poi a fine anno che hanno sopravanzato molti best-seller. Ciò
accade ininterrottamente per moltissimi anni. Non c’è un settore di consumo dove non ci siano prodotti di culto. I prodotti
di culto non conferiscono prestigio a chi li possiede. Non sono mai di moda né conferiscono patenti di attualità culturale.
Hanno una collocazione diversa nella semiosfera rispetto ai prodotti di successo. Ci sono romanzi che esplodono,
diventano best-seller e spariscono, altri non vivono mai il boom ma entrano a far parte dei classici. Il prodotto non esce
dal mercato per diventare un oggetto da collezione. Il rapporto con i consumatori deve essere costante, rinnovato,
altrimenti l’oggetto diventa da collezione e smette di essere un classico. Si parla di prodotti con una buona qualità a livello

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di performance. Hanno una storia alle spalle che attinge alla saga delle leggende. Il rapporto che hanno con i
consumatori si caratterizza per la fortissima componente emotiva e un’intensa caratterizzazione affettiva. Sono prodotti
usati con particolare rispetto. Il trascorrere del tempo determina la sacralità di un prodotto.

Nutella è l’emblema di ciò, ha cambiato il legame tra italiani e cioccolato e rappresenta l’Italia nel mondo.

I termini usati nei decenni scorsi in termini di consumo non sempre sono i più adatti. Molti termini hanno perso il loro
significato originario. Si è verificata un’usura semantica. Moda, ad esempio, viene usato per parlare di ciò che è in voga
tra segmenti ristretti, tra cui i più giovani, i fashion addicted, da cui prendere le distanze. Moda diventa sinonimo di
abbigliamento culturalmente attuale. Oggi il casual ha tante variazioni nel significato, da sportivo, a tecnico-sportivo, a
friday wear e via dicendo. Ciò va ad oscurare certi segmenti o nicchie di mercato che pure esprimono una domanda
omogenea che rischia di non essere colta perché un lessico non riesce a qualificarla. Anche “consumatore” è impreciso e
riduttivo. Dal momento in cui i servizi prendono parte sempre più alla società, il termine più adatto potrebbe essere
“utente”. Il termino bisogno, impellente stato di privazione, potrebbe essere sostituito talvolta con desiderio, dipende dai
casi. Altri termini sono così polisemici da non riuscire più a dar conto dei fenomeni che dovrebbero descrivere.

3. TRA CYBERSPAZIO E GLOBALIZZAZIONE

L’era della modernità segnata dal primato della ragione e dal forte impulso delle forze produttive, dove il tempo è
velocizzato e lo spazio rallenta, sta giungendo alla sua conclusione. L’emergere di un nuovo modello tecnologico,
incentrato sulle tecnologie dell’informazione, ha influito sulla rapida precipitazione di una complessa serie di fattori che
erano andati a confliggere con il vecchio paradigma; ha esercitato una sorta di funzione maieutica nei confronti di
fermenti distonici che esistevano a livello latente; ha creato le basi materiali perché un mosaico di tendenze
disorganizzate prendessero corpo, trovasse cioè un comune ubi consistam per sfociare nel nuovo paradigma della
postmodernità. Che la rete costituisse ormai una struttura economica e sociale ampiamente diffusa e condivisa anche
all’interno della cultura della modernità è un dato di fatto, ma solo con l’avvento della grande rete il networking trova i
presupposti tecnologici per divenire il contrassegno più vistoso della postmodernità. La delocalizzazione produttiva porta
a dare vita a una produzione più specializzata ed ecocompatibile; produzione e assemblaggio appartengono ai paesi
dove la forza-lavoro ha un costo nettamente inferiore con un rigido controllo di qualità. Nuove comunità virtuali
subentrano a quelle che si cementavano sulla prossimità spaziale. Esiste lo shopping online, la customizzazione degli
acquisti. L’unica organizzazione capace di una crescita non orientata o di un apprendimento non guidato a priori è la
Rete, una proliferazione a rete è tutta bordi e, pertanto, aperta. Sistemi inoltre come lo scanner o la fidelity card
permettono di far parlare una quantità sostanziale di dati sul consumatore e sui suoi modelli di consumo, con una
precisione assoluta. Nella rete, anche i concetti a cui si attribuisce una semplicità intuitiva cambiano contenuto. Spazio e
tempo sono tutt’altro che categorie oggettive, determinate a priori ed immutabili: sono innanzitutto categorie storiche e
sociali. Il tempo ha scansioni ben diverse che in una società gestita dai ritmi dell’orologio. La rivoluzione in atto nelle
tecnologie dell’informazione infrange vistosamente le percezioni che avevamo ereditato dello spazio e del tempo. La
simultaneità, il sincronico, l’atemporale, diventano i nuovi paradigmi del tempo superando la logica del just in time ai
tempi della modernità. Con internet tantissime azioni che prima richiedevano più tempo si possono fare da casa propria in
pochi minuti. Il consumatore può comprare e dialogare con chi produce 24 ore su 24. Il consumatore è poi molto
cambiato, non è più passivo rispetto all’industria. Le sue aspettative rispetto alle imprese si è molto elevato. Il
consumatore vuole vivere tutto da co-protagonista. I rapporti tra produttore e consumatore arrivano ad essere face-to-
face. Internet è uno dei luoghi dove può emergere anche la faccia nascosta degli oggetti. L’azienda può ora intessere un
legame ricco ed articolato con la sua utenza, non è più un monologo. Il rapporto è quindi davvero one-to-one. Il
consumatore può operare uno screeening per raggiungere quei prodotti che più lo interessano. Creandosi una rete, il
consumatore ha modo per avere dapprima dei feedback sul prodotto. Il rapporto cliente-azienda assomiglia a quello
business-to-business, con rispetto e fiducia reciproca.

L’era del cyberconsumatore segna il passaggio da un sistema di produzione-centrico a uno copernicano, dove il
consumatore è al centro del sistema. Se chi produce e vende non prenderà rapidamente consapevolezza di internet, del
commercio elettronico, delle transazioni on line, si genererà un pericoloso effetto di spiazzamento per molti degli attuali
protagonisti dei mercati. È cambiato dapprima il fronte della distribuzione, dove le incisive trasformazioni in atto
nell’apparato distributivo hanno incisivamente ridimensionato il potere dei produttori. Sempre meno il prezzo viene
considerato come un dato, il consumatore ha elaborato negli anni una complessa strategia di shopping che ha fatto sì
che anche le marche più titolate hanno dovuto venire a patti sul fronte dei prezzi, con conseguenze non indolori per le
imprese. Grazie a Internet si è intensificato appunto il confronto sui prezzi, dove gli stessi consumatori si aiutano a
vicenda. Le lamentele su internet si espandono davvero velocemente. Il consumatore degli anni a venire: intende
riscattarsi dell’anonimato che ha verso i produttori, rappresenta un consumatore globale, figlio del mondo, è
avanguardista, manifesta un forte orientamento all’autonomia, non ha bisogno dell’assistenza di un commesso, è
sensibile al rapporto qualità-prezzo, ricerca attivamente le informazioni per i prodotti a cui è interessato andando oltre
l’offerta abituale. Esige infine alti standard di servizio, pretende una relazione two-way, dove può dare feedback al
produttore. L’e-consumatore pensa che acquistando in rete risparmierà tempo e denaro, avendo accesso a opportunità di
shopping non sempre altrimenti praticabili. L’immaterialità inoltre delle transazioni online presuppone un totale credito di
fiducia verso chi vende che deve sempre dimostrarsi all’altezza. Ci sono delle sezioni in ogni sito di nome FAQ, che
rispondono a domande stereotipate. Il consumatore è allontanato dalla non risposta o risposta insufficiente alle domande
rivolte, alla mancata possibilità di pagare online, dai blocchi alla dogana. Un imperativo del commercio on line è la
conoscenza analitica dell’e-consumatore raccogliendo tutte le informazioni che consentono di servirlo al meglio
anticipando anche i suoi bisogni.

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Anche la Rete ha i suoi Apocalittici ed Integrati. Qualcuno pensa che ne verrà fuori un popolo di mega-informati, altri
pensano che porti a un’estrema solitudine. L’user friendliness è ora vitale, risponde alla richiesta sempre maggiore di
servizi. Il libro lamenta la lentezza dei collegamenti virtuali e si vede che è un po’ datato. Basta navigare appena un po’
per imbattersi in siti che presentano una ricca casistica di come non si dovrebbe costruire un sito. Un sito deve esprimere
un orientamento autocentrico ed una minore sensibilità alle esigenze e ai bisogni dell’utenza. Deve essere molto chiaro,
presentarsi con una bella vetrina. I linguaggi vengono concepiti nella logica dell’ipertesto, e devono portare a evidenziare
positivamente il prodotto o il servizio proposto al pubblico. Un sito deve essere costantemente aggiornato. Magari con
l’indicazione esplicita della data dell’ultimo aggiornamento. I siti polverosi e con dati superati sono terribili. Non è male
nemmeno un contatore delle visite all’interno del sito, con un sistema di ricerca e l’estrema interattività. Numeri verdi ed
e-mail sono un buon compromesso. I siti delle marche sono considerati dispersivi e autoreferenziali, un prolungamento di
ciò che puoi vedere in negozio.

Si è parlato qualche anno fa di e-brand, in poco tempo si è imposto in molti mercati. Protagoniste sono le marche che
operano solo online, ma la presenza della marca nei canali virtuali interessa un numero crescente di imprese tradizionali,
cresciute offline, che cominciano a muovere i primi passi nell’internet. O considerano il web alla stregua di una vetrina.
Oltre all’avere un buon sito, bisogna anche sapersi far trovare, se non si persegue un’efficace strategia di comunicazione
la presenza in Internet risulta seriamente compromessa. Le probabilità che il consumatore si imbatta nel sito divengono
remote. Una forte erogazione di servizio dovrebbe garantire la presenza della marca sul web. Le marche troppo spesso
entrano in Rete senza porsi con chiarezza gli obiettivi da conseguire, senza conoscere il target che raggiungeranno e
finendo per indulgere in modalità autocelebrative.

Il villaggio globale è ormai qualcosa di più di una metafora di un mondo dove i grandi mezzi di comunicazione di massa e
più recentemente Internet contraggono drasticamente distanze e diversità culturali per riproporci la contiguità del tempo.
Le due grandi emergenze dei nostri tempi, l’irrompere del mondo web ed i processi di globalizzazione dell’economia,
confluiscono nel generare una circolazione sempre più intensa di beni e servizi; a ridefinire una realtà come quella del
tempo e spazio che pareva come un dato; a plasmare sempre più in profondità atteggiamenti e modelli di consumo. Gli
effetti della globalizzazione erano noti prima che questo termine entrasse in uso. Lentamente anche il terzo mondo potrà
accedere alla tecnologia, tramite le reti della produzione internazionale. La globalizzazione è un fenomeno irreversibile,
che non rappresenta né la fine della politica, né la fine della sovranità dei singoli Paesi, bensì un loro superamento. Un
tempo si parlava di complementarietà delle economie nelle diverse Nazioni, per cui ciascun Paese, a seconda delle
proprie specificità esporta ciò che è più congeniale ed importa ciò che può essere più convenientemente prodotto da altri.

La globalizzazione, come la intendiamo attualmente, di fatto inizia con la creazione di una rete di imprese mediante
rapporti contrattuali che subappaltano componenti di rilievo della filiera ad imprese locali nei Paesi di insediamento. Paesi
che guardano adesso, con estremo favore, questo processo di delocalizzazione produttiva e di trasferimento di risorse e
tecnologie dimenticando le recenti accuse di sfruttamento alle multinazionali. L’OCSE definisce asetticamente la
globalizzazione come “un processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi Paesi diventano sempre più dipendenti
tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi e attraverso i movimenti di capitale e di tecnologia. Oggi,
nell’economia globale, tutto può essere venduto e prodotto in ogni parte del mondo.
La globalizzazione si espande a ritmi sempre più sostenuti ed incontrollati. La risposta non può di certo essere la
regressione autarchica, il protezionismo nazionalista, ma la ricerca di regole. Richiedere quindi forme sopranazionali di
controllo politico, l’adozione di regole di comportamento valide in tutti i Paesi ed accreditare organi che ne verifichino un
effettivo rispetto; una maggiore perequazione nei salari non intacca certo, ma contribuisce a democratizzare, il processo
di globalizzazione.

Un tempo la prassi era l’esportazione dei prodotti. Il trasferimento dai paesi di origine. La tendenza è ora quella di
adattare prodotti e marche al nuovo contesto culturale in cui andranno a diffondersi. I gusti e le preferenze dei segmenti
maggioritari della popolazione sono il frutto della storia, di consuetudini che si perdono nella notte dei tempi. E la storia è
stata estremamente diversa nei Paesi dell’Unione. Come è un’astrazione il consumatore europeo, così è l’ipotesi di un
futuro che veda l’impetuoso crescere di prodotti e marche che contribuiscano ad un’unificazione culturale e taglino
trasversalmente le Nazioni. Almeno non in maniera apprezzabilmente diversa di quanto non si registrerà a livello
planetario e di quanto non abbiano prodotto le grandi imprese globali.
Anche se i trend emergenti appaiono orientati alla riscoperta di modelli, stilemi, scelte tradizionali, sta comunque
prendendo consistenza, praticamente in tutti i settori merceologici, un esteso pattern di comportamenti di consumo
comuni. Un modello omogeneo, che taglia trasversalmente Paesi e Continenti. Un comun denominatore che unifica
culture per altri aspetti profondamente diverse. Una sorta di standard package che travalica le frontiere. Se la tendenza,
anche nell’alimentare, è da ravvisare nella riscoperta dei prodotti autoctoni, il vero fenomeno di massa è
l’istituzionalizzarsi di un menù che si riscontra con poche varianti quasi ovunque. Per quanto strano possa apparire,
questi alimenti finiscono per radicarsi sino a tal punto nelle singole realtà da essere scambiati poi per tipici di quella
cultura. Gli elementi di novità nell’affermazione di questa nuova realtà non riguardano l’élite della popolazione, si tratta di
comportamenti collettivi che hanno da tempo superato i limiti della nicchia e che vengono adottati da grandi masse di
popolazione. Questo nuovo modello si affianca alle più tradizionali scelte alimentari che rappresentano il vero zoccolo
duro di molti paesi fra cui il nostro. In alcuni settori la comparsa di modelli di consumo omogenei a livello transnazionale
ha coinvolto anche le marche: si pensi a tutto il comparto delle bevande analcoliche dove le stesse marche sono leader e
diffuse in tutto il mondo. In altri, invece, sono alimenti unbranded ad entrare nella lista della spesa del consumatore
globale.

Non dobbiamo farci trarre in inganno dalle strategie di globalizzazione che caratterizzano le megabrands a cui facciamo
di solito riferimento quando si parla dei protagonisti dei mercati mondiali. Si tratta di un numero relativamente ristretto di
marchi, che hanno potuto imporre, a livello planetario, uniformità di comportamenti, di valori, di percezione della propria

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immagine che sarà difficile replicare in futuro. L’orientamento a venire sarà sempre più glocal (globale + locale), dove
esportazione e diffusione delle merci e del marchio si coniugano con le esigenze e le culture dei singoli paesi. È probabile
che recenti insuccessi dei grandi marchi a livello locale siano imputabili proprio alla scarsa sensibilità alle realtà locali in
cui intendevano diffondersi. L’era dell’esportazione della marca volge al tramonto per lasciare invece il campo all’epoca
della traduzione culturale della marca. Si va concludendo una stagione in cui la marca esportava insieme ai suoi prodotti
l’intero patrimonio dei suoi significati, valori, codici, segni che la caratterizzano sui suoi mercati originari. Se la merce può
essere asportata, la marca deve essere tradotta. La marca deve conservare una propria identità e fisionomia,
adattandola costantemente alle culture locali. Essa deve rinunciare alle velleità di proporsi in termini monolitici, ignorando
la dialettica sociale con i Paesi e le culture cui intende diffondersi. L’identità di fondo della marca non può essere messa
in discussione soprattutto a fronte del nuovo consumatore cosmopolita, socialmente mobile e cybernauta che non può
certo esser esposto ad opzioni molto diverso o contraddittorie. Il progetto di imporre ovunque una propria visione del
mondo e della vita è ormai tramontata.

Il nostro paese, ha avuto la storica peculiarità della permanenza di una cultura antindustriale, permeata dalla diffidenza/
demonizzazione del mercato. Una ideologia a cui le due subculture a lungo egemoni nel nostro Paese (cattolica e
marxista) hanno fornito un potente appoggio e legittimazione. È stato incisivo il processo di modernizzazione degli ultimi
anni, il crollo globale delle ideologie ha generato una diffusa accettazione della struttura capitalistica del mercato, del
consumo come meta socialmente condivisa, come strumento di integrazione sociale. Da un lato quindi il ricordo ancora
vivo di una ideologia con molti punti in comune con l’attuale movimento antiglobalizzazione che potrebbe costituire un
fertile terreno di coltura. Dall’altro l’ipotesi opposta, assai più probabile. Un passato durato troppo a lungo può aver
generato un potente anticorpo. Una sorta di sindrome da “abbiamo già dato”.
Manifestare contro la globalizzazione è chiaramente un non senso. Del tutto condivisibile è invece la richiesta di una
governance dei processi di globalizzazione, in presenza di deboli strutture politiche sopranazionali, che non possono
essere lasciate ai singoli Stati o alle grandi imprese. La cultura della voluntary simplicity è sempre stata un fenomeno di
nicchia e come tale resterà. I prodotti espressione del commercio “equo e solidale” forse otterranno maggiore visibilità,
ma a meno che non siano incoraggiati da grandi imprese e quindi sponsorizzati saranno marginali. Anche l’attaccamento
alla marca (che ha il suo Manifesto nel best seller di Naomi Klein No Logo) è destinato più a stabilire limiti e regole al suo
operare che a generare un clima sociale ad essa sfavorevole.

4. IL MAINSTREAM DELL'INDIVIDUALISMO: SIGNIFICATO E IMPLICAZIONI

Il lungo iter dell’emancipazione dell’individuo dalle costrizioni esterne ha assunto storicamente modalità molto diverse: ha
inizio con il Rinascimento e subisce poi una forte accelerazione durante l’illuminismo e il Romanticismo, sta in questi anni
manifestandosi con grande chiarezza anche nei consumi. Si realizza un salto in avanti dell’ideologia individualista: il
diritto alla libertà, in teoria illimitato ma fino ad ora socialmente circoscritto all’economia, alla politica, al sapere guadagna
adesso i consumi e il quotidiano.
Le modalità con cui la tendenza alla soggettività si esprime ha dato luogo a due principali percorsi, molto differenti tra
loro. Quello che definiamo più propriamente dell’individualismo, è l’”other directed”. Centrato egoisticamente sul proprio
interesse e benessere personale, sul culto ipertrofico della personalità, dove la massimizzazione del proprio vantaggio è
spesso contrapposta all’interesse collettivo e che trova nei consumi e nella centralità del corpo il più significativo ubi
consistam.
All’insegna del rifiuto del conformismo e dei condizionamenti sociali, proteso alla propria crescita personale,
all’espressione del sé e all’autorealizzazione, intesa anche come ricerca di relazioni con maggiore spessore.
L’orientamento a vivere senza dipendere da modelli uniformi e stereotipati imposti dai ruoli sociali.
Per Hirschman la delusione gioca un ruolo centrale nel suo sistema: “il mondo che tento di comprendere in questo saggio
è quello in cui gli uomini pensano di desiderare una cosa e, ottenendola, scoprono con costernazione di non desiderarla
affatto quanto pensavano o di non desiderarla per nulla. Ciò che desiderano realmente è qualcos’altro di cui erano ben
poco coscienti”. La delusione in un’area, quella privata o pubblica, genera interesse per l’attività che direttamente le si
oppone. In particolare, le esperienze di consumo insieme alla soddisfazione arrecherebbero insoddisfazione e delusione:
mentre infatti per i beni che perdono la loro forma fisica, vengono cioè distrutti, l’esperienza di consumo si rivelerebbe
ricca di piacere e resistente alla delusione, nel caso dei beni durevoli e dei servizi la delusione sarebbe quasi costante.
Ma più in generale sarebbe l’alienazione ideologica connessa al consumismo (ricerca della felicità nell’accumulare beni)
a generare la profonda insoddisfazione nei confronti dell’opzione esistenziale prescelta. Se, quindi, esperienze importanti
di consumo privato si sono lasciate indietro, malgrado le speranze, una traccia di delusione e di frustrazione, e se è
disponibile per il consumatore deluso una “ricerca di felicità” completamente diversa, cioè l’azione politica, è probabile
che in qualche occasione favorevole questa ricerca venga intrapresa”.
Il mainstream nell’ultimo decennio è da individuarsi nella crescente presa di distanza dell’area del sociale per approdare
nell’area presidiata dal massimo interesse per le dimensioni del privato. L’autonomia dell’individuo si manifesta
prevalentemente attraverso il processo di secolarizzazione di destituzione di valore da aspetti rituali e comunitari e la
forte enfasi sull’affermazione della propria potenza individuale, per riprendere un’espressione cara a Nietzsche.
Potrebbe essere consistente l’ipotesi che sia stata proprio la società della modernità che abbia svuotato le relazioni
sociali di ogni contenuto reale (solitudine gregaria). Negli U.S.A. non si è mai conosciuta un’ondata di antindividualismo e
la forte enfasi sulla soggettività è sempre stata il risvolto, a livello individuale, del liberalismo economico. Ciò che è
collettivo invece pare soffocare la libertà dell’individuo, che deve sottrarsi all’imposizione degli altri e cercare le proprie
strade rivendicando la sua assoluta sovranità. Una sorte di “filosofia del godimento immediato” di orientamento al carpe
diem appare come la struttura latente che unifica i nuovi modelli di consumo. “L’unica possibilità attraverso la quale
l’uomo individua il suo consumo”. In questa maggiore autonomia si esprime un forte goodwill per il consumo rivendicando
soltanto una maggiore libertà di scelta. La postmodernità in realtà è anche un’armonia tra contrari, una coincidentia
oppositorum d’antica memoria.

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Che la tendenza all’individualismo trovi la più fedele traduzione nella ricerca del piacere è emblematico del clima
socioculturale degli anni Ottanta, veniva dispregiativamente chiamato edonismo reganiano, ancora oggi in continua
espansione. Il dovere, il sacrificio, la sopportazione, la rinuncia come grandi valori della vita appaiono come il retaggio
ormai sfumato di un tempo lontano. Tutto ciò che potesse procurare piacere era colpito da interdizione morale. Si
attribuiva alla sofferenza la capacità di formare il carattere degli individui. Al benessere si poteva aspirare ma solo
attraverso la sofferenza e il sacrificio. La censura del piacere è stata funzionale ai fenomeni di morigeratezza e di
risparmio che consentono quei processi di accumulazione primitiva che daranno vita al moderno capitalismo. L’etica
calvinista condanna l’edonismo come il peggiore dei mali e l’ascesi mondana si realizza soltanto attraverso il
conseguimento delle ricchezze, da accumulare e non da spendere. La promozione dell’edonismo e l’interesse per il
consumo coincidono per il nostro autore con l’avvento del Romanticismo, un periodo in cui prende corpo un’etica
sottostante il consumo, proprio come esiste un’etica sottostante la produzione. Se la produzione può essere ricondotta
all’etica protestante, il consumo può essere ricondotto all’etica romantica. L’edonismo, il più emblematico tra i trend che
generano il mainstream che abbiamo appena richiamato, si declina nella tendenza al rifiuto della sofferenza fisica e
psichica, nel perseguire stati di benessere e di felicità. La ricerca di gratificazioni immediate, di sensazioni piacevoli, di
appagamento fisico, di stati di felicità corporea, di una buona vita, costituisce ormai la struttura latente, ma anche una
costante, degli orientamenti all’azione di segmenti sempre più ampi della popolazione.
Il moderno consumatore non può sfuggire all’obbligo della felicità e del piacere che, nella nuova concezione dell’etica,
rappresenta l’equivalente della tradizionale costrizione al lavoro e alla produzione. Deve essere costantemente pronto a
realizzare tutte le sue potenzialità, tutta la sua capacità di consumare. Freud aveva individuato nel principio del piacere
una delle pulsioni fondamentali dell’individuo che caratterizzerebbe la fase neonatale: ma il principio del piacere, se non
controllato e canalizzato, avrebbe effetti devastanti sulla società.
Il piacere tradizionale è legato alla soddisfazione di attività specifiche: mangiare, dormire, sesso ecc. Il piacere, secondo
l’edonismo tradizionale, può essere raggiunto solo tramite determinate esperienze; il piacere dell’edonismo postmoderno
può essere provato compiendone d’ogni sorta. Lo spostamento di essi dal desiderio di ciò che si era precedentemente
sperimentato al piacere del nuovo, dell’inedito. Nell’edonismo moderno il ruolo dell’immaginazione e del fantasmatico. Ha
un rilievo spesso prevalente rispetto alla fisicità del piacere.
La sessualità costituisce un buon esempio della transazione del concetto di piacere. Un tempo del tutto genitalizzata e
finalizzata all’orgasmo, va ora estendendosi alle zone erogene e le stimolazioni sensoriali sino a farle coincidere con gran
parte del corpo e non soltanto con l’aria genitale. I preliminari divengono protagonisti.
Il bisogno è antiomostatico, nasce da uno stato di squilibrio psicologico, da un’assenza, una necessità. Il bisogno resta
autoreferenziale. Il piacere invece non tende a restaurare uno stato precedente di squilibrio, non tende all’omeostasi ma
alla ricerca di stimoli che produrranno delle esperienze piacevoli. Mentre il bisogno può essere soddisfatto da una
tipologia di beni molto circoscritta, il piacere alimenta la corrente dei desideri che coinvolge una quantità di scelte ben più
ampia, sovente del tutto eterogenea. Se i bisogno sono relati alla fisicità di beni, il piacere ha il suo centro elettivo nel
mondo della fantasia, dell’immaginazione, del ricordo.
Il consumo diviene la scorciatoia più immediata e facilmente percorribile per la ricerca del piacere. Il conseguimento del
piacere è la motivazione più spesso addotta per giustificare gli acquisti, per spendere quel denaro che pure è costato
fatica guadagnare. Appare così evidente questa tendenza dall’esimerci dal dedicarle altro spazio. Così come non
vogliamo inoltrarci nel considerare quanto questa continua corsa al piacere tramite il consumo non rappresenti la realtà,
una fonte di frustrazioni e di continue alieazioni.
Per chi produce, confrontarsi con un consumatore alla ricerca di maggiore piacere significa fornire standard più alti di
qualità, aumentando i servizi ed evitando sprechi di tempo e fatica lungo tutta la frontiera dell’user friendliness. Inoltre,
vuole e deve creare attorno al consumo un’esperienza estremamente gratificante, rivolgendosi a tutti i sensi globalmente.
Il consumatore sarà quel protagonista mosso dal desiderio di progettare il proprio piacere e compiaciuto di poter
partecipare a una partita che fino ad allora lo aveva sempre escluso.
Il narcisismo è un altro grande trend insieme all’edonismo, il quale qualifica il mainstream all’individualismo. È la
rivendicazione del corpo, della fisicità, che a lungo sono state sottratte all’individuo. Il narcisismo va letto come
riappropriazione di una parte importante della condizione umana, l’amore e il rispetto per sé stessi. C’è quindi
un’attenzione inedita al corpo. Ne è un esempio l’inedita attenzione al vestire. La fragilità individuale si trasforma in
onnipotenza. Per il moderno consumatore narcisista il mondo degli oggetti è un importante sistema di comunicazione,
essi sono amplificatori della personalità individuale, sottolineandone gli aspetti privati. Il narcisismo, come l’edonismo,
implica per chi produce, una serie di ulteriori sensibilità da rispettare. Alcune equivalgono a quelle indicate per la ricerca
del piacere. Centrale appare l’attenzione, la deferenza, il rispetto da provare per il nuovo consumatore narcisista che
pretende di venir viziato, valorizzato e valutato per ciò che è.

Anche il lusso ha un suo significato, l’orientamento ad esso rappresenta la cartina di tornasole di un primato del
narcisismo e dell’edonismo. Queste merceologie comprendono un reparto “premium”, e si registra una forte desiderabilità
del lusso, seppure frenata da un reddito insufficiente a tradurre il goodwill in un atto d’acquisto. L’impopolarità del lusso e
la mancanza di una sua legittimazione etica ha sempre connotato il nostro paese. Questa nuova domanda di lusso è
generata dall’affermarsi dell’edonismo e del narcisismo, ma anche dall’estendersi del lusso al di là delle consuete
declinazioni. Lusso era sinonimo di prodotto costoso e che conferiva prestigio. Il prodotto di lusso era il più immediato
indicatore dello status sociale, che diveniva sempre più uno status symbol. Nelle nuove accezioni di lusso, la richiesta di
conferire prestigio sociale non è sempre presente e non prioritaria. L’essere costoso rappresenta un deterrente che deve
comunque venir contrastato dalla convinzione della reale superiorità del bene. La percezione della ricchezza non come
risultante di meriti ma come ingiustizia sociale, è stata a lungo nel nostro paese maggioritaria. La demonizzazione del
lusso e della ricchezza ha rappresentato a lungo il comun denominatore di culture tanto diverse. Nel migliore dei casi il
lusso appariva come eccesso, seppure sinonimo di eccellenza. Treccani definiva il lusso come un insieme di consumi
irragionevoli e del tutto improduttivi, adatti a corrompere i costumi e destinati a distruggere la ricchezza più che ad
accrescerla.

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Non esistono più beni di lusso ugualmente desiderati da tutta la società. La domanda di lusso è legata anche
all’accrescere il proprio piacere e benessere personale dopo tanti sacrifici. Oggi vediamo come la sensibilità al prezzo si
coniughi con una forte ricerca di qualità. Il prezzo continua a costituire una componente importante del concetto di lusso,
ma sse in precedenza assumeva un ruolo tutto particolare e fondativo ora è un fattore necessario ma non sufficiente.
Il termine lusso è certamente fuorviante per descriverne i nuovi vissuti e rappresenta un buon esempio al proposito.
Il nuovo prodotto di lusso deve saper flirtare con la cultura, valorizzando il nome di chi l’ha creato e attingendo al mondo
della cultura e dell’arte. Il prodotto deve essere il momento terminale di un lungo processo di implementazione della
qualità e di cura dei dettagli produttivi. Il prodotto deve sempre esprimere esperienze globali e significative in grado di
suscitare emozioni. L’enfasi del sé sulla soggettività costituisce forse il fattore più significativo del nuovo paradigma del
lusso. Il lusso diviene anche comfort, trattarsi segretamente bene, godere della privacy di ciò che si è conquistato,
concedersi il meglio. Ora la concezione di lusso vuole far passare l’idea di buon gusto e capacità di scelta. Si sta ora
verificando una sorta di democratizzazione del lusso. Anche con un reddito modesto ci sono sempre più persone che
vogliono e possono permettersi di includere nei loro acquisti qualche bene di lusso.

Il corpo è stato per anni il grande rimosso della nostra cultura, contrapposto rigidamente allo spirito, poiché per
avvicinarsi ad esso bisognava prendere vie trascendentali, il corpo era anticamera del peccato. Lo spirito era destinato a
sopravvivere, la carne a imputridire. Il corpo è però fonte e recettore privilegiato di quel piacere su cui ci siamo soffermati,
il destinatario elettivo di quelle sensazioni intense ed estetiche così attivamente ricercate. Il corpo è stato a lungo
considerato come la prigione dell’anima, utile però a dare un’idea di sé agli altri, ora è infatti il principale strumento che
l’individuo ha a disposizione per ottenere una conferma del proprio sé. Ora si verifica sul terreno del corpo una delle più
grandi variazioni sociali sulla storia dell’umanità. Ora la presa di consapevolezza della propria fisicità è un obbligo per
tutti. Il paradigma di un corpo sano e snello viene sostituito da quello di un corpo sano, forte e attivo. Con i moti del ’68 si
inizia a riconquistare una dimensione importante della propria identità. Si diffonde una concezione olistica della propria
identità. Il corpo non è più un mezzo, assume uno statuto autonomo, con un proprio linguaggio, delle proprie esigenze
espressive che dobbiamo saper ascoltare e fare esprimere. La tendenza che va emergendo in questi anni è di non
adeguare il corpo a un modello esterno o a schemi eterodiretti ma al proprio vissuto interiore. Non si parla più solo di abiti
armatura, ma anche di abiti su misura. Il corpo bello tende sempre più ad avvicinarsi a quello nudo come espressione
delle sue potenzialità vitali ed espansive. Il desiderio di rendersi attraente è sempre più legato al prendersi cura del
proprio corpo, e farsi belli significa volersi bene. Il corpo bello è quello sano, vitalistico, se la sua struttura esprime vitalità
e salute può avere anche qualche kg in più o non conformarsi a determinati ideali di bellezza, ed essere considerato
bello. Curare il corpo non rappresenta più soltanto un atteggiamento legato al presente, ma tende a rientrare in un
progetto a lungo termine che non privilegia necessariamente risultati immediati. Questa rivoluzione culturale nel vissuto
del corpo comporta modifiche altrettanto incisive negli stili di vita degli individui e nella pratica di tutta una serie di attività
che consentono di vivere in armonia con il proprio corpo. Nel mondo dei consumi un sacco di settori ne hanno subito le
conseguenze, dal make up, al treatement, alla chirurgia estetica. È nel cibo soprattutto che la nuova coscienza del corpo
si esprime.

L’attenzione al soma, l’acclamazione ed il culto del corpo si riflettono con immediatezza sul concetto di salute. Elevando
esponenzialmente il suo rilievo, trasformandone incisivamente il vissuto e promovendo la salute a fonte di influenze, di
portata incommensurabile in moltissime aree del consumo. Nella scelta di quasi tutti i beni la salute diviene un referente
obbligato. Gli influssi che il nuovo concetto di salute sta esercitando portano tutti a nuovi consumi e a novità dal tabù del
fumo al feng shui. Facciamo ogni giorno piccole azioni e scelte che sono basate sul benessere, dalla quantità di caffè da
bere allo stretching.
Questa attenzione alla salute rimanda al rapporto tra la popolazione italiana e determinati cambiamenti socioculturali. Il
concetto di salute si è venuto infatti a trasformare profondamente negli ultimi decenni. La sensibilità ambientale e la
consapevolezza alimentare rimarrebbero incomprensibili se non ricostruissimo come si è costituita. Il concetto di salute si
è venuto a trasformare negli ultimi decenni, potremmo parlare di una riformulazione del suo statuto epistemologico. Il
concetto di salute fino a poco tempo fa, veniva vissuto però senza morbosità, era una variabile indipendente, la cui
presenza o assenza era ricondotta a un ordine trascendente. La salute era dunque molto importante, intesa come bene
materiale, dotazione che esauriva i suoi significati nel contingente, veniva preservata solo nel momento in cui fosse
venuta a mancare.
Oggi l’atteggiamento per la salute è profondamente diverso, percorre l’intero schieramento socioculturale. Sono mutati gli
atteggiamenti nei suoi confronti e si sono modificati molti comportamenti che vi vengono messi in relazione. La salute non
è più trascendente ma immanente nel sociale. La figura del medico si disvelava tradizionalmente una sorta di metonimia
del ruolo di sapiente. La pillola, il farmaco, la terapia dell’immaginario collettivo prendevano il posto dell’imposizione delle
mani con la quale durante il medioevo i Re taumaturghi guarivano i contadini dalle scrofole. Ora imperversa la
consapevolezza e l’autocura dilaga, dunque l’uso della medicina senza intermediazione del medico. Ognuno sceglie il
proprio percorso individuale di ricerca del benessere tra i molti possibili, dal vegetarianesimo con lo sport, al training
autogeno. La nuova pervasiva, talvolta fobica, attenzione alla salute, contagia una serie più vasta di aree di consumo, dai
farmaci, che insegnano l’autocura, all’uso diverso del tempo libero. I mass media ci bombardano di programmi e
situazioni legate alla salute. L’abbigliamento subisce dei cambi appositi, si evita la moquette e si recupera il legno, i
cosmetici contengono più elementi antiallergici, il timore e la repulsione per i prodotti inquinanti dilaga, viene schedulato
un po’ tutto, dal tempo ai rapporti sessuali. In particolare, è importante il legame tra salute e alimentazione, relazione
negli anni sempre più stretta, sia in sapere scientifico consolidato che in accredito culturale tra la popolazione. Dilaga il
cibo light, e in generale quello più salutare. Il cibo è quasi pacificatore tra la mente e il corpo. Il vissuto della salute con il
corpo appare tutt’altro che univoco. La salute è un altro di quei termini ombrello che ha incredibilmente ampliato la sua
portata semantica e che occorrerebbe oggi declinare con tante accezioni diverse.

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John Kennedy fice della forma fisica una delle grandi missioni etiche e sociali del suo paese. Questa sensibilità è così
impellente da generare un mutamento in un paese come il nostro pur arroccato sulla sedentarietà. Si sta creando sempre
più un popolo in movimento, un larghissimo segmento di popolazione che fa intenzionalmente attività con l’obiettivo di
mantenersi in forma. L’alimentazione è il settore privilegiato del complesso si sistema di relazione che si instaurano tra
corpo e salute. Tutto ciò ha un costo di energie, fatica, tempo e denaro. Prodotti della vita di tutti i giorni hanno poi
versioni sportive di essi, e vice versa. Le sneakers, nate per lo sport, diventano così prodotti per ogni giorno. Aumenta
sensibilmente il numero di persone iscritte alle palestre, per rispondere ancora di più al trend del fitness. Aumentano gli
adepti al bodybuilding. La salute si mischia a celte realtà commerciali, certi uffici hanno palestre convenzionati, certi hotel
hanno palestre integrate e certe palestre hanno ristoranti. La frequente apertura di palestre fa sì che il mercato di prodotti
e servizi aumenti in modo esponenziale, per via di indumenti ed accessori o servizi specializzati. La crescente domanda
di attrezzistica è riconducibile a questo fenomeno. Dalle ciclette, al ricorso a diete dimagranti, all’acquisto di determinate
riviste. Bauman diceva che “il benessere fisico inteso come fine ultimo può essere perseguito senza essere mai
realizzato attraverso uno sforzo di autocostrizione è destinato ad essere pervaso dall’apprensione che deriva dall’inutile
ricerca di una soluzione definitiva. Io credo che questo esito sia l’immagine più efficace dell’ambivalenza postmoderna”.

L’antropologia fisica dei consumatori è così, nel tempo, cambiata. Vale a dire il sistema di valori e atteggiamenti votati
all’azione. Un tempo la percezione della qualità era legata a un solo senso, per il cibo era il palato, per l’abito la vista ecc.
Nella postmodernità lasciamo alle spalle una cultura che ci ammoniva a diffidare dei sensi, perché questi ingannavano.
Proprio i sensi, invece, possono darci una visione più immediata ed autentica. Aiutandoci a comprendere anche l’essenza
più profonda del mondo delle merci non mediato dalla coscienza, dal pensiero, dal linguaggio. Il corpo recepisce
l’ambiente circostante tramite la sua attività percettiva. Sono i suoi recettori sensoriali che consentono di rapportarci con
l’esterno, di trasformare le qualità sensibili di un oggetto trasmesso al cervello in informazioni ed emozioni. Lo sviluppo
dei sensi ha una successione precisa, nella prima infanzia sono il tatto e l’olfatto a svilupparsi per primi, poi è l’udito e la
vista. La vista diventa poi il senso principale seguita da udito e tatto. La scuola insegna la comunicazione verbale e
visiva, la comunicazione tramite gli altri sensi è affidata alle esperienze personali. Il polisensensualismo è un trend
relativamente recente. La repressione dei sensi andava di pari passo con la repressione della sessualità. Il corpo
riemerge quindi col tempo dal dal ghetto dei divieti e diviene oggetto centrale di riflessione. Non è a caso che negli ultimi
anni l’immagine tradizionale dell’uomo del futuro abbia perso parte della sua credibilità e venga proposta con sempre
minore frequenza. L’uomo appare invece nella postmodernità riscoprire i suoi sensi ed è intento a rieducarsi. Il
polisensualismo si esplicita con un’acuita attenzione ai propri sensi, con una riduzione dell’importanza della vista,
considerata come senso dominante sfuggendo dal primato di parole e di immagini. La mobilitazione dei sensi si sviluppa
contestualmente alla valorizzazione dei sentimenti, all’irrompere del ruolo delle emozioni nella nostra cultura e nei
mercati. Il polisensualismo entra costantemente in rapporto e in dialettica con tutto il mondo delle merci. Il ricorso ai sensi
ci consente una sorta di penetrazione, di congiunzione a distanza con l’oggetto annullandone i confini. È singolare come,
nella rivalutazione della sensorialità da parte del consumatore postmoderno, la ricerca della verità intesa come tensione a
raggiungere l’essenza delle cose sia ampiamente presente. L’affermarsi del marketing aesthetics segna il definitivo
riconoscimento dei sensi nel mondo del consumo, dove con marketing aesthetics si intende una nuova concezione che
sottende una costante interazione di fantasie e visione esperienziale. Si parla quindi del mercato delle esperienze
sensoriali. Il richiamo al mondo delle sensazioni è sempre più richiamato nelle pubblicità, ricorrendo, nel caso ad esempio
delle bibite, al ricreare situazioni in cui solitamente può venire voglia di bere quella tal bevanda. Nonostante i numerosi
esempi ci sono merci completamente afone sotto il profilo polisensoriale. Sino a poco tempo fa, nei grandi magazzini, si
sconsigliava alle persone di toccare le merci esposte. Gli abiti vengono incentivati alla sensorialità, al soft, succede
tipicamente con l’intimo.

Chi non ricorda il profumo della madeleinette di Proust. L’olfatto acquisisce sempre più importanza e riconoscimenti nella
percezione ideale e nelle relazioni sociali. Le merci sono valutate anche in base al richiamo ad esso. Si tendeva
precedentemente a un igienismo asettico, basti pensare al deodorante con funzione coprente. La percezione olfattiva era
precedentemente legata, in contesti enologici, ai sommelier. Gli odori sono diventati dei veri protagonisti in termini di
caratterizzazione di una marca o di un prodotto. Vale anche per i profumi. Un’importante evoluzione avverrà quando il
consumatore postmoderno prenderà consapevolezza dell’influenza degli odori sui nostri stati d’animo. La comunicazione
d’impresa va scoprendo il mondo degli aromi. Timberland usa nei suoi negozi materiali con una forte connotazione di
naturalità e dedica attenzione agli odori. Come alcune abitazioni hanno un odore caratteristico, lo stesso è per certi punti
vendita.

La richiesta di prodotti poliglotti, capaci di dialogare con la totalità dei sensi, vista, odorato, udito, gusto, tatto, diviene
sempre più insistente. Non è un caso che i sensi rappresentino un indicatore fondamentale quando si entra in contatto
con un’altra persona. Nella nostra cultura è il tatto, scambiandosi una stretta di mano, che viene privilegiato
nell’immediato porsi in relazione ad un altro e dal contatto tattile si ricava un’importante percezione della persona con cui
ci si rapporta. Il tatto è molto importante verso i 2-3 anni e per le persone affette da cecità. Greimas sostiene che la
relazione sensibile che lega soggetto e oggetto deve coinvolgere la cooperazione di tutti i sensi dell’uomo e non soltanto
la vista. In particolare, il settore dell’abbigliamento o dei tessuti trova nel tatto un canale significativo di comunicazione
con il consumatore, ma non solo, è un particolare sensore anche per molti alimenti. Così come per il profumo, anche il
tatto ha trovato i propri cantori nella letteratura. Forse è stato il futurismo che ha maggiormente valorizzato la tattilità.

Forse a conseguenza dell’esplosione della sensorialità ma anche dell’interesse per l’evasione, la richiesta di
entertainment e di ludico, ha generato un’insistente richiesta di ampliamento o enfatizzazione del consumo all’area di
esperienze globali. Un tempo era sufficiente fabbricare buoni prodotti, poi è stato necessario dilatare le performances dei
beni stessi, inglobando una quantità crescente di servizio, nella direzione del risparmio del tempo e della fatica. Stiamo
entrando con l’avvio del nuovo millennio in una fase ulteriore di richieste al mondo della produzione. Che vede affiancarsi
al servizio l’aspettativa di un servizio più globale. Il marketing esperienziale sta ormai acquistando una sua dignità

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terminologica nel linguaggio. Il consumatore appare cioè sempre più interessato a considerare in termini di spettacolo i
prodotti che consuma.
Per l’individuo è sempre più importante l’esperienza fatta all’interno di un determinato luogo, la capacità di tale luogo di
renderci diversi nell’attraversarlo e di produrre un’esperienza dopo la quale non siamo più noi stessi.
Il marketing esperienziale segna il finire di una concezione semplicistica e riduttiva del marketing. Il consumatore
desidera tutto ciò che può provocargli un’esperienza. L’economia sta entrando secondo Pine e Gilmore in un’era di
produzione di esperienze. Beni e servizi sembrano non bastare. Le esperienze ci sono sempre state ma i consumatori, le
azioni e gli economisti le hanno sempre raggruppate nel blocco dei servizi, non dandogli la giusta valorizzazione. Quando
una persona compra un’esperienza, essa paga per poter trascorrere del tempo a gustarsi una serie di eventi messi in
scena per lei.
L’esperienza può essere passiva, come un concerto, o attiva, con un diretto coinvolgimento (ascolto e scelta dei brani da
ascoltare con le cuffiette). Il resto dipende dalla capacità d’assorbimento e immersione delle varie esperienze. Comprare
un determinato prodotto fa sì che già quando pensiamo di comprarlo pensiamo all’esperienza che possiamo fare con
esso.
Non è più possibile, in un mercato moderno, produrre o vendere un bene disinteressandosi del progetto più globale di
intrattenimento in cui lo collocherà il consumatore. Il prodotto co-determina questa nuova esperienza, ne diviene artefice
e maieuta. Il consumatore cerca più l’esperienza che il prodotto. I parchi a tema sono emblematici di questo discorso.

Il grande trend all’individualismo, si esprime anche attraverso una maggiore autonomia dal mondo della produzione ed in
una insistente richiesta di qualità da parte del consumatore. Autonomia non significa antagonismo ma la richiesta di un
maggior potere contrattuale, della maggior considerazione del ruolo del singolo consumatore. La qualità si configura
come la nuova, grande sfida al mondo della produzione. La fedeltà del consumatore è uno dei più importanti asset di cui
un’azienda dispone. Eppure, nella realtà dei mercati l’infedeltà del consumatore va aumentando in quasi tutti i settori di
beni e servizi. I fattori esogeni sono legati al moltiplicarsi dell’offerta, all’ipercompetitività. Le ragioni endogene vedono un
consumatore più esigente, che si è scrollato di dosso l’antico rapporto di dipendenza dalla marca. Ci sono consumatori
promiscui, e altri monogami, in questo senso. Una monogamia mai categorica e assoluta. Una monogamia a termine, se
il prodotto non convince più non ci si pensa due volte a cambiarlo. In forte ascesa sono i poligami, emblematico
orientamento del nuovo consumatore. Il comportamento di oggi non prevede indifferenza alla marca, ma il nomadismo di
un legame unico ed esclusivo. Molto sta alla pubblicità.

5. RIVISITARE LE TRADIZIONALI FRONTIERE DELLA QUALITÀ

Entrare nella postmodernità significa anche rimettere in discussione i parametri tradizionali della qualità, rivisitarli sulla
base dei nuovi sistemi di attesa. In passato la metafora a cui solitamente si faceva ricorso per descrivere la struttura dei
mercati era quella della piramide. L’altezza della piramide indicava il livello dei prezzi, la base il livello di venduto. Man
mano cioè che ci si approssimava al vertice aumentavano i prezzi e diminuivano i volumi. La fascia dei primi prezzi, o dei
prezzi più vantaggiosi, è in rapida espansione. Il forte ampliarsi della gamma delle referenze in quest’area, con la
contrazione dei redditi di questi anni ed una laicizzazione del consumatore davanti al prezzo, giustificano ampiamente
l’ispessirsi della domanda in quest’area. Meno immediatamente evidenti appaiono le motivazioni della crescente
competitività dell’offerta che si caratterizza per i prezzi più sostenuti. Di pari passo con la price sensitivity, si sta
sviluppando una crescente domanda di qualità. Si affina la capacità di giudizio del consumatore. Le ricerche mettono in
evidenza una disponibilità sempre minore a fare delle rinunce sul fronte della qualità. Si vuole la più alta qualità ai prezzi
minori. La richiesta di qualità non sempre coincide con l’interpretazione di questa da parte di chi produce. È una
prestazione strettamente riguardante i materiali e l’uso del prodotto. L’advertising personality è un’ulteriore componente
della qualità che prescinde dalla propensione all’acquisto che la pubblicità, nel breve termine, sollecita. È invece il frutto
della sedimentazione sulla personalità della marca di una serie di messaggi che hanno contribuito a definire nel tempo la
personalità ed il territorio della marca. La qualità della pubblicità è cioè ormai entrata di diritto tra gli indicatori della qualità
del prodotto. La capacità di rispondere alle richieste del consumatore è importante per una marca.

Il concetto di qualità non è per niente univoco, non è da considerare come lo considererebbero i tecnici di produzione. La
perceived quality si sostituisce ad assiomatiche interpretazioni della qualità. Qualità è anche saper fronteggiare i rivali.
Accanto a questa primigenia vocazione del prodotto esiste una costellazione di istanze aggiuntive che devono essere
soddisfatte: talvolta sono intrinsecamente connesse a quella che dovrebbe essere la performance di base, talvolta sono
persino più importanti. La costellazione di attributi complementari al benefit di base deve essere parimenti saturata dal
prodotto. Ci si appella poi a capacità come il tenere la cottura, per una pasta, la resistenza all’acqua per un mascara.
Soggettivamente poi il consumatore sceglierà anche per dettagli come il sapore della pasta o il colore del mascara.
Poi la qualità ha concezioni soggettive, qualcuno prenderà un alimento esclusivamente perché è buono, altri preferiscono
appellarsi al “fresco e naturale” ecc. Il più delle volte è impossibile incorporare in uno stesso prodotto tante diverse e
talora antitetiche concezioni della qualità.
La qualità deve essere espressa sotto il segno del polisensualismo, nella capacità del bene di suscitare emozioni, deve
essere attuale la culturalità del prodotto, nel dettaglio della sua pubblicità. La qualità è anche capacità di generare
esperienze di cui il prodotto può essere attore o maieuta ma comunque stimolo o fattore di catalizzazione di esperienze
memorabili e significative. Olismo: estensione del concetto di qualità alla globalità delle espressioni del bene. Il prodotto
deve inoltre valere in funzione del suo prezzo, deve essere originale.
La qualità deve essere costantemente storicizzata, è fondamentale seguire con un approccio longitudinale la dinamica
della gerarchia dei diversi attributi. L’igienicità una volta era un dato importante che ora è dato per scontato. La qualità ha
quindi una dimensione in progress, in continuo divenire, storicamente condizionata, influenzata dai progressi della
tecnologia e dall’enfasi che attribuiscono alle diverse componenti le imprese e la pubblicità.

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Il mangiare è il primo ambito in cui avviene il cambio di valori e stili di vita.
Il sistema delle S: Contano, per definire la qualità del cibo, status, sapore, sensorialità, salute, supernaturalità, storia,
sincretismo, spettacolo.
Il sapore è molto importante, così come la gratificazione orale. L’insuccesso di parte degli alimenti light è da imputato ai
deficit sul fronte del sapore. Tutti i sensi devono essere valorizzati. Deve essere più naturale possibile. Fa un buon effetto
un prodotto che ha una storia, che si può raccontare, che non è a tutti i costi una commercialata. Il sincretismo è ciò che
consideriamo Melting pot alimentare. Lo spettacolo nel cibo è importante, la cosiddetta ricerca di entertainment, o meglio
eaterteinment.
Status, nel senso di rilevanzza. C’è sempre quel qualcosa che diventa totemico. Dalla rucola, al sushi.
Socialità: il ciboo è sempre un’importante occasione di socialità, l’eating out, il mangiare al ristorante, è parte integrante
del tempo libero. Servizio: è utile risparmiare il più possibile tempo e fatica, dai surgelati al take away.

Cibo e salute sono legati per via del culto della linea, per l’apporto d’energia e la forma fisica, per prevenzione, longevità,
cura, guarigione, e per tutta la sfera del benessere, mens sana in corpore sano no?

Si sta registrando una nuova e diffusa realtà in termini di qualità, prestazioni considerate strutturali per un bene perdono
di distintività. Il loro rilievo persiste, ma vengono ormai valutate alla stregua dei pre-requisiti. Il consumatore da per
scontati quelli che una volta sarebbero stati optional. Molti produttori non hanno ancora compreso il significato di questa
traslazione di performances dall’area della brand image a quella del product image. Insistono nell’attribuire alle proprie
marche il dominio su attributi considerati oggi scontati, dal consumatore, accreditati a tutta la categoria merceologica.
Quelle che erano novità si sono diffuse a macchia d’olio al punto di diventare prerequisiti.

Siamo in una società che passa dall’essere “dei beni” all’essere “dei servizi”. L’essere vezzeggiati e coccolati non è mai
abbastanza. È molto ambita la personalizzazione del servizio a secondo delle esigenze del singolo utente. Servizio non
significa in ogni caso servilismo al cliente, seppure lo si considera un interlocutore e ci si fa carico dei suoi problemi. La
qualità dei servizi può e deve essere misurata. Gli studi di customer satisfaction trovano nell’area del servizio l’ambito
elettivo di applicazione.

Le aziende sono sempre propense alla ricerca. Quasi sempre ogni scelta è frutto di sperimentazione e ricerca. Un
ricorrente luogo comune della pubblicità indicava due termini destinati ad attrarre irresistibilmente attenzione e interesse:
gratis e nuovo. Un consumatore maturo sa che nulla viene regalato, ma ha un diverso apprezzamento del nuovo.
Nel patrimonio genetico di un’impresa la propensione alla ricerca e all’innovazione rappresenta da sempre un fattore
qualificante e la sua stessa ragion d’essere. L’innovazione è uno dei parametri costitutivi della qualità. Alla qualità non si
giunge per caso. Quando si tratta di un restyling è più un’operazione di face lifting che un effettivo intervento sui
contenuti. L’innovazione ha un ritmo continuo, si manifesta prima ancora che sia stata assimilata quella che l’ha
immediatamente preceduta. Ci sono poi innovazioni che non vengono comunicate, dal caffè liofilizzato ai detergenti. Il
consumatore apprezza quelle novità che portano benefici rilevanti e immediatamente evidenti. Va colta velocemente la
mutabilità dei gusti del consumatore, la sensibilità nel meglio soddisfare i bisogni del mercato, una particolare attenzione
alla componente estetica, rappresentano tipologie di innovazione che l’industria del nostro Paese ha dimostrato di saper
gestire a livelli di eccellenza.

La stasi di molti settori deriva da una carenza di innovazione e creatività. L’immissione di innovazione ha
immediatamente generato nuovo dinamismo e accelerazione delle vendite. Pringles è stata un’innovazione, Findus con 4
salti in Padella anche, Buitoni ha innovato i menù tradizionali con proposte esotiche. L’innovazione di processo è
indispensabile per rendere l’impresa competitiva ma genera solo vantaggi indiretti, sovente nessun beneficio, per il
consumatore.

I prodotti hi-tech stanno registrando una forte accelerazione nelle vendite. Sono beni che contrastano un clima
sfavorevole, hanno successo in una situazione poco florida. Non si parla di un mercato di sostituzione e per questo il
successo è ancora più imponente. Il loro boom è legato alla loro connotazione di utilità. Un’utilità che dilata gli spazi e la
coscienza, che consente di abbattere la separazione tra apprendimento e tempo libero, tra lavoro e gioco. I più giovani
rappresentano un formidabile alleato di questo nuovo orientamento. Sia perché sono la cosiddetta web generation, sia
perché l’acquisto di hi-tech rappresenta un valido motivo per giustificare un investimento per l’accesso dei figli al mondo
di domani. I ritmi di innovazione sono troppo accelerati ed è difficile starci dietro.

La tecnologia riesce a bonificare, se incorporata, l’immagine e il ciclo di vita di molti prodotti tradizionali altrimenti avviati
sul viale del tramonto. Gli utenti si lamentano della difficoltà d’uso dei prodotti tecnologici. Il deficit nella facilità d’uso frena
l’ulteriore sviluppo rappresentando un deterrente ad una maggiore frequenza d’uso. Le modalità d’uso non intuitive però
vanno contro la user friendliness che si è assodata in tutti i campi.

Una rivoluzione incombe sul mondo dei giocattoli. Il campo dell’ hi-tech compete anche con i giocattoli, diventa i giocattoli.
Si sposta la frontiera del ludico. Il maggior concorrente dei giocattoli è la televisione, che fa anche da baby sitter, poi le
playstation, i game boy, il computer. Internet diventa una sorta di Babbo Natale. Il nuovo giocattolo appare sempre più
concepito come un ipertesto.
Pokémon ha reso importante il marketing della privazione, centellinando la distribuzione del prodotto e rendendolo
introvabile.

Ci sono scelte di mercato volute a promuovere quasi indiscriminatamente un’area composita in cui convivono primi
prezzi, marche d’insegna, discount. Una struttura latente molto semplice anche se esplosiva nei suoi effetti. La sensibilità
al prezzo non ha precedenti nella storia italiana. Si era però portati ad attribuire credito a quello fissato dalle grandi

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marche. La marca è stata per anni sinonimo di qualità, scegliere al di fuori delle grandi marche significava chiudere un
occhio sulla qualità. Il primo prezzo è sempre esistito. Il differenziale di prezzo era in Italia tra i più alti al mondo. La crisi
economica ha portato una grande attenzione al prezzo. Il consumatore si è ritrovato a scegliere tra prodotti di più
estrazioni. Andava poi attenuandosi il nuovo sistema di valori che voleva l’immagine a tutti i costi. La sensibilità al prezzo
non è in ogni caso il risparmio a tutti i costi. Il consumatore economy minded è quello che cerca in assoluto il prezzo più
basso. Il bargain minded cerca l’affare, il rapporto più buono possibile tra prezzo e qualità. Spendere bene accresce
l’autostima perché significa percepirsi in grado di valutare in maniera autonoma e competente l’idoneità dei prodotti ai
propri bisogni anche senza l’avallo della marca.

La popolarità del prezzo basso si fonda su alcuni presupposti importanti. La concomitanza con un periodo certamente
non espansivo dell’economia e di redditi ideali stabili o decrescenti, una crescente sensibilità al prezzo da parte del
consumatore, il maggior potere della distribuzione, l’accentuarsi della competitività nella distribuzione moderna. La
tensione al prezzo basso contagia anche leader di mercato e imprese titolate. La variabilità del marketing mix ripiega
sempre sul prezzo. Ci sono imprese importanti che non han fatto calare i loro prezzi ma hanno creato promozioni
incrementando profittabilità e quote di mercato. I prezzi alti funzionano perché si intuisce la qualità, i prezzi bassi
funzionano perché sono bassi. L’errore di molte imprese è stato di esaurire il concetto di qualità nell’accresciuto interesse
del consumatore per i benefici tangibili dei prodotti. L’elevato interesse per i saldi appare ben compendiare alcune delle
caratteristiche più distintive del nuovo consumatore, come il nomadismo fra punti vendita e il fiuto delle offerte. I falsi
sconti non funzionano più.

Sono in voga gli acquisti a rate, emblema del vivere al di sopra dei propri mezzi. Il pagamento non in cash, anche con le
carte di credito, sembrava riverberare ombre di indigenza o sprovvedutezza su chi ne usufruiva. I tassi d’interesse inoltre
erano abbastanza alti. Il nuovo consumatore è ormai completamente secolarizzato, ha un atteggiamento laico verso i
consumi, rateizzare talvolta può convenire, simili modalità di pagamento sono socialmente accettate.

L’orientamento al bargain alimenta anche il mercato dei falsi? No. Quella è una grave attenzione al denaro, ma la
contraffazione tocca tutti i cambi. I danni vanno oltre al fatturato che ci si vede sottrarre. Ci sono imitazioni minuziose e
patacconi. Trovare una versione contraffatta è sinonimo di quello spendere bene che qualifica il consumatore. Quello che
perplime è la mancata concezione di illegalità davanti a questi acquisti. Non c’è condanna sociale quanto approvazione.
Oggi l’autenticità è un valore in espansione.

6. TREND SOCIALI, TREND DI CONSUMO

È uno studio, quello dei trend, in totale espansione. Studiamo i trend della società che cambia. Fusion è una parola che
ricorre di continuo. È la coesistenza di prodotti e stilemi. È la costante contaminazione tra monti distanti. La fusione di più
generi. Non è nuova la sua esistenza, è nuovo il suo diffondersi a macchia d’olio, probabilmente per via della
globalizzazione. Basti pensare a Nobu, sushi misto a cucina sudamericana. È eclettico, il “fusion” perché si muove con
disinvoltura combinando stili diversi. È sincretico perché la fusione avviene in modo armonico.

C’è una crescente femminilizzazione della società. Da non considerare in modo dispregiativo. ANZI direi. Comunque, si
intende che valori, atteggiamenti, comportamenti stereotipicamente femminili e ignorantemente valutati come inferiori
(egemonia maschile) si diffondono rapidamente e diventano dominanti. Sono promossi e legittimati socialmente.
Flessibilità, leggerezza verso il culto della forza, rapporto diverso verso il corpo, meno strumetnale, pensiero olistico,
emozione più che razionalità.
Di conseguenza l’uomo entra nel mondo della moda, l’uomo si cimenta nei campi fino ad allora di prevalente accesso alle
donne ecc. Negli anni ’80 gli uomini non usavano quotidianamente il dentifricio, che schifo. Poi son subentrati prodotti
come il deodorante e i cattivi odori sono sempre più mal giudicati. Con gli after shave si fa un ulteriore passo avanti. Il
primato della leggerezza è una sorta di indotto del processo di femminilizzazione della società, si contrappone ai
tradizionali modelli della pesantezza e durezza. Si abbandona l’idea delle auto squadrate, si fanno più rotonde, si
preferisce il morbido allo spigoloso. Cambiano i prodotti hi-tech.

La segmentazione del mercato costituisce un’importante evoluzione dell’originaria concezione dei mercati di massa, a cui
risponde dapprima un orientamento produttivo rivolto a creare versioni diverse di uno stesso prodotto. Si tratta di
variazioni sostanziali sul tema. La diversificazione produttiva si farà sempre più spinta, sino a proporre versioni
iperspecializzate di uno stesso bene. Alcune aziende fanno attualmente fatica perché non si rendono conto di ciò che
hanno attorno. La nuova frontiera è una sorta di mass customization, una produzione industriale su misura. Il single
rappresenta una buona metafora dei nuovi orientamenti di consumo. I membri della famiglia si comportano in più
occasioni come se fossero single, affermando il loro diritto ad un’autonomia. Manifestazione di questa nuova realtà,
paradigmiche dell’unificazione di gusti e stili, sono moda e televisione. Seguire la moda significa reintepretarla con una
visione personale. La tv è sempre stata considerata il mezzo omologante per eccellenza. Il telecomando ha rivoluzionato
tutto in quanto sia emblematico della nascita della Pay TV, il palinsesto lo sceglie lo spettatore.

Il monopolio di tutti sensi va ridimensionandosi, perché va a riavvicinarsi alla globalità dei sensi. Fra i fenomeni che
esprimono il nuovo nei consumi l’orientamento al bello è fra i più rilevanti. Una tendenza che ben riflette lo Spirito del
Tempo. Anche nella scelta dei beni l’apprezzamento estetico sta divenendo uno dei fattori estetici per indirizzare le scelte
del consumatore. Il bello è in tutte le dimensioni della vita quotidiana. Si pensi a come la nouvelle cuisine sia ormai in
voga. La tendenza all’estetizzazione della vita quotidiana innesta una sorta di marcia in più per quei beni e servizi che
hanno dedicato a questa dimensione attenzione e sensibilità. Oggi il “bello” si confronta con la funzione. L’estetica è
ormai una sorta di valore aggiunto, nel mondo delle merci, che il consumatore ricerca ed apprezza nelle sue scelte. La

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confezione, l’etichetta, la struttura del prodotto, il modo di presentarsi durante la fruizione, devono contribuire
armonicamente a questa nuova esigenza. Il design è ora vitale per un prodotto.
Il concetto di bellezza muta storicamente rispetto a dei canoni, si è interrogata nella produzione di merce in generale, la
frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto, con un giro d’affari
sempre più grande, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetica una funzione e una posizione strutturale
sempre più essenziale. Il valore estetico è l’ultima cosa di cui preoccuparsi. Il mercato globale possiede la stupefacente
capacità di imporre alle scelte dei consumatori un modello regolare, per quanto di breve durata, senza il quale essi si
sentirebbero completamente disorientati e perdenti. Il gusto non è più una guida sicura, l’apprendimento, la fiducia nella
conoscenza già acquisita sono trappole, non aiuti.

Per il consumatore attuale il rilievo del disincanto dell’ironia, del gioco, assumono un rilievo particolare. Il consumatore
decodifica le incoerenze dei brand e se ne distacca. Il consumatore ha in mano le giuste chiavi interpretative.
L’entertainment è fondamentale. Ogni nazione ha poi delle proprie peculiarità: dall’humour inglese, alla nostra ironia e
stile. Seppure l’Italia tenti di seguire il successo estero delle pubblicità, genera comunque sorrisi. Il design è ora realtà di
massa. Basti pensare alla Milano da bere e alla poltrona Joe a forma di guantone da baseball. L’ironia scherza con gli
stili, i volumi e con gli oggetti d’uso quotidiano. Un design ludico scalda gli animi e diverte. Il design italiano è una combo
di scelte intelligenti nei contenuti e eccellenza nei prodotti.

Ora sono frange più avanzate della popolazione a flirtare con il passato costantemente. Questo ha portato a un interesse
per il vintage. Ne è emblema il settore dell’abbigliamento. I negozi specializzati in vintage si vintage si moltiplicano. Per il
settore della moda, emblematico di prosperità e rinnovo, questa è una contraddizione. Si parla di oggetti a cui il tempo
non ha tolto nulla del fascino e della qualità originaria. La vera sfida è creare degli evergreen. La minore imperiosità delle
mode fa sì che i guardaroba siano ingolfati di capi ancora in buone condizioni che dissuadono da nuovi acquisti. Se si
diffondesse l’abitudine a tesaurizzarli le conseguenze potrebbero rivelarsi disastrose.

Nei consumi c’è comunque discontinuità. Pensiamo al minimalismo, continua ad esistere, nell’arte e nel vestiario, ma non
è supremazia. È un ritorno al basico, il trionfo dell’understatement, la netta presa di distanza dal decoro, l’epopea della
sobrietà, una sorta di antimoda. Il minimalismo è nato in un momento socioculturale in cui negli anni novanta si vogliono
prendere le distanze dal clima festoso a tutti i costi degli ottanta. La crisi economica genera nel contemporaneo abiti più
sobri e contenuti. Si genera così il “less is more” visto da alcuni come “lessi s boring”. Il minimalismo non scompare ma
perde l’egemonia. Non è più sinonimo
di attualità culturale.

Per decenni abbiamo assistito impotenti all’accelerazione del tempo. Alcuni fenomeni contraddicono questa realtà. Si
ritorna all’orologio analogico, dove la metafora del tempo è più allentata. Le pubblicità consigliano di prendersi del tempo,
delle pause. Si prendono le distanze dal fast a tutti i costi. Si parla di slow food.

La nicchia è una realtà difficile da gestire ma che da profitti settoriali.


L’ecocompatibilità della produzione va divenendo ingrediente di rilievo delle nuove dimensioni del consumo: anche se
forse questa dimensione appare più rilevante per lo scenario dell’individualità che non in quello dell’individualismo. Non
indifferente è il trend relativo all’ambiente. Non c’è bisogno di essere ambientalisti. C’è una maggiore consapevolezza per
le problematiche ambientali ed una spiccata sensibilità verso tutto ciò che concerne la natura. Non si parla, qui, di mode.
La natura si trasforma e si eleva a valore in tutti i settori della nostra vita. È di interesse interclassista e
intergenerazionale. Ci sono sempre prodotti alternativi sensibili alla tematica. L’ecopragmatismo è questo atteggiamento
che privilegia la componente naturale ed il rispetto dell’ambiente. Fa parte dei nuovi paradigmi di qualità.

È ormai luogo comune affermare che il consumatore sia divenuto più maturo, competente, esigente e critico.
L’essere critico denota una discontinuità. In una società in cui l’orientamento verso l’individualismo costituisce il
mainstream l’etica dovrebbe avere un ruolo sempre più residuale. Si sviluppa una nuova sensibilità all’etica e al dovere. I
doveri sono espressivi del nuovo ethos che va emergendo. C’è propensione a dedicare agli altri il proprio tempo libero.
Sono in aumento le attività di volontariato, che aiutano a sentirsi realizzati.
Se io agisco socialmente, voglio che anche le marche lo facciano. Per questo c’è richiesta di eticizzazione. Esselunga p
stata emblematica nella questione dell’equo e solidale, smuovendo le coscienze.

Da un lato, si sta anche superando questa tendenza all’individualismo di cui si è parlato. Una socialità degradata a una
folla solitaria, dove la vicinanza non genera prossimità, tanti aloni irrelati senza un legame sociale dove gli individui non
sono accomunati soltanto dalla provvisiorietà di rapporti contrattuali e strumentali. C’è sempre un maggiore bisogno di
scambiarsi emozioni e pareri. È una socialità diversa da quella del proletariato o della borghesia. Occorre attrezzarsi
culturalmente per non cadere nella trappola di chi è abituato a leggere le tradizionali espressioni di partecipazione sociale
come le uniche possibili. Quelle da cui, in realtà, l’individuo va prendendo le distanze.
Le tribù sociali sono parte di progetti interclassisti ed intergenerazionali. Le tribù si costituiscono attorno ad una marca, a
un prodotto, un punto vendita, un personaggio. È questa appartenenza che ha una forte coloritura emozionale, ad
improntare tanta parte del modo di vivere e di consumare di una persona. Queste appartenenze hanno una forte
componente emozionale, la conformazione gioca un ruolo molto importante. Anche il mondo lgbt+ ne è un esempio.
Internet sotto questo aspetto si sta ritrovando a svolgere un ruolo di aggregazione non da poco. Le comunità vengono
indotte o si creano spontaneamente. Dapprima con i forum, poi con tutte le altre realtà.
Le comunità virtuali del consumo nascono perché un gruppo di consumatori-utenti, particolarmente interessate a un
prodotto o servizio, si interessano al confronto sulla qualità, alla fabulazione collettiva. Il più delle volte i toni sono franchi
e competenti. Le comunità sono dunque casse di risonanza della società “reale”, sono la società reale.

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Ogni fenomeno di massa produce una sorta di effetto controtendenziale. I controtrend vengono poi equivocati come
grandi e reali tendenze di cambiamento, poiché i mass media sono molto attenti alle novità.

Il politically correct pare essersi un po’ arrestato. Davanti a una donna sempre più forte e determinata, emancipata
socialmente e sessualmente, il maschio si trova in una condizione di giudizio e quindi di ansia mai conosciuta prima
rispetto alla qualità delle proprie prestazioni.

Una delle più grandi conquiste degli ultimi decenni, è stata la legittimazione dell’edonismo. Il trend continua a svilupparsi
ma il numero di caveat al suo sviluppo è in continuo aumento. Sino a generare in una sorta di controtendenza. Il diritto al
piacere si configura come uno dei capisaldi della nuova morale laica. Il piacere da peccato si trasforma in valore.
Ora questi divieti tendono a tornare. La giungla dei divieti si estende esponenzialmente anche per ragioni sanitarie. Su
tantissimi fattori: fumo, sesso, dolciumi. Quando un’etica nuova sembrava aver liberalizzato e promosso il diritto al
piacere quella tradizione
riemerge sotto le spoglie della scienza. Con un alleato cioè teoricamente anche da una morale laica.

Si è diffuso l’abbandono del desueto, viene rottamato ciò che non serve più, magari in cambio di convenzioni. Il segno
aveva dapprima sconfitto i contenuti materici e prestazionali.
L’abbigliamento dapprima veniva usato finché si poteva. È stato l’avvento delle mode a farlo diventare di continuo
rinnovo. Poi in coincidenza con un generale rallentamento dei consumi, tutto ciò è andato in tilt. I ritmi di moda hanno
decelerato fino a confondersi e a non decretare più totalmente cosa sia desiderabile e cosa no. Il revival si estende ormai
a periodi recentissimi, con un risultato interessante. La rottamazione è emblematica di un sistema di incentivi alla
sostituzione che non può essere più soltanto legato alla desemantizzazione dei beni. Rappresenta un fattore
apparentemente anacronistico, in realtà attualissimo, per sostituire o integrare i tradizionali meccanismi
dell’obsolescenza.

7. RIPENSARE AI TARGET

Target è una parola utilizzata per indicare quella parte di popolazione a cui si intende indirizzare un prodotto-servizio. Il
problema attuale del millennio è che l’estrema eterogeneità dei gusti porti a target molto settoriali e mutanti. La stessa
sociologia è stata divisa sul giudizio da darsi sulla società prevista al termine della transizione tra società tradizionale e
società moderna. Ci sono diversi settori merceologici dove ci sono pochi acquirenti che comprano molto. Questo pubblico
è di una tattica importanza strategica. Per la legge di Pareto il 20% dei consumatori sarebbe responsabile dell’ 80% delle
vendite. Bisogna prima di tutto avere un identikit dei consumatori che importano veramente per la marca. Capirne le
caratteristiche. Un modo per arrivare a questo pubblico è incrementare il fidelitismo, come può fare Esselunga con la sua
fidelity card o internet raccogliendo informazioni.

Il termine nicchia è ormai parte del linguaggio aziendale. La nicchia è sempre più interesse delle aziende. È anche una
trappola pericolosa per chi intende rivolgervisi. Una nicchia va ben conosciuta. Comprendere la reale natura di una
nicchia è necessario, crea i presupposti del proprio successo, ma è utile anche a prenderne le distanze. C’è sempre un
buco nel mercato ma non sempre un mercato nel buco. Gli individui che compongono questa nicchia devono dimostrare
una notevole omogeneità e stabilità, che nel tempo sosterrà la domanda. I componenti della nicchia condividono sempre
senso di appartenenza e consapevolezza. Marca -> Segmento -> Nicchia. La pasta integrale o di kamut della De Cecco è
Nicchia. La nicchia si contraddistingue per una notevole frequenza di acquisto, significative capacità di assorbimento e
forte fedeltà dei consumatori che la compongono. I dati demografici e quelli relativi al reddito sono sempre stati presi in
considerazione. Col tempo che cambia il benessere è sempre meno legato al reddito e questo dato viene preso sempre
meno in considerazione. Anche la distinzione relativa al genere è sempre meno importante. Il consumatore vive un
camaleontismo poiché ha più ruoli nella società. I giovani tendono a manifestare una sempre maggiore omogeneità nei
comportamenti. La loro cultura è diversa da quella degli adulti così come sono da comprendere le loro singolarità. I
giovani hanno poi trainato la cultura attuale, rendendo popolari certi cibi o certi trend. Ciò di riflesso è stato assorbito dagli
adulti. Curioso come i giovani si interessino alle mode, ma di esse quando diventano adulti rimanga solo lo stile. Curioso
poi come gli adulti si diano al giovanilismo, seppure con una flebile tendenza.
Si è anziani sempre più tardi, il termine “vecchio” tende a prendere un’accezione negativa. Tra di loro ci sono i non
vecchi, i vecchi attivi, i ritirati, gli emarginati. Non c’è categoria turistica che non veda in crescita la componente anziana.
La maggiore Intercultura che l’Italia respira ha cambiato i commerci. Basti pensare al cibo, basti pensare che anni fa il
cibo italiano all’estero era considerato cibo etnico. Quanti sono i cibi e le usanze che per via del meltin-pot abbiamo
interiorizzato. Sushi e kebab non sono i soli.

La popolazione LGBT+ non è presa abbastanza in considerazione in Italia. All’estero è molto formato un mercato, senza
alcuna ipocrisia, che mira anche agli LGBT+. In Italia ci si sta muovendo ma siamo sempre indietro. L’omosessualità è
quindi considerata una notevole subcultura.
Un nuovo trend pare essere quello dei Bobos, i bohemien borghesi. (Sarei curioso di vedere cosa direbbe l’autore del
libro sugli hipster se solo fosse arrivato qualche anno dopo). Sono caratterizzati da incoerenze, tendenze sinistroidi,
vocazione per l’infrangere le convenzioni, dualismo tra minimalismo e consumismo all’ennesima potenza.

Si moltiplicano le informazioni relative ai consumi e ai consumatori. Gli stili di vita plasmano in profondità le scelte
dell’individuo a partire dai consumi. Sono scelti dall’individuo quasi sempre indipendentemente dalla sua condizione
economica. Un individuo può trasmigrare tranquillamente da uno all’altro, non generano gerarchie sociali e gli stili più noti
sono di un numero contenuto. La crisi dell’identità tocca anche la realtà dello stile di vita.
Nonostante ciò le persone tendono a voler mettere in ordine certe situazioni così da definirsi, etichettarsi, appartenere.

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8. I LUOGHI DI DISTRIBUZIONE DEL CONSUMO

La questione dei luoghi d’acquisto è ad oggi complessa. La distribuzione si fa ormai ovunque. Sempre più spesso il
consumo di beni e servizi avviene negli stessi luoghi d’acquisto. Oggi il momento dell’acquisto è quasi più coinvolgente di
quello del consumo. Il consumatore va divenendo un vero e proprio professionista dell’acquisto. Un’affermazione vera se
si pensa a come si destreggia in tutta una serie di canali a sua disposizione. Le stesse imprese di produzione talvolta
svolgono anche il ruolo di distributori. La distribuzione cerca di creare un rapporto empatico e personale con il
consumatore, il cosiddetto marketing relazionale. È nel punto vendita che la merce può dialogare con il consumatore
rivolgendosi alla molteplicità dei suoi sensi. La regola è: ambienti estetizzati, spettacolarizzati, colpiscono di più. La
creazione di relazioni del negozio di vicinato viene oggi centuplicata nei nuovi luoghi della distribuzione, nuovi centri di
vita per lo stare insieme, di identità collettive, di socialità. La distribuzione ha avuto poi diversi sprazzi di vitalità. I luoghi e
le modalità dell’acquisto stanno catalizzando sempre più l’interesse del consumatore. La vecchia struttura della
distribuzione ha causato non pochi arretramenti. Ad esempio, il commercio al dettaglio ha pagato duramente l’incapacità
di essere la risposta efficace ai nuovi bisogni del consumatore. Il primato del negozio di vicinato è stato dapprima
insidiato, poi conquistato dal supermercato. È un punto vendita, il super, che è più in sintonia con le esigenze degli
italiani. Un punto vendita che ha saputo fornire una risposta quasi immediata a ogni nuova esigenza del consumatore. La
competitività dei grandi magazzini è limitata dalla loro spersonalizzazione. Invece, le catene, hanno una maggiore identità
e specializzazione merceologica. Il discount ora pare in perdita. I centri commerciali sono ormai altro rispetto al semplice
luogo in cui fare gli acquisti.
Va sgretolandosi il sistema delle licenze che in questi anni è stato un impedimento alla modernizzazione del commercio.
La burocrazia a volte limita. Solo un commercio al dettaglio, con un’adeguata vocazione imprenditoriale e mercantile può
contrastare l’avanzata delle grandi superfici di vendita non più arginata da una normativa veterorestrittiva. Chi vuole
cimentarsi nel commercio deve poterlo fare non come ultima spiaggia del non riuscire a trovare un lavoro. I supermercati
vengono incolpati dalle piccole attività per la diminuzione della clientela.
L’anonimato della grande distribuzione al dettaglio porta con sé anche la personalizzazione non intrusiva dei rapporti. Gli
orari dei supermercati sono inoltre molto flessibili e si chiede la stessa trasparenza del passato. Il supermercato riscuote il
maggior consenso da parte del pubblico, viene descritto come il punto vendita ideale per i beni di largo consumo.
Colpisce il dinamismo con cui il supermercato si adatta ai cambiamenti e alle novità. Il supermercato è autonomia e
ricchezza di scelta, risparmio di tempo, maggiore trasparenza e contenimento nei prezzi. I tratti della completezza ed
esaustività qualificano la sua offerta. La consultazione degli scaffali permette di apprendere l’esistenza e gli attributi
merceologici di prodotti vecchi e nuovi. Il criterio espositivo lo fa percepire come un ruolo regolato da un forte principio
dell’ordine. I prezzi dei supermercati si appellano poi a una sorta di effetto calmiere. Le marche godono di una pubblicità
di eccellente qualità e hanno preso di contropiedi le industrie alimentari su dimensioni che il consumatore guarda con un
crescendo di interesse.
Contare su una struttura di distribuzione efficiente è utile ad ammortizzare le spese di produzione. Il pubblico di ora vuole
più coinvolgimento possibile. Lo shopping deve essere un piacere.
È in atto una rivoluzione silenziosa nella concezione del punto vendita. Vi è una profonda discontinuità rispetto al
passato. Il new deal del punto vendita è che è tutto incentrato sull’intrattenimento. Il negozio deve poter parlare alla
molteplicità dei sensi. Non solo alla vista. Si comunica con la musica, gli odori, con gradevoli sollecitazioni sensoriali e
tattili.
Starbucks è l’emblema di ciò. Sta insidiando l’egemonia del caffè italiano. Entrando si sente un forte odore di caffè, è
personalizzato il rapporto con il consumatore (es: nome del consumatore scritto a mano sulla tazza), possibilità di
acquisto di caffè in grani/macinato e con diverse miscele. Possibilità di acquisto di prodotti succedanei al caffè. Starbucks
vende quindi anche l’atmosfera.
Al franchising si stanno affiancando una serie di canali distributivi che non ne compromettono però lo sviluppo e rendono
più attuale a versatile il nostro sistema distributivo. Il franchising ha successo se i suoi contenuti sono efficaci:
l’individuazione dei target, la qualità della merce, le strategie di marketing e di comunicazione sino alla possibilità di
reinterpretazione intelligente ed adattamento dell’offerta da parte di un operatore locale. Certi insuccessi dell’affiliato
possono essere disastrosi anche per il franchisor. Il centro commerciale è oggi considerabile la cattedrale del consumo.
Entrare in uno shopping center significa venire proiettato in un’atmosfera emozionalmente calda e spettacolare. Nel
centro commerciale è sempre Natale. Se in una città si è rischio di scippi, lì si è davvero in uno spazio sicuro.
Interessante l’intervallare di cinema, negozi, librerie, aree gioco.
Autogrill in Italia è emblema della ristorazione veloce ma anche del libero servizio. È quell’american way of life a cui
guardiamo con tanto interesse. L’autostrada è già emblema di futuro e attualità e questa novità va ad aggiungervisi.
Dapprima c’erano anche Mottagrill e Autobar che poi si sono uniti all’IRI per poi privatizzarsi.
Paradossale come un paese come l’Italia, hometown del mangiar bene, veda Mcdonald’s così triondante. Ha molto
successo tra i giovani. Ricordiamo lo scontro tra Mcdonald’s e Burger King in centro a Milano diversi anni fa. Mcdonald’s
ha dalla sua Happy Meal, un pasto per bambini con un regalo, e buoni prezzi. Burger King ha dalla sua la cottura alla
griglia. In Mcdonald’s si percepisce una straordinaria professionalità.
I parchi a tema acquisiscono centralità tra i luoghi di consumo. Sono un’esperienza a pieno titolo. Si pone come referente
progettuale obbligato per i tanti insediamenti del consumo. Ci si va per l’entertainment e ci si perde poi nelle numerose
scelte merceologiche fattibili. Nati inizialmente per bambini e ragazzi hanno poi modificato il loro pubblico originario.
Il puro divertimento si è evoluto in qualche altra dimensione. Adultainment, edutainment, eatertainement, infotainment e
via dicendo.
Nel contest invece del Villaggio vacanze possiamo vedere tutta una serie di atteggiamenti legati al periodo feriale.
Diciamo che aleggia nell’aria la teoria delle tre s del Club Med: sand, sun and sex. Il sesso mai come promessa. Lo
status è un attributo che i club delle vacanze si sono conquistati sul campo. Se il modello consumatore dovesse
descrivere l’idealtipo di luogo di vacanze questo avrebbe le parvenze di un villaggio. Lo svago è un comun denominatore
che impronta tutta l’offerta dei club. La spettacolarizzazione è una costante di rilievo. Lo sport cresce d’importanza, vitale
la socialità in quel microcosmo che il villagio. Lo shopping è assicurato dalla presenza di boutiques.

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Prende sempre più importanza lo shopping online. Le sue conseguenze sono sottovalutate. Una carente cultura
informatica non aiuta. Ci si chiede quando sarà una massa critica per trasformarsi nel più temibile concorrente delle
attuali strutture distributive. (Ora) Le merceologie proposte aumentano di giorno in giorno. (Il libro ipotizza quella che è
ormai la realtà attuale). L’e-commerce non è solo delle grandi imprese. Vendere su internet significa saper comunicare
con internet. Bisogna avere una cultura di comunicazione e conoscenza dei nuovi media senza cui lavorare in questa
ottica è impossibile. Con internet la possibiltà di una mass customization diventa realtà. I vantaggi per il consumatore
sono molteplici: la reperibilità di prodotti prima difficilmente raggiungibili, il risparmio di tempo e denaro. Il produttore può
saltare le tradizionali strutture distributive. Può personalizzare l’offerta. La logistica diventa a questo punto un fattore
cruciale.
Il mercato appare sempre più saturo, i ritmi di sostituzione si fanno sempre più lenti. Le mode sono visibili e cogenti. Il
revival delle mode fa sì che ci si senta a disagio a buttare cose ancora utili. Si creano quindi canali per disfarsi di cose
ancora funzionanti agevolando la sostituzione. Circolano quindi sempre più merci di seconda mano in sistemi come il
mercatino delle pulci.

9. L'ORIENTAMENTO DEL CONSUMATORE E LA CUSTOMER SATISFACTION

Stiamo entrando in un’epoca dove pare ci siano i presupposti per un vero cambiamento nei rapporti tra produzione e
consumo. L’impresa, per crescere, ha bisogno di un consumatore soddisfatto. Esistono oggi metodologie informatiche per
cui la comunicazione con il consumatore diviene possibile da realizzare. Certe aziende si perdono per la loro incapacità
di parlare col consumatore. Se prima si pensava a vendere tutto ciò che si può produrre ora si pensa a produrre tutto ciò
che si riesce a vendere.
Poi nel tempo è stato introdotto il concetto di orientamento al consumatore.
L’orientamento al marketing è ancora tutto ispirato da una visione endogena all’impresa. È certamente vero che esistono i
consumatori a cui rapportarsi. Però spesso sono visti come una terra da conquistare e non come qualcuno con cui
dialogare. C’è un calo della fedeltà della marca. Il nuovo consumatore vuole sempre più la personalizzazione dei prodotti,
è meno incline a guardare a proposte pensate per un pubblico anonimo e indifferenziato.
Qualcuno pensa che l’orientamento al consumatore si stia rapidamente degradando a luogo comune. La customer
satisfaction è un obbligo morale, accresce la brand loyalty.
Negli studi della customer satisfaction si distinguono tre livelli di qualità:
- Il livello sperato o desiderato, una sorta di referente ideale di qualità.
- Il livello atteso anche in funzione del costo che si prevede di sopportare.
- Il livello percepito dopo l’uso di quel prodotto o durante-dopo la fruizione del servizio.
Il consumatore può essere delighted – grato – sorpreso /soddisfatto / insoddisfatto – abbandonante.
Bisogna assecondare le prorità del consumatore. C’è una crescente attenzione alla qualità dei servizi ma non alla loro
derivazione.
La life time value è una sigla riferita alla creazione di un rapporto duraturo con un cliente, il cui continuo feedback è
fondamentale.
Costoro che forniscono servizi devono avere a cuore il cliente conoscendolo bene ed essendo formati ed efficienti. I
consumatori hanno per l’unione europea dei diritti legati a: soddisfazione dei bisogni fondamentali, salute e sicurezza,
tutela degli interessi economici, essere ascoltati e rappresentati, correttamente informati, risarcimento dei danni,
ambiente sano. Le informazioni spesso vengono negate al cliente, un cliente curioso di vedere e sapere cosa ha attorno.
Ne è un esempio la realtà nutrizionale. Un cliente vuole sapere cosa mangia. La pubblicità è la chiave della
comunicazione, essa stessa educa il consumatore.

10. UN PIANETA ANCORA INESPLORATO

La ricerca di mercato fa parte più ampiamente della ricerca sociale, cambia da essa per via della finalità. Solo una teoria
consolidata può dare senso alle ricerche. Un dato senza costrutto di senso è letteralmente senza senso. Della ricerca è
quindi talvolta sbagliato l’approccio, il richiedere giudizi di valore. Non esiste la ricerca di mercato: esiste solo la ricerca.
Essa deve essere in primis una buona ricerca. Si indaga su una realtà di tipo sociale e i dati sono elaborati a fondo. Ogni
elaborazione contiene poi dati di valenza soggettiva.
Lo studio dei consumi è rimasto di pertinenza di economisti e statistici, deprivato del suo significato umano e sociale,
ridotto a volumi e prezzi, come può essere per il calmiere dei prezzi piuttosto che per l’inflazione

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