RELATORI: On. VINCENZO SCOTTI, Ministro dei Beni Culturali; Dott.
GIUSEPPE CORTICELLI, Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna; Mons. ERSILIO TONINI, Arcivescovo di Ravenna. MODERATORE: Avv. SERGIO DE SIO Avv. SERGIO DE SIO Desidero anzitutto presentare gli ospiti che ci aiuteranno nel momento di lavoro di oggi: l’Onorevole Vincenzo Scotti, Ministro per i Beni Culturali e Ambientali, Monsignor Ersilio Tonini, Arcivescovo di Ravenna e il Dottor Giuseppe Corticelli, Assessore regionale per l’Emilia-Romagna alla cultura. Ci è stato detto nella giornata inaugurale di questo Meeting che l’ammirazione della bellezza che si scopre o si intuisce non può non suscitare un lavoro, che in questo caso è aiutato ad essere concreto anche dalla limitazione geografica che lo stesso titolo di questo incontro riporta. Come laici, sia pure inseriti nel più ampio respiro della Chiesa, riteniamo che l’assunzione di una precisa responsabilità e identità culturale costituisca prima di tutto e sempre l’affermazione di una libertà. Non tanto libertà da qualche cosa, libertà da legami, quanto libertà di vivere una unità fra l’esistenza che conduciamo e il suo significato, avente come unico condizionamento e scopo la verità. Perciò questa cultura non può non confrontarsi con le altre e diverse, come anche con l’ente pubblico istituzionalmente preposto a favorire condizioni di sviluppo della cultura di cui l’uomo sia, al tempo stesso, soggetto e oggetto. Condizioni di sviluppo cioè che continuamente tendano a porre, a sollevare l’uomo all’altezza del proprio mistero. On. VINCENZO SCOTTI Durante il mese di luglio a Città del Messico si è svolto un incontro tra i responsabili delle politiche culturali di tutti i paesi del mondo, cui sono state presenti 110 delegazioni. Due temi hanno dominato il dibattito; il primo è stato «La dimensione culturale dello sviluppo». Ne sono stati protagonisti soprattutto i paesi emergenti, che devono oggi costruire il loro sviluppo, cioè modelli di organizzazione produttiva e sociale nuovi, capaci di evitare gli errori compiuti dai paesi che, prima di loro, si sono accinti a dare una risposta ai bisogni fondamentali dell’uomo. La conclusione è stata che ciascun paese deve ricercare un proprio modello di vita sociale avendo come riferimento l’uomo, evitando di cadere nella ripetizione di quelli elaborati sulla base di culture diverse. Si pone allora il problema di salvaguardare la propria identità, nella consapevolezza che il futuro deve essere costruito saldamente sulla tradizione, così da cambiare le condizioni di vita facendo sviluppare la propria cultura in modo originale ed autentico. Sono stati richia mati due pericoli: il primo è di assumere modelli estranei e stravolgenti; il secondo è legato al fatto che oggi esistono strumenti di accumulazione e trasmissione della conoscenza total mente nuovi e sconvolgenti. E il pericolo che chi ha nelle mani le tecnologie dell’informazione vi ponga dentro anche il contenuto, condizionando e mortificando. Ad esempio tutti i cartoni animati, che educano i nostri figli più che la scuola o altro, sono produzioni giapponesi o americane, cioè di chi ha in mano le tecnologie e che, per ragioni di profitto, vi pone dentro un contenuto rispetto a cui gli altri paesi sono soggiogati. Il pericolo esiste già per esempio sul piano del linguaggio, che si va sempre più impoverendo e viene sempre più dominato dal paese che ha le tecnologie più avanzate, con la mortificazione delle identità e della dimensione culturale dei processi di sviluppo, che diventano privi di ogni valore qualitativo. Allora la conclusione di questo primo punto è stata che una grande sfida è di fronte a noi; sapremo salvaguardare una dimensione culturale nel cambiamento e nella modificazione dei dati quantitativi della nostra vita civile e sociale, o saremo dominati dalle quantità, verrà mortificata la dimensione umana dei processi di sviluppo? Il secondo tema è stato poi quello della libertà e del pluralismo; oggi che gli strumenti di trasmissione dell’informazione possono essere monopolizzati, il rapporto potere/cultura diventa un tema che dominerà la vicenda politica del futuro. Noi abbiamo scoperto, anche nel nostro paese, il pluralismo delle istituzioni, ma siamo molto lontani dallo scoprire fino in fondo quello delle espressioni della società civile, il pluralismo delle espressioni culturali proprie. Come garantire nelle società industriali che il potere diventi capace di non mortificare la libertà di espressione, di elaborazione culturale della società? Eppure i poteri pubblici hanno la responsabilità di fornire gli strumenti, di garantire che il pluralismo sia possibile. Qui c’è un filo lievissimo che crea uno spartiacque notevole. Come garantire al pluralismo della società e alle diverse forme di cultura al suo interno la possibilità di adeguarsi alle dimensioni nuove degli strumenti di trasmissione dell’informazione, senza che lo Stato corra la tentazione di diventare esso stesso produttore di cultura e distruttore del pluralismo? Qui il tema della libertà diventa il problema concreto, drammatico, con cui noi dobbiamo misurarci: perchè siamo di fronte a una grandissima rivoluzione, non più la carta stampata, ma la società dell’immagine, dell’informazione, dei cambiamenti che avranno nel futuro un effetto sconvolgente. I temi della cultura stanno divenendo in tutti i paesi temi fondamentali nel dibattito politico, non più nel dibattito ristretto degli esperti: come organizzare la convivenza civile, gli stati moderni, garantendo a tutte le espressioni gli strumenti di arricchimento delle conoscenze senza essere dominati o dal potere economico o politico? Anche le questioni concrete che guarderemo oggi rientreranno dentro questa grande sfida, che è il problema di sempre, del diritto a conquistare la verità nella libertà piena, ma che diventa oggi più complesso e drammatico di fronte al cambiamento delle società contemporanee e alla dimensione sempre più universale della condizione umana. Questi sono i termini generali del problema; come vi rispondiamo concretamente nel nostro paese? Come possiamo nel nostro paese rispondere positivamente alla domanda di una diversa qualità della vita che viene dalla società, garantire la libertà del pluralismo? Come avere una società italiana ricca, non appiattita, che continui ad andare avanti nel cambiamento, ma senza sparire nella sua identità? Dott. GIUSEPPE CORTICELLI Credo che il Ministro Scotti abbia molto opportunamente ricordato la recente conferenza mondiale di Città del Messico per i due temi fondamentali che in quell’occasione si sono affrontati. Ci è così stata riproposta la dimensione ad un tempo planetaria ed individuale delle questioni che ci troviamo a discutere. L’interesse per le questioni culturali non è solo da parte dei mezzi di comunicazione di massa, ma nasce dall’avvertirsi più o meno consapevole che sotto quella rubrica cominciano a raccogliersi alcune questioni di straordinario interesse, sia per i destini individuali, che per quello delle varie collettività. Io credo che a questo stesso interesse possa essere ricondotto il dibattito che in questi anni anche nel nostro paese si è sviluppato attorno alla tematica culturale e segnatamente attorno agli interventi in merito ai poteri pubblici locali, regionali e statali. Come primo punto desidero mettere in rilievo che il tema della predominanza delle que stioni sulla qualità dello sviluppo, piuttosto che sulla quantità, e quello dell’assoluta necessità di difendere il pluralismo, sono questioni che si pongono su scala planetaria, ma anche su scale più ridotte. Riportando il ragionamento a quelle scale adeguate, problemi come quelli che qui sono stati impostati valgono anche su scala nazionale, quando si pensi ad esempio al progressivo espandersi di potere, di taluni grossi centri dell’industria culturale. Perciò almeno come regione ci siamo sforzati di mettere al centro dell’intero programma di governo questo tema delle qualità dello sviluppo. Il nostro programma di governo regionale si articola attorno a tre direttrici. La prima è appunto tesa a perseguire uno sviluppo incentrato sul versante della qualità. Analoga è la seconda direttrice delle risorse. Qui forse non sarà inutile sottolineare come tra queste vadano poi anche iscritti i patrimoni culturali, i patrimoni storici, insomma il complesso dei beni culturali. Il terzo impegno di lavoro l’abbiamo definito quello della qualità della vita. Con esso abbiamo voluto rispondere alla domanda di servizi sociali e a quella di modificare il rapporto tra il cittadino e le istituzioni. E il tema proposto dall’intervento del Ministro Scotti: esiste un problema di potere fra il cittadino e l’autorità? Con questo intendo una reale partecipazione, una trasparenza dei meccanismi che portano alle decisioni. Si mostra allora che tutto il complesso della tematica culturale non può essere caricato all’esame delle politiche, delle linee di intervento del settore culturale nella sua accezione più ristretta, ma in realtà è affidato al complesso stesso delle diverse capacità che concorrono al governo. C’è una valenza culturale esplicita nelle politiche teatrali, di tutela dei beni culturali, ma ce ne è altrettanta, se non di più, in tutta la politica che riguarda l’ambiente e che si preoccupa dello sviluppo industriale, dell’agricoltura e via ragionando. Ciò non toglie evidentemente che tutta una serie di problemi specifici si ponga no poi nel settore culturale inteso nella sua accezione tecnicamente più specifica. Da questo punto di vista il tema di oggi suggerisce molteplici considerazioni, che naturalmente sono per gran parte discutibili, perchè rinviano a delle valutazioni di volta in volta mie personali, del gruppo consiliare a cui appartengo, o dell’area politica nella quale mi riconosco. Una prima considerazione: il rapporto con la cultura per quanto riguarda questa regione può essere riconosciuto come antico, ormai storicamente consolidato. Intendo alludere al l’attenzione che soprattutto da parte dei comuni, ma anche dell’amministrazione provinciale e regionale vi è sempre stata riservata, anche quando, fino a non pochi anni fa, sussistendo ancora la distinzione fra spese obbligatorie e spese facoltative, non era sempre facilissimo dirottare risorse finanziarie, impostare interventi in questi settori. A me pare che non sia senza ragioni il fatto che in questa regione una polemica che è stata in altre realtà regionali molto virulenta, tutta questa tematica dell’effimero, di un inter vento pubblico che andrebbe a totale discapito di interventi destinati a durare e quindi sulle strutture, abbia attecchito assai meno, per la buona ragione che aveva alle proprie spalle un lungo periodo di intervento, di impegno delle amministrazioni in questo settore, ciò che ha consentito di dotare questa regione di non poche istituzioni culturali e strumenti e intervento. Si farebbe male a dimenticare questa parte della nostra storia regionale perchè mi pare che da quella storia venga qualche spunto per procedere ulteriormente in avanti. In termini generali, io credo che a noi si ponga da un lato la necessità di riconoscere che siamo all’in terno di processi che hanno dimensioni geografiche enormemente ampie, nelle quali effettivamente ci si trova di fronte ad un rischio di vanificazione almeno dei tratti salienti di alcune identità culturali molto preciso. D’altro lato però dobbiamo anche riconoscere che operiamo e ci muoviamo in una realtà regionale che ha alcuni tratti caratteristici, intendo sia la storicità dell’intervento dell’ente locale, sia la straordinaria ricchezza del pluralismo di questa regione, che da sempre ha manifestato una straordinaria vivacità, una straordinaria capacità di resistere a qualsivoglia tentativo di vanificazione di identità, ma anche la quasi sempre piena disponibilità al confronto e al dialogo. All’interno di questo quadro si pongono per i governi locali e regionali tre esigenze. Una prima è quella di assumere degli impegni per dotare le diverse realtà urbane di strutture effi caci di promozione e organizzazione della cultura. Vorrei qui fare una sola sottolineatura. si tratta da questo punto di vista di affrontare delle rilevanti questioni economiche, ma non soltanto economiche. Ad esempio, chi si pone il problema, come se lo sta ponendo il Consiglio Regionale, di contribuire allo sviluppo del nostro sistema museale e bibliotecario di fronte a sè ha anche delle esigenze di ordine culturale scientifico molto preciso, nel senso che si tratta anche di chiedersi quali innovazioni, quali sviluppi occorre garantire a queste istituzioni, per porle effettivamente in condizioni di rispondere ad una domanda sociale, che chiede delle cose sufficientemente precise, come è nel caso dei bronzi di Riace. Il problema non è tanto che sia giusto o non sia giusto che anche folle scarsamente cu vedano i bronzi, è di rendersi conto che manca ancora nel nostro paese un sistema adeguato che consenta a ciascuno di noi di leggere adeguatamente, di collocare, come va collocato, quella certa espressione dell’arte ellenistica. Seconda esigenza è la necessità, da parte dell’ente pubblico, di riconoscere che l’intervento non si esaurisce nelle iniziative, o nelle manifestazioni, promosse direttamente da queste stesse realtà istituzionali di governo territoriale, ma che tra i compiti istituzionali del governo regionale, comunale, provinciale, c’è anche quello di sostenere un tessuto culturale che abbia autonoma capacità di produzione. In questi termini io credo che sia possibile collocare anche la questione, che in questa regione è sempre all’ordine del giorno, quella del pluralismo, delle condizioni da garantire perchè ci sia un concorso il più largo possibile di diverse realtà, di diverse forze alla realizzazione di un certo progetto. Il pluralismo è certamente un valore non solo in quanto rivendichi il proprio diritto all’esistenza, ma anche perchè si offre come una ricchezza all’intero tessuto sociale. Mons. ERSILIO TONINI Vi ringrazio dell’invito e dell’ascolto. La mia presenza qui vuole avere un significato non estraneo al mio «mestiere»: sono profondamente convinto che un Vescovo debba accettare la le della sua regione, che qui è quella di discutere, sempre e dovunque. E un popolo, il nostro, dalle molte vite, dalle molte passioni, che poi confluiscono in una, la convinzione che ognuno abbia qualche cosa da offrire all’altro. E allora volentieri ho accettato ed eccomi qui; ci tengo ad assicurare che è mio intento usare quello che è tipico dell’amicizia: il rispetto e la franchezza; in Romagna se non si è franchi si bestemmia. Dice va Aristotele che l’amicizia è la chiave, è la legge della politica (bisognerebbe farlo sapere al Parlamento). Per questa amicizia allora, diciamoci subito quello in cui coincidiamo e quello in cui divergiamo. Coincidiamo innanzitutto nella sincerità delle proprie vedute. Coincidiamo nella volontà decisa di servire l’uomo. Magari Corticelli dirà preferibilmente «il bene pubblico»; io dirò preferibilmente «il bene comune», ma qualcosa c’è pure di comune, sono cerchi iscritti l’uno nell’altro. Coincidiamo dunque nel volere il bene dell’uomo. Il mio amico Turci (perchè abbiamo discusso e quindi siamo diventati amici) diceva che abbiamo due ispirazioni diverse, «eppure— diceva — è pur possibile che due ispirazioni diverse tendano a creare l’umanesimo». Coincidono in questo, che formano l’umanesimo. E di qui che allora comincia il dissenso, mica solo con Turci, forse anche con Corticelli, e lo sentiremo poi. Perchè umanesimo e cultura hanno più sensi. Umanesimo può voler dire, ed è il senso tipicamente marxiano «l’uomo fatto dall’uomo», l’interpretazione che l’uomo fa di sè, l’uomo creato dall’uomo. Può voler dire ancora, «l’uomo, fine dell’uomo», ma questo è di tutti. La caratteristica che Marx gli dava è proprio questa: «duomo creato dall’uomo»; ed era in quel momento figlio dell’illuminismo. Ricordate tutti Kant: risposte umane date a problemi umani; è un po’ l’ideale dell’umanesimo illuminista, che poi l’umanesimo ateo, a sua volta, caricherà di un significato tutto speciale. A questo punto comincia la divergenza, perchè per me l’umanesimo vuole dire non appena le azioni compiute a favore dell’uomo, o l’uomo prodotto dell’uomo, ma quel fenomeno storico concreto, dal quale è nato il tipo di uomo che si è riflesso nelle Costituzioni Europee, che chiamiamo «civili». Anche «cultura» può avere più significati: può significare — come notiamo nei tedeschi — la natura di secondo grado, in contrapposizione alla natura di primo grado, quella bruta, la natura nel senso bieco dello stesso Marx, da cui la libertà si redime imponendosi ad essa. E un significato che accentua ancora di più quell’idea di «uomo prodotto dall’uomo». Quando allora si parla di «uomo storico», si intende dire «l’uomo quale è stato creato dalla storia», l’uomo vero, di fronte al quale la natura, l’invariante che esiste all’interno dell’uomo, conta assai poco, fino a pensare che l’azione dell’uomo possa produrre un uomo totalmente, essenzialmente diverso. Orbene, fatte queste premesse, che indicano un possibile dissenso, facciamo un passo innanzi pare a me che questo dibattito nostro perderebbe il suo senso, se non lo inquadrassimo nella crisi della cultura che si sta compiendo sotto i nostri occhi. Non è tanto una crisi quantitativa: se ne produce tanta da lasciare imbarazzato l’uomo. Ma vogliamo guardarci dentro? Vogliamo cominciare con l’ammettere sinceramente che in questo momento noi ci troviamo in uno dei momenti più tragici della storia? Che qualche cosa sta accadendo, che potrebbe rovesciare completamente la storia umana? Vogliamo ricordarci degli ammonimenti dei pensatori più seri di questo secolo, a cominciare da Heidegger che nel suo libro «I sentieri interrotti», ammoniva che l’uomo deve chiedersi se vuole vivere su questo pianeta, oppure vuole sradicare la propria vita, e l’umanità della propria vita, che è ancor peggio? E morto da poco Havemann; è lui che ha scritto un libro intitolato «Morgen», «Domani», ma avvertendo nel primo capitolo, che l’umanità deve rendersi conto che può essere alla fine del tempo. E tutti ricordano Einstein che ci diceva che, forse, la prima guerra dopo la prossima potrà essere combattuta ancora con la clava. Se pure ci sarà la clava e l’uomo che la porta. E il nostro Montale, che ai giornalisti del «Corriere» che gli chiedevano quali auguri fare a Natale, rispondeva «io mi auguro che i giornali non abbiano più notizie da riferire, visto che ormai le notizie che hanno da riferire sono certamente poco belle...». Un pessimismo nero, pesante, ma rimane vero che noi siamo ad un cambiamento della storia umana. E, ha detto l’Assessore Corticelli, non per il moltiplicarsi dei mezzi nuovi dell’informatica, che sarà una grande conquista, ma le notizie, i contenuti dei mezzi di comunicazione, quali saranno? Mezzi di comunicazione strepitosi, ma che cosa comunicheranno agli uomini? Che cosa avranno da dire, e che cosa avranno da offrire? Soltanto distrazioni, evasioni... E allora guardiamo dentro questa crisi e poi collocheremo il tema culturale nella nostra regione, all’ interno di questa crisi. Innanzitutto i sociologi vanno rilevando con insistenza il cambiamento culturale, dando gli anche una qualificazione. Ci diceva il CENSIS che la caratteristica del cambiamento culturale di questa epoca post- moderna si riconosce nell’emergere delle nuove povertà; innanzi tutto la caduta dell’identità personale, evanescente e indefinita. Mi veniva in mente il pittore Tagliabue che è della nostra regione, che guardando il proprio autoritratto singhiozzava di fronte alla miseria che scopriva in quel volto, per pietà di quell’uomo che era lui. La caduta dell’identità personale; l’allargamento del fenomeno della droga, che è il dissociamento più clamoroso di quest’identità personale; l’impoverimento — detto in termini sociologici — dei mondi vitali; quanto vale a dire che la vita si riduce a puro esperimento. E, incombente e te tra, la perdita del senso del vivere. Legato a questo viene subito un nuovo tema, l’emergere dei bisogni culturali, dei nuovi bisogni e dei nuovi soggetti Queste tematiche si uniscono poi in una, quella del riflusso, di cui tutti parliamo, senza accorgerci di cosa significhi. Ma accanto alla rivelazione sociologica ce n’è una pastorale: qui porto la testimonianza di un pastore, che cerca di vedere ciò che sta sotto gli occhi di tutti, ma chiaro, con uno sguardo prospettico tutto speciale. Io trovo che in questi ultimi anni gli uomini si sono fatti più pensosi, stranamente più superficiali e più pensosi, ed è lì il dram ma; tanti più interrogativi li prendono quanto più cercano di distrarsi. Che cosa noto? Preoccupazioni negli educatori e nelle famiglie per il futuro dei figli; nei giovani una ricerca, un accorgersi di sè più acuto, un interrogarsi più prepotente, ma non confondiamoci troppo: l’incertezza prende il posto del fanatismo di ieri. Il terrorismo, con tutti gli altri fenomeni che ha accompagnato, specialmente quei rivoli di sangue che hanno segnato le nostre strade, sono diventate lezioni di cattedre universitarie dentro ogni casa, capaci di fare pensare alla morte, una terribile, magnifica maestra. E i primi a prendere lezione sono stati i giovani, i quali oggi in gran parte si chiedono: «Beh, alla fin dei conti, a che serve la vita?». C’è una tristezza infinita, smisurata, nel cuore degli adolescenti, vogliono e cercano qualcuno che li guidi; ma è difficile trovarlo. Ed allora ecco la vita come esperi mento, respirano dalla cultura attuale questo annuncio di tipo nietzschiano. L’immaginario come punto di fuga. è tragico che il ragazzo vagoli qua e là senza certezza, suscita un timore terribile, il rischio della droga è già emergente per mancanza di certezze vitali. Ma c’è infine una rivelazione filosofica. siamo alla fine dell’illuminismo, le speranze nate con lui sono finite; qualcuno di voi ricorderà il libro stupendo di Nicola Abbagnano «Questa pazza filosofia», è la registrazione di questa fine. La ragione che ci è stata data, quella cosa magnifica che serve a farci da guida, a indicare un cammino, non sa più dire nulla. L’ultimo sviluppo del pensiero filosofico è questo: l’uomo non ha più niente da dire all’uomo, la ragione è nemica dell’uomo, nemica della libertà, limite al pensiero, il pensiero è ghigliottina, rimane un’unica. speranza, allora, la fantasia. Questa cosa va segnalata nel nostro dibattito, perchè è un problema grosso per i poteri pubblici, per gli educatori, per quanti portano la responsabilità dell’uomo. Qui siamo al punto definitivo: c’è il tentativo e la speranza di creare un uomo nuovo cambiato radicalmente; cito l’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, che è il manifesto degli autonomi. In particolare è estremamente interessante la proclamazione che è ora di farla finita anche con la responsabilità dell’uomo e con quei valori che si chiamano persona, anima, spirito, questi residuati dell’antico cristianesimo vanno eliminati per dare spazio alla creatività dell’uomo. Di fronte a questa prospettiva allora ecco il punto: che cosa rimane all’uomo? Chi vuole operare per l’uomo? Qui nasce subito il discorso che io faccio agli uomini impegnati nel settore politico amministrativo, compreso questo della nostra regione. Prima di tutto, che abbiano la consapevolezza dei propri limiti. Spero che ormai dopo il delitto Moro nessun politico pensi più al potere politico come soluzione di tutti i problemi umani. Il sacrificio di un politico e l’impossibilità dei politici a salvarlo ha espresso l’impotenza degli uomini ad essere salvatori del l’intero uomo. Sarà gran bene se i politici si faranno umili; se poi si faranno umili anche i giornalisti e noi tutti, allora tutto andrebbe meglio. Secondo: chiedo agli amministratori della mia regione, come agli uomini politici rappresentati qui dal Ministro, come a me Vescovo, che studino. Non è possibile vivere, intervenire sul presente, con l’immagine del solo presente. Nel presente c’è già tanto di futuro, dice Nietzsche che «mette tempo la luce dal le stelle a venire al nostro occhio, mette tempo il rumore del tuono a venire al nostro orecchio, ma è già in corso». Molte cose sono in corso che richiedono di essere avvertite e se non le avverte colui che presiede al bene comune chi le deve avvertire? Non è forse bene comune che qualcuno indirizzi interventi operativi in vista, non appena dall’alleggerimento della fatica quotidiana, perchè una serata estiva passi bene, con dolci canti (piace anche a me), ma che avverta contemporaneamente la drammaticità di questa ora? Io vorrei consigliare a tutti i politici di leggere l’ultimo capitolo dell’ultimo libro di Adorno, «Perchè Auschwitz non ritorni»; è bene leggerlo, sono parole scritte proprio prima di morire, il frutto di un lungo cercare in vista di qualche cosa che offra la strada all’umanità. Lo studio proprio su ciò che costruisce l’umanità dell’uomo: che cosa si sta muovendo dentro il loro pensiero? Dove stanno le loro esperienze e le loro speranze? Terzo punto: la restituzione del compito educativo ai soggetti sociali. Lo ha già accennato l’Assessore fra i tre punti da lui toccati; io però lo sottolineo con le parole che il Papa stesso ha detto parlando ai docenti universitari: ha detto a un certo momento che la libertà della ricerca di fronte al potere pubblico non può ridursi a pura funzione, ad un assodisfacimento esclusivo dei fini più immediati, dei bisogni sociali, specie se poi prevalentemente di interesse economico. Ho sentito notevoli lamenti circa l’accreditamento di questa capacità di essere soggetti sociali di cultura, a favore di alcuni gruppi anzichè di altri; in particolare per quanto riguarda il settore teatro. Ma la cosa più grossa che io chiedo ai politici, e non appena a quelli del la mia regione, è di scegliere fra due umanesimi; e non parlo da me, perchè detto da me, Vescovo, sarebbe sempre clericale. Ma dice Eliot, nel libro intitolato «Odissea di una società cristiana», che il futuro presenta una scelta fra la creazione di una nuova cultura cristiana e l’accettazione di una cultura pagana. Qui dico subito: quando parlo di cristianesimo, non parlo del cristianesimo che predico io, parlo di quello che è diventato l’ispirazione inconsapevole di ogni uomo, che vive in questa nostra civiltà. Qui il discorso che dobbiamo fare chiede di essere molto franchi. Noi abbiamo tre civiltà davanti a noi: la civiltà cristiana; quella indù (non c’è nessun uomo che conoscendola fino in fondo possa auspicare l’introduzione); e quella materialistica pagana, dove cioè l’uomo mostra la propria potenza nel farsi ex-novo, senza nessun limite. Allora chiedo ai politici, compresi quelli della mia regione: «Non potreste avvertire che c’è un deposito umano che è storicamente generato dal cristianesimo e che la storia, pur con tutte le sue efferatezze ci ha assicurato?». Sono i valori di fondo della nostra Costituzione: la dignità della persona umana, la responsabilità di ogni uomo, per cui un’intera nazione non può aver maggior valore di una singola persona, di una singola anima. Queste grandi certezze, quelle per le quali Nietzsche accusava il cristianesimo di aver generato il socialismo, cioè la convinzione che tutti gli uomini per la natura che portano e per la loro origine sono portatori di un’uguaglianza radicale, la certezza che la mia vita è degna di rispetto, non per il tuo capriccio, ma perchè io costituzionalmente ho la mia dignità, che è diritto io, non è assegnata, consegnata alla tua libertà. In altre parole, per dirlo con il pensiero di Camuse, «la non indefinita plasticità dell’uomo». Ma questo è uno dei concetti più forti del cristianesimo; allora chiedo di fare una scelta, decidere quale valore di fondo mettere al centro dello Stato. Avv. SERGIO DE SIO La lista degli iscritti a parlare è lunga e il tempo invece sarebbe già praticamente scaduto. Potranno intervenire allora molto probabilmente soltanto i primi due, se questi saranno brevissimi potrà parlare forse anche il terzo. MICHELE IORIO Presidente della Federazione Nazionale delle Cooperative Culturali Le feste e le rassegne culturali in genere sembra che non conoscano crisi. È vero che le manifestazioni culturali sono sempre esistite, ma negli ultimi anni ne è cambiata l’immagine. Mentre la cultura popolare, le occasioni di festa, sono legate ad un avvenimento della pro pria storia, in cui il momento di gioia è legato al momento della riflessione e del confronto con la propria vita, le feste oggi, dopo un momento di eccessiva ideologizzazione, sono vissute come un distacco dalla vita e dai problemi di tutti i giorni. Ecco il perchè del diffondersi della cosiddetta politica dell’effimero, attraverso cui passa il progetto di distruzione dei va lori tradizionali della cultura del popolo italiano. L’ente locale entra sempre più nell’organizzazione della cultura, ma l’immagine che si ricava è che questi non sia il valorizzatore di iniziative e di gruppi, ma lo sponsorizzatore di attività con lo scopo primario di creare un consenso politico che si concretizzi nelle occasioni elettorali. Per cui i contributi finanziari e gli spazi culturali vengono concessi a gruppi fedeli al partito, in alcuni casi indipendentemente dalla loro validità culturale, eliminando di fatto il tanto preteso pluralismo culturale. Le liti tra i partiti per la tournée dei Rolling Stones, le critiche dell’ARCI a Milano per «Milano Suono», Nicolini, l’Assessore alla cultura di Roma, che giunge secondo nel conto delle preferenze, non sono il segno di un’attenzione dei partiti alla cosiddetta politica del consenso, piuttosto che di una reale attenzione al valore culturale delle iniziative? Che giudizio date sulla politica dell’effimero? Secondo voi è giusto che l’ente locale sia il produttore e il giudice della politica culturale? FRANCO PALMIERI Rappresentante del «Teatro dell’Arca» di Forlì Il nostro gruppo è nato nel ‘73 a Forlì per un autentico bisogno di ricerche e di espressioni all’interno del teatro, al di fuori dei canali normali. Negli ultimi tempi gli incontri con i maestri del teatro contemporaneo ci hanno fatto constatare una crescente affermazione a livello nazionale dei nostri spettacoli. Da quattro anni inoltre la compagnia è composta da 15 dipendenti professionisti, di cui 11 attori. La crescita in campo professionale e il successo di pubblico e di critica, come attesta l’attenzione ai nostri spettacoli della stampa nazionale, non ci ha fatto perdere la caratteristica di esperienza di base, autonoma e legata a una precisa realtà culturale e popolare. Questo tipo di esperienza dopo nove anni, e dopo i tanti spettacoli realizzati in più di trecento città italiane, incontra tuttavia ancora difficoltà di chiarezza di rapporto con le istituzioni locali. E esperienza quotidiana nostra la difficoltà di dialogo con l’Amministrazione Comunale e Regionale. Do due esempi abbastanza eloquenti di questa difficoltà di rapporto. Negli ultimi tre anni, la compagnia del «Teatro dell’Arca» ha collaborato stabilmente con il drammaturgo milanese Giovanni Testori. I due spettacoli «Interrogatorio a Maria» e «Factum est» hanno registrato da soli circa 260.000 presenze in tre anni, per un totale di 410 rappresentazioni in Italia. Cito ora alcuni dati denunciati presso il Ministero del Turismo e dello Spettacolo dalle compagnie teatrali che hanno usufruito, a differenza della nostra cooperativa totalmente esclusa, del contributo regionale per il 1982. Il teatro «Nucleo» di Ferrara ha ricevuto dalla regione la somma non indifferente di 115 milioni e ha effettuato nella stagione scorsa 49 rappresentazioni (noi 410) per un totale di 7.000 presenze (noi 260.000). Il collettivo di Parma ha ricevuto la somma di 270 milioni, e ha effettuato 136 spettacoli con 33.000 presenze; e poi ci sono molti altri gruppi che hanno avuto dai 40 agli 80 milioni, e molti di questi non sono professionisti A livello comunale invece la compagnia gestisce a Forlì da sei anni il «Teatro dell’Arca», che è l’unico teatro cittadino. Ultimamente si è costituito, senza che noi siamo mai stati interpellati, un centro teatrale come centro giovanile, nella politica comune di ormai tutte le amministrazioni comunali dell’Emilia Romagna. Questo centro giovanile teatrale è stato assegnato stabilmente ad una compagnia che si e costituita esclusivamente per questo progetto e riceve dal comune una trentina di milioni all’anno. Non ci interessa fare un caso della nostra situazione, ma vorremmo chiedere conto nel concreto possa essere risolto il problema del rapporto tra le realtà di base come la nostra e le amministrazioni locali, perchè il tanto proclamato pluralismo, così come la valorizzazione delle esperienze culturali significative presenti nel territorio non rimangano solo parole. CESARE BERNARDI Rappresentante dell’ACER di Bologna Io avrei una piccola domanda da rivolgere all’Assessore Corticelli e per farla vorrei col legarmi, senza ripeterlo, al problema sollevato dal Ministro Scotti su necessità e la problematicità di uno sviluppo culturale che potenzia spazi di liberta e pluralismo Questo e un po’ in sintesi uno dei problemi che sollevava il ministro, di difficile soluzione. La mia domanda verte sul ruolo che la regione intende riconoscere nei prossimi atti legislativi a quello che viene normalmente chiamato 1’ associazionismo democratico regionale, cioè alle grandi associazioni di cui è ricca la nostra regione, così come lo è di fermenti culturali a tutti i livelli. Questa domanda nasce anche da una constatazione negativa rispetto ad alcune proclamazioni e alcuni testi, come nel confronto tra la circolare applicativa della legge 42 per la cultura in Emilia-Romagna e le cifre posteriori delle delibere della regione. La legge 42, del ‘73, stanziava 3 miliardi e 800 milioni. Era divisa in quattro capitoli: il primo, quello del patrocinio regionale, venne esaurito in pratica tutto dal progetto della regione sul 700. Il secondo, sullo spettacolo, di 2 miliardi e 600 milioni, venne esaurito attraverso l’affidamento di questi soldi a enti pubblici, o comunque a gruppi che portano avanti con enti pubblici, o per conto degli enti pubblici, manifestazioni, iniziative, gestioni di teatro. Il terzo capitolo è quello delle province, con 155 milioni. Rimane questo piccolo capitolo di 387 milioni, affidati all’associazionismo democratico regionale. A mio modesto parere, ma non solo mio, sono totalmente insufficienti rispetto al ruolo che l’associazionismo democratico regionale richiede, ma anche allo stesso ruolo che l’assessorato regionale della cultura ha affermato più volte di voler riconoscere ad esso. Essendo alle soglie della nuova legislazione regionale vorrei chiedere all’Assessore Corticelli se ha già un’idea di quale ruolo la regione intende affidare a democratico regionale, cioè se dovrà scomparire o se avrà un ruolo. Avv. SERGIO DE SIO Restituendo la parola ai nostri ospiti, invertiremo parzialmente il giro per qualche risposta; quindi inizia l’Assessore Corticelli, che mi pare sia stato direttamente chiamato in causa. Dott. GIUSEPPE CORTICELLI Prima di tentare di rispondere quanto più puntualmente mi riuscirà di fare agli intervenuti con domande specifiche, vorrei cogliere almeno alcuni dei numerosi spunti di riflessione che l’intervento di Monsignor Tonini ha fornito. Personalmente ritengo assai più produttivo un confronto tra posizioni e aspirazioni diverse, assai più che attorno a questioni e concetti di assai difficile definizione, quali quelli proposti: umanesimo, cultura, civiltà. Preferirei verificare qualità e quantità di questo dissenso e accordo attorno alle questioni concrete che ci stanno effettivamente di fronte. Diversamente io credo che il rischio sia di isterilire il dibattito. Mi consenta da questo punto di vista di richiamare alla mente quella autorevolissima affermazione che invitava a distinguere fra l’errore e l’errante, nella consapevolezza che pure partendo da punti iniziali diversi, sia poi possibile su problemi concreti lavorare assieme per soluzioni che convincono tutti (anche se va detto, a chi dice che la ragione è nemica dell’uomo, che già nel fare un’affermazione come questa a null’altro facciamo riferimento, fuorchè alla stessa ragione umana). C’è il rischio di fare davvero per ceni aspetti dell’accademia e Monsignor Tonini ci richiama che questo davvero non è il momento di fare l’accademia. Perchè mentre noi stiamo qui a discutere i problemi continuano a sussistere le grandi tragedie dell’umanità. C’è bisogno di muoversi; allora credo che convenga cercare non solo di confrontarci, ma di prospettare anche soluzioni concrete — e certamente non possono ridursi alla mera sperimentazione di soluzioni, c’è bisogno anche di confronto, di analisi, di strumenti di attuazione —. Ma già su questo terreno la possibilità di intrecciare azione e riflessione diventa più concreta, più produttiva; del resto io ho tentato di dirvelo. Le linee di fondo a cui tentiamo di ispirare il governo regionale muovono proprio dal ri conoscimento che siamo di fronte a dei problemi per certi aspetti nuovi, indotti anche in questa regione da una «qualità» dello sviluppo che ora ci costringe ad affrontare e risolvere questioni di straordinaria complessità, quali quelle richiamate dallo stesso Monsignor Tonini, delle nuove povertà. Da parte di tante amministrazioni comunali, soprattutto di quelle dei grossi centri, la cosiddetta politica dell’effimero nasce anche dalla necessità di dare risposte concrete ai problemi dell’animazione delle grandi metropoli. Ma il problema non è l’effimero, è riconoscere che in molte realtà metropolitane gran parte della proposta culturale si riduce a questo, senza che questa affermazione significhi un giudizio di valore su quelle proposte. Semmai io mi sento di fare critiche quando si tenta di esportare moduli e sistemi di intervento che, idonei in talune grosse realtà metropolitane, lo diventano assai meno in realtà regionali quale la nostra, dove l’intervento degli enti locali è antico e il pluralismo ha sempre avuto modo di farsi sentire e di operare in spazi sia suoi che pubblici. Quindi la necessità, effimero o non effimero, di stare il più legato ai dati concreti della realtà. Ancora sulle raccomandazioni che ci faceva Monsignor Tonini. Io credo che sia davvero una necessità anche dei politici di essere pienamente consapevoli dei propri limiti. E un’affermazione che io sottoscrivo in pieno, se è una critica severa alla politica come spettacolo, fatta soltanto di azioni che mirano alla loro efficacia come mezzo di comunicazione, sapendo poi che, proprio in coerenza alla logica del mezzo di comunicazione, è possibile 48 ore dopo rinnegare quello che si è affermato 48 ore prima. Così non può che essere accolto fino in fondo l’invito a studiare, non solo per quanto riguarda personalmente, ma anche come soggetti collettivi, impegnati in azioni di governo. Tanto più d’accordo quanto più il governo locale e nazionale ha bisogno sempre più di un rapporto reale con le cosiddette culture specifiche, con i saperi finalizzati alla soluzione di questioni particolari anche di grande portata. E il riconoscimento cioè della necessità imprescindibile di elevare il grado di scientificità dell’azione di governo, ma anche qui siamo alle solite, continuiamo a muoverci in una dimensione legislativa e amministrativa nazionale che è assolutamente carente. Si è fatto più volte riferimento allo straordinario potere dei mezzi di comunicazione di massa; perchè in questo paese non si riesce ancora ad avere una legga adeguata di regolamentazione dell’emittenza privata? Perchè si continua tranquillamente a lasciar operare un regime che fra gli altri effetti ha quello di sradicare le voci realmente e autonomamente legate alle realtà locali, culturali, civili o sociali? Se c’è una serie non breve di impegni da chiedere ai governi locali e regionali va pur detto che c’è una serie altrettanto lunga e più antica di inadempienze che su questo stesso terreno continuiamo a scontare e dalle quali gravano su di noi dei pesi tutt’altro che trascurabili. Ancora diceva Monsignor Tonini: restituiamo il compito educativo ai soggetti sociali. Questa è un’affermazione che avrei bisogno di capire meglio. Se questo significa riconoscere che il processo educativo dura tutta la vita e ad esso possono e debbono concorrere una pluralità di istituzioni, pienamente d’accordo. Ma se questa restituzione significa anche ritorno indietro rispetto all’intervento pubblico in questo settore, allora no. Dovrei motivare storicamente il mio dissenso, vedere ad esempio come in questa realtà nazionale, dal 1848 in avanti, le diverse ispirazioni culturali e ideali si sono poste il problema della alfabetizzazione. Monsignor Tonini consenta anche a me un rinvio bibliografico: la lettura delle prime annate della Civiltà Cattolica sarebbe di straordinario interesse, per vedere come da parte al meno di una certa componente cattolica italiana si sia guardato con acutissima diffidenza, non solo all’intervento pubblico in questo settore, ma più propriamente alla questione se fosse opportuno o no diffondere conoscenza, cultura, alfabetismo, alle grandi masse di questo paese. Dico questo non per amore di polemica, ma per affrontare l’ultima questione che mi premeva affrontare, cioè se vi sia davvero di fronte a noi la necessità di scegliere fra una civiltà cristiana ed una pagana. Credo che anche in questo caso ci si trovi di fronte ad un’alternativa più apparente che reale, perchè ancora una volta bisognerebbe procedere a quella vecchia operazione, non ricordo più se tomistica o scolastica, che credo venisse definita «explicatio terminorum»: di cosa stiamo parlando? Di quale cristianesimo ragioniamo, di quale paganesimo ragioniamo? Certo è che se per paganesimo si intende il rifiuto di qualunque esperienza di organizzazione sociale o civile che sia riconducibile ad una scelta a priori, ideologica, culturale o politica, materialistica o non materialistica che sia (insomma qualunque impostazione teocratica, intesa anche in senso ateo), non ho nessuna difficoltà ad essere d’accordo; perchè è chiaro che abbiamo attuato un’operazione lessicale, di restringimento da un lato e di ampliamento dal l’altro, per cui abbiamo fatto confluire tutto il positivo — ma non soltanto in area occidenta le, ma direi su scala planetaria — rispetto all’idea che abbiamo dell’uomo e del suo valore, sotto il termine di cristianesimo. Non so fino a che punto questo sia possibile da un punto di vista storico-filosofico, ma se si intende questo, credo che difficoltà a schierarci da questo punto di vista non ve ne sia no; a patto però che si riconosca come, a volte, può succedere di essere tanto cattolici, tanto protestanti, tanto evangelisti, da dimenticarsi di essere cristiani. Fuori di metafora ci sono, effettivamente, dei valori che in qualche misura sono riconducibili alla matrice cristiana, che sono stati assai più praticati da dei pretesi «atei» che non da chi invece aveva il compito etico-storico di praticarli. Ma anche per questa via credo che il confronto può essere assai più proficuo sulle questioni che non immediatamente sugli schieramenti. Quanto alle questioni poste, quelle che poneva Jorio credo che abbiano gia avuto abbastanza esplicitamente una risposta. Sull’effimero, io credo che qui si tratti di capire di che cosa ragioniamo, e potrei cavarmela con una battuta che non è mia, è di uno scrittore inglese, «che non c’è niente di più effimero della fioritura di un giardino, ma tutti sanno quanta cura, quanta testarda fatica e lavoro e organizzazione, richiede la fioritura di un giardino». Allora credo che quanto più e meglio produrremo delle manifestazioni cosiddette «effimere», se poi effimero vuol dire spettacolo, tanto più lavoreremo per irrobustire il nostro sistema di istituzioni culturali. Credo che sia sbagliato guardare gli assessori alla cultura come degli impresari, teatrali, cinematografici, del tempo libero, o che altro, ma che si debba che riconoscere che l’ente locale è titolare di intervento diretto in questo settore e che fra i titoli del proprio intervento sta la necessità di promuovere l’iniziativa che non è propria. Qui si agganciano altre due questioni: allora la Regione Emilia-Romagna che fa, predica bene, ma razzola male? E qui la polemica molto signorile di Monsignor Tonini, più esplicita ma altrettanto gentile degli amici che sono intervenuti nel dibattito. Io non credo che ci si trovi di fronte ad una così patente divaricazione fra affermazioni e pratiche. Noi continuiamo a lavorare con una strumentazione legislativa per quanto riguarda la formazione cultura le assolutamente inadeguata, tant’è che già di fronte alla commissione stanno alcuni progetti di legge che superano l’attuale. Ma, riconosciuto questo, anche nel 1982 la ripartizione per grandi aree, intervento pubblico da un lato, intervento privato dall’altro, si attesta su dei valori largamente diversi da quelli detti. Di quei famosi tre miliardi e 775 milioni, due miliardi e 21 milioni sono andati all’area pubblica, un miliardo e 753 milioni all’area privata. Ma, si dice, dentro questo privato si è operata, da pane della Regione e segnatamente da chi vi sta parlando — evidentemente non per decisione propria, ma per ordine di scuderia —una decisa opera di favoreggiamento di quelli che sono stati sprezzantemente chiamati « giullari dell’assessore». Anche qui io credo che la polemica a volte pregiudiziale, a volte infondata, altre volte semplicemente disinformata, abbia fatto velo all’esame vero delle questioni che abbiamo di fronte. E vengo alla questione che è stata posta dall’amico del «Teatro dell’Arca di Forlì» al quale vorrei dire due cose: la prima riguarda il futuro. La commissione a settembre tornerà a riunirsi in vista di una organizzazione del testo legislativo che si preoccupi di garantire taluni spazi di intervento anche alle realtà private. Su questa prospettiva c’è di che lavorare, c’è un oggetto sul quale ancorare una discussione più puntuale. L’altra cosa è questa: c’è una inesattezza in quanto ha detto — e non riguarda i dati che ha qui riferito, relativi alla propria compagnia, ma questa pietra di paragone che è stata assunta per dimostrare tutta l’iniquità di bandiere che avrebbero ispirato l’assegnazione dei fondi. Il teatro «Nucleo» di Ferrara non ha avuto un bel nulla in quanto teatro Nucleo; insieme ad altre 12 compagnie teatrali è invece titolare di quel progetto che è noto in regione come «Maestri e Margherite». E in delibera è indicato a lui, per la buona ragione che quel gruppo è stato indicato dagli altri per la zona di Ferrara-Modena- Comacchio, come dire il cassiere, il tesoriere di quella tranche di operazione. La quale scelta è stata in realtà ispirata ad un principio solo: per il 1982 si è intervenuto unicamente a favore di quelle compagnie teatrali che lavorano in regime convenzionato con l’ente locale. Questo secondo me è il punto vero da discutere e cioè se sia corretta la scelta che è stata fatta. Quanto a Bernardi, lui sa come su tutta la questione della promozione culturale ci sia l’impegno della giunta regionale a proporre un disegno di legge regionale, che riguarda unicamente questo tema della promozione culturale. Il che significa che per quel provvedimento gli unici soggetti che verranno riconosciuti saranno giusto quelle centrali regionali che qui venivano ricordate e alle quali, credo, nessuno misconosce il ruolo e le capacità che hanno. Anche qui però sapendo, soprattutto in una realtà come quella che ci sta di fronte, che il titolo al rapporto con il potere pubblico non può essere unicamente il fatto che si esiste, il fatto che si è sul territorio. Bisognerà studiare dei punti di snodo, dei punti di raccordo, in cui la proposta del protagonista privato, si incontri con delle esigenze di carattere e interesse generale e regionale. D’altra parte, questo meccanismo è lo stesso che ispira gli interventi centrali, rispetto ai qua li non mi pare che si sia mai particolarmente appuntata la polemica da parte di questi stessi gruppi. Ma l’impegno su questi progetti di legge, ad avere un confronto e, se necessario, anche uno scontro, avendo davanti evidentemente le concrete proposte che si intendono sviluppare. On. VINCENZO SCOTTI Io parlerò da cittadino, e non solo da politico, perchè ho giustamente come diceva Mons. Tonini, la consapevolezza del limite dell’azione politica, che concorre con altre a costruire una città dell’uomo, ma non è responsabile esclusiva e totalizzante di questa costruzione. Su questo credo che vi sia un punto di convergenza importante oggi nel mondo, in gran parte dei Paesi, mentre altri sono ancora attratti dalla funzione totalizzante della politica. Detto questo, vorrei fare qualche considerazione provocativa sulla prima parte dell’intervento di Mons. Tonini. Giustamente ha ripreso un punto, la dimensione culturale dello sviluppo, su cui oggi la ricerca sul tema dello sviluppo si sposta sempre più. Ma qui lui introduce la domanda «quale cultura?» e dice che siamo di fronte alla crisi di una cultura. Io però ho il terrore delle visioni pessimiste del mondo. Così ho paura che molto spesso noi giudichiamo negativa la crisi della cultura moderna, mentre è un elemento positivo, perchè è la fine di una grande illusione: quella del dominio della ragione su tutto, della possibilità di costruirere in laboratorio per la vita civile, economica, politica, dei modelli totalizzanti perfetti. Oggi noi siamo di fronte ad una crisi, ma proprio qui fiorisce qualcosa di nuovo, di importante. Io sono profondamente ottimista, non ho una visione apocalittica, nel senso non teologico, della condizione del genere umano. Noi ci troviamo di fronte alla crisi di una risposta totalizzante, semplificante dell’uomo, in cui la felicità, la risposta appagante ai problemi, si voleva possibile sulla base della sola ragione. In fondo noi ci troviamo di fronte alla frustrazione dell’intellettuale delle nostre società. Gli stessi fenomeni di violenza sono il segno della totale incapacità di risposta ai nuovi bisogni del cambiamento. In fondo, è la condizione dell’apprendista stregone: aver contribuito al cambiamento ed essere incapace di dominano e dargli una risposta. Per me questo è un dato positivo, anche se avviene attraverso una fatica, perchè la ricerca della verità e di una strada non è mai indolore. Non dimentichiamo che la salvezza, individuale e collettiva, passa attraverso un travaglio, una condizione di dura sofferenza. Solo chi ha un’immagine semplificata della vita può porla come un processo che non passi attraverso la morte, attraverso un elemento di distruzione che è però necessario e positivo. Allora la crisi di questa cultura è il dato entro cui bisogna intravvedere tutto quello che in positivo matura, cogliere tutto lo sforzo di verità che c’è nell’interno. In fondo per i cristiani qualsiasi verità o brandello di verità, da chiunque venga, viene dallo Spirito. Questo è allora tempo di grandi distruzioni ma anche di grandi prospettive. Certe espressioni sociologiche — riflusso, ritorno — sono totalmente sbagliate, perchè non è il volgere le spalle verso il passato, ma cogliere quello che di nuovo sta maturando. E la fine dell’illusione della ragione. Allora il problema è di costruire: quale cultura, ci si chiede? E c’è la necessità del dialogo, a proposito del quale Mons. Tonini ha posto il problema di un confronto tra gli umanesimi. Ecco, il confronto politico deve recuperare il problema che poneva Mons. Tonini: quale politica? Qual è l’umanesimo che vogliamo costruire? Abbiamo perso in questi ultimi tempi nel nostro Paese la dimensione culturale del confronto: non la dimensione del potere, ma quella culturale, che sta prima e dopo la nostra azione, senza cui l’azione stessa non avrebbe senso. Noi dobbiamo avere un limite nell’azione politica, essere consapevoli del limite della nostra azione. Ma dobbiamo recuperare la politica ad una dimensione culturale, collocare il nostro confronto e scontro all’interno di quello tra le culture, nella ricerca che l’uomo della nostra società fa della verità e quindi di una casa umana, di una dimensione della vita adeguata al bi sogno profondo che viene dall’uomo. Qui c’è un punto su cui desidererei un approfondimento. Molto spesso ed è una responsabilità nostra, dei cristiani, il problema del rapporto fra noi e le altre culture è stato posto esclusivamente nei termini di verità-errore, in una dimensione integralista, chiusa, senza cogliere la ricerca della verità nell’interno delle esperienze umane. Questo riguarda il rapporto fra noi e le altre culture, perchè quando Mons. Tonini parlava di un umanesimo cristiano e di una religiosità atea, offriva un terreno su cui dobbiamo approfondire. Questo è un tema di fondo, se non vogliamo ridurre la vita collettiva soltanto ad uno scontro di potere. Cosa significa una ricerca di qualità nel processo di sviluppo, se non questo recuperare alla politica una dimensione culturale? In questo contesto c’è poi anche una crisi del ruolo degli intellettuali nel nostro Paese. Attenzione. C’è sì un problema di asservimento, cioè un tentativo del potere di asservire l’intellettuale. Ma c’è anche una fuga di responsabilità degli intellettuali all’interno del nostro Paese. All’interno dell’Università c’è stato nel mondo accademico una fuga, una paura, una in capacità di libertà, che si mostra in un appiattimento continuo, servile, rispetto al potere. Allora riconduciamo l’intellettuale alla funzione di coscienza critica all’interno del nostro Paese, che deve rimanere tale nella sua libertà e che esso deve rivendicare. Noi rivendichiamo alla società la dimensione dell’educazione e questo è un altro tema di fondo tra noi e il PCI, il significato del pluralismo nella società: perchè il rapporto tra potere e pluralismo nel la società deve essere scomodo, dato che il politico cerca sempre il consenso e strumentalizza tutto al consenso; è per lui una tentazione permanente. Noi siamo possessori di strumenti che non sono in sè perversi, il problema è anche l’uso che di essi si fa. Concludo, dicendo che qui sono state aperte tutta una serie di questioni di grande rilievo; ancora una volta, con le vostre iniziative, avete provocato un dibattito nel nostro Paese, che è alle prime armi nel confronto culturale e va liberato da una serie di questioni false. La cosa più difficile nella ricerca è liberarsi dai dati negativi e non continuare a ragionare con una serie di luoghi comuni. Io spero che si possa andare avanti, perchè la questione oggi non è tanto sugli strumenti della politica culturale, ma è la discussione di fondo, sul ruolo della politica culturale nella politica tout-court. E questa non può essere estranea ai problemi drammatici, ma così esaltanti, con cui ci troviamo a confrontarci. Mons. ERSILIO TONINI Tenterò di rispondere come posso alle osservazioni che sono state fatte. Comincio col precisare i vari sensi di umanesimo e cultura. Non c’è dubbio che quando noi parliamo di umanesimo, ci riempiamo la bocca Non c’è dubbio che il credente e l’ateo possono coincidere nell’aiutare l’uomo. Io non ho paura dell’ateismo, dell’anticlericalismo della nostra Romagna, ho estrema attenzione al fenomeno ateistico, e devo riconoscere che ho imparato tanto dagli atei. Ma il problema adesso è molto diverso, non riguarda Dio ma l’uomo, quale tipo di uomo. Diciamo così «umanità o barbarie». E un libro di uno scrittore francese, uno dei «nuovi filosofi», che poi filosofi molti non sono, ma ad ogni modo si sbno presentati come tali: «La barbarie dal volto umano». Emanuele Severino scrisse su «Il Corriere della Sera)) pressapoco così: «Tutti parlano contro il terrorismo, compreso il mio amico laico Moravia, ma signori, non esistono ragioni contro il terrorismo, perchè non esiste la ragione; esiste solo la ragione della forza è la forza che dà ragione. Il fascismo ha avuto torto, perchè è stato debole, ma se fosse stato un po’ più forte, avrebbe avuto ragione». La conclusione della nostra civilizzazione, dopo due secoli di illuminismo, è questa: che non esiste nessuna certezza valida per tutti; da nessuna parte sta scritto che non si debba ammazzare, non si debba rubare, non si debba tradire, non si debba fare adulterio, e via dicendo... Ora noi abbiamo pensatori che vanno in giro per le nostre sale bibliotecarie comunali, chiamati dai nostri comuni, filosofi e pensatori come Severino o Vattimo che professano apertamente il nichilismo come unica soluzione dei problemi della vita, e come una nuova civiltà. Ora, io amo la discussione ed il dibattito, ma gli operatori culturali si devono pur chiedere se basta il dibattito in sè, o se va aiutato il giovane a trovare una verità) una certezza, un valore umano. L’uomo avrà quel che si è meritato: è libero di scegliere le verità che crede, ma a costo di pagarle. Perchè non è indifferente per l’uomo la visione che dà di se stesso. Qual è l’immagine che Vattimo dà dell’uomo? Dice chiarissimamente che la morte di Dio e dei valori supremi, ha operato il più grande miracolo della storia del mondo, perchè finalmente è data all’uomo la possibilità di mutare all’infinito, di cangiare e di scambiare i valori all’infinito. Non è vero quel che dice Bocca in un suo recente articolo su «Repubblica», apparso il 5 maggio, che «i valori del nostro tempo, checchè si dica, sono i soliti, i vecchi, gli insostituibili, ma come presi in un ballo di S. Vito, evocati e rinverditi dalla forza emotiva dei mass media». Non è vero questo. Perchè lo stesso Bocca, polemizzando (mi pare che sia stato lui, salvo errore) con Norberto Bobbio, che durante la campagna referendaria per l’aborto, ave va detto: «Signori miei, abortire è uccidere e uccidere non si può; ‘non ucciderai’ è un comandamento di verità assoluta», rispose: «Ma cosa ci vieni a dire? Hanno sempre ucciso gli uomini! Non è per niente vero che sia un comandamento valido per tutti in eterno. E il frutto del contratto sociale; è il frutto della volontà generale». Ecco un mutamento di civiltà, ecco un segno che non siamo di fronte a un ballo di San Vito, ma ad una permuta, uno scardinamento, un rovesciamento. L’uomo è libero di farlo, e lo faccia pure. Ma allora avranno ragione i terroristi a dire «Signori miei, è lecito fare un po’ di morti per evitare i morti di domani». Dunque quando io insisto sul valore dell’umanesimo, è proprio per questo, perchè è sì possibile da visioni diverse arrivare ad una stessa conclusione, ma a una condizione: che ci sia un punto di riferimento comune. Almeno la grammatica, ci sia; e la grammatica prima è quella che mi dice che c’è differenza fra essere o non essere, essere uomo ed essere cane. Ma l’Ass. Corticelli mi chiede di scendere al concreto, allora dirà delle cose un po’ delicatucce. La prima: io spero tanto, e l’ho detto prima, che il Partito comunista, per quel tanto di valori cristiani impazziti (come li chiamava Berdjaev) che si porta dentro, e che si portano dentro gli uomini comuni — compresi gli stessi dirigenti —, abbia il coraggio di vedere fino in fondo; non più soltanto in fondo al pensiero marxista o di quello leninista, ormai lì è la storia che ha fatto, direi, un rinnovamento. Ma in riferimento a Gramsci: Gramsci ha prospettato il suo ordine nuovo, specie nei «Quaderni dal carcere», precisamente così. Dice: «La rivoluzione non serve a nulla, non creerà che aberrazioni e nuovi schiavi. Se il nostro partito vuole arrivare a prendere in mano il potere, ha una via sola: la via della rivoluzione culturale e morale». In che cosa consiste la rivoluzione culturale e morale? Chiaramente, in una visione filosofica totale della vita: vale a dire, nella visione filosofica della vita, prospettata dal marxismo, da sostituire totalmente alla visione cristiana della vita e agli stessi primi principi del senso comune. A questo punto io sono molto preoccupato: sono preoccupato perchè, se questa è la sostituzione integrale di una visione marxista alla visione cristiana, è indubbiamente un cambio di civiltà, e laddove è avvenuta sul serio, nei paesi del socialismo reale, sappiamo che cosa ha prodotto. Per fortuna il socialismo, nè quello reale nè quello utopico, si è introdotto da noi; è servito, invece, a sviluppare altri germi e anch’esso ha dato un contributo per giungere a questo stadio in cui ci troviamo. Però non posso non dire ad un rappresentante di questo settore qualificato, che io spero tanto che Gramsci abbia perso (per usare le parole di Berlinguer) la sua carica propulsiva, e rimanga nel partito invece ben altra prospettiva. Altro punto: cosa voglio chiedendo di restituire la capacità di cultura ai soggetti natura li? L’Assessore mi invita a scendere neI concreto, ed ecco il concreto. Preciso: innanzitutto non sono certo io che chiedo l’abolizione della scuola pubblica, perchè è troppo evidente che è un servizio che il potere deve fare a favore della comunità. Ci sarebbe piuttosto da critica re quella visione hegeliana della vita che si traduce nella politica, secondo la quale lo Stato è la super-persona, ed essendo lo Stato promotore della scuola, la scuola dello Stato non può essere che laica vale a dire agnostica. Questa è una visione che assolutamente non accetto: lo Stato non è per niente la super-persona, ma la nazione siamo noi, la comunità siamo noi; diceva Maritain «il paese, la nazione, è una comunità di persone, che siamo noi, con i nostri bisogni reali, le nostre visioni reali, con la totalità del nostro essere». Dunque allora: certissimamente va bene la scuola pubblica, magari con capacità di inventiva anche maggiore; però sia concesso ai cittadini, e anzitutto ai genitori, di essere genitori fino in fondo e non uomini dimezzati, che hanno messo al mondo i propri figli e poi li concedono ad altri. Siano responsabili di inventare la forma educativa e di offrire ai propri figli, singolarmente o associati insieme, un valore culturale quale è quello della scuola Su questo punto vorrei fare qualche osservazione all’Assessore. Noi Vescovi della Regione emiliana abbiamo sofferto un dolore pungente. Ed è questo: noi abbiamo trovato in ogni parrocchia, la Scuola Materna. Io l’ho trovata sostenuta con amore dal parroco, dalle suore, dalla gente, ma l’ho trovata sotto soffocamento. Quante parrocchie hanno dovuto chiudere le Scuole materne, perchè ricevono dalla Regione, mi pare, 12.500 lire all’anno per ogni ragazzo, mentre lo stesso ragazzo della scuola comunale o statale costa allo Stato ben più di un milione. E un dramma, e questa gente si tassa, e si sfoga. Perchè? Perchè? Perchè? Che cos’hanno di meno? Ora, 7 anni fa, quando venni a Ravenna, io trovai in chi dirigeva il settore questa obiezione: «Voi siete una parte, voi rappresentate una ideologia, noi invece rappresentiamo la visione pubblica...». Ma quando io ho chiesto a uno di questi «Scusi un po’, ma lei che mi parla, mi dica la verità. I migliori sentimenti che ha nell’animo, a chi li deve? Dove li ha presi?». Ha dovuto dire: «Beh, li ho presi dall’educazione cristiana». Adesso pare che le cose migliorino. So che siamo in trattative, noi Vescovi, con la Regione, al fine di una regolamentazione. Ancora: l’alternativa umanesimo-paganesimo. Forse ho sbagliato a dire paganesimo, perchè «paganesimo» aveva pure qualche cosa di buono, ma quello che io vedo avanti a me è l’aspetto peggiore del paganesimo. Il Min. Scotti mi rimprovera di pessimismo, e può darsi che abbia ragione. Ma io guardando avanti vedo il pensiero prodotto nelle università in stato comatoso. Noi abbiamo pochi pensatori; in compenso, abbiamo produttori di pensieri, i quali ci vengono a dire che l’uomo oggi non ha più nulla da fare, si deve liberare di ogni certezza, compresa quella della propria responsabilità, la certezza di essere persona. Non esiste più la prima persona, l’io, il tu, lui, noi, voi, loro. Esiste soltanto la quarta persona, il «si»; «si» pensa il me e «si» dice il me. Quello che io sto dicendo, era predetto da Nietzsche, in «La gaia scienza»: «Morirà Dio, e scomparirà il Cristianesimo. Ma questo significherà l’epoca più terribile per l’umanità, perchè in quel l’epoca cadranno tutte le certezze, scomparirà la morale, e una cosa risalterà, l’istinto dell’uomo che deve affermare la sua potenza...». Così oggi c’è rischio a uscire di sera, i nostri ragazzi dicono che fa più paura l’uomo che la jena. L’Assessore mi chiede di portare degli esempi; e allora dico un’altra cosa piuttosto delicata: dopo la crisi del pensiero marxista, resosi incapace di interpretare l’attuale crisi della storia, la propria crisi, di interpretare in particolare la grande crisi dei valori, quali valori offrirà il partito comunista? Maurice Clavel, il grande giornalista- filosofo francese morto due anni fa, diceva che i partiti comunisti europei, non avendo più valori marxisti da offrire, offriranno valori pagani. Berlinguer va ripetendo da due anni nei Congressi, nei Comitati Centrali, che il partito dovrà essere sempre più laico, intendendo con questa parola non solo l’indipendenza da Marx o da Lenin, ma anche da certi valori recepiti di ordine morale vero e proprio. Così nel settembre scorso alle femministe è stato promesso che dal 17 maggio deve partire una nuova cultura: il 17 maggio sappiamo tutti che cosa rappresenta.. Ancora, perché il partito comunista si è fatto portatore di una campagna culturale, partita dal giugno scorso, per la valorizzazione dei sentimenti? Il tema è preso da Agnes Heller, la famosa teoria dei sentimenti. Così abbiamo visto i nostri assessorati immediatamente tradurre in pratica questo nuovo programma, e fra i bisogni, fra i sentimenti da valorizzare, quali? L’assessorato alla cultura di Parma ha emesso un documento dove si diceva che i sentimenti da valorizzare erano la tenerezza e la sessualità, da diffondere particolarmente fra i bambini e gli anziani. Mi si drizzano le orecchie, perchè contemporaneamente vedo accadere nel cinema una cosa stranissima: sta già presentandosi il bambino come il simbolo della libido, ed un commento fatto da «Repubblica», che, analizzando un film americano di cui non ricordo il titolo, diceva: «Finalmente c’è qualcuno che ha il coraggio di rompere gli ultimi tabù e di fare apparire senza tante paure che la donna e il bambino sono il simbolo vero della libido». E qui un’ultima cosa qualche mese fa il comune di Bologna ha offerto ai gay una struttura pubblica religiosa. La gente avvertirà l’offesa, la sfida al senso religioso; io ci vedo qual che cosa di più di un tentativo non degli omosessuali di essere rispettati, ma di diffondere una cultura. Questo mi fa molto temere, e mi domando: insomma, dovremo avere o no dei valori di fondo a cui legarci? La sessualità la vorremmo stimare come un valore che fa parte del la persona umana e le dà dignità? O invece prenderla soltanto come momento fine a se stesso, manifestazione soltanto della ricerca del piacere? INTERVENTO DALLA SALA Io sono d’accordo con lei: uno dei principi sui quali avremo bisogno di vedere se si può marciare assieme è che in fondo l’uomo è la cosa più importante che ci sia nell’universo. Un uomo o una donna omosessuali sono ancora un uomo e una donna o no? Certamente. E allora bisognerà che ragioniamo in termini credo un po’ meno schematici anche di queste questioni. Seconda osservazione: posizione come queste sulla sessualità sono venute poi non solo nel Consiglio comunale di Bologna, ma nel Sinodo dei Vescovi olandesi e dei Vescovi americani. A quale rubrica li ascriviamo? Sono dei heideggeriani decadenti, vattimiani, figli di questo deserto di non valori? Oppure queste questioni che non attengono alla trascendenza dell’essere umano richiedono di essere affrontate con più duttilità di dubbio metodico? Mons. ERSILIO TONINI Certo, conservano la dignità piena, poichè una povertà, una sofferenza, e una emarginazione effettiva meritano ancora più attenzioni, tutto l’aiuto possibile. Ma il discorso è un altro: se è vera la teoria di Agnes Heller che l’unico valore etico è la libertà, che è il valore principio, il misurino, il metodo di misura di tutti i valori, compreso quello della sessualità. Tutti gli atti — si dice — compiuti in libertà sono eticamente validi; pertanto cessano le differenze tra rapporto sessuale compiuto da solo, con un altro, fra persone di diverso sesso, fra persone dello stesso sesso, all’interno della coppia, fuori della coppia, tra padre e figlia e madre e figlio: se è compiuto in libertà è tutto sinceramente onesto. Questa è la teoria e le differenze che ha portato il cristianesimo sono viste come frutti di un’epoca storica, che può essere cambiata. Questa nuova visione aprirà maggiore libertà; però la Heller onestamente aggiunge. io non posso garantire che una visione diversa sia giusta; può darsi benissimo che fra 50 anni dobbiamo riconoscere che questa mia immagine ha aperto la strada alla decadenza e alla degradazione dell’uomo. Questo è il punto: ammessa la parità della dignità, deve essere ammesso anche questo? Il diritto di servirsi di una struttura pubblica, al fine di proclamare la propria innocenza, al fine di produrre una nuova cultura, facendo capire a tutti che la cosa in se è innocente, è una delle mode? E a questo punto che si richiede una scelta di umanesimo. La sessualità non appartiene al corpo, appartiene alla persona. Bisogna scegliere, se fa parte dei fini generali della persona, o se questa invece deve cedere, assecondarsi totalmente all’illusione del corpo. Questo è il punto: così se domani gli incestuosi chiedessero al comune di Bologna una casa propria per affermare la dignità dell’incestuoso, gli concederemmo una casa del comune, al fine di proclamare la loro libertà? Quando si accetta la mentalità della filosofia della prassi, quando non esiste una visione dei valori di fondo dell’uomo, tutto è possibile, si cede alla filosofia del tempo, alle pressioni degli uomini del tempo, che pretendono uguale diritto di cittadinanza a tutte le proprie idee. Ora al Ministro Scotti: forse la mia è una visione pessimistica, nel senso di chi vede avanzare possibilità veramente autodistruttive dell’umanità. Però nel contempo sono infinitamente ottimista. Io credo come lei che questa crisi è strumentale, che la crisi dell’illuminismo, di questa fede cieca nella ragione, sia una grande opportunità storica. Da dove sono venute le grandi teorie dello Stato prussiano, le enfasi del nazismo e del fascismo? Da questo mito hegeliano della ragione che si crea da sè i valori, e pertanto là dove ha posto il valore esiste l’assoluto. Ma la crisi della ragione attuale è doppia C’è una ragione strumentale e c’è una ragione sostanziale: benedetta la crisi della ragione strumentale, come l’ha denunciata Horkheimer la ragione usata soltanto per dimostrare una tesi o per raggiungere uno scopo, per cui allora tutti i mezzi sono leciti. E il caso del terrorismo, ad esempio, che partendo da una visione prospettica che crede magnifica, usa la ragione per legittimare tutto ciò che è necessario per giungervi. Ma se va in crisi la ragione sostanziale, se la ragione non sa più trovare nessun valore, è un altro discorso. Giustamente diceva Corticelli un momento, stiamo attenti, perchè con che cosa noi parliamo della ragione se non con la ragione? Ora gli ultimi pensatori della scuola francese, che hanno enorme eco anche da noi, hanno posto in crisi la ragione: il pensiero è il nemico dell’uomo. Così adesso il pensiero è come l’occhio che guarda verso l’interno; non vede più la realtà; ormai si è accecato e guarda appena se stesso. Certissimamente allora c’è di che benedire il tempo nostro che ha messo in crisi il pensiero umano, che credeva di creare chi sa quali mondi, di giustificare tutto; però non mi conforta il pensiero che l’irrazionalità prenda il posto della ragionevolezza. Quanto poi all’ultima cosa. la visione che ho dato, ogni cosa che ho detto, non sanno un po’ di dogmatismo? Porre la verità come fondamento di fronte all’errore non significa metterci in una concezione integrista della vita? Rispondo: signori miei, lo so che la cultura di questi 200 anni ha sostituito certezza a verità. Però questo Pontefice ha il coraggio di parlare continuamente di verità! Che cosa si vuole dire? Ma se tutto è solo certezza personale, se è il soggetto che radicalmente fa le sue verità, come potremo intenderci? Ed è possibile intenderci se non abbiamo un punto su cui incontrarci, ad esempio che tu sei uomo ed io sono uomo? Allora, la verità di cui io parlo è che, come dice Lombardi-Vallauri, c’è un umanesimo cristiano teologico e un umanesimo cristiano laico. Noi ci teniamo quello teologico, radichiamo questo valore dell’uomo nel fatto che viene da Dio ed è destinato a Dio. L’ateo dirà «Io non credo in Dio, però per me questo è il postulato da cui parto». Così è stato per Mazzini, per quelli che hanno fatto il Risorgimento, anche gli atei, i miscredenti, i massoni, partivano tutti da questo postulato. Laicità — sicuro — laicità dello Stato, tua avendo alla base il valore della Costituzione, quell’immagine di uomo che ci è stata data — volere o no — dal Cristianesimo: fin quando una forza politica mi dirà «do accetto questi valori», possiamo ragionare insieme. Questo io vorrei riconoscere ai laici: amico mio, vuoi ammettere che questi valori del l’uomo, venuti dal Cristianesimo, sono intangibili e intoccabili? Oppure accetti la visione del nichilismo attuale, il quale mi dice che tutto si potrà fare dell’uomo? Avv. SERGIO DE SIO L’augurio che ci eravamo fatti all’inizio, che questo fosse un momento di lavoro che col locasse l’uomo all’altezza della propria identità, è stato largamente mantenuto. Mons. Tonini e il Ministro Scotti, oltre che indicare una precisa accezione di pluralismo, hanno fornito contenuti in grado di fare maturare una comprensione più profonda del nostro essere uomini; mentre l’Ass. Corticelli ha — seppure con qualche riserva — manifestato l’esistenza di var chi e di possibilità nella politica culturale futura della Regione. Non resta che lavorarci. Grazie ancora al Ministro Scotti che ha voluto premiarci della sua presenza, e a cui rinnoviamo i complimenti per la sua nuova carica, a Mons. Tonini e all’Assessore Corticelli.