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Collana diretta da Eleonora Fiorani

Nello Barile
Brand New World
Il consumo delle marche come forma
di rappresentazione del mondo

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Nello Barile
BRAND NEW WORLD
Il consumo delle marche come forma di rappresentazione del mondo
INDICE

> Introduzione 7

> 1. Evoluzione del brand system nell’interazione dinamica


tra organizzazione, comunicazione e consumo 11
- Accoglienza 16
- Diffusione 25
- Profusione 37
- Diluizione 45

> 2. Scivolando lungo il crinale del presente 65


- Dai “nuovi marketing” (permission, tribal, guerrilla, viral…)
al Societing?! 65
- Verso una nuova polarizzazione di classe: Credit Crunch,
New Austerity e Neotot 77 5
- Il filone ecosostenibile o dell’ecoology 87

> 3. Prove tecniche di Selfbranding: dai social network


ai protagonisti della street-culture 97
- Il branding del sé nel paesaggio tecnologico
(Myspace, Asmallworld, Facebook, Second life) 97
- Dagli street-style alla street-culture: etica, impegno civico
e relazioni sociali nell’invenzione di nuove marche “dal basso” 106

> 4. La transizione del branding dal piano dell’Immaginario


a quello del Reale 127
- Brand manager a scuola da G. Bateson 127
- Il circuito metonimico: la funzione della marca
tra immaginario e vita quotidiana 135
- Per una fenomenologia del consumo come esperienza:
tra paradigma turistico e storytelling 147
- Verso un’esperienza postnarrativa?
Dal consumatore postumano alla dimensione dell’ontobranding 162

> Bibliografia 175


Le primule e i paesaggi hanno un grave difetto: sono gratuiti. L’amore per la
natura non fa lavorare le fabbriche. Si decise di abolire l’amore della natura,
almeno nelle classi inferiori; di abolire l’amore della natura, ma non la ten-
denza ad adoperare i mezzi di trasporto. Era infatti essenziale che si conti-
nuasse ad andare in campagna, anche se la si odiava. Il problema consisteva
nel trovare una ragione economicamente migliore della semplice passione per
le primule e i paesaggi.
A. Huxley, Brave New World, 1932

Anche se è innegabile che la sensibilità nei confronti dell’ecologia rimanga


una nebulosa formata da correnti divergenti, resta comunque il fatto che essa
opera a creare un supplemento d’anima e a “dare una coscienza” alla produ-
zione e ai consumi.
G. Lipovetsky, Le bonheur paradoxal: Essai sur la société d'hyperconsomma-
tion, 2008
INTRODUZIONE

La letteratura che affronta da alcuni anni il problema dell’importan-


za sociale delle marche, ha insistito troppo sull’idea strategica che
vede questi “oggetti” di studio come il prodotto di un’azione razio-
nale elaborata all’interno dei perimetri aziendali e rivolta verso scopi
di natura principalmente utilitaristica. Anche le analisi sociologiche
si sono limitate a riprodurre tale principio e a tradurlo nei termini di
una sociologia dei consumi che ha talvolta manifestato forti comples-
si d’inferiorità nei confronti del marketing. La semiotica si è certa-
mente spinta molto in avanti nella comprensione del funzionamento
dei meccanismi di significazione delle marche, ma ha spesso insistito
su modelli metastorici che non consentono di cogliere le trasforma-
zione culturali di valori e pratiche di consumo.
Il seguente lavoro intende approfondire un aspetto specifico del
valore culturale delle marche. Si tratta della modalità entro cui que-
ste sono penetrate nel nostro quotidiano diventando dapprima il 7
nostro principale orizzonte linguistico, per poi trasformarsi nello
sfondo esperienziale entro cui si svolgono le nostre interazioni socia-
li. Ho portato avanti questa analisi mettendo in correlazione i cam-
biamenti che si sono sviluppati in diversi campi della società, con
particolare riferimento al rapporto tra innovazioni tecnico-organiz-
zative, evoluzione dei linguaggi comunicativi e cambiamento delle
pratiche di consumo. Il compito certamente più arduo e suscettibile
di critiche/miglioramenti è stato quello di storicizzare, all’interno
delle macro categorie proposte, modelli teorici ed eventi comunica-
tivi che non sono sempre allineati sullo stesso piano. Difatti le macro
tendenze culturali sono talvolta anticipate dalla formulazione lungi-
mirante di alcuni modelli, mentre in altri casi tali modelli formalizza-
no teoricamente alcune tendenze culturali sviluppatesi precedente-
mente. Per questo diventa fondamentale il progetto di riflettere sul
sistema delle marche come un oggetto indispensabile alla compren-
sione delle dinamiche culturali contemporanee. Un oggetto che spes-
so funge da mediatore tra il livello teorico e quello empirico, tra
l’astrazione dei modelli e la concretezza degli eventi culturali e
comunicativi.
La nostra vita è costellata da marche che non sono solo oggetti di
consumo ma anche sistemi di scambio simbolico, affettivo, talvolta
Brand New World

sono strumenti di inclusione e di riconoscimento in determinati


gruppi come anche pretesti per l’esclusione sociale. Il mix di elemen-
ti che determina il successo e la notorietà delle marche è anche alla
base di altri fenomeni sociali che vanno dal micro al macro e che de-
signano la maggiore importanza di alcune persone piuttosto che di
altre, di alcuni gruppi, di alcune etnie ecc. In questa prospettiva pos-
siamo parlare di total branding per designare il processo attraverso
cui le strategie di gestione dell’immagine di soggetti o gruppi hanno
raggiunto un grado di rilevanza e di sofisticazione tale, da trasforma-
re le regole entro cui si sviluppa la socialità. Si è verificata una dilata-
zione progressiva del marketing, della logica delle Relazioni pubbli-
che, della creazione/gestione dell’immagine coordinata, della pub-
blicità, degli eventi culturali ecc. che ha investito lo spazio del socia-
le trasformandolo in qualcosa d’altro. Se poi consideriamo il grande
cambiamento imposto dalla larga diffusione dei social media o del
cosiddetto social networking, ci rendiamo conto di come alcuni pro-
cessi già sperimentati nei “laboratori del consumo”, possano transi-
tare nel campo della comunicazione digitale e viceversa.
Mi pare dunque opportuno sviluppare un’analisi sul modo in cui
8 la comunicazione oggi abbia creato un ambiente ideale, all’interno
del quale la cultura del consumo ha assunto un ruolo preponderan-
te nello sviluppo dei processi di socializzazione. Tale prospettiva
deve certamente vagliare il punto di vista situato e ideologico di tutti
gli studiosi chiamati in causa e citati nel corso del testo con il divie-
to di cedere alla tentazione di parteggiare per gli uni o per gli altri.
Nel corso del decennio che ci ha preceduto, la questione del consu-
mo e del potere cognitivo delle marche è stata un leit motiv tanto
potente da eguagliare – in fatto di visibilità e di attenzione pubblica
– quello del “nuovo consumatore” postmoderno. Un fatto certamen-
te paradossale dato che, in base a una logica formale, l’affermazione
degli uni dovrebbe determinare la riduzione dell’altro. Tuttavia, in
questa contraddizione di fondo è rinvenibile il nostro stesso compi-
to: quello di sviluppare un percorso interpretativo che ci mostri
l’evoluzione dei fenomeni comunicativi di consumo e la cultura che
intorno ad essi si genera e come la fondamentale contraddizione tra
una visione “oppressiva” e una liberatoria non faccia altro che asse-
gnare a tali fenomeni il medesimo riconoscimento e un sempre più
elevato grado di legittimazione sociale. Tra la proiezione distopica di
Huxley e un futuro dal sorriso smagliante del “successful living”, si
dipanano molteplici percorsi di lettura che possono aiutarci a com-
prendere il nostro presente a prescindere dalle preoccupazioni ripo-
Introduzione

ste nell’immediato futuro. Certamente si dirà che proprio questo è il


limite di tale approccio, accettare la presentificazione imposta dal
sistema della comunicazione e del consumo, legittimarne lo status
quo ante, addirittura sposandolo come dimensione prioritaria della
seguente analisi. Ma per scagionarmi da questa eventuale accusa
posso certamente rimandare a un mio recente pamphlet (Barile
2008) citato in bibliografia, in cui ho dimesso gli abiti dell’osservato-
re obiettivo per vestire quelli del polemista. È ora giunto il momen-
to di tornare all’analisi, rinforzati dall’esperienza precedente. Siamo
pronti a valicare la soglia di questo “nuovo mondo” che è fatto di
oggetti, immagini e nuovi concetti che informano e accompagnano la
nostra esperienza di ogni giorno. Il Brand New World è un mondo
in cui tutto ciò che esiste ed è individualizzabile da un punto di vista
fenomenologico, tende a trasformarsi in marca, a marcare una sua
propria identità e a riempirla di valori, relazioni ed esperienze pecu-
liari. Anche se il branding è il presupposto di qualsiasi attività com-
merciale, esso eccede la dimensione del business per investire quella
esistenziale. Diventare brand di se stesso, assorbire il vissuto dei con-
sumatori per rigenerare il brand, enfatizzare un elemento insignifi-
cante della vita quotidiana che si espande precipitosamente e diven- 9
ta marca, sono processi distinti che ci dicono molto su come sia cam-
biato il nostro rapporto con il mondo.
1. EVOLUZIONE DEL BRAND SYSTEM
NELL’INTERAZIONE DINAMICA TRA ORGANIZZAZIONE,
COMUNICAZIONE E CONSUMO

L’avvento della società dei consumi è datato in modo diverso a se- 11


conda degli studiosi e delle prospettive attraverso cui si è cercato di
inquadrare tale evento. Per alcuni essa è addirittura collocabile nel-
l’Inghilterra nella seconda metà del 1500 [McCracken 1988], per al-
tri invece essa attecchisce maggiormente nel secolo del Romantici-
smo e con tale sentire intrattiene una relazione preferenziale [Camp-
bell 1992]. Quando poi tale disamina coinvolge le forme della moda,
la prospettiva si allarga a un lasso di tempo ancor più esteso, laddo-
ve il concetto di consumo cede il passo a quello di imitazione o di esi-
bizione del potere [Konig 1988; Elias 1980].
In molti si sono scagliati contro la visione di Marx con particolare
veemennza. Questo perché l’approccio marxiano, che tenta di foto-
grafare la società industriale nelle sue contraddizioni, enfatizzerebbe
eccessivamente la fase tecnologica ed economicistica della fabbrica e
dunque della produzione come motore della rivoluzione e della tra-
sformazione degli stili di vita preindustriali1. Per motivi diversi, an-
che questo lavoro intende partire da un periodo cruciale, se non per
lo sviluppo di una cultura del consumo, almeno per la demarcazione
1. In particolare Campbell [1992] sottolinea il limite di tale impostazione tentando di
superare il determinismo tecno-economicista di Marx. A tal fine inserisce nell’analisi
altre variabili che gravitano intorno alla sfera del consumo ovvero indaga la “natura
della domanda” che lo conduce a considerare la fase preindustriale del XVIII secolo.
Brand New World

netta che si compie tra il concetto di produzione, lavoro, merce o


marca, dal contesto complesso e poliedrico della vita quotidiana. Il
momento di divaricazione tra questi mondi, cioè quello del consumo
e quello della cultura tradizionale e dell’organizzazione sociale co-
munitaria, coincide certamente con il passaggio alla seconda metà
del XIX secolo. Non a caso uno dei pochi strumenti che in Italia rico-
struisce la cronistoria dei consumi moderni [Tirelli 2002] deve riser-
vare al periodo che va dal 1850 al 1899 un’ampia sezione, essendo
questo il momento di decisiva fondazione delle principali soluzioni
tecniche, organizzative e comunicative che con il passare del tempo
mantengono una particolare longevità. Allo stesso modo ma sul
piano prettamente teorico, Marx ha elaborato una riflessione com-
plessa e articolata del rapporto tra produzione e consumo che non
ha emarginato la sfera culturale anzi, in un certo senso ne ha antici-
pato il percorso. Nell’introduzione ai Lineamenti fondamentali della
critica dell’economia politica 1857-1858 detti sinteticamente Grund-
risse [1970], sono almeno tre le linee interpretative che consentono
allo studioso di analizzare o addirittura prevedere il decorso del
sistema capitalistico. Nel periodo ancora incipiente dello sviluppo
12 industriale, la produzione e il consumo si presentano profondamen-
te legati in un’unità complessa che è difficile da districare. Non si
presenta immediatamente una chiara definizione e concatenazione
dei termini della questione – degna di un approccio determinista –
quanto piuttosto una sovrapposizione tra linee argomentative che,
con i dovuti distinguo, si tradurranno nei modi storici di evoluzione
del rapporto tra produzione e consumo. Alla domanda su come si
articola tale rapporto, Marx risponde con tre argomenti.

1. Quello gerarchico tra i due livelli, al vertice dei quali sta la pro-
duzione mentre alla base è collocato il consumo. Marx definisce que-
sto schema “sillogistico” perché la produzione corrisponderebbe al
“puro universale” mentre il consumo è il “puro particolare”. Si sta de-
finendo una relazione asimmetrica tra i due livelli che in qualche mo-
do si ritroverà in modelli organizzativi che sacrificheranno, a distanza
di pochi decenni, la dimensione del consumo come accessoria e subal-
terna rispetto alle strategie aziendali. La stessa globalizzazione, che è
un movimento centrifugo di liberazione dalle istanze localistiche2

2. È interessante notare come a questa idea “illuminista” della produzione corrispon-


da una visione tremendamente etnocentrica del rapporto tra le culture che ribadisce
il retaggio hegeliano del suo pensiero come ha notato ad esempio Tomlinson [2001].
Evoluzione del brand system

verso una cultura che si costituisce come universale, è stata a lungo


influenzata dalle dinamiche della produzione che ancora oggi, come
si vedrà nella parte finale di questo lavoro, ne condizionano il corso.
La produzione è il motore del progetto industriale. Marx la defi-
nisce come un universale, che attraverso il termine medio costituito
dalla distribuzione e dallo scambio, perviene al puro particolare che
è il momento del consumo.

[…] la produzione produce gli oggetti corrispondenti ai bisogni; la


distribuzione li ripartisce secondo leggi sociali; lo scambio ridistribuisce
il già distribuito, secondo il bisogno individuale; nel consumo, infine, il
prodotto esce fuori da questo movimento sociale, diviene direttamente
oggetto e servitore del bisogno individuale e lo soddisfa nel godimento.
In tal modo la produzione si presenta come punto di partenza, il consu-
mo come punto finale, la distribuzione e lo scambio come il punto inter-
medio, il quale è a sua volta duplice, in quanto la distribuzione è deter-
minata come il momento che proviene dalla società, e lo scambio come
il movimento che proviene dagli individui [Marx 1970: 12].

La produzione è in un certo senso un’ipotesi3 che richiede di esse- 13


re convalidata sul campo. Tale conferma coinvolge dunque il mo-
mento del consumo in cui il prodotto si declina in un determinato
ambito, rispetto a una determinata persona, soddisfacendo un deter-
minato bisogno. Il consumo è sempre localmente situato, ma ha il
potere di conferire una certa fisionomia a quell’oggetto che altrimen-
ti resterebbe astratto e pertanto vacuo. In questa sorta di “schemati-
smo” il consumo riempie di contenuti esperienziali la categoria
astratta della produzione. In questo sta il suo enorme valore. Il ter-
mine medio del sillogismo, che comprende la coppia distribuzio-
ne/scambio come istanze che provengono rispettivamente dal socia-
le e dai soggetti, assume nel discorso marxiano una importanza deci-
siva. Anche se in questo caso quella che in Marx è una critica mira-
ta a singoli aspetti intesi come parti di una totalità si tradurrà, nello
sviluppo capitalistico, in una revisione funzionale alla sopravvivenza
del sistema. La distribuzione è divenuta difatti una della principali

3. È chiaro che Marx non parla di ipotesi perché l’impianto concettuale che va co-
struendo è alimentato da un necessità interna ed è mosso dalla causa prima che è la
produzione. Alla necessità deduttiva del meccanismo sillogistico, che si fonda su pre-
messe e conclusioni ineffabili, è però preferibile il ragionamento abduttivo della teo-
ria scientifica che tende a testare ipotesi ad hoc su specifici contesti esperienziali.
Brand New World

leve sulla quale il marketing agisce per incrementare i profitti e il


centro della riflessione del cosiddetto supply chain management4
[Ferrozzi, Shapiro 2000].

2. Alla prima linea interpretativa suggerita dal testo segue una con-
statazione in parte contraddittoria: la produzione è una forma di
consumo e viceversa il consumo è una forma di produzione. Secon-
do l’autore, la produzione è già da sempre una forma di consumo, in
quanto essa ha bisogno di “bruciare” energia e materia per dare vita
a un nuovo bene, ma allo stesso tempo anche il consumo è una forma
di produzione, in quanto bruciando energie e materiali, riproduce,
come nel caso della pianta, nuova vita.

La produzione è immediatamente anche consumo. Duplice consumo,


soggettivo e oggettivo: l’individuo che nel produrre sviluppa le sue ca-
pacità, le spende anche, le consuma nell’atto della produzione esatta-
mente come la procreazione naturale è un consumo di energie. In se-
condo luogo, essa è un consumo di mezzi di produzione, che vengono
usati e logorati e, in parte, (come ad esempio nella combustione) dissol-
14 ti nuovamente negli elementi generali. Consumo, altresì, della materia
prima, che non resta nella sua forma e costituzione naturale, giacché
queste vengono distrutte. L’atto stesso di produzione è perciò in tutti i
suoi momenti anche un atto di consumo. Ma questo gli economisti lo
concedono. La produzione come immediatamente identica con il con-
sumo, il consumo come immediatamente coincidente con la produzio-
ne, essi lo chiamano consumo produttivo [Marx 1970: 13-14].

Le due dimensioni sono speculari, intendendo con tale termine il


fatto che sono identiche ma contrarie, come identiche e contrarie
sono la forma fisica di un corpo e la sua immagine riflessa in uno
specchio. Il loro comune denominatore è la creatività. In questa
affermazione si tenta chiaramente di delineare una prospettiva di
recupero e di rivalutazione della fase del consumo. Tutto ciò nono-
stante la sovrastruttura ideologica dell’autore, combinando assunti
epicurei sulla condizione del piacere e vocazioni illuministe all’uni-
versale, può difficilmente tollerare un momento tanto effimero e cul-
turalmente condizionato.

4. Si tratta di un’estensione della riflessione manageriale sulla logistica che si vede tra-
sformata da momento periferico e ancillare rispetto alla produzione, in una funzione
regolatrice dell’intera filiera produttiva.
Evoluzione del brand system

3. L’idea di un’equipollenza di produzione e consumo suggerisce


un ribaltamento della precedente prospettiva sillogistica in funzione
di una rivalutazione del secondo. Già precedentemente si sostiene
che “l’atto finale del consumo, che è inteso non solo come termine
finale ma anche come scopo finale, sta propriamente al di fuori dal-
l’economia, tranne che nella misura in cui esso reagisce al suo punto
di partenza e avvia di nuovo l’intero processo” [ivi: 12-13]. L’atto del
consumo, che stando “fuori dall’economia” si caratterizza come
prettamente culturale, è descritto come finale in due sensi. Il primo
meramente temporale, il secondo propriamente teleologico: il consu-
mo indirizza la produzione. In questa prospettiva il consumo che sta
fuori dalla sfera dell’economia è il motore capace di riavviare ciclica-
mente il meccanismo della produzione del valore.
Queste varie interpretazioni sono alla base della categoria di Fi-
nish: la fase del consumo è fondamentale in quanto conferisce signi-
ficato alla produzione come ultimo anello della catena del valore. In
secondo luogo, il consumo è il momento che, individualizzando la
produzione, gli conferisce un aspetto umano e creativo. È chiaro che
già in questi passi si intravede quello che sarà un traguardo raggiun-
to dall’odierno sistema dei consumi e delle riflessioni teoriche che su 15
di esso vertono. Secondo Abruzzese [2001] nella riflessione marxia-
na è già presente il concetto di consumo inteso come “pratica signi-
ficante” capace di dare non solo forza ma anche senso all’intero pro-
cesso produttivo.

Nel finish che il consumatore assegna alla merce troviamo una forza
costitutiva dell’intero ciclo produttivo. Non è un caso, infatti, che Marx,
parlando di produzione di merci, ricorra, per descrivere la forma di pro-
duzione di consumo che è anche forma di produzione dei bisogni, alla
dimensione artistica: in essa come esperienza del consumatore come
lavoro vissuto, come forza percepita, Marx indica quanto non è fisica-
mente rappresentabile, identificabile, descrivibile nelle macchine della
mercificazione [Abruzzese 2001: 61].

La convergenza tra il livello della produzione e quella del consu-


mo, era già intuita da Marx, che per l’appunto parla di “produzione
di secondo livello”, anticipando la concettualizzazione di de Certeau
(2001). Sarebbe tuttavia eccessivo attribuire a Marx il merito di aver
previsto o condizionato il processo di trasformazione che ha dato vita
al famoso “prosumer” di Toffler (1979). Marx difatti critica aper-
tamente l’opzione dialettica (pur essendo lui stesso un hegeliano) e,
Brand New World

dopo aver toccato tutte le possibili chiavi di lettura, opta decisamen-


te per la prima linea che ribadisce il primato sociale della produzio-
ne sul consumo. Non è soltanto l’oggetto del consumo ad essere pro-
dotto dalla produzione, ma anche il modo di consumarlo, non solo
oggettivamente, ma anche soggettivamente. La produzione crea
quindi il consumatore.

[…] Ma la cosa più importante da mettere in rilievo è che produzione


e consumo, considerati come attività di un soggetto o di più individui,
si presentano in ogni caso come momenti di un processo in cui la pro-
duzione è l’effettivo punto di partenza e perciò anche il momento ege-
monico. Il consumo come necessità, come bisogno, è esso stesso un
momento della produzione [Marx 1968: 16-19].

Sebbene in questa fase che fa da Big Bang del sistema quelle che
saranno le distinzioni nette dello sviluppo successivo si confondono
problematicamente, già si delinea il corso che nella filogenesi assu-
merà il sistema dei consumi. Queste categorie si distanzieranno dia-
metralmente, muovendo verso poli opposti in un’asimmetria pro-
16 grammatica che verrà comunque gestita dalle esigenze della produ-
zione, capace di assoggettare le dinamiche del consumo. Da facce
speculari di uno stesso sviluppo, le due andranno incontro a una
separazione progressiva e a una sorta di lotta per la sopravvivenza
che determinerà gli sviluppi del mercato mondiale.

> Accoglienza

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si sviluppano una


serie di dispositivi che mirano a trasformare il rapporto tra forme
organizzative, pratiche di consumo e linguaggi della comunicazione
per stravolgere l’assetto esperienziale della vita quotidiana, attraver-
so l’innovazione. Si tratta di invenzioni tecniche, di svolte comunica-
tive, di nuove formule di gestione e di distribuzione, che consentono
di dare una nuova veste e un nuovo status alle merci. Queste vengo-
no collocate dentro nuove cornici che servono principalmente a dare
una nuova immagine ai prodotti e alle attività delle aziende.
S’afferma qui un principio di separazione che mira a creare una
distanza, sempre più marcata, tra il mondo delle imprese e quello dei
consumatori. Tale distanza serve da un lato a favorire il processo
d’istituzionalizzazione delle aziende, che assumeranno con il tempo
Evoluzione del brand system

una legittimazione sempre più rilevante, ma anche a imporre il con-


trollo degli apparati sul mercato, dei messaggi sui bisogni e sui desi-
deri dei consumatori. Dunque la gran parte delle invenzioni scienti-
fiche, con la loro ricaduta sul mercato, servono a instaurare una
nuova cultura del consumo basata sui valori della efficienza, della
facilità d’accesso e, progressivamente, sulla democraticità. Obiettivo
fondamentale è scindere, dal mondo composito e sfaccettato della
vita quotidiana, una serie di pratiche che da quel momento vivranno
di una loro propria autonomia. Recuperando un concetto tipicamen-
te fenomenologico, potremmo dire che avviene una sorta di selezio-
ne di alcune “province chiuse di significato” [Shutz 1979] che sono
elaborate e marcate per essere poi trasformate in situazioni a sé stan-
ti. In tal modo, quel sistema di pratiche quali il nutrirsi, il muoversi,
il coprirsi, il giocare ecc., diventano momenti cruciali o sottodimen-
sioni di un’attività che, da lì a poco, sarà definita come consumo e
acquisterà molteplici significati a seconda dei luoghi o dei tempi in
cui è espletata, dal tempo di lavoro al loisir. L’autonomizzazione delle
pratiche di consumo dal sistema delle pratiche quotidiane attecchi-
sce in questa fase, ma sarà molto più evidente in quella successiva.
Quello che accade ora è soprattutto la demarcazione tra sfere distin- 17
te. In primo luogo quella produttiva erige una barriera che la separa
dal contesto del consumo. Se il lavoro nella società preindustriale si
svolgeva nel medesimo luogo dell’abitazione, ora esso deve essere
svolto in un perimetro chiuso e controllato che tenderà a coincidere
sempre più con il modello del laboratorio sperimentale. Al suo inter-
no operano persone che, in base al principio ancora marxiano del-
l’alienazione, non conoscono la totalità del processo lavorativo nel
quale sono inscritte e dunque non immaginano quale sia il fine stes-
so della loro attività. Tale separazione primaria, che riverbera su
tutto l’immaginario distopico novecentesco, è la base su cui si edifi-
ca l’autorevolezza del sistema dei consumi rispetto ai mondi di vita
delle persone comuni. Laddove esistono apparati dotati di capitale,
di “nuove” tecnologie e di risorse umane organizzate, si crea una
sorta di istituzione che ha una sua influenza persuasiva su comunità
che aderiscono a criteri arcaici di organizzazione. Tale principio rie-
voca ancora una volta la distinzione fondamentale stabilita da Marx
tra “lavoro astratto” e “lavoro concreto” e si afferma in maniera pre-
ponderante in tutti i sistemi produttivi, da quelli materiali a quelli
immateriali, dall’industria manifatturiera a quella mediale e cultura-
le [Abruzzese 2001].
Il “principio di separazione” tra il sistema dei consumi e la vita
Brand New World

quotidiana diventa chiaro e ben delimitato. Sono altresì ben chiari i


principi che ispirano questi due diversi contesti sui quali si costrui-
sce l’impalcatura del nostro presente. Il sistema dei consumi si edifi-
ca su un principio profondamente dinamico di cambiamento conti-
nuo e incessante mentre il mondo della vita quotidiana è caratteriz-
zato per sua natura da un principio di inerzia che la sociologia feno-
menologica ha sapientemente sviscerato. Il passaggio dalla comunità
alla società, frutto dei molteplici fattori del processo di modernizza-
zione, mette in crisi la definizione del “mondo di vita” preesistente.
Ciò da cui questo si distingueva, cioè un pensiero astratto, auto-
oggettivante e tecnico-strumentale, ora diventa preponderante, gua-
dagnando sempre più terreno. L’omeostasi è quella funzione conser-
vativa che consente al mondo della vita quotidiana di mantenersi
inalterato nella sua natura e nella sua struttura essenziale, nonostan-
te i processi di obsolescenza coatta indotti dai sistemi tecnologici,
dalla moda e dai consumi. L’importanza del quotidiano sopravvive ai
movimenti centrifughi di modernizzazione delle società sino ad
acquistare un ruolo addirittura strategico nella fase di passaggio dai
vecchi ai nuovi media. L’omeostasi del quotidiano è accompagnata
18 da un pensiero che è per definizione inerte. Agnes Heller, in un suo
celebre saggio, studiando i passaggi dalla categoria di comunità a
quella di classe – che è pilastro della società moderna – descrive que-
sto tipo particolare di resistenza. L’inerzia è la forza che accomuna il
pensiero quotidiano al vivere comunitario. Essa coinvolge massima-
mente la struttura, ma coinvolge anche i contenuti del pensiero.

La funzione del pensiero quotidiano deriva dall’esistenza delle funzioni


vitali quotidiane, quindi può essere considerata immutabile […] Invece
mutano anche se con un ritmo assai vario la struttura e i contenuti. La
prima in maniera estremamente lenta e ha talvolta periodi di estrema
stagnazione. Al confronto i contenuti del pensiero quotidiano mutano
in maniera relativamente rapida. Ma se li confrontiamo con il pensiero
scientifico appare chiaro che anche questi sono in certa misura conser-
vatori e obbediscono a una sorta di “legge d’inerzia”[Heller 1981].

L’originale “dialettica” che s’instaura tra le comunità – con i loro


sistemi valoriali localistici e i soggetti astratti che abitano il mercato
– esprime una vocazione universalistica e centrifuga che tende a for-
zare e a ridurre il carattere omeostatico delle comunità per introdur-
re nei contesti di vita localizzati la propria innovazione. L’agente pri-
mario di questo processo, che è qui descritto in modo schematico, è
Evoluzione del brand system

il consumo nella sua accezione più generale. La merce è il motore


della trasformazione delle prassi quotidiane e di apertura delle
comunità alle logiche universali del mercato. Tale processo è deter-
minato dalla creazione e dall’innesto sociale di alcuni dispositivi di
trasformazione che tendono a modificare l’ambiente urbano, la sfera
percettiva e le esperienze quotidiane in funzione dei progressivi
gradi d’estetizzazione.
La prima e la più importante tra queste cornici è la Grande
Esposizione Universale, già nata in Francia sul finire del Settecento
ma decisamente riprogettata e rilanciata come motore della trasfor-
mazione nel corso del XIX secolo, e in modo particolare nel 1851 con
la Grande Esposizione di Londra. Dato che su tale evento ha già insi-
stito una florida letteratura mi limiterei a sottolineare solo le caratte-
ristiche che sono funzionali al mio discorso. In primo luogo il con-
cetto di cornice del consumo trova qui la sua più compiuta materia-
lizzazione. La Grande Esposizione è difatti situata nel cuore della
Londra vittoriana, quasi come si trattasse di un disco volante disce-
so sulla terra a diffondere la nuova vulgata del consumo moderno. Il
Crystal Palace, progettato dal celebre architetto Paxton apposita-
mente per questo straordinario evento, utilizza una tecnologia piut- 19
tosto innovativa per il periodo: quella delle serre. Un’immensa
impalcatura tubolare coperta da lastre di vetro serve in questo caso
a invertire la funzione che tipicamente svolgono le serre della produ-
zione agricola per la fotosintesi. Non si tratta dunque di facilitare il
passaggio della luce dall’esterno all’interno ma piuttosto il contrario.
La costruzione del Crystal Palace – un’immensa serra rovesciata –
incentiva la trasmissione della nuova luce trasmessa dai prodotti rea-
lizzati industrialmente dal cuore della metropoli ottocentesca al
cuore dei suoi abitanti del centro e delle periferie, all’insegna di un
valore fondamentale che, da quel momento, asseconda la diffusione
dei consumi: la trasparenza. Gli ultimi prodigi della tecnologia indu-
striale dell’epoca erano esibiti attraverso nuove tecniche espositive,
di allestimento e d’illuminazione e recitavano il loro ruolo dinnanzi
a scenografie eclatanti e inusitate per lo sguardo di un comune spet-
tatore. In questo momento si salda fortemente il rapporto tra la cul-
tura del consumo e quella dello spettacolo, che inventerà in futuro
soluzioni sempre più strabilianti. I lavoratori, che accedevano alle
esposizioni pagando un prezzo ragionevole, si trovavano per la
prima volta dinnanzi ai beni che avevano contribuito a produrre, ma
questi erano del tutto irriconoscibili. Le prime applicazioni della
fotografia nella sua fase nascente, consentivano inoltre di deterrito-
1. Una sequenza tratta dal celebre film d’animazione Steamboy (ispirato al genere steam-
punk) in cui i protagonsti s’addentrano furtivamente nel Crystal Palace.

> 1.

20 rializzare lo spettacolo di quell’evento, di trasporre i contenuti di


quella cornice urbana dal forte valore evenemenziale, su un livello
più astratto, sganciato dal contesto e dalla durata dell’evento. La cor-
nice dell’Esposizione incrocia così quella del dispositivo fotografico,
già rodato qualche anno prima ma utilizzato pubblicitariamente per
celebrare il fasto e la magnificenza del Regno unito al cospetto dei
grandi del mondo. Se nel ’51 le immagini dell’Esposizione “[…] han-
no raggiunto lo zar di Russia in via esclusiva e straordinaria” mentre
“il Crystal Palace e la Regina Vittoria assumono forza di emblema che
si ferma nel tempo, l’Esposizione del 1862 vede trionfare esclusiva-
mente la forza dell’immagine meccanica, una tangibilità stereografica
che rimanda con forza al reale” [Fiorentino 2008: 23].
Si è detto che la Regina Vittoria invitata a inaugurare l’evento fosse
la prima testimonial della storia della comunicazione, ma questo è
troppo o troppo poco, dato che l’Esposizione a quel tempo era anco-
ra lo strumento nelle mani dei grandi paesi industrializzati per cele-
brare la loro autorevolezza e il loro primato sul resto del mondo. Nel
testo che ha fondato la riflessione abruzzesiana in Italia sul rapporto
tra le forme di comunicazione e di consumo, le Esposizioni in un
certo senso concretizzano ciò che in prospettiva teorica contempla-
vano personaggi del calibro di Wagner: l’utilizzo della bellezza come
mezzo di educazione della massa, della plebe che in tal modo può
Evoluzione del brand system

elevarsi a quella unità omogenea di sentimenti e intenti che è il popo-


lo [Abruzzese 1973]. Ad essa seguono le nuove forme del consumo
e della comunicazione che dietro la spinta del mercato, procederan-
no a trasformare il popolo in pubblico.

Lo spettacolo delle Esposizioni universali è uno strumento prestigioso


ed eccezionale, che il ceto dirigente di un paese possiede per l’educazio-
ne del suo pubblico […] da un lato l’industriale, che per la sua stessa
natura e funzione, deve far coincidere il suo interesse con l’educazione
del pubblico, dall’altro lato il pubblico, le varie classi sociali, che, in
diversa misura, compongono la folla di una grande metropoli, interes-
sate alla propria educazione, quanto al proprio divertimento [ivi: 42].

Le Esposizioni universali sono l’antesignano delle nuove cattedra-


li in cui si professa il culto del consumo moderno, tanto che Ben-
jamin ha voluto definirle come il “luogo di pellegrinaggio al feticcio
della merce” [1962: 145]. Si presentano sin dalla loro nascita come
momenti di connessione dell’esperienza localistica a forme e organiz-
zazioni astratte: dei veri e propri corridoi spazio-temporali che ini-
ziano, ancora solo parzialmente, a modificare la grammatica dello 21
sfondo esperenziale [Habermas 1993] in conformità con il più gene-
rale stravolgimento percettivo determinato dalla metropoli moderna.
L’invenzione di una nuova tecnica, la cromolitografia, consente
per la prima volta di stampare a colori supporti cartacei di vario for-
mato e spessore. Essa dà vita a due importantissime rivoluzioni co-
municative che trasformano rispettivamente il paesaggio della me-
tropoli ottocentesca e quello della vita domestica. La prima è la
grande svolta che si concede alla cartellonistica pubblicitaria, il se-
condo riguarda invece la nascita del packaging, il cui ruolo si modi-
fica progressivamente da strumento di protezione e di conservazio-
ne dei prodotti a medium primario che comunica l’estetica della
merce. Con la nascita dei primi manifesti moderni, il volto della
metropoli muta considerevolmente. La continuità che contraddi-
stingueva le forme di vita pregresse è spezzata da queste finestre che
aprono l’esperienza situata e localizzata del consumatore ad attività
o avvenimenti che accadono altrove e che sono comunicati attraver-
so la riproduzione seriale delle immagini offerte dai grandi artisti.
Nella ricostruzione di Vittorio Pica [1995], è proposto un principio
di classificazione del modo attraverso cui evolve il manifesto moder-
no. Con Cheret, lo stile ancora molto legato all’arte dell’illustrazio-
ne cerca di sviluppare un nuova strategia visuale per colpire e cattu-
1. Il manifesto rappresenta uno dei tipi sociali rappresentati dallo stile di Jules Cheret.
2. Toulouse-Lautrec presta la sua arte alla promozione del celebre locale notturno pari-
gino.

> 1. > 2.

22 rare lo sguardo del passante. Mentre le sue donnine affusolate e


inquietanti, denominate per l’appunto le cherette, rivendicano l’im-
portanza di un stile di vita pubblico per la donna moderna, attraver-
so il loro “sorriso isterico”. Con Toulouse-Lautrec il disegno dei ma-
nifesti inizia a rispettare criteri più pubblicitari che artistici, so-
prattutto nel rapporto tra l’immagine e il testo, tra visual e lettering.
I contenuti da lui descritti raccontano di un’umanità marginale fatta
di personaggi notturni, ballerine e viveur, che per la prima volta
sono mostrati come modelli sociali di riferimento. Cappiello, in tale
tassonomia, rappresenta il salto definitivo verso uno stile grafico in
cui il messaggio è parte integrante dell’apparato visuale e i personag-
gi, mitici o fantasmagorici, rivestono marche e prodotti di un’inedi-
ta allure.
Come già detto, la medesima tecnica serve anche ai fini del packa-
ging come branca autonoma del marketing. I prodotti, che fino a po-
co prima erano venduti in modalità sfuse, sono collocati dentro invo-
lucri che sviluppano due funzioni principali: dire a chi, a quale ditta
appartiene il prodotto, proteggerlo dagli accidenti e conservarlo nel
tempo. Da uno scopo prettamente funzionale si passa col tempo a
una serie di nuove applicazioni che trasformano tale strumento in un
vero e proprio mezzo di comunicazione della marca o, ancora me-
glio, in un canale decisivo attraverso cui la marca offre la propria
1. Grazie a Cappiello l’illustrazione raggiunge una maturità grafica tipicamente moderna.

1. <

esperienza al suo pubblico5. Oltre alla funzione primaria di protezio- 23


ne e di conservazione dei prodotti industriali esso, per la prima volta,
serve a isolare e a enfatizzare l’identità del prodotto che, fino alla fase
preindustriale, era pressoché inesistente. La confezione comunica
anche aspetti giuridici relativi al produttore e dunque lega il prodot-
to all’attività di una specifica marca, che, come ha sostenuto Sempri-
ni [1996], in questa fase svolge una funzione principalmente “segna-
letica”6.
Nella fase dell’accoglienza le nuove merci violano e trasformano il
corpo “illibato” della vita quotidiana modificando radicalmente la
percezione degli spazi del consumo. Ancora nella fase della prima in-
dustrializzazione, quando cioè il consumo inizia a svincolarsi dalle
forme del quotidiano, istituzionalizzandosi come fenomeno autono-
mo, il tempo e lo spazio del consumo occupano solo una parte del-

5. Si pensi al film tratto dal celebre romanzo di Philip K. Dick, Minority report di
Steven Spilberg, in cui il protagonista, interpretato da Tom Cruise, è alle prese con
superfici di prodotti che trasmettono immagini dinamiche.
6. Definizione che del resto coincide con l’analisi di Ugo Volli della marca che è ciò
che “dice la sua etimologia (dall’antico germanico markian ‘segno di confine’): una
marchiatura, un segno che indica appartenenza. Tali segni, dopo essere stati cippi di
confine, punzoni sull’argenteria, cicatrici impresse a fuoco sul bestiame, appaiono
oggi su prodotti, luoghi di servizio ecc.” [Volli 2003: 83].
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l’esperienza di ogni giorno. Alcuni luoghi rappresentano delle evolu-


zioni di vecchie modalità “distributive” che maturano all’interno del-
l’orizzonte dell’esperienza quotidiana. L’emporio, ad esempio tra-
sforma radicalmente il rapporto tradizionale tra negoziante e cliente
e tra cliente e merce. Se nell’epoca precedente il bottegaio intrattene-
va una relazione personale e particolaristica con un determinato cli-
ente, ora perde la sua funzione di intermediario tra la merce e il clien-
te. Nell’organizzazione dell’emporio le merci sono esposte in modo
“obiettivo” affinché il cliente possa esercitare il suo proprio giudizio
nella scelta d’acquisto, fatto che lo emancipa dalla funzione d’indiriz-
zo e dal consiglio del negoziante. Esso muta dal di dentro la struttu-
ra del rapporto comunitario in funzione di una relazione asettica e
universalistica (nel senso societario) tra i membri delle comunità.

Nemmeno il rapporto con il negoziante viene più a rassicurare, perché,


come abbiamo visto, nell’emporio al vecchio rapporto quasi amicale tra
venditore e acquirente si sostituisce ora progressivamente la nuova con-
dizione sempre più solitaria del consumatore lasciato solo al momento
di fare le scelte dei beni [Codeluppi 1992: 35].
24
Le merci, che prima erano accumulate casualmente, ora sono col-
locate sugli scaffali attraverso un criterio tassonomico che le organiz-
za in tipologie espositive. In questo vuoto relazionale si inseriscono
le gradi marche che tendono a surrogare una fiducia basata su aspet-
ti estrinseci alla merce (la relazione parentale/amicale o l’autorevo-
lezza del ruolo) con una fiducia astratta e impersonale, intrinseca ai
prodotti (nel senso di attestazione di provenienza, di origine, di
autenticità).
La marca diventa il garante universale della qualità del prodotto e
indirizza la fiducia del consumatore mentre la pubblicità diventa il
linguaggio con il quale si esprime monologicamente la marca attra-
verso la già citata modalità comunicativa “segnaletica”. Se lo spazio
interno dell’emporio è governato da un principio razionalistico,
quello esterno della sua superficie scenica dà vita allo spettacolo
della merce secondo il gusto e la sensibilità del suo gestore. Anche
qui ovviamente interviene la scienza, specialmente grazie alle tecni-
che d’illuminazione della merce, che con il gas prima e l’elettricità
dopo [Schivelbusch 1994], alterano la percezione banale degli og-
getti ricollocandoli in un immaginario mitico e fantasmagorico pro-
prio che rimandava allo spettacolo della Grande Esposizione, insie-
me archetipo e paradigma delle più modeste vetrine urbane. Sin dal
Evoluzione del brand system

1850 furono difatti disponibili tecniche di produzione di enormi la-


stre di vetro [ivi] che aprivano sulle merci uno sguardo diverso, non
più ostacolato da griglie di legno o da strutture di sostegno, ma libe-
ro di muoversi sulla superficie visiva e di proiettarsi immaginaria-
mente al suo interno. La vetrina si trasforma da espediente estempo-
raneo di cattura dello sguardo del passante, in mezzo di comunica-
zione pubblicitaria ante litteram, che tramite lo sviluppo delle tecni-
che del visual merchandising, segue il medesimo percorso di razio-
nalizzazione e di astrazione tracciato dall’advertising.
Non a caso l’approccio principale dei pubblicitari nella fase con-
clusiva dell’accoglienza, tende a ispirarsi sempre più a criteri operati-
vi e positivi. Tra questi prevale il modello AIDA (Attenzione, Interesse,
Desiderio, Azione), formulato nel 1898 da E. St. Elmo Lewis come
una “guida per venditori” che aiuterà il suo autore a evolvere dallo
status di venditore a quello di fondatore dell’approccio “scientifico”
in pubblicità. Con tale modelli s’inaugura quel filone che alcuni auto-
ri [Barry, Howard 1990] hanno definito come “gerarchia tradiziona-
le degli effetti” [ivi: 99] che segue uno schema sequenziale dal livello
conativo, passando per quello affettivo verso il livello cognitivo. Pro-
babilmente non è un caso che le teorie sociologiche prevalenti in que- 25
sto periodo storico, a partire da T. Veblen nel 1989 sino a G. Simmel
nel 1895, abbiano formulato una concezione piramidale della società
moderna in cui prevale la funzione della differenziazione sociale. I
vettori di propagazione delle tendenze di consumo sono puntati nel
vertice della piramide sociale dove si colloca l’élite e s’indirizzano
verso la base della società, costituita dal pubblico di massa.

> Diffusione

Quando pensiamo alla fabbrica in senso astratto, immaginiamo


immediatamente un luogo sterilizzato, asettico, geometrico e com-
pletamente controllato. È l’idea che la fabbrica sia il luogo della ra-
zionalità tecnica per antonomasia, ma ciò è vero solo a partire dalla
grande trasformazione operata dal taylorismo prima e dal fordismo
poi. Basta consultare le immagini degli stabilimenti manifatturieri o
siderurgici della fine dell’Ottocento per notare come questi erano
immensamente distanti dalle immagini ipertecnologiche del nostro
presente.
Ambienti sporchi e disorganizzati, occupati da arnesi artigianali
che fanno da contraltare ai nuovi macchinari, lavoratori disposti
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casualmente, senza protezioni o divise di riconoscimento7. Attra-


verso i principi dell’Organizzazione scientifica del lavoro si tende a
delimitare e a marcare in modo perentorio il principio di separazio-
ne tra il mondo delle imprese e quello della vita quotidiana come
premessa per l’affermazione definitiva del primato della produzione
sulla sfera del consumo. La scomposizione analitica delle mansioni
lavorative, la loro misurazione, l’eliminazione dei tempi “morti” in
funzione della cosiddetta one best way sono difatti il presupposto
logico all’idea che la produzione sia il fulcro del mercato, mentre il
consumo un mero epifenomeno. Idea che la immensa macchina for-
dista recupera e consolida attraverso una rigida organizzazione pira-
midale e verticistica, un’espansione mastodontica delle dimensioni
fisiche e dei volumi produttivi, una totale indifferenza nei confronti
del consumatore che è costruito come unità anonima.
Così la sovrapposizione dei tre livelli interpretativi proposti da
Marx viene rapidamente e drasticamente semplificata dal pensiero
industriale statunitense. Paradossalmente il paese che si fa baluardo
della libertà individuale tout court, implementa un modello di svi-
luppo industriale animato dal principio astratto della produzione a
26 scapito della valenza individualizzante del consumo. Siamo nel-
l’America degli anni Venti quando la rivoluzione fordista raggiunge
il suo apice. La visione di Ford, in effetti, segue alla lettera l’idea di
Marx sul sillogismo tra i livello universale e quello particolare. A ben
vedere l’azienda fordista è costruita come una macchina piramidale:
ha al vertice la guida che invia le istruzioni e alla base una massa
“acefala” di esecutori delle istruzioni inviate. Il diktat che imprime
movimento a questa macchina è la produzione, alle cui esigenze sono
asservite tutte le volontà.
La produzione, si è detto, sta dalla parte dell’universale che vuol
dire, in questo caso, standardizzato, prodotto su vasta scala secondo
logiche e procedure stabili e ripetibili. Vuole anche dire che ciò che
si produce deve essere abbastanza astratto da poter essere ambito e
adottato da un numero sempre più vasto di clienti. Il carattere per
così dire psicologico del consumatore non è per nulla preso in con-
siderazione. La produzione quindi, non è più un’ipotesi che deve
essere testata sul campo, ma è un dogma o un postulato che, essen-

7. Per una panoramica accurata sul rapporto tra luoghi e abiti da lavoro e per uno dei
rarissimi contributi della sociologia sull’abbigliamento dei lavoratori in Italia si veda
Accornero A., Luches U., Sapelli G., 1981, a cura di, Storia fotografica del lavoro in
Italia 1900-1980, Bari, De Donato.
Evoluzione del brand system

do acriticamente e automaticamente preso per vero, orienta le dina-


miche del mercato. Nonostante questa radicale indifferenza per ciò
che accade al di là del perimetro aziendale, l’impresa fordista si pone
al centro di una rivoluzione formidabile che serve a gettare i presup-
posi per la maturazione della cultura del consumo.

Il successo del taylorismo e delle industrie automobilistiche segnò l’api-


ce della società industriale: quella società centrata sulla produzione in
serie di beni materiali, che era stata preparata nel Seicento da Bacone,
Cartesio e Newton, e che era maturata durante tutto l’Ottocento sotto
la spinta delle idee illuministiche, delle rivoluzioni borghesi, del colo-
nialismo, del progresso tecnologico. La società industriale fondava il
proprio sistema su principi come il razionalismo, la standardizzazione
dei prodotti e dei processi, la sincronizzazione dei tempi di lavoro e di
vita, l’efficienza, l’accentramento piramidale dei poteri, l’economia di
scala. La produzione avveniva principalmente nelle unità di luogo e di
tempo della fabbrica industriale dove proprietari e proletari coesisteva-
no e si scontravano [De Masi 2003: 28].

In questa fase, che dura dagli anni Venti fino agli anni Sessanta 27
negli Stati Uniti, ma che continuerà a riscuotere successo nei paesi
protagonisti del boom economico fino alla prima metà degli anni
Settanta, si raggiunge il massimo distacco tra le due categorie prese
in esame. Distacco che comporta la svalutazione della seconda ri-
spetto alla prima. Ciò per più di un motivo tra cui, non inferiore agli
altri, quello culturale. Nella codifica etica del linguaggio dell’econo-
mia politica, la produzione è puramente una funzione maschile,
mentre il consumo è una peculiarità dell’essere femminile8. L’uomo
produce, arricchisce, incrementa, la donna spende, consuma, dissi-
pa. Per questo la produzione è il lato buono della società industria-
le, ovvero quello che resta coerente con l’etica che lo ha fondato: il
protestantesimo. Il consumo invece è il lato negativo, il prodotto di
scarto, lo scotto da pagare per una società che è votata a una cresci-
ta che non è sempre intesa in modo positivo. In una società paradig-
maticamente patriarcale [Capra 1984] il maschile-produttivo coinci-
de anche con l’universale mentre il femminile-dissipativo, segno
metaforico di ogni alterità (sessuale, etnica, etica), è relegato nella

8. Lo sviluppo della moderna industria pubblicitaria è spesso associato all’accresciuto


potere d’acquisto del consumatore femminile [...] La diffusione del consumismo s’in-
tende riferita alla sostanziale ingenuità e imprevidenza femminile [Hebdige 1991: 91].
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sfera periferica del particolare. Per questo enfatizzare la produzione,


ed estendere tale logica non solo al settore delle automobili ma anche
alle altre tipologie merceologiche molto più complesse [Rullani
2000a], è stato l’imperativo di una certa fase dello sviluppo indu-
striale che, in parte, ancora oggi ci portiamo dietro quando pensia-
mo alle aziende come il luogo di una razionalità sovraumana, o quan-
do le descriviamo come un mostro biblico che divora le coscienze
più nobili.
Il fordismo-taylorismo ebbe un drastico impatto sull’immaginario
dell’epoca che dipinse sempre più la fabbrica come quel luogo chiu-
so e totalmente pianificato che il cinema di F. Lang ha raccontato con
Metropolis (1927). Nello stesso anno, Aurora di F. W. Murnau (1927)
ancor di più ha ribaltato l’insieme di pregiudizi che alimentavano
pseudoteorie sociologiche, sull’idea degenerativa del processo di
metropolizzazione [Abruzzese 1973] rispetto alla desiderabilità dello
stato di natura. La coppia protagonista, dopo aver scampato una tra-
gedia consumata in un panorama bucolico, approda alla città dove
resta sbalordita e catturata dalla frenesia del ritmo e dalle nuove
opportunità del consumo. Le sequenze dal fotografo, dal barbiere
28 ecc. mostrano come i nuovi consumi offrano alla coppia un’evasione
dalla loro greve esistenza, che ristruttura il legame su un livello diver-
so. La città e il consumo uniscono laddove la vita nella natura e nella
comunità dividono. Un discorso che, a suo modo, anticipa la risco-
perta del “lato oscuro” della comunità, che da pochi anni siamo tor-
nati a considerare. Qualche anno più tardi Tempi moderni (1936) di
Chaplin si collocherebbe sulla medesima linea di Metropolis se non
fosse per la memorabile scena nel Grande magazzino, in cui Charlot,
cacciato dalla fabbrica e assoldato come guardiano del negozio, dà
vita a una sequenza lirica e carica di chiavi di lettura socioculturali.
Egli difatti invita la compagna a visitare il Grande magazzino duran-
te la notte, quando non ci sono clienti, quando è possibile vivere
l’emozione di un riutilizzo di quegli spazi in un modo che non era
stato previsto dalla logica della produzione. Far rivivere le merci (i
pattini, i dolci, la camera da letto), la cui vita è spettralmente esposta
al pubblico senza che nessuno le usi, è il segno di una profonda con-
sapevolezza che anticipa di decenni le teorie sulla riappropriazione
simbolica dei beni e dei luoghi del consumo.
Se Rifkin [1994] insiste sul modo in cui il nascente marketing e la
pubblicità s’attivano nella colossale opera di conversione dell’etica
protestante americana nel nuovo vangelo del consumo, spetta a
Stuart Ewen [1993] esaminare, attraverso la riflessione di John Ermo
Evoluzione del brand system

Calkins9, la meccanica specifica di tale processo. La figura di Calkins


e la sua opera sono in effetti particolarmente significative del legame
tra riflessione teorica e azione pragmatica, tra comprensione del mer-
cato e intervento su di esso. Questo genio pubblicitario ante litteram,
la cui visione è in effetti un’estensione della logica fordista, prese
distanze da quel pensiero perché, in un certo senso, troppo involu-
to. L’approccio ingegneristico di Ford avrebbe difatti trascurato il
ruolo irrinunciabile della bellezza, dell’estetica come strumento indi-
spensabile di persuasione delle masse. Dall’alleanza tra marketing ed
estetica nasce il concetto di Consumer engeenering, che assegna
all’estetica e alla sua traduzione pubblicitaria il ruolo di un fattore
decisivo nella stimolazione della domanda. A tale concetto si associa
quello, ancora più decisivo, di obsolescenza dinamica: l’idea che per
raggiungere livelli sempre più elevati di crescita occorre instillare
nella mente dei consumatori un grado crescente d’insoddisfazione
che determina l’abbandono di quel dato prodotto in favore di una
sua evoluzione o di un suo sostituto. L’obsolescenza dinamica tende
in tal modo a comprimere il ciclo di vita dei prodotti in favore di un
loro ricambio sempre più frenetico. Non a caso il suo ideatore am-
mette di avere tratto ispirazione da quel sistema che ha istituziona- 29
lizzato, già dalla seconda metà del secolo precedente, una dinamica
di ricambio estremamente rapida. Si tratta della logica stagionale del
sistema moda al quale, solo successivamente s’affiancherà quella del
settore hi-tech.
L’aspetto che qui pare significativo è che sia le nuove teorie e i
modelli di organizzazione industriale, sia il modello di propagazione
delle mode e del consumo, sia lo schema generale che sussiste al-
l’azione dei media di massa, si ispirano ai medesimi principi. L’im-
pianto teorico e i metodi empirici formulati da Harold J. Lasswell
sono, non a caso, l’antesignano di quel paradigma che, nella teoria
dei media, è stato definito come “informazionale” [Wolf 1985]. Con
essa si impone non solo l’idea riduzionistica che per cogliere la com-
plessità del processo comunicativo basta tenere sotto controllo le
cinque famose variabili (chi? dice cosa? a chi? attraverso quale cana-

9. Alcuni manuali di pubblicità [Vecchia 2003] collocano l’opera di Calkins tra la cor-
rente degli “estetici” all’opposto di quella degli “scientifici”, in virtù della sua voca-
zione per la poesia e per lo stile con cui confezionava i messaggi. Tuttavia l’enfasi po-
sta dal celebre pubblicitario sull’aspetto “ingegneristico” esprime una fiducia nei
confronti della capacità persuasive dell’estetica che è talvolta superiore a quella degli
scientifici.
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le? con quale effetto?). In particolare, come hanno rilevato le revisio-


ni di quel modello teorico [Livolsi-Rositi 1988, Ang 1998], le vecchie
teorie dei media hanno eccessivamente sacrificato il problema del-
l’audience, in favore del peso sociale delle emittenti e del mezzo tec-
nologico da queste adottato. Così se l’organizzazione fordista sacrifi-
ca il consumatore al verbo della produzione grazie alla schiacciante
potenza della macchina industriale, i media fanno lo stesso con l’au-
dience che a lungo risulta essere un problema secondario se non
addirittura inesistente. Non a caso le riflessioni di Lasswell sono
ricondotte alla cosiddetta Bullet theory, detta anche teoria ipodermi-
ca, che è complementare all’idea di un target (appunto un bersaglio),
colpito senza troppe difficoltà.
È opportuno sottolineare come queste periodizzazioni non siano
per nulla uniformi e regolari, nel senso che hanno bisogno di dovu-
te contestualizzazioni: gli sviluppi seguono una maturazione diffe-
rente nei vari contesti tanto che ancora oggi lo stile fordista è presen-
te in alcune aziende. Nella sociologia dell’organizzazione, questa ten-
denza alla classificazione astratta è il motivo della critica che Gam-
bino muove alla scuola regolazionista, composta da Boyer, Coriat e
30 Lipietz che assegnano a tale fenomeno un “significato neutro”, ana-
lizzandolo in una prospettiva astorica. La collocazione storica del
fordismo ha condizionato profondamente la sua evoluzione e in par-
ticolare la sua tendenza a intervenire “pesantemente” sulla doman-
da, sovradeterminandola10.
La maturazione autentica del concetto di globalizzazione è sospe-
sa a metà tra un visione fordista e una postfordista. Sebbene anche
nella fase fordista possiamo parlare di una data forma di internazio-
nalizzazione, la direzione delle dinamiche globalizzanti richiede
un’estensione semantica che deborda la cornice rigida del fordismo.

10. Com’è noto, negli Stati Uniti la catena di montaggio viene da lontano. La produ-
zione in serie di beni durevoli nel Novecento è un processo che si innesta sul-
l’American System of Manufactures, il metodo di produzione per parti intercambia-
bili che era stato incubato dall’industria statunitense già nell’Ottocento. L’esperi-
mento della fabbrica Ford è un momento cruciale di tale produzione in serie, poiché
esso la applica a un bene durevole, l’automobile, che nei primi anni di questo secolo
appariva generalmente un oggetto di lusso anche negli Stati Uniti. Così facendo, la
Ford struttura una domanda sempre più ampia e pressante, la quale a sua volta legit-
tima presso l’opinione pubblica le misure autoritarie che sono tipiche degli stabili-
menti Ford nel periodo che va dai primi del secolo alla vigilia della seconda guerra
mondiale [Gambino 1997].
Evoluzione del brand system

L’internazionalizzazione fordista riguardava un gruppo ristretto (una


élite) di imprese e investiva una parte specifica di attività, svolta appun-
to all’estero. Erano internazionali le maggiori imprese il cui “giganti-
smo” debordava quasi naturalmente dai confini nazionali, o le imprese
collegate al potere transnazionale esercitato dai maggiori stati, (in pri-
mis gli Stati Uniti, ma anche le vecchie potenze coloniali come Gran
Bretagna e Francia) [Rullani 1998].

La globalizzazione, che è stata a lungo erede di questa visione


molare e straripante del capitalismo industriale, ha assunto a lungo il
significato di processo universalizzante e standardizzante che, con la
fine del fordismo, ha mutato senso e direzione. L’odierno concetto è
il frutto del passaggio ulteriore che andiamo a discutere, in cui la
distanza tra il livello della produzione (il globale) e quella del consu-
mo (il locale), inizia a ridursi in un processo di compressione e di cre-
scente interdipendenza. Con il passaggio agli anni Venti, in cui si
registrano come concomitanti i fenomeni della pianificazione pro-
duttiva fordista e dell’esplosione del marketing e della pubblicità, il
consumo si sgancia definitivamente dalla subordinazione alle prassi
“autentiche” della vita quotidiana, e inizia a modificare l’assetto 31
valoriale della società americana. La rivoluzione del consumo con-
verte il sistema di valori che ha fondato lo stesso capitalismo USA,
cioè la sobrietà e la parsimonia Yankee, nella sfrenata dedizione ai
dettami dell’industria [Rifkin 1996].
Con il passaggio agli anni Quaranta si realizza un’interessante
divaricazione tra i modelli produttivi e quelli di analisi della comuni-
cazione. Da un lato infatti la logica del fordismo penetra in maniera
ancora più capillare e pervasiva nella vita dei lavoratori e dei consu-
matori e investe settori a maggiore complessità. Dall’altro invece ci si
rende conto dei limiti della cosiddetta Bullet Theory e si profilano
nuovi modelli interpretativi. Il primo caso riguarda la diffusione dei
primi ristoranti McDonald’s, che sfruttano, attraverso la formula del
Drive in, l’espansione del mercato automobilistico che il fordismo
aveva innescato. Questo modello ha esteso la logica del fordismo-
taylorismo in settori merceologici a maggiore complessità, la logica
della catena di montaggio alla produzione di cibo e così facendo ha
creato un prodotto universale che ha lo stesso sapore e lo stesso prez-
zo a tutte le latitudini. Le innovazioni tecnologiche e organizzative
sono tutte mirate all’ottimizzazione dei tempi di esecuzione di man-
sioni elementari, tanto che “le attrezzature specificamente progetta-
te e realizzate non erano solo il segreto alla base della velocizzazione
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del lavoro perseguita dai fratelli McDonald. Furono adottati precisi


e rigidi metodi di produzione per eliminare il principale ostacolo alla
piena riuscita dei fast food: l’elemento umano” [Love 1998: 18].
In controtendenza con tale invenzione, che appunto estende il
sacrificio del consumatore anche al consumo gastronomico, nello
stesso periodo si sviluppano alcune teorie mediologiche che iniziano
a problematizzare la ricezione dei messaggi da parte del pubblico. Se
Hovland pone tra la stimolazione dei media e la conseguente rispo-
sta, una mediazione percettiva, selettiva e mnemonica da parte del
soggetto [Wolf 1985], la teoria del Doppio flusso di comunicazione
(Two step flow of communication) insiste invece sull’influenza dei lea-
der d’opinione sulla capacità persuasoria dei messaggi. Il “doppio
flusso” sottrae una parte di potere ai mezzi e ai messaggi e lo resti-
tuisce a una sezione di pubblico, anche se si tratta di soggetti poco
numerosi e molto rappresentativi in quanto già calati in posizione di
vantaggio nelle gerarchie sociali [Katz, Lazersfeld 1955].
La diffusione centrifuga del consumo e dei media è rallentata solo
dal secondo conflitto mondiale che però, con la sua fine, ne determi-
na l’espansione e il successo su tutto il mondo occidentale. Anche in
32 questo slittamento dall’America degli anni Venti all’Europa dei ’50,
si assiste a nuove forme di resistenza come quelle espresse dalla cul-
tura inglese contro l’invasione delle merci e dei lifestyle americani. Ai
ritmi naturali di avvicendamento delle stagioni, e a quelli umani del
ciclo della vita, si è aggiunto un ritmo “forzato” che è quello della
obsolescenza coatta delle merci. È questo il nuovo tempo collettivo
che orienta la condotta e le routine di vita delle civiltà moderne. È il
consumo a scandire la routine e il consumo eccezionale, quello par-
ticolarmente intenso, a spezzarla11. Chiaramente, essendo gli Stati
Uniti il laboratorio sperimentale in cui sono messe a punto le logiche
e le dinamiche della società dei consumi, si può sostenere che sotto
molti aspetti l’Europa si limita semplicemente a riprodurre dei meto-
di e delle esperienze che provengono da oltre oceano. Come la socie-
tà americana aveva già colpito negativamente alcuni osservatori fug-
giti dall’Europa nazista12, così la commercializzazione delle merci USA

11. Come si vedrà, non è solo il consumo eccezionale che spezza la routine consoli-
data nella forma dell’evento, ma anche la catastrofe, comunque metabolizzata dal si-
stema spettacolare che la trasforma in oggetto di consumo.
12. Il riferimento è chiaramente allo studio realizzato da Adorno e Horkheimer ne La
dialettica dell’Illuminismo [1966], nel quale gli autori tentano di traslare alcuni mo-
delli elaborati sulla propaganda tedesca alle routine produttive delle comunicazioni
di massa americane.
Evoluzione del brand system

spaventa le culture locali dell’Europa, che avvertono una forte pres-


sione – insieme a una forte fascinazione – indotta dalle nuove merci.
Questa nuova forma di resistenza omeostatica delle culture tradi-
zionali all’avanzata dei nuovi consumi passa attraverso l’analisi che
Hebdige [1991] ha compiuto dei testi di autori come Hoggart,
Orwell e degli articoli giornalistici dell’epoca che condannavano i
nuovi beni provenienti da oltre oceano per il loro stile smaccatamen-
te aerodinamico. Allo stesso tempo, gli utilizzatori di quelle merci –
che vanno dai frigoriferi bombati, ai Juke box, per informare poi il
design degli scooter italiani – passano sotto lo stigma di “effemina-
ti”. Questa condanna, secondo l’autore della Scuola di Birmingham,
è la premessa per quel tipo di etichettamento che successivamente
investirà l’intero spazio delle nascenti sottoculture giovanili. In que-
sto periodo infatti nasce e si sviluppa una nuova concezione di gio-
vane, affatto differente da quella delle generazioni precedenti. Il teen
ager è un nuovo soggetto sociale inscritto completamente nelle pra-
tiche del consumo di massa. Esso costruisce la sua identità non più
nel lavoro o nello studio ma nel tempo libero, nel loisir, attraverso
una vera e propria “dieta” di merci e messaggi. Il focus del sistema
dei consumi, probabilmente, si sposta in questo momento dallo ste- 33
reotipo della donna, ormai in via di trasformazione/emancipazione,
a quello del giovane in rotta di collisione con il mondo degli adulti.
Ciò renderebbe paradossale il ragionamento che vede il nuovo gio-
vane come una invenzione integrale del marketing, ma, a ben vede-
re, il conflitto col mondo degli adulti e il tentativo di riconciliazione
di questi con i giovani attraverso il consumo è forse la molla che ispi-
ra la nuova dinamica sociale nella fase piena della diffusione. In que-
sto scenario le sottoculture spettacolari, dai teddy boy, ai mod, ai roc-
ker, ai glitter, ai punk ecc. esprimono una tensione dilaniante che da
un lato esalta il loro approccio “confrontational” cioè antagonista,
dall’altro la profonda coabitazione con le estetiche e i prodotti della
cultura dominante. Così da una forma di resistenza netta e frontale
all’avanzata del consumo, si passa a una opposizione ambivalente. Ci
si oppone al cosiddetto mainstream attraverso le politiche dello stile
[Hebdige 1981; Polhemus 1994; Barile 2005] ma lo si fa recuperan-
do pezzi dall’industria culturale, della moda e del consumo. Le sot-
toculture dunque, intese come fenomeno avanguardistico, non fan-
no altro che recuperare segni e atteggiamenti delle avanguardie arti-
stiche e sperimentare, nel loro spazio simbolico, quelle formule alter-
native di approccio al consumo che, a partire dagli anni Novanta,
saranno scoperte e rivalutate dallo stesso marketing. Non è dunque
Brand New World

un caso che la scoperta di un atteggiamento di fruizione critico con-


sapevole sia inventata dai Cultural Studies attraverso la formalizza-
zione di Stuart Hall che recupera elementi dalle teorie marxiste (da
Gramsci a Althussier) per formalizzare il modello dell’encoding/de-
coding, come prima chiara definizione di un consumo mediale con-
sapevole e sganciato dai dettami della produzione [Moores 1998].
Dico non a caso perché le teorie del consumo prima e quelle sulla
creatività sottoculturale dopo, non faranno altro che trasferire quel
modello creato per analizzare il consumo televisivo, ad altre pratiche
di cultura “materiale”. Rispetto all’analisi del sistema dei consumi il
modello encoding/decoding può dare vita alla seguente traduzione:

a) una lettura preferita, che fa leva sulla volontà di seguire un modello


sociale proveniente dalle classi più prestigiose e che discende dalla pira-
mide sociale in maniera verticale, come prevede il trickle down effect; b)
una lettura negoziale, che gioca sull’ambiguità semantica delle merci-
segno e, dunque, apre alla problematica dello stile; c) una lettura oppo-
sitiva, che nega statuto e dignità ai prodotti imposti dalla classe egemo-
ne attraverso il sistema produttivo, per proporre una visione alternativa
34 circoscritta a determinati gruppi sociali. Se la scoperta di Hall riguarda
un consumo prettamente immateriale (quello televisivo appunto) essa
può essere applicata al sistema dei consumi nel momento in cui i teori-
ci degli anni Settanta capiscono il valore immateriale e comunicativo
degli oggetti quotidiani [Baudrillard 1973, 1976; Douglas, Isherwood
1984].

Come si è visto, nella fase della diffusione si manifestano effetti


contingenti che variano a seconda delle specificità storico-culturali
come ad esempio le forme di resistenza (da parte della cultura tradi-
zionale nell’America d’inizio Novecento, da parte delle sottoculture
giovanili nell’Inghilterra dagli anni Cinquanta in poi). Anche la pe-
netrazione capillare del sistema dei consumi e il suo immaginario di
riferimento supportato dalla pubblicità dimostra questo sfalsamento
spazio-temporale. Se nell’America degli anni Trenta era già presente
un certo modo di iconizzare gli elettrodomestici13, negli anni Cin-

13. Come ha notato Minestroni [1996], il cortometraggio statunitense della “Oxydol”


(Ideale per mani, tessuti, stoviglie e pavimenti) incornicia una sorta di vasca lavabian-
cheria dotata di un rullo che strizzava i panni bagnati e che si ritroverà in Italia negli
anni Cinquanta nella comunicazione delle nuovissime Candy: macchine dotate di un
“mangano strizzabiancheria” azionabile a manovella o con motore elettrico.
1. L’estetica di Oxydol raccontata in una striscia del 1938.

1. <

quanta essi diventano i principali strumenti di propagazione del- 35


l’ideologia dell’innovazione e del progresso sino ai più reconditi
angoli dell’ambiente domestico. Se l’automobile era il segno distinti-
vo della prima fase della diffusione, la casa è invece il luogo della sua
maturazione/assimilazione. È come se la logica strumentale e positi-
vista che ha determinato la strutturazione delle aziende sul modello
del laboratorio scientifico ora sia pronta a trapelare nel quotidiano
dei consumatori in quello che, giustamente è stato definito come
“laboratorio domestico” [Minestroni 1996].
Per concludere, è opportuno riflettere sul tipo di comunicazione
che dalle marche discende verso i consumatori. Se nella fase germi-
nale dell’accoglienza le marche svolgevano soprattutto una funzione
segnaletica, ora questa si trasforma in un approccio prettamente
pedagogico. Soprattutto con gli anni Venti, si è visto che la pubblici-
tà negli USA deve istruire il suo pubblico al nuovo vangelo del consu-
mo, cosa che si replica medesimamente versa la metà del secolo con
Carosello e altri esempi di una pubblicità pedagogica incasellata nel
sistema della televisione pubblica e influenzata da agenzie tradizio-
nali di socializzazione come la scuola o la chiesa.
L’approccio pedagogico fa leva su molteplici argomenti. In primo
luogo sulle maggiori opportunità offerte dai consumi di massa per
coloro che vivono nelle metropoli moderne. I nuovi valori del com-
Brand New World

fort, dell’igiene, della praticità, insieme all’idea di una distinzione da


ostentare che coincide con la prima fase di affermazione del sistema
della moda. Come si è già evidenziato, si tratta della maturazione del
paradigma comunicativo informazionale che a sua volta era condi-
zionato dalle ricerche della psicologia comportamentista. A lungo le
ricerche del marketing hanno considerato i consumatori come unità
atomizzate, isolate e trattabili attraverso i criteri della statistica infe-
renziale. Da questo retaggio derivano i criteri che condurranno all’e-
laborazione della cosiddetta copy strategy che a differenza degli
approcci più datati – interessati principalmente alla fonte e ai canali
di comunicazione del messaggio – ora articola un discorso struttura-
to a partire dall’analisi del target. La Copy strategy è un protocollo
esecutivo che esplicita gli obiettivi e i metodi attraverso cui le diver-
se agenzie producono le loro campagne. Già in precedenza è possi-
bile individuare sforzi diretti a una razionalizzazione del lavoro pub-
blicitario, ad esempio con la formulazione della Unique Selling Pro-
position (USP), formalizzata da Ted Bates e Rosser Reeves, che enfa-
tizza la ragione per cui il consumatore sarebbe indotto all’acquisto
dopo aver visto l’annuncio, ovvero la cosiddetta Reason Why.
36 Nel marzo del 1964 nasce il modello proposto da Unilever ovvero
il Plan for Good Advertising (UPGA). Obiettivi di massima sono: la
definizione di una strategia efficace di comunicazione e la distinzio-
ne dallo stile che contraddistingue le altre agenzie. Ogni agenzia
difatti, a partire dallo stesso periodo, produce un suo proprio stile e
dei canoni originali che reinterpretano a seconda delle diverse esi-
genze, la versione iniziale. La strategia di Unilever si articola lungo
tre livelli basilari:

a. Selected Basic Consumer Benefit: l’argomento con il quale si intende


convincere i consumatori a usare la marca in luogo di quelle concorren-
ti; b. Support Evidence: la dimostrazione, la reason why (cioè la ragio-
ne proposta dalla pubblicità, per rendere credibile la promessa dei van-
taggi offerti da un prodotto) che rende il consumer benefit (cioè i plus,
i vantaggi che i consumatori attribuiscono al prodotto inducendoli
all’acquisto) credibile e convincente; c. Desired Brand Image: la descri-
zione della personalità della marca, del suo tono di voce, di come il con-
sumatore dovrebbe percepire la marca. A ribadire l’importanza di que-
sti documenti, la procedura Unilever sancisce che sia la marketing stra-
tegy sia la copy strategy debbano essere esaminate e approvate a livello
di direzione dell’azienda e dell’agenzia, e da quel momento rigorosa-
mente rispettate. Eventuali modifiche possono essere apportate solo in
Evoluzione del brand system

seguito ai risultati e ai trend del mercato confermati dalle ricerche


[Galdenzi 2001-2002].

La star strategy è costitutivamente legata alla natura dei media ge-


neralisti e a un concetto organizzativo forte, razionale ed efficienti-
sta. Si tratta di una presa d’atto della complessità del mercato che
colloca tale principio a metà strada tra la sottovalutazione del consu-
mo di stampo fordista e la sua futura “liberazione”. Questo dovrà
emanciparsi non solo dall’anonimato nel quale l’aveva relegato il for-
dismo, ma anche dalle griglie analitiche che lo stesso razionalismo
della copy strategy aveva approntato per imbrigliare, comprendere e
amministrare il comportamento del consumatore.

> Profusione

La distanza abissale decretata dallo sviluppo industriale tra il livel-


lo della produzione e quello del consumo inizia a vacillare grazie alla
stessa evoluzione tecnologica e dei mercati che determina la crisi e la
caduta del fordismo. Sulla curva discendente di questo modello or- 37
ganizzativo [Rullani 2000], il processo di produzione dà vita a una
modalità di gestione più attenta alle esigenze, alle articolazioni e alla
complessità del mercato. Nella fase della Profusione, la relazione tra
il contesto della produzione e quello del consumo si divarica. Da un
lato abbiamo un’istanza di sottomissione sempre più eclatante, che
consolida il potere delle marche verso il modello del powerful brand,
dall’altro, in ambito di sperimentazione e di riflessione accademica,
proliferano le visioni alternative, di riconciliazione tra i due contesti
e di emancipazione della figura del consumatore.
Allo stesso modo anche le teorie sui media vivono una sostanziale
divaricazione tra il modello degli effetti limitati che si è imposto gra-
zie alla Scuola dei Cultural Studies e alla semiotica, e il cosiddetto
ritorno ai powerful media che s’afferma tramite la spirale del silenzio
di Noelle Neuman [1980] e alle teorie della coltivazione o dell’agen-
da setting.
Dagli anni Settanta a oggi, la separazione tra la sfera della produ-
zione e quella del consumo ha dato vita a differenti categorizzazioni
che, seppur nascendo in seno a una comune constatazione sull’inno-
vazione tecno-economicistica in atto, sono riempite di contenuti spe-
cifici e diversificati. Da un lato la società postindustriale e l’organiz-
zazione postfordista [Bell 1973; Coriat 1993] vanno a indicare i
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mutamenti subiti dai settori produttivi e dall’organizzazione azien-


dale, dall’altro il termine Postmoderno [Lyotard 1982] designa sem-
pre più il tipo di cultura che nasce intorno alle complesse pratiche di
consumo. Anche in questo caso la distinzione tra postindustriale
(postfordista) e postmoderno è il frutto della visione maturata nel
periodo precedente, votata alla polarizzazione tra produzione e con-
sumo. Segno “tangibile” della convergenza che si dibatte in queste
pagine è il fatto che oggi le due (o tre) categorie sono utilizzate in
modo pressoché identico e intercambiabile dalla letteratura contem-
poranea.
Nell’ottica del postindustriale, ossia dal punto di vista di Daniel
Bell, il settore dominante dell’economia passa da quello manifattu-
riero a quello dei servizi. In questo senso, anche se non è ancora pos-
sibile parlare di un “consumo attivo”, è chiaro che spostando il livel-
lo da un piano materiale a uno immateriale, cresce la competenza, la
partecipazione e la facilità d’accesso dell’utente/fruitore. Il postfor-
dismo invece lavora sul fronte interno alla produzione industriale di
cui rappresenta un salto evolutivo verso forme non ripetitive, stan-
dardizzate e rigidamente gerarchiche. Nato in Giappone nel campo
38 dell’industria automobilistica, il postfordismo anticipa, per mezzo di
consecutivi feedback che si attivano tra l’introduzione di nuove tec-
nologie e le trasformazioni organizzative, quelle che sono le princi-
pali trasformazioni del mercato odierno. La rivoluzione ha luogo
grazie all’esperienza di Toyoda, padre fondatore della Toyota, che
sviluppa nel settore automobilistico alcune innovazioni tecno-orga-
nizzative maturate nella manifattura tessile. Il postfordismo muoven-
do dall’interno della produzione altera la struttura aziendale classica,
il ruolo dell’operaio, la qualità del processo produttivo. Di particola-
re interesse è il concetto di autonomazione [Coriat 1993], sintesi
della crescente capacità tecnologica e della conseguente riconfigura-
zione organizzativa, che garantisce il successo del modello.

Questi, colpito dallo spreco provocato dai danni prodotti all’intero


scampolo di tessuto se solo una delle spole del telaio funziona in modo
difettoso, progettò dei telai muniti di dispositivi che permettevano l’ar-
resto automatico della macchina in caso d’anomalie (in pratica l’inci-
dente più corrente era la rottura del filo). [...] Si tratta di un elemento
d’estrema importanza poiché si tratterà sia di dispositivi automatici
introdotti nel cuore delle macchine che di dispositivi organizzativi lega-
ti all’esecuzione del lavoro umano. Questi ultimi saranno allora definiti
come delle procedure di autoattivazione [Coriat 1993].
Evoluzione del brand system

La retorica sottostante al postfordismo può essere interpretata


nella duplice modalità di liberazione o maggiore condizionamento
del lavoratore e dello stesso consumatore. Il primo, già nel metodo
giapponese, è sospeso tra la maggiore autonomia indotta dall’auto-
mazione dei processi industriali e la totale integrazione nel dispositi-
vo della fabbrica che passa per il concetto di “comandare con gli
occhi”. Il secondo è invece sospeso tra la maggiore scelta che gli si
propone e al contempo intrappolato da questa quando si trasforma,
negli anni Settanta in America, nella logica dell’iperscelta. Come ha
giustamente predetto Toffler in quel periodo, il passaggio all’iper-
scelta è ciò che determina la svolta del consumo dalla mera accumu-
lazione di beni alla valorizzazione degli stili di vita14.
Dalla produzione molare fordista si passa a un sistema molecolare
[Levy 1998; Rullani 2000] che avviluppa il mondo di vita dei consu-
matori e produce delle reti di oggetti. Già Baudrillard [1971] aveva
concepito tale evoluzione del consumo domestico come un “sistema”
che non si rapporta esclusivamente al soggetto attraverso una serie di
relazioni funzionali, ma lo coinvolge da un punto di vista sistemico,
nel senso che ogni prodotto rimanda ad altri prodotti e molti di que-
sti esprimono livelli non esclusivamente funzionali ma anche meta- 39
funzionali o disfunzionali. Sia il ragionamento sulla cultura dei gad-
get che quello sul collezionismo difatti anticipano una formulazione
più sistematica sul sacrificio del valore d’uso della merce rispetto al
valore di scambio che più avanti diventerà valore della merce-segno.
Lo stesso autore francese ha coniato in un testo più recente il concet-
to di profusione, che introduce nel modo seguente:

Siamo al punto in cui il consumo comprende tutta la vita, in cui tutte le


attività si concentrano nello stesso modo combinatorio, dove il canale
della soddisfazione è tracciato in anticipo, ora per ora, dove l’“ambien-
te” è totale, completamente condizionato, ordinato, culturalizzato. Nel-
la fenomenologia del consumo, questo condizionamento generale della
vita, dei beni, degli oggetti, dei servizi, dei comportamenti e delle rela-
zioni sociali rappresentano lo stadio completo, sommo, in un’evoluzio-
ne che va dall’abbondanza pura e semplice, attraverso le reti articolate
di oggetti, fino al condizionamento totale degli atti e dei tempi [Bau-
drillard 1976].

14. […] gli individui del futuro saranno indotti a scegliere in modi nuovi. Incomin-
ceranno a “consumare” stili di vita come gli individui di un periodo precedente, meno
soffocato dalle scelte, consumavano prodotti comuni [Toffler 1981: 303].
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Sorvolando sulla visione esplicitamente apocalittica nei confronti


della portata e della potenza surclassante del consumo, sono di in-
dubbio interesse alcuni elementi della riflessione baudrillardiana che
anticipano altre concettualizzazioni a venire. La fase della profusio-
ne, coincidente con il periodo che va dalla seconda metà degli anni
Settanta alla fine degli anni Ottanta, indica il tentativo del sistema
consumistico di sottomettere definitivamente ogni scampolo di vita
quotidiana. Il controllo del “canale della soddisfazione” rievoca le
fosche tinte dell’analisi packardiana sulla persuasione occulta, men-
tre l’ambiente totale anticipa l’idea di non luogo formulata da Augé
[1993]. Ma il “condizionamento totale di atti e tempi” in base al
quale tutto è “ordinato e culturalizzato” non è il frutto di un’impo-
stazione generalista o broadcast, che invece contraddistingueva la
fase precedente. Essa è invece il frutto di una penetrazione capillare
della logica del consumo negli interstizi più reconditi della vita quo-
tidiana e non a caso passa “attraverso le reti articolate di oggetti” in
un’accezione che s’avvicina di gran lunga alla microfisica del potere
di Foucault. Inoltre l’epoca della profusione segna il momento di
massima proliferazione e di maggiore intreccio tra i linguaggi che
40 enfatizzano il culto dell’immagine, del visuale, del corpo. Questi si
sviluppano repentinamente a cavallo tra gli anni Settanta e gli
Ottanta e la loro sinergia produce effetti d’amplificazione simbolica
che produce un’imponente impatto comunicativo. L’attributo che
maggiormente caratterizza la fase della profusione è il gap o il ritar-
do che si produce tra una diversa filosofia produttiva e di marketing,
sempre più dichiaratamente market oriented, e un approccio alla
brand communication che amplifica in modo plateale la distanza tra
azienda e cliente, grazie ai mezzi generalisti e agli effetti altamente
spettacolari della pubblicità di massa. Se negli anni Settanta si rinfor-
zano soluzioni organizzative specializzate in beni a maggiore com-
plessità come il design, la moda, la gastronomia ecc. [Rullani 2000]
che appunto convergono nella categoria di made in Italy, il modo in
cui questi sono comunicati aderisce ancora alla “vecchia scuola”. Si
pensi alla cosiddetta “sindrome di Aiazzone” [Codeluppi 2001], che
indica la frenesia con cui una miriade di piccole aziende ha cercato a
tutti i costi di promuovere i suoi prodotti sui broadcast televisivi. Gli
elementi di congiunzione tra questi due movimenti oppositivi (l’uno
innovatore, l’altro conservatore) sono: l’esplosione di una pluralità di
linguaggi audiovisivi tra cui fiction, videoclip, videogiochi, adverti-
sing, moda, manga, che agiscono tutti in favore di una democratizza-
zione spinta della cultura dell’immagine; una cultura performativa
Evoluzione del brand system

che pone al centro dell’attenzione collettiva il corpo, il suo allesti-


mento, le sue movenze, i suoi piaceri e la sua attitude. Trionfa in tale
contesto l’idea del powerful brand, di un investimento d’immagine
da parte delle aziende più disparate che tende a sovrastare tanto il
consumatore quanto il prodotto ma che allo stesso tempo esalta la
relazione tra questi ultimi: grazie all’acquisto di determinati prodot-
ti, difatti, si può essere “al passo con i tempi” e socialmente più rile-
vanti. La pubblicità difatti insiste molto sulle “dotazioni tecniche”
che offrono al consumatore la possibilità di “essere migliore”, quasi
a concretizzare la teoria mimetica esposta da René Girard15. I nuovi
linguaggi, riletti alla luce della cultura degli anni Ottanta, suggerisco-
no una stretta convergenza tra i disparati settori dello Star system e,
non a caso, la formula comunicativa più eclatante sarà per l’appunto
la cosiddetta Star Strategy. La più compiuta ed esemplare definizio-
ne della marca in quel periodo è senza dubbio la star strategy di J.
Séguéla [1985] ed esprime una concezione ambigua che da un lato
coglie la necessità di animare la marca trattandola come se fosse un
essere umano – dunque un progetto di umanizzazione di un “ogget-
to” inerte e astratto – dall’altro è costretto a tradire tale intento per
equiparare la marca a un essere umano del tutto speciale: la star. 41
Il testo s’interroga sul valore contemporaneo di una pubblicità che
mira a esaltare le proprietà del prodotto e la loro comparazione con
i suoi competitor. La risposta a tale interrogazione è che non è più
possibile competere sul mercato senza saper lavorare il prodotto e il
suo legame con un determinato brand, senza ricorrere alle soluzioni
che hanno garantito il successo delle Star del grande schermo. La
marca pertanto va considerata a tutti gli effetti una Star ed è quindi
dotata di: un fisico, un carattere e uno stile. Il primo corrisponde al
corpo materiale del prodotto e deve principalmente “convincere” il
consumatore a operare la scelta di acquisto. Il secondo, mette in con-
nessione il fisico con un elemento più etereo e astratto. Il carattere
corrisponde qui all’identità stessa della marca che ha il compito di
“durare” nel tempo alla stregua dei grandi nomi del firmamento di

15. Riflettendoci bene (ma lo riconosciamo abbastanza di rado): noi desideriamo


meno l’oggetto di quanto invidiamo la persona che possiede quell’oggetto; quest’ulti-
mo non avendo quindi che un’importanza molto relativa. E, in alcuni casi, traiamo
soddisfazione, più che dal possesso dell’oggetto stesso, dal fatto che l’altro non riesca a
possederlo. Del resto la pubblicità, quest’inno al possesso di oggetti, offre alla nostra
coscienza desiderante non già un prodotto nella sua, per così dire, cosalità, ma delle
persone, degli altri, che desiderano questo prodotto e che sembrano bearsi del suo
possesso [Girard 2005].
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Hollywood. Il terzo punto, lo stile, riguarda invece il modo persona-


le attraverso cui il genio pubblicitario riesce a comunicare la marca e
il suo prodotto e contraddistingue appunto lo stile di un determina-
to genio creativo. Cosicché lo stile ha il compito supremo di sedurre
lo spettatore, laddove per “seduzione” va intesa etimologicamente la
capacità di sviare, di sed ducere, cioè di sbalordire il consumatore
per allontanarlo dal suo percorso predefinito e condurlo su quello
desiderato. La conseguenza più immediata sullo stile di comunica-
zione commerciale è il trionfo della logica del testimonial16 il quale
rappresenta un punto di connessione tra il mondo della pubblicità e
quello dello show business ed è capace di trasferire parte della sua
autorevolezza o della sua fama al cuore pulsante dell’identità del
brand17.
Se è vero che la marca deve esprimersi attraverso un fisico, uno
stile e un carattere che rispettivamente convince, seduce e dura, è
anche vero che questi devono risultare al di là della percezione co-
mune, surclassare la banalità del quotidiano per avvicinarsi alla di-
mensione olimpica della diva hollywoodiana18.
La campagna che meglio incarna questa idea del pubblicita-
42 rio/teorico francese è quella, oramai celeberrima, della Citroën Cx
(1985), che impatta sul mondo banale dello spettatore per confon-
derlo, stravolgerlo, rapirlo e convincerlo. La testa di un robot in stile
giapponese s’innalza su un altipiano desertico. Apre la bocca come
fosse una rampa di lancio e proietta una formidabile Cx sulla diste-
sa polverosa. Al suo interno, come in un gioco di scatole cinesi o in
un loop che potrebbe continuare all’infinito, la stessa immagine del
robot, ma questa volta in “carne e ossa”. Una creatura androgina,
aggressiva e misteriosa che canta e guida come fosse un’amazzone
postpunk. Non a caso è Grace Jones, famosa cantante, fotomodella e
attrice che con il suo stile provocatorio e dirompente ha inciso pro-
fondamente sull’immaginario pubblico del periodo. Uno spot sugge-

16. Non che nell’arco del nuovo decennio si fosse ridotta la tendenza delle aziende a
ingaggiare testimonial, ma questa era meno rappresentativa dei nuovi stili di comuni-
cazione che si sono affermati definitivamente con il passaggio al nuovo secolo.
17. Si afferma pertanto la cultura delle celebrities che è esattamente speculare a quel-
la riscontrabile nella fase successiva agli anni Novanta. Se prima erano le star che pre-
stavano la loro immagine a sostegno dei brand commerciali, oggi queste si trasforme-
ranno direttamente in brand che operano nei vari settori commerciali.
18. Il fatto che il modello di riferimento sia soprattutto Marilyn, cioè la stessa diva che
inaugura il cliché della star sofferente e insoddisfatta, può solo confermare tale pre-
supposto.
1. Alcuni frame del famoso spot di Citroën Cx.

1. <

stivo che gioca metonimicamente tra il carattere della marca, l’imma- 43


gine del robot, il corpo della diva per trasferire contenuti altamente
spettacolari attraverso l’icona seduttiva del testimonial. Come con-
trocoro a quello spot possiamo prendere in esame un videoclip che,
pubblicato un anno prima, tocca alcuni punti nevralgici della cultu-
ra del consumo e dello spettacolo di quel tempo.
Si tratta di Road to nowhere dei Talking Heads, uno dei primi
videoclip a essere studiato in una prospettiva culturologica da Dick
Hebdige [1991], che però in quella circostanza si è limitato a riflette-
re sulla suggestione estetica delle immagini, senza entrare nel tema
che le lega. Difatti, il clip presenta in un ritmo frenetico, tipico del
montaggio Mtv, un vasto campionario di icone e simbologie tipiche
della società dei consumi negli anni Ottanta. A un dato momento, i
membri di una comunità di un paesino di provincia, si stringono in
coro per intonare le note e le parole dell’incipit. Esso parla di loro
dinnanzi alla “strada per il nessun dove”, sulla quale ci guida il can-
tante David Byrne. Microsequenze della durata di pochi secondi
squarciano la consistenza del sogno americano di quel periodo met-
tendone in discussione la sostanza. La più significativa ed esplicita è
forse quella del giovane che insegue il carrello della spesa, segno ine-
quivocabile di uno strumento – il consumo – che si è fatto fine e ha
spiazzato definitivamente il ruolo di colui che lo aveva creato per
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soddisfare alcuni bisogni. Con un’insolita accelerazione che ricorda


l’effetto parodistico delle comiche anni Venti, si consuma una scena
tipica del conflitto generazionale, che vede una coppia sposarsi, dare
al mondo una bimba e vederla andar via vestita in stile punk. Specu-
lare ad essa è il meccanismo regressivo che riporta un anziano allo
stadio di infante, messo letteralmente “in scatola” a causa del proces-
so di estenuante enfatizzazione e mercificazione dell’infanzia. Il per-
sonaggio simbolo di tutta un’epoca, lo yuppies, litiga con un suo anta-
gonista con il volto coperto da maschere di catch messicano, ma la
loro mimica ricorda due bambini che si contendono un giocattolo.
La scena dell’uomo che s’arrampica sul piano inclinato con una fisar-
monica trainata dietro di sé, passerebbe del tutto inosservata, se non
fosse per la sua anomala sincronizzazione con il riff di fisarmonica
che parte dalla base musicale. In un gesto semplice e impercettibile il
genio di Byrne e del coregista Stephen Johnson, ha voluto mettere in
discussione l’essenza del funzionamento del linguaggio del videoclip,
basato su tre effetti di sincronizzazione fondamentali: lips synch,
immagine strumento/suono, montaggio/ritmo [Di Marino 2001].
Negli anni Ottanta, sempre Baudrillard [1987] ha riflettuto sul-
44 l’evoluzione del linguaggio pubblicitario sorpassando i termini in un
ulteriore slittamento dalle strategie fatali della seduzione a quelle
della fascinazione. Se nella prima prevale ancora un atteggiamento
narcisistico, analogico, legato allo “stadio dello specchio”, con la
fascinazione s’intensifica l’effetto simulacrale e al rapporto tra copia
e realtà autentica succede una iperrealtà autoreferenziale che supera
qualsiasi vecchia dicotomia (ad esempio la pubblicità come supera-
mento dell’antinomia tra il vero e il falso o la moda come supe-
ramento dell’opposizione tra bello e brutto). Si tratta in effetti di
un’estetica fortemente pervasiva che contraddistingue anche stili di
comunicazione che si collocano agli antipodi. Ne è ormai un classi-
co esempio l’analisi operata da J. M. Floch sulla contrapposizione tra
l’identità visiva della Apple e della IBM che s’incarna eminentemente
nello stile comunicativo della campagna di lancio del Macintosh nel
1984. Si tratta di un filmato che recupera elementi classici delle
distopie: dall’uniformità della folla alla sua alienazione che passa
attraverso l’immagine di “[…] uomini con il cranio rasato che mar-
ciano pesantemente in alcuni tunnel che congiungono delle alte
costruzioni grigie” [Floch 1996: 75]. Gli uomini stanno seguendo un
discorso di propaganda del “Grande fratello” di turno, ma a un dato
momento una splendida e sinuosa protagonista squarcia quella col-
tre di monotonia e con il suo completo fiammante (su cui è ricono-
Evoluzione del brand system

scibile un computer Macintosh) lancia un martello che fa esplodere


lo schermo. A parte l’analisi puramente descrittiva di quel testo è di
maggiore interesse la correlazione tra il senso recondito dello spot
che è schematizzato dal semiologo francese nel seguente modo:

Configurazione complessa vs Configurazione semplice


Monocromatismo freddo vs Policromatismo caldo
Forme dritte vs forme curve
Ripetizione di unità identiche vs Silhouette non ripetuta
————————-
Schiavitù vs Libertà
Perpetuità vs Prima/Dopo

Lo spot citato metterebbe pertanto in moto l’antagonismo tra valo-


ri alla base delle due rispettive identità di marca. Lo spot veicola in
maniera palese una sensibilità tipica del periodo, a prescindere dal-
l’opposizione simbolica che ridotta all’essenziale tende semplicemen-
te ad associare l’identità IBM alla distopia e la giovane donna Apple
alla liberazione, entrambe si ritrovano in un discorso altamente fasci-
natorio. Al di là dell’immaginario pubblicitario d’oltre oceano, spes- 45
so esuberante e ipermoderno, è certamente vero che la profusione del
consumo negli anni Ottanta sia giunta anche a recuperare elementi
atavici, bucolici, familiari e rassicuranti, ma non si è trattato tanto di
un meccanismo di compensazione quanto piuttosto della celebrazio-
ne stessa della iper-realtà. Il modo in cui la pubblicità di Mulino
Bianco racconta una famiglia felice nel casolare di campagna “che il
tempo non cambia”, non ci rimanda tanto a “… una ritualità arcaica
fatta di armonia, felicità e semplicità” [Minestroni 1996: 81], quanto
piuttosto a una famiglia iper-reale che non intrattiene plausibili colle-
gamenti né con un immaginario folkloristico né con uno avanguardi-
stico ma che, semplicemente, prova a incentivare un nuovo lifestyle.

> Diluizione

Al di là degli anni Ottanta, cavalcando la reazione di dissenso nei


confronti di una cultura connotata o etichettata come effimero, si
produce la fase più matura dell’evoluzione del sistema dei consumi.
Con il termine diluizione [Semprini 1993], qui non si vuole soltanto
descrivere la compenetrazione tra il mondo delle marche, quello dei
prodotti e l’esperienza soggettiva del consumatore. Esso indica in
Brand New World

maniera più estesa un movimento di apertura dei contesti “chiusi”,


di superamento definitivo del “principio di separazione”, di afferma-
zione di un’ideologia dell’informale nella comunicazione e nel con-
sumo. Tale processo coinvolge dunque: a. le teorie e le pratiche delle
organizzazioni; b. il rapporto tra sistemi astratti (istituzionali, pro-
duttivi, mediali) e contesti localizzati della vita quotidiana; c. la natu-
ra comunicativa delle marche e il loro rapporto con comunità di con-
sumatori o con gruppi antagonisti.

a. Da un punto di vista organizzativo, le teorie che si dimostrano


vincenti sono quelle che insistono sul superamento definitivo della
logica fordista, razionale e individualista. Dalle conquiste del post-
fordismo si passa ai concetti di società della conoscenza e di kno-
wledge management. Il postfordismo, nato da banali espedienti tec-
nici che hanno permesso di emancipare e di elevare il lavoratore
dalla sua condizione passiva, compirà un salto radicale con l’introdu-
zione delle macchine automatizzate e della robotica. In questa fase,
in cui tende a coincidere con il più generale Postindustriale, la forza
produttiva e il prodotto s’incontrano nella mente del lavoratore,
46 nella sua capacità di organizzare elaborare ed erogare informazioni e
conoscenza.
La conoscenza assume un ruolo sempre più strategico diventando
così, come aveva già intuito Marx, il principale fattore produttivo.
Contro le teorie organizzative che descrivono le organizzazioni come
semplici sistemi di elaborazione informazionale, alcuni studi più
recenti hanno reso manifesta la funzione decisiva della cosiddetta
conoscenza implicita, composta sostanzialmente di processi mentali
non linguistici e non formalizzati (“noi sappiamo più di quanto
conosciamo”) e sottolinea che “[...] i processi ragionativi dell’uomo,
quando intento a prendere decisioni, hanno luogo principalmente
nel mondo non linguistico” [Nonaka 1994]. In chiara polemica con
l’impostazione cibernetica “classica” di Simon, Nonaka sviluppa un
modello di analisi dei processi cognitivi che riflette sull’importanza
del “rumore”, del caos e dei fattori di criticità che, sebbene siano
sfide alla sopravvivenza dell’azienda, rappresentano anche i princi-
pali fattori di crescita competitiva e creativa. Seguendo il principio di
Von Forster “order from noise”, Nonaka [1994] sviluppa la teoria
del caos creativo che conferisce un elevato quanto definitivo ricono-
scimento ai fattori ambientali aleatori come produttori di creatività.
Dagli anni Cinquanta a oggi, il postfordismo ha innescato un pro-
cesso a spirale di trasformazione del mercato che ha ridotto progres-
Evoluzione del brand system

sivamente la distanza tra la sfera produttiva e quella del consumo. Il


logoramento delle barriere “architettoniche” che distanziavano le
aziende dal mondo della vita quotidiana è rinvenibile ad esempio
nella traformazione del concetto di ufficio [Fiorani 2003]. Questa
spirale, fatta di continui feedback, ha cambiato la struttura molare
delle aziende, disarticolandole in strutture sempre più reticolari, ma
ha determinato anche la crescita di competenze dei consumatori che,
in un certo senso, sono state introiettate nel processo produttivo. La
rivalutazione professionale della “conoscenza tacita” è il presuppo-
sto per la nascita del cosiddetto Storytelling Management [Salmon
2008], che si basa sulla convinzione che per gestire un processo e
un’organizzazione complessi, occorre saper costruire e divulgare
delle narrazioni efficaci.
La necessità di dialogare con un consumatore sempre più mobile,
sfuggente, esigente, ha messo in evidenza il ruolo cruciale di un
momento della filiera rimasto in passato in posizione subordinata
rispetto ai dettami della produzione. Il Supply chain management ha
rivalutato la fase della distribuzione dando continuità alla tradizione
postfordista19. Il Scm eleva la logistica al rango di funzione strategica
per l’azienda. 47

[...] può anche succedere che sia la logistica a offrire all’azienda idee per
essere (l’azienda) più competitiva: ad esempio facendo diventare il ser-
vizio al cliente migliore di quello dei concorrenti. Ecco che l’impresa
diventa competitiva per via del servizio e, dal momento che il servizio lo
offre la logistica, è la logistica stessa che diventa fattore strategico per
l’azienda [Ferrozzi, Shapiro 2000: 8].

Lo sviluppo della logistica ha seguito cinque fasi nelle quali ha pro-


gressivamente acquistato importanza rispetto alle altre fasi della filie-
ra. Nell’ultima fase essa assurge a un ruolo primario sul quale si fonda
la competitività delle aziende tenute ad affrontare la crescente com-
plessità del mercato20. Fondamentali per lo sviluppo del Supply chain

19. Del tutto coerente con l’idea della produzione snella postfordista è l’idiosincrasia
nutrita per le scorte: “I giapponesi per primi hanno evidenziato la “dannosità” delle
scorte alte e tutti hanno seguito il loro esempio. La logistica è stata certamente la fun-
zione che si è battuta per ridurre le scorte e che ha portato i migliori contributi alla
loro effettiva riduzione” [Ferrozzi, Shapiro 2000: 7].
20. Per ultimo (quinta fase) la logistica arriva a partecipare alla definizione degli
aspetti strategici dell’impresa. Si tratta di una logistica di alto livello, che entra nelle
stanza dei bottoni e che offre alle aziende alcune leve per competere [ivi: 10].
Brand New World

management sono le potenzialità offerte dalle Ict che consentono di


coordinare, integrare e finalizzare tutte le fasi del processo aziendale
in funzione degli output della logistica.
Il prosuming, categoria formulata da A. Toffler [1979] per descri-
vere alcune evoluzioni del sistema dei consumi, si realizza quasi com-
pletamente grazie alla diffusione sociale dei new media e delle reti
telematiche. Queste ricadono sulla sfera della produzione aziendale
modificando definitivamente la relazione col consumatore. Nel
momento d’implosione si ripropone in modo quasi speculare, l’equi-
pollenza, la prossimità e la conseguente problematicità delle catego-
rie di produzione e consumo. Se nella prima fase questa promiscui-
tà era intuibile sotto forma di ipotesi, l’evoluzione tecnologica e dei
mercati pare aver concretizzato materialmente una simile prospetti-
va. La letteratura sui consumi, sul marketing e sulla brand communi-
cation, insiste su alcuni punti cruciali che sono rispettivamente: la
smaterializzatine o simbolizzazione del consumo, l’emersione di una
nuova figura di consumatore, l’affermazione di un nuovo paradigma
di marca (lightful brand). L’intreccio tra queste dimensioni dischiu-
de nuove prospettive al mercato e produce una spirale di trasforma-
48 zione che incide profondamente sulla cultura del periodo.

b. Il superamento di un concetto di globalizzazione collegato


all’internazionalizzazione fordista e a un assetto generalista del siste-
ma mediale, determina una situazione quasi paradossale. Le grandi
istituzioni internazionali, le marche globali e il sistema dei media,
strutturatisi per affermarsi e competere su scala globale, sviluppano
nuove strategie di intercettazione e di confronto con la sfera del loca-
le. Si tratta della dinamica di relazione tra i sistemi esperti e i conte-
sti territorializzati, ampiamente discussa da Antony Giddens [1994].
Tale prospettiva traccia una linea di continuità tra il nostro presente
e l’esperienza moderna, alla luce di quel processo di disgregazione
sociale attuato da tali sistemi che costituiscono “un principio assiale
dell’epoca globale moderna ovvero l’astrazione (dalla particolarità
del contesto)” [Tomlinson 2001: 75].

In questa prospettiva, la modernità si presenta come un processo di


strutturazione dell’esistenza sociale in relazione alle reti di organizzazio-
ne razionalizzate, il quale apre inevitabilmente i nostri mondi-della-vita
locali a influenze remote e in ultima analisi, globali [ivi].

La macchina della modernità trae movimento proprio da questa


Evoluzione del brand system

1., 2. La danza degli istrogrammi e degli indici della ricchezza nel videoclip Remind Me.

1. < 2. <

distanza tra contesti locali e soggetti globali. I processi di disaggrega- 49


zione sarebbero la conseguenza sociale della routine produttiva delle
organizzazioni razionalizzate. La sfera locale è così succube di una
dipendenza funzionale che al contempo la controlla e la trasforma.
Su di essa interviene in maniera decisiva il sistema dei media che
riconfigura, su di un livello diverso, il senso dell’appartenenza, le
relazioni spaziali, le competenze di consumo ecc. Proprio in virtù
della natura evanescente del suo prodotto (l’informazione), tale siste-
ma è forse tra i primi a strutturare una distanza perentoria tra il con-
testo della produzione e quello del consumo [Thompson 1998].
Il legame sociale si ristruttura pertanto grazie al consumo mediale
e materiale, che alimenta un nuovo senso del “sentirsi a casa nel
mondo”. Esso si fonda sui concetti di prossimità e di connettività, in
base ai quali ciò che accade in una spazio/tempo remoto ha implica-
zioni dirette sull’azione di altri gruppi sociali e dunque di altri siste-
mi esperti che presiedono al loro funzionamento. Il formidabile
videoclip dei Royksopp diretto dai francesi Ludovic Houplain e
Hervé de Crecy [2003], racconta in maniera lampante le modalità
attraverso cui il mondo della vita quotidiana – non più quello spazio
interno, chiuso e autonomo immaginato dai filosofi – è intimamente
connesso all’insieme di tecnologie, apparati e modelli di problem sol-
ving che rientrano nella categoria di “sistemi esperti” [Giddens
Brand New World

1994]. Anche il più banale gesto domestico è presidiato dalle com-


petenze di staff tecnici nei quali è fondamentale nutrire un sentimen-
to di fiducia. Tra questi sistemi rientrano a pieno titolo i media e il
sistema dei brand globali, che gestiscono sfere vitali o mondi di signi-
ficati sempre più decisivi per la vita nel mondo globalizzato. Ma la
consapevolezza della connettività complessa che interessa tale dina-
mica, coinvolge non solo i tecnocrati, ma anche il sapere quotidiano,
che un tempo si soleva definire come “senso comune”. La consape-
volezza che il mondo dei consumi ha un impatto globale su altre cul-
ture e altri ecosistemi non accompagna solamente la supremazia o il
senso di colpa di coloro che operano nelle “sfere alte”. Non esprime
solo il punto di vista egemonico della tremenda direttrice in Il diavo-
lo veste Prada di David Frenkel (2006) ma è a disposizione della
gente comune:

[...] l’industria globale dell’abbigliamento è un’istituzione altamente


riflessiva, in sintonia con le scelte di molteplici attori che nel mercato si
esprimono mediante i codici culturali della moda. Proviamo a riflettere
sulle conseguenze delle scelte culturali compiute da un gruppo di ado-
50 lescenti in visita a un centro commerciale europeo, un sabato pomerig-
gio, con la mente rivolta al look per la serata: la connettività implicata
tale da abbracciare le speranze d’impiego di un lavoratore nero delle
filippine. In secondo luogo la connettività risiede nel fatto che le scelte
relative a beni di consumo, hanno conseguenze ecologiche di portata
globale nella misura in cui comportano l’impiego di risorse naturali e lo
svolgersi di processi di produzione industriale. Un mondo di connetti-
vità complessa (un mercato globale, i codici internazionali della moda,
una divisione mondiale del lavoro, un ecosistema condiviso) collega
dunque la miriade di piccole azioni quotidiane compiute da milioni di
persone ai destini di altre persone lontane e sconosciute, e anche al
destino del pianeta [Tomlinson 2001: 40].

La forza di questa consapevolezza inverte il canale di comunica-


zione tra sistemi esperti e vita quotidiana. Ciò che è prodotto local-
mente, vale a dire valori, relazioni, esperienze, assume un’importan-
za decisiva. La connessione tra “piccole azioni quotidiane” si ristrut-
tura su un livello superiore e acquisisce, in un certo senso, una pro-
prietà strategica. L’idea che pratiche effimere ed evanescenti come la
scelta della mise serale, possano avere ripercussioni sulle decisioni
che si prendono in alto, cambia le regole del gioco. Non a caso
appartiene a questa fase il consolidamento di un attivismo consume-
Evoluzione del brand system

rista e la formazione di un’opinione pubblica globale grazie alla dif-


fusione generalizzata del web e delle nuove tecnologie. Tramonta la
concezione del non-luogo [Augé 1993] rispetto alla quale si scopro-
no i modi attraverso cui le nuove forme di socialità tendono a riap-
propriarsi di spazi programmati per altri fini (commerciali, logistici,
istituzionali ecc.). Il tentativo di risolvere la diatriba tra luoghi auten-
tici e non-luoghi ha indotto alcuni scienziati sociali a formulare
nuove concezioni, come nel caso degli “alti luoghi” [Maffesoli 2003]
che sono ridisegnati dai rituali quotidiani delle nuove tribù. Con
qualche anno di ritardo, il cinema è giunto a riflettere su tale proces-
so grazie al film The Terminal di Spielberg (2004), in cui Viktor
Navorski, interpretato da Tom Hanks, è cittadino di una nazione
immaginaria dell’est Europa che a causa di varie vicissitudini resta
sospeso nel terminal di un aeroporto newyorkese. L’impossibilità di
entrare in città come anche di tornare a casa fanno sì che l’ospite
inatteso trovi il modo di radicarsi in quello che è il non-luogo per
antonomasia e in tal modo può trasformare quello spazio liscio in un
contesto esistenziale a elevata intensità relazionale. Come si vede
sono di varia natura i processi che partecipano a una nuova conce-
zione del consumo. 51
Il processo di smaterializzazione del lavoro, dei beni, dei luoghi di
fruizione, conduce a un tipo di consumo simbolico, che insiste sui
nuovi valori sociali affermatisi con la crisi dell’epoca precedente e che
rinnegano in parte la vocazione “edonista” o esibizionista (l’ostenta-
zione del consumo). Lo slittamento di tale pratica sulla sfera dell’im-
materiale e del simbolico pone “virtualmente” l’azienda e il suo diret-
to interlocutore sul medesimo piano, conferendo a quest’ultimo un
enorme margine di manovra. Siamo nel momento di massima concre-
tizzazione di una serie di modelli, formulati altrove, che vanno dal
prosuming toffleriano alla “produzione di secondo livello” di de
Certeau [2001]. In altri termini si può parlare di “consumo maieuti-
co” dato che la dinamica relazionale tende sempre più a prevalere su
quella transazionale.

Il processo di maturazione e di selezione mirata del consumatore porta


a scalzare il progettista dal ruolo di chi deve esprimere le energie crea-
tive e porta le aziende alla necessità di confrontarsi con il consumatore,
nel momento in cui il consumatore non vuole più l’etichetta sull’abito o
il mobile firmato. […] Non si tratta più di eterodirezione classica o di
autodirezione ma di interdipendenza in cui si parte dall’interno e si cer-
cano all’esterno delle corrispondenze [Morace 1993: 14-15].
Brand New World

Il termine maieutico, che insieme all’ironia è pilastro fondamenta-


le della dialettica socratica21, ha una forte connotazione semantica.
Esso ci consente di enucleare il rapporto di sempre più stretta inter-
dipendenza tra le aziende e i fruitori dei loro prodotti/servizi. Questi
sono impegnati in un dialogo che dà vita a un “parto” sistematico di
idee e prodotti, che sfrutta la collaborazione dell’altro per fare in
modo che le cose vadano nel migliore modo possibile. La metafora
del parto ci interessa particolarmente perché sarà alla base dell’ela-
borazione del modello cognitivo del consumo.
L’attore di questa grande rivoluzione non è solo il sistema delle
marche ma anche e soprattutto la nuova figura di consumatore. Esso
irrompe sul palcoscenico degli anni Novanta e stravolge concezioni
e pratiche consolidate nell’arco di decenni. Questa immane rivolu-
zione “copernicana” operata dalla sociologia dei consumi pone al
centro dell’attività delle aziende la libertà e l’autodeterminazione del
consumatore/spettatore, rinnegando tutte le teorie di stampo critico-
francofortese che avevano insistito su concetti come quello di aliena-
zione (Marx), eterodirezione (Riesmann), desublimazione repressiva
(Marcuse), narcisismo (Lash). Dopo aver rimosso tali retaggi si può
52 procedere a valorizzare un’altra tradizione che ha invece aveva insi-
stito sull’autonomia decisionale del soggetto. In particolar modo dal
mondo anglosassone provengono gli stimoli per una rilettura in chia-
ve sociosemiotica del rapporto tra apparati produttori di senso e i
loro fruitori. È come se gli studi avanguardistici di Stuart Hall e della
sua scuola si trasferissero al ragionamento sui consumi in generale,
proprio quando a quest’universo di pratiche si tende a conferire un
valore sempre più simbolico e immateriale. Come dire che, dopo
aver riflettuto sui media in quanto tali e aver scoperto l’essenza co-
municativa dei beni di consumo [Douglas, Isherwood 1984], si
rende necessario il trasferimento di alcuni modelli comunicativi al
rapporto tra aziende e consumatori. Dal modello encoding/deco-
ding, che Hall ricava dalla semiotica di Umberto Eco, sino all’agire
tattico di de Certeau, fino alla più recente sistemazione operata.
Grandi [1994], si defila un nuovo approccio che mette in sistema le

21. L’ironia è la pars destruens che serve a smontare le convinzioni consolidate dell’in-
terlocutore o dell’avversario nell’agone argomentativo che contrassegnava il fare filo-
sofia al tempo di Socrate. La maieutica, ossia la scienza di “far partorire il concetto”
è invece la pars construens. La fase della diluizione è dunque profondamente socrati-
ca non solo per la maieutica ma, come si vedrà tra poco, anche per l’ironia che in que-
sto caso serve a stipulare un nuovo contratto tra la marca e il consumatore.
Evoluzione del brand system

nuove qualità dei beni di consumo, del consumatore, delle marche.

c. Si scopre in tal modo la natura semiotica della marca come af-


fermazione problematica su cui gli stessi semiologi continuano a
dibattere e a riscuotere crediti da studiosi di altri campi [Marrone
2007]. Non che questo aspetto fosse sottovalutato nella fase della
profusione, ma in quel caso era ancora completamente riferito alla
sfera dei produttori/emittenti e asservito alle logiche di comando
delle marche stesse. Nella fase della diluizione, invece, si profila un
radicale scostamento del valore semiotico della marca dal contesto
della produzione a quello del consumo.
La marca va pertanto a posizionarsi tra il contesto della produzio-
ne e quello del consumo, sostituendo essa stessa la barriera di sepa-
razione che, fin dalla sua creazione nella fase dell’accoglienza, aveva
trasformato questi attori mercantili in potenti istituzioni culturali,
socialmente riconosciute e globalmente legittimate. Ora l’obiettivo
fondamentale diventa la soppressione stessa di quella barriera e la
messa in discussione del “principio di separazione”. La critica mossa
da Semprini alla distinzione di Kapferer tra brand identity e brand
image [Semprini 1994], va esattamente in questa direzione. Tale vi- 53
sione sarebbe difatti troppo meccanicista e tenterebbe a separare
due contesti di produzione del senso che nella realtà dei fatti sono
uniti da una relazione circolare piuttosto che lineare e unidireziona-
le. La brand identity pertanto non può essere concepita esclusiva-
mente come un esperimento di laboratorio dal quale viene fuori il
nome, la mission e il sistema di valori che un’azienda depone nella
marca. Al contrario essa è un prodotto collettivo generato dall’inte-
razione di diversi attori sociali (le altre aziende, il mercato, i consu-
matori, i media, gli stakeholders ecc.) che negoziano il suo significa-
to e il suo valore contingente. L’identità e l’immagine della marca
sono pertanto il frutto di un’interazione dinamica o di un procedi-
mento abduttivo che coinvolge principalmente la marca, intesa come
soggetto emittente, e il suo pubblico. La celebre concezione delle
marche intese come “generatori di mondi possibili” [Semprini 1993]
che l’autore recupera da una definizione di Eco, esprime principal-
mente due concetti: la capacità delle marche di creare un ambiente
simbolico in cui può ospitare il suo pubblico di riferimento, l’arbi-
trio assolutamente libero del consumatore che può scegliere a quale
mondo vuole richiedere cittadinanza. Tale concezione è rivoluziona-
ria ma manca in essa l’idea di una effettiva compenetrazione tra il
contesto della produzione nel quale si genera valore e quello del con-
Brand New World

sumo nel quale si producono esperienze. Il ruolo attivo del consuma-


tore resta valido solo come selezione/scelta di significati e opera sul
livello virtuale che è sganciato dalle concrete esperienze di vita, men-
tre la marca è ancora troppo distante da tali contesti effettivi ai quali
si avvicinerà in una fase più avanzata. L’architettura stessa dell’iden-
tità di marca [Semprini 1996] del resto rivendica, dopo averla nega-
ta, una sostanziale separazione disposta su tre livelli tra il nucleo
assiologico della marca, che è centrale e profondo, e quello superfi-
ciale in cui si racconta la contingenza della campagna comunicativa
attraverso i vari canali in un periodo specifico. In tal modo i model-
li di semiotica imprestati “al marketing”, hanno concesso una mag-
giore comprensione del sistema di relazioni tra gli elementi che inter-
vengono a produrre i significati socialmente condivisi delle marche.
Allo stesso tempo, tali formalizzazioni, hanno esasperato una visione
sinottica e sincronica mentre occultavano la questione dell’avvicen-
damento delle tendenze culturali. C’è dunque una linea di continui-
tà che si dipana dalle prime applicazioni del quadrato semiotico grei-
masiano all’identità della marca [Floch 1992, 1996], passando per
l’analisi del modo in cui i valori della marca si articolano nel discor-
54 so pubblicitario [Volli 2003], sino alla più recente e pragmatica pro-
spettiva della marca come “istanza discorsiva” [Marrone 2008: 15].
Elemento di condivisione tra tali prospettive è l’idea che i valori base
che definiscono i quattro quadranti nell’applicazione di Floch
(Valorizzazione pratica, Valorizzazione utopica, Valorizzazione criti-
ca, Valorizzazione ludica) siano compresenti nella dinamica cultura-
le di un’epoca e siano rispettivamente incarnati dalle varie marche
che si posizionano su di esso. In altri termini se il mapping semioti-
co consente di analizzare il posizionamento e i rapporti di reciproci-
tà/opposizione tra varie brand identity poste nei diversi quadranti,
esso ci dice poco sul modo in cui un dato quadrante si “illumina” e
fa sì che i suoi valori incarnino maggiormente lo spirito, l’atmosfera
o il mood di un dato momento culturale. In tal modo il passaggio
rivoluzionario dagli anni Ottanta agli anni Novanta, dall’epoca della
profusione a quella della diluizione, sarebbe rimosso da una sorta di
ipostatizzazione del valore e del senso della marca. Quando si parla
dei valori della marca che passano attraverso un linguaggio mitopo-
ietico e narrativo, siamo ancora in una fase di distinzione del brand
dal suo pubblico, nonostante si riconosca come questi valori siano
socialmente condivisi. La libertà per Levi’s, l’avventura per Marl-
boro, l’agonismo e la vittoria per Nike, sono ancora proiezioni filtra-
te ed edulcorate di un immaginario sociale che muove invece verso
1., 2. La campagna di Sprite “Obey your thirst” uscita in Italia come “Ascolta la tua sete”.

1. < 2. <

un’altra direzione: quella dell’incorporazione dell’esperienza reale. 55


Dalla realtà simulacrale della marca si passa così alla sua ricodifica-
zione in chiave esperienziale.
Il primo passo verso tale obiettivo è l’azzeramento della marca, del
suo status, del suo potere ammaliante, tutto ciò perlomeno nella reto-
rica della comunicazione. Il punto di svolta della nuova comunicazio-
ne è senza dubbio la formidabile e spiazzante campagna “Ascolta la
tua sete” di Sprite, pubblicata negli Stati Uniti nel 1991, che insieme
ad altre sporadiche iniziative reinventa la comunicazione pubblicita-
ria del periodo. In essa si abbattevano definitivamente i miti di un
consumo edonistico e si riafferma la centralità della persona rispetto
alle roboanti promesse di una comunicazione affabulatoria che aveva
invece spopolato nel decennio precedente: “l’immagine è zero, la sete
è tutto. Ascolta la tua sete”. L’azzeramento del capitale simbolico del-
la marca serve a creare un vuoto che deve essere riempito dal consu-
matore. Questi è invitato a tornare alle fonti effettive della sua espe-
rienza, ai bisogni concreti della sua vita “reale”, per affermare la sua
personalità nel nuovo spazio comunicativo offerto dalla marca. Uni-
co problema: il recupero della propria autenticità passa per una be-
vanda ipergassata e dolcissima, che in nessun modo potrà risolvere il
suo bisogno di dissetarsi. Come dire che la marca scende dal piedi-
stallo sul quale comodamente pontificava, per intrattenere una rela-
1. La campagna “Africa” recupera alcune tecniche tipiche del culture jamming tra cui il
Media Hoaxing.

> 1.

56 zione amicale o familiare col consumatore, che però, talvolta, avver-


te tale movimento come una doppia ingerenza nella propria vita. La
marca difatti cerca di abbandonare la sua posizione di vantaggio solo
nella retorica della comunicazione e così facendo va ad assommare
un doppio potere: quello che le era già riconosciuto e quello più
recente di essere al pari del suo pubblico cioé primus inter pares.
L’altra grande iniziativa che opera sul medesimo fronte con finalità
molto diverse è la campagna “brand Zero” di Diesel, il cui stile di co-
municazione squarcia gli anni Novanta con la sua irriverenza e con la
sua tagliente ironia22 che diventa nel breve periodo il valore stesso sul
quale si fonda il capitale simbolico della marca. Ancora una volta il
concetto di “azzeramento” realizza un posizionamento di rottura in
cui la marca stessa mette in discussione la sua autorevolezza e dunque
quella di tutto il sistema nel quale è inscritta. La campagna del 1997
ha come soggetto i manifesti 6x3 che attraverso uno stile retrò, pre-
sentano le scintillanti promesse della vecchia pubblicità sullo sfondo
della sfacelo contemporaneo, dai sobborghi di New York ai luoghi

22. A tal proposito Naomi Klein rilegge tale processo dal punto di vista di un’impo-
stazione critica: “Dopo aver etichettato tutta la cultura marginale, sembrava naturale
ai marchi occupare quella piccola, limitata fascia di cervello ancora non portata
all’ammasso del mercato, occupata dall’ironia [Klein 2001: 108].
Evoluzione del brand system

interdetti della Palestina. La tecnica, che ritornerà nelle campagne del


2000 con la pseudo country rockstar Johanna e nel 2001 con Africa
[Barile 2004] è mutuata palesemente dal linguaggio del culture jam-
ming che l’azienda osserva sin dalle sue prime espressioni.
Gli anni Novanta sono stati segnati da un processo, per certi versi
inedito, che ha visto aumentare l’interdipendenza tra i contesti azien-
dali e i pubblici alternativi. Questi sino ad allora, almeno apparente-
mente, si erano mostrati del tutto critici nei confronti dell’universo
delle marche. Con il termine interdipendenza non voglio assoluta-
mente asserire che ci sia una pacificazione tra i colossi del capitali-
smo multinazionale e le culture antagoniste ma che, tutto sommato,
ambedue accettano un terreno comune di confronto, di scontro e di
studio reciproco. La comunicazione è il campo sul quale si gioca la
sfida tra queste due realtà, una sfida che ha trasformato le competen-
ze e le conoscenze dei professionisti della comunicazione, rendendo
necessaria la nascita di nuove figure professionali.
Il problema fondamentale delle aziende è dato dal principio della
separazione, dal fatto che il contesto della produzione, finalizzato al
profitto, implica valori, mezzi, obiettivi del tutto diversi da quelli che
caratterizzano il contesto del consumo. In virtù di questo principio le 57
sottoculture giovanili si sono spesso definite in negativo rispetto alle
aziende che a loro si rivolgono per fare business, secondo la dialetti-
ca autenticità vs inautenticità. I giovani, nel tentativo di conservare la
loro autenticità e la loro originalità, hanno per decenni rifiutato
oppure riconfigurato l’utilizzo dei beni di consumo offerti dal merca-
to. In questo modo sono nate le sottoculture giovanili come il luogo
dell’esistenza autentica contro l’inautenticità del mercato.
I grandi brand, che da quasi trent’anni si sono rivolti al pubblico
dei giovani, hanno saputo coltivare, attraverso un numero piuttosto
vasto di nuovi universi simbolici, diverse generazioni di giovani con-
sumatori. Il meccanismo del branding ha così colmato, grazie alla
comunicazione, la distanza che separava le aziende dalle sottocultu-
re giovanili. Nel passaggio dagli anni Ottanta agli anni Novanta si
consuma la crisi del brand system in quello che Naomi Klein [2001]
ha definito come “il venerdì nero della Marlboro”. Secondo questa
tesi, scontando del 20% il prezzo del suo più importante prodotto,
la celebre marca di sigarette, ha fatto sì che venisse messo in discus-
sione l’intero sistema di garanzie che le marche avevano sino ad allo-
ra offerto. Ma il vero motivo della crisi era il fatto che le aziende ave-
vano perso d’occhio il loro referente e non riuscivano più a dialoga-
re con i nuovi pubblici giovanili. Nasce in tal modo una cultura della
Brand New World

coolness da cui deriva la figura professionale del Cool Hunter, come


collettore tra il sistema dei brand multinazionali e l’arcipelago di sot-
toculture giovanili che si va progressivamente moltiplicando e com-
plicando.
In tale accezione il cool hunter è principalmente un giovane matu-
ratosi proprio negli stessi contesti socioculturali che l’azienda vuole
conoscere. Si tratta pertanto di un contro-etnografo23 dotato di una
risorsa rara e ambita dalle aziende: l’autenticità. Grazie alla capacità
di condividere valori, linguaggi e stili di vita dei giovani, il cool hun-
ter è in grado di individuare, selezionare e campionare le tendenze
più innovative che stanno nascendo nella “strada” trasformandole,
prima che si esaurisca il loro ciclo di vita, in un prodotto commercia-
le. È un osservatore costantemente aggiornato sulle evoluzioni dei
consumi giovanili dalla musica ai club, dal cibo alla moda, ma spes-
so tale lavoro è svolto da gruppi organizzati che elaborano una pro-
pria metodologia specifica, come il FCL in Real Fashion Trends [Mo-
race 2008]. L’istituzione di questa figura rappresenta una nuova sfida
per le sottoculture che si sentono tenute sotto osservazione e temo-
no il fatto che i codici che costituiscono la loro stessa identità possa-
58 no essere scippati e commercializzati su scala planetaria. S’inasprisce
così quella che Umberto Eco [1968] ha definito anni fa “guerriglia
semiotica”24 che vede reagire le sottoculture al presunto furto con un
gesto ancora più estremo.
Il culture jamming è un movimento di attivisti anti-brand che
depredano i contenuti dell’advertising (subvertising) creando, trami-
te un’ironia tagliente, delle campagne alternative che sbeffeggiano le
headline e i logo delle multinazionali più spregiudicate. Il Jamming
in tal modo mira a svelare tutto ciò che non viene detto dalla marca
quando comunica con il suo pubblico. Il cerchio dell’interazione di-
namica si chiude con un ulteriore feedback che riverbera sulla pro-
23. L’etnografo deve penetrare una cultura altra oppure una sottocultura attraverso
procedure predefinite, mente il controetnografo proviene dalle culture soggette a
osservazione ed è tenuto a spogliarsi di tali “abiti mentali” per capire quali elementi
possono essere suscettibili di interesse da parte del contesto aziendale e come utiliz-
zarli.
24. È questo un aspetto ‘rivoluzionario’ della coscienza semiologica, tanto più impor-
tante in quanto (in un’era in cui le comunicazioni di massa si presentano spesso come
la manifestazione di un dominio che ribadisce il controllo sociale attraverso la piani-
ficazione della trasmissione di messaggi), là dove appare impossibile alterare le moda-
lità dell’emittenza o la forma dei messaggi, rimane possibile (come in un’ideale ‘guer-
riglia’ semiologica) mutare le circostanze alla luce delle quali i destinatari sceglieran-
no i propri codici di lettura [Eco 1968: 417].
Evoluzione del brand system

fessione del pubblicitario e che ne modifica obiettivi e linguaggi, tan-


to che la stessa comunicazione delle multinazionali ha dovuto adot-
tare alcune tecniche del culture jamming per abbattere nuovamente,
tramite l’uso dell’ironia, la parete che separa i produttori dai consu-
matori, cercando di beneficiare, seppur minimamente, dell’aura di
autenticità che emana da tale operazione.
Le tecniche del Jamming, ormai diffuse su scala planetaria dalle t-
shirt delle località turistiche alle esternazioni di comici e politici,
sono un terreno di confronto tra un sapere aziendale costitutivamen-
te strategico e uno antagonista. Lo studio di tali tecniche consente di
mettere in luce i processi cognitivi e gli obiettivi alla base della pia-
nificazione delle campagne. Tuttavia, alla stregua della pubblicità
commerciale, essi si fondano sulla produzione o riproduzione di ste-
reotipi, facili da comunicare visualmente, dal forte impatto emotivo.
Nella tabella che segue ho provato a costruire uno schema evolu-
tivo delle marche, dei valori del consumo, della figura del consuma-
tore, della concezione dei beni e della reazione dei pubblici nel pas-
saggio attraverso le quattro fasi di riferimento. Si tratta di una rap-
presentazione sinottica che esprime in modo sintetico un percorso al
contempo storico e teorico e che potrebbe rivelarsi utile per eventua- 59
li approfondimenti empirici.
Come si è visto in questa fase è decisivo il passaggio da un vecchio

Funzione Valori Figura Concezione Rapporto Reazione


della marca del consumo del consumatore dei beni consumo / dei pubblici
vita
quotidiana

Accoglienza Segnaletica Inconsapevole Scardinata Elementare / Accettazione Stupore


dal vincolo individualizzata cauta
comunitario

Diffusione Pedagogica Eterodiretto Atomizzato / Massificata Resistenza Preoccupazione /


passivo cultrale entusiasmo

Profusione Seduttiva Edonistico Surclassato Sistemica Subordinazione Euforia


ma consapevole

Diluizione Maieutica Simbolico Competente/ Neoanimistica Collusione Pragmatismo


intraprendente
Brand New World

modo di concepire i media a uno nuovo, dall’epoca in cui prevaleva


il sistema generalista, la cui efficacia si basava sull’intensificazione di
tratti che erano propri della fase della diffusione, a un modello diver-
so, meno massificato e tutto sommato non più disperatamente spet-
tacolare. I nuovi media (cioè il web ma anche le tv tematiche, i pal-
mari e le fotocamere digitali, nuovi software e nuovi hardware ecc.)
decretano una trasformazione rivoluzionaria che va a impattarsi sui
vari settori della vita pubblica e del mondo del consumo. Tuttavia
sarebbe fuorviante attribuire a tali mezzi lo stesso valore, la medesi-
ma qualità che in passato si attribuiva alla televisione e agli altri media
generalisti. A mio parere difatti, alcuni testi che hanno affrontato la
questione della nuova comunicazione “post spot” e dei nuovi marke-
ting post-kotleriani, hanno eccessivamente enfatizzato la potenza
assertiva della rete e del suo indotto. Ad esempio Lombardi [2007]
parla di una “tempesta perfetta nel suo progressivo attingere e mol-
tiplicare forza, intensità, direzione ed efficacia, fino a provocare un
uragano: il mondo digitale” [ivi: 14]. Quando le forze che compon-
gono questo mondo si “combinano, il tornado digitale acquista una
violenza mai vista prima nei mass media, colpendo il paradiso del
60 marketing tradizionale: il Web 2.0 è la più drammatica e recente
manifestazione [ivi: 15]. Altra metafora adottata dall’autore è quella
del “piccolo fratello” che assommerebbe le caratteristiche oppressi-
ve dei vecchi media con quelle miniaturizzate del nuovo. Nell’intero
arco degli anni Novanta, in effetti, la retorica che salutava il futuro
salvato dai nuovi media, ha recuperato aspetti tipici della riflessione
sui media obsoleti, senza riflettere sulla qualità specifica di questi
come anche, più recentemente, sulla diversità tra il web di quell’epo-
ca e il cosiddetto Web 2.0 [Abruzzese 2007]. Anche Fabris [2008],
prima di addentrarsi nell’analisi dei nuovi modi di fare marketing
assegna un ruolo eccessivo, quasi paradossale, alla Rete che torna a
essere celebrata come nella fase della new economy, laddove già in
quel momento si rivelavano i punti di debolezza di tale approccio. Se
qualche insegnamento ci giunge dal web di seconda generazione è
che i nuovi media non sono strumenti per imprese ciclopiche ma
ambienti, sistemi di relazioni, precondizioni per lo sviluppo di
un’idea imprenditoriale. Sebbene parte del loro “potere” sia dato
dalla specificità operativa di alcune infrastrutture tecnologiche
[Thompson 1998], il loro funzionamento è molto più vicino a quello
delle reti effettive, sociali, biologiche ecc. In base a questo sostanzia-
le isomorfismo – si parla non a caso di social media – il nuovo web
basato sulla concezione UGC (Users Generator Content) è piuttosto
Evoluzione del brand system

l’attualizzazione di esigenze concrete che si rendevano visibili già in


una fase predigitale. Come ha notato Jenkins [2007], la vera rivolu-
zione di alcuni strumenti non è stata realizzata pienamente dal con-
testo della produzione ma si è attuata quando questi sono divenuti
accessibili nel contesto del consumo (come il caso del Photoshop
discusso dall’autore americano). Siamo dunque di fronte a un gran-
de paradosso posto in essere dalla cosiddetta “rivoluzione digitale”:
da un lato essa “sovverte di colpo l’equilibrio” tra produttori e con-
sumatori tanto che la “proliferazione dei soggetti produttivi è effet-
tivamente possibile solo a condizione che la materia prima resti libe-
ramente utilizzabile da tutti” [Formenti 2008: 29]. Dall’altro assistia-
mo invece alla reazione dell’industria culturale che teme di perdere
la sua posizione di privilegio monopolistico e tenta di “blindare l’in-
tero catalogo delle idee e delle conoscenze umane” [ivi] che potreb-
be produrre “effetti negativi tanto sul piano economico quanto su
quello politico” [ivi: 30]. Si tratta in un certo senso di una svolta cul-
turale che ha tradito alcune aspettative della retorica ufficiale del
posfordismo e che – a causa dei preoccupanti segnali di crisi che si
avvicendano negli ultimi anni – ci fa rileggere la diffusione sociale dei
new media come fatto problematico, conflittuale, eminentemente 61
pratico [Fiorani 2003].
Anche per questo motivo, la retorica che accompagnava la promo-
zione del mondo digitale negli anni Novanta è mutata profondamen-
te, cosicché il valore dell’uso dei cosiddetti nuovi media è divenuto
molto più pragmatico che utopico. Non suggestiona più quel “para-
dosso dell’aborigeno” che prometteva l’interconnessione di tutta la
popolazione mondiale e che aveva ispirato le campagne di operatori
e produttori celebri25. L’orizzonte applicativo della tecnologia digita-
le è il quotidiano e la comunicazione serve a risolvere questioni mira-
te piuttosto che paventare scenari eclatanti. Può dirci qualcosa al
riguardo la successione delle più recenti campagne istituzionali di
Telecom Come vorresti che fosse il futuro dell’anno 2000 che raduna-
va grandi testimonial del calibro di Marlon Brando, Woody Allen,
Nelson Mandela, per raccontare in modo diverso il portentoso mon-
do della comunicazione a distanza e le sue potenzialità rivoluziona-
rie. Se in quel caso i toni erano ancora ispirati da un tipico entusia-
smo anni Novanta, con la campagna del 2003 si avverte un netto

25. Mi riferisco al celebre sketch di Corrado Guzzanti, reperibile su Youtube, in cui


s’interroga sul senso di vicinanza virtuale dell’aborigeno che sta “dall’altra parte del
mondo”.
1. Lo spot diretto da Spike Lee per Telecom che riproduce il clima post-euforico del nuovo
secolo.

> 1.

62 cambiamento di stile: come in una sorta di Ground Zero comunica-


zionale, scompare dalle cornici comunicative del mondo contempo-
raneo ogni scritta, ogni immagine, ogni contenuto. Sulla stessa linea
si colloca lo spot girato nel 2004 da Spike Lee per Young&Rubicam
che non insiste più tanto sulle promesse intangibili di un mondo sal-
vato dalla scienza e dalla tecnica ma sul motivo per cui le cose non
sono andate come dovevano. Se personaggi straordinari come Ghan-
di avessero avuto a disposizione le formidabili tecnologie del presen-
te, avrebbero salvato il mondo. Dunque se oggi il mondo non cam-
bia, nonostante tali strumenti siano distribuiti ovunque, è solo per-
ché ormai mancano personaggi altrettanto straordinari.
Per chiudere questa fase proporrei un’ultima riflessione sulla mer-
ce-marca che ha stravolto le regole della comunicazione e del marke-
ting. Mi riferisco a quel fenomeno particolarmente sovresposto che
è l’Apple iPod. A partire dal suo lancio nel 2001, molti studiosi
hanno voluto considerare quest’oggetto come l’icona per antonoma-
sia del nostro tempo. Addirittura John Maeda ne studia il caso come
un esempio calzante della sua critica alle teorie della complessità, che
ci aiuterebbe a capire l’importanza del concetto di Simplicity. In par-
ticolare Maeda recupera il concetto di Gestalt dalla psicologia e lo
applica all’evoluzione della pulsantiera circolare del famoso ripro-
duttore di file mp3 nella seguente sequenza: “partire semplice,
Evoluzione del brand system

diventare complesso e finire il più semplice possibile” [Maeda 2006:


37]. In altri termini il design di iPod s’ispirerebbe a un’estetica della
sfocatura che consente di raggruppare i punti d’attenzione (rappre-
sentati dalle funzioni dell’apparecchio) intorno a un corpus princi-
pale cosicché “[…] la terza versione dei controlli dell’iPod risulta
piacevole perché sfoca tutti questi producendo un’unica immagine
di semplicità” [ivi: 39]. Ma i motivi per cui questo apparecchio è
diventato la più importante killer application del decennio vanno
ricercati anche al di là del suo significato d’uso. C’è chi parla di un
oggetto mitologico che ha saputo cogliere e veicolare nuovi valori di
un’epoca di transizione. Non poteva pertanto restare escluso dal
progetto editoriale che, partendo dalla famosa opera di R. Barthes
sugli “oggetti” mitici dei suoi anni Sessanta, ha proposto una rasse-
gna intitolata appunto Nuovi miti d’oggi in cui A. David enuclea i
motivi della miticità dell’iPod:

Segno distintivo della marca high-tech Apple: il bianco è il suo colore di


riferimento. Puro e liscio, l’iPod è un’invenzione che cancella ogni trac-
cia del lavoro tecnico, umano. La nuova natura vieta tuttavia di prestar-
vi attenzione, di proteggerlo mediante un astuccio (fosse pure firmato 63
Vuitton): la sua origine non deve apparire. Dev’essere patinato, a signi-
ficare il suo uso, il suo consumo. Non è un oggetto prezioso ma indi-
spensabile [David 2008: 49].

Una lettura contraddittoria che però ci indica alcuni elementi di


riflessione che si ricollegano poi alla già discussa simplicity. A parti-
re dall’idea di un prodigio hi-tech che penetra nella varietà del quo-
tidiano dei suoi consumatori in modo morbido, non invasivo e che
nasconde la sua natura di prodotto tecnologico fatto in laboratorio,
per adottare quella di oggetto familiare al contempo rivoluzionario e
abitudinario. A differenza di ciò che sostiene A. David, l’iPod non è
il Walkman Sony non solo per la capacità del suo storage, per l’inte-
rattività con il web e per la personalizzazione delle play list. Non pos-
siamo concepirlo come una bolla che circonda l’utente – si pensi alla
scena del walkmen in discoteca ne Il tempo delle mele negli anni
Ottanta – ma come un sistema aperto che dialoga con il mondo e con
la comunità26. Si tratta di un oggetto meno invasivo e presente del
Walkman, capace di scomparire con eleganza, quando la sua funzio-

26. È il caso degli iPod Party realizzati in Eurpa in cui ogni utente può diventare DJ
della serata, per un breve lasso di tempo, e proporre i contenuti della sua playlist.
Brand New World

ne risulta meno importante. La sua versione video, fino al salto defi-


nitivo dell’iPhone, rappresenta il modo in cui la cultura visuale è
divenuta parte integrante delle pratiche di vita quotidiana, in un
mondo in cui gran parte dell’esperienza è mediata dallo schermo
[Marinelli 2006].

64
2. SCIVOLANDO LUNGO IL CRINALE DEL PRESENTE

> Dai “nuovi marketing” (permission, tribal, viral, guerrilla…) 65


al Societing?!

Dalla fase della diluizione si dipana una serie di nuove strategie di


gestione del rapporto con il cliente che va sotto il nome di “nuovi
marketing” o di “marketing postkotleriani”. Si tratta di un insieme
eterogeneo di concetti, pratiche, attività, tecnologie ecc. che tagliano
trasversalmente le fasi e le categorie del vecchio marketing razionali-
sta, individualista, orientato esclusivamente all’efficacia persuasiva e
operativa rispetto al quale si tende a privilegiare un punto di vista
alternativo. Nonostante la loro notevole dispersione, questi diversi
orientamenti trattano molto spesso del medesimo oggetto e s’inscri-
vono nel generale processo di compenetrazione tra la cultura e il
mercato. Per cultura intendo non solo quella con la c maiuscola, che
riguarda il patrimonio artistico e che è stata utilizzata dalle forme di
neomecenatismo. La grande scoperta di questo periodo è la cultura
materiale, quell’insieme di valori, pratiche e manufatti che contrad-
distingue un dato gruppo in un dato contesto27. Negli anni Novanta

27. La nozione di cultura materiale è comparsa nelle scienze umane, e in particolare


nella storia, in seguito al costituirsi dell’antropologia e dell’archeologia, e all’influen-
za esercitata dal materialismo storico. Essa prende le distanze dal concetto di cultura
Brand New World

difatti si diffonde una sorta di sguardo antropologico grazie non solo


ai divulgatori, ma anche ai media generalisti (i reality), alla connetti-
vità complessa (il mondo a casa nostra del web), alla necessità politi-
ca di comprendere e valorizzare la diversità (etnica, generazionale,
sessuale ecc.). I nuovi marketing rifiutano le griglie dell’approccio
tradizionale, i suoi metodi quantitativi e inferenziali, la sua idea
astratta e perequata di consumatore. Essi cercano un contatto diret-
to con il singolo consumatore, con il suo gruppo, con il network
ristretto o diffuso in cui è calato, con il suo contesto esperienziale. In
altri termini tutti i nuovi marketing usano strategie progettuali e co-
municative per rinnegare il “principio di separazione” che un tempo
aveva garantito alle marche e al sistema dei media un elevato grado
di riconoscimento, autorevolezza, successo. Ora si tratta di invertire
la rotta. Occorre ricostruire il legame con il consumatore, al di sotto
delle eclatanti promesse e delle urla che avevano caratterizzato il
periodo precedente. Occorre consolidare con esso una relazione sta-
bile e proficua basata sulla fiducia reciproca, sulla confidenza o addi-
rittura sull’empatia. La marca deve trasformarsi in una persona, non
sbalordente e spaesante come la marca star di Séguéla, una persona
66 vera, amica, familiare… noi stessi. Il tipo di legame che s’instaura
con essa è “al di sotto della linea”, informale, complice. Se è vero che
la direzione fu indicata dall’invenzione del marketing relazionale,
che lo stesso Kotler contemplò nella versione aggiornata del suo
manuale, la pletora di nuovi marketing indica almeno due grandi tra-
sformazioni concomitanti: la prima è la totale dilatazione del marke-
ting-pensiero sul mondo della vita quotidiana – che trasforma tale
disciplina in una filosofia esistenziale – la seconda è invece la molti-
plicazione delle nuove formule che insegue l’idea che la varietà degli
strumenti meglio si concilia con la poliedricità dell’oggetto d’in-
dagine che è rappresentato dalla nuova figura del consumatore.

a. Il permission marketing, inventato dall’americano Seth Godin


(1999) ideatore e vice presidente di Yahoo, muove dal medesimo
presupposto dell’inflazione e saturazione della mente collettiva in-
dotta dai messaggi pubblicitari classici28. Il cosiddetto interruption

richiamando l’attenzione sugli aspetti non simbolici delle attività produttive degli
uomini, sui prodotti e gli utensili nonchè sui diversi tipi di tecnica, insomma sui mate-
riali e gli oggetti concreti della vita delle società. [Bugaille, Pesez 1978: 271].
28. Mi riferisco alla concezione del posizionamento come “l’intervento sulla mente
del potenziale destinatario della comunicazione” [Ries, Trout 1984: 19].
Scivolando lungo il crinale del presente

marketing, che tende a frammentare in una serie di shock successivi,


il continuum psicologico dei consumatori, avrebbe già prodotto suf-
ficienti problemi nella fase precedente. La formula dell’interruption
marketing ha bisogno di elevate frequenze di uscita dei messaggi con
costi elevati. Inoltre, seguendo questo orientamento, si corre il
rischio di annoiare per far sì che i messaggi si disperdano verso i con-
sumatori generici. In tal modo ogni operatore, che è costretto a ruba-
re del “tempo prezioso” al suo pubblico allettandolo con una comu-
nicazione seduttiva e “ad effetto”, rischia spesso di andare fuori tar-
get oppure di essere ignorato o frainteso. Il permission marketing in-
vece entra nello spazio psicologico del consumatore evitando l’ap-
proccio invasivo di stampo generalista. Nonostante si parli di un re-
gime d’informazione pervasiva, la comunicazione acquista un aspet-
to materiale e si fa ingombrante, tanto che l’operatore del nuovo
marketing deve rispettare il tempo del suo utente al punto da offrire
un corrispettivo per la sua disponibilità. Comunica su un prodotto
che interessa al cliente potenziale, evitando quindi i linguaggi di tipo
seduttivo a vantaggio di una maggiore e più dettagliata informazio-
ne. Oggi il compito fondamentale della comunicazione è quello di
legittimare il ruolo del brand nel sistema globale di produzione del 67
valore e nel sistema valoriale/cognitivo della moltitudine che funzio-
na come una sorta di cuscinetto, un “air bag” cognitivo che attutisce
gli urti possibili derivanti dall’asimmetria esistente tra le aziende e i
consumatori. Un mezzo che tende a colmare la distanza che separa i
sistemi astratti che popolano il mercato dalle prassi concrete della
vita quotidiana, rendendoli a ogni costo “familiari”.

b. Mass Customization
Agli albori degli anni Settanta, il futurologo Alvin Toffler esordì
con il libro Lo shock del futuro [1970] elencando con estrema preci-
sione i mutamenti che la tecnologia avrebbe indotto nella società e
nel mercato da lì a pochi anni. Tra queste la problematica dell’iper-
scelta era centrale per comprendere il modo in cui il nuovo capitali-
smo stesse implementando strategie di offerta altamente complesse e
diversificate che sfruttavano l’automazione e rivoluzionavano il rap-
porto tra aziende e consumatori: la sua super-industrializzazione era
allora sconosciuta in Europa ma già matura negli Stati Uniti29.
29. […] la società del futuro offrirà non già un afflusso di beni limitati e standardiz-
zati, ma la più grande offerta di beni e di servizi non standardizzati che qualsiasi
società abbia mai veduto. Stiamo andando verso una non ulteriore standardizzazione
materiale, ma verso la sua negazione dialettica […]. Stiamo in effetti correndo verso
Brand New World

Il passaggio che dalla microsegmentazione del mercato avrebbe


condotto all’integrazione attiva del consumatore nella filiera produt-
tiva metteva in discussione le teorizzazioni che invece avevano insi-
stito sulla crescente omogeneizzazione del consumo. Nel La terza
ondata [1981], lo studioso decreta l’avvento di una nuova era nella
quale le tecnologie ribaltano la sostanziale asimmetria tra aziende e
consumatori dettata da un principio di separazione. Nella terza on-
data, la confusione tipicamente preindustriale tra produttore e con-
sumatore sarebbe tornata in auge grazie all’evoluzione delle tecnolo-
gie informatiche che avrebbero determinato l’avvento del prosumer.
Nel medesimo libro Toffler si spingeva a prevedere un mercato com-
pletamente stravolto dalle nuove invenzioni che avrebbe incluso pro-
gressivamente il consumatore nella filiera dalla produzione30. Anche
se alcuni aspetti della sua “profezia” erano troppo suggestionati dalla
fantascienza, il suo nocciolo sostanziale si è realizzato ed è oggi al
centro dell’attenzione delle aziende e degli studiosi più coinvolti nel-
l’innovazione. La mass customization, in quanto massima realizza-
zione della visione postfordista, ha introdotto innovazioni di tipo
tecnico e organizzativo al fine di erogare prodotti/servizi a elevato
68 livello di differenziazione e di qualità. Il presupposto decisivo in tale
rivoluzione sta nell’esigenza delle aziende di coltivare un concetto
olistico di qualità che arriva a coinvolgere la relazione con il consu-
matore31. Questi difatti ha dimostrato nel corso degli ultimi decenni
una sempre maggiore perizia nelle indicazioni di consumo tanto che
oggi si parla di competenza del consumo quando invece tale attività,
nel periodo dominante del fordismo-taylorismo, era intesa come pas-
siva e automatica.
Questa sorta di “produzione industriale su misura” [Fabris 2003]
arriva ben oltre il semplice riconoscimento della qualità specifica di
ogni consumatore e ambisce a coniugare i vantaggi della produzione
industriale – primo tra tutti l’abbattimento dei costi – con quelli

l’iper-scelta. Il punto nel quale i vantaggi della diversità e dell’individualizzazione ver-


ranno annullati dalla complicazione del processo della decisione da parte dell’acqui-
rente [Toffler 1970: 265-269].
30. We are moving rapidly beyond traditional mass production to a sophisticated mix
of mass and de-massified products. The ultimate goal of this effort is apparent: com-
pletely customized goods, made with wholistic, continous-flow processes, increasin-
gly under the direct control of the consumer [Toffler 1981: 187-188].
31. Qualità – nel grande mainstream verso l’individualismo – è anche, e forse soprat-
tutto, la capacità di un prodotto di soddisfare compiutamente le specifiche esigenze
della sua utenza [Fabris 2003: 264].
Scivolando lungo il crinale del presente

della produzione artigianale. Nella produzione di massa la relazione


con il cliente – fondata sul suo anonimato – era sacrificata a vantag-
gio della reperibilità immediata e diffusa dei beni. Al contrario nella
mass customization ogni transazione rappresenta un accrescimento
di conoscenza da parte dell’azienda delle caratteristiche idiografiche
del cliente. Un feedback che può essere mediato dal punto vendita
oppure disintermediato tramite internet e che consente al produtto-
re di riconfigurare il proprio prodotto in base agli input che proven-
gono dall’utenza. Il principio tramite il quale sono nate le prime stra-
tegie di questo genere è quello della modularizzazione che ha con-
sentito alle aziende di produrre merci quasi personalizzate. Esso si
basa sulla fabbricazione tramite economie di scala di componenti
basilari che possono essere riassemblate in modalità differenti per
offrire prodotti relativamente diversificati. Come hanno recentemen-
te notato Cova e Dalli [2007], il nuovo marketing sta lavorando con
il concetto, un tempo critico, di “working consumer”, concepito
questa volta come una modalità soffice di trasferire sul consumatore
attività tradizionalmente ascritte al produttore.

c. Marketing tribale 69
Lo studioso che ha inventato o che ha formalizzato in una visione
coerente il marketing tribale si è ispirato direttamente all’insegna-
mento di Michel Maffesoli [1988] in particolare riferendosi all’im-
pianto generale sulla crisi della socialità moderna, individuando nella
nascita e nel consolidamento delle nuove tribù32 la tendenza domi-
nante dei sistemi culturali occidentali. Con queste chiavi di lettura è
stato possibile identificare fenomeni eterogenei che andavano dalle
cosiddette tribù di stile ad altre forme di aggregazione riguardanti
fasce diverse di popolazione. A ben vedere il modello della neotribù
pare più congruente alla realtà delle sottoculture mentre allenta la
sua valenza euristica quando viene esteso a gruppi sociali più estesi in
quanto assume piuttosto una valenza metaforica. Questo perché gra-
zie alla funzione delle omologie [Hebdige 1979] la sottocultura tra-
dizionale (il mod, il glam, il punk) riesce a configurare un universo di
significati, valori e pratiche che è chiuso, coerente e totalizzante alla
stregua di quello di una cultura nativa33. Ma il concetto di sottocultu-
32. Secondo molti tale concezione è originariamente riconducibile all’opera di Mc-
Luhan [1964] quando considera la ritribalizzazione delle società moderne una varia-
bile dipendente dell’avvento dei media elettronici.
33. Inoltre il parallelo è rinforzato dal fatto che concetti cardine nello studio delle sot-
toculture, quali appunto lo omologie e il bricolage, sono derivati dagli studi di Levi-
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ra e la funzione dell’omologia è stato messo in crisi dalle dinamiche


del postmoderno in cui si è dissolta da un lato l’integrità identitaria
di questi agglomerati [Canevacci 2001], dall’altro la loro contrappo-
sizione al cosiddetto mainstream. Come le sottoculture giovanili così
anche la loro espressione più fenomenica – lo street-style – tende a
implodere [Polhemus 2001] alimentando la caoticità delle tendenze
che si generano intorno e dentro il perimetro del sistema moda. Da
qui l’esigenza di estendere l’ambito semantico del concetto di tribù a
nuove forme che sono più aderenti alla complessità contemporanea.
Il concetto di tribù postmoderna è immediatamente connesso alla
capacità del consumo di produrre e di dialogare con le identità col-
lettive, di esserne il primo e il più potente sistema di generazione
[Fabris 2003].
Nel marketing contemporaneo si ripropone la diatriba, già eviden-
ziata negli studi sociologici, tra un approccio di tipo anglosassone che
riflette nei termini di unità isolate, bersagli da colpire tramite un’at-
tenta pianificazione e uno più recente che sta evidenziando l’impor-
tanza del contesto culturale e delle relazioni che in esso si generano.
È questo l’assunto base del marketing tribale di B. Cova che prende
70 piede dalle constatazioni della sociologia francese34 per elaborare
nuovi strumenti di analisi dei mercati. L’autore sottolinea innanzi tut-
to la distinzione tra il concetto di sottoculture del consumo, quello di
comunità di marca e quello di tribù. Se le prime sono connotate da
una chiara vena di antagonismo che le porta a negare il sistema eleg-
gendo alcune icone di riferimento (come nel caso degli Hell’s An-
gels), le seconde sono invece completamente integrate nelle logiche
del mercato e si condensano intorno a un prodotto o a un servizio
rivolto al grande pubblico [Cova 2003]. Le tribù invece sono nuove
soggettività la cui definizione prescinde dai diktat del mercato sia in
senso affermativo che in senso negativo. Esse sono l’esatta mediazio-
ne tra le sottoculture intese come gruppi antagonisti e le fashion vic-
tim che si identificano totalmente nella devozione a una marca.

Strauss sulle culture primitive o meglio sul “pensiero mitico” [Levi-Strauss 1962]:
questione che dovrebbe far riflettere coloro che rivendicano una specificità postmo-
derna del neotribalismo.
34. Operazione coerente in quanto “Alla drammatica autenticità del sociale della mo-
dernità, Maffesoli contrappone così la tragica superficialità della socialità (qui intesa
come forma ludica di socializzazione), propria del postmoderno, che trova nell’appa-
renza, nell’estetica, un importante vettore di aggregazione, di sentire in comune, un
mezzo per riconoscersi: l’abbigliamento, l’acconciatura dei capelli, i giochi dell’appa-
renza diventano un ‘cemento societario’” [Parmigiani, 2001: 80].
Scivolando lungo il crinale del presente

La tribù può essere incidentalmente, sotto certi aspetti, una collettività


di consumo, ma in realtà è molto più di questo: si colloca contempora-
neamente nell’ambito commerciale e al di fuori di esso […]. Si può dire
quindi che una tribù, nel senso di costellazione neotribale, è sì genera-
trice di consumo, ma non è – o non è soltanto – una tribù di consuma-
tori [Cova 2003: 23].

A differenza dei gruppi che si originano intorno a pratiche com-


merciali il cui legame è frutto di una “emozione contigua”, le tribù
sono alla continua ricerca di emozioni condivise che presuppongono
pratiche rituali che solitamente fanno leva su cinque elementi semio-
tici: le cose (oggetti di culto), gli abiti (costumi rituali), gli spazi (i
luoghi del culto e/o luoghi della memoria), le parole (formule magi-
che), le immagini (idoli e icone). Il marketing tribale predilige l’insie-
me delle pratiche etnosociologiche alle riduzioni della psicologia
sociale. In particolare si basa sull’osservazione di tre fasi:

> la/le tribù che nascono (o non nascono) intorno al prodotto o al


servizio
> il potenziale comunitario del marchio, che può essere analizzato 71
studiando la storia del marchio stesso
> il valore di legame del prodotto o del servizio [ibidem].

Nike da tempo ha stravolto alcuni concetti della sua comunicazio-


ne e del marketing, coniugando il tradizionale ricorso al testimonial –
che grazie a Michael Jordan aveva rilanciato il suo business [Aaker,
Joachmisthaler, 2000] – e un interesse antropologico più esteso d’ispi-
razione glocale, indirizzato verso realtà territoriali ristrette, con uno
stile meno aggressivo. Secondo Mariano Zumbo (Direttore Market-
ing Nike Italia) la sua azienda cerca “[…] sempre di raccogliere le
storie più interessanti e autentiche per un luogo tempo” e cerca sem-
pre di far riferimento alle “[…] persone e le racconta nel modo più
innovativo e sorprendente possibile. Proprio come facciamo con la
nostra storia. E questo può accadere solo se si ha una profonda con-
nessione con le persone, i luoghi e il tempo in cui ci si relaziona”
[Zumbo 2003].

d. Marketing virale.
L’espressione evoca un immaginario cupo, catastrofico, in cui l’in-
fezione si diffonde con velocità esponenziale, sfruttando la prossimi-
tà fisica dei soggetti coinvolti. Se non fosse preceduto dalla parola
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Marketing, tale concetto resterebbe relegato in uno spazio margina-


le e sarebbe avvolto di un alone di devianza e di degenerazione, come
una certa letteratura maledetta. Non a caso chi ha parlato di viralità,
prima ancora dei riferimenti positivi di questo orientamento, è stato
il poeta e narratore William Burroughs che nel visionario La scrittu-
ra creativa [1981] spiega la sua teoria del linguaggio come virus inter-
secando i registri della saggistica, della narrativa e della poesia. La
parola è l’altra metà, cioè sostanzialmente un virus, che ha infettato
l’organismo biologico dell’uomo prealfabetico, determinando la sua
cacciata dal GOD (Garden of Delights). La storia della civilizzazione
umana è letta pertanto come un tremendo ribaltamento del rappor-
to tra corpo e pensiero nel senso che il pensiero è letto come un’en-
tità estranea al corpo che agisce quasi cospirativamente rispetto ad
esso. Come tutti i virus più famosi, la funzione principale della
Parola è quella di riprodursi sfruttando il metabolismo dell’organi-
smo ospite per replicarsi e per produrre delle catene sintagmatiche
che hanno il solo scopo di perpetuare tale sottomissione. Paradossal-
mente, Burroughs invoca una rivoluzione elettronica che attraverso
la decostruzione/trasformazione del verbo in immagine (“la parola
72 scritta è un’immagine”), riporti la parola al suo statuto arcaico e
magico. Molto più che l’ideale “devoluzionista” di Burroghs, quan-
do si parla di questo orientamento si tende a citare l’evoluzionismo
culturale di Dawkins [1995] con la sua teoria dei memi che l’autore
elabora nella seconda metà degli anni Settanta. Come il gene è una
unità basilare della teoria genetica, così il meme rappresenta il con-
cetto base su cui si erige la “meccanica” dawkinsiana. Si tratta di un
modello teorico che ha destato molte perplessità e mosso critiche
sostanziali35.
A differenza del modo in cui è stato raccontato da pubblicitari e da
studiosi, la propagazione virale non è variabile dipendente dell’inno-
vazione tecnologica. La sua natura originaria è legata alla dimensione
comunitaria del “passaparola” e alla propagazione lungo i tessuti
sociali che sono composti da legami forti e da legami deboli. Nel caso
ad esempio del boom commerciale delle scarpe Hush Puppies negli
anni Novanta, la dinamica di trasmissione è tutta basata sul rapporto
tra alcuni leader d’opinione (o trend setter) e il loro gruppo di riferi-
mento [Gladwell 2006] che determinò una diffusione esponenziale
delle scarpe vendute passando da 430.000 di quell’anno fino a qua-

35. Si veda a tal proposito la revisione di K. Distin The Selfish Meme: A critical reas-
sessment. Cambridge University Press, Cambridge 2005.
1., 2. Il filmato virale utilizzato da Diesel per la campagna “XXX” in occasione della cele-
brazione dei trent’anni d’attività dell’azienda.

1. < 2. <

druplicare la cifra in quello successivo. Ciò significa che il web è uno 73


strumento formidabile per potenziare processi ma non sempre utile a
innescarli. La cosiddetta blogsfera oggi pullula letteralmente di tenta-
tivi di lancio da parte di iniziative personali di alcuni trend di consu-
mo. In altri casi sono le stesse aziende che si fingono utenti del blog,
ne adottano il linguaggio e le metriche, per provare a inserirsi surret-
tiziamente nei gruppi informali di appassionati. Ma non sempre que-
ste operazioni sono efficaci. Con il passaggio al Web 2.0 in effetti si è
assistito a un potenziamento della capacità di trasmettere informazio-
ni di diversa natura (testuale, iconica, musicale ecc.). Come anche la
capacità di moltiplicare le relazioni è diventata sorprendente. Il vira-
le è così diventato un sostantivo che indica uno specifico prodotto.
Nella buona parte dei casi un video che circola sui videoblog con
una specifica qualità. Ad esempio la campagna del marchio Diesel
del 2008, ideata per celebrare il trentennale della sua nascita, ha lavo-
rato sul tema della pornografia in una chiave inusuale, mascherando
il contenuto esplicito degli atti attraverso delle sovrimpressioni di
immagini “fumettate”. Il movimento ritmico dell’atto sessuale è per-
tanto associato visivamente a immagini animate di strumenti musica-
li o di prodotti tipici della cultura Pop. La natura virale del video sta
nella sua trasgressività giocosa, che celebra alcuni pezzi vintage del
cinema porno, sovramascherandoli con immagini paradossali e non
1. Il video della campagna di Toyota Tacoma in perfetto stile Advergame.

> 1.

74 sense. Un prodotto pseudoamatoriale, il cui DNA è progettato per


innescare catene di trasmissione, partendo dalla sua ambiguità semi-
otica e dalla sua specificità ludica.
Altro caso, più conosciuto negli Stati Uniti, è quello dell’uso del
concetto di rimediazione [Bolter, Grusin 2002] questa volta rove-
sciata. Se la rimediazione canonica indica la capacità dei nuovi media
di ridefinire e reintegrare stili e funzioni dei vecchi media (di solito
analogici) in questo caso accade invece il contrario: un medium
avanzato come il popolare gioco multiplayer online World of War-
craft della Blizzard Entertainment si trasforma nello spot online di
un pick up della Toyota (il Tacoma) che entra nella simulazione e
diventa il vero protagonista della vicenda. Il video simula la promo-
zione di un prodotto all’interno di un videogioco in perfetto stile
advergame essendo in realtà un vero spot pubblicitario visto e scam-
biato da circa un milione di utenti, buona parte dei quali appassio-
nati della cosiddetta Game culture36. Ulteriore dimostrazione della
stretta corrispondenza tra un tipo di comunicazione virale e un
approccio più collettivo o tribale.
36. Per una definizione dettagliata di Game culture e di una sua lettura attraverso
molteplici ambiti disciplinari, si veda il numero quinto della rivista “c:cube. cultura.
comunicazione. consumo”, curato da N. Barile, F. Cutrano, J. D’Alessandro, R. Fon-
tana, per il lancio di un progetto di comunicazione della Nokia Italia.
Scivolando lungo il crinale del presente

e. Il guerrilla marketing è una modalità di lancio di prodotti e ser-


vizi che punta sulla sorpresa e sull’imprevedibilità, sul basso costo e
sulla facilità di realizzazione, sulla trasformazione quasi surrealista
dei luoghi della routine quotidiana in canali che veicolano il messag-
gio della marca. Un nuovo orientamento nato negli Stati Uniti gra-
zie alla formalizzazione di Jay Conrad Levinson [2007] che indivi-
dua i principali obiettivi e i metodi per un marketing non conven-
zionale. Nella visione di Levinson, questo nuovo tipo di marketing
non è altro che un’estensione della vecchia visione strategica a una
serie di soggetti che sono distanti dalla consistenza “molare” della
grandi organizzazioni. Si tratta di piccole aziende che devono sfrut-
tare un tipo d’azione tattica proprio perché non dispongono dei
mezzi (organizzazioni, tecnologie, capitali) che contraddistinguono
la lunga gittata delle grandi imprese. Ma sfruttando la loro diversità,
queste possono ottenere maggiori riscontri sul consumatore proprio
perchè sono prossime alla sua esperienza quotidiana, sono vicine,
facilmente approcciabili e si possono interpellare a differenza dei
grandi colossi.
Tra le sue caratteristiche principali l’autore sottolinea che:
75
- il GM è particolarmente indicato alle piccole attività di business
- dovrebbe fondarsi sull’analisi psicologica del consumatore piut-
tosto che su pregiudizi o sul senso comune.
- dovrebbe investire sull’energia e sull’immaginazione, prima anco-
ra che sul denaro
- concentrarsi sull’aumento mensile del numero delle relazioni
- dimenticare la competizione e focalizzarsi sulla cooperazione con
altri business
- combinare sempre diverse metodologie nelle sue campagne
- utilizzare l’innovazione tecnologica per potenziare il business.

Ai suoi albori tale dottrina è molto vicina alla visione del marke-
ting relazionale ma solo quando la visione tattica della guerriglia si fa
metafora di un movimento culturale più esteso – quello della conte-
stazione antibrand negli anni Novanta – il guerrilla marketing si tra-
sforma in un discorso molto più sofisticato e filosofico. Allora sono
nate molteplici realtà sparse nel mondo che si sono andate collocan-
do sulla linea di confine tra la logica del business e quella della con-
trocultura, senza completamente rinnegare né l’una né l’altra. Molte
di queste piccole società hanno infatti iniziato a militare nella contro-
cultura con un approccio per così dire “situazionista”, ovvero nella
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recondita convinzione di poter sfruttare l’esperienza e i linguaggi


condivisi negli ambienti alternativi per poi trasferire tali conoscenze
dall’altra parte della “barricata” cioè nell’expertise dei produttori di
idee e beni su larga scala. Oggi alcuni postulati del GM sono sistema-
ticamente trasgrediti da aziende di grandi dimensioni munite di risor-
se considerevoli, che operano nei settori più diversificati e adottano
tale strategia con finalità diverse da quelle della fase nascente.
Quando grandi aziende internazionali come la Ford si dedicano a un
approccio comunicativo di guerriglia, lo fanno per integrare il mix
classico di comunicazione e spesso per rinnovare la propria im-
magine presso i pubblici più dinamici, condividendo nuovi valori. In
questo modo si raggiunge un duplice obiettivo che favorisce le attivi-
tà di comunicazione in un periodo di recessione economica: il rispar-
mio sul budget e la capacità di stringere una nuova alleanza con il
consumatore. Secondo Massimo Borio, Direttore Marketing di Ci-
troën Italia, tale orientamento può risultare utile “[…] solo in parti-
colari condizioni: prodotto adatto al tipo di media, posizionamento
di geo-marketing che non sia penalizzante, creatività davvero innova-
tiva e grande eco a livello PR” [Antonacci 2008: 17]. La sponsorizza-
76 zione di un intero comune come Riccione che grazie a Citroën diven-
ta RicC1one, o la “marcatura” di singoli pezzi di arredo urbano come
tombini, cartelli o addirittura buche (che diventano habitat naturale
per i SUV) assume così un senso diverso dalla concezione originaria.
Nella fase avanzata della diluizione del consumo nel mondo della vita
quotidiana, la stessa comunicazione delle marche non può essere vei-
colata su canali isolati e in cornici dedicate (come cartelloni, schermi
o media) ma diventa parte integrante del vissuto urbano, dell’espe-
rienza di vita mediata dal consumo.
Sebbene Cova annoveri il marketing dell’autenticità come uno tra
i tanti “nuovi marketing”, a me sembra piuttosto che tale valore vada
al di là di una specifica applicazione e irrori tutta la logica dei marke-
ting postkotleriani, in altri termini direi che tutto il marketing non
convenzionale può essere definito come un marketing dell’autentici-
tà. Molti elementi legano insieme queste nuove strategie tra cui: l’ap-
proccio qualitativo e spesso etnografico di analisi del contesto del
consumo; l’utilizzo di canali di comunicazione informali o non istitu-
zionali; il coinvolgimento del consumatore come attore del consumo;
la relazione tra la marca, il consumatore e il network sociale nel quale
è calato; il valore dell’autenticità che consente al contempo di rinfor-
zare l’immagine della marca e il legame con il suo pubblico. Partendo
da una rassegna dei nuovi modi di fare marketing, Fabris [2008] ha
Scivolando lungo il crinale del presente

adottato il termine “societing” per illustrare il fondamentale slitta-


mento dalle strategie centrate sulla supremazia del mercato ad altre
che esaltano invece una nuova centralità: quella appunto del sociale
o delle attività che si sviluppano in seno alla società. Su tale scelta, che
è decisamente efficace dal punto di vista comunicativo/promoziona-
le, mi permetterei di dissentire per una questione prettamente refe-
renziale e operativa. Quello di società è difatti un concetto fondante
la stessa sociologia che appunto nasce dall’obsolescenza di forme
organizzative, comunicative e culturali che si sviluppano in un arco di
tempo molto esteso, alle spalle della “maturità” industriale dei paesi
occidentali. Dunque, con il termine società la sociologia classica
(Tönnies, Durkheim, ma anche Parsons ecc.) ha voluto sottolineare il
passaggio dall’aggregazione comunitaria, premoderna, localistica,
personalistica, all’incipiente burocratizzazione, universalizzazione e
massificazione dei consumi moderni. Ma in netta controtendenza con
tale processo, i cosiddetti marketing non-convenzionali condividono
un progetto di rivalutazione dell’autenticità e in tal modo affermano
un principio di simmetria tra presente e passato che ci rimanda a
dimensioni prettamente presocietarie. La novità dei “nuovi marke-
ting” è esattamente questo ritorno all’arcaico che riguarda ambiti e 77
dimensioni della “socialità” molto più estese della dimensione socio-
logica e societaria: la questione del ritorno della comunità con il
nuovo tribalismo, la riemersione di un rapporto personalistico tra
offerente e acquirente con la mass customization, addirittura la viola-
zione del tessuto normativo che regola le società moderne alla base
delle varie forme di edge o di guerrilla marketing, fino alla delicata
questione delle esperienze (già discussa nel terzo paragrafo) che indi-
ca il superamento della struttura narrativa della marca che si fa espe-
rienza e quindi vita. Se il concetto base del marketing esperienziale
dovesse essere condotto con coerenza verso le sue più estreme conse-
guenze, avremmo a che vedere con una pura evenemenzialità del
brand che distrugge ogni orizzonte narrativo e prefigura una dimen-
sione postsocietaria se non addirittura post-umana.

> Verso una nuova polarizzazione di classe: Credit Crunch,


New Austerity e Neotot

Al di là degli anni Novanta e dell’enfasi posta sulla centralità dei


processi comunicativi, l’economia – insieme ad altre scienze “dure”
tra cui la geopolitica o la demografia – è oggi al centro dell’attenzio-
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ne generale degli operatori ma soprattutto dei pubblici non speciali-


stici. Tutto ciò pone in essere un paradosso. Da un lato ci confron-
tiamo con la centralità, la tangibilità e la capillarità del discorso eco-
nomico negli ambiti più reconditi della nostra vita quotidiana, dal-
l’altro invece, siamo tenuti a misurare la loro distanza che – special-
mente nelle imperscrutabili meccaniche della finanza internazionale
– genera un abisso tra il vivere comune e la sfera di pura immateria-
lità del capitale. Così in molti hanno utilizzato concetti filosofici
come quello di biopotere o di nuda vita per evidenziare come il di-
scorso economico non sia meramente accessorio ma sia parte costi-
tutiva dell’essere in società (come già Marx annunciava) e in altri ter-
mini esso assuma una forte valenza ontologica. Più recentemente si è
parlato di biocapitalismo [Codeluppi 2008] per esprimere l’estensio-
ne di tale concezione al reticolo dei consumi e al modo in cui le mar-
che innervano la vita sociale degli individui. Dall’altro lato invece c’è
il cosiddetto turbocapitalismo37 che rimanda al sistema della finanza
e che pare essere sciolto da qualsiasi legame referenziale con la pro-
duzione reale delle ricchezze. Così la recente crisi finanziaria che sta
attraversando le economie dei sistemi paese come un vero e proprio
78 effetto domino o addirittura tornado, riguarda processi di pura
astrazione speculativa che però prendono piede, almeno nella loro
possibilità di impattare l’immaginario globale, da quel luogo fonda-
mentale dell’esperienza di vita che è la casa. La spaventosa sindrome
da indebitamento che è all’origine dell’offerta di prodotti finanziari
a elevato rischio (che la stampa ha definito appunto “tossici”), ha
come fulcro proprio il luogo che per antonomasia esprime la ricerca
della sicurezza e della stabilità di una fetta enorme dei cittadini/con-
sumatori. L’indebitamento generalizzato di ampie fasce di popola-
zione, illuse dell’opportunità di poter acquistare una propria abita-
zione, si è trasformato in un prodotto finanziario, chiamato eufemi-
sticamente come sub-prime, che ha generato un processo di diffusio-
ne virale, molto simile a quelli adottati dal multilevel marketing. La
comunicazione del big crunch della finanza mondiale ha rivestito di
radicale novità una situazione che, a ben vedere, mostrava segnali
evidenti molti anni fa e che l’esperto di geoeconomia Edward N.
Luttwak aveva già esaminato accuratamente nella prima metà degli

37. Il termine è coniato da Luttwak (1999) con il quale denuncia gli effetti deleteri
sulla società americana della sommatoria tra liberismo, globalismo e privatizzazioni.
Una critica che anticipa di almeno dieci anni alcuni temi che segnano il nuovo corso
della destra italiana, nella recente elaborazione di G. Tremonti.
Scivolando lungo il crinale del presente

anni Novanta in C’era una volta il sogno americano [1994]. Lo stu-


dioso, ben conosciuto in Italia, si soffermava sulle differenze che
separano i valori dei consumatori americani da quelli che risiedono
in aree del mondo, con particolare riferimento all’Europa, ma anche
i valori che distinguono la cultura attuale dal passato calvinista.

Gli americani che imparano a conoscere i modi di vita degli europei


rimangono spesso stupiti nello scoprire che la principale linea di demar-
cazione tra le classi sociali è quella rossa del debito. […] Negli Stati
Uniti un pesante carico d’indebitamento è normale a tutti i livelli dal
momento che l’americano di norma vuole acquistare tutto quello che gli
capita almeno nei limiti delle sue possibilità […] e persino gli abbienti
di norma ipotecano le loro case perché desiderano abitazioni più gran-
di, più lussuose e situate in zone migliori [ivi: 264-265].

È altrettanto significativa la contraddizione tra il retaggio dell’eti-


ca calvinista e la nuova propensione incondizionata al consumo che
abbiamo già esaminato nella fase di decollo del sistema e che si fonda
proprio sul ribaltamento dell’etica della parsimonia.
79
La continua dissoluzione della morigeratezza calvinista si manifesta an-
che in questo campo, visto che gli americani hanno continuato a chie-
dere prestiti, accrescendo il proprio indebitamento a un ritmo più soste-
nuto rispetto a quello della crescita economica globale […]. Gli indebi-
tamenti per acquisti con carte di credito e mutui ipotecari sono per
alcuni l’ultima spiaggia mentre per altri sono l’apoteosi del consumo fri-
volo [ivi: 265].

Ancora negli anni Novanta, i ragionamenti sulla diffusione gene-


ralizzata della moneta elettronica e di modalità di pagamento che
superassero i limiti produttivi e distributivi del conio tradizionale,
erano mossi da un fervente entusiasmo. Nello stesso periodo Green-
span (1998), doveva ammettere che, nonostante l’automazione gene-
ralizzata del sistema, “nelle transazioni che prendono avvio dai con-
sumatori, la carta – carta moneta e assegni – rimane il sistema di
pagamento preferito” [ivi: 73]. In altri termini, sebbene la persisten-
za della carta moneta sia percepita come un limite, un residuo della
vecchia economia, il consumatore vi resta affezionato. Pertanto
“[…] è probabile che la moneta elettronica si diffonda solo gradual-
mente e assuma nella nostra economia un ruolo molto meno signifi-
cativo di quello storicamente svolto dalla valuta privata” [ivi: 79].
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Nei toni di Greenspan si sovrappongono visioni entusiastiche e


atteggiamenti pragmatici rispetto alla persistenza di forme di transa-
zione tradizionali. La proliferazione di sistemi di pagamento alterna-
tivi come la moneta elettronica e le monete “private”, non può esse-
re considerata la causa ma è decisamente un fattore importante nella
deriva seguita dall’economia speculativa quando si trasforma nella
cosiddetta “economia del debito”.
Improvvisamente diventa palese come la retorica dell’immateriale,
che usava come substrato la finanza e come strato superficiale la
comunicazione, vacilla e riaffiorano panorami da neoindustrializza-
zione che s’intravedono dall’Asia e dai vari paesi emergenti. Nel
periodo che più di ogni altro ha celebrato il valore sociale dell’imma-
terialità, spuntano come spettri di un’epoca passata, i segnali della
recessione, l’oscillazione sregolata del prezzo del petrolio, la fuga
verso i beni rifugio, l’aumento del prezzo delle commodities, del
grano, dei cereali. Allo stesso modo i modelli vincenti, o almeno quel-
li che lo diventeranno nel breve periodo, sono votati a un’industria-
lizzazione intransigente, massiva, governata dallo Stato e indifferente
a vincoli deontologici, geopolitici, ambientali. Il colosso di Cindia che
80 unisce problematicamente due quasi-continenti molto dissimili per
cultura e per visione politica, condivide una serie di interessi strategi-
ci che l’Occidente percepisce spesso come una minaccia [Rampini
2007]. Si tratta dello spettro di una profezia fatta di reversibilità dei
rapporti. Loro già vivono in un futuro che assomiglia molto a ciò che
oggi è l’Occidente come del resto noi guardiamo al loro presente
come a un futuro che potrebbe investirci. Due proiezioni problema-
tiche che potrebbero esser viziate da un eccesso di ottimismo da un
lato e di pessimismo dall’altro. Così la critica della dottrina neoliberi-
sta che nel recente passato animava élite intellettuali antagoniste, tra-
pela oggi nell’establishment politico e indirizza sentimenti e atteggia-
menti diffusi nella società. È il caso in Italia della dottrina di Tremonti
che nel recente testo La paura e la speranza [2008] elabora una sinte-
si efficace tra alcuni valori della destra sociale e altri più diffusi della
Lega Nord. Ma da un punto di vista squisitamente teorico, la critica
legittima al “mercatismo” dà adito a diversi problemi d’interpretazio-
ne. Mi riferisco alla linea di continuità tra la visione illuminista, il
postmodernismo e il globalismo – che sono assimilati come celebra-
zioni dell’ideologia del libero mercato – laddove queste rispettive
categorie presentano più punti di divergenza che di affinità.
Del resto da quasi un decennio in Europa si respira un’atmosfera
da new austerity. Gli anni Settanta come cliché che ritorna con forza
Scivolando lungo il crinale del presente

e che parlano attraverso vari fenomeni culturali38. Ma questa volta il


revival di quel decennio riguarda un cambiamento strutturale e spe-
culare che ha invertito il processo di “cetomedizzazione della socie-
tà italiana” [De Rita 2004], determinando la disgregazione delle clas-
si medie e una nuova polarizzazione sociale tra élite e pezzi sparsi di
moltitudine39. Se la società dei consumi si era edificata a partire dal-
l’espansione del ceto medio, la nuova divaricazione sociale determi-
na una spaccatura tra il settore dell’iper-lusso e quello della low-cost
society. Dal mio punto di vista ciò che accade segna una netta con-
trotendenza rispetto alla vulgata degli anni Novanta, che descriveva
gli outlet come un momento di crescita di complessità del consuma-
tore che poteva mixare in una “dieta” composita i prodotti d’alta
gamma, con altri di massa o addirittura di seconda mano. Sulla stes-
sa linea, la teoria del Trading up [Silverstein, Fiske 2005] ha eviden-
ziato il cambiamento dei consumi di lusso verso una progressiva
accessibilità da parte di vaste fasce di consumatori che alla tradizio-
nale contrapposizione tra prodotti di prestigio e di massa opterebbe-
ro per una tipologia definita come masstige. Ma nella nuova fase,
segnata dal processo di smantellamento del ceto medio in favore di
una nuova contrapposizione tra ricchi sempre più ricchi e poveri 81
sempre più poveri, s’assiste a una divaricazione netta tra i segmenti
che rientrano nell’iper-lusso e quelli che rinfoltiscono la cosiddetta
low-cost society. Addirittura, visti gli esiti della crisi finanziaria, per-
sino l’iper-lusso che è tradizionalmente incolume alla recessione, si è
sensibilmente ridimensionato a causa dell’impoverimento precipito-
so di numerosi operatori della finanza.

38. In questo senso lungimirante ma fallimentare nel suo progetto, la mostra sugli anni
Settanta realizzata presso la Triennale di Milano esordisce con una promessa spiazzan-
te. Non vuole ricadere nello stereotipo dei vecchi anni di piombo per raccontare l’al-
tra faccia dei Settanta, quella colorata, ludica, espansiva. Ma la promessa è subito tra-
dita da un percorso espositivo che conduce dritti verso le foto di Moro sulla stampa
dell’epoca e verso immagini della controcultura ecc. Dall’altro lato ci si è messa la real-
tà stessa a vanificare quella promessa, dato che il ritorno degli anni Settanta non passa
tanto per i consumi vocazionali e l’estetica (come già in passato accadde) ma per le
questioni cruciali, per l’essenza plumbea di quegli anni di piombo.
39. Sul concetto di moltitudine va segnalata la differenza tra la lettura più sociologi-
ca di Aldo Bonomi [2004] e quella più filosofica di Negri, Hardt [2001] e Virno
[2003]. Da un lato un tessuto composito che popola la “città infinita” e che può esse-
re composto da capitalismo personale, imprese molla, trame di connessione, tracce di
comunità e padroni di flussi, dall’altro una entità più sfumata e localizzata in diverse
aree del pianeta che si oppone alla trascendenza dell’impero in virtù del suo caratte-
re puntiforme.
1. La copertina di Nevermind, potente metafora che racconta il grado di penetrazione del
consumo nella fase della diluizione.
2. Il manifesto di The Corporation, tra i film più significativi nel filone dei documetari di
denuncia sulla degenerazione del sistema dei consumi.
> 1. > 2.

82 Nel corso degli anni Novanta, i movimenti di rivendicazione dei


diritti dei consumatori, hanno raggiunto particolare vigore e visibili-
tà. La galassia del consumerismo annovera pertanto una vasta schie-
ra di organizzazioni, associazioni, Ong e gruppi informali che opera-
no in difesa di un diritto sempre più universalmente riconosciuto. Si
tratta di una rivendicazione paradossale. Nell’esatto momento in cui
il cittadino perde peso politico in favore del nuovo soggetto “consu-
matore”, la tutela dei suoi diritti diventa un problema di capitale
importanza40. Le celebri campagne contro la Monsanto, la Levi’s, la
Nike ecc. esprimono questa rinnovata coscienza civile che agisce su
scala globale e fa pressione dal basso grazie alla nuova capacità
aggregativa offerta dal web41. Recentemente, U. Beck ha dato sostan-
za teorica a tale processo, sottolineando come l’azione del lavorato-

40. Il decennio del resto si apriva con la copertina di Never mind dei Nirvana, che
ritraeva un bambino in piscina che nuotando, inseguiva una lenza alla quale era appe-
so il biglietto da un dollaro. Il commento di Cobain e compagni era che “tutti ci stia-
mo trasformando da cittadini in consumatori”.
41. È significativo il modo in cui il web ha supportato globalmente il processo di for-
mazione dell’opinione pubblica rispetto alle azioni delle corporation ma forse ancor
più sorprendente è stato lo slittamento dal web ai circuiti generalista del cinema e
della tv grazie al filone dei documentari di denuncia, che ha dato vita a lavori impor-
tanti come The corporations e Supersize me.
Scivolando lungo il crinale del presente

re non ha più alcun peso se paragonata a quella del consumatore42.


La negazione dell’acquisto di prodotti commerciali diventa addirit-
tura una filosofia di vita ed è raccontata da J. Levine [2006] durante
la grande conversione che l’ha allontanata dalle maglie del sistema
consumistico attraverso un iter di espiazione o di “disintossicazione”
dalla dipendenza dal consumo. Ma la nuova cultura consumerista
non pare ispirarsi tanto a questa idea di rifiuto radicale del sistema,
quanto soprattutto a una contestazione a bassa intensità che esalta
valori di godimento e di riscoperta del sé che una certa cultura del
consumo – soprattutto quello massificato in stile Wal Mart – avreb-
be rimosso. Diverse ricerche internazionali evidenziano questo
aspetto che è solitamente giustificato attraverso tre principali argo-
mentazioni: “1. il desiderio di promuovere eguaglianza e relazioni
umane giuste mediante forme economiche alternative; 2. il desiderio
di soddisfazione personale mediante il consumo di prodotti di qua-
lità; 3. il desiderio di proteggere se stessi e l’ambiente, la cui somma-
toria produrrebbe un nuovo sentire definibile come ‘edonismo fru-
gale’” [Leonini, Sassatelli 2008: 14].
Come movimento inverso alla protesta dei consumatori si è svilup-
pata una coscienza diversa delle aziende che hanno trasformato le 83
azioni di beneficenza o di solidarietà in una parte integrante delle
loro strategie di comunicazione. Come la portata destabilizzante
delle campagne anti-marchio agisce sul piano di una opinione pub-
blica sempre più globalizzata, così quelle delle aziende intervengono
sul pubblico per bilanciare o annullare il contenuto negativo che
alcuni eventi possono riversare sulla loro brand image. Al movimen-
to consumerista fanno pertanto eco le campagne di CRM (Cause
Related Marketing) o più generalmente le iniziative di responsabilità
sociale delle imprese. Così il tema consumerista della Responsabilità
è accolto a pieno titolo dalle aziende che lo usano per rinforzare la
brand equity da un lato, per stipulare un contratto più solido con i
consumatori, dall’altro. I marchi della grande distribuzione alimen-

42. Per il capitale mobile è fatale che nei confronti di questo crescente contropotere
dei consumatori non sia possibile alcuna controstrategia. Nemmeno gli onnipotenti
gruppi industriali mondiali possono perdere clienti. La minaccia di emigrare in altri
Paesi, dove i consumatori sono ancora bendisposti, è altrettanto suicida dello sciope-
ro dei lavoratori della Opel contro la chiusura delle loro officine. Collegato in rete e
mobilitato su scala transnazionale, il consumatore può dunque trasformarsi in un effi-
cace strumento di contropotere. Poiché i margini di guadagno delle imprese dipen-
dono non da ultimo dalla globalizzazione del consumo, la fragilità della legittimazio-
ne è il tallone di Achille delle imprese transnazionali [Beck 2005].
1. Campagna contro gli OGM siglata “La Coop sei tu”.

> 1.

84 tare, in particolare i gruppi organizzati in cooperative, hanno investi-


to enormemente nella cosiddetta via etica per due motivi fondamen-
tali. Il primo, più banale, è la capacità di porsi più degli altri in pros-
simità con le vicissitudini quotidiane, con la sensibilità e il “portafo-
glio” dei consumatori. In secondo luogo, per via della qualità del
loro statuto, di dover coltivare naturalmente una vocazione sociale o
solidale. Come sottolinea Patrizia Musso, esiste una propensione
quasi naturale, “non strumentale” tra aziende cooperative come la
Coop e la questione della responsabilità sociale, che porta questa a
“curare l’interesse dei propri consumatori per mezzo di un deciso
radicamento nel sociale” [Musso 2005: 14]. Tale tratto non riguarda
secondo l’autrice le mere attività superficiali di comunicazione, come
le campagne siglate dal pay-off “La Coop sei tu” ma investe il campo
più profondo dell’identità di marca dove è rinvenibile il “core value”
dell’azienda: “[…] il consumatore, con i suoi bisogni, le sue necessi-
tà, ma anche con i suoi interessi e i suoi orientamenti valoriali” [ivi:
144]. Tale concezione si ritrova nell’analisi della struttura del punto
vendita Coop di via Arona a Milano che è concepito come una “piat-
taforma relazionale” che fa leva su almeno tre punti chiave: 1. dar
vita a un POM (Point of Meeting); 2. cooperare con il consumatore;
3. essere al servizio delle persone [ivi: 147]. Tre livelli che dovrebbe-
ro materializzarsi nella costruzione e nell’organizzazione del layout
Scivolando lungo il crinale del presente

espositivo del supermercato come luogo di massima espressione


della differenza di valore di quel brand. Così l’energia, l’ottimismo e
una certa apertura centrifuga al mondo – che avevano contraddistin-
to la fase della diluizione – iniziano a esaurirsi a causa di cambiamen-
ti strutturali ma anche sovrastrutturali. Ciò che la diluizione già con-
templava come suo lato oscuro, come sua nemesi o ribaltamento di
senso, viene fuori nella fase discendente di tale processo e inaugura
una stagione dai toni molto più chiaroscuri.
Il Neotot [Barile 2008] è tendenza culturale che accompagna que-
sta fase declinante e che oggi condiziona gran parte dei nostri pen-
sieri e delle nostre azioni. Il termine rievoca uno dei concetti più cupi
delle scienze politiche ma la sua versione 2.0 ci rimanda all’immagi-
nario opposto, in cui all’abnegazione della politica si sostituiscono la
leggerezza e l’ebbrezza del consumo. A differenza dei regimi autori-
tari che escludono in forma coatta e fisica il loro contraddittorio,
oggi prevale l’idea di valorizzare e incorporare il punto di vista del
diverso. Ma è in agguato una doppia esclusione materiale e simboli-
ca: un furto di identità che si esplicita tanto nei rapporti di potere
quanto nella creazione di nuovi lifestyle. Non più dunque il Grande
fratello paventato dai critici dei media a partire dalla seconda metà 85
del ’900 e neanche ha più senso parlare d’inquinamento informativo
che tra anni Ottanta e Novanta sembrava essere l’arma finale per
garantire il controllo tramite la confusione. Oggi dobbiamo confron-
tarci con una nuova egemonia che parte dal basso e che passa per i
concetti di esperienza e di relazione.
Prendiamo l’esempio del consumo turistico in cui scompare la dif-
ferenza tra turista e viaggiatore e diventiamo tutti “contenitori di
esperienze” intenti ad accumulare pezzi di vissuto come parte discri-
minante del nostro capitale culturale. L’educazione sentimentale al
viaggio, che passa tanto per Netgeo Channel quanto per i turismi
etnoculturali o per il cosiddetto turismo-verità, è solo una facciata
del movimento che trasforma il viaggiare in una sorta di decimo co-
mandamento.
Un secondo esempio è il paradosso della gerontocrazia che spe-
cialmente in Italia vede una vetusta classe dirigente bloccare l’acces-
so alla carriera dei giovani attraverso un duplice impedimento: il suo
esserci che ostruisce un passaggio; il suo disperato giovanilismo che
assorbe l’impulso del giovane e lo relega in uno stato di perenne
sospensione. Concetto oramai assodato per il marketing e sapiente-
mente drammatizzato dal recente spot di un’acqua minerale, in cui
una comunità di vecchi si mantiene giovane e bella grazie alle pro-
1. Una delle protagoniste dello spot di acqua minerale Lilia, che abitano un villaggio in
cui nessuno invecchia.

> 1.

86 prietà organolettiche del prodotto. Da un regime di repressione si è


passati dunque a un sistema di valorizzazione simbolica del giovane
(come della donna o del diverso in senso lato) che, come ha detto
Carlo Formenti [2008b], agisce attraverso il “furto d’identità”.
Terzo esempio: l’ossessione incalzante per il cosiddetto ecotrend
sempre più ecochic. La salvezza del pianeta non è solo un’emergenza
planetaria ma soprattutto un mercato e un racconto capace di rige-
nerare l’immagine delle marche globali. Al vecchio ecologismo noio-
so e contestatore succede quindi l’ecoology che ricopre appunto di
nuova coolness prodotti e stili di consumo biologici e sostenibili. Ed
è subito una profusione di prodotti contraddittori che vanno dai SUV
ibridi alle sigarette biologiche come le Natural American Spirit, par-
ticolarmente diffuse nella “verde” Germania. Se i fenomeni più che
tangibili del Credit Crunch e della New Austerity parlano di una nuo-
va polarizzazione tra fasce di popolazione poste al vertice e alla base
della piramide sociale, il Neotot è la logica di ricomposizione tra que-
ste in base alla quale coloro che si trovano al vertice e dispongono
della pianificazione strategica, tendono ad assumere movenze tatti-
che che di solito contraddistinguono quelli che sono dall’altra parte,
relegati in zone periferiche del sistema e in posizioni marginali. Ma
anche questi a loro volta riproducono la logica del Neotot, nel tenta-
tivo di sommare al loro vantaggio tattico, quello strategico.
Scivolando lungo il crinale del presente

> Il filone ecosostenibile o dell’ecoology

È molto interessante notare come autori, modelli, concetti che


erano stati elaborati in una fase espansiva del sistema dei consumi,
potrebbero oggi risultare molto quotati per la comprensione del pre-
sente ma ciò non accade dato che su questi è calata una sorta di col-
tre che li ha resi vacui e superflui. Così i ragionamenti che in passato
si sono svolti sul ripensamento degli eccessi del modello di sviluppo
occidentale, ipercapitalista, consumista ecc. oggi si ritrovano sot-
toforma di operazioni di marketing e/o branding tanto varie quanto
numerose, che interessano tanto le p/m imprese quanto i colossi mul-
tinazionali. In altri termini è successo che i ragionamenti sulla crisi del
sistema industriale avanzato sono stati recuperati e “messi in lavora-
zione” dagli stessi operatori del business e tra questi spicca il tema
principale della sostenibilità, della ecocompatibilità, del cosiddetto
filone green. Rispetto alle visioni degli anni Ottanta c’è da registrare
un grande cambiamento. Gran parte dei ragionamenti sull’ecologia
contemporanea derivano dalla cosiddetta prospettiva sistemica. Un
modello di analisi proveniente dalla fisica quantistica, dalla teoria del-
l’informazione e dalla cibernetica che pone enfasi sulle dinamiche del 87
tutto piuttosto che della parte, sulle interazioni tra gli elementi che
compongono il sistema, sui processi omeostatici (detti anche di
retroazione negativa) che consentono l’equilibrio del sistema al varia-
re delle condizioni ambientali, in altre parole su una concezione eco-
logica piuttosto che “egologica” [Capra 1984]. Paradossalmente tali
ragionamenti hanno ben poco influito sulle scelte di politica naziona-
le, sovranazionale, e sulle strategie degli operatori economici. Esse si
sono piuttosto consolidate in altri settori come quello dell’hi-tech, in
cui la dinamica sistemica non danneggia interessi concreti anzi, li sod-
disfa con maggiore velocità. Sebbene le due discipline siano profon-
damente imbricate, la valorizzazione economica dell’ecologia è un
fenomeno piuttosto recente che si pone l’obiettivo di trasformare più
i nostri stili di vita che la nostra visione del mondo. Per capire come
questo sia avvenuto mi sembra opportuno esaminare la specificità dei
due settori. Dal punto di vista dell’economia difatti,

[…] l’ecosistema deve essere ripartito in sottosistemi separati e non


interagenti tra loro, cosicché i processi di produzione e di consumo pos-
sano anche essere separati e attribuiti a singoli operatori. In realtà, come
vedremo oltre, esiste solo una risorsa scarsa caratterizzata dall’ecosiste-
ma nel suo complesso in quanto la dimensione della produzione e del
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consumo a livello mondiale è talmente grande che, a ogni fine pratico,


non è possibile alcuna ripartizione significativa dell’ecosistema né è pos-
sibile confinare gli effetti sull’ambiente all’interno di una determinata
dimensione o di un determinato spazio [Pignatti, Trezza 2000: 249].

L’economia classica è accusata dagli studiosi sistemici di fondarsi


su uno schematismo meccanicista e cartesiano [Capra 1984] che
giunge al punto di scomporre e occupare la totalità degli “spazi” di-
sponibili nell’ambiente e dunque il suo progetto è esattamente quel-
lo di valorizzare l’ambiente come risorsa in tutte le sue manifestazio-
ni. Tanto che “lo schema concettuale rilevante (nella teoria classica)
presenta l’ambiente come un insieme di beni, risorse ambientali, il
cui uso viene valutato come qualsiasi altro bene, dai componenti
della società, come per tutti gli altri beni la valutazione è fatta in rela-
zione alla capacità di contribuire al soddisfacimento dell’utilità dei
consumatori” [Pignatti, Trezza 2000: 250]. Tutto ciò fa sì che i due
studiosi italiani si scaglino polemicamente contro quello che defini-
scono come il “mito dello sviluppo sostenibile”. In primo luogo c’è
il problema della somma di entropia naturale e di entropia generata
88 artificialmente dall’industria che eccede di gran lunga le capacità di
autoregolazione dell’ecosistema. In secondo luogo c’è il problema
più comunicativo di come una retorica della sostenibilità cela il fatto
che l’entropia è destinata a crescere geometricamente nel prossimo
futuro mentre i provvedimenti concreti che accompagnano le cam-
pagne della sostenibilità, sono enormemente inadeguati.

La biosfera è formata da sistemi auto-regolantisi che utilizzano energia


solare in maniera diretta o indiretta e in questo modo si mantengono in
condizione stazionaria lontano dall’equilibrio; il rapporto tra questi
sistemi, in termini quantitativi e qualitativi, è il modo mediante il quale
la biosfera si mantiene in condizione d’omeostasi e accumula ordine al
suo interno. […] Il problema invece sorge quando la biosfera deve inte-
ragire con il sistema produttivo, sistema vicino all’equilibrio che scarica
nel suo contorno l’alta entropia derivante dai processi industriali: que-
sta viene immessa nella biosfera, che non è in grado di compensare allo
stesso tempo sia l’aumento della propria entropia interna che l’entropia
prodotta dal sistema industriale [ivi: 244].

Se confrontiamo certe valutazioni teoriche con la palese crescita


esponenziale dei consumi nei paesi “emergenti”, risulta evidente il
contrasto con alcune retoriche postindustrialiste che avevano intra-
Scivolando lungo il crinale del presente

visto, sempre negli anni Novanta, la possibilità che il sistema indu-


striale si autoregolasse in funzione di esigenze specifiche. Ciò non è
avvenuto in Occidente ma ancor di più in quei paesi il cui sviluppo
economico è determinato – tra altre concause – anche da quello che
si suole definire come dumping economico: il modo in cui le azien-
de che operano in alcuni Paesi possono acquisire competitività sfrut-
tando l’assenza di normative sul rispetto dell’ambiente, dei diritti
sindacali/umani, di quelli dei consumatori e di ogni sistema di tute-
la del pubblico. Qualche tempo fa Habermas [1992] sosteneva che
il peso politico dell’ecologia si sarebbe accresciuto nel momento in
cui la percezione degli sconvolgimenti ambientali determinati dalle
istituzioni moderne sarebbe giunto a diretto contatto con l’esperien-
za quotidiana delle persone. Mentre nello stesso periodo, ancora più
apoliticamente, Dahrendorf (1989) s’interrogava sulla incapacità del-
la democrazia di saper porre rimedio alle devastazioni operate dal
progresso sull’ambiente naturale43. Il grande cambiamento nella con-
cezione distopica dello sfruttamento ambientale è qualcosa che ri-
guarda gli ultimi anni e che coincide con l’ingresso del tema ecologi-
co nell’agenda politica dei Paesi occidentali e con la questione dello
sviluppo dei cosiddetti paesi emergenti. Il vento nuovo proviene 89
probabilmente dall’America liberal umiliata da una sconfitta eletto-
rale non troppo limpida che ha visto soccombere, per uno scarto
modesto, la proposta di Al Gore rispetto a quella di J. W. Bush. Pro-
prio quest’ultimo, al di là della scelta politica che constrastava il rino-
mato ostracismo della destra americana nei confronti delle politiche
ambientali e del Trattato di Kyoto, si è fatto interprete del nuovo filo-
ne. Un ambasciatore del nuovo ecologismo globale che, anche grazie
a lui si è trasformato in fenomeno dilagante con il lancio del film inti-
tolato Una scomoda verità (2007), fino al riconoscimento del premio
Nobel per la pace nel medesimo anno44. Altro contributo importan-

43. Non facciamoci illusioni: la soluzione dei grandi problemi dell’ambiente - se essi
sono veramente così seri, come talvolta appare - esige ad esempio che noi provvedia-
mo a far sì che non si sviluppi più alcun paese in via di sviluppo, esige che noi impe-
diamo lo sviluppo piuttosto che promuoverlo. Al tempo stesso dovremmo provvede-
re a che il consumo di energia, negli Stati Uniti e in Europa, venga, diciamo così, di-
mezzato o ridotto ancora più drasticamente. Tutto ciò non si può ottenere con meto-
di democratici [R. G. Dharendorf 1989].
44. Da ricordare l’evento organizzato da Fabrica presso la Triennale di Milano che
ospitava la presentazione del video di Al Gore in apertura della mostra Les yeux ou-
verts, collegata a sua volta al numero della rivista Colors Vörland, interamente dedi-
cato all’ambiente.
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te alla causa è stato offerto da Jeremy Rifkin che aveva già affronta-
to il problema sul finire degli anni Ottanta ma che recentemente ha
assunto un atteggiamento molto più propositivo, che passa per la
promozione della nuova Economia all’Idrogeno [2002]. Punto chia-
ve del libro è il ribaltamento di paradigma che il modello del World
Wide Web dovrebbe suggerire. Da un assetto industrialista e centra-
lista si passa al modello di una erogazione, gestione e produzione
decentrata dell’energia attraverso la messa in sistema di microunità
produttive.

Alla fine, la capacità di generazione complessiva della rete energetica


degli utenti finali potrebbe superare quella delle centrali delle società
elettriche. Quando ciò accadrà, si sarà compiuta una rivoluzione nel
modo di produrre e distribuire elettricità. Nel momento in cui il clien-
te, l’utente finale, diventa produttore e fornitore di energia, le società
energetiche di tutto il mondo, se vorranno sopravvivere, saranno
costrette a ridefinire il proprio ruolo [Rifkin 2002: 246-247].

Come è accaduto nella maggior parte dei casi discussi in questo


90 libro, il processo di affermazione di una nuova tendenza culturale è
il frutto di una retroazione complessa tra molteplici eventi, iniziative
private e pubbliche, individuali o collettive. Se il progetto di Al Gore
parte da una sfera di legittimazione istituzionale, altri hanno dovuto
invece affermarsi dal basso o ancora lavorano nell’intercapedine tra
l’istituzionale e il controculturale. Alcune ricerca di studiosi del con-
sumo “verde”, hanno messo in evidenza il legame tra l’evoluzione
dell’ambientalismo come forma controculturale e la sua legittimazio-
ne nelle maglie istituzionali con particolare riferimento al lavoro di
alcuni ricercatori sull’ambientalismo in Irlanda e, per estensione,
sulle culture nordiche45.
La relazione costante tra tendenze culturali “dal basso” e proces-
si di istituzionalizzazione da parte di attori pubblici o del mercato si

45. The rise of contemporary environmentalism in western Europe can be traced to


the 1960s and early 1970s, as concern grew about the impact of both consumption
and production patterns on the environment, which were often conceptualized
within debates about the health effects caused by industrial pollutants or the impact
of economic and population growth […]. In recent decades, the concept of a consu-
mer voluntarily engaging (as opposed to being regulated to do so as a result of gover-
nment policy) in consumer practices that are viewed as ‘environmentally friendly’ has
emerged, and is now generically labelled the ‘green consumer’, by marketing agencies
[Connolly, Prothero 2008: 118].
Scivolando lungo il crinale del presente

ritrova con particolare evidenza nella diffusione del filone green.


Ancor prima dell’ecologismo militante delle varie Ong globali, nel
corso degli anni Settanta sono nate varie forme disorganizzate di
azione e di rivendicazione del “diritto al verde”. Tra queste il guer-
rilla gardening è uno dei più suggestivi. Nasce agli inizi degli anni
Settanta a New York come pratica controculturale e antagonista che
si sviluppa a partire dall’area di Bowery Street per poi diffondersi
anche in Europa, a Londra sino a raggiungere recentemente Milano.
Il suo successo e la sua efficacia “politica” devono essere ancora te-
stati ma si concilia in maniera ottimale con i nuovi assunti della filo-
sofia verde. Dall’ecoterrorismo che, ancora sorprendetemente, po-
polava l’immaginario degli anni Novanta, si è passati così alla riven-
dicazione del diritto a ciò che è stato definito come “giardinaggio
abusivo”. Specialmente in città munite di una modesta concentrazio-
ne di aree verdi, questi gruppi agiscono volontariamente, autofinan-
ziandosi, per disseminare il loro verbo attraverso azioni dimostrative
più o meno esplicite, modificando l’arredo urbano. È di recente
pubblicazione la notizia che a New York (come anche a Londra)
spopola il trend di coltivare giardini sui terrazzi dei grattacieli per
autoprodurre ortaggi biologici senza l’uso di pesticidi. Sempre a 91
New York, presso il New Museum – sorto anche questo su Bowery
Street – nel 2008 si è inaugurata la mostra intitolata After Nature: su
diversi piani si proponevano opere dedicate al rapporto tra arte, vita
quotidiana e natura, dal documentario catastrofista di Herzog sui
pozzi iracheni del 1991, al formidabile cavallo di Cattelan, il cui
corpo pende dal muro su uno spazio chiuso e domestico mentre la
testa è impiantata nel muro come fosse una lampada o un pensile
d’arredo. Il rapporto tra gruppi alternativi e d’avanguardia, istituzio-
ni culturali (anche se al limite tra mainstream e controcultura) e la
comunicazione dei grandi gruppi, è una catena di connessioni im-
portante per capire come si sviluppano solitamente le tendenze cul-
turali.
A Milano ha fatto notizia il caso del “Muro verde” Enel, realizza-
to a Milano in Corso di Porta Ticinese 93, una sorta di giardino pen-
sile verticale, costruito su una struttura di 18 metri in cui vivono 180
piante di specie diversa. Una serie di pannelli solari fotovoltaici posti
alla base del muro converte l’energia solare in elettricità producendo
una ridotta emissione dei CO2. Ritorna il tema del legame tra energia,
contesto urbano e rigenerazione della vita, in un progetto che rinno-
va l’immagine di Enel da mero fornitore di servizi a promotore di
un’estetica filoambientale e sostenibile. Quando l’ecofilone intreccia
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la problematica dello sviluppo e della responsabilità sociale dell’im-


presa, i brand “duri”, cioè quelli che operano in settori particolar-
mente a rischio su tali tematiche, si cimentano spesso con progetti
molto avanzati. È il caso del settore energetico e in particolare di
quello che gestisce l’estrazione e la produzione di idrocarburi. In un
ciclo di seminari intitolato “La comunicazione delle grandi impre-
se”, che ho organizzato insieme ad Alberto Abruzzese presso l’Uni-
versità IULM di Milano, abbiamo avuto modo di confrontarci con due
realtà particolarmente rappresentative di quel settore. La prima è
stata la Petrobras – uno nei primi poli mondiali tra le imprese del set-
tore energetico – impegnata nella delicata attività di riposizionamen-
to strategico del gruppo da impresa produttrice di petrolio a impre-
sa leader del settore energetico. Il gruppo brasiliano è impegnato in
un un’articolata strategia di comunicazione e di gestione delle risor-
se umane che s’incentra sul valore della sostenibilità. La Consulenza
del Prof. Misturu Yanaze ha consentito di elaborare una metodolo-
gia di misurazione dell’efficacia comunicativa, che sfrutta molteplici
variabili di cui quelle sull’impatto ambientale rappresentano una
sezione molto limitata. Nella fattispecie questa nuova metodologia
92 mira a integrare le variabili classiche di misurazione con quelle di
carattere culturale legate alla pianificazione di eventi, alle sponsor-
ship di eventi sportivi, ai programmi di sostegno all’ambiente sociale
come anche alle campagne di advertising, di relazioni pubbliche, di
promozione d’immagine ecc. Oltre a questo l’intervento approfondi-
sce le modalità di sviluppo del cosiddetto bilancio sociale quantitati-
vo in cui si tende a comparare il social asset con la “social liability”.
Si tratta quindi di un’operazione che consente alle aziende di moni-
torare costantemente la propria social equity. Nel secondo appunta-
mento del medesimo ciclo, il Responsabile della comunicazione
esterna dell’Eni Gianni di Giovanni, ha invece delineato le linee
guida della comunicazione di questo grande gruppo industriale ita-
liano che, alla stregua di Petrobras, tende a riposizionarsi in chiave
immateriale e postindustriale. Una realtà complessa sia per l’impo-
nenza delle sue dimensioni sia per le caratteristiche dei settori in cui
opera. È elevata la diversificazione delle attività dell’azienda, cui cor-
risponde un’articolata offerta di iniziative di comunicazione che coin-
volge in modo capillare tutti i canali media e gli stakeholder. Uno dei
temi chiave, affrontati nel corso del dibattito, è stato quello dell’etica
che si esprime nella comunicazione attraverso il valore della traspa-
renza: dalla comunicazione finanziaria, ai sistemi di monitoraggio e
di prevenzione del rischio; dal tema dell’efficienza energetica, alla
Scivolando lungo il crinale del presente

ricerca di una relazione più autentica con la massa dei consumatori


finali che ha avuto l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico verso una
nuova cultura energetica. I valori che indirizzano e ispirano le attivi-
tà comunicative del gruppo sono:

- la diversità e il recupero delle identità culturali


- il rispetto
- il coraggio di immaginare.

Questi si declinano attraverso tre temi fondamentali che a partire


dal 2006 hanno caratterizzato le attività di comunicazione esterna e
che sono:

- la cultura dell’energia
- la sostenibilità
- l’innovazione.

Tra le campagne che meglio sintetizzano il rapporto tra valori e


temi c’è la recente campagna 30PERCENTO – Consumare meglio,
guadagnarci tutti che potrei definire un’iniziativa di comunicazione 93
paradossale, se paragonata ai criteri tradizionali di comunicazione
del prodotto/servizio. Si tratta di una lista di ventiquattro buoni con-
sigli in fatto di risparmio energetico che riguardano la maggior parte
dei consumi quotidiani46 e che si propongono di far guadagnare al
consumatore finale di energia l’equivalente di una tredicesima ogni
anno. Attraverso un approccio neopedagogico si educa il consuma-
tore al risparmio per il suo stesso interesse e per quello collettivo. In
questo modo, l’iniziativa – che avrei collocato e discusso nel paragra-
fo precedente – assume una vocazione “green”. Nella visione del-
l’amministratore delegato Paolo Scaroni difatti “[…] la migliore
delle energie rinnovabili è il risparmio energetico” [Amato 2007] e
da questo deriva l’idea di stilare una lista di ventiquattro comporta-
menti di consumo che si possono adottare senza stravolgere la pro-
pria vita e che consentirebbero – in una sorta di gioco a somma posi-
tiva – di far perseguire il miglior risultato a tutti gli attori coinvolti,

46. Andare in autostrada a 110 chilometri orari piuttosto che a 130, sostituire la cal-
daia elettrica con una a gas, usare lampadine a basso consumo energetico, avviare la
lavastoviglie solo a pieno carico: l’Eni ha compilato una lista di ventiquattro compor-
tamenti “virtuosi”, quattordici dei quali a costo zero e i rimanenti dieci a un costo
definito “sopportabile e a veloce recupero”, calcolando per ognuna di queste voci la
ricaduta sul reddito di una famiglia “tipo” di quattro persone [Amato 2007].
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dall’azienda ai consumatori sino al Ministero dell’ambiente e dunque


all’ambiente in quanto tale. In essa è concentrata l’essenza della
visione green contemporanea che non è sottrattiva ma è moltiplica-
tiva. L’efficienza del sistema, che deriverebbe da tale comportamen-
to consapevole del consumatore, pareggia gli svantaggi dovuti alla
riduzione dei consumi. Così, nella logica dell’efficienza s’incontrano
e si riconciliano armonicamente i diversi player ma ciò che più conta
è da un lato la ricaduta sul piano dell’immagine del brand, dall’altro
il nuovo rapporto col consumatore. Il primo aspetto consente di
rigenerare la corporate image che passa da quel freddo e burocratico
blocco monolitico di sapore pienamente industrialista a un’azienda
dinamica e “giovane” che sa affrontare la sfida del cambiamento.
Con il secondo punto si realizza ciò che difficilmente un’azienda
energetica potrebbe ottenere. Mi riferisco alla creazione di un lega-
me stabile, paritario e autentico con il consumatore all’insegna di un
nuovo patto di credibilità che si basa su un doppio interesse comple-
mentare: il risparmio economico e la sua ricaduta sulla conservazio-
ne dell’ambiente. La più esemplare dimostrazione di come il filone
green sia definitivamente istituzionalizzato dagli operatori del mer-
94 cato è certamente quello del LVMH, che nella figura del suo Presi-
dente Bernard Arnault, ha intrapreso con netto anticipo sui gruppi
omologhi, un’attenta strategia di monitoraggio e controllo della so-
stenibilità nelle sue aziende. Il gruppo che opera nei settori della
moda, dei vini e della gioielleria, comprende circa cinquanta marchi
di elevato prestigio (da Louis Vuitton a Dior, da Fendi a Givenchy).
A partire dal 1992, ma con maggiore enfasi negli ultimi anni, le diret-
tive provenienti dal top management sarebbero state ispirate ai cri-
teri della più rispettosa ecoresponsabilità. Nel 2001 ad esempio le
sue aziende hanno “[…] firmato lo Statuto dell’ambiente, un proto-
collo che richiede a ogni ramo aziendale di costruire un sistema
gestionale dedicato all’ambiente e di considerare l’impatto delle pro-
prie attività” [De Bartolomeis 2008: 85] mentre nel 2004 attua il
Carbon Inventory, “[…] uno strumento per misurare l’impatto del
ciclo produttivo del Gruppo sulla Terra” [ivi]. Dall’abolizione dei
sacchetti di plastica per le consegne a quella degli imballaggi inter-
medi sino alla riduzione del consumo di energia elettrica (anche in
questo caso la cifra è del 30%), i risparmi sugli sprechi produrreb-
bero un circolo virtuoso che, attraverso gli investimenti in formazio-
ne del personale, alimenterebbero una nuova coscienza ecologista.
In ultimo anche i prodotti sarebbero suscettibili di tale innovazione:
come gli abiti in tessuto biologico o addirittura riciclato. Come ha
Scivolando lungo il crinale del presente

efficacemente sostenuto G. Lipovetsky [2006] nel suo ultimo libro


dedicato alle tendenze del consumo contemporaneo, tutto questo
rientra nella categoria di iperconsumo.

L’ecologia e la politica che negli anni Sessanta e Settanta raccomanda-


vano l’austerità volontaria e “l’auto-limitazione dei bisogni” hanno la-
sciato il passo alle richieste di protezione dell’ambiente, all’agro-ecolo-
gia, alla gestione sostenibile delle risorse della Terra. Alle utopie della
rinuncia sono succeduti gli appelli per la salvaguardia del “patrimonio
comune dell’umanità”, parole d’ordine quali “mangiate meglio, consu-
mate sano”, gli elogi della buona tavola, gli slow food. Quello che conta
prima di tutto è la difesa dei grandi equilibri del Pianeta la produzione
di merci riciclabili, la riconciliazione dell’economia e dell’ecologia. La
protesta globale e manichea si è trasformata in strumento di riflessività
pragmatica […]. Se la nuova radicalità è figlia del suo tempo è perché
si è allineata alle norme dell’iperconsumo che non smette di vilipende-
re [Lipovetsky 2006: 110-111].

95
3. PROVE TECNICHE DI SELFBRANDING:
DAI SOCIAL NETWORK AI NUOVI PROTAGONISTI
DELLA STREET-CULTURE

> Il branding del sé nel paesaggio tecnologico 97


(Myspace, Asmallworld, Facebook, Second life)

Nella Volontà di sapere [1976], Michel Foucault esamina con perizia


analitica il “dispositivo della confessione”. Da strumento di estrazio-
ne della verità dal peccatore, esso si trasformerebbe in un meccani-
smo di produzione della verità e di “autenticazione” dell’individuo,
per poi trapelare nei “discorsi scientifici, dalla medicina, alla peda-
gogia, alle relazioni amorose, alle realtà più quotidiane” [ivi: 54]. In
altri termini, l’uomo occidentale sarebbe diventato una “bestia da
confessione”.

La confessione è un rituale discorsivo in cui il soggetto che parla coin-


cide con il soggetto dell’enunciato; è anche un rituale che si dispiega in
un rapporto di potere, poiché non si confessa senza la presenza almeno
virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma
l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza, e interviene
per giudicare, punire, perdonare, riconciliare; un rituale in cui la verità
mostra la sua autenticità grazie all’ostacolo e alle resistenze che deve eli-
minare per formularsi; un rituale, infine, in cui la sola enunciazione, in-
dipendentemente dalle sue conseguenze esterne, produce in colui che
l’articola delle modificazioni intrinseche: lo rende innocente, lo riscatta,
Brand New World

lo purifica, lo sgrava dalle sue colpe, lo libera, gli promette la salvezza


[ivi: 57].

In questo passo il filosofo sviscera gli aspetti essenziali di un dispo-


sitivo rodato per una finalità pedagogica da parte dell’istituzione reli-
giosa che, nel corso della sua emancipazione e laicizzazione, si tra-
sforma in uno specchio narcisistico – quando il sistema media-con-
sumo esalta i valori del loisir e dell’edonismo – per poi mutare nuo-
vamente verso una prospettiva “etica” o che si presume tale. Alla
luce di tale discorso l’evoluzione verso le forme di presenzialismo, di
autopubblicità o di selfbranding contemporanee avviene più lungo
una linea di continuità che non di rottura.

L’istanza di dominazione non è dalla parte di colui che parla (poiché è


obbligato) ma da quella di colui che ascolta e tace; non dalla parte di chi
sa e risponde, ma da quella di chi interroga e si suppone che non sap-
pia. E questo discorso di verità produce infine il suo effetto non in chi
lo riceve, ma in colui al quale lo si strappa [ivi: 58].

98 La fase della diluizione consiste in una proliferazione spinta di tale


dispositivo prettamente intimista nello spazio pubblico. I modi della
confessione, che consistono nella esteriorizzazione di una verità in-
terna al soggetto, profonda e segreta, tendono a far emergere aspet-
ti della vita quotidiana che precedentemente le forme della rappre-
sentazione avevano tenuto celata. Come si è visto a proposito del
discorso politico, il retroscena in cui si codificava il ruolo del perso-
naggio, viene utilizzato in maniera strategica per saldare una nuova
alleanza con l’elettorato in un momento di chiara crisi della rappre-
sentanza. Tale processo concretizza, nella prassi della comunicazio-
ne politica, i concetti portanti della teoria di Meyrowitz [1993].
L’esteriorizzazione del retroscena è agita sulla scia di una vulgata
demagogica che vuole assecondare la domanda da parte dell’eletto-
rato di una politica diversa, più a contatto con l’esperienza situata
dell’elettore. Ma dietro le sembianze di un procedimento “pull” si
cela un’impostazione “push” che cerca di imporre all’opinione pub-
blica un’agenda comunicativa basata su altre priorità. Fino a quel
punto il dispositivo della confessione descritto da Foucault funziona
a regime. Il personaggio pubblico è al centro dell’attenzione colletti-
va, in questa specie di panopticon invertito. L’istanza di “dominazio-
ne” proviene dall’esterno, dal moto d’interesse collettivo per quelle
zone della sua personalità non ancora illuminate dalle luci della
Prove tecniche di Selfbranding

ribalta. La risposta non modifica il comportamento dello spettatore


quanto piuttosto la configurazione stessa del personaggio, la cui bio-
grafia è osservata attraverso un prisma che ne moltiplica le immagi-
ni. Per esteso, il discorso funziona anche per altri tipi di personaggi
che popolano lo star system. È opportuno pertanto ricondurre la
rivelazione pubblica dell’intimità e della sofferenza ad essa connessa,
all’azione combinata della divulgazione psicologica, del self help o
delle teorie femministe [Illouz 2006], ma tale movimento s’inscrive
in una dinamica più estesa. La stessa autrice, in una delle sue confe-
renze, tratta il caso dell’Oprah Winfrey Show la cui conduttrice si
mostra abile a drammatizzare le biografie e i profili psicologici cor-
relati dei vari protagonisti. L’analisi però è portata ad allargarsi alla
stessa biografia della conduttrice che è tenuta (siamo nell’esatta metà
degli anni Novanta) a rivelare lo sfondo di sofferenza psicologica47
che l’ha contrassegnata. Allo stesso modo Brooke Shields, Jane
Fonda o altri personaggi dello show biz son la prova che la scoperta
di un’interiorità, che la studiosa vuole vedere come votata alla soffe-
renza, sia trasversale alla società dell’epoca e va dai già famosi a quel-
li che potrebbero diventarlo semplicemente esibendo la propria sof-
ferenza. 99

Il posto preminente occupato dalla sofferenza nelle definizioni popola-


ri o colte dell’identità personale è indubbiamente indice di uno dei
fenomeni più paradossali dell’era post anni Ottanta: in concomitanza
con il trionfo dell’individualismo autosufficiente, dilagante ed egemone
come non mai, è emersa acutamente l’esigenza di esprimere ed esibire
la propria sofferenza in varie sedi: dai gruppi di sostegno ai talk show,
dalle sedute psicoterapeutiche alle aule di tribunale, ai rapporti perso-
nali [ivi: 95].

Risulta chiaro che, ai fini della nostra indagine, il ragionamento


sulla sofferenza è solo una parte limitata della più generale messa in
discorso pubblico della propria sfera intima. Inoltre esso s’inscrive in
una sorta d’implosione del sistema spettacolare che tende a cancella-

47. Il tema della sofferenza è utilizzato dall’autrice come grimaldello per scardinare,
senza troppa efficacia, la concezione che Foucault espone nel testo sopra citato. Secon-
do l’autrice egli utilizzerebbe la chiave del rapporto potere/piacere come tratto domi-
nante dell’attività umana laddove tale termine – che il filosofo usa come sinonimo di
sessualità o libido – non si contrappone al dolore, bensì può sussumerlo. Le pratiche
a cui egli fa riferimento non ortodosse o devianti, come il masochismo, il sadismo o la
sodomia, si pongono al confine tra l’esperienza del piacere e quella del dolore.
1. Brook Shields durante l’Oprah Winfrey Show racconta la spirale di miseria e dispera-
zione in cui è precipitata nella fase post-parto.

> 1.

100 re, ancor più drasticamente che in passato, la linea di demarcazione


tra la star e la persona comune. Dai talk show a sfondo confessiona-
le alla formula matura del reality show il passo è breve. Laddove essa
consente simmetricamente di trasformare in star un perfetto scono-
sciuto e di abbassare al rango di una persona qualsiasi un personag-
gio famoso e inarrivabile. Il grande fratello è la più chiara traduzione
in chiave spettacolare della metafora del “confessionale”, che per
l’appunto, modifica sostanzialmente lo status di chi vi si sottopone e
incide solo sensibilmente sul punto di vista del pubblico. Alle mar-
che commerciali è accaduto qualcosa di molto simile. La loro esigen-
za di scendere dal piedistallo per ristabilire una relazione più solida
e cooperativa con i consumatori ha seguito il medesimo procedimen-
to. In particolare, la questione tipicamente anni Novanta della re-
sponsabilità sociale dell’impresa, del cause related marketing e della
retorica della trasparenza, sono il modo in cui l’azienda fa ammenda
dei suoi “lati oscuri”, intervenendo su di essi tramite le relazioni
pubbliche o con iniziative di brand equity. Ma al di là di questo pro-
cesso, si profila qualcosa di ancora più radicale: la totale penetrazio-
ne del dispositivo della confessione negli interstizi più nascosti del
sociale, nelle zone meno esposte della vita quotidiana, nelle isole sot-
toculturali più distanti dal mainstream. La diffusione sociale del web
e, in particolar modo, quella del 2.0, ha rivoluzionato i modi di rela-
Prove tecniche di Selfbranding

zione a distanza tra i soggetti producendo una sorta di sindrome pre-


senzialista. La miriade di siti personali, di blog, di community che da
molti anni si espande nel territorio della rete, ha dato vita a una
nuova sindrome autopromozionale e iperesibizionista che non ha
molto a che vedere con quella più smaccatamente pubblica e edoni-
sta di matrice anni Ottanta che passa per la formula del “sotto l’im-
magine niente” e si concretizza nell’esaltazione della patina o della
superficie sociale dell’ego. I nuovi mezzi di comunicazione paiono
invece insistere sulla natura intimista e razionale dell’affermazione di
un ego che passa in primis per una sorta di “allestimento emotivo”
che dà profondità e una terza dimensione a quella vuota immagine
bidimensionale.
Secondo Vanni Codeluppi [2007] tale fenomeno si colloca lungo
una linea di sviluppo storico che possiamo disegnare considerando
più le analogie che le differenze con il passato. Il concetto di vetri-
nizzazione consente di spiegare questa evoluzione e di capire i pas-
saggi attraverso cui un dispositivo promozionale, inventato per co-
municare in modo diverso le merci commerciali, si sia esteso pro-
gressivamente alla sfera del sociale per trasformarsi in un dispositivo
globale di presentazione delle identità. Nella fase della diluizione del 101
consumo nella vita quotidiana, strumenti pubblicitari e mercantili
come quello della vetrina, si trasformano in dispositivi astratti o in
tecnologie culturali che possono essere utilizzati dai soggetti sociali
per l’affermazione della propria identità su scala globale. Questi
strumenti consentono di dilatare enormemente il campo di azione
dei singoli soggetti, espandendolo dalle reti informali in cui questi
sono calati, verso una moltiplicazione esponenziale delle potenziali-
tà relazionali e comunicative. Le persone diventerebbero, secondo
una formula utilizzata da questi siti, “broadcast di se stesse”. In que-
sto slittamento da un tipo di azione tattica – quella del soggetto cala-
to nel suo mondo quotidiano – a una strategica – che riguarda il sog-
getto-astratto potenziato dai new media – si cela forse il motivo di un
grande successo di queste formule, che non a caso hanno attirato
l’interesse dei media e delle stesse marche commerciali. È come se il
meccanismo della confessione, analizzato da Foucault, proliferasse
socialmente attraverso una sfera che non ha nulla a che vedere con
le logiche del sacro, con il discorso giuridico o con quello medico,
andando a distillarsi nella sfera delle relazioni informali su quella sot-
tile linea di demarcazione tra il tempo di lavoro e il tempo di vita.
In questo senso non desta molto interesse il caso Second Life, in
quanto esso rispetta una logica tipicamente anni Novanta che esalta
1. Una schermata di Second Life con il suo revival della virtualizzazione tipica degli anni
Novanta.

> 1.

102 la virtualità e la scomparsa del sé dietro l’avatar. L’estremo entusia-


smo con cui tale revival è stato salutato dai cronisti e dagli analisti,
era dettato più dalla nostalgia per le promesse euforiche del decen-
nio passato che non per un concreto potenziale espresso da tale stru-
mento. È stato come se le mirabolanti promesse della net economy
fossero immediatamente recuperate e rilanciate, questa volta non
facendo ricorso a tutta la potenza del web ma a un semplice sito che
avrebbe voluto monopolizzare e ri-brandizzare ciò che accade in
rete. Così è sembrato che le sfavillanti estetiche di una “seconda vita”
condensassero in un sol momento tutte le promesse della vecchia
new economy – a sua volta sublimazione del vecchio sogno america-
no – e che la voce roboante della sua pubblicità fosse sufficiente a
sostenere la sua diffusione su scala mondiale. Inoltre, la retorica
costruita intorno ai suoi protagonisti, come ad esempio la giovane
imprenditrice cinese che conquista il record di prima milionaria ar-
ricchitasi tramite questo strumento, associa nell’immaginario il suc-
cesso di un progetto virtuale a quello molto più concreto dell’ascesa
economica e geopolitica dei paesi asiatici.
Quasi nessuno ha riflettuto sulla sostanziale impossibilità di realiz-
zazione di un sogno tanto ambizioso quanto inattuale. La seconda
vita è troppo scomoda, complicata, fiaccante, insoddisfacente per
poter essere paragonata alla prima. Se solo si pensa a un problema di
Prove tecniche di Selfbranding

economia cognitiva, che riguarda soprattutto un target di lavoratori


creativi la cui vita si svolge già troppo a lungo sulla superficie di un
laptop, lo stress indotto dalla frequentazione di Second Life è inso-
stenibile. Dovrebbero pertanto esistere dei soggetti intermedi (singo-
li o addirittura collettivi) che gestiscono a pagamento l’attività del-
l’avatar di mr. x, y o z. Una sorta di enigma del terzo uomo (nell’au-
tocritica platonica) che però moltiplica all’infinito la possibilità di
intermediazione e trasforma quel progetto di “esistenza autentica”
nella cosa più fittizia che si possa immaginare. Questo perché i ragio-
namenti sul sé digitale e sul computer dating hanno insistito sull’idea
che la maschera dell’avatar faccia emergere l’essenza nascosta degli
individui che le more e le inibizioni sociali invece alimentano (la sin-
drome di C’è posta per te). Ma se l’uso di SL dovesse mantenere la sua
natura di interfaccia dura, il risultato sarebbe semplicemente quello
di favorire l’ingresso di soggetti collettivi (come istituzioni, partiti,
marche) mentre quelli singoli, tranne rare eccezioni, sarebbero gesti-
ti da soggetti terzi: free lance o società anonime che gestiscono uno o
più avatar. La ricerca del Guardian ha infatti espresso profonda per-
plessità sul grado di diffusione globale di questo media. Dalle deci-
ne di milioni di “cittadini”, l’indagine è giunta a contare un numero 103
di 300.000 utenti stabili, laddove i restanti sono molto estemporanei,
senza contare il fatto che molti di questi posseggono più di un singo-
lo avatar48. La maggior parte dei brand globali, dal lusso all’hi-tech,
hanno deciso di accedervi a ogni costo. Ma da quelle parti hanno tro-
vato solo fantasmi o frequentatori assidui con scopi molto diversi di
quelli ipotizzati.
Ben diversa è la questione di Asmallworld, Myspace e Facebook.
Piuttosto che alimentare aspettative inappagabili, questi progetti
hanno realizzato tutte le potenzialità della nuova fase del Web 2.0.
Non più quindi sfavillanti promesse, ma una risposta concreta a esi-
genze specifiche. Asmallworld è un social network che applica a
pieno le teorie sociologiche di Granovetter sul cosiddetto piccolo
mondo. Il concetto di base è la scoperta che su un numero rilevante
di unità – quali ad esempio quelle che compongono gli abitanti del

48. Dei quasi nove milioni di residenti, circa l’85% sarebbero entrati una sola volta
in questo mondo virtuale senza tornarci più. Dei restanti bisognerebbe depennarne
almeno la metà, perché avere due o più avatar in Second Life è una pratica comune
quanto andare nei night club. Il che porta a una popolazione reale di 300 mila perso-
ne circa. Poca cosa rispetto ad altri mondi virtuali frequentati da milioni di utenti,
nulla se paragonata alle comunità che animano espressioni del Web 2.0 come You-
Tube e Flickr [D’Alessandro 2007].
1. Una schermata della mappa di navigazione in Asmallworld.
2. Una schermata dello stile di presentazione personale in MySpace.

> 1. > 2.

104 pianeta terra – i gradi di separazione tra un soggetto x e uno y sono


tra cinque e sei. In altri termini ciò significa che per entrare in con-
tatto con un qualsiasi soggetto in qualsiasi continente, basta passare
per altri cinque (tra loro connessi da almeno un link). Per quanto
concerne i network più ristretti la separazione è ancor più modesta.
In Asw è prevista la funzione “shortest path” che indica a quali
persone del proprio network è connessa la persona individuata. I
gruppi di discussione variano per sezioni tematiche su cui prevale
quella dedicata ai viaggi e che è potenziata dalla funzione del “geo-
locator”: un dispositivo che consente di segnalare i propri sposta-
menti sul globo e che permette di essere contattato in funzione di ini-
ziative ed eventi. La costruzione del proprio profilo è molto meno
creativa di quella dei siti analoghi. Ma è maggiore il grado di con-
fronto tra i membri interni. In quanto comunità chiusa, difatti, non
è possibile per un visitatore esterno né accedere né visualizzare parte
dei contenuti. L’aspetto più interessante, oltre alla dinamica “micro-
mondana” è quello dell’autopresentazione del sé. Grazie ad alcuni
provvedimenti preliminari e al controllo della stessa comunità, le
identità che si presentano in Asw aderiscono a quelle reali. In tal
senso il sito non è concepito come una trasfigurazione di pulsioni o
desideri attraverso la re-invenzione di una identità fluida ma è un
semplice strumento che potenzia le possibilità di relazione, di cono-
Prove tecniche di Selfbranding

scenza ma anche di business. Al suo interno ogni protagonista si tra-


sforma in brand di se stesso e si colloca al centro del proprio network
la cui costruzione è incentivata anche con premi (ad esempio gli invi-
ti per nuovi amici), principale modalità di utilizzo e di supporto alla
mobilità. Lo si usa soprattutto quando ci si sposta oppure quando si
“accoglie” coloro che transitano per il luogo in cui si sta. Se Asw rap-
presenta il segmento più ristretto ed esclusivo, Myspace invece coin-
volge fasce di pubblico più estese, tra cui spicca una maggiore e più
esplicita vena sottoculturale. In una prima fase esso si è configurato
come strumento di autopromozione e di lancio di nuovi artisti nel
campo musicale (si pensi al fatidico caso degli Arctic Monkeys), poi
la sua copertura si è estesa a un pubblico molto più numeroso e
variegato che in parte è interessato alle altre forme della creatività, in
parte ha una sua conformazione tipicamente generalista. Il caso di
Facebook è invece significativo di come un network possa accrescer-
si in maniere quasi autogenerativa. Alcune funzioni di ricerca di
amici come quella “friends of friends”, fa in modo che le richieste di
amicizia proliferino a prescindere dall’iniziativa del singolo utente.
Inoltre lo strumento del wall su cui alcune comunicazioni tra mem-
bri sono rese manifeste a tutti gli amici, produce un effetto di estre- 105
ma trasparenza che dissolve definitivamente la barriera tra spazio
pubblico e spazio privato. In questa concreta realizzazione del con-
cetto di publivate non è raro che si possa venire a conoscenza di
eventi importanti (ad esempio un fidanzamento oppure una separa-
zione) prima ancora che la notizia filtri tramite le reti sociali effetti-
ve. Cosicché, oltre alla trasparenza dello spazio privato, il network si
fa anche catalizzatore di conoscenze condivise. Se pensiamo al modo
in cui la politica ha da subito mostrato interesse al nuovo mezzo, si
capisce come esso rappresenti l’esatto compimento di un processo
iniziato molto prima. La gestione dello spazio privato, del retrosce-
na del politico è da tempo un efficace strumento di creazione del
consenso. Fino addirittura al caso emblematico della sfida di Obama
che avrebbe raggiunto la posizione di candidato alla Presidenza degli
Stati Uniti grazie proprio alla spinta propulsiva del nuovo mezzo [Da
Empoli 2008].
Ciò che accomuna i casi appena discussi è il modo attraverso cui
il web può trasformarsi in uno strumento ottimale di allestimento del
proprio sé, di presentazione sociale, di capitalizzazione delle risorse
provenienti dal proprio social network, di traduzione della propria
soggettività in una realtà d’interesse pubblico. All’interno di tale pro-
cesso il meccanismo della confessione, di cui ho parlato all’inizio del
Brand New World

paragrafo, agisce sganciandosi dalla dialettica tra interrogante e in-


terrogato. Esso funziona di per sé come un sistema di induzione ge-
neralizzata all’apertura del soggetto e della sua vita interiore, alle reti
sociali attraverso la messa in condivisione di tratti biografici, ricordi
ed emozioni attraverso il processo descritto dalla Illouz. Si tratta in
altri termini della trasformazione del soggetto in brand di se stesso.

> Dagli street-style alla street-culture: etica, impegno civico


e relazioni sociali nell’invenzione di nuove marche “dal basso”

Nel corso della sua storia recente il concetto di moda ha assunto


molteplici significati e configurazioni. In una fase che potremmo
definire prefashion, il sistema dei codici vestimentari s’inscriveva in
una dimensione culturale più ampia in cui le molteplici attività di
consumo erano manifestazione esplicita delle posizioni e dei ruoli
sociali. La forza normativa dell’etichetta rappresenta il modo in cui
le molteplici pratiche culturali e di consumo concorrono a definire la
dinamica dei rapporti di potere. Come si evince dal lavoro di N.
106 Elias [1980], in questa fase, che coincide ancora con il modello di
società statica caratteristico dell’Ancien régime, la moda è succube
dell’etica, a cui è sottomessa a dispetto della sua esuberanza e della
sua particolare eccentricità. Nonostante si possa parlare di culto
della personalità del monarca o di dedizione al lusso più vacuo e
oltraggioso, i fenomeni di moda di questo periodo non hanno luogo
se non all’interno del ristretto perimetro della corte che ne regola
l’affermazione e la diffusione. La moda così è la semplice esterioriz-
zazione di regole consolidate che suggellano i rapporti di potere e
primeggiano sugli stessi attori, siano questi sovrani, aristocratici o
cortigiani.
Nel recente film di Sofia Coppola, Marie Antoniette (2006), si rac-
conta la sudditanza della famosa monarca alle costrizioni ineccepibi-
li dell’etichetta. Un sistema di valori e di precetti che attinge alla tra-
dizione e funge da specchio di riconoscimento e di legittimazione
della stessa sovrana. Come quando è costretta a svegliarsi la mattina
al solito orario e a presentarsi nuda dinnanzi alle addette alla vesti-
zione, che si contendono, in base ai rapporti di parentela, il primato
e l’onore di abbigliare la sovrana. La formidabile intuizione della
regista mette in scena un sostanziale loop. Nella figura della monar-
ca austriaca difatti, Sofia Coppola ha voluto vedere semplicemente
una teenager ante litteram alle prese con le costrizioni della cultura
1. La scena del ballo a Parigi in cui i protagonisti mascherati danzano sulle note di Hong
Kong Garden di Siouxie and the Banshees.

1. <

del suo tempo. Ma all’interno di tali argini la protagonista riesce 107


comunque a ritagliare il suo spazio identitario all’insegna del diverti-
mento, della trasgressione, della convivialità col suo gruppo di pari
che assume i tratti di una quasi-sottocultura. La colonna sonora, del
resto, gioca esattamente con questo doppio livello interpretativo,
come quando nella scena del ballo mascherato a Parigi, la musica dei
Siouxsie and the Banshees conferisce insospettabile attualità neoro-
mantica a forme e movenze tardo settecentesche. Il gioco si fa deci-
samente più esplicito nel momento in cui la sovrana è impegnata
nella scelta delle scarpe e la regista fa sistemare tra i pezzi della col-
lezione, inimitabile per ricercatezza e stravaganza, un paio di Con-
verse. Al tempo stesso un product placement imprevedibile e sublimi-
nale – dato che la sequenza dura uno stacco quasi impercettibile –
ma anche un bloop consapevole che dà sostegno all’obiettivo della
narrazione e chiude miracolosamente il cerchio. Il film parla indiret-
tamente di un periodo in cui l’etica collettiva governa le forme effi-
mere dell’abbigliamento e degli stili di consumo, mentre la moda
successiva si sgancerà progressivamente dalla sfera dei valori condi-
visi per sostenere una sua propria visione.
Seguirò pertanto questa traccia nascosta per dimostrare come sia
possibile stabilire una sostanziale simmetria spuria tra il tempo in cui
trionfava l’etichetta e il nostro presente in cui le etichette intese come
Brand New World

meri oggetti commerciali stanno ritornando a occuparsi di etica e ad


assorbire contenuti e valori propri di gruppi sociali e di sottoculture
giovanili che si pongono al di là del mercato. Dopo aver espunto
l’orizzonte dell’etica dalle sue attività produttive, la moda torna a
rigenerarsi alla fonte di una dimensione che è per definizione distan-
te se non antagonista alla logica del business.
Nella sua evoluzione moderna, la moda ha affermato un chiaro di-
stacco da quel sistema normativo e per un lungo periodo ha cercato
di affermare una sua propria visione, coltivando una sempre più dra-
stica contrapposizione all’orizzonte dell’etica. Così a partire dalla sua
edificazione come sistema, essa ha marcato la distanza sociale tra la
cosiddetta classe agiata e le classi subalterne, condannate alla sbiadi-
ta emulazione dei surrogati provenienti dal centro del sistema pro-
duttivo.
In questa fase si consuma il celebre ribaltamento del rapporto di
committenza tra il sarto e lo stilista, realizzato per la prima volta dallo
stilista inglese F. Worth. Si tratta di un passaggio emblematico in
quanto contravviene a un’idea tanto diffusa quanto consolidata a quel
tempo: il gusto ad appannaggio di coloro che occupano una posizio-
108 ne sociale alta (per nascita o merito). Con l’operazione di Worth la
moda si sgancia definitivamente dalle regole dell’etichetta e si trasfor-
ma in un fenomeno estremamente mutevole, sempre più sciolto dalle
convenzioni sociali, egemonizzato dalla figura dello stilista e tenden-
zialmente autoreferenziale. Con l’eliminazione del busto e della crino-
lina che Poiret propone agli inizi del Novecento sino all’invenzione
dell’antimoda da parte di Coco Chanel si consolida tale primato. Nel
primo caso s’afferma l’esigenza di trasformare all’insegna dell’insolito
e della novità che recupera il classicismo, l’assetto culturale consoli-
dato e i rapporti tra i generi e le loro relazioni di potere. Dall’altro la
logica del lusso diviene talmente invasiva e agonistica da voler supe-
rare se stessa nella negazione del primato ostentativo e così facendo
decreta, almeno secondo Lipovetsky [1988], che “non è più di moda
essere ricchi”. Con l’affronto pubblico di Dior e del suo New Look –
che come ha notato la Steele ingenerò vere e proprie correnti di pani-
co morale nelle brave signore dell’epoca che deturpavano con i loro
forbicioni la mise da gentile signorina – si conclude forse la fase sto-
rica in cui la moda può fare a meno della moralità diffusa, surclassan-
dola con le sue invenzioni esorbitanti. Sappiamo che gli anni
Cinquanta sono anche il periodo di affermazione delle prime vere sot-
toculture giovanili, che giocheranno un ruolo sempre più decisivo
nella contrattazione sociale dei significati delle proposte moda.
Prove tecniche di Selfbranding

A partire dagli anni Quaranta-Cinquanta del Novecento, quando


s’affermano sui palcoscenici metropolitani le culture giovanili spetta-
colari, il concetto di fashion muta ulteriormente e inizia a incorpora-
re nuovi valori fondamentali, tra cui il giovanilismo. Se sino ad allo-
ra la moda era cosa da grandi, tanto che gli adulti la tramandavano
alle altre generazioni, ora la moda inizia ad essere cosa da giovani e
tende sempre più a veicolare stili di vita, atteggiamenti e valori bor-
derline. Da un’idea elitaria di ostentazione dello status o da un con-
cetto sofisticato e “divistico” di provocazione sessuale si passa a
nuovi valori a diretto contatto con la cultura di strada. Si tratta di
un’inversione fondamentale su cui, specie nel Regno unito, si edifica
il carattere e anche il successo del Made in England. L’allora nascen-
te prêt à porter, inteso come moda democratica e policentrica, incor-
pora valori ed esigenze del crescente ceto medio che richiede più
comfort, vestibilità, praticità. In altre parole abiti adatti alle vicissitu-
dini e alle esigenze di uno stile di vita moderno, urbano e lavorativo.
Con il passaggio dalla sottocultura alla controcultura, l’idea altamen-
te utopica di una critica radicale alla civilizzazione industriale scuo-
te la sensibilità dell’intellighenzia come anche quella degli artisti per
ricadere su quella dei designer. Così la moda degli anni Settanta da 109
un lato conferma la tendenza di un lusso democratico, già sorta nel
decennio precedente, dall’altro invece assorbe i contenuti di quella
visione antagonista e propone nuove forme, nuovi tessuti, nuovi con-
cetti. L’antimoda filtra dalla cultura giovanile a quella degli stilisti e
si trasforma in una sorta di bohéme di massa. L’epoca della contesta-
zione e degli anni di piombo sembrerebbe far cambiare il significato
sociale della moda che in effetti si adegua al drastico cambiamento
dei tempi, ma si tratta solo di una parentesi che prepara l’avvento di
una spettacolarizzazione ancor più esasperata.
Il concetto di stile confligge con quello di moda perché mette in
discussione il processo di obsolescenza programmata e simbolica
delle merci, al fine di edificare un’identità “vera” che resiste al tempo
e rivendica una posizione antagonista nei confronti del cosiddetto
mainstream. Quando poi si passa a considerare il rapporto tra lo stile
inteso come strada e la moda come passerella [Barile 2006, Code-
luppi 2007b] la questione si fa ancor più complessa. Potremmo
ragionare nei termini di una “curva evolutiva” perché la vicenda de-
gli stili di strada si consuma nell’arco della seconda metà del Nove-
cento, in virtù di diversi elementi che subentrano ad alterarne la
natura. Oggi è sempre più difficile poter individuare nuove tipologie
di stili come anche di sottoculture a essi relative. Si tratta di una dif-
Brand New World

ficoltà tanto metodologica quanto fenomenica, che è dettata tanto


dalla definizione-concetto quanto dalla scomparsa di stili nettamen-
te definiti dai palcoscenici delle metropoli mondiali. Lo stesso
Polhemus, che ha cartografato le precedenti manifestazioni, denun-
cia le difficoltà di una tale impresa49.
Cercherò pertanto di dimostrare come le nuove forme di auto-
branding delle culture di strada sono da una lato il prodotto di una
dissoluzione interna delle culture giovanili, dall’altro il frutto di una
relazione sempre più promiscua con il mondo delle aziende [Klein
2001]. Parliamo dunque di una crisi che ha determinato tanto la pol-
verizzazione del fenomeno quanto la sua dispersione nei territori, un
tempo protetti, della moda commerciale. Se la “moda dei cento an-
ni” era condizionata dal meccanismo di diffusione “a goccia” (in in-
glese trickle down), con gli street-style si è imposta una modalità dif-
ferente di trasmissione delle idee stilistiche che è stata definita bub-
bling up: come bolle di sapone, gli stili di strada ascendono al verti-
ce della piramide sociale per essere trasformati dal fashion-system in
prodotti confezionati appositamente per il loro utilizzo pubblico.
La nascita degli stili di strada è comunemente ricondotta dagli stu-
110 diosi al periodo che precede di poco la Seconda guerra mondiale
quando in America nacque la subcultura degli zoot suit, espressione
delle ambizioni di ascesa sociale nutrite dalle popolazioni afro-ame-
ricane stanziate nelle metropoli. La caratteristica fondamentale di
questo stile fu difatti l’esubero di stoffa nella preparazione degli abiti
che, in un periodo di restrizioni economiche, fu considerata dalla
cultura dominante come un gesto di antipatriottismo, ma che evi-
denziò il bisogno di integrazione nel tentativo di ascesa a un ceto
sociale superiore. La storia degli stili di strada ha avuto come terre-
no fertile l’Inghilterra postbellica dove, tra l’altro, nacque il maggior
numero di subculture giovanili. Verso la metà degli anni Cinquanta
del Novecento si imposero sulla strada i teddy boys. Si trattava di gio-
vani proletari che si ritrovarono, in un periodo di boom economico,
ad avere un maggiore, anche se modesto, potere d’acquisto. La “gio-
ventù edoardiana” prese il nome da un collezione di alta moda nota

49. […] possiamo notare come in passato vi fossero dei gruppi ben definiti, circo-
scritti, ognuno con i suoi confini […] quando io ho preparato la mappa e ho scritto
il libro ho cercato di fare lo stesso lavoro di suddivisione in tribù anche per i movi-
menti e per i gruppi che esistono oggi e non sono riuscito nel mio intento perché
prima ho creduto di aver commesso qualche errore, ma in realtà mi sono accorto che
questi gruppi costituiscono tutti un insieme, non c’è una suddivisione ben precisa
[Polhemus 2001: 277].
1. Lo stile nero degli Zoot Suit declinato nella versione latina di un giovane “Pachuco”
mentre è arrestato dalla polizia di Los Angeles.
2. Un gruppo di Teddy Boys londinesi di prima generazione.

1. < 2. <

per essere ispirata alla particolare eleganza di Edoardo VII le cui sorti 111
non furono felici, tanto che, nel secondo dopoguerra, i teenager lon-
dinesi poterono acquistare quegli abiti sulle bancarelle dei charity
shop. I teddy boys re-interpretavano i contenuti di quella collezione
inserendo elementi mutuati dalla cultura americana come i jeans o i
cravattini di cuoio, sfidando in questo modo la cultura tradizionale
inglese che si mostrava refrattaria e preoccupata per l’invasione di
merci e di stili di vita dall’oltreoceano50. Tra questi spiccavano i cra-
vattini di cuoio, i jeans e le scarpe a coda di rondine con la suola
spessa. La giacca con il colletto in seta divenne più larga e la cravat-
ta fu sostituita dalla stringa di cuoio (boot lace). Le scarpe in camo-
scio nero dalla suola di gomma spessa, le celeberrime Brothel Creep-
er [Fiorani 2004], erano usate perché la suola garantiva maggiore
aderenza sul bagnato, specialmente in occasioni critiche come le
risse. I capelli erano lunghi e sofisticati, in opposizione netta con il
taglio corto imposto ai giovani arruolati per il servizio di leva. La pet-

50. Dopo la guerra quell’ostilità persistette e fu esacerbata da nuovi fattori: dal decli-
no della Gran Bretagna come potenza mondiale, dalla disgregazione dell’Impero bri-
tannico congiunta alla simultanea ascesa del prestigio internazionale americano e alle
prime indicazioni di ambizioni imperialistiche americane […]. In articoli di riviste e
resoconti sui quotidiani, l’austerità britannica venne spesso opposta alla rampante
economia americana e al dollaro forte [Hebdige 1991: 54].
1. Adunata di Mods inglesi seduti sull’oggetto-icona che contraddistingue quella sotto-
cultura: lo scooter italiano.
2. La stilista Mary Quant ammette all’inizio degli anni Sessanta di “muovresi al passo con
la generazione Mods”.
> 1. > 2.

112 tinatura tipica prevedeva un ciuffo lungo e vistoso chiamato “duck


arse”, le basette erano lunghe e molto folte. I teds fecero le loro
prime apparizioni sul palcoscenico della Londra post bellica a caval-
lo tra il 1954 e il 1956.
Lo stile più rilevante degli anni Sessanta è decisamente quello
Mods il cui nome è un’abbreviazione della parola modernists che
indicava una sottocultura intermedia che reagiva alle esagerazioni
estetiche dei Teddy Boys. Questi giovani si presentarono sulla scena
rivendicando, alla stregua dei teds, una matrice esterofila che attin-
geva ad altri universi culturali ma che ostentava il medesimo atteg-
giamento di rottura nei confronti della cultura ufficiale. I Mods era-
no particolarmente affascinati dallo stile de La dolce vita di Fellini e
si caratterizzavano per un’eleganza tanto maniacale quanto minima-
le. Uno stile impeccabile e apparentemente integrato nelle prassi
della vita civile che però adottava una metrica diversa, accentuando
alcuni elementi grazie all’utilizzo di gadget o di spille che ridefiniva-
no la loro immagine in una prospettiva deviante.
I giovani Mods adoravano come oggetto di culto alcuni prodotti
tipici della manifattura italiana: gli abiti, le scarpe, la lambretta.
Proprio lo scooter italiano divenne presto l’icona di una gioventù
intenta a trasgredire i valori consolidati della cultura inglese per inci-
dere su quell’immaginario popolare connotato da un forte sciovini-
Prove tecniche di Selfbranding

smo. Un mezzo rivoluzionario che era progettato per garantire la


mobilità al gentil sesso e pertanto non poteva esser visto di buon
occhio dalla morale dei difensori della tradizione. Cosicché ai mods
fu presto attribuito lo stigma di essere “effeminati”. L’acuirsi della
conflittualità con l’altra celebre sottocultura dei quel periodo – i roc-
kers – completò il processo di etichettamento da parte dei media che
conferì loro lo stigma di “demoni popolari” [Cohen 1973].
Il movimento hippie, sintesi di alcune sottoculture più antiche tra
cui i beatniks, i folkies e gli psichedelics [Polhemus 1994], elaborò
uno stile in coerenza con un progetto politico più ampio che pertan-
to determinò il passaggio dalla dimensione subculturale a quella più
propriamente controculturale. La loro visione del mondo era fonda-
mentalmente neoarcaista in quanto recuperava alcune suggestioni di
stampo neorousseauviano sullo stato di natura, denunciando le
disfunzioni dello stile di vita medio nelle società occidentali. Gli abiti
degli hippie ammiccavano a uno stile di vita alternativo e recupera-
vano tessuti e capi importati dall’Asia, oppure appartenuti ad altre
culture etniche, per supportare l’utopia della fuga dall’Occidente
industrializzato. Gli anni Settanta tradirono tanto le aspirazioni uto-
piche del movimento del flower power quanto il loro look austero e 113
sciatto. Da un lato la nuova gioventù si preoccupò di problematiche
più vicine alle loro esperienze personali, approfondendo il leit motiv
della liberazione sessuale, dall’altro ci fu un netto interesse per
un’estetica eccessiva e spettacolare. Ogni gesto di questi giovani
mirava a mettere in discussione le differenze di gender. Le immagini
delle pop star radicalmente androgine, da Bolan alle New York
Dolls, scandalizzarono l’opinione pubblica, toccando quote che solo
il punk, successivamente, avrebbe potuto superare. La notevole spet-
tacolarizzazione delle performance e la teatralizzazione degli abiti –
che tendevano ad annullare o a ridefinire la figura umana – trovaro-
no l’esemplare manifestazione in Ziggy Stardust, alter ego di David
Bowie, sceso dallo spazio per diventare una rock star.
Il punk – ormai definitivamente istituzionalizzato nella celebrazio-
ne globale dei suoi trent’anni – ha segnato un punto di non ritorno
nell’epopea delle sottoculture. Si è trattato di un’esperienza artistica
che tuttora continua a impressionare l’immaginario collettivo globale
per la sua irriverenza, che in alcuni casi rimane insuperata. I cronisti
individuano come anno di nascita 1977, quando fu pubblicato il disco
Never mind the bollock dei Sex Pistols, ma la genesi del fenomeno
risale a qualche anno prima ed è ancora dibattuta tra coloro che lo
intendono come propagine del glam e del garage americano, e coloro
1. David Bowie nelle vesti del suo alter ego spettacolare Ziggy Stardust.
2. Un frame che raffigura in gruppo le “eroine” negative di Jubilee di D. Jarman.

> 1. > 2.

114 che ne rivendicano l’autoctonia britannica. Vivienne Westwood ha


sostenuto in diverse interviste di aver inventato il punk (cooperando
con il compagno Malcom McLaren), o, perlomeno di aver fornito ai
giovani di King’s Road, gli strumenti per esprimere la loro identità. La
musica minimale, basata su giri armonici lineari composti di pochi
accordi era coerente con il principio che regolava anche la vestizione:
non occorrevano particolari doti tecniche per esprimere il proprio
disagio, ognuno poteva asserire la sua identità in modo assolutamen-
te libero. Pertanto anche l’abbigliamento era scarno, dissacrante ma
assolutamente plurale. Dietro lo stereotipo del giovane col “chiodo”
di pelle e i capelli “a cresta” che ricorre nelle cartoline Greetings from
London si celava una molteplicità di forme, frutto della giustapposi-
zione di elementi contraddittori trovati nei charity shop51.
Uno stile poliedrico e spesso tanto essenziale da non contemplare
nessuno degli orpelli che di solito vengono elencati a riguardo.
L’importanza documentaria di Jubilee di Derek Jarman sta proprio

51. […] la svastica nazista rossa e nera e i distintivi sovietici in caratteri cirillici; la
croce di ferro del Terzo Reich e copie grossolane dell’ordine di Stalin; il ritratto strap-
pato e malamente rincollato della regina accanto alle immagini pornografiche […] da
crocifissi e teschi di metallo brunito, da piccoli scheletri snodati di plastica bianca e
altre lamette da barba, anelli, catene, succhiotti e spille da balia unite assieme come
in un rosario: insomma tutto e di tutto [Bollon 1990: 132].
Prove tecniche di Selfbranding

nell’aver restituito un’immagine originaria e in qualche modo auten-


tica di questo stile. Le sottoculture che da esso si originano, tra cui il
dark (in inglese goth), il new romantic o la new wave insisteranno
tanto sull’aspetto plateale quanto su quello introspettivo.
Sul finire degli anni Settanta nasce anche l’hip hop che ha dimo-
strato, nel corso degli ultimi decenni, una longevità e una continuità
insolita per qualsiasi altro street-style. Con esso si consumano gli ulti-
mi barlumi dell’epoca d’oro delle sottoculture spettacolari e in qual-
che modo si prefigura il processo di convergenza tra il sistema dei
brand e le culture giovanili. Al principio l’hip hop era una filosofia
fortemente sospesa tra un’anima antagonista – che maturava nei
ghetti delle metropoli USA come risposta alla discriminazione della
cultura dominante – e un’anima ludica che con il passare del tempo
diverrà preponderante. L’insieme di linguaggi che lo compongono,
dal Writing alla Breakdance, al Turntableism, fu reso famoso dalla
forza trainante della musica rap.
Nel corso degli anni Ottanta si realizzo un certo equilibrio tra l’ani-
ma più militante, dalla forte connotazione politica, e quella più ludi-
ca. Quest’ultima, con il passare del tempo, divenne predominante,
tanto che, nel corso degli anni Novanta, diverrà il segno distintivo di 115
questo stile. Nell’abbigliamento i cosiddetti bboys facevano ampio
uso di tute, scarpe sportive, cappelli con la visiera, catene e monili,
oppure di elementi decontestualizzati e ricontestualizzati nel loro
look come ad esempio le stelle delle auto Mercedes oppure le sveglie
al collo, lanciate da Flavor Flav, vocalist dei Pubblic Enemy: chiaro
gesto di rivendicazione di uno stato di subalternità culturale che ave-
va soggiogato la “nazione nera” sin dall’epoca del colonialismo. Con
l’hip hop i concetti di street-style e di subcultura entrano in crisi e
non riescono a rappresentare i fenomeni giovanili più recenti.
La curva evolutiva degli street-style si esaurisce per via di due fe-
nomeni concomitanti. Da un lato il valore crescente della comunica-
zione, che fa circolare velocemente i segni delle varie “isole stilisti-
che” incoraggiando operazioni di ibridazione e di crossover nelle
due diverse modalità che T. Polhemus [1993] definisce style surfing
e sampling’n’mixing. Dall’altro la collusione con il sistema dei brand
globali che attingono pienamente a questo patrimonio tramite nuove
professioni come quella del cool hunter per lanciare idee commer-
ciali vincenti. Un fenomeno molto intrigante dato che con la messa
in discussione del concetto scompare anche lo stesso oggetto.
Dalla seconda metà dei Settanta fino all’intero arco degli anni
Ottanta, si moltiplicano nuovi linguaggi che fanno leva tutti sul pote-
1. Il rap militante dei Public Enemy e la metaforica “sveglia al collo” di Flavor Flav.
2. La copertina del catalogo Excess che racconta la mostra su moda e underground negli
anni Ottanta.

> 1. > 2.

116 re sempre più coinvolgente e ammaliante della comunicazione visua-


le. Dai videoclip alle sit com, dall’advertising ai videogame, tutto
concorre ad affermare il primato dell’immagine sui valori. In questa
fase la moda sfrutta a pieno il potere della comunicazione per sedur-
re il suo pubblico. Nell’epoca della profusione del consumo spadro-
neggia un’idea di powerful brand che investe lo spazio di vita di
milioni di consumatori, specialmente dei giovani adolescenti di quel
periodo, che non a caso subiscono una profonda acculturazione da
consumo. L’immaginario dell’epoca informa definitivamente le
rispettive Weltanschauungen andando a definire i contorni dell’oriz-
zonte quotidiano. Due concetti speculari definiscono in maniera
appropriata la dinamica culturale dell’epoca. Da una lato il total look
in quanto esperienza totalizzante, indica l’obiettivo fondamentale
delle aziende di moda: trionfare sullo spazio di vita del consumatore
condizionandolo completamente con un branding che va dalla testa
ai piedi. Dall’altro lato la fashion victim rappresenta una figura tipi-
ca del periodo che cerca d’inscrivere completamente la sua identità
all’interno del perimetro simbolico tracciato dalle griffe. Lo stile di
comunicazione che trionfa nel periodo è la cosiddetta Star strategy,
teorizzata da J. Séguéla, che professa la sostanziale convergenza tra
le logiche dello spettacolo e la comunicazione dei prodotti di consu-
mo all’insegna di un linguaggio fortemente seduttivo e spettacolare.
Prove tecniche di Selfbranding

La logica dell’eccesso e della seduzione denotano una cultura esube-


rante che alimenta un vuoto profondo di valori e che, allo stesso
tempo, inventa operazioni culturali e commerciali di vario genere
per colmare tale assenza (dal Live Aid alle prime campagne di Be-
netton). In realtà la tanto avversata e dibattuta formula dell’edoni-
smo reganiano, formulata dal giornalista D’Agostino e legittimata
scientificamente da Vattimo, riguarda un significato possibile che
contraddistingue le molteplici pratiche di consumo più che una ge-
nerale assenza di valori dettata dallo slancio liberista della politica
statunitense.
L’eccesso, come ben evidenziano la mostra e il catalogo curati da
Maria Luisa Firsa (2003), è logica costitutiva del periodo e prende
forma nell’estetica neobarocca di Versace, nelle esagerazioni formali
di Mugler o nelle combinazioni improbabili di Gaultier, ma anche in
esempi più estremi di negazione della moda, della logica del cambia-
mento, della perfezione formale, come sull’onda lunga della moda
giapponese. Le politiche di brand extension e di stretching estendo-
no il capitale d’immagine accumulato dalle griffe di moda a settori
merceologici disparati con un risultato non sempre apprezzabile. A
quel punto in molti hanno parlato di un’inflazione dei marchi che ha 117
generato una sorta di crisi “di rigetto” preparando la più generale
crisi di credibilità che colpirà il sistema dei brand globali agli inizi
degli anni Novanta in quello che è stato definito come il venerdì nero
della Marlboro. Si tratta dunque di un nuovo periodo quello che
s’apre con un generale ripensamento dei valori consolidati nelle fasi
precedenti. E il cambiamento non riguarda esclusivamente la moda,
ma è introdotto da altri linguaggi che fanno da apripista.
La cultura degli anni Novanta è rappresentabile come un grafo:
figura geometrica tridimensionale in cui ogni concetto portante, ogni
hub è connesso necessariamente a tutti gli altri. Così la demsassifica-
zione dei consumi, il multiculturalismo, l’ibridazione dei generi e
degli stili, la penetrazione della tecnologia nella vita quotidiana, la
rivalutazione del locale, del tipico, dell’etnico. Approdiamo così alla
fase che Semprini ha definito come “diluizione”: essa rappresenta il
momento di massima compenetrazione tra il consumo e le pratiche
spontanee della vita quotidiana e segna in modo profondo il corso
degli anni Novanta. Se la comunicazione commerciale cambia com-
pletamente registro, alla ricerca di una relazione più autentica e
diretta con i consumatori, le marche iniziano a ripensare seriamente
le proprie strategie di gestione dell’immagine pubblica. Si afferma
così in maniera sempre più massiva il cosiddetto CRM (Cause Related
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Marketing) insieme a un’attenzione marcata nei confronti della re-


sponsabilità sociale delle imprese [Grandi, Miani 2006]. L’etica di-
venta un problema fondamentale per le aziende che operano in vari
settori e condiziona profondamente le loro politiche organizzative,
comunicative e di marketing. Nella stessa maniera la moda del perio-
do cerca di porre rimedio, almeno in parte, a una crisi profonda.
Essa esibisce una sorta di nuova sobrietà e si riforma, specie nella
seconda metà del decennio, grazie alle tendenze del minimalismo e
della spiritualità di stampo New Age. L’orizzonte dell’etica torna a
condizionare profondamente il discorso della moda, ma questa volta
in modo diverso: sussidiario o talvolta opportunistico.
Una sorta di sguardo antorpologico diffuso condiziona la perce-
zione della comunicazione e dei consumi. Come se i discorsi formu-
lati nell’ambito dei circuiti culturali o accademici, fosse in grado di
trapelare, a suo modo, negli spazi colletivi per modificare la visione
del mondo dei consumatori. Ciò si evince dal profondo spessore cul-
turale delle campange di comunicazione di marchi come Levi’s o
Diesel. Quest’ultimo in particolare cavalca la formula di una comu-
nicazione ironica capace di sgretolare la barriera di diffidenza tra la
118 marca e il suo pubblico, sancendo un patto più solido e duraturo. In
una sorta di riproposizione della retorica – ma anche dell’intellettua-
lismo etico – di stampo socratico, l’ironia precede la maieutica. La
pars destruens anticipa la pars construens. Tanto che, dopo aver ab-
battuto le barriere culturali, la marca può finalmente dialogare pro-
duttivamente con il singolo soggetto-consumatore.
Le moltitudini di giovani che nel corso degli anni Ottanta erano
cresciuti nel ventre caldo del consumo edonistico, ora vivono in una
situazione di ambivalenza, di scissione cognitiva che da un lato li spin-
ge alla continua rigenerazione del rapporto di dipendenza dai brand,
dall’altro invece sviluppano un senso di insopportabile frustrazione
nei confronti delle implicazioni globali del consumo e – nella fattispe-
cie – nei confronti dei prodotti comunicativi lanciati dalle case di
moda. La spinta culturale che all’inizio del decennio aveva dato vita
alla nuova scena underground americana (grunge e crossover) ora
sostiene un movimento politico ed estetico più ampio all’interno del
quale il contesto canadese gioca un ruolo decisivo dando vita a feno-
meni di rilevanza globale, dal culture jamming a Nologo.
Le campagne al fulmicotone dei Jammers sono esempi rilevanti di
come si tenti di risolvere la frustrazione proveniente dalla spinta al
consumo attraverso la medesima tecnica pubblicitaria che anima le
campagne dei brand. Le marche di moda sono al centro del mirino
1. Obsession di Calvin Klein riletta dalla celebre rivista canadese di culture jamming,
“Adbusters”.
2. Tavole da skate disegnate da artisti di street art nella mostra Beautiful Losers.

1. < 2. <

soprattutto per lo sfruttamento della manodopera nei paesi poveri – 119


dal fantomatico Sudest al Messico – ma anche per gli scompensi e
per le patologie indotte da uno stile di vita artificiale. Si pensi ad
esempio alle anticampagne lanciate contro Calvin Klein. In una si
utilizza il medesimo lettering, la stessa grana fotografica, lo stesso
colore seppiato. Ma il messaggio è affatto diverso, dato che la paro-
la obesession – che nella versione originale identifica una linea di
prodotti – ora non rievoca più un’atmosfera sensuale e ammaliante,
ma il disastro esistenziale di una donna che vomita nel suo wc. Allo
stesso modo le campagne contro Gap o quelle più famose contro
Nike cercano di far emergere aspetti importanti che solitamente
sono celati dalla comunicazione esplicita delle marche: tutto ciò che
la marca non dice quando comunica se stessa.
Gli anni Novanta segnano anche il definitivo consolidamento
della cosiddetta street-culture, un’area di attraversamento da parte
di pezzi delle passate sottoculture, che non sentono più i vincoli
d’appartenenza di un recente passato, come anche da parte dei
brand dello street wear, che siano essi globali o locali (da Nike ap-
punto a Stussy o a Carhartt). Un pezzo di questa storia è mirabilmen-
te raccontato nel catalogo della mostra Beautiful Losers realizzata a
New York e in Triennale a Milano. Tale fenomeno possiede a mio
parere una giustificazione non solo storica ma anche teorica, nel
Brand New World

senso che se andiamo a individuare i modelli utilizzati dagli studiosi


per analizzare i modi di costruzione delle identità da parte delle sot-
toculture giovanili e da parte dei grandi marchi globali, troviamo un
concetto guida che getta un ponte tra le due dimensioni. Si tratta del
Bricolage che è utilizzato al contempo da Hebdige [1983] per esami-
nare i modi attraverso cui le sottoculture producono identificazione
attraverso l’assemblaggio di pezzi presi dall’ambiente circostante.
Una dialettica tra tradizione e innovazione che si ritrova equipollen-
te nelle modalità di costruzione delle identità di marca da parte delle
équipe di creativi dei grandi marchi globali. Non a caso Floch [1996]
lo ha concepito come una prassi enunciativa che si fonda su una
complessa dialettica tra permanenza e cambiamento, “[…] come
relazione delle forme e delle figure riconoscibili dagli altri” ma anche
come “una rottura, un’innovazione, persino come una liberazione”
[ivi: 27]. Il bricolage (insieme al concetto complementare dell’omo-
logia) sono i punti di contatto tra l’analisi di Hebdige sulle sottocul-
ture e quella di Floch sull’identità della marca e probabilmente per
questo motivo la convergenza che si è realizzata recentemente tra
questi mondi, era già prevedibile a partire dall’analisi profonda di
120 queste due dimensioni culturali.
Proprio perché tra i due livelli esistono più punti di convergenza
che di divergenza, vorrei spostare il discorso da una prospettiva
meramente storica all’analisi di alcune tendenze contemporanee che
si sono codificate in vere e proprie offerte commerciali a partire da
un’attività consolidata prima in ambito sociale e culturale. Tutto ciò
è riconducibile alla categoria di selfbranding già discussa nel para-
grafo precedente che in questo caso fa riferimento alla capacità di
condensare nel patrimonio simbolico della marca una serie di conte-
nuti e di valori che attingono all’esperienza personale o di gruppo, al
sistema di relazioni sociali e di valori condivisi di una data subcultu-
ra. Un patrimonio emozionale che, in alcuni casi, può trasformarsi in
progetto di business. Certo nella storia istituzionale dei più grandi
casi aziendali c’è sempre un momento mitico di affermazione che
coincide spesso con la volontà lungimirante e visionaria del suo fon-
datore. Una fase di puro spontaneismo ed estro che dà vita all’intui-
zione fondamentale, oppure una specie di amuleto che aiuterà il pro-
getto nel corso della sua affermazione. Si pensi ad esempio a Phil
Knight, fondatore e direttore della Nike, che avrebbe iniziato a ven-
dere scarpette in giro per gli States, trasportandole nel bagaglio della
sua automobile, come nella pratica mitica car boot store [Crewe,
Gregson, 2003] di stampo anglosassone. Ma solo recentemente una
Prove tecniche di Selfbranding

simile costruzione retorica ha dato impulso a una miriade di iniziati-


ve tra loro diverse sia nella mission che nella creatività e nell’imma-
gine di marca.
S’avvicina molto a tale concezione il caso di Guru. Un brand che
si è affermato nell’arco di pochi anni sfruttando l’onda lunga delle
entrature del suo direttore creativo52 e un tipo di promozione che il
suo ufficio marketing ci tiene a considerare come un esempio di co-
municazione virale. Guru ha attecchito sul mercato grazie a una pri-
ma fase di lancio in cui il marchio non era riconoscibile se non per la
provvidenziale margherita che richiamava un estetica adolescenziale
insieme a una simbologia pseudo hippie. La diffusione buzzing del
marchio e dei prodotti ha avuto luogo a partire dalla situazione esti-
va e balneare di Porto Cervo, sfruttando le conoscenze di alcuni cal-
ciatori che avrebbero funto da testimonial occasionali e involontari.
La marca condensa quello spirito ludico e scanzonato che aleggia
intorno alla rinomata località estiva e che ha assunto particolare visi-
bilità mediatica sotto la bandiera del “briatorismo”.
Con la seconda fase, che coincide con l’abbandono della marghe-
rita e con la creazione del marchio grafico Guru, si lascia lo sponta-
neismo dei primi tempi, per avviare un business più strutturato su 121
scala nazionale e internazionale. Ciononostante i contenuti del brand
restano quelli della fase nascente.
Il selfbranding è dunque un progetto che muove dal basso, si
direbbe bottom up nel linguaggio dell’organizzazione aziendale, che
sfrutta reti informali di relazioni sociali, legami deboli e/o forti, per
trasferire un messaggio, nella maggior parte dei casi attraverso un
prodotto. Non a caso la t-shirt è il capo che meglio contraddistingue
certe produzioni. Non solo perché si tratta di un oggetto di culto
della cultura giovanile – che secondo alcuni deriva dalla struttura a
T della tuta da operaio – ma soprattutto perché la t-shirt è immedia-
ta sintesi di oggetto e concetto, un manifesto indossabile la cui
apprezzabilità non può prescindere dal tipo di grafica e dal contenu-
to che essa veicola. Helen Walters [2005] ci propone una importan-
te rassegna di nuovi marchi, nati dall’iniziativa personale o di gruppo
di giovani designer, che veicolano creatività e impegno civile tramite
questo medium. Laboratorio di sperimentazione dell’avanguardia
pop oppure semplice evoluzione indossabile del manifesto pubblici-

52. Inoltre va precisato che l’attività del nuovo marchio si appoggia alle risorse già
consolidate dell’azienda di famiglia, dunque si tratta certamente di un selfbrand par-
ziale o spurio.
1. Un’immagine dal sito del progetto parallelo Angry.

> 1.

122 tario, tale oggetto assume oggi una valenza autoespressiva ancora più
forte del passato. Quindi “non dobbiamo meravigliarci, visto lo stato
d’irrequietezza in cui si trova l’umanità, se un tono polemico è torna-
to di moda. Organizzazioni, enti benefici e cause politiche hanno
sempre rifornito i loro adepti con slogan ad hoc per promuovere
determinate linee di pensiero. Adesso anche i singoli grafici usano le
t-shirt per sostenere cause e convinzioni meno specifiche” [ivi]. Ma i
prodotti delle case proposte nella rassegna vanno al di là di una sem-
plice visione settantista e utilizzano certi significati e valori per espri-
mere un elevato contenuto di coolness. È il caso di Angry (www.-
angry-associates.com) che è stato fondato da Scott Burnett e Johnny
Kelly per “poter liberamente sfogare le frustrazioni accumulate lavo-
rando in uno studio di grafica più tradizionale” [ivi] oppure No com-
pany (www.nocompany.com) sottopone un questionario psicologico
(sullo stile dei test proiettivi) ai suoi clienti, da cui si traggono indica-
zioni per la realizzazione delle magliette. Stephen Bliss (www.ste-
phenbliss.com) che lavora all’immagine coordinata di molteplici
videogame realizzando poster, packaging e altri gadget, adotta la
seguente strategia: “se è un capo che io stesso indosserei, probabil-
mente c’è qualcun altro disposto a farlo”. Mentre Cybelle (www.cy-
bellegear.com) è un altro brand streetwear che esprime una sensibili-
tà prettamente femminile ed è creato “da donne per le donne”.
1., 2. Sezioni di siti di ecommerce dedicati alla creatività diffusa di due gruppi americani.

1. < 2. <

Sull’onda lunga della contestazione ai marchi globali sono nati 123


negli States diversi brand alternativi che hanno trasferito le idee e le
tecniche del culture jamming alla sfera dell’abbigliamento. Un elogio
al dissenso si è sprigionato dalle culture alternative made in USA e ha
dato vita a una numerosa gamma di iniziative culturali, mostre e
pubblicazioni. Così con Future Relic (http://www.futurerelic.com/)
e Dangerous Breed (http://www.dangerousbreed.ne) i capi d’abbi-
gliamento si sono trasformati in mezzi espressivi di una resistenza al
vero o presunto imperialismo statunitense, sostenuto dal cosiddetto
vangelo del consumo globale.
In Italia ha operato il gruppo Dissent nato dallo sfascio delle gran-
di contrapposizioni ideologiche che avevano interessato la gioventù
italiana sino alla fine degli anni Ottanta. Così questi giovani hanno
dovuto reinventare il loro impegno civico utilizzando come strumen-
to di divulgazione lo spazio delle merci e della comunicazione. Più
che una mera vocazione politica, la forza che muove tale iniziativa è
una sorta di moralità alternativa che si esprime attraverso un mix ori-
ginale di intrattenimento e di solidarietà. Come nel caso della mini-
crociera su una barca a vela di 16 metri, ideata per mostrare a vari
gruppi di disabili mentali – accompagnati da un team di medici – le
bellezze di Ponza, Ventotene e Capri. Alla fine del 2006 il progetto
si trasforma in una vera e propria factory nostrana che ospita opere
Brand New World

di artisti emergenti e borderline per educare la gioventù al dissenso.


House of Love and Dissent ha sede a Roma nel quartiere Monti e
propone, oltre a un campionario di streetwear militante, una serie di
iniziative culturali di indubbia originalità. Tra queste spicca la recen-
te Least Wanted: mostra itinerante curata da Mark Michaelson che
propone una selezione ridotta del formidabile archivio composto da
più di diecimila mugshot – le foto segnaletiche della polizia statuni-
tense – che vanno da 1880 al 1970. La chiave interpretativa della
mostra riflette su quanto sia labile la linea di confine tra la legalità e
il crimine, interrogandosi su come oggigiorno stia “shiftando” il con-
cetto di devianza. Il core business, cioè l’ideazione e la vendita di
vestiti, è quasi occultata dietro l’impatto comunicativo delle iniziati-
ve culturali dalle quali il brand nascente trae linfa vitale per la defi-
nizione di un’immagine e di un posizionamento di rottura. “La col-
lezione più democratica che abbia mai conosciuto”, commenta
l’ideatore… “Mette d’accordo tutti: fotografi, artisti, costumisti, sto-
rici e sociologi, uomini e donne. ‘Arte’ commenta il critico, ‘che
meraviglia quel cappello’ esordisce l’esperta di moda, ‘sembra il mio
nipotino’ dice la nonna, ‘bei tempi quando li sbattevano tutti dentro’
124 conclude il reazionario, ma a noi lascia senza parole l’ingiustizia di
un bambino messo in galera nel ’29 per aver rubato una mela…”53.
Il catalogo raccoglie una serie limitata di immagini e delle schede
sulle quali si solevano registrare le informazioni di base sulla perso-
nalità del soggetto segnalato. Il sesso, l’origine e il presunto reato
(comunista, invertito, ladro...). Il progetto non si limita a testimonia-
re la propensione positivista e lombrosiana tipica di un sistema
repressivo, e nemmeno si limita a riflettere sulla fotografia come stru-
mento di controllo sociale. Oggetto principale d’indagine sono le
modalità di definizione e classificazione della devianza, che si con-
centrano su sfumature drammatiche e che, solitamente, s’accanisco-
no contro soggetti marginali, contro figure deboli cadute occasional-
mente nelle maglie repressive del sistema. Così il documento ci resti-
tuisce uno spaccato di vita quotidiana che, specialmente nel corso
del secolo passato, dimostra come una certa strategia d’immagine sia
trapelata dai settori dello spettacolo a quelli distanti, dimenticati e
irraggiungibili della vita comune. Così, oltre allo shift della devianza,
queste foto raccontano di persone comuni che interpretano gli stili
di vita del loro tempo e che imparano a esibirli dinnanzi alla macchi-
na con una disinvoltura sempre più spiccata. Sono quest’ultime,

53. Citato in N. Barile, House of love and Dissent, Next Exit, Febbraio 2007
1. Una foto segnaletica della polizia di Minneapolis tratta dalla mostra Least Wanted.

1. <

paradossalmente, ad aver anticipato i tempi e ad aver restituito alla 125


moda moderna una nuova aura. Quella di un’etica minore – o se si
vuole di un’antietica – che ha ravvivato il destino di abiti confeziona-
ti industrialmente, conferendo loro la dignità e l’autenticità di un
mondo distante anni luce – almeno in linea programmatica – dai sen-
sazionali mondi della fiction.
4. LA TRANSIZIONE DEL BRANDING
DAL PIANO DELL’IMMAGINARIO A QUELLO DEL REALE

> Brand manager a scuola da G. Bateson 127

La formidabile riduzione cinematografica del libro Fight club [1998],


operata da Fincher, è uno strumento basilare per comprendere lo svi-
luppo contemporaneo della società dei consumi attraverso i prodot-
ti dell’odierna cultura visuale. Il protagonista del film, interpretato da
Edward Norton, è incasellato in una condizione sociale tipicamente
middle-class. Un buon lavoro che non offre alcuno stimolo “creati-
vo” è la base su cui egli decide di costruire una carriera da perfetto
single. Mister “porzione singola” appunto è un target ideale per il
sistema dei brand contemporanei in quanto la sua stessa vita è pla-
smata sullo stile di vita proposto dalle marche globali. La scena
memorabile in cui attraversa il suo nuovo appartamento completa-
mente identico alle pagine di un catalogo Ikea54 (con tanto di etichet-
te e di sconti in sovraimpressione), è segno memorabile di questa
dipendenza cognitiva del protagonista nei confronti del mondo arti-
ficiale proposto dalle marche tanto che, a un certo punto, egli escla-
54. Non a caso la medesima scena è riproposta in un altro prodotto audiovisivo di
estrema importanza per studiare le forme di consumo: Remind me dei Royksoop che
racconta in una scena di ordinaria vita quotidiana il rapporto tra l’intimità della pro-
tagonista e i sistemi esperti tra cui spicca quello dei consumi e delle marche [Barile
2004].
1. “Mister porzione singola” in Fight Club fa esperienza diretta del mondo Ikea mentre il
suo appartamento si trasforma in un catalogo.

> 1.

128 ma “mancava poco perché fossi completo”. Ma sin dalle prime bat-
tute egli è afflitto da un disagio interiore imperscrutabile, un male
che tenta di curare attraverso una socialità disperata – frequentando
gruppi di malati terminali – ma che non riesce a capire o ad allevia-
re. Questo iter lo conduce verso la risposta cognitiva al problema: la
creazione di un alter ego, esatta proiezione negativa del suo ego, che
tramite i suoi precetti anticapitalistici darà vita e fondamento ideolo-
gico alla nuova comunità. La reazione al McMondo [Barber 1998]
che ha divorato ogni traccia di autenticità esistenziale passa attraver-
so una pratica arcaica – una sorta di boxe a mani nude – che con la
lotta e il dolore fa vivere agli adepti del Fight club brevi scampoli di
vita “vera”. La fissazione per il mondo Ikea altera la “grammatica
dello sfondo esperenziale” [Habermas 1993] sino a mutare la strut-
tura cognitiva del protagonista. Brad Pitt55 pertanto interpreta l’esat-

55. Già nel film L’esercito delle 12 scimmie, la scena in cui s’incontrano in manicomio
Bruce Willis e Brad Pitt, ci propone due apparenti disadattati che discutono sul rap-
porto tra pubblicità e follia. Come sostiene lucidamente Brad Pitt “[...] vedi la televi-
sione, è tutta lì la questione. Guarda ascolta inginocchiati, prega, la pubblicità. Non
produciamo più niente, non serviamo più a niente. Tutto è automatizzato. Che cazzo
ci stiamo a fare. Siamo dei consumatori. Compri un sacco di cose da bravo cittadino,
se non le compri che cosa sei? Un malato”. Si percepisce la eco deleuziana della schi-
zofrenia come fuga dal sistema del controllo paranoide e come evento creativo capa-
La transizione del branding

ta proiezione di ciò che lui non riesce ad essere ma è anche una figu-
ra contraddittoria che concilia l’avversione contro la società dei con-
sumi alla passione per i suoi prodotti più effimeri (tra cui i vivaci
abiti di Jean Paul Gaultier). Credendo di seguire il carisma dell’ami-
co immaginario (mentre in realtà segue solo se stesso) il protagonista
mette in piedi un’organizzazione policellulare dispersa per il Paese
che organizza un attentato alle sedi centrali della finanza mondiale in
quella che resta la più lucida premonizione dell’11 settembre offer-
taci da Hollywood.
Quella raccontata dal film non è solo una metafora del disagio
della civiltà contemporanea, né, come la vedrebbe qualcuno, un sem-
plice atto d’accusa contro la schiavitù del consumo. Esso racconta un
fenomeno molto più complesso e saliente. Le teorie che hanno insi-
stito sulla mutazione del consumo negli anni Novanta, partono dal
presupposto che non si può più incasellare il consumatore in griglie
sociali predefinite, e soprattutto non lo si può forzare in gabbie iden-
titarie chiuse. Sulla scia della tarda vulgata decostruzionista, il nuovo
consumatore postmoderno è per definizione multi-identitario, è un
soggetto sfumato, contraddittorio oppure un soggetto-comunità.
Tutte queste concezioni presuppongono la schizofrenia come para- 129
digma esplicativo della cultura del consumo. Tale assunto, già scoper-
to negli anni Ottanta con riferimento al consumo televisivo [Jameson
1989; Featherstone 1994], oggi ha bisogno di essere affrontato con
uno schema “operativo” che vada al di là degli entusiasmi di matrice
deleuziana e guattariana sullo schizofrenico come soggetto rivoluzio-
nario capace di combattere la paranoia del sistema di controllo
[Deleuze, Guattari 1975] A tal proposito può essere molto più utile
adottare uno schema interpretativo come quello del doppio vincolo
batesoniano, che ha avuto grande successo nella storia della comuni-
cazione [Watzlawick 1971; Volli 1994] per poi approdare alle teorie
antropologiche sul consumo che hanno insistito sulla predominanza
della cultura visuale. Come ha notato Codeluppi [2006], tale concet-
to può essere utile per rappresentare la natura paradossale del con-

ce di rinnovarne le logiche. La proiezione verso la catastrofe, vero leit motiv del film,
rappresenta una soluzione diretta alla situazione di estrema intensità emotiva nella
quale si trovano i consumatori nella nostra epoca. Il meccanismo banale di liberazio-
ne da questa dipendenza mira a eliminare uno dei termini della relazione. L’elimina-
zione del genere umano è anche eliminazione del sistema dei consumi e unico garan-
te della salvezza dell’ecosistema. Questa soluzione terminale è chiaramente frutto di
una consapevolezza latente: il consumo è inestinguibile dall’orizzonte della vita quo-
tidiana.
Brand New World

sumo. Già negli anni Novanta Canevacci [1993] ha insistito sulla


necessità di un suo utilizzo per l’analisi dei panorami della cultura
visuale urbana, senza però proporre una sua applicazione mirata al
rapporto tra sistema delle marche e nuove tipologie di consumo.
Il presupposto per l’elaborazione di questa teoria è rintracciato da
Bateson nella teoria dei tipi logici di Russel che riguardava il modo
in cui le categorie del pensiero organizzano gli elementi in classi in
base al divieto di sovrapporre gli uni con le altre (una classe non può
mai essere elemento di se stessa). Ma se Russel si concentrava su
modelli di ragionamento formale, l’antropologo deve invece interes-
sarsi all’uso ordinario del linguaggio e specialmente a quelle situazio-
ni in cui i precetti della logica formale sono continuamente trasgre-
diti. In molteplici esempi di comunicazione interpersonale i due
livelli si sovrappongono e le gerarchie si scardinano. Si tratta di un
livello fisiologico di doppio vincolo che le persone vivono comune-
mente nella loro esperienza di vita: la festa, il rito, l’umorismo, il gio-
co, la poesia, ecc. Tra questi, più recentemente possiamo inserire al-
cuni prodotti dell’industria culturale e in particolare il linguaggio
della pubblicità moderna.
130 Nello schema batesoniano, parzialmente influenzato dai progressi
della cibernetica, la comunicazione svolge un ruolo decisivo, tanto
che diventa fondamentale “[…] il processo di discriminazione tra
modi comunicativi all’interno dell’io, ovvero tra l’io e gli altri” [Ba-
teson 1990: 248]. La trasgressione sistematica del principio della logi-
ca di Russel, nelle situazioni basilari della vita quotidiana, produce un
indebolimento della funzione dell’Io che si manifesta su tre livelli:

1. quando si “[…] ha difficoltà ad assegnare il corretto modo comu-


nicativo ai messaggi che riceve dagli altri”
2. quando si “[…] ha difficoltà ad assegnare il corretto modo comu-
nicativo ai messaggi, verbali e non verbali, che egli stesso esprime
o emette”
3. quando si “[…] ha difficoltà nell’assegnare il corretto modo co-
municativo ai suoi stessi pensieri, sensazioni e percezioni”.

Tale sequenza è indicatore di una sintomatologia schizofrenica che


s’inasprisce nella sua reiterazione sistematica. Se in una condizione
di normalità il soggetto è in grado di risolvere la situazione del dou-
ble bind attraverso l’uso di metafore, nella situazione patologica ciò
non è permesso. La specificità dello schizofrenico è difatti quella di
“[…] usare metafore senza contrassegno; egli prova particolari diffi-
La transizione del branding

coltà nell’uso dei segnali di quella classe i cui elementi assegnano tipi
logici ad altri segnali”56 [ivi: 248-249]. In tal modo si tende a margi-
nalizzare le cause che tradizionalmente erano poste alla base del-
l’etiologia dello schizofrenico (trauma infantile, eredità genetica, di-
sagio ambientale ecc.) alle quali si predilige la dinamica comunicati-
va, specialmente quando questa s’inceppa e produce un errore. Ma
la chiave di volta dello schema non è tanto il “difetto” quanto la sua
reiterazione. Gli ingredienti essenziali in una situazione di doppio
vincolo sono:

a. “due o più persone, una delle quali è riconoscibile come ‘la vitti-
ma’”
b. ripetizione dell’esperienza “[…] talché la struttura di doppio vin-
colo diviene oggetto di attesa abituale”
c. un’ingiunzione primaria negativa
d. un’ingiunzione secondaria in conflitto con la prima a un livello più
astratto
e. un’ingiunzione negativa terziaria che impedisce alla vittima di
sfuggire dal conflitto.
131
Altro elemento di distacco dalla dimensione ordinaria e fisiologi-
ca è il particolare grado di intensità affettiva che induce la vittima a
percepire tal condizione come indispensabile.
Il suo effetto più immediato è l’impasse logico e pragmatico che
mina la capacità dell’infante di poter discernere il reale dall’immagi-
nario, “l’io dagli altri”.
L’utilità di questo schema ai fini del mio discorso non è chiara-
mente analogica ma metaforica.
Lo schema batesoniano può essere molto utile a capire il motivo:
il potere del consumo diventa sempre più rilevante a dispetto dei
movimenti di contestazione, di boicottaggio o di rifiuto “luddistico”
dell’innovazione. Il presupposto fondamentale è certamente il mon-
do costruito dalla marca che offre al consumatore un sistema di si-

56. L’incapacità di classificare il genere e la natura di un messaggio – ricevuto o emes-


so – non degenera necessariamente nella schizofrenia ma può anche condurre alla
ebefrenia o alla paranoia. “A un estremo della gamma di queste sindromi ci saranno
individui più o meno ebefrenici, per i quali nessun messaggio è di un tipo definito e
che vivono in una sorta di mondo cronicamente sfuocato. All’altro estremo vi sono
quelli che tentano di ultra-identificare, di compiere un’identificazione eccessivamen-
te rigida del genere di ogni messaggio. Ciò porterà a un quadro molto più paranoico”
[ivi: 243].
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gnificati, valori, riferimenti ecc. che costruiscono pezzi o intere zone


della sua identità sociale. Ma il sogno di una identificazione totale tra
il mondo della marca e quello del consumatore è solo un punto limi-
te verso il quale muovono le strategie del marketing. In realtà con il
tramonto dell’epoca d’oro del consumo edonistico si è forse capito
che quella identificazione incondizionata e assillante non era poi così
conveniente per i consumatori né tantomeno per le marche.
Il ragionamento sul doppio vincolo ci consente così di cogliere
l’essenza immateriale e cognitiva del consumo che neasce come ter-
mine per designare un’attività peculiarmente materiale di distruzio-
ne di una merce e che solo in una fase matura si trasforma in una
sorta di “abito mentale”. Tanto che oggi consumare è un modo per
conoscere e agire il mondo [Abruzzese 1988]. L’essenza fondamen-
tale del consumo, la sua natura per così dire paradossale [Codeluppi
2005], è data al rapporto di inclusione vs esclusione che si produce
a partire da una data marca o da una data merce. Ma, a ben vedere,
tale rapporto va molto al di là dell’attività di acquisto/impiego/di-
struzione di un bene. In questo senso il potere della marca anticipa
l’atto dell’acquisto e, in un certo senso, estende la logica del consu-
132 mo dalla singola transazione a un rapporto metaeconomico che però
precede, fonda e prepara lo scambio economico. E ciò non è nem-
meno riferibile solo al potere di una singola marca ma a quello di
molteplici marche che fanno appunto “sistema”57. Quando esse si
pronunciano all’unisono su alcune questioni, manifestano una reto-
rica condivisa che può cambiare a seconda dei momenti storici e dei
luoghi58. L’affermazione del sistema delle marche globali rappresen-
ta un momento di netta discontinuità con le fasi precedenti. Esso
marca un’alleanza formidabile con il sistema della comunicazione e
dimostra come il consumo, nella sua fase più avanzata, è un atto
comunicativo.

57. È questo l’elemento del dissenso tra il mio punto di vista e quello di C. Miles
[2004: 269] che ha scritto sul medesimo argomento con un anno di ritardo rispetto
al mio articolo del 2003 e che insiste sulla singolarità della fonte del messaggio –
appunto il brand che lega nel doppio vincolo – laddove la mia analisi riguarda più
una dinamica di sistema dato che i modi di funzionamento dei brand sono analoghi
e spesso s’ispirano ai medesimi principi.
58. Mi riferisco alle attività di sponsorizzazione di alcuni eventi planetari (campiona-
ti del mondo, Olimpiadi ecc.) in cui tutte le marche convengono sul modo in cui rac-
contare ciò che sta accadendo, oppure sulla derivazione territoriale e culturale delle
marche di un determinato paese o “made in” che sposano valori e discorsi e stereoti-
pi condivisi.
La transizione del branding

Come si è detto tale schema si fonda sulla distanza fondamentale


che separa le marche dei consumatori, ma ad essa cerca di ovviare
tramite un tono confidenziale, avvolgente e accomodante. La distan-
za non riguarda solo la sfera economica sulla quale, certamente, si fa
leva per ridurre il gap esistente tra il mondo raccontato dal brand e
quello vissuto dal consumatore. Così gli strumenti di riduzione del
prezzo dei prodotti sono incentivi all’acquisto ma anche il segno
della benevolenza della marca che tenta di estendere il suo ambito
d’azione su coloro a cui è stato promesso un pezzo di felicità ma allo
stesso tempo sottratto da quell’ostacolo specifico. La dinamica degli
sconti, che riguarda principalmente l’abbigliamento ma che investe
in vario modo tutte le tipologie merceologiche vincolate al criterio
dell’obsolescenza, è forse una delle più antiche. Essa subentra quan-
do il prodotto ha oramai esaurito parte del suo valore economico
determinato dalla carica simbolica del suo contenuto di novità. Su
questa linea opera il sistema dell’outlet (della moda, della casa ecc.)
che, a differenza degli sconti episodici o stagionali, istituzionalizza la
riduzione di prezzo come logica permanente. Per far questo è tenu-
to a offrire merci e collezioni di magazzino, oppure serie prodotte ad
hoc dalle aziende per quel determinato circuito. Dal punto di vista 133
dell’azienda si tratta di una formula vincente perché offre un circui-
to avvantaggiato per la distribuzione e perché consente di porre
rimedio alle fughe di prodotti verso circuiti non ufficiali (come mer-
catini o negozi dell’usato) che potrebbero incidere negativamente sul
valore e sulla percezione della marca. In questa forma di overbran-
ding, esternalizzata verso società specializzate o talvolta interna alla
stessa azienda, s’incontra un pubblico più esteso e particolarmente
sensibile alla leva del prezzo.
Si è parlato di thrift style per mostrare come il mercato dell’un-
branded e quello dell’usato si sono trasformati in una pratica cultu-
rale che distingue alcuni gruppi sociali sempre più estesi [Crewe
2001]. Si tratta di una tattica di deviazione della dipendenza dalla
marca e di riempimento del vuoto che si produce tra i consumatori
e gli oggetti a obsolescenza inoltrata, grazie alla creazione di un
nuovo valore aggiunto: quello che deriva dal vissuto dell’oggetto e
della sua appartenenza a una data epoca storica come ad esempio i
“mitici anni Sessanta”.

Tale passione per questa decade si estende tuttavia non solo ai vestiti e
ai dischi, bensì anche a tutti gli altri beni della casa. Emma, per esem-
pio, rivela il piacere che prova quando scopre questi articoli: “possiedo
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un vecchio nastro adesivo, plastilina degli anni Sessanta […] ogni pic-
cola sciocchezza ci dà un piacere enorme, trovare i francobolli degli
anni Sessanta è la parte migliore della giornata… e già sai che un altro
giorno l’apice sarà una cravatta” [Gregson, Crewe 2003].

La dipendenza del consumatore dal brand attraverso il doppio


vincolo, ci dimostra come tra i due livelli si instauri una dialettica
complessa di azioni strategiche e tattiche. In un certo senso la strate-
gia dell’azienda si fa tattica e cerca di abbattere ogni barriera di sepa-
razione tra consumatore e marca, mentre l’azione del consumatore –
che è situata localmente – cerca di assumere una portata strategica.
Inoltre la questione del thrifting è cruciale perché, malgrado sia
ancorata alla questione del costo, ci mostra come il doppio vincolo
vada oltre l’ostacolo materiale del prezzo e sia analizzabile a partire
dal rapporto di inclusione/esclusione che fa gioco su leve culturali,
etniche, religiose. Ne è un esempio il case study affrontato da
Griswold [1997] sull’apertura di un franchising di McDonald’s in
Israele che deve decidere se proporre o meno cibo “impuro”.
L’autrice statunitense ha applicato il suo modello del “diamante cul-
134 turale” a tale situazione, enucleando i valori di riferimento dei pub-
blici chiamati in causa: da un lato i giovani dall’altro i religiosi. Se per
i primi “[…] uno pseudo Big Mac che fosse ‘religiosamente corret-
to’ sarebbe subito riconosciuto e probabilmente disprezzato” [ivi:
162], per i secondi sarebbe altrettanto negativo un prodotto non
rispettoso dei loro principi. Il problema sta nella scelta tra due pub-
blici ma soprattutto tra due sistemi di valori. Dove i primi riconosco-
no e accolgono il contenuto originario dell’oggetto, considerandolo
moderno, americano, fresco, giovane, di tendenza, ai secondi non
resta che condannarlo come impuro, non ebreo, estraneo, assimila-
zionista. In altri termini “[…] il dilemma dell’uomo d’affari israelia-
no esemplifica un tema comune: la conciliazione della cultura globa-
le con quella locale” [ivi: 162]. Ma la logica con cui Griswold esami-
na questo caso è troppo lineare. All’aumentare delle opportunità
offerte da un target diminuiscono quelle della offerte dal target op-
posto. Spesso accade che le dinamiche di consumo tendano a so-
vrapporre scelte che al di fuori di quella cornice sarebbero inconci-
liabili. Altrimenti non sarebbe spiegabile la smania di acquisto delle
griffe del lusso nei negozi di Dubai, dove le clienti sono comunque
tenute a occultare, sotto le vesti tradizionali, il lusso e la “lussuria” di
una certa moda occidentale. Oppure, in senso inverso, non si capi-
rebbe come i giovani islamici che vivono in Europa, siano maggior-
La transizione del branding

mente propensi ad adottare costumi più morigerati e più legati ai


dettami della tradizione e della comunità di appartenenza, sul mo-
dello della comunità immaginata già discussa da vari storici e an-
tropologi.

> Il circuito metonimico: la funzione della marca tra immaginario


e vita quotidiana

Il rapporto tra il mondo della vita quotidiana e l’immaginario col-


lettivo è materia di approfondimento da parte di molti esponenti del-
le scienze umane. In alcuni casi la riflessione ha insistito su situazio-
ni intermedie in cui non è possibile separare nettamente una di-
mensione dall’altra. Specialmente la filosofia francese ha insistito
sulla profonda sovrapposizione tra la dimensione del quotidiano e
quella dell’immaginario. Con il concetto di rêverie, ad esempio, Ba-
chelard [1972] ha tentato di superare e risolvere tale antinomia,
dimostrando come la creatività che irrora la vita quotidiana si spri-
giona a partire da uno stato di non completa veglia o meglio di per-
manenza del mondo onirico nella dimensione pragmatica dell’agire. 135
Di Marcuse è invece celebre il modo in cui il sistema economico
tende a valorizzare da un punto di vista mercantile la libido, depi-
stando la vocazione libertaria che è alla base del principio di piacere
verso un principio di realtà regolato da istanze utilitaristiche e da una
logica strumentale. In questo senso, la funzione mediatrice del con-
sumo è di tipo verticale e unidirezionale. Esso infatti traduce pulsio-
ni ed emozioni che si generano nella sfera intima per trasformarle,
attraverso le forme della pubblicità e della merce, in pezzi d’arredo
dell’immaginario collettivo. Il concetto di “desublimazione repressi-
va”, discusso in Eros e civiltà [1964] è dunque una deviazione del
desiderio verso i canali del consumo o anche una messa a lavoro del
desiderio.
ˇ ˇ [2008] che al
Ben diversa è la più recente prospettiva di Zizek
posto di attingere alla tradizione freudiana fa diretto riferimento a
Jacques Lacan, nell’idea che il linguaggio sia una “totalità chiusa”. In
quanto tale, esso si articola in modo diverso a seconda delle circo-
stanze. Così possiamo definire almeno tre domini di applicazione del
linguaggio che sono: il reale, il simbolico, l’immaginario. A differen-
za della concezione comune, la realtà non sarebbe quel sostrato duro
su cui poggiano le nostre esperienze di vita ma semplicemente una
“smorfia” del reale che è invece definito come un “sole accecante”
1. Il “diamante culturale” nell’analisi di W. Griswold.

> 1.
Mondo sociale

Creatore Ricevitore

Oggetto culturale

136 perché è impossibile guardarlo in faccia senza rimanere abbagliati59.


Ma il filosofo sloveno porta alle estreme conseguenze il ragionamen-
to lacaniano: il reale non è più l’inaccessibile che si nasconde dietro
i fenomeni concreti ma è lo “scarto che separa due fenomeni incon-
sistenti” [ivi: XXVII]. Con l’irruzione dell’evento unico, tragico e irri-
ducibile, ci rendiamo conto che reale e immaginario non sono poi
così distanti ma connessi. In altri termini l’irriducibilità dell’evento –
ad esempio quell’assurdo cortocircuito tra realtà e fiction che ha
dato vita all’11 settembre – sfonda la “rete di protezione del simbo-
lico, passando direttamente dall’immaginario al reale” [Carmagnola
2006: 51].
Decisamente più vicino alle finalità di questo libro è il lavoro di W.
Griswold [1997], che con il suo “diamante culturale” delinea il siste-
ma di relazioni che intercorre tre creatori (le marche), ricevitori (i
consumatori) e oggetto culturale (il prodotto) sui quali svetta il cosid-
detto “mondo sociale” che include sia l’immaginario di vocazione
strategica o “egemonica” dei produttori sia quello tattico o subalter-

59. “The standard Lacanian notion is that of reality as Grimace of the Real: the Real
is too unattainable traumatic Kernel-Void, the blinding sun into which it is impossible
to look face to face, perceptible only if we look awry, from the side, from a distorted
ˇ ˇ 2008: XXVII].
perspective – if we look at it directly, we get ‘burnt by the Sun’” [Zizek
La transizione del branding

no dei ricevitori. Sebbene nella prassi concreta i due concetti di


immaginario e vita quotidiana siano profondamente imbricati, quan-
do li intendiamo come costruzioni idealtipiche essi manifestano gap
e divergenze che rendono necessario il ricorso a un termine interme-
dio per illustrare le linee di connessione tra l’uno e l’altra. Tra queste
possiamo collocare un’ulteriore entità che oggigiorno svolge una fun-
zione prioritaria nel trasformare archetipi in luoghi comuni e stili di
vita in modelli di comportamento socialmente condivisi: la marca.
Forse non è del tutto corretto assimilare la marca a una Leben-
swelt60, laddove essa è più vicina al concetto di “istituzione” nel
senso fenomenologico/interazionista, che pertanto si genera dal pro-
cesso di “tipizzazione reciproca di azioni consuetudinarie da parte di
gruppi di esecutori” [Thompson 1998: 29] oppure da quello di “ac-
cumulazione intensiva di una certo genere di risorsa” [Berger, Luck-
man 1996: 83]. La marca difatti si edifica a partire dal tessuto della
vita quotidiana come proiezione e oggettivazione di una serie finita
di significati. Il suo progetto è evoluto da mero segno distintivo di un
valore mercantile a quello ben più complesso di sistema di riconosci-
mento della sua responsabilità sociale che implica un confronto
costante con l’orizzonte dell’etica [Fabris, Minestroni 2004]. La sua 137
valenza socioculturale comunicativa rispetto ai territori del quotidia-
no muta radicalmente nel passaggio dalla profusione alla diluizione.
Nella tavola 1 si evidenzia come la marca in quel periodo fungesse
da traduttore capace di innestare nello sfondo esperienziale della vita
quotidiana le tracce di racconti che rimandavano a personaggi, atmo-
sfere e valori peculiari di un’umanità “superiore”. Alcuni aspetti ca-
ratteristici delle routine produttive dell’industria culturale, nelle lettu-
re di McLuhan e Morin, sono condotti sino alle estreme conseguen-
ze: la tendenza a trasformare archetipi in cliché e quella a intensifica-
re il rapporto di identificazione/transfert tra divo e spettatore61. Ma
l’epoca della profusione si annienta con le proprie forze, nell’impos-
sibilità di rallentare un processo di dissipazione dell’immagine e della
presenza sociale della marca, portato sino alle estreme conseguenze.

60. “Perché la marca è un Kòsmos, un Lebenswelt, la sua straordinaria estensione di


significati e di dimensioni simboliche è la dimostrazione tangibile di tanta vitalità”
[Fabris, Minestroni 2004: 198]. Ma al contrario di quello che sostengono gli autori
qui vorrei dimostrare come la marca non è tutto questo bensì tende ad esserlo solo a
partire dalla fase avanzata del suo sviluppo, che coincide con il nostro presente.
61. Non a caso la cultura pop che si sviluppa a partire dalla nuova fase si concentra
su alcuni tipi sociali come lo stalker del video Stan di Eminem che è prodotto dalla
degenerazione psicologica del rapporto di dipendenza tra pubblico e star.
Tavola 1. La marca come traduttore
Fase della profusione (anni ’80)

Personaggi Immaginario Vita quotidiana


- Miti
- Eroi
- Personaggi storici
- Divi (testimonial)
Atmosfere
- Lusso
- Lussuria
- Seduzione
- Trasgressione marca come traduttore
Valori
- Successo
- Distinzione
- Prestigio
- Potere

138 Non a caso la mostra curata da Frisa (2004) sugli anni Ottanta porta-
va il nome di Excess, chiave di volta dell’intero decennio.
Da quella crisi, che non è stata solo culturale e comunicativa ma
forse prevalentemente economica, si è generata una nuova visione
che ha ripensato la marca e la sua relazione con il contesto sociale.
Nella fase della diluizione assistiamo a una radicale mutazione della
marca che si è trasformata in un “mondo possibile” capace di inglo-
bare significati e valori provenienti tanto dalla sfera dell’immagina-
rio quanto dalla vita quotidiana. Tanto da oggettivazioni sedimenta-
te nella cultura di una dato paese, quanto dalle pratiche culturali
spontanee, localistiche, idiosincratiche. Già in passato il quotidiano
era oggetto di interesse da parte della comunicazione commerciale se
si pensa a Barilla che “mette in scena una serie di soggetti pubblici-
tari (‘Treno’, ‘Gattino’, ‘Fusillo’…) dove la pasta diviene sinonimo di
famiglia, di calore e serenità, di valori autentici da condividere”
[Musso 2003]. Tuttavia le modalità con cui esso veniva condotto nel
cuore della messa in scena erano piuttosto artificiose, faziose, affabu-
latorie, inautentiche62. Queste restituivano un’immagine edulcorata e

62. Si pensi alla fantomatica famiglia perfetta del Mulino Bianco, oppure al caffè
Kimbo ecc. tanto fustigate dai comici del periodo e in particolare dai Broncovitz nella
prima serie di Avanzi.
1. L’immaginario inquietante d’inizio anni Novanta del gruppo comico Broncovitz con la
parodia di ACE che diventa AIACE.

1. <

“ripulita” simbolicamente degli elementi più problematici del quoti- 139


diano inteso come alterità rispetto alle logiche dello spettacolo. Nel
corso degli anni Novanta matura una nuova sensibilità che induce le
marche ad approntare nuovi strumenti per intercettare e sfruttare la
risorsa dell’autenticità che si produce nella vita quotidiana. A parti-
re da questa, difatti, si possono rigenerare non solo i livelli di super-
ficie ma anche quelli più profondi che compongono l’identità della
marca, sino a modificare, anche se solo parzialmente, lo stesso nu-
cleo assiologico. In quanto proposizione aperta e negoziale, la marca
si predispone ad accogliere questa vastità di contenuti che provengo-
no dalla sfera socioculturale. In tal modo si compie quella maturazio-
ne da mera traccia denotativa o segnaletica di un dato prodotto a
dispositivo che produce, lavora e distrugge “modi d’essere” piutto-
sto che stili di vita.

Dal linguaggio di cose reputate necessarie – che è la forma di espressio-


ne della pubblicità referenziale e informativa – si è passati progressiva-
mente a cose che simboleggiano uno status sociale, poi a cose che rea-
lizzano “stili di vita”, in cui i valori qualitativi subentrano al prestigio e
anche a quelli funzionali, infine a cose che simboleggiano la mobilità e
la varietà dei modi d’essere, l’elaborazione dei lessici familiari o indivi-
duali e di gruppo [Abruzzese 2001: 229].
1. Alcuni dei supereroi non ortodossi di Mistery Men.
2. Bruce Willis scopre progressivamente i suoi poteri e i suoi “banali” nemici in Unbreak-
able.

> 1. > 2.

140 La marca diventa un dispositivo capace di trasformare con reci-


procità i contenuti provenienti dal vissuto collettivo, dalle comunità
altamente localizzate nei contesti territoriali, dalle sottoculture gio-
vanili. Dopo aver dilatato il suo campo di significazione sul versante
dell’immaginario, per recuperare e divulgare contenuti “aulici”
attraverso un’ispirazione che va dal pop, al camp, al postmoderni-
smo, ora essa tende a lavorare direttamente i materiali offerti dai
molteplici luoghi dell’esperienza concreta. Dunque nuovi personag-
gi che non hanno nulla a che vedere con i divi ma sono persone
comuni, oppure antieroi, nerd o addirittura “supereroi sfigati”63. Le
atmosfere sono intime, confidenziali (ma non retoriche come nella
fase precedente), originariamente quotidiane. L’utilizzo dell’ironia è
lo strumento che consente di abbattere la barriera di sospetto e dif-
fidenza che separa il contesto del consumo da quello della produzio-
ne [Barile 2004]. La strada diventa icona che veicola molteplici valo-
ri a maggior contatto con la concretezza della vita di ogni giorno.

63. Mi riferisco all’impatto che ha avuto sull’immaginario globale la nuova estetica del
supereroe “sfigato”, dal film Mistery man di Kinka Usher, ai protagonisti del video-
clip Sexx laws (1999) di Beck, oppure al film Unbreakable in cui Bruce Willis inter-
preta il ruolo di un comune mortale che scopre progressivamente i suoi poteri. Fino
all’impatto recente sullo stile italiano come si evince – tra gli altri esempi – dal logo e
dagli spot del canale Boing.
Tavola 2. La marca come commutatore
Fase della diluizione (anni ’90)

Personaggi Immaginario Vita quotidiana Personaggi


- Miti - Persone
- Eroi comuni
- P.storici - Antieroi
- Divi (testimonial)
Atmosfere Atmosfere
- Lusso - Quotidiano
- Lussuria - Intimità
- Seduzione - Strada
- Trasgressione marca come commutatore
Valori Valori
- Successo - Autenticità
- Distinzione - Ironia
- Prestigio - Realismo
- Potere

Spesso l’estetica lo-fi aiuta ad allestire un contenuto di autenticità 141


che rende peculiare il progetto di una nuova marca; come accade per
i primi spot di Fastweb – famiglie di teste cartonate con musiche dei
Ramones – oppure nelle campagne di Blu. In altri casi gli stessi mezzi
servono per dare nuovo appeal a marche già famose, come allora
fece Sprite con la campagna “Ascolta la tua sete” e più recentemen-
te con Video Attack, oppure McDonald’s con l’evento Advance
Warning.
Non a caso una delle teorie del marketing che riflette sulle impli-
cazioni di questa svolta culturale, è tenuta a recuperare le disquisi-
zioni di un filosofo come M. Maffesoli [2003] circa l’estetica comu-
nitaria per trovare nuova ispirazione creativa. Il tribal marketing di
B. Cova incontra uno sterminato campo di applicazione e un eleva-
to consenso (consapevole o meno) tra la “comunità” di brand mana-
ger e di direttori marketing di aziende quali Nike, Nokia, Mc
Donald’s, Red Bull ecc.
Nel caso del lancio della campagna di Renault Clio Welcome to the
community è ancora la pubblicità in senso stretto a prevalere integra-
to però dal sito web e dalla presentazione in alcuni eventi live. Lo
spot – che è anticipato da una fase teaser – racconta degli spaccati di
vita di personaggi che vivono negli intertizi del sistema sociale, figli
di un Dio minore che nella sequenza sono distanti e disparati ma che
1. Il logo/marchio che identifica la campagna della Clio Community.

> 1.

142 condividono una passione segreta. Non a caso il logo che contraddi-
stingue il progetto è ricavato dalla pratica sottoculturale del bran-
ding e, alla stregua di una impressione a fuoco, evidenzia il legame
inestinguibile tra il prodotto (la Clio), il consumatore (antieroi lega-
ti da una passione che trascende le mode) e la marca che gestisce
attraverso uno stile innovativo e antipresenzialista questo mondo di
significati. Ma la necessità di irrorare il territorio della marca trami-
te contenuti e vissuti provenienti dalla vita quotidiana fa addirittura
saltare in aria il canale un tempo privilegiato dell’advertising per
indurre alla sperimentazione di nuove modalità più partecipative e
coinvolgenti di comunicazione. Da qui l’efficacia dell’organizzazione
di eventi nella gestione, da parte del brand, di una “emozione condi-
visa” [Cova 2003]. L’insieme di trasformazioni che si originano a
partire dalla fase della diluizione danno vita a un triangolo feticisti-
co composto per l’appunto da:

- una crescita di complessità del contesto del consumo


- la progressiva feticizzazione delle merci
- una dilatazione del campo semantico della marca verso molteplici
ambiti della vita quotidiana.

La trasformazione della natura della marca è implicata in un tripli-


La transizione del branding

ce processo che è innescato dalla variabile indipendente dell’emer-


sione di una nuova figura di consumatore [Fabris 2003]. A ben vede-
re difatti l’affermazione di un consumatore più autonomo e compe-
tente fa sì che questo possa sentirsi più libero di investire simbolica-
mente sull’oggetto merce per trasformarlo, feticisticamente, in qual-
cosa d’altro. Così la marca, piuttosto che limitarsi banalmente a for-
nire un’anima ai suoi prodotti, è tenuta a estendere il suo campo
semantico sullo spazio esperienziale del consumatore per recuperare
informazioni sulle sue modalità di feticizzazione della merce. Attra-
verso l’incorporazione del consumatore nel suo territorio, la marca
riproduce una diade originaria che ricalca quella fondamentale di
madre-figlio.
La marca si contraddistingue dalle altre istituzioni per un uso
pressoché totalizzante, nella sua relazione col pubblico, della comu-
nicazione metonimica. Ciò a riprova del suo radicamento nella gram-
matica profonda dello sfondo esperienziale. Dagli studi di Lacan
sulla patologia dell’afasico, si evince che la prima e la più originaria
forma di astrazione linguistica è quella dell’articolazione metonimi-
ca. Solo successivamente, a un livello successivo di crescita e di
maturazione del soggetto, subentra una proprietà linguistica che fa 143
uso di metafore.

A leggere i retorici ci si rende conto che non arrivano mai a una defini-
zione pienamente soddisfacente della metafora, come della metonimia.
Donde risulta per esempio che la metonimia è una metafora povera. Si
potrebbe dire che la cosa è da prendere nel senso assolutamente contra-
rio – la metonimia è in principio, ed è lei a rendere possibile la metafo-
ra […]. Che cosa è più primitivo come espressione diretta di una signi-
ficazione, cioè di un desiderio, di quel che Freud riferisce della sua ulti-
ma figlia? Ecco qualcosa che ha l’aria di essere del significato allo stato
puro. Ed è la forma più schematica, più fondamentale della metonimia
[Lacan 1986].

La metonimia in quanto base del linguaggio è uno strumento di


connessione tra l’esperienza onirica e quella pratica, tra il “carattere
concreto del linguaggio del bambino” e la sua vocazione surrealista64.

64. Su questo punto Lacan ci sorprende con la constatazione che il bambino sia capa-
ce di comprendere e apprezzare la pittura surrealista o il cubismo di un Picasso quan-
do questi si esprimono attraverso metonimie, dato che egli non può ancora cogliere
il senso della metafora.
Brand New World

La marca sfrutta il radicamento della metonimia nella struttura


antropologica primaria del linguaggio e articola tale procedimento
nei molteplici livelli che costituiscono la sua architettura interna e il
suo rapporto con l’esterno. Oltre all’advertising, che come si è visto
fa ampio uso di tale retorica, essa interviene principalmente sui
seguenti livelli:

1. intra mondo
- identità della marca
- nome o logo/mondo della marca
2. mondo/prodotto
3. mondo/consumatore

In primo luogo la stessa organizzazione interna alla marca, adotta


tale principio, specialmente in riferimento ai tre livelli costitutivi
indicati da Semprini [1994]. Difatti tra il nucleo assiologico e i livel-
li narrativo e superficiale s’instaura un rapporto di sostituzione di
parte al tutto affinché i valori del nucleo assiologico, mutuati dal
contesto socioculturale di riferimento, possano essere prima rappre-
144 sentati da alcuni racconti o da alcuni topoi, per poi essere interpre-
tati da persone concrete, da storie specifiche, da luoghi geografici
ecc. tanto che in ogni frammento si ritrova il senso della totalità del
mondo di riferimento.
Per ciò che concerne gli elementi interni al campo semantico pri-
mario della marca troviamo la relazione tra il nome o tra il logo e il
mondo che essi rievocano. Anche in questo caso si tratta di un pro-
cedimento di sostituzione che fa leva sulla capacità del simbolo o del
naming di rievocare le proprietà del nucleo assiologico o meglio “il
nome del brand è – di fatto – la metonimia del patrimonio di senso
che la marca ha accumulato e capitalizzato nel suo divenire” [Fabris,
Minestroni 2004: 214]. Esempio classico: il baffo/ala della statua
greca che simboleggia la vittoria (Nike appunto) filtrata attraverso il
pragmatismo americano per veicolare l’ideale della competizione
pura.
Anche la relazione tra il mondo e il prodotto segue la medesima
logica in quanto, soprattutto oggi, il packaging si caratterizza come
un medium tout court che veicola significati o, ancora meglio, intro-
duce il consumatore al mondo della marca utilizzando la forza della
sinestesia [Ferraresi 2003]. Non a caso nel film Minority Report di
Spielberg (2002), il progresso tecnologico realizza una sorta di ege-
monia della cultura visuale cosicché persino le superfici dei vari pack
1. Le confezioni di cereali intrattengono il protagonista di Minority Report.

1. <

funzionano come schermi usa e getta che trasmettono contenuti di- 145
namici65. Sulla stessa linea l’ultima pubblicità di Estathè precipita lo
spettatore in un paradiso estivo e ludico al suono di musica reggae,
proprio attraverso l’espediente di un’etichetta che si apre all’espe-
rienza del consumatore/turista e – come forse tutte le etichette pos-
sono fare – materializza i tratti distintivi di quel mondo possibile.
Infine, come già illustrato, la relazione mondo/consumatore tende
a incorporare esperienze soggettive66, relazioni sociali profonde,
sistemi di valori e di linguaggi e talvolta sconfina nell’ambizione peri-
colosa, ma comunque presente, di un’identificazione totale tra il
sistema di valori della marca e quello dei consumatori. In altri termi-
ni si sta verificando “un passaggio dalla marca che mostra di vivere
come vorrebbe vivere il consumatore a quella che fa vedere di pen-
sare esattamente come quest’ultimo” [Codeluppi 2004: 25].

65. Anche nel videoclip di animazione Remind me dei Royksoop, dedicato non a caso
all’universo dei consumi, le confezioni si animano e intrattengono la protagonista
mentre fa colazione [Barile 2004].
66. A tal proposito è di particolare importanza l’operazione Yomango, antibrand
creato dal collettivo Las Agencias per criticare l’esasperazione del meccanismo di
identificazione coatta indotto branding, che ambisce a trasformare ogni consumato-
re in un cittadino onorario di quel dato mondo (Yo Nike, Yo McDonald’s, Yo Mtv,
… Yomango) [Barile 2005].
Tavola 3. Il circuito metonimico

Immaginario

Corpo della madre


(la marca)

Reificazione contenuti Investimento affettivo


astratti depositati su oggetti di
nell’immaginario consumo quotidiano

Corpo del figlio


(il consumatore)

Vita quotidiana

146 Applicando l’articolazione metonimica ai tre livelli menzionati, la


marca tende a ripristinare o a simulare nello spazio del consumo la
relazione madre-figlio, appunto una diade fondamentale di rilevante
potenza simbolica. Ciò avviene quando essa si fa capace di surroga-
re il ruolo della madre e delle successive agenzie di socializzazione,
nella mediazione tra le astrazioni dell’immaginario collettivo e la
strutturazione identitaria dei consumatori. Se, come si è visto, il dop-
pio vincolo batesoniano può mostrarci la disgiunzione tra il sistema
valoriale del consumatore e quello proposto dalle marche, ovvero le
possibili exit strategy nella dipendenza dal brand [Barile 2004], il
discorso lacaniano ci illustra quanto sia ontologicamente fondata tale
relazione e quanto sia potente la capacità della marca di incorporare
e gestire i vissuti effettivi del suo pubblico. La tavola 3 descrive la
marca come commutatore che opera all’interno di un “circuito
metonimico” [Barile 2006] composto da un movimento circolare
alternato. Da un lato il consumatore è impegnato a simbolizzare la
realtà quotidiana che lo circonda attraverso un investimento eroti-
co/affettivo che sovraccarica di senso gli oggetti banali d’uso quoti-
diano. Ovvero nel tentativo di colmare un vuoto relazionale prima-
rio, innesca una catena di associazioni metonimiche che lo ricondu-
ce alla fusione originaria con il corpo della madre. Dall’altro lato,
invece, la madre/marca tende a reificare i contenuti astratti sedimen-
La transizione del branding

tati nell’immaginario per restituirli al consumatore sotto forma di


racconti e di pattern performativi che saranno ulteriormente inter-
pretati e attualizzati nel quotidiano e daranno vita a un nuovo ciclo
di investimento/attualizzazione. In altri termini la commutazione
metonimica è alla base di una sensibilità feticista che, proprio attra-
verso la moltiplicazione e l’affermazione delle marche, ha abbando-
nato il suo status di pratica deviante (individuale o settaria), per tra-
sformarsi in un orientamento collettivo.

> Per una fenomenologia del consumo come esperienza: tra para-
digma turistico e storytelling

La concezione semiotica della marca, con i suoi punti di forza e di


debolezza, ha convinto le comunità degli studiosi, degli uomini di
marketing e dei divulgatori per lungo periodo, tanto da trasformarsi
in una verità apodittica. Ma nella fase avanzata del sistema dei con-
sumi, la marca può ambire a qualcosa di ancora più estremo, abban-
donando quella distinzione tra materiale e immateriale, tra immagi-
nario e quotidiano, su cui ha edificato la sua potenza comunicativa e 147
ha guadagnato il consenso da parte del suo pubblico di riferimento.
A tal fine può addirittura trasgredire parzialmente o integralmente
quelle regole che hanno determinato il suo stesso funzionamento e la
sua efficacia comunicativa tra le quali quella fondamentale della coe-
renza. Mi riferisco al modo in cui la marca oggi può diventare reale
ma non semplicemente nell’ideale baudrillardiano di iperrealtà
simulacrale (il “more real then real”), bensì nel senso comune del
termine. Già Marrone [2007], ha riflettuto sulla eccessiva distanza
dalla realtà pratica dell’agire quotidiano di una simile concezione di
marca, prediligendo all’idea di “mondo possibile” quella pur sempre
sempriniana di “progetto di senso” [ivi: 15] e muovendo, ancor più
radicalmente, verso l’idea di “istanza discorsiva” [ivi] che consenti-
rebbe di superare l’opposizione tra la marca come fiction e la marca
come realtà concreta.

I mondi possibili […] non sono universi totalmente immaginari ma


mondi fittizi che, per tutto ciò che ricostruiscono esplicitamente al loro
interno, restano parassiti del mondo effettivo della nostra esperienza,
dipendono dunque fortemente proprio da quella realtà che vorrebbero
superare, e che a essa tornano molto spesso. Le marche non hanno que-
sta prerogativa, poiché s’innestano direttamente nell’esperienza quoti-
Brand New World

diana del consumo e, in generale, nella vita quotidiana, contribuendo ad


articolarla, dunque a dotarla di qualche spessore di senso [Marrone
2007: 14].

A prescindere dalla particolare “aggressività” del ragionamento di


Marrone, che sorvola sul meccanismo circolare di relazione tra brand
identity e brand image discusso da Semprini [1994], evidenzierei con
maggior interesse l’istanza di superamento dell’ideale di marca fic-
tion, alla quale andrebbe assegnata una precisa collocazione storica.
In altri termini tale passaggio riguarda la fase avanzata della diluizio-
ne del consumo, quando la marca si trasforma da “generatore di
mondi possibili” in “ambiente plausibile”. Più avvolgente e intima di
un racconto o di un sistema di valori astratti, ancor più presente di
una celebrità e più empatica di un confidente fidato, più cogente di
un’esperirenza affettiva o di un ambiente vissuto, essa può trasfor-
marsi in un concreto mondo di vita in cui il consumatore fa esperien-
za di sé. L’ambiente plausibile sfrutta l’intreccio tra molteplici cana-
li di comunicazione per creare un effetto di realtà autentica. Essa
lavora sul superamento della contrapposizione tra un orizzonte
148 mediale che sfrutta canali artificiali gestiti da apparati e un orizzon-
te di vita che contraddistingue la comunicazione spontanea delle
persone. I media pertanto cessano di essere canali o veicoli e si tra-
sformano in linguaggi che definiscono, alla stregua di quelli natura-
li, un preciso ambiente d’interazione67.

Contesto Barriera Contesto


della produzione di separazione del consumo

Profusione: Diluizione: Postuman marketing:


marca come mondo marca come commutatore marca come
possibile d’esperienza ambiente plausibile

67. A tal proposito l’analisi di Meyorowitz [1984] sull’interazione sociale mediata dai
media elettronici parte dal presupposto che l’ambiente dove avviene l’interazione
non è delimitato tanto da barriere fisiche ma soprattutto informazionali.
La transizione del branding

La questione del “capitale di esperienze” è pertanto centrale sia


nello sviluppo dei prodotti “materiali” sia nella produzione di conte-
nuti mediali. È così che il marketing e le teorie del management sco-
prono un concetto caratteristico della fenomenologia filosofica e
sociologica: appunto quello di esperienza. Già nei capitoli preceden-
ti sono emersi alcuni riferimenti alla fenomenologia. Il primo quando
si è parlato di “province chiuse di significato” per indicare come,
nella fase dell’accoglienza, il sistema dei consumi interviene su alcuni
ambiti della vita quotidiana, ne isola e ne enfatizza alcuni aspetti per
riformularli in nuove cornici che si definiscono come momenti di
consumo. In secondo luogo il concetto di istituzione [Berger, Luck-
man 1996] può essere utile a capire come alcune pratiche condivise si
trasformano in un’entità che inizialmente si presenta sul mercato
come innovativa e non riconosciuta ma che ambisce, successivamen-
te, a un maggiore livello di legittimazione da parte del pubblico che
le conferisce un valore aggiunto extraeconomico e addirittura affetti-
vo (come è accaduto a tutte le grandi marche globali o a piccole mar-
che di culto). Il terzo concetto che deriva dalla riflessione fenomeno-
logica è quello di vissuto o di Erlebnis che non indica una modalità
generica di esperienza ma che si basa sulla funzione essenziale dell’in- 149
tenzionalità. Paolo Jedlowski [2005] ha riflettuto sulle parole tede-
sche che traducono questo concetto, con particolare riferimento
all’opera di due grandi sociologi. Se Simmel (come anche i fenome-
nologi più tardi) opta per l’uso di Erlebnis, Benjamin predilige inve-
ce il temine Erfahrung. Si tratta di una “[…] parola antica, che pro-
viene dai mondi dell’artigianato e che i romantici usavano per inten-
dere il cammino con cui un uomo esce da sé e affronta il mondo” [ivi:
41], preferita da Benjamin all’altra che sarebbe più recente e in un
certo senso modaiola. Il vero motivo per cui l’autore opera tale sosti-
tuzione è che questa: “[…] rende conto di una trasformazione epoca-
le: il venire meno della capacità dei soggetti di imparare dalla propria
esperienza. […] In questo mondo ciascuno fa molte esperienze ma
non possiede esperienza” [ivi]. L’approccio “tradizionalista” di Jed-
lowski ci spiega in parte come mai un’idea così importante e solida
possa trasferirsi dalla filosofia al marketing. Il marketing nella sua fase
matura, difatti, dopo aver mutuato strumenti dalla sociologia, dalla
psicologia e dall’antropologia (ad esempio come l’etnografia), ha
deciso di fare patrimonio di un concetto eminentemente filosofico.
Uno degli aspetti fondamentali dell’analisi fenomenologica dei
contenuti d’esperienza, si basa sulla questione fondamentale della
intersoggettività. Il concetto di esperienza difatti non è comprensibi-
Brand New World

le se non come momento d’intersezione tra lo spazio psicologico sog-


gettivo e quello oggettivo, tra l’ambiente esterno che ospita il consu-
matore e quello interno, per così dire psichico. Rispetto al rapporto
soggetto/ambiente, gli studiosi del marketing esperenziale fanno
spesso riferimento alla psicologia cognitivista. È pertanto utile riflet-
tere sulla nozione di “campo psicologico” formulata da Lewin che è
stato uno dei padri della psicologia cognitiva. Con tale nozione, lo
studioso tedesco intende sia uno spazio mentale che differisce da
soggetto a soggetto, sia un luogo d’azione in cui il soggetto è calato.
La percezione di ciò che avviene nel campo psicologico, della sua
definizione più o meno dettagliata, è difatti una variabile dipenden-
te dallo stato emotivo del soggetto. L’esempio classico del soldato in
guerra, il cui campo psicologico è molto più nitido e definito di quel-
lo di un comune passeggiatore, è la dimostrazione di come lo stato
emotivo modifichi la consistenza stessa dell’ambiente e influenzi il
tipo di azione che su di esso si compie [Amerio 1982]. Ma le emo-
zioni non sono solo un oggetto della psicologia o della psicologia
sociale, in quanto la stessa sociologia ha recentemente valorizzato
tale aspetto della vita sociale. La sociologia moderna non nasce solo
150 come metodo d’indagine del processo di burocratizzazione delle
aggregazioni umane ma si sviluppa, di pari passo, anche come bran-
ca che vede nelle emozioni un elemento distintivo dell’esperienza
borghese, capitalista, urbana. Se Weber è passato alla storia come un
sociologo “hard”68, Simmel è più programmaticamente sbilanciato
verso l’indagine del substrato di emozioni che fonda l’esperienza del-
l’abitante della metropoli69. Ciò che tale orientamento pone in essere
è la relazione fondamentale tra esperienza ed emozione. Rispetto a
un’impressione superficiale i due concetti parrebbero distanti e sim-
metrici: esperienza come momento esteriore e oggettivo, emozione
come momento introspettivo e soggettivo. La riduzione fenomeno-
logica fa saltare tale separazione è salda i due momenti e i due con-
cetti ad essi riferiti. Così risulta inutile suscitare un’emozione senza
che questa si fissi in un momento preciso, in un dato luogo, attraver-
so un certo legame sociale ecc.
Nel suo recente lavoro Eva Illouz [2006] sostiene che le emozioni
irrompono nella sfera pubblica, nelle organizzazioni aziendali e nel
68. Nonostante fondi la sua analisi dello spirito capitalista borghese a partire da una
variabile extraeconomica come il senso di angoscia che il protestantesimo pone nel-
l’individuo rispetto alla sua concezione della divinità.
69. Si veda a tal proposito Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Arman-
do Editore, Roma 1995.
La transizione del branding

mercato, grazie soprattutto alla diffusione della retorica psicologica


e al suo sostegno offerto allo strumento della comunicazione lingui-
stica. Tuttavia, se ancora negli anni Venti (fase della diffusione) essa
si limitava a prescrivere comportamenti di apertura e di valorizzazio-
ne emotiva ai lavoratori delle imprese, solo con gli anni Settanta e in
congiunzione con la visione femminista, essa ottiene effetti di mag-
giore intensità e incide sulla cultura del periodo. Si delinea in tal
modo quel che l’autrice chiama “ontologia emozionale”: un proces-
so di valorizzazione pubblica delle emozioni che inizialmente è stato
indotto indirettamente dall’avvento del sistema capitalistico ma che
è cresciuto di potenza con l’avvicinarsi al nostro presente.

Tale razionalizzazione dei legami sentimentali ha dato origine a una


“ontologia delle emozioni” ovvero all’idea che le emozioni possano esse-
re disgiunte dal soggetto a fini di chiarimento e di controllo […] e ha
reso i rapporti affettivi commisurabili, ovvero accessibili ai processi di
spersonalizzazione. Aumenta la possibilità che le emozioni perdano la
loro identità per essere valutate in base a criteri astratti [Illouz 2006: 69].

Fino all’intero arco della “profusione”, tale processo resta comun- 151
que confinato all’interno dei perimetri delle aziende e delle istituzio-
ni oppure si traduce socialmente nei fantasmi della mercificazione,
dell’isolamento, della incomunicabilità, ma con la fase successiva
esso evolve sorprendentemente. Non solo grazie all’apertura delle
membrane chiuse delle aziende, ma anche tramite un concetto di
comunicazione divergente da quello maturato in fase fordista o gene-
ralista. Dapprima la scoperta dell’affettività come requisito fonda-
mentale della relazione tra marche e consumatori cambia completa-
mente le strategie aziendali, poi l’idea che la fonte della creatività e
dell’innovazione possa essere l’esperienza stessa dei consumatori e le
emozioni che al suo interno si producono [Salmon 2008]. Da una
concezione ancora tutto sommato aziendalista della marca, si passa
più recentemente alla totale disseminazione della logica del branding
negli interstizi della società. Il branding del territorio, della metropo-
li, della politica delle istituzioni non profit, il culto delle celebrities,
il selfbranding di persone comuni, marginali o disagiate, sono tutte
espressioni di questa dilatazione della marca al dì là delle logiche
aziendali. Essa si trasforma in linguaggio e metodo di gestione della
propria presenza nel mondo. Quando si parla di marketing delle
esperienze, si può dunque scomporre il macroprocesso in due sfere
distinte d’influenza: quella proveniente dal mondo delle marche
Brand New World

effettive, quella proveniente dal mondo sociale. Nella prima prevale


il concetto di mondo esperienziale che diventa una risorsa rara, pre-
giata e non riproducibile per il marketing. Nell’altra sfera prevale il
punto di vista situato dei soggetti sociali interessati a cambiare la loro
posizione per trasfigurare la propria identità su un piano diverso
(quello delle marche). Il campo sul quale si giocano ambedue i movi-
menti speculari è quello dell’autenticità che viene trattata come
risorsa da reperire e/o simulare nel primo caso, oppure da esibire e
valorizzare, nel secondo.
La fondazione del marketing delle esperienze, a prescindere dalla
sua attualità ed efficacia nelle strategie aziendali, è a mio parere un
punto di svolta decisivo nella fase della diluizione, che chiarisce il
modo in cui il marketing-pensiero abbia stretto un chiaro sodalizio
con la filosofia da un lato e con la vita quotidiana dall’altro. Nella
fondazione teorica di Schmitt [1999], si fa difatti chiaro riferimento
al già citato concetto di Erlebnis e alla sua traduzione nella filosofia
di Merleau-Ponty e di Husserl. Dal primo Schmitt ricava la conce-
zione che il mondo non è un oggetto esterno al soggetto ma il campo
all’interno del quale si producono pensieri e percezioni [ivi: 60],
152 mentre con il riferimento a Husserl sull’intenzionalità dell’esperire
egli vorrebbe sostenere che l’esperienza è sempre indotta e mai auto-
prodotta (self-generated). Inoltre l’esperienza è sempre collegata a
un’emozione e nella maggior parte dei casi il nome di quell’emozio-
ne (come odio, amore, attrazione ecc.) è usato per descrivere l’espe-
rienza che vi è alla base. Questo dimostra l’ulteriore importanza del
livello cognitivo, cioè della consapevolezza e della riconoscibilità di
una esperienza/emozione, che prende forma e si articola nel linguag-
gio. Esso consente anche la trasferibilità e la comunicazione di quel
dato esperienziale – dunque la relazione con l’altro – ma anche la sua
trasferibilità in un contesto distante. Un impianto del genere lasce-
rebbe pensare a una vocazione per la complessità che è immediata-
mente confutata dall’autore. Sebbene difatti si potrebbero auspicare
esperienze di consumo intese come “strutture emergenti” (dunque
spontanee e auto-organizzate come sul modello delle Teorie del
caos), l’obiettivo del marketing è quello di ridurre la complessità e di
indurre determinate esperienze coerenti con il progetto del brand.
Lo schema SEM (Strategic Experintial Modules) si aggiunge ai più
datati modelli di analisi della gerarchia degli effetti e si compone di
cinque fasi: sense, feel, think, act and relate. Con il primo livello si
tende a stimolare uno o più sensi collegati al prodotto o al corpo della
marca. Ciò ovviamente varia a seconda del bene ma anche a seconda
La transizione del branding

del canale utilizzato, come ad esempio avviene nella campagna per


Magnum che al contempo enfatizza il primato della vista nel tentati-
vo di “coinvolgere anche gli altri sensi nella fruizione del filmato”
[Ferraresi 2008], attraverso l’espediente retorico della sinestesia. Con
il livello feel si tenta di informare la percezione del consumatore in
funzione del tipo di esperienza, “inducendo” emozioni intense, vivi-
de che s’imprimono possibilmente nella memoria del vissuto. Su que-
sto livello è forte la contraddizione tra un’istanza di apertura “filoso-
fica” del brand e la necessità deterministica di innescare delle cause
che producano solo e unicamente determinati effetti. Il caso Häagen-
Dazs Cafe in Asia e in Europa è particolarmente significativo per la
sua capacità di lavorare con il mood dell’amore romantico e di decli-
narlo attraverso i prodotti, il punto vendita, la tessere di fidelizzazio-
ne, le brochure, il sito web e le campagne stampa [Schmitt 1999:
118].
Il marketing esperienziale è una strategia che taglia trasversalmen-
te i vari settori della produzione di beni e servizi. Può essere applica-
to indifferentemente alla produzione materiale e immateriale, dal
settore medico-farmaceutico alla moda, dall’industria automobilisti-
ca alle produzioni televisive (il caso di Oprah Winfrey che ritorna 153
anche nell’ontologia emozionale di Illouz). Il principale ribaltamento
di paradigma mi pare essere il passaggio dalla Brand Id. alla Brand
Exp., cioè dalla marca come definitore di una identità forte (attraver-
so naming, logo, slogan, awarness e image) alla marca intesa come ex-
perience provider attraverso la sensorialità, l’affettività, la relazione
creativa e i vari lifestyle.
Per questo motivo, quasi paradossalmente, i testi che affrontano il
tema dell’economia delle esperienze insistono sul valore rivoluziona-
rio delle nuove tecnologie della comunicazione. Dico paradossal-
mente perché l’evoluzione dell’artificialità tecnologica raggiungereb-
be un tale stadio di avanzamento da poter simulare la stessa realtà
dell’esperienza comune. In questo senso l’esperienza televisiva po-
trebbe ricoprire un ruolo paradigmatico nella sua capacità di intrec-
ciare lo spazio quotidiano [Abruzzese 2001]. Sulla stessa linea Jed-
lowski [2005] critica il concetto di manipolazione di Schutz – basa-
to sull’idea che l’esperienza quotidiana sia definita a partire dalla
manipolazione di cose vicine – laddove oggetti “non manipolabili”
(come la tv) fanno a pieno titolo parte del quotidiano [ivi: 18-19].
Ma la debolezza di quest’ultima constatazione sta nel fatto che la tv
è nota ai mediologi per essere il primo medium “manipolabile” nel
duplice senso individuato da McLuhan [1997] di “estensione del
Brand New World

sistema nervoso centrale” e di generatore di esperienza prevalente-


mente “tattile”70. Allo stesso modo il Web 2.0 e il social networking
garantirebbero all’altra sfera (quella dei soggetti), uno strumento per
abbandonare il loro essere-situati nel mondo e diventare un’entità
globale. Ma quest’accezione sarebbe ancora troppo legata all’ottimi-
smo anni Novanta che pone la tecnologia come variabile indipen-
dente, mentre essa va considerata una delle componenti nel proces-
so di cambiamento socioculturale e uno dei vari canali comunicativi
attraverso cui si può creare un’esperienza. È vero, difatti, che per
l’allestimento di un ambiente di consumo (un punto vendita, un
evento di presentazione/lancio, un outlet ecc.) le marche utilizzano
una strategia di mixed-media, cioè diversi canali di comunicazione
che si integrano nel tentativo di sviluppare un tema coerente. Al di
là dell’esperienza localizzata in un ambiente specifico c’è poi l’ado-
zione di strategie cross-mediali che diluiscono l’esperienza nei vari
luoghi della vita quotidiana, sviluppando il contenuto di una campa-
gna affinché l’azione di un medium rinforzi quella di un altro (come
ad esempio nel rapporto tra il lancio di un film e la conseguente usci-
ta del videogioco, oppure sul modo in cui i giocattoli di una serie di
154 cartoni animati conferiscano effetto di realtà a quel pezzo d’immagi-
nario). Se l’analisi che Jedlowski [2005] svolge su rapporto ed espe-
rienza non arriva a discutere di questa nuova strategia, è certamente
utile la sua riflessione sul concetto d’innovazione [:121]. A differen-
za infatti di quello che il senso comune è abituato a pensare, l’inno-
vazione non si limita all’attività di ricerca e sviluppo delle aziende,
non riguarda solo la sfera dell’avanzamento tecnologico e non è pilo-
tata soltanto dalle logiche della produzione. Essa si traduce princi-
palmente nel cambiamento degli stili di vita e secondariamente come
“intelligenza del quotidiano” da parte di apparati che indirizzano il
consumo. Il caso di Nikeplus è assolutamente significativo. Come
nelle iniziative di marketing tradizionale anche questa nuova inizia-
tiva ha avuto origine da un naming. È seguita una campagna di
comunicazione che ha lanciato globalmente la novità che non pre-
supponeva un nuovo prodotto, una nuova sneaker, un cobranding tra
Nike e una famosa azienda di lettori digitali ecc. L’idea di Nikeplus
è quella di sfruttare il già dato, lavorare sull’esistente per ricontestua-
lizzarlo all’interno di una nuova esperienza. Lo jogging, l’ascolto di
musica, la tenuta da sfoggiare a Central Park, sono elementi già dati.

70. Si tratta della celebre concezione del mediologo canadese che ha dato vita a innu-
merevoli dibattiti come anche a prodotti culturali, film, videoclip ecc.
1. Il sistema integrato d’esperienza dello jogging con Nikeplus.

1. <

Lo switcher, che mette in comunicazione le sneaker con il lettore 155


mp3 registrando e sincronizzando i movimenti del passo con il ritmo
della musica, è in realtà solo il pretesto per collegare ambiti diversi
di una certa esperienza e per consentire il suo trasferimento nella
dimensione collettiva del web. Ma la vera innovazione sta nel modo
in cui questo materiale esistenziale acquista un nuovo senso con il
suo ingresso nel mondo di Nike. L’innovazione proviene dal sociale
che ha prodotto un nuovo stile di vita all’incrocio tra le culture dello
sportswear, quella del leisure collegata alla passione musicale e quel-
la tecnologica.
Secondo Pine II e Gilmore [2000] l’evoluzione del mercato con-
duce naturalmente verso il declassamento del ruolo economico del
prodotto o del servizio, rispetto a quello delle “esperienze”. L’inve-
stimento in questo ambito consentirebbe di generare valore aggiun-
to da parte di quelle aziende che non si riconoscono più nel sistema
di produzione di massa e che possono massimizzare i ricavi dalle
vendite dei loro prodotti e servizi tramite la loro opera di tematizza-
zione. Gli autori forniscono in tal modo una categoria ombrello,
capace di inglobare una serie estremamente eterogenea di esperien-
ze di consumo. Il paradigma dell’economia delle esperienze è, a
detta loro, il teatro come luogo che esprime: un elevato valore situa-
zionale, l’erogazione di alcuni servizi, l’evanescenza elevata delle sue
Brand New World

performance alla quale si associa la capacità di incidere sullo spazio


emotivo dei soggetti o dei gruppi che ne fruiscono.
Ma a ben vedere, il paradigma effettivo a cui si rifanno gli autori
non è tanto quello teatrale o spettacolare, quanto più palesemente
quello turistico. Non tanto nella sua accezione tradizionale di sistema
d’offerta di servizi massificati, prefabbricati, stagionalizzati e interme-
diati, ma anche e (oggi) soprattutto nel suo opposto. Nei termini di
quel concetto turistico alternativo, che appunto proviene da un’espe-
rienza beatnik, bohemien, hippie ecc., ma che dalla seconda metà
degli anni Novanta si è affermato su scala globale, a mio parere nel
tentativo di cancellare la contrapposizione tra turista e viaggiatore.
Parliamo di quel turismo etnoculturale che, magistralmente, Bau-
drillard ha saputo definire come “pretenzioso” [Baudrillard 2006].
Dal consumo “mordi e fuggi” alla penetrazione duratura di una cul-
tura e di un ambiente diversi, si defila il nuovo ideale di consumo, alli-
neato perfettamente ai canoni dell’economia delle esperienze. Questo
è capace d’informare la stessa struttura cognitiva e organizzativa della
popolazione ospitante e crea quasi un sistema “di aspettative di aspet-
tative”. Loro si preparano a essere come noi immaginiamo che siano,
156 in tal modo superando il concetto esotista del paesaggio creato come
proiezione dell’immaginario del turista [de Botton 2002]. In tal modo
ci si prepara a impostare la partecipazione a una cultura altra che tra-
duce le loro esperienze quotidiane, attraverso un itinerario che, a
seconda dei casi, può coincidere quasi o addirittura completamente
con le tappe che scandiscono la loro stessa vita quotidiana. Si tratta
dunque di un sistema immersivo che non richiede l’utilizzo di alcuna
tecnologia di virtualizzazione ma che adotta la realtà stessa per isola-
re, raccontare e vendere una determinata esperienza. Inoltre il para-
digma turistico enfatizza il ruolo attivo del soggetto che vive l’espe-
rienza che sia questa più o meno autentica dato che è egli stesso l’in-
terprete principale di una data situazione ed è fondamentale il suo
contributo alla costruzione di un immaginario della vacanza (ed es.
foto, souvenir, nuove conoscenze ecc.), cosicché tra tutte le esperien-
ze di consumo quella turistica risulta essere la più complessa, la più
poliedrica e la più “autodiretta”71.
È certamente vero che il rapporto tra il turismo, le forme di rap-

71. Uso questo termine in contrapposizione con il famoso concetto di eterodirezione


formulato in sociologia da Riesman che insisterebbe sul modo in cui il sistema socia-
le e quello dei consumi inducono azioni tramite l’imposizione di valori estranei al sog-
getto ai quali ci si adegua in modo coatto e non autonomo.
La transizione del branding

presentazione e di estetizzazione del quotidiano (dall’illustrazione


alle affiches pubblicitarie) e il consumo non riguarda il contempora-
neo ma è, in un certo senso, il prototipo stesso da cui poi derivano
una molteplicità di linguaggi e pratiche del sistema dei consumi.
Uno degli esempi più datati ma proprio per questo fondanti il
nostro ragionamento è quello già discusso da Alberto Abruzzese
nella recente riedizione de La Grande Scimmia [2007], che in un
passo decisivo dedicato all’opera di Piranesi enuclea il legame tra
diverse forme di rappresentazione nella fase nascente della società
dei consumi.

Le stampe di ruderi e memorie classiche del Piranesi sono appunto la


riduzione in chiave “sublime” di quelle “giornate” di sfrenato turismo.
Sono l’immagine di modi in cui il viaggiatore – collezionista – spettato-
re consuma mitologia, archeologia, erudizione, pittoresco e storia. […]
I ruderi, così come il collezionismo, non risultano allora immagini del
passato e neppure una congelata visione del presente, ma moderne
attrezzature tecnologiche dell’immaginario, fondate sulla forma del
consumo: dispositivi ludici che usano “pezzi” di memoria [ivi: 20].
157
La costruzione del consumo come esperienza estetica che mette in
connessione l’immaginario di un’epoca – in quel caso i ruderi pira-
nesiani – con le pratiche del quotidiano, non è dunque un fatto
nuovo anzi riguarda le origini stesse dell’industria culturale. Secondo
Abruzzese [1993] tale “sistema” continua a lavorare nello stesso
modo nelle fasi successive del suo sviluppo, incluso tutto l’arco del
Novecento. È però interessante notare come il concetto di esperien-
za e l’idea del turismo come sublimazione di tale concetto riguardi
soprattutto due fasi: quella che anticipa l’avvento del sistema consu-
mistico e quella che s’afferma oggi. Mentre in mezzo a queste due
fasi possiamo parlare più che altro di una mutilazione del concetto
di esperienza, dovuta a un certo tipo di organizzazione del lavoro
(principalmente fordista), all’idea di consumatore incasellato nella
dimensione di massa (atomizzato e passivo), alla funzione dei mezzi
di comunicazione (principalmente generalista e invasiva).
Da quando all’interno dei già discussi “nuovi marketing” è stato
inaugurato il cosiddetto filone esperienziale, il “paradigma turistico”
è tornato in auge. Così Pine II e Gilmore quando discutono gli esem-
pi più efficaci di questo nuovo orientamento, fanno sempre riferi-
mento al settore turistico o a incursioni in esso da parte dei brand di
altri settori. Il turismo diventa così il modello attraverso cui si può
Brand New World

ripensare la concezione stessa del consumo divenuta troppo artefat-


ta (principalmente nella fase della profusione) ma a ben vedere esso
è comunque una tipologia molto definita di consumo (dunque di
esperienza artefatta).
Ora, se il turismo è il modello di riferimento questo coinvolge oggi
un numero sempre più vasto di aziende e prodotti, se non addirittu-
ra trasforma la stessa concezione del ruolo della marca rispetto al suo
pubblico; ciò vuol dire che non si può parlare solo di economia ma
soprattutto di “società delle esperienze”. S’avvera pertanto un nuovo
ideale di soggetto, molto distante da quello creato e promosso dall’Il-
luminismo tramite la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, ma anche
diverso da quel neonomade sul quale la sociologia francese ha inve-
stito parecchie energie. Siamo di fronte all’ideale di un nuovo sogget-
to che viene inteso come “contenitore di esperienze” [Barile 2008].
Che siano queste riprodotte artificialmente da marche commerciali
che allo stesso tempo tendono a dissimulare la loro presenza e la loro
marcatura tramite espedienti quali la rimozione del logo, oppure
frutto di un contatto “spontaneo” con culture altre che però lavora-
no sull’interpretare se stesse, poco cambia. L’importante è accumu-
158 lare una quantità di esperienze forti, varie e interessanti che vanno
poi collocate nel capitale culturale di un individuo x, y o z, per con-
ferirgli quel tono di cosmopolitismo e di apertura che altrimenti non
avrebbe. Un esempio significativo è l’operazione di urban travelling
promossa da Adidas con il progetto Store bus. Un oggetto di culto
della controcultura – il furgoncino della Volkswagen chiamato con-
fidenzialmente Bulli – diventa lo strumento attraverso cui la casa di
Sportswear adotta un mix di marketing esperienziale e tribale. Il
negozio viaggiante è allestito con prodotti ideati per un target di ska-
ters e la stessa immagine del veicolo è pensato come punto di contat-
to tra il mondo della marca e la cultura di strada a cui è dedicata
l’operazione. Lo stile grafico dichiaratamente street è curato dall’ar-
tista Marck Gonzales che appunto consolida la sinergia tra i due
mondi. L’estetica retrò vuole esprimere un maggior grado di auten-
ticità della marca, che del resto si ritrova nell’esperienza stessa del
contatto con il veicolo. Nonostante l’iniziativa giochi sull’idea di
un’attività di retail alternativo, il vero obiettivo è di comunicazione:
rendere itinerante l’esperienza dello shopping rievocando formule
“ataviche” e popolari come quelle dei car boot store inglesi.
Il Customer Experience Management (CEM) è un sistema interes-
sato al “significato del contesto del consumo”. Esso si concentra sul-
l’analisi e sulla modificazione del processo piuttosto che del prodot-
1. Uno spaccato dell’Adidas Store Bus: esperienza estetica e prodotti connessi.

1. <

to. Il presupposto fondamentale sul quale si fonda tale approccio è 159


che la marca debba trasformarsi da mero “sistema statico d’identifi-
cazione” in strumento di produzione e riproduzione di esperienze.
Ciò diventa possibile con la pianificazione e il controllo di tutta la
sfera percettiva attraverso la costruzione di una rappresentazione
multisensoriale. Secondo Pine II e Gilmore “lo sceneggiatore del-
l’esperienza elimina gli stimoli negativi (quali l’esortazione severa:
Mangia) e regola ciascuno stimolo positivo (visivo, sonoro, tattile,
gustativo, olfattivo) per integrare le impressioni in un tema credibile
e stimolante”72 [: 69].
È difficile capire come possa persistere nel nostro presente una
concezione che rimanda, nella sua necessità di regolare lo stimolo
positivo e il conseguente rinforzo, a una primordiale visone compor-
tamentista. Il progresso delle scienze sociali ha insistito sulla capaci-
tà evocativa della comunicazione e del consumo, abili entrambi ad
alimentare desideri ed emozioni complesse. Per questo motivo si è
sviluppata una branca decisamente innovativa del marketing e del
72. Per intensificare il suo tema, la foschia al Rainforest Cafe stimola tutti e cinque i
sensi in serie. Prima la si incontra come suono: Sss-sss-zzz. Poi la si vede salire dalle
rocce e la si sente fresca e delicata sulla pelle. Infine, si sente l’odore della sua essen-
za tropicale e se ne assapora la freschezza (o si immagina di farlo) [Pine II, Gilmore
2000: 71].
Brand New World

management che lo scrittore francese Christian Salmon [2008] esa-


mina accuratamente attraverso il paradigma dello “storytelling”. La
capacità e la necessità dell’uomo di allestire racconti e di condivider-
li con i suoi simili è certamente arcaica ma solo recentemente il feno-
meno di una narratività diffusa coinvolge gli ambiti più insospettabi-
li della vita umana. Qualsiasi “oggetto” assurge a una sua dignità nar-
rativa, qualsiasi attività – dall’addestramento dei militari in Iraq alla
gestione del personale di una multinazionale – può raggiungere una
maggiore efficienza se sostenuto da un racconto efficace. Come nota
Salmon, il marketing esperienziale, in quanto formula più recente e
avanguardistica, deve presupporre una storia, dei topoi o addirittu-
ra dei miti che veicolino l’immagine di una marca.

Le marche sono portatrici di un universo: ci aprono la strada a un rac-


conto di fantasia, a un mondo teatralizzato e sviluppato dalla agenzie di
“marketing esperienziale”, la cui ambizione non può rispondere ai biso-
gni e nemmeno crearli, bensì realizzare una convergenza di visioni del
mondo [ivi: 35].

160 Come già Jedlowski, anche Salmon individua una relazione tra la
valorizzazione narrativa delle storie di vita nella gestione delle risor-
se umane e la sua ricaduta nello spazio dei consumi e dei racconti di
marca. Se è vero che la prospettiva esperienziale presuppone la crea-
zione di una storia o di un tema (sul modello dei parchi-a-tema, ap-
punto, come Disneyland di baudrillardiana memoria) non è altret-
tanto vero che la narrazione esaurisca l’intero orizzonte di possibili-
tà d’attualizzazione della marca. Essa si spinge molto più in là del
branding comune verso una prospettiva che potemmo definire di
branding esistenziale: è il caso del cortometraggio dedicato alla per-
vasività e alla rilevanza contemporanea della storia di un font come
in Helvetica, diretto e prodotto da Gary Hustwit (2007). Ma la crea-
zione di una storia o di una mitopoiesi è difatti limitata a un tipo di
interazione classica tra fonte e destinatario e da un contratto narrati-
vo in cui le mosse del lettore sono già previste dalla mente dello scrit-
tore. In una dimensione esperienziale avanzata, la distanza che sepa-
ra i due dovrebbe essere soppressa dal primato (almeno ipotetico)
dell’esperienza vivida, o tendenzialmente autentica, dell’interazione
diretta, della condivisone non mediata dell’evento. La dimensione
dell’evento supera in fatto di efficacia quella dell’ambiente stabile
che veicola i valori della marca, come ad esempio accade con il flag-
ship store. Nella singolarità dell’evento si esprime la potenza di un
La transizione del branding

messaggio vitale che è capace di infrangere la barriera della narrativi-


tà, della riproducibilità tecnica e della memoria. Non a caso la formu-
la del temporary store, di particolare successo oggi, irrompe nello spa-
zio stabile e ordinato del retail, con una potenza comunicativa e ag-
gregativa inusitata. Così, per concludere un discorso sulla gestione
dello spazio, altro canale attraverso cui il racconto della marca può
avviluppare il vissuto del consumatore è quello dell’architettura. Se
in passato essa costituiva un nucleo ontologico in quanto ossatura o
“shelter” dell’esperienza urbana [Mores 2006], oggi essa tende a pla-
smarsi sull’identità della marca, estendendola e materializzandola
attraverso le sue soluzioni plastiche. A parte il caso celeberrimo di
Fiorucci [Valeriani 2007], precursore dalla formula del concept store,
sono certamente significative le incursioni dei flagship store di stilisti
d’avanguardia come Kawakubo o Myake. In particolare Kawakubo,
sin dagli anni Ottanta, ha insistito sul collegamento tra nucleo valo-
riale della marca e arredo/design del punto vendita. Se i valori chia-
ve della brand identity negli Ottanta erano la frugalità e il minimali-
smo – fondamenti di un nuovo poor look – il negozio newyorkese di
Comme des Garçons nel 1983 esprime una frugalità essenziale, un
nuovo pauperismo che s’ispira alla cerimonia del tè73 e alla mortifica- 161
zione dell’ideale di bellezza tipica in quel periodo. Più recentemente
le griffe del lusso mondiale hanno investito molto per collocare nei
punti nevralgici dello shopping urbano o nei quartieri in via di “gen-
trificazione” i loro presidi distributivi e comunicativi. Ne sono esem-
pio il famoso Prada Epicenter di Tokio, la cui geometricità irregolare
afferma la propensione del brand al cambiamento e alla sua rimodu-
lazione. Ancora più estremi sono i guerrilla store delle firme più bor-
derline che spostano il focus dalla visione strategica della brand iden-
tity a una propriamente tattica. Questi uniscono all’impatto simboli-
co dell’evento – che esalta l’aspetto temporale della breve durata sul
modello del temporary store – la scelta del luogo: solitamente uno
spazio alternativo, in stile squat, come ad esempio l’esperienza pio-
nieristica di Vacant, seguita successivamente dalla stessa Kawakubo
Rei, in una riedizione lussuosa di quel concept.

73. Il contenuto politico di Westwood si perde, soppiantato da un significato propria-


mente giapponese. Nel Giappone del XV-XVI secolo, il cha-no-you, o rituale del tè,
divenne il punto focale di una codificata tradizione estetica. In diretto contrasto con
le tradizioni di elaborata ornamentazione, proprie della corte, nella stanza da tè il
canone della bellezza wabi-sabi era minimalista, sottotono, addirittura plebea. Vi ave-
va pregio l’incidente fortuito, momento della natura effimera del mondo fenomeno-
logico [Koda 2002: 355-356].
1., 2. La brandizzazione del paesaggio urbano coincide con la creazione di un vero e pro-
prio landmark: il Prada Epicenter di Tokyo.
3. I negozi Pop-up Vacant come sintesi tra la solidità del retail e l’estrema voltatilità delle
campagne e degli eventi.
> 1. > 2. > 3.

162 I negozi Vacant non restano aperti per più di quattro settimane. Ex
magazzini, spazi non convenzionali. Rifiuto delle basilari regole del retai-
ling (come ad esempio i cartellini dei prezzi) ma tanta musica, prodotti
esclusivi, progetti creativi indipendenti e serie limitate di marchi globali.
Costo dell’advertising equivalente a zero. Un database mondiale di 1,6
milioni di affezionati. Poche email e tanto passaparola [Mores 2006: 10].

> Verso un’esperienza postnarrativa?


Dal consumatore postumano alla dimensione dell’ontobranding

Un video virale che gira su Youtube pubblicizza una servizio dav-


vero anomalo per lo sguardo di un occidentale. Una terapia di rige-
nerazione che lavora sull’evento puro, assoluto, irreversibile.
L’esperienza della propria morte – offerta da una ditta sudcoreana –
fa vivere in una simulazione collettiva il momento di distacco defini-
tivo dalla propria realtà materiale, che si compie tramite l’ingresso dei
partecipanti in una serie di bare bianche. Gli effetti della terapia sul
corpo e sulla mente sono garantiti. L’ilarità che ci colpisce quando
capiamo di cosa si tratta non deve cancellare il senso recondito di
quello strano spot. L’esperienza del limite, finale (per definizione ine-
speribile) è posta invece nel circuito del consumo e della comunica-
La transizione del branding

zione, anche se solo in modo simulato74. L’idea dell’esperienza del-


l’impensabile [Abruzzese 2006] o, ancor meglio, dell’inesperibile
come limite supremo della società del consumo, ci consente invece di
riflettere sul passaggio o sull’oltrepassamento che coinvolge oggi stu-
diosi di diverse risme. Si tratta del filone postumano o del posthuman
che nasce in ambito artistico grazie alle punte più estreme della per-
forming art anni Novanta per poi maturare in ambito filosofico, epi-
stemologico sino all’approdo nelle applicazioni delle scienze natura-
li [Abruzzese 2007b]. Sulla curva discendente della diluizione, il
significato del termine postumano ci può aiutare a comprendere il
modo in cui il branding contemporaneo si trasforma in biobranding
[Codeluppi 2008] in modo da incontrare la dimensione puramente
vitale dell’evento e dell’esperienza situata. Non mi pare più proficuo
riflettere sul posthuman come processo di ibridazione tra organico e
inorganico, o come innesto o reincorporazione delle protesi tecnolo-
giche nella viva carne. Questo fa parte dell’immaginario degli anni
Novanta – ben descritto da Belpoliti75 [2006] – la cui attualità è indi-
scutibile ma che ha perso la sua capacità di spiegare la direzione del
presente. Oggi il posthuman assume importanza solo se ricondotto
alla sfera del quotidiano, dell’esperienzialità pura e del superamento 163
dell’orizzonte narrativo costruito con tanta perizia negli anni passati.
Il passaggio dalla semiotica della marca alla marca come vita, segna
un’ulteriore torsione che annulla la centralità del termine medio cioè
della narrazione, dello storytelling oppure di quella “rete di protezio-
ne che separa il Reale dall’Immaginario che è il simbolico” [Zizek ˇ ˇ
2008; Carmagnola 2006].
Come aveva opportunamente preconizzato Abruzzese nel suo
“elogio” dell’analfabetismo [1996], la diffusione su larga scala dei
new media non avrebbe meramente incentivato una virtualizzazione
intesa come alienazione dalla realtà e come isolamento comunicativo
bensì avrebbe esaltato la dimensione performativa nella quale la sen-
sorialità del corpo occupa una posizione prioritaria.
Recentemente la discussione è approdata nel campo delle teorie

74. Ben più inquietante la “leggenda metropolitana” degli snuff movie, raccontati ad
esempio nel film 8mm. Delitto a luci Rosse di Joel Schumacher, che rappresentano la
somma degenerazione della oscenità pornografica in cui l’eros depravato andrebbe a
intrecciarsi con il Thanatos.
75. In particolare nella disamina di Belpoliti individuerei due sotto filoni: uno futuri-
bile, che lavora sul corpo cyborg, l’altro neoarcaista che invece fonde elementi pop
con visioni ataviche ed esoteriche di cui è rappresentativa l’opera dell’artista america-
no Matthew Barney.
1. Matthew Barney direttore e protagonista di Cremaster 3 come versione atipica del
posthuman.
2. La memory stick della Sony come espressione del “consumatore postumano”.

> 1. > 2.

164 del consumo e del marketing, dove ha incontrato i favori di diversi


ricercatori. Mi riferisco al lavoro di Venkatesh, Karababa, Ger [2002]
la cui ricerca si focalizza sulla letteratura che nel corso degli anni
Novanta ha esaltato l’interpenetrazione tra la sfera dell’organico e
quella dell’inorganico76. Di particolare interesse è la contrapposizio-
ne tra il vecchio meccanicismo e il neoromanitcismo che investireb-
be il mondo cibernetico di un sentire diverso. Ad essa fa riferimento
“[…] una nuova forma di soggettività” [ivi: 453] o anche di consu-
matore, che è esemplificato dalla campagna della Sony del 2000 su
una memory stick d’ultima generazione. Nella campagna si evidenzia
il modo in cui questa nuova device basata sulla tecnologia dei poli-
meri sia comunicata a partire dalla sua integrazione con il “cervello
umano basato sul carbonio”. L’integrazione fra i due declina il tema
del posthuman nella vita quotidiana e l’oggetto della loro ricerca è il
modo in cui “[…] i segni impersonali collettivi sono utilizzati nel
comunicato dalla Sony e utilizzati dai consumatori per identificare se
stessi” [ivi: 455]. Alla “stick” non è conferita solo una funzione
d’uso, ma anche una d’accesso a una costellazione più estesa di devi-

76. This paper makes a modest beginning in addressing relevant issues and examines
their implications to some new ways of constructing the consumer, or more precise-
ly the posthuman consumer [Venkatesh, Karababa, Ger 2001: 453].
La transizione del branding

ce messe a disposizione dalla casa madre, che incontra lo spazio del


consumatore a partire da quella fatidica “chiave d’accesso”. La con-
clusione del paper vira verso le frontiere dell’intelligenza artificiale,
delle tecnologie organicistiche e della network theory, per conferire
maggiore sostanza all’ipotesi di un “consumatore postumano”. Sulla
stessa linea argomentativa si colloca un altro quartetto di ricercatori
che partono dalle medesime premesse di critica al paradigma mecca-
nicistico e ammiccano a un nuovo marketing “einsteiniano”: il mar-
keting del networking ubiquo (Ubiquitous Networking).
Sia nella prima che nella seconda disamina, siamo a contatto con
una lettura eccessivamente entusiastica del problema che potrebbe
oscurare i motivi di grande interesse che risiedono in tale oggetto. Se
di “consumatore postumano” si può oggi parlare, la sua concreta
manifestazione non è tanto nella proiezione di un consumatore mul-
tidentitario e multidimensionale o anche ubiquo (come del resto lo è
già nelle disanime sul consumatore postmoderno) semmai il postu-
manesimo risiede nella possibilità di superamento del principale
tratto che definisce l’umano, la dipendenza dall’orizzonte narrativo
(quello che in Salmon è appunto definito “imperialismo narrativo”).
In questo senso la frontiera che indica una certa affermazione del 165
postumano nello spazio del consumo è quella – ben più pragmatica
e operativa – dell’integrazione tra il digitale e l’esperienziale.
Nell’investigazione pionieristica di un gruppo di ricercatori affe-
renti a diverse università americane e australiane [Watson, Leyland,
Berthon, Zinkhan 2002] si delinea un nuovo spazio d’azione del
marketing che gli autori definiscono U-Space e che supera le nozio-
ni del marketing one-to-one, molto difficile da gestire.
Si pone dunque il problema del modo in cui utilizzare il network
più efficacemente per ottenere gli obiettivi di vendita desiderati par-
tendo da una critica al concetto di razionalità formulata dallo scien-
ziato cibernetico Simon, che non a caso era il punto di partenza della
critica ai modelli organizzativi razionalisti mossa da Nonaka (qui
discussa nel capitolo 1). Ciò implica che si superi la naturale barrie-
ra di separazione tra il contesto della produzione e quello del consu-
matore, la cui distanza è principalmente di tipo spazio-temporale.
Gli autori muovono una critica serrata al modello del custom marke-
ting, che in linea di principio potrebbe rappresentare il traguardo
finale delle varie strategie contemporanee ma che si scontra con dif-
ficoltà enormi di gestione, laddove il cosiddetto marketing one-to-
one richiederebbe una capacità di conoscenza illimitata se riferito ai
milioni di utenti che compongono il pubblico di una nota marca glo-
Brand New World

bale77. In tal modo, oltre al problema della capacità di processare


numeri elevati di informazioni (che riguarda l’azienda ma anche i
consumatori) si pone la questione geografica e territoriale che, se-
condo gli autori, sarebbe superata dal nuovo network marketing [ivi:
330]. Gli autori propongono pertanto la loro idea di U-Commerce,
dove la U sta per Ubiquo, nel senso della connettività diffusa ovun-
que nello spazio tempo, Universale nel senso della uniformità dello
standard, Unico nel senso della personalizzazione di informazioni,
profili e contenuti e Unisono nel senso dell’integrazione dinamica
delle varie device con cui l’utente lavora l’informazione.
La somma delle quattro produce una sorta di Über-commerce [ivi:
332] che supera in ogni aspetto il metodo tradizionale grazie all’uti-
lizzo delle reti ubique che supportano al contempo la comunicazio-
ne e le transazioni personalizzate e ininterrotte tra aziende e stakhol-
ders, per garantire una gestione superiore del valore78 [ivi: 332].
Nonostante l’intero saggio esibisca eccessivamente una nozione
euforica di informazione, nella schematizzazione del ragionamento si
coglie il senso di una visione più pragmatica. Così la descrizione evo-
lutiva delle forme di commercio passa per tre stadi. a. Quello del
166 “marketplace”, tradizionale ed estremamente localizzato in una
dimensione di faccia a faccia (ovvero nella fase che precede l’ac-
coglienza). b. Quello del “marketspace” inteso come dimensione di
scambio di beni e servizi attraverso la mediazione dei computer,
quello dell’U-space che allo stesso tempo trascende e integra il mar-
ketplace e il marketspace (cioè la dimensione pratica del faccia a fac-
cia con quella astratta della mediazione a distanza). Nella matrice
formulata dagli autori, lo U-space è divisibile in quattro spazi rap-
presentati da rispettivi quadranti: l’iper-reale, il postumano, la matri-
ce e il nodo. Il primo quadrante riguarda un tipo d’offerta “poten-

77. In a one-to-one context, while one-to-one relationships are ideal, they carry the
tremendous costs of learning about the different needs of millions of individuals.
Managing individual customer relationships on a large scale places enormous
demand on managerial time. So, while the rational manager realizes that the ideal
strategy might be to manage customers one-to-one all the time, reality causes this
rationality to be bounded, and instead, managers do the best they can under the cir-
cumstances. Customers are similarly affected in their purchasing behavior by boun-
ded rationality [Watson, Leyland, Berthon, Zinkhan 2002: 131].
78. We define u-commerce as the use of ubiquitous networks to support personali-
zed and uninterrupted communications and transactions between a firm and its
various stakeholders to provide a level of value over, above, and beyond traditional
commerce. We now elaborate on each of these four features of the next generation of
commerce [ivi: 332].
1. La matrice che descrive il collegamento dinamico tra i quattro quadranti dello U-com-
merce.

1. <

ziata”, come ad esempio un tour sul monte Everest, guidati da un 167


gruppo di Sherpa radio-connessi via satellite tanto da poter parlare
di un’esperienza straordinaria che può anche essere simulata tramite
tecnologie immersive. Quando si parla di posthuman invece si fa rife-
rimento a qualsiasi forma di marketing collegato alla trasformazione
psicofisica: dal software, nel senso di strumenti di potenziamento
delle facoltà intellettive, all’hardware che riguarda le tecniche di
modificazione e di potenziamento corporeo dalle varie chirurgie pla-
stiche, alla biomeccanica, alla cibernetica avanzata, all’ingegneria
genetica ecc. Matrice caratterizzata da “infrastrutture tecnologiche
onnipresenti” [ivi: 36] che dimostrano particolari capacità di tra-
smissione del cambiamento da un nodo all’altro come se si trattasse
di processi d’autoapprendimento. L’esempio più avanzato è quello
del web semantico che dimostra come gli algoritmi siano capaci di
riconoscere, apprendere e scambiarsi sistemi di significati.
In ultimo il node, definito come la controparte della Matrice, indi-
ca le forme più avanzate di customizzazione tecnologicamente me-
diata con particolare riferimento alle capacità di interazione con il
luogo fisico. L’esempio banale della scelta di un ristorante indiano
che è facilitata grazie alla segnalazione della nostra posizione via GPS
[ivi: 337] che s’integra con le forme più avanzate di CRM (Customer
Relationship Marketing) per garantire l’erogazione di prodotti sulla
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base della conoscenza dei gusti del cliente, senza che questo debba
preoccuparsi di gestire tale relazione (come nel caso del WOTMC, il
Wine-of-the-Month Club in Sud Africa). La matrice proposta dagli
autori rappresenta un quadro dinamico d’interazione tra le quattro
forme citate in un contesto in cui l’informazione si è trasformata da
risorsa scarsa a risorsa abbondante, collocandosi al centro dell’attivi-
tà di business. A differenza della chiave di lettura precedente, il
postumano non è più inteso come una concezione astratta, sugge-
stionata dalla fiction e da una visione euforica, ma è la chiave di volta
del nuovo marketing in cui l’informazione non è più sinonimo di vir-
tualizzazione, bensì è la modalità fondamentale d’integrazione tra
spazio mentale e spazio fisico. Torna di urgente attualità la questio-
ne dell’ecologia cognitiva (già discussa nel paragrafo dedicato a Bate-
son), specialmente nella sua applicazione più pragmatica: la questio-
ne delle ecologie ibride.
In termini molto sintetici, si tratta dello slittamento degli studi
sulle applicazioni delle ICT da una prospettiva astratta a una concre-
ta, dall’esaltazione della virtualità come chiave di volta dell’Evo tec-
nologico e dei suoi problemi alla valorizzazione delle pratiche socia-
168 li d’utilizzo dei dispositivi tecnici. In questo senso il consumo assu-
me un ruolo ancor più importante anzi basilare. Si tratta del punto
d’intersezione tra la dimensione astratta dei flussi informativi e quel-
la concreta dell’esperienza quotidiana. Il termine ibridazione rievoca
tutta una serie di concetti molto diffusi negli anni Novanta che han-
no in realtà rinforzato la concezione astratta della comunicazione.
Ma in questo caso l’aggettivo “ibrido” individua una qualità pratica
nella relazione d’uso tra l’utente, il supporto tecnologico e l’ambien-
te che è frutto dello scostamento dall’ecologia digitale verso quella
ibrida [Crabtree, Rodden 2008]. Si tratta, in altri termini, del modo
in cui nuove tecnologie ridefiniscono lo spazio d’interazione a parti-
re dalla gestione dei flussi d’informazione. A ben vedere il concetto
non è del tutto nuovo nella ricerca mediologica contemporanea.
Partendo da Meyrowitz [1993], che riflette sul modo in cui i ruoli
sociali sono definiti dai filtri informativi che delimitano alcune “si-
tuazioni” e su cui i media elettronici possono intervenire per modi-
ficarli, fino a Reinghold [2003] che, con lo studio delle Smart Mob,
esamina attentamente il modo in cui le connessioni a distanza produ-
cono nuove aggregazioni sociali tanto intense quanto fugaci. Mc-
Luhan ha sorprendentemente previsto (insieme ad altri grandi auto-
ri come Korzibski o Borges) il modo in cui la distanza tra mappa e
territorio si sarebbe colmata grazie all’informazione che, già al suo
La transizione del branding

tempo, suggeriva una stretta integrazione tra il piano della costruzio-


ne simbolica e quello della realtà effettuale.

Lewis Carroll faceva osservare che, man mano che le carte geografiche
diventavano più particolareggiate e più estese, tendevano a soffocare
l’agricoltura e a sollevare le proteste degli agricoltori. Perché allora non
usare la terra come carta geografica di se stessa? Siamo arrivati a un
punto analogo nella raccolta dei dati quando ogni stecca di gomma da
masticare verso la quale tendiamo la mano è immediatamente annotata
da qualche cervello elettronico che traduce ogni nostro minimo gesto in
qualche curva di probabilità o in qualche parametro sociologico [Mc-
Luhan 1997: 61-62].

Il passo utilizza un artificio retorico molto efficace: la spia del cam-


biamento è un contadino, vale a dire l’appartenente a una cultura
non letterata che coglie meglio dei dotti della sua epoca la direzione
e la forza di un processo allora ancora in fieri e che oramai sta appro-
dando a una svolta radicale: quella della completa integrazione tra il
piano del virtuale e quello del reale.
Lo studio di Crabtree e Rodden [2008], esamina la questione delle 169
ecologie ibride come presupposto di nuove modalità organizzative,
tra cui spicca quella che gli autori definiscono come interazione coo-
perativa e che viene studiata attraverso l’analisi etnografia di un
gioco multiplayer. La cosiddetta ludologia, da Huizinga a Fink, ha
insistito sul gioco come dimensione parallela ma anche come proces-
so di sovrapposizione/integrazione tra il simbolico e la realtà, tanto
che il gioco stesso diventa una metafora della vita.
Uncle Roy’s office79 è un gioco inglese che lavora sull’interscambio
continuo tra i giocatori online e quelli in strada attraverso un palma-
re e una piattaforma che riproduce virtualmente i movimenti dei gio-
catori nella città. Lo scopo è incontrare lo zio Roy entro sessanta
minuti partendo da tracce disseminate lungo il percorso e da segna-
lazioni che lo stesso Zio Roy invia ai giocatori. L’interfaccia con cui i
giocatori sono connessi riporta gli spostamenti di tutti nonché le
posizioni “implicite ed esplicite” [Crabtree, Rodden 2008: 5]. I gio-
catori per strada non possono interagire con i loro competitor ma
solo con i giocatori online e questo aspetto, unito alla tipologia del-
l’interazione, determina una doppia asimmetria, ambientale e comu-
nicativa, che può essere compensata dagli orientamenti “mutualmen-

79. www.blasttheory.co.uk/bt/work_uncleroy.html
1. L’interfaccia per i giocatori di strda di Uncle Roy’s Office.

> 1.

170 te intelligibili” dei partecipanti, tramite la chiarificazione della rile-


vanza ambientale delle istruzioni che forniscono coordinate utili ad
“allineare” gli orientamenti dei giocatori di strada con quelli online.
Oltre alla questione del gioco, la ricerca in questo campo mutua
dei riferimenti dal campo artistico e narratologico. A tal proposito
Fuksas80 parte dall’analisi della peripheral vision, una serie di opere
realizzate dall’artista e filosofo Timothy Atherton nel 2003 che espli-
citano la sua idea della periferia come uno stato mentale piuttosto
che topografico. Ma sono ancor più significative le opere del 2006
denominate Immersive landscapes in cui la fotografia giunge a rac-
contare il disordine dello spazio periferico attraverso tutti i suoi det-
tagli, come se l’ambiente parlasse di sé all’unisono con le sue compo-
nenti. Considerazioni che fanno da premessa a quello che Fuksas
discute come il “principio dello scambio” in base al quale “ogni con-
tatto lascia una traccia” che ci ripropone il tema dell’indizio, della
traccia, dell’evento che potrebbe avere luogo, ma anche del gioco
come forma di vita. Tutto ciò anticipa il concetto di embedded simu-
lation che i più recenti orientamenti cognitivisti stanno sviluppando
a proposito di interazione avanzata tra mente, ambiente e personal

80. http://ecologyofthenovel.wordpress.com/2008/03/05/peripheral-vision-traces-
and-immersive-landscapes/
La transizione del branding

media. Anche in questo caso le ricerche su tale approccio derivano


principalmente dalle sperimentazioni in campo bellico81. Ma la diffu-
sione di sistemi di rilevazione automatica dei luoghi e degli sposta-
menti dei vari user è ormai a un livello molto avanzato. Uno di que-
sti esempi è il software commercializzato da Nokia per il geolocation
tagging. Nella sua applicazione più banale il telefono, nel momento
in cui si scatta una foto in un determinato luogo, registra le coordi-
nate geografiche via GPS e le associa alla foto in questione. Ovvia-
mente esistono dispositivi che lavorano sul procedimento inverso e
cioè possono rilevare informazioni salienti sul luogo, semplicemente
puntando lo smartphone come fosse uno scanner. Se la semplice
emissione di informazioni sul “posto” è già un fatto rivoluzionario
per l’esperienza di utenti che non ne conoscono le caratteristiche,
queste nuove applicazioni aprono a una serie di possibilità impreve-
dibili.
Mi riferisco a quello che in altri termini è stato definito come il
paradigma della Supranet e che è sintetizzabile nelle seguenti carat-
teristiche:

- la crescente presenza di dipositivi intelligenti miniaturizzati, come 171


i MEMS o i tag RFID, che già si contavano a miliardi nel 2001
- la codifica elettronica degli oggetti fisici (prodotti di consumo,
automobili, farmaci, abiti, banconote, fogli di carta, eccetera), che
li rende univocamente identificabili
- il fatto che tutti o quasi tutti quegli oggetti saranno collegati in rete
grazie a internet senza fili
- il fatto che tutti gli esseri umani e gli animali che porteranno indos-
so quegli oggetti saranno a loro volta identificabili e connessi
- il fatto che l’ubicazione geografica di molte di quelle entità (umani,
animali, oggetti) sarà nota con precisione sempre crescente
- il fatto che la superficie del pianeta sarà mappata in internet, o
attraverso GIS e Points-of-Interest dedicati (come infatti sta acca-
dendo) o mediante modi più definitivi ed esaustivi, come per
esempio l’assegnazione di un indirizzo IP a ogni metro quadrato
della terra82.

81. Ad esempio lo studio di Bounker, McAfee e Lee [2002] ha come oggetto l’utiliz-
zo di sistemi di simulazione integrata per i militari che combattono sul terreno e che
possono essere classificati secondo tre tipologie d’interfaccia: a. “stand-alone”; b.
hybrid embedded simulation sistem; c. fully embedded simulation system [Ivi: 2].
82. http://it.wikipedia.org/wiki/Supranet
Brand New World

Siamo certamente al di là dei discorsi sul feticismo delle merci o


sul neoanimismo degli oggetti [Canevacci 1993] come anche della
biografia delle merci [Appadurai 1996] negli anni Novanta. La que-
stione che si pone oggi grazie all’integrazione tra i vari linguaggi
mediali (scrittura, immagine dinamica, voce o musica) è la possibili-
tà di un branding diffuso che investe non solo l’umano ma anche
l’organico e l’inorganico. Ogni entità interconnessa alle altre è su-
scettibile di essere enfatizzata dai nuovi media, di essere raccontata e
di raccontarsi, di entrare in relazione simbolica con altri elementi
dell’ambiente o con eventi distanti: in altri termini di autopromuove-
re la propria identità e la propria immagine su scala locale come
anche globale. In questo sistema quasi senziente gli oggetti e i sog-
getti interagiscono su di un piano orizzontale e simmetrico. Che si
tratti di una stella alpina lungo un percorso montano, del monumen-
to di una città d’arte, di un edificio multifunzione o di un negozio,
ogni elemento della realtà sociale ha oggi la possibilità di competere
in questo mercato delle identità attraverso una sua propria strategia
di posizionamento. Siamo certamente al di là del biobranding inteso
come convergenza tra marketing e ricerca biotecnologica [Kotler
172 2003], ma anche come etichettamento e valorizzazione della vita del
consumatore [Codeluppi 2008] e ci incamminiamo verso la dimen-
sione dell’ontobranding. Si tratta di un concetto che introduco solo
alla fine di questo lavoro perché ha certamente bisogno di un appro-
fondimento più sistematico. Parliamo di una sovrapposizione tra il
campo puramente empirico del marketing e quello più teoretico del-
l’ontologia. Già varie iniziative online hanno fatto sì che queste
dimensioni si avvicinassero. Se pensiamo ad esempio al fenomeno
Wikipedia, ci rendiamo conto di come il concetto di enciclopedia e
di conoscenza si sia modificato profondamente. Di questa specifica
forma di Web 2.0 non mi colpisce tanto l’idea della knowledge sha-
ring e della comunità che presiede e controlla la veridicità delle
informazioni depositate nel sito. Piuttosto mi sorprende il modo in
cui la conoscenza si trasforma in promozione o in autopromozione.
La dimensione Wiki costruisce uno spazio orizzontale in cui i gran-
di nomi della storia, le persone comuni, i neologismi più ambiziosi e
le teorizzazioni più rodate, convivono nel medesimo ambiente.
Nonostante Wikipedia sia ancora del tutto spostata sul fronte del
mondo digitale o dell’e-world, con essa si delinea già questo paralle-
lismo tra l’articolazione del mondo virtuale e quella del mondo fisi-
co, tanto che la vera ambizione dell’albero della conoscenza Wiki e
di essere tanto complesso e articolato quanto quello dell’intera real-
La transizione del branding

tà. Tra i due livelli, quello logico e quello ontologico, si colloca un


terzo livello che potremmo definire come promozionale. In altri ter-
mini tutto ciò che esiste è suscettibile di entrare nel mondo Wiki, di
legittimare il proprio statuto ontologico e di promuoversi attraverso
la Rete. Sulla stessa linea, ma decisamente più avanzato, è il concet-
to di Supranet. Nella definizione di Magrassi [2001] si ritrova que-
st’idea della disgiunzione tra i differenti media tanto che “[…] even-
ti che accadono in diversi sub-universi disgiunti dell’e-mondo (inter-
net, telefonia fissa, telefonia mobile, radio, tv) si concatenino per dar
luogo a un processo logico e consistente dal punto di vista dell’uten-
te, come una transazione commerciale o un appuntamento” [ivi].
Una disgiunzione che appunto è analoga a quella che differenzia le
cosiddette “province chiuse di significato” [Schutz 1979] che però,
a differenza di quelle mediali sono separate da barriere fisiche e
architettoniche. Ma la grande importanza del concetto di Supranet
sta nella sua capacità di smantellare la contrapposizione tra e-mondo
e f-mondo, incentivandone la crescente compenetrazione. In tal
modo, e ancora una volta, la prospettiva verso cui muoviamo non è
più quella della “realtà aumentata”, del corpo cyborg [Haraway
1995] o del postumano. Tutti questi concetti, sebbene vogliano 173
rivendicare un superamento della centralità del soggetto nelle sue
dinamiche d’interazione col mondo, ricadono esattamente nello stes-
so problema che cercavano di evitare. Non sosterrei pertanto che:
“[…] aumentare la realtà significa elaborare strategie differenziate
per espandere la possibilità di dialogo tra le risorse e gli stili cogniti-
vi umani, da un lato, e le potenzialità con cui le reti interconnesse si
rendono visibili (trasparenti) e utilizzabili per specifici obiettivi”
[Marinelli 2006: 109], poiché ciò ricadrebbe nell’idea kantiana del
soggetto che proietta i suoi schemi cognitivi sull’ambiente circostan-
te. Al di là del tipo di device coinvolta nell’interazione, la grande
rivoluzione del Supranet è quella di produrre una sostanziale equi-
pollenza tra virtuale e reale, tra mappa e territorio, fino a concepire
“un indirizzo IP per ogni metro quadro della terra” [Magrassi, Pana-
rella, Deighton, Johnson 2001: 4]. A questo si aggiunge la capacità
di creare degli smart spaces, vale a dire spazi intelligenti che attraver-
so sensori e traduttori consentiranno di assegnare significati e funzio-
ni allo spazio d’interazione, di personalizzarlo in base alle caratteri-
stiche dell’utente: il controllo del clima e della luce in un ambiente,
del setting musicale, del riconoscimento biometrico [ivi: 5-6]. Fin
qui forse nulla di nuovo, ma la capacità di queste tecnologie di dislo-
care nell’ambiente le capacità cognitive e (a loro modo) intenzionali
Brand New World

dell’essere umano, profila un mondo in cui ogni oggetto può essere


capace di promuovere se stesso attraverso l’immediata connessione
tra spazio fisico e cyberspazio. Con una ricaduta che, ovviamente,
non è soltanto conoscitiva o promozionale ma può essere anche eco-
nomica. Così, importanti location culturali, parchi naturali, pezzi
d’arte, itinerari naturali o turistici, monumenti, specie animali o
vegetali, apparecchi tecnici o di design, libri ecc. In pratica una buo-
na parte dello scibile può essere conosciuto, utilizzato, approfondito
e comunicato prima o durante l’esperienza del suo incontro. I new
media consentono così di generare nuove identità, sganciate dall’in-
tenzionalità umana, che si accrescono d’esperienze e di vissuti perso-
nali – come nel caso delle foto dei visitatori di una mostra – e che
possono fare patrimonio di questo vissuto esperienziale. La dimen-
sione dell’ontobranding è paradossalmente la dimensione più artifi-
ciale che si conosca ma anche la più profondamente autentica.
Ritornando alla definizione di postumano risulta chiaro come la più
avanzata innovazione tecnologica abbia semplicemente attualizzato
una condizione che già esisteva in potenza:

174 […] dimensione in cui il sentire del mondo tecnologico ha oltrepassato


il sapere degli esseri umani che hanno partecipato alla sua creazione e al
tempo stesso ne sono un prodotto interstiziale, un ingranaggio, una
connessione, un fluido, un sensore. Carne del vivente [Abruzzese, 2006:
127].

Se dunque di postumano bisogna parlare non è tanto per la capa-


cità della tecnologia di potenziare il soggetto e di trasfigurarlo nel
corpo cyborg ma piuttosto nella possibilità di dislocare conoscenza
e intenzionalità dell’uomo nell’ambiente. Questa prospettiva, lungi
dall’avverare un “mondo nuovo” del tutto diverso da quello che
conosciamo, ne è semplicemente l’estensione in numerose applica-
zioni pratiche. Così se l’agente di questa trasformazione è prevalen-
temente tecnologico e l’utente resta ancora il soggetto, il punto d’ap-
plicazione tra questi universi è ancora una volta il consumo. Il con-
cetto di ontobranding rivendica pertanto il modo in cui il consumo
continuerà a essere la modalità privilegiata di relazione tra Io e
mondo.
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