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Da No Logo di Naomi Klein

Nella società contemporanea si è diffusa la cultura del marketing (anni ottanta-novanta). Cosa
cambia rispetto al passato? Il cambiamento è il seguente: non conta più produrre dei beni: le aziende
devono sfornare marchi, non prodotti. Ad esempio, Nike non è un semplice marchio di scarpe da
ginnastica, ma riguarda l'idea della trascendenza dello sport; esso fa leva sul profondo rapporto
emotivo che le persone hanno con lo sport e il fitness. Secondo il vecchio modello che ispirava le
pubblicità tradizionali, il marketing consisteva solo nel vendere un prodotto. Nel nuovo modello,
invece, il prodotto passa in secondo piano rispetto al vero prodotto, ossia il marchio. Ad esempio,
quando nel 1988 la Philip Morris acquistò la Kraft per 12.6 miliardi di dollari (6 volte il suo valore),
la differenza di prezzo era data evidentemente dal costo della parola "Kraft". Ma con l'acquisto della
Kraft era stato attribuito un valore enorme a qualcosa di astratto e non quantificabile: un marchio. Si
trattava di un'importante novità per il mondo della pubblicità che vide aumentare notevolmente le
spese delle aziende nel mercato pubblicitario con relativi ingenti guadagni per i pubblicitari secondo
l'idea che più l'azienda spende per la pubblicità, più valore avrà l'azienda. Oggi la spesa
pubblicitaria globale supera di un terzo la crescita dell'economia globale. Tale progetto ebbe come
conseguenza (come si diceva all'inizio) la diffusione della cultura del marketing, poichè la nuova
filosofia aziendale ha portato i produttori a ricercare sempre nuovi spunti culturali atti ad alimentare
i propri marchi. L'espansionismo del branding (branding: diffusione del marchio, il cui principio è:
trova il logo, il messaggio, brevettalo, proteggilo e ripetilo fino alla nausea su più piattaforme
possibili, in sinergia) a livello culturale non è più come in passato quando un'azienda sponsorizzava
un evento culturale (es: un'azienda dà del denaro a favore di un'iniziativa come un concerto o una
mostra e in cambio all'interno della manifestazione viene esposto uno striscione con il marchio
dell'azienda, lo sponsor). Oggi il branding è applicato in molti contesti: paesaggi urbani, musica,
arte, film, sport, eventi pubblici in generale. Tale progetto fa del logo l'anima di ogni cosa esso
tocchi: non più un complemento, bensì l'attrazione principale. Le pubblicità e le sponsorizzazioni
hanno sempre usato le immagini per equiparare i prodotti a esperienze culturali o sociali positive;
ma l'elemento che caratterizza il branding anni '90 è lo sforzo incessante per portare queste
associazioni fuori dal regno della rappresentazione e trasferirle in realtà vissuta. Perciò non si
cercano più attori-bambini che bevano coca-cola in uno spot televisivo, ma studenti universitari che
svolgano durante una lezione un brainstorming per la nuova campagna pubblicitaria della coca.-
cola. In altre parole: non si tratta di sponsorizzare la cultura, ma essere la cultura. L'iopera di
assoggettamento della cultura condotta dai marchi si spiega se si tiene presente la politica
economica di privatizzazione operata dalla maggior parte dei governi dei paesi occidentali (Gran
Bretagna e USA in testa) negli ultimi trent'anni. Tali governi hanno condotto una politica economica
neo-liberista che ha ridotto le imposte alle aziende e tagliato contestualmente la spesa dello stato
destinata ai servizi pubblici, quindi scuole, musei, emittenti televisive, ecc., non sapendo come fare
per colmare le deficienze di bilancio, si sono aperti ad alleanze con aziende private. Il branding ha
perciò progressivamente conquistato ampi spazi pubblici: quasi tutte le città più importanti hanno
assistito all'occupazione di interi quartieri che si sono trasformati in gigantesche pubblicità
tridimensionali, oppure di autobus, tram, treni, ecc. che sono stati "logati". Il branding ha
conquistato i media condizionando la loro linea editoriale; esempio molte aziende inserzioniste
protestano se la loro pubblicità sui giornali viene inserita in un contesto critico, oppure se i loro
prodotti sono reclamizzati accanto ad articoli polemici o addirittura opposti alla natura del prodotto
pubblicitario (ad esempio la De Beers esige che la pubblicità dei suoi diamanti siano collocate
lontano da articoli che diffondono cattive notizie o contrari all'amore romantico: "un diamante è per
sempre"). La contaminazione fra logo e media è stata particolarmente pressante nell'industria
cinematografica non solo per l'inserimento dei prodotti di marca nei film, ma anche per il fatto che i
divi cinematografici stipulano contratti milionari che prevedono che facciano promozione
trasversale in libri, riviste e televisione.(Stesso fenomeno accade con i campioni dello sport e con i
divi musicali). La conseguenza dell'imperialismo del branding è la scomparsa di spazi culturali
liberi. Da quando i brand manager si concepiscono come artefici di cultura e chi fa cultura adotta le
spietate tattiche commerciali dei pubblicitari, la mentalità è completamente cambiata. Qualunque
desiderio di proteggere un programma televisivo dall'eccessiva interferenza dello sponsor, un nuovo
genere musicale dal bieco mercantilismo, oppure una rivista dall'aperto controllo degli inserzionisti,
è stato calpestato dal fanatico imperativo del branding: diffondere l'idea che il marchio rappresenta
con ogni mezzo necessario, spesso in collaborazione con altri marchi potenti (esempio: la Pepsi trae
effettivo beneficio dal sodalizio con il film- marchio "Guerre stellari" che a sua volta utilizza il
marchio Pepsi per farsi pubblicità.
E' altresì vero che molti artisti utilizzano i marchi dei prodotti da loro pubblicizzati per sfruttarli e
fare pubblicità per se stessi, al pari di mezzi come la radio o la TV. Inoltre è da tenere presente che
una importante campagna pubblicitaria ad esempio della Nike riesce ad essere più incisiva di quanto
non sia un video trasmesso notte e giorno su un canale televisivo o un articolo di giornale
pubblicato su un'importante rivista. Questo potere può anche avere dei risvolti positivi. Ad esempio
attorno alla metà degli anni Novanta la pubblicità di Benetton ha avuto certamente un ruolo
importante nel denunciare e forse ridurre i pregiudizi razziali e ha contribuito a far sì che la moda
abbracciasse la lotta all'AIDS.
Abbiamo dato per scontato che quando parliamo di marketing in relazione ad aziende così
importanti si tratta di marketing delle multinazionali, cioè di imprese transnazionali che operano
come imprese globali all'interno di un mondo globale; tuttavia c'è da chiedersi quale sia il modo
migliore per vendere gli stessi gli stessi prodotti in Paesi diversi e quale linguaggio devono usare i
pubblicitari per rivolgersi contemporaneamente a tutto il mondo. Innanzitutto occorre ribadire che
le esigenze e i desideri del mondo si sono omogeneizzati. Theodor Levitt, docente di Economia e
autore del saggio"The Globalization of Markets" considerato il manifesto del mercato globale,
distingueva tra multinazionali deboli che si trasformano a seconda del paese in cui operano con
costi piuttosto elevati perchè cambiano la loro prassi e i loro prodotti adeguandosi alle richieste del
mercato del paese in cui lavorano e multinazionali forti, globali che non cambiano mai ovunque
vadano. Queste ultime operano come se il mondo fosse una realtà indivisa e a costi relativamente
contenuti perchè vende le stesse cose ovunque e nello stesso modo, facendo scomparire le antiche
differenze legate ai gusti di una popolazione. Le imprese globali sono ovviamente imprese
americane che esportano ovunque i gusti e la mentalità made in USA. (Esempio la COCA-COLA e
MCDONALD'S). Tale nuovo imperialismo americano ha avuto parecchie critiche e molte reazioni
sono andate nella direzione di recuperare gusti squisitamente locali, è il caso ad esempio della
nascita in Italia del movimento"slow food" contro la MCdonaldizzazione dei gusti e delle modalità
culinarie. A proposito di quest'ultimo concetto, diciamo che recentemente si è fatta strada l'idea
contraria alle insidie dell'espansionismo culturale del modello americano (mcdonaldizzazione) che
la pubblicità può vendere la diversità in se stessa, a tutti i mercati contemporaneamente. Oggi la
parola d'ordine del marketing globale non è quella di vendere l'America al mondo, ma di portare in
ogni parte del mondo un mercato che abbia un pizzico di tutti i sapori del mondo. Questa nuova
formula nota come "glocalizzazione" dà luogo a un Mondo Unico in cui le specificità locali sono
assenti, una sorta di centro commerciale globale in cui le aziende vendono lo stesso prodotto in
paesi diversi senza scatenare le vecchie accuse di Coca-colonizzazione o di Mcdonaldizzazione. Via
via che la cultura si omogenizza a livello mondiale, il compito del marketing è quello di difendere
l'idea da esso creata secondo cui i marchi dei prodotti rappresentano sogni, idee strepitose e stili di
vita, nascondendo accuratamente di mostrare i prodotti per quello che sono. semplici oggetti di uso
comune dei quali spesso si potrebbe fare a meno. Cercando di individualizzare la pubblicità sui
gusti locali, i marchi cercano di sfuggire alle accuse di vendere di fatto nient'altro che l'uniformità.

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