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Un mondo sì global

Indagine sullo stato della globalizzazione, che ha trasformato il pianeta in una


grande rete e l’ha reso meno povero
Nel 2020 la rapida diffusione di un nuovo patogeno sembrava la miccia perfetta
per fare rinfocolare la naturale diffidenza verso il diverso e lo straniero; poteva
segnare il punto di svolta fra il secolo americano e il secolo asiatico. Tuttavia,
nell’anno peggiore della pandemia il commercio globale ha avuto una
diminuzione intorno al 10 per cento.

Si postula che la globalizzazione sia claudicante e a un passo dalla più rovinosa


delle cadute. Brexit, l’elezione di Donald Trump, la guerra commerciale fra Usa e
Cina, il Covid-19, la guerra fra Russia e Ucraina.

La globalizzazione è fragile: l’unica soluzione è lo sviluppo tecnologico


La globalizzazione è ritenuta fragile perché è in larga misura non pianificata, si
basa su un intreccio di contratti e decisioni di scambio prese da individui e
imprese. Lo scambio internazionale è reso possibile senz’altro, in certa misura, da
decisioni politiche. Dal prevalere, insomma, di scelte improntate al desiderio di
ricostruire occasioni di cooperazione e scambio; dalla Ostpolitik di Brandt al
“Signor Gorbaciov abbatta questo muro”, dalla diplomazia del ping-pong di
Kissinger fino all’ingresso della Cina nel Wto. Soprattutto, però, la politica può
impedire a imprese e persone di scambiare con imprese e persone di altri paesi.
La maggiore integrazione economica internazionale è però conseguenza
soprattutto dello sviluppo tecnologico. La “regia” politica si limita alla regole del
gioco e non influisce sulle decisioni di dettaglio.
Nel discorso pubblico, come sempre, tendiamo a sovrastimare la capacità dei
politici di risolvere i problemi e prima ancora di identificarli correttamente e a
sottostimare la creatività e le capacità di quegli individui che invece, più
direttamente, con quei problemi si confrontano.

Divisione del lavoro ed estensione del mercato


Perché un’economia “globalizzata” dovrebbe rappresentare un vantaggio? Adam
Smith sosteneva che la divisione del lavoro consente la specializzazione, ossia la
possibilità di dedicarsi a un singolo compito, che coincide con una maggiore
produttività. “Ciò che costituisce il lavoro di un uomo in uno stato sociale
primitivo, è in generale eseguito da molti in uno stato progredito”. Aumentando le
teste e le mani che lavorano a un singolo prodotto, aumenta la produttività.
Le macchine sono ovviamente un indispensabile ausilio, ma esse stesse
rappresentano l’esito della specializzazione.
Utensili migliori nascono perché i lavoratori desiderano economizzare la propria
fatica; quando la società raggiunge un grado di specializzazione sufficiente anche
la produzione di macchine e strumenti diventa un compito altamente specifico.

La Ricchezza delle nazioni è un classico del pensiero economico e politico. La


questione su cui Adam Smith si arrovellò per tutta la vita era come fosse possibile
che gli esseri umani trovassero modo di cooperare, ma per l’economista l’uomo è
un animale istintivamente diffidente.

Nel nostro passato evolutivo, vivevamo all’interno di comunità di dimensioni


ridotte, impegnate in una competizione senza esclusione di colpi per il controllo
del territorio e per il proprio sostentamento. L’altro, nel momento in cui
apparteneva a una comunità diversa, era tendenzialmente una minaccia. Per
questa ragione abbiamo sviluppato delle “scorciatoie mentali” bias cognitivi) che
sono tuttora alla base di alcuni comportamenti: la xenofobia, per esempio.

Smith non pensava che uomini e donne potessero cooperare con uomini e
donne di altri paesi, di cultura diversa, perché illuminati da un’intuizione
cosmopolita. Noi ci rivolgiamo all’altro parlando “delle sue esigenze”, offrendogli
una compensazione in moneta, nel momento in cui ci aspettiamo che ci aiuti a
soddisfare una nostra necessità.

La divisione del lavoro, aggiunge Smith, è limitata dall’estensione del mercato. Più
sono i partecipanti al gioco economico e maggiori sono le opportunità di
specializzazione. (E’ improbabile che qualcuno possa campare facendo il dog sitter in un comune
di poche centinaia di abitanti; a Milano è invece un mestiere.) Più persone implicano più
individui che esprimono una domanda, e sovente domande diverse e nuove. Con
l’estensione del mercato cresce anche la possibilità di ciascuno di trovare
realizzazione a modo proprio, specializzandosi in una produzione di nicchia,
tentando di soddisfare bisogni magari sino ad allora ignorati.

La globalizzazione non è che tutto questo ma su una scala più grande: cresce
l’estensione del mercato, aumenta il numero di estranei coi quali possiamo
cooperare.
La percentuale della popolazione mondiale che vive al di sotto della soglia di
povertà, è tuttora circa il 10 per cento: nel 1990 la percentuale era pari al 37 per
cento. Questo fenomeno è stato reso possibile grazie alle catene di cooperazione
che si sono ampliate, al coinvolgimento nella divisione del lavoro di persone che
ne erano ai margini, le quali hanno finalmente potuto offrire ad altri (magari
senza conoscerli, magari senza incontrarli mai) il proprio lavoro.

Cooperare significa affidare loro la soddisfazione di un nostro bisogno, metterci


a disposizione per soddisfarne uno loro. Ciò tende a portare a un aumento della
disponibilità di beni e servizi.

La globalizzazione oggi
All’incirca metà dello scambio di merci è costituito da beni intermedi: cioè da
“cose che servono a fare altre cose”. La differenza fra la globalizzazione che
abbiamo conosciuto a cominciare dagli anni Novanta e la “prima” globalizzazione,
quella della seconda metà dell’ottocento, sta proprio qui.
Il commercio di “cose che servono a fare altre cose” ha visto una battuta
d’arresto. E’ in quest’ambito che, più che in altri, si osserva l’interconnessione
delle catene del valore: barriere commerciali più basse, miglioramenti di
carattere organizzativo, più efficaci tecnologie di comunicazione hanno ridotto i
costi di transazione (tutti quei costi nei quali incorriamo per poter effettuare uno
scambio) e anche quelli di coordinamento.

Rispetto allo scambio di beni intermedi, ovviamente è stata importante la crescita


dei commerci di tutto ciò che riguarda componenti o tecnologie legate ai vaccini.
Come ha più volte sottolineato Simon Evenett, dell’università di San Gallo, la
pandemia ha cercato di limitare l’esportazione di dispositivi medici di colpo
diventati “essenziali”; dall’altra, si è cercato di agevolare l’importazione di
dispositivi medici di colpo diventati “essenziali”.
Quando un paese si sviluppa, la quota della produzione agricola prima e la quota
della produzione manifatturiera poi, rispetto al suo pil, tendono a ridursi: le
economie più sviluppate, come sappiamo, vedono i servizi fare la parte del leone.
Una delle eredità della pandemia è la “facilità” di scambiare servizi, nel mondo di
oggi, come l’entertainment . Ciò non ha comportato una uniformazione dei gusti
ma anzi ha consentito a produzioni locali di raggiungere per la prima volta un
pubblico globale

Pian piano si stanno facendo largo forme di “gig consulting”: attività di


consulenza a basso costo offerte in remoto. Zoom e Teams segnano una nuova
frontiera nella condivisione delle informazioni. La cosiddetta “proprietà
intellettuale” di una certa innovazione può essere tranquillamente sviluppata in
un paese e il manufatto su cui si basa realizzato in un altro. Persino l’istruzione è
stata offerta “a distanza”: l’esperienza non è perfettamente equivalente a quella
“in presenza”, ma è probabile che frequentare un Mooc (massive open
online course) di una grande università americana contribuisca a sviluppare
nuove conoscenze molto di più che la frequenza in aula nelle università di molti
altri paesi.

LO SCAMBIO SI SERVIZI
Alcuni servizi (per esempio le attività di manutenzione o l’ospitalità) sono
intrinsecamente non commerciabili. Tuttavia, non sono pochi i vincoli che
riducono le transazioni in quest’ambito: pensiamo a tutte le occupazioni che si
possono svolgere soltanto su licenza.

Proprio la crescita dei servizi rappresenta un ottimo argomento per sviluppare


nuovi trattati commerciali, con regole adatte al nuovo contesto produttivo. Nelle
scorse settimane, Biden ha annunciato una IndoPacific Economic Framework for
Prosperity che, assieme agli Usa, coinvolge dodici paesi asiatici. Gli obiettivi,
dispetti alla Cina a parte, restano poco chiari ma si è ormai compreso che non
sarà un accordo di libero scambio, ovvero non faciliterà alle imprese l’accesso ai
mercati degli altri paesi coinvolti. Del resto, l’amministrazione Biden si è finora
dimostrata più trumpiana di Trump, lasciando in vigore tutte le norme
protezionistiche introdotte dall’ex presidente e aggiungendone di nuove.

Lo spirito anticinese sembra prevalere anche sulla transizione ecologica, a


giudicare dai dazi sull’importazione di pannelli solari che pregiudica, secondo le
aziende, la riduzione delle emissioni.

La Ever Given e un’apocalisse evitata


Nel secondo dopoguerra, il commercio mondiale è ripartito in un certa misura
grazie a decisioni di carattere politico: gli americani ricordavano bene che
l’aumento dei dazi di importazione, con il Smoot-Hawley Tariff Act, aveva
esacerbato la Grande depressione e alimentato tensioni internazionali. Ma più
ancora che la politica, contò la tecnologia.

Già Adam Smith notava come il ricorso alle vie d’acqua accelerasse gli scambi. La
“prima” globalizzazione coincide con la nave a vapore.
La “nostra” globalizzazione sarebbe impensabile senza lo sviluppo del container
standardizzato da parte di Malcom McLea. Prima della containerizzazione, il
tempo necessario per le operazioni di carico-scarico superava spesso quello di
navigazione.

Il 2021 è stato l’anno del disastro della Ever Given, con il canale di Suez
“bloccato” che ha offerto ai suoi profeti un’altra prova della fine della
globalizzazione. Ma è stato anche un anno di difficoltà straordinarie incontrate dai
porti americani nello ricevere e smistare le importazioni provenienti dall’asia. I
container si sono accumulati a migliaia, causando così un aumento dei costi di
spedizione più alti sia per il trasporto marittimo che per quello interno e nel
contempo una penuria di container vuoti, domandati a loro volta dalle imprese
esportatrici per inviare le proprie merci all’estero.

La congestione dei porti statunitense è andata risolvendosi solo negli ultimi mesi.
Fra la crisi mediaticamente più visibile (la Ever Given) e quella meno visibile (la
situazione dei porti statunitensi), non c’è dubbio che sia la seconda ad avere
avuto un impatto maggiore sugli scambi

I fattori di rischio
La ripresa post-pandemica è fortemente legata al ritorno dell’inflazione. Ma
forse non si considera abbastanza il fatto che due generazioni di persone non
hanno avuto esperienza di un contesto nel quale i prezzi sono su una traiettoria di
aumento continuo, e ciò avrà conseguenze, sul modo nel quale progettano sulle
loro abitudini di consumo e sul modo in cui progettano la propria vita.

La stabilità dei prezzi viene spesso attribuita all’azione oculata delle banche
centrali (BCE): ma gli eventi suggeriscono di confidare un po’ meno
nell’onniscienza dei banchieri centrali. Invece il farsi più ramificato della divisione
del lavoro, la pressione competitiva ha calmierato i prezzi.

Gli studiosi ogni tanto distinguono fra crescita “smithiana” e crescita


“schumpeteriana”. La prima è legata, per l’appunto, al commercio. La seconda
invece è l’esito dell’innovazione tecnologica. L’una e l’altra tendono però a
presentarsi assieme: le tecnologie, come abbiamo visto, agevolano i commerci, la
crescita del numero dei partecipanti al gioco economico si accompagna a un
aumento delle teste e della creatività che possono sviluppare innovazioni nuove;
"
Quali sono i 4 tipi di innovazione
Secondo Schumpeter?
L'innovazione consiste in: ➢
Introduzione di nuovi beni ➢
Introduzione di nuovi
metodi di produzione ➢
Creazione di nuove forme organizzative

"
La ricerca scientifica è la più globale delle imprese: abbiamo avuto degli strumenti
di diagnosi in una manciata di giorni, in pochi mesi abbiamo avuto non uno ma
addirittura quattro vaccini approvati dalle autorità di regolazione europea e
statunitense. In quest’ultimo caso, è difficile negare che i governi abbiano svolto
un ruolo positivo, ma non hanno “indirizzato” i programmi di ricerca, in una sorta
di politica industriale sanitarie. Grazie a una buona intuizione
dell’amministrazione Trump, gli Usa hanno fatto da banchieri alla farmaceutica
mondiale e snellito i processi autorizzativi.

La componente “schumpeteriana” della crescita economica dei nostri tempi


dovrebbe renderla più “resiliente” a fenomeni temporanei di rallentamento dello
scambio globale. Se non si perde il know how, se non vanno smarrite le
competenze, dovrebbe essere più facile riavviare le produzioni.

L’altro elemento di maggiore solidità della “nostra” globalizzazione rispetto alle


precedenti è il fatto che essa è incardinata su “protocolli”, come la complessa
architettura della World Trade Organization e di accordi di tipo regionale. Si tratta
di documenti giuridicamente complessi, nei quali non mancano gli spazi per
manovre di tipo lobbistico e attraverso i quali alcuni settori sono riusciti a
ottenere una “protezione” di fatto, mascherata sotto parole altisonanti (la
sicurezza, la salute pubblica, eccetera).

Smontare questi trattati è difficile. Forse perché l’idea è uscita anche dalle labbra
di Christine Lagarde, si dà per scontata la riorganizzazione del mondo in blocchi
regionali: i simili dovrebbero scambiare coi simili. E’ una tesi appetibile ma forse è
difficile tradurla in azioni concrete. I due ostacoli peggiori sono l’economia e il
diritto.

Dopo le sanzioni
La società civile si attiva attraverso i mezzi che le appartengono: sottoscrizioni,
appelli, cortei. Agli organismi che hanno estraniato la Russia deve essere applicata
la logica delle sanzioni: mettere ai margini i russi, isolarli in ogni modo.
Allontanarne i russi conferma il fatto che esse altro non siano che una
emanazione dell’egemone americano.

Mercantilismo di ritorno
Anche in questo, si vede un regresso culturale. Di per sé è difficile sostenere che
immiserire i russi debba essere un obiettivo politico degli occidentali.
L’ accerchiamento delle democrazie fornisce all’autocrate un fondamentale
strumento di propaganda, l’ostilità della comunità internazionale rinfocola i
sentimenti nazionalisti.

Quel che è chiaro è che la logica delle sanzioni implica una recrudescenza
mercantilista. Si crede che non avere accesso ai nostri mercati penalizzerebbe la
Russia, il che è certamente vero, ma al contrario noi avremmo poco o niente da
perdere dal non accedere al suo. Nella migliore delle ipotesi, la saggezza dei
governi potrebbe fornirci utili “surrogati”: di qui, per esempio, la caccia al gas
intrapresa bussando alle porte dell’Algeria e dell’Egitto.

Il dettaglio che sembra sfuggire è che non sono i governi o le nazioni a scambiare:
bensì le imprese e, in ultima analisi, gli individui. Nella migliore delle ipotesi si
suggerisce che lo scotto che pagheremo, in termini di esportazioni, è inferiore a
quello che subirà Putin e che quest’ultimo sia tale da determinare l’esito della
guerra.

Joan Robinson, la grande economista di Cambridge, diceva: chi comincia una


guerra commerciale invece perde sempre.

L’Europa ci sarà?
La crisi ucraina è un problema molto più per l’Europa che per il resto del mondo.

La globalizzazione è possibile anche senza e oltre il mercato unico. Ma è chiaro


che l’unione ha assicurato una libertà di scambi e una reciprocità fra gli
ordinamenti dei paesi membri che non ha, purtroppo, pari in altre aree del
mondo.

La crisi ucraina rivela una volta di più l’assenza di una posizione di politica estera
dell’unione europea: che, nella migliore delle ipotesi, recita lo script
dell’amministrazione americana. Se la guerra a un certo punto arriverà a una
conclusione, e quella conclusione coinciderà con un nuovo accordo negoziato
mettendo al tavolo Stati Uniti e Russia, la posizione ideale dell’Europa sarebbe
quella del mediatore.
.

Oggi è difficile sostenere che i paesi che più forte pagano lo scotto della guerra
siano ancora, e di nuovo, quelli più finanziariamente deboli. Un “nuovo Recovery”
riaprirebbe antiche ferite e tensioni.

Fare i conti con l’implosione dell’unione europea non sarebbe facile, per nessuno,
e significherebbe una spinta straordinaria alla de-globalizzazione.

La società aperta
La globalizzazione, come abbiamo detto, è solo in minima parte l’esito di un
disegno, di un piano, e proprio per questo riesce sgradita alle élite intellettuali. La
globalizzazione è precisamente questo: un ordine acefalo, nel quale noi riusciamo
a cooperare con persone di cui poco ci interessa e delle quali poco condividiamo.

La cooperazione fra estranei è però un ideale intrinsecamente “debole”. La


sfruttiamo questa possibilità quando è disponibile in modo in larga misura
inconsapevole: compriamo il jeans che costa di meno, scarichiamo l’app che ci serve, mangiamo
la pizza dove la troviamo migliore. Non ci farebbe piacere sapere che stiamo alimentando l’economia
cinese, pagando l’affitto a uno sviluppatore indiano, aiutando un pizzaiolo egiziano a farsi
raggiungere da moglie e figlie.

La debolezza vera della globalizzazione è proprio questa: manca un’élite


intellettuale che la difenda, che difenda le convenienze che la rendono possibile,
che rivendichi le possibilità che essa crea per persone pure tanto diverse da noi.

L’Encomio di Pericle esortava gli ateniesi a combattere in nome del loro stile di
vita, che è diverso e migliore, perché la loro democrazia “è amministrata non già
per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta”. Ma in quelle pagine
di Tucidide, le cui note vibreranno di nuovo nel discorso di Gettysburg di Abraham
Lincoln, la società che Pericle difende è aperta al punto che non si chiude mai allo
straniero, neanche “nei preparativi di guerra”. Atene “è sempre aperta a tutti e
non c’è pericolo che, allontanando i forestieri, noi impediamo ad alcuno di
conoscere o di vedere cose da cui, se non fossero tenute nascoste e un nemico le
vedesse, potrebbe trar vantaggio”. Siamo talmente sicuri che una società libera
sia più efficiente e più valorosa, siamo talmente convinti dell’importanza di aprirsi
al mondo, che non temiamo neanche lo straniero che tenta di sottrarci i segreti
militari.

Le società aperte sono un fortunato incidente della storia. Noi ci siamo nati per un
caso felice, dovremmo meritarcele conservando almeno la libertà che abbiamo
ereditato. Se vogliamo fare un passo in più, dovremmo pensare a come
“completare” la globalizzazione non restringendo il movimento delle merci, ma
liberando quello delle persone. L’immigrazione per essere accettata senza
scandalo ha bisogno di crescita economica.

La globalizzazione meriterebbe una pattuglia di attrezzati difensori


intellettuali.

Il suo peccato originale è imperdonabile. L’hanno fatta, la fanno e la faranno, tutti


i giorni, imprenditori gretti e consumatori ignoranti, multinazionali rapaci e
massaie senza coscienza civile, fondi-locuste e bambini innamorati dei cartoni
giapponesi, tutti serenamente indifferenti al destino degli altri, al quale
partecipano ogni giorno di più.

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