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Smith non pensava che uomini e donne potessero cooperare con uomini e
donne di altri paesi, di cultura diversa, perché illuminati da un’intuizione
cosmopolita. Noi ci rivolgiamo all’altro parlando “delle sue esigenze”, offrendogli
una compensazione in moneta, nel momento in cui ci aspettiamo che ci aiuti a
soddisfare una nostra necessità.
La divisione del lavoro, aggiunge Smith, è limitata dall’estensione del mercato. Più
sono i partecipanti al gioco economico e maggiori sono le opportunità di
specializzazione. (E’ improbabile che qualcuno possa campare facendo il dog sitter in un comune
di poche centinaia di abitanti; a Milano è invece un mestiere.) Più persone implicano più
individui che esprimono una domanda, e sovente domande diverse e nuove. Con
l’estensione del mercato cresce anche la possibilità di ciascuno di trovare
realizzazione a modo proprio, specializzandosi in una produzione di nicchia,
tentando di soddisfare bisogni magari sino ad allora ignorati.
La globalizzazione non è che tutto questo ma su una scala più grande: cresce
l’estensione del mercato, aumenta il numero di estranei coi quali possiamo
cooperare.
La percentuale della popolazione mondiale che vive al di sotto della soglia di
povertà, è tuttora circa il 10 per cento: nel 1990 la percentuale era pari al 37 per
cento. Questo fenomeno è stato reso possibile grazie alle catene di cooperazione
che si sono ampliate, al coinvolgimento nella divisione del lavoro di persone che
ne erano ai margini, le quali hanno finalmente potuto offrire ad altri (magari
senza conoscerli, magari senza incontrarli mai) il proprio lavoro.
La globalizzazione oggi
All’incirca metà dello scambio di merci è costituito da beni intermedi: cioè da
“cose che servono a fare altre cose”. La differenza fra la globalizzazione che
abbiamo conosciuto a cominciare dagli anni Novanta e la “prima” globalizzazione,
quella della seconda metà dell’ottocento, sta proprio qui.
Il commercio di “cose che servono a fare altre cose” ha visto una battuta
d’arresto. E’ in quest’ambito che, più che in altri, si osserva l’interconnessione
delle catene del valore: barriere commerciali più basse, miglioramenti di
carattere organizzativo, più efficaci tecnologie di comunicazione hanno ridotto i
costi di transazione (tutti quei costi nei quali incorriamo per poter effettuare uno
scambio) e anche quelli di coordinamento.
LO SCAMBIO SI SERVIZI
Alcuni servizi (per esempio le attività di manutenzione o l’ospitalità) sono
intrinsecamente non commerciabili. Tuttavia, non sono pochi i vincoli che
riducono le transazioni in quest’ambito: pensiamo a tutte le occupazioni che si
possono svolgere soltanto su licenza.
Già Adam Smith notava come il ricorso alle vie d’acqua accelerasse gli scambi. La
“prima” globalizzazione coincide con la nave a vapore.
La “nostra” globalizzazione sarebbe impensabile senza lo sviluppo del container
standardizzato da parte di Malcom McLea. Prima della containerizzazione, il
tempo necessario per le operazioni di carico-scarico superava spesso quello di
navigazione.
Il 2021 è stato l’anno del disastro della Ever Given, con il canale di Suez
“bloccato” che ha offerto ai suoi profeti un’altra prova della fine della
globalizzazione. Ma è stato anche un anno di difficoltà straordinarie incontrate dai
porti americani nello ricevere e smistare le importazioni provenienti dall’asia. I
container si sono accumulati a migliaia, causando così un aumento dei costi di
spedizione più alti sia per il trasporto marittimo che per quello interno e nel
contempo una penuria di container vuoti, domandati a loro volta dalle imprese
esportatrici per inviare le proprie merci all’estero.
La congestione dei porti statunitense è andata risolvendosi solo negli ultimi mesi.
Fra la crisi mediaticamente più visibile (la Ever Given) e quella meno visibile (la
situazione dei porti statunitensi), non c’è dubbio che sia la seconda ad avere
avuto un impatto maggiore sugli scambi
I fattori di rischio
La ripresa post-pandemica è fortemente legata al ritorno dell’inflazione. Ma
forse non si considera abbastanza il fatto che due generazioni di persone non
hanno avuto esperienza di un contesto nel quale i prezzi sono su una traiettoria di
aumento continuo, e ciò avrà conseguenze, sul modo nel quale progettano sulle
loro abitudini di consumo e sul modo in cui progettano la propria vita.
La stabilità dei prezzi viene spesso attribuita all’azione oculata delle banche
centrali (BCE): ma gli eventi suggeriscono di confidare un po’ meno
nell’onniscienza dei banchieri centrali. Invece il farsi più ramificato della divisione
del lavoro, la pressione competitiva ha calmierato i prezzi.
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La ricerca scientifica è la più globale delle imprese: abbiamo avuto degli strumenti
di diagnosi in una manciata di giorni, in pochi mesi abbiamo avuto non uno ma
addirittura quattro vaccini approvati dalle autorità di regolazione europea e
statunitense. In quest’ultimo caso, è difficile negare che i governi abbiano svolto
un ruolo positivo, ma non hanno “indirizzato” i programmi di ricerca, in una sorta
di politica industriale sanitarie. Grazie a una buona intuizione
dell’amministrazione Trump, gli Usa hanno fatto da banchieri alla farmaceutica
mondiale e snellito i processi autorizzativi.
Smontare questi trattati è difficile. Forse perché l’idea è uscita anche dalle labbra
di Christine Lagarde, si dà per scontata la riorganizzazione del mondo in blocchi
regionali: i simili dovrebbero scambiare coi simili. E’ una tesi appetibile ma forse è
difficile tradurla in azioni concrete. I due ostacoli peggiori sono l’economia e il
diritto.
Dopo le sanzioni
La società civile si attiva attraverso i mezzi che le appartengono: sottoscrizioni,
appelli, cortei. Agli organismi che hanno estraniato la Russia deve essere applicata
la logica delle sanzioni: mettere ai margini i russi, isolarli in ogni modo.
Allontanarne i russi conferma il fatto che esse altro non siano che una
emanazione dell’egemone americano.
Mercantilismo di ritorno
Anche in questo, si vede un regresso culturale. Di per sé è difficile sostenere che
immiserire i russi debba essere un obiettivo politico degli occidentali.
L’ accerchiamento delle democrazie fornisce all’autocrate un fondamentale
strumento di propaganda, l’ostilità della comunità internazionale rinfocola i
sentimenti nazionalisti.
Quel che è chiaro è che la logica delle sanzioni implica una recrudescenza
mercantilista. Si crede che non avere accesso ai nostri mercati penalizzerebbe la
Russia, il che è certamente vero, ma al contrario noi avremmo poco o niente da
perdere dal non accedere al suo. Nella migliore delle ipotesi, la saggezza dei
governi potrebbe fornirci utili “surrogati”: di qui, per esempio, la caccia al gas
intrapresa bussando alle porte dell’Algeria e dell’Egitto.
Il dettaglio che sembra sfuggire è che non sono i governi o le nazioni a scambiare:
bensì le imprese e, in ultima analisi, gli individui. Nella migliore delle ipotesi si
suggerisce che lo scotto che pagheremo, in termini di esportazioni, è inferiore a
quello che subirà Putin e che quest’ultimo sia tale da determinare l’esito della
guerra.
L’Europa ci sarà?
La crisi ucraina è un problema molto più per l’Europa che per il resto del mondo.
La crisi ucraina rivela una volta di più l’assenza di una posizione di politica estera
dell’unione europea: che, nella migliore delle ipotesi, recita lo script
dell’amministrazione americana. Se la guerra a un certo punto arriverà a una
conclusione, e quella conclusione coinciderà con un nuovo accordo negoziato
mettendo al tavolo Stati Uniti e Russia, la posizione ideale dell’Europa sarebbe
quella del mediatore.
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Oggi è difficile sostenere che i paesi che più forte pagano lo scotto della guerra
siano ancora, e di nuovo, quelli più finanziariamente deboli. Un “nuovo Recovery”
riaprirebbe antiche ferite e tensioni.
Fare i conti con l’implosione dell’unione europea non sarebbe facile, per nessuno,
e significherebbe una spinta straordinaria alla de-globalizzazione.
La società aperta
La globalizzazione, come abbiamo detto, è solo in minima parte l’esito di un
disegno, di un piano, e proprio per questo riesce sgradita alle élite intellettuali. La
globalizzazione è precisamente questo: un ordine acefalo, nel quale noi riusciamo
a cooperare con persone di cui poco ci interessa e delle quali poco condividiamo.
L’Encomio di Pericle esortava gli ateniesi a combattere in nome del loro stile di
vita, che è diverso e migliore, perché la loro democrazia “è amministrata non già
per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta”. Ma in quelle pagine
di Tucidide, le cui note vibreranno di nuovo nel discorso di Gettysburg di Abraham
Lincoln, la società che Pericle difende è aperta al punto che non si chiude mai allo
straniero, neanche “nei preparativi di guerra”. Atene “è sempre aperta a tutti e
non c’è pericolo che, allontanando i forestieri, noi impediamo ad alcuno di
conoscere o di vedere cose da cui, se non fossero tenute nascoste e un nemico le
vedesse, potrebbe trar vantaggio”. Siamo talmente sicuri che una società libera
sia più efficiente e più valorosa, siamo talmente convinti dell’importanza di aprirsi
al mondo, che non temiamo neanche lo straniero che tenta di sottrarci i segreti
militari.
Le società aperte sono un fortunato incidente della storia. Noi ci siamo nati per un
caso felice, dovremmo meritarcele conservando almeno la libertà che abbiamo
ereditato. Se vogliamo fare un passo in più, dovremmo pensare a come
“completare” la globalizzazione non restringendo il movimento delle merci, ma
liberando quello delle persone. L’immigrazione per essere accettata senza
scandalo ha bisogno di crescita economica.