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E per lungo tempo il “produrre cose” è rimasto, almeno in teoria, il cuore di tutte le economie

industrializzate. Ma negli anno Ottanta, spinte dalla recessione, alcune delle industrie più po-

tenti del mondo hanno cominciato a vacillare. [...] All’incirca nello stesso periodo un nuovo tipo

di azienda cominciò a contendere quote di mercato ai produttori tradizionali americani: parliamo

di Nike e Microsoft, e successivamente di Tommy Hilfiger e di Intel. Questi precursori affer-

mavano audacemente che la produzione di beni era solo una parte secondaria delle loro attività

e che, grazie alle recenti conquiste in fatto di liberalizzazione del commercio e alla riforma delle

leggi sul lavoro, esisteva la possibilità di riappaltare la fabbricazione dei prodotti a terzi, situati

prevalentemente oltreoceano. Essi sostenevano che ciò che le loro aziende producevano princi-

palmente non erano cose, ma immagini dei loro marchi. Il loro vero lavoro non consisteva nella

produzione, bensì nel marketing.

La pubblicità ha indiscutibili qualità sociali: migliora la relazione qualità/prezzo; promuove l’in-

novazione; sviluppa la libertà di scelta; forma e informa il consumatore (quando si tratta di buona

pubblicità); può contribuire all’evoluzione del costume sociale.

(Patrizia Tronci, Università e comunicazione, Amaltea edizioni, 2001)

[...] [La pubblicità] fa leva sull’imposizione, sulla petulanza, su formule ossessive e su fattori sug-

gestivi, spesso con ambiguità e a volte anche con la menzogna vera e propria e con l’occultamento

ipocrita delle sue forme, per condizionare le scelte dei consumatori, spinti ad acquistare e a usare

di tutto e di più. Agisce sul mercato creando barriere nei confronti della concorrenza, facendo

quindi aumentare i prezzi dei prodotti e dei servizi. Corrompe la programmazione televisiva e

i contenuti degli altri media, offende spesso la sensibilità di quanti vengono raggiunti dai suoi

messaggi, impone stili di vita subordinati al valore assoluto del consumo, insidia lo sviluppo psi-

cologico e morale dei minori. (Zanacchi Adriano, Il libro nero della pubblicità, Iacobelli, 2010)

Non esistono differenze sostanziali tra la comunicazione su di un detersivo, su di un automobile

o su di un presidente della repubblica. Non amano che si dica, ma dopo tutto non dovrebbero fare

pubblicità se non desiderano ritrovarsi su di un manifesto proprio come una macchina o un de-

tersivo! Successivamente, qualsiasi parola che definisca un messaggio pubblicitario è identica per

l’uno o per l’altro. «La forza tranquilla» era lo slogan per la campagna di Mitterand ma avrebbe

potuto servire per una macchina o un sapone; la vera differenza sta nel messaggio che porterà il

manifesto. Bisogna avere una profonda etica quando si entra nelle comunicazioni politiche. [...]

Se un uomo politico vuole farsi eleggere bisogna che la gente possa conoscere le sue proposte e
la pubblicità è la migliore tecnica che sia stata inventata per comunicare, è il metodo più rapi-

do e concentrato per comunicare. Bisogna, invece, prestare attenzione alle manipolazioni della

pubblicità. Sono profondamente contrario alle campagne americane comparative che sfruttano

milioni di dollari non per comunicare ciò che pensa il candidato ma per distruggere il pensiero

dell’altro candidato. La costituzione di ogni democrazia dovrebbe interdire questo tipo di pub-

blicità. Penso che ci sia la necessità di un’etica estremamente severa.

(La pubblicità: la migliore tecnica che sia stata inventata per comunicare,

intervista a Jacques Séguéla, www.mediamente.rai.it, 3 aprile 1998)

Davanti alla pubblicità abbassiamo la guardia perché ci è familiare. La troviamo già nei papiri

dell’antico Egitto, ed esiste anche in natura, dove i pavoni, ad esempio, esibiscono le piume per

attrarre il partner. Siamo inoltre rassicurati dal fatto che controllori e associazioni per i diritti dei

consumatori si adoperano instancabilmente per proteggere la privacy e garantire la possibilità di

sottrarsi a sollecitazioni indesiderate. Ma purtroppo è in gioco qualcosa di più di quel che appare.

L’ambizione della pubblicità è indurre il consumatore a credere che la felicità e la prosperità che

vengono mostrate negli annunci siano alla portata di chi acquisti i beni o i servizi proposti. Se

le aziende pubblicitarie, grazie ai progressi della scienza della persuasione, hanno potuto fare a

meno delle geniali intuizioni dei pubblicitari (ben rappresentati dal leggendario Don Draper di

Mad Men), diversi fattori hanno però impedito di sfruttare appieno i metodi scientifici: i dati sui

comportamenti individuali che le aziende potevano reperire erano limitati; i mezzi di comunica-

zione si basavano su tecnologie che offrivano scarse opportunità di presentare annunci altamente

personalizzati (sia in televisione che nella stampa, le aziende hanno sfruttato al massimo i dati

demografici), ed era costoso creare un annuncio diverso per ognuno dei gruppi da raggiungere.

La rivoluzione della pubblicità personalizzata, che ha iniziato a manifestarsi una quindicina di

anni fa, è sempre più libera da questi limiti.

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