1. Nazione e nazionalismo come fenomeni della modernità: Deutsch, Gellner,
Anderson e Hobsbawm Il modernismo è stato il paradigma dominante negli studi sul nazionalismo nel secondo dopoguerra, sottolineando l’assoluta modernità delle identità nazionali e del nazionalismo come fenomeni prodotti dai processi di modernizzazione sociale, politica ed economica veicolati dalla creazione di Stati moderni, dalle rivoluzione politiche di fine XVIII secolo negli Stati Uniti e in Francia, e dall’affermazione del capitalismo. Detto ciò, all’interno del paradigma modernista le teorie e gli autori si dividono sugli aspetti della modernità da considerare più importanti e rilevanti nell’affermazione dell’idea di nazione e del nazionalismo come fenomeno politico moderno. Ecco alcuni autori e le rispettive teorie. Deutsch ha delineato un modello integrativo della costruzione della nazione in cui l’opposizione tra l’etnicità (considerata un’identità premoderna) e la nazione moderna viene proposta in modo chiaro ed esplicito. Le categorie centrali in tale modello sono: nazione, comunicazione sociale, integrazione e assimilazione e mobilitazione sociale. Per Deutsch a svolgere un ruolo fondamentale nella formazione della nazione sono i mezzi di comunicazione di massa che permette a individui distanti e separati socialmente si fondono in un’unica realtà grazie a processi di omogeneizzazione culturale richiesti dalla modernizzazione, dall’industrializzazione e dal mercato nazionale. L’assimilazione è favorita dai processi di cambiamento strutturale delle società industriali moderne che rendono più intensa la comunicazione tra gruppi sociali distinti, sia la mobilitazione sociale veicolata dalla Stato per diffondere nuovi modelli di socializzazione e di comportamento in sostituzione di quelli premoderni. Tuttavia, nel corso di questo processo di modernizzazione politica ed economica i conflitti etnolinguistici potrebbero riemergere in quelle comunità che vedono i propri costumi e la propria lingua minacciati dall’assimilazione. Ciononostante, la conflittualità per Deutsch deve risolversi nei processi assimilativi, analizzando anche la fasi che porteranno i gruppi etnici all’accettazione dell’assimilazione: 1. Resistenza aperta o latente; 2. Integrazione minima, fino alla collaborazione passiva con il governo centrale; 3. Integrazione politica più profonda, con supporto attivo allo Stato centrale, pur nella conservazione della diversità etnica; 4. Assimilazione di tutti i gruppi nell’ambito di una lingua e cultura comuni. Il limite del modello proposto da Deutsch è la forte caratterizzazione evoluzionista e normativo- prescrittiva. È evoluzionista perché ritiene che l’assimilazione e l’integrazione sono processi inevitabili e universali, seppur contraddittori e complessivi, verso cui convergono tutte le società umane; è normativo-prescrittivo perché considera tale processo positivo. Per Gellner nazione e nazionalismo sono fenomeni moderni sorti per sostenere processi di socializzazione, l’omogeneizzazione culturale e l’elevata mobilità sociale nelle moderne società industriali, che si caratterizzano per un alto sviluppo tecnologico, una divisone mobile del lavoro, una capacità comunicativa tra estranei continua e precisa tramite un linguaggio standard nel parlato e nella scrittura. Il livello di istruzione e competenza tecnica e così elevato che tale linguaggio non può essere fornito dalle unità locali e familiari, ma è necessario un sistema educativo nazionale promosso e controllato dallo Stato burocratico centralizzato. Una trasformazione del genere permetterà la diffusione di un linguaggio standardizzato e codificato per le esigenze tecnologiche e burocratiche di una società impersonale, tenuta insieme da una cultura comune rispetto a una precedente struttura complessa di gruppi locali che riproducono culture popolari proprie. Per Gellner è il nazionalismo, vale a dire il principio secondo cui politico e nazionale devono essere congruenti, a creare la nazione nello sforzo di allineare confini etnici e politici fornendo la cultura comune standardizzata funzionale a una moderna società industriale. Le culture popolari sono in numero nettamente superiore rispetto al numero di Stati-nazione, per cui l’affermazione di una “cultura alta” potrebbe portare le “culture basse” a opporsi alla cultura assimilatrice con una propria cultura nazionale “modernizzata” in nome della quale rivendicare l’autogoverno politico. Il limite principale della teoria di Gellner è che guarda allo sviluppo industriale come unico fattore determinante per l’esistenza di nazioni e nazionalismo, escludendo casi come quello della Serbia o del Messico in cui il nazionalismo è emerso quando non c’era uno sviluppo industriale significativo. Inoltre, anche questo modello si inserisce in una concezione evoluzionista e universalista della modernizzazione in cui si esagerano le rotture tra “tradizione” e “modernità” e non si tengono conto le specificità dei diversi processi di modernizzazione e di formazione delle identità nazionali. A cercare di inserire la dimensione psicologico-cognitiva e quella culturale nella riflessione teorica relativa al rapporto tra nazione, nazionalismo e modernità è stato Benedict Anderson che parla di nazioni come comunità immaginate in cui gli abitanti non conosceranno mai tutti i propri compatrioti, né ci parlerà mai, ma tutti condividono l’idea di appartenere alla stessa comunità. La nascita di queste comunità immaginate p stato possibile grazie ad alcuni cambiamenti culturali rispetto alla religione, l’autorità politica e il tempo cosmologico. Riguardo al primo punto l’avvento dell’Illuminismo ha messo in dubbio le secolari convinzioni religiose che vengono sostituite dall’idea di nazione; per tale motivo non dobbiamo considerare il nazionalismo solo come un’ideologia politica. Sul finire del XVII secolo si diffonde l’idea di nazione sovrana e libera, che al massimo dipende solo da Dio, con la sovranità che non è più legata a un diritto divino dinastico. La garanzia di tale libertà è lo stato nazionale. Per quanto riguarda la concezione del tempo diventa omogeneo, lineare, vuoto, in perfetta armonia con l’idea di nazione concepita come una solida comunità che si sposta su e giù lungo la storia. Tuttavia, queste precondizioni culturali non sono sufficienti a far emergere le comunità politiche nazionali, ma sono stati lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (i giornali in particolare) e la diffusione di lingue locali nel contesto dell’economia capitalista a permettere di rappresentare le comunità immaginate in cui gli individui si riconoscono. Le comunità immaginate potrebbero svolgere un ruolo importante anche nella formazione di un nazionalismo a lunga distanza grazie alle nuove tecnologie di comunicazione e dei trasporti, coinvolgendo direttamente le comunità di emigrati con quella nazionale di origine. Anderson pone l’accento sulla dimensione cognitiva e lo sviluppo della cultura scritta come base dell’affermazione del sentimento nazionale in epoca moderna. Tuttavia, anche la teoria di Anderson è carente perché, pur riconoscendo il ruolo importante della lingua nella formazione delle identità nazionali, bisogna considerare l’estrema varietà d tratti culturali e di codici cognitivi (miti, simboli, tradizioni, ecc,) attorno ai quali prende forma la rappresentazione della comunità nazionale. Hobsbawn sostiene che nazione e nazionalismo sono concetti creati dalle élites borghesi nazionali a partire dal XIX secolo in funzione di un sistema economico capitalista a base statale. Per tale motivo l’identità nazionale è una tradizione inventata della modernità, ovvero un insieme di pratiche tacitamente o apertamente accettate che cercano di inculcare un sistema di valori e norme comportamentali attraverso la ripetizione in continuità con il passato. Di fatto il richiamo al passato è fittizio e strumentale. La nazione e il nazionalismo si possono comprendere solo in funzione di uno Stato (esistente o richiesto) perché rappresentano gli elementi necessari per la legittimazione degli Stati come attori centrali di un’economia internazionale perché nel periodo tra il XVIII secolo e gli anni post Seconda guerra mondiale hanno avuto poco spazio quelle realtà extraterritoriali e transnazionali che avevano svolto un ruolo fondamentale nella nascita di un’economia capitalista a livello mondiale e che oggi hanno riacquistato importanza. Per cui il nazionalismo come vettore principale dello sviluppo storico è legato all’evoluzione del capitalismo. Per Hobsbawn le trasformazioni politiche ed economiche in atto nel XX secolo avrebbero dato maggiore importanza alle realtà extraterritoriali e transnazionali, delineando un’economia più che internazionale, in cui nazione e nazionalismo erano destinati a occupare una posizione marginale ed essenzialmente reazionaria. L’interpretazione proposta da Hobsbawn è di stampo marxista ortodosso: il nazionalismo è una forma di falsa coscienza costruita dalle élites borghesi per soggiogare le classi subalterne e legittimare lo Stato capitalista. Tuttavia, questa teoria non spiega perché queste classi subalterne abbiano creduto così tanto a questo “falso mito” della nazione e al sentimento di appartenenza nazionale. L’identità nazionale non si crea dal nulla, ma poggia su valori, sentimenti e identità preesistenti socialmente e culturalmente rilevanti; vive nella memoria collettiva del gruppo etnonazionale che si mobilita politicamente. La formazione dell’identità nazionale è la sintesi tra identità, miti, valori e storie condivise dalla collettività nazionale e la rielaborazione, adattamento e interpretazione degli stessi da parte delle élites politiche e intellettuali nazionaliste. Inoltre, ridurre le esperienze contemporanee di mobilitazione regionalista e nazionalista periferica a semplice reazioni etniche ed escludenti non considera la varietà delle forme organizzative e ideologiche assunte dalle stesse.
2. Il nazionalismo come forma della politica e come ideologia politica: Breuilly e
Freeden La proposta teorica di Breuilly si caratterizza per un maggiore apporto comparatistico nell’individuazione dei diversi tipi di movimenti regionalisti e nazionalisti periferici. L’opera di Breuilly fornisce un’analisi comparativa dei vari casi e tipologie di nazionalismo in diversi ambiti territoriali e storici. Lo scopo dello studioso è quello di individuare e applicare una procedura generale per lo studio del nazionalismo, con un’attenzione alla specificità dei casi che non possono essere ricondotti a una teoria generale. Il nazionalismo è un concetto che si riferisce a movimenti politici che cercano di ottenere o esercitano il potere statale e giustificano tali azioni con argomenti nazionalisti. Un argomento nazionalista è una dottrina politica costruita attorno a tre asserzioni: 1. Esiste una nazione con un carattere esplicito e peculiare; 2. Gli interessi e i valori di questa nazione sono prioritari rispetto a ogni altro interesse o valore; 3. La nazione deve essere quanto più possibile indipendente, per cui deve raggiungere la sovranità popolare. Breuilly considera il nazionalismo solo nell’ambito dei fenomeni politici, considerandolo una dottrina moderna nata per colmare la crescente distanza tra Stato e società, acuita dalla divisione sociale del lavoro e conseguente differenziazione e individualizzazione degli stili di vita. Questa teoria, rispetto a quella di Gellner, collega la nascita del nazionalismo a una concezione più ampia di modernizzazione e industrializzazione, includendo anche quelle realtà non così sviluppate dal punto di vista industriale. La funzione di collante tra Stato e società svolta dal nazionalismo spiegherebbe anche perché negli Stati multinazionali l’identità culturale diventa una forma di opposizione giusta allo Stato, in quanto gli individui non si identificano in esso perché non rappresenta la propria nazione e rifiuta di riconoscere gli argomenti dello Stato che provano a superare tale distinzione. In un’edizione successiva di Nationalism and the State, Breuilly perfeziona le sue teoria considerando il riemergere di mobilitazioni nazionali periferiche in cui individua una nuova appartenenza sociale degli attivisti e regioni spesso tra le più industrializzate o con uno sviluppo più rapido: sono classi medie manageriali, tecniche e amministrative e una classe di contadini e una classe operaia più mobile e spesso più qualificata rispetto a quella tradizionale. L’evidente limite della teoria di Breuilly è la riduzione del nazionalismo a fenomeno prettamente politico: in alcuni casi il nazionalismo può essere latente, ma i sentimenti nazionali sono comunque diffusi e socialmente rilevanti. Considerare il nazionalismo solo dal punto di vista politico e le identità cultural come strumenti utilizzati dalle élites nazionaliste limita il campo di indagine a fenomeni facilmente osservabili, ma non aiuta a comprendere la realtà complessa della formazione dell’identità nazionale e del nazionalismo. Il nazionalismo è anche un’ideologia politica, ma di tipo particolare, caratterizzata da grande flessibilità, tanto che si può dubitare della sua classificazione come ideologia politica. Considerando ciò risulta particolarmente utile la teoria di Freeden che considera il nazionalismo un’ideologia incompleta che si basa su 5 principi chiave: 1. L’elevazione della nazione come contesto esistenziale chiave per gli esseri umani; 2. La valorizzazione positiva della nazione; 3. Il desiderio di dare una forma politica e istituzionale alla nazione; 4. L’importanza dello spazio e del tempo nel determinare le identità sociali; 5. Un senso di appartenenza strettamente legato alla sfera psicoaffettiva e sentimentale. Il primo e il terzo di questi principi sintetizzano l’impegno ideologico di rivendicazione dell’autodeterminazione nazionale, senza però fornire una direzione da seguire o come raggiungere ciò. Sono tali mancanze a rendere il nazionalismo un’ideologia incompleta che ha bisogno di concetti aggiuntivi per trasformare i propri principi astratti in un piano di azione politica. Il nucleo ideologico viene interpretato diversamente a seconda delle circostanze: da qui deriva la flessibilità del nazionalismo che si adatta a diverse situazioni. Il nazionalismo è un’ideologia in sé ma deve essere riempita, rafforzata e sostenuta da concetti accessori per adattarsi a contesti specifici: ecco perché esistono diversi tipi di nazionalismo politico e perché, nell’analizzare il fenomeno, bisogna avere un armamentario teorico e concettuale adatto a comprendere tutte le pluralità di forme attraverso cui si esprime.
3. I conflitti centro-periferie e il colonialismo interno: Rokkan, Urwin e Hechter
Il modello di Stein Rokkan fornisce una soluzione multidimensionale delle mobilitazioni politiche etnonazionaliste rispetto alle teorie moderniste classiche. Nel suo modello si concentra sull’affermazione dello Stato moderno centralizzato in Europa evidenziando il carattere incompleto e conflittuale di tale processo, tenendo conto dell’influenza e rilevanza di alcuni elementi della premodernità (istituzioni religiose, etniche, territoriali, ecc.) nella struttura dei sistemi politici moderni. Il lavoro in cui esprime le sue teorie è stato pubblicato postumo a cura di Derek Urwin, un suo collaboratore, nel quale analizza le caratteristiche, le cause e le possibili soluzioni dei conflitti centro-periferia in Europa. Nella sua analisi della formazione dello Stato centralizzato nell’Europa prettamente occidentale, Rokkan rivela l’incompiutezza di tale processo perché porterà a un conflitto inevitabile per il controllo delle risorse di vario tipo tra uno o più centri e una o più periferie. Le caratteristiche chiave della periferia sono la distanza, la differenza e la dipendenza dalle aree centrali: la prima causa un costo di transito; la seconda genera l’idea di identità separate; la terza fa riferimento a una dipendenza di tipo politico, economico e culturale. Il modello di Rokkan identifica due condizioni necessarie per l’emergere del nazionalismo o regionalismo periferico: 1. Le regioni devono avere un certo grado di potere decisionale in una delle tre dimensioni (culturale, economica o politica); 2. Il centro prova a imporre una politica di State-building che entra in conflitto con le strutture di potere delle regioni periferiche. Per cui, il nazionalismo si intende come la manifestazione delle tensioni tra centro e periferia o come la politicizzazione delle difficoltà periferiche, ma questa non implica una rivendicazione secessionista o indipendentista. Il tipo di rivendicazioni delle regioni periferiche possono essere diverse in base al contesto e all’interazione tra i diversi fattori in campo, tanto che Rokkan e Urwin ne identificano sette: 1. Costruzione dell’identità periferica; 2. Protesta periferica; 3. Regionalismo; 4. Autonomia regionale (differente dalla precedente per l’esplicita rivendicazione di un riconoscimento istituzionale dell’autogoverno regionale); 5. Federalismo; 6. Confederalismo; 7. Separatismo (con obiettivo la creazione di un nuovo Stato) o irredentismo (unificazione con uno Stato già esistente). La complessità dei fattori alla base dei conflitti centro-periferie rendono evidenti l’inutilità dei modelli precedenti e la necessità di una visione multidimensionale. Per cui, limitandolo al contesto europeo, il modello di Rokkan è uno strumento importante per lo studio del fenomeno etnonazionale. Nella teoria del colonialismo interno elaborata da Hechter negli anni Settanta vengono considerati i movimenti etnonazionali substatali come espressione di conflitti dovuti alle polarizzazioni interne agli Stati. Lo scopo dell’autore è fornire una spiegazione marxista dei diversi movimenti etnonazionalisti sorti con forza in diversi Paesi occidentali industrializzati verso la fine degli anni Sessanta. Questi fenomeni contrastavano la teoria marxista ortodossa del superamento della rilevanza delle identità etniche e nazionali con il progressivo affermarsi della dell’identità e della lotta di classe. Per superare questo problema teorico, Hetcher applica le teorie dello sviluppo ineguale e della dipendenza al Regno Unito per spiegare l’emergere dei movimenti nazionalisti periferici in Galles, Irlanda e Scozia e, per estensione, negli altri Paesi occidentali a capitalismo avanzato. Nel Regno Unito si è creata una sorta di colonialismo interno in cui le regioni/nazioni periferiche vivono una situazione di dipendenza strutturale, funzionale allo sviluppo dell’Inghilterra, simile a quella dei Paesi non industrializzati in Africa, Asia e America Latina rispetto ai Paesi centrali dell’economia-mondo capitalista. Il colonialismo interno nei Paesi dell’Europa occidentale si caratterizza per lo sviluppo di una divisione culturale del lavoro: le occupazioni di status elevato tendono a essere riservate agli abitanti della metropoli, mentre quelli della provincia occupano a stratificazione più bassa. Per cui, il nazionalismo periferico sarebbe nato come reazione al mancato sviluppo regionale esprimendo, tramite la mobilitazione dell’identità culturale/nazionale un’opposizione alla situazione di dipendenza economica di tipo coloniale dal centro. La teoria di Hetcher attribuisce a elementi economici la formazione dei nazionalismi periferici. Questo riduzionismo è il limite maggiore che i critici hanno trovato nel suo modello, perché il fenomeno del nazionalismo periferico ha interessato sia aree depresse dal punto di vista economico che Paesi industrializzati, Nel cercare di perfezionare la sua teoria, Hetcher ha rivisto il suo modello, distinguendo tra la divisone culturale del lavoro e la divisione segmentale del lavoro, in cui i membri del gruppo etnonazionale interagiscono completamente dentro i confini del proprio gruppo e alcuni monopolizzano certe nicchie nella struttura occupazionale. Le regioni periferiche che presentano una divisione segmentale del lavoro non posso essere considerate nazioni proletarie o colonie interne depresse. Tuttavia, il modello è ancora molto limitato perché trova applicazione solo in determinati contesti e su un ancora eccessivo riduzionismo economico che non tiene conto delle diverse dimensioni della mobilitazione etnoterritoriale. Negli anni Duemila, Hetcher ha sviluppato un nuovo approccio teorico incentrato su un modello di scelta razionale in cui lo sviluppo dei movimenti nazionalisti periferici viene collegato a valutazioni di costi-benefici dei membri dei gruppi etnonazionali periferici, che vedono nella creazione di istituzioni di autogoverno la possibilità di accedere a maggiori risorse e a migliori posizioni sociali.
4. I processi di politicizzazione dell’identità etnica: Smith e Hroch
Anthony D. Smith rivaluta l’importanza delle eredità premoderne nella formazione delle nazioni in epoca moderna: le nazioni, sebbene siano un fenomeno moderno, si basano su un preesistente intreccio di miti, tradizioni, valori che costituiscono il potere della memoria collettiva dell’identità etnonazionale. Le nazioni moderne sono il risultato della riscrittura, dell’adattamento e ricostruzione di identità, miti, valori e codici etnici premoderni in seguito all’affermazione dello “Stato scientifico burocratico”. Ovvero, il nazionalismo è una sorta di ponte tra l’eredità distintiva del passato etnico e la necessità di una comunità di vivere come una nazione tra le altre in un mondo di capitalismo industriale sempre più burocratizzato. In questo modo, preserva alcuni tratti del passato e instaura una continuità con le trasformazioni moderne. Le etnie si sono dovute politicizzare e uscire fuori dal proprio immobilismo per diventare nazioni, anche se non lo volevano, ma è stato necessario per sopravvivere cercando un territorio proprio e delimitato, una cultura pubblica, un’unità economica ed eguali diritti e doveri per i propri membri. In questo processo un ruolo fondamentale lo svolgono gli intellettuali e, soprattutto, gli storici, che forniscono una passato etnico autentico su cui basare la nascita dell’identità nazionale, ma non è un processo che si crea dal nulla: devono riscoprire e riappropriarsi di un passato etnico che ha un certo valore presso la popolazione, anche se è scarsamente documentata. I processi di riscrittura, riscoperta e recupero sono fondamentali anche per la globalizzazione, un processo che si pensava portasse a superare le appartenenze etniche e nazionali grazie a nuovi mezzi di trasporto, della comunicazione e dell’informazione, ma ha prodotto solo una riattivazione delle stesse perché gli individui cercano punti di stabilità e riferimento in un’epoca di grandi cambiamenti e trasformazioni delle identità etniche e nazionali per adattarsi a un nuovo contesto globale. Il “modernismo riflessivo” di Smith, nonostante la complessità nel ricostruire il passato etnico di un popolo, sottolinea il complesso rapporto tra tradizione e modernità, fortemente semplificata in altri modelli. Anche Hroch si concentra sui processi di politicizzazione delle identità culturali anche di origini preemoderne nei movimenti nazionali moderni. Prima di tutto collega la formazione delle nazioni ai processi di lunga durata che hanno prodotto trasformazioni sociali nella modernità, in particolare quelli associati alla diffusione del capitalismo, considerando anche gli effetti della maggiore mobilità sociale e geografica dell’epoca moderna, le comunicazioni più intense tra individui e gruppi, la diffusione dell’alfabetizzazione e i mutamenti generazionali. Prima di tutto lo studioso ceco parte dal presupposto che gli Stati-nazione propriamente detti all’inizio del XIX secolo sono solo 8 e presentano una cultura letteraria più o meno consolidata, una cultura alta e delle élites dominanti (compresa aristocrazia e borghesia commerciale e industriale) etnicamente omogenee: questi Stati sono nati in seguito a lunghi processi di nazionalizzazione risalenti al Medioevo e sono Francia, Inghilterra, Paesi Bassi, Svezia, Spagna, Portogallo, Danimarca e Russia. Allo stesso tempo Hroch individua più di trenta gruppi non dominanti all’interno di imperi multietnici e negli Stati-nazione. In alcuni di questi gruppi si è sviluppata la consapevolezza della propria etnicità differenziata iniziando a concepirsi come potenziali nazioni. Da questa consapevolezza nascono i movimenti nazionali, ovvero il tentativo, riuscito in alcuni casi, di conseguire tutti gli attributi di una nazione matura. Hroch non parla di nazionalismo perché è definito come una mentalità che attribuisce una priorità assoluta ai valori della nazione s tutti gli altri valori e interessi, ma non tutti i membri del gruppo appoggiano questa mentalità. Lo studioso individua tre diverse fasi strutturali del processo che va dall’inizio di ogni movimento nazionale e del suo eventuale completamento: nella Fase A un gruppo ristretto di attivisti si concentra sullo studio degli attributi linguistici, storici e culturali del proprio gruppo etnico, ma non c’è nessuna finalità politica o lo sviluppo di un’agitazione patriottica; la Fase B vede l’affermazione di un nuovo gruppo di attivisti che si pone l’obiettivo di ottenere quanto più consenso possibile all’interno del gruppo etnico per il progetto di creazione di una nazione e, nel caso in cui si è diffusa una coscienza nazionale accettata da molti, si formano i movimenti nazionali di massa che hanno scopi prettamente politici, che caratterizzano la Fase C. Il passaggio tra le varie fasi avviene con tempistiche diverse. Per classificare e analizzare i vari tipi di movimenti nazionali, bisognerà capire se, come e quando si è sviluppata la transizione dalla Fase B e quella C. Hroch aggiunge anche un altro fattore, la costituzionalizzazione dello Stato in cui sono presenti i gruppi etnici non dominanti al momento dell’affermazione del movimento nazionale di massa. La combinazione di questi due aspetti ha portato all’individuazione di quattro tipi di movimenti nazionali in Europa: 1. L’agitazione nazionale è iniziata sotto un regime assolutista raggiungendo la sua fase di massa in un periodo di cambiamenti rivoluzionari (ad esempio, il movimento ceco in Boemia o i movimenti nazionali ungherese e norvegese); 2. L’agitazione nazionale è iniziata sotto regime assolutista, ma la transizione alla Fase C è avvenuta solo dopo la rivoluzione costituzionale (ad esempio, i movimenti lituano, lettone e sloveno); 3. Il movimento di massa, quindi la Fase C, si è sviluppato in periodo assolutista, quindi prima dello stabilirsi di uno Stato costituzionale (ad esempio, solo i territori europei appartenenti all’Impero ottomano come Bulgaria, Serbia e Grecia); 4. L’agitazione nazionale è iniziata in un contesto di Stato costituzionale e di capitalismo più sviluppato, tipo caratteristico soprattutto dei movimenti nazionali dell’Europa Occidentale (Catalogna, Scozia, Galles, Bretagna) con alcune differenze temporali tra i vari casi.
5. Il neoregionalismo nell’epoca della postsovranità: Keating
Tra fine anni Novanta e inizio anni Duemila molti studiosi hanno provato nuovi approcci per l’analisi degli etnoregionalismi ed etnonazionalismi riadattandola a un contesto politico di globalizzazione e di governance multilivello, che mina sempre di più l’autonomia decisionale degli Stati-nazione, tenendo in considerazione la flessibilità strategica dei movimenti etnoterritoriali in seguito alle trasformazioni nelle relazioni tra la sfera statale, locale e sovrastatale. Gli attuali movimenti etnoterritoriali andrebbero considerati come fenomeni di neoregionalismo e neonazionalismo, con un carattere politico rinnovo e più ambivalente rispetto ai movimenti dello stesso tipo del passato. Uno dei maggiori sostenitori di tale teoria, Michael Keating, siamo in una fase di postsovranità, in cui gli Stati-nazione vedono messa in dubbio la propria sovranità assoluta e riemergono e si diffondono forme di sovranità diffusa, condivisa, frammentata e multilivello, con una maggiore rilevanza politica di realtà definite a inizio Novecento “frammenti di Stato”, nel contesto di una maggiore interdipendenza, connessione e fluidità di rapporti tra i diversi centri del potere che caratterizza le attuali società tardomoderne. Per analizzare efficacemente queste trasformazioni Keating divide il concetto di Stato da quello di nazione: la nazione è la dimensione sociale, lo Stato quella politica. Tra i due non c’è necessariamente una relazione, soprattutto nel contesto contemporaneo in cui le soluzioni istituzionali di autogoverno di regioni e nazioni periferiche sono complesse e non necessariamente riconducili alla forma di Stato come si è sviluppata dopo Westfalia. Bisogna poi differenziare i diversi tipi di regione nel contesto sociopolitico contemporaneo: Le nazionalità storiche o regioni nazionalistiche minoritarie, caratterizzate da un forte senso di appartenenza culturale, linguistica o storica e da proprie istituzioni e reti sociali, che possono avanzare o meno rivendicazioni nazionali sviluppate (ad esempio, la Scozia); Le regioni istituzionali caratterizzate dall’uso delle risorse istituzionali per definire uno spazio politico un sistema efficace di azione politica; Le regioni amministrative, cui manca un senso di identità comune e che sono delle creazioni artificiali recenti ai fini amministrativi. Il fenomeno della regionalizzazione è comune in tutta Europa, mentre il neoregionalismo e il neonazionalismo riguarda solo i primi due tipi di regione. Secondo Keating i nazionalisti adattano la propria azione politica alle nuove opportunità fornite dalla crisi della sovranità assoluta dello Stato- nazione. Questa trasformazione risulta radicale nel contesto europeo, data la profonda riconfigurazione territoriale delle istituzioni politiche collegata allo sviluppo del processo di integrazione. I nuovi movimenti nazionalisti si sono concentrati, nella costruzione della nazione, più sugli aspetti civili che quelli etnici o statali. Questo nuovo regionalismo è una forma nuova di politica territoriale che, dal punto di vista normativo, potrebbe essere la base per solidarietà collettive su cui costruire nuovi spazi pubblici di deliberazione democratica in risposta alle tendenze disgreganti del mercato globale, inoltre, il nuovo contesto di post-sovranità e maggiore permeabilità dei confini creerebbe nuove opportunità per la soluzione di alcuni dei più complessi conflitti etnonazionalisti. Gli attuali movimento etnoterritoriali periferici occidentali sono caratterizzati da: L’emergere di un nazionalismo del libero mercato che mette fine al legame tra nazionalismo e protezionismo/autarchia; L’accettazione, da parte dei movimenti nazionalisti, dell’integrazione transnazionale; Lo sviluppo di una forte dimensione civica dei movimenti nazionalisti, con una maggiore attenzione all’autogoverno territoriale nel contesto del mercato globale, e una minore rilevanza della dimensione identitaria e della purezza etnica; Le basi sociali dei nazionalismi attuali sono nuove e più ampie rispetto a quelle dei movimenti nazionalisti del XIX secolo; Il discorso nazionalista è modernista e orientato al futuro, non reazionario e antimodernista; L’accettazione dell’attuale limitazione di sovranità, ricercando formule attraverso le quali l’autogoverno possa realizzarsi, e un progetto di autoaffermazione nazionale concretizzarsi, in un contesto di superamento dello Stato-nazione classico; Una profonda ambiguità, espressa dalla flessibilità strategica articolata tra la rivendicazione semplicemente regionalista e le rivendicazioni più radicali che mettono in dubbio la legittimità dello Stato-nazione in cui agiscono. Questo quadro descrittivo e in parte normativo è stato sottoposto a una revisione in seguito al riemergere delle rivendicazioni indipendentiste in Europa negli anni Duemila: il Trattato di Lisbona riconfigura la struttura del sistema di governanace attribuendo nuovamente un’importanza centrale agli Stati nel sistema decisionali delle istituzioni comunitarie. In un contesto simile sono di nuovo attuali le questioni costituzionali e l’idea di indipendenza che erano state marginalizzate dal sistema di governance europea multilivello. Nella sua produzione scientifica più recente Keating fornisce nuova rilevanza alle rivendicazioni secessioniste e indipendentiste, che si abbinano a una riattivazione dei nazionalismi statali e quindi a una crescente conflittualità, dovuta allo scontro tra questi diversi tipi di nazionalismo. Tuttavia, l’analisi di questi casi fa emergere una visione non assoluta di sovranità e autogoverno: le rivendicazioni indipendentiste odierne propongono un modello di interdipendenza di indipendenza, ovvero si rivendica la creazione di uno Stato indipendente e sovrano, ma viene riconosciuta anche l’importanza di un certo grado di condivisione della sovranità con altre istituzioni politiche ed economiche su più livelli territoriali, in un contesto di interdipendenza globale. L’indipendenza non è un obiettivo politico assoluto, ma relativo: le nazioni europee senza Stato vogliono mantenere un certo grado di autogoverno. Questa domanda viene declinata attraverso l’obiettivo massimo di indipendenza, ma potrebbe essere abbandonato se risulta più facile da realizzare l’ipotesi di un’autonomia estesa e rafforzata. L’analisi degli studiosi riconducibili all’impostazione neoregionalista ha il merito di chiarire la complessità e ambivalenza dei delle mobilitazioni etnoterritoriali attuali, considerandole non come rivolta contro la modernità, ma come fenomeni interni e ambivalentemente sia funzionali che conflittuali con la realtà sociopolitica delineata da questi processi. Uno dei limiti di questo approccio è l’eccesivo peso della dimensione normativa in cui le forme di neoregionalismo e neonazionalismo periferico vengono collegate a opzioni politiche liberaldemocratiche, escludendo quelle forme più conflittuali con il mondo liberaldemocratico o l’ideologia liberoscambista dominante nei processi di globalizzazione economica. Alcuni casi di mobilitazione regionalista e indipendentista dell’Europa contemporanea sono riconducibili a forme di protesta frutto della crisi di fiducia verso le tradizionali forme della democrazia rappresentativa e delle istituzioni liberaldemocratiche.
6. Le dinamiche multidimensionali del secessionismo: Bartkus e Sorens
Alcuni studiosi hanno sviluppato dei modelli teorici complessivi sul fenomeno del secessionismo, che provano a descrivere i meccanismi e i fattori sociali, economici e politici dietro a questi fenomeni o le rivendicazioni di maggiore autogoverno. Chi ha sviluppato tali modelli ha provato a fornire una spiegazione a fenomeni che non siano iscrivibili alla sola Europa; è il caso del modello della studiosa Vina Bartkus che risponde alla domanda: perché i gruppi secedono? Per rispondere a questa domanda la studiosa non utilizza termini come nazione o tribù, ma parla di comunità differenziate, territorialmente concentrate che vogliono modificare la propria situazione politica sia attraverso la rivendicazione di una maggiore autonomia sia rivendicando apertamente l’autonomia in un percorso che può essere più o meno pacifico. La crisi secessionista si genera in virtù della presenza di altri tre fattori: 1. Il territorio e il controllo politico dello stesso; 2. Leader capace di canalizzare e gestire la mobilitazione; 3. Un malcontento rispetto allo status politico della comunità differenziata all’interno dello Stato in cui è inclusa. Appurata la presenza di questi quattro elementi, la decisione di avviare un percorso secessionista o meno dipenderà da un’attenta valutazione dei costi e benefici tanto della permanenza nello Stato quanto di un’eventuale separazione. Questo implica che l’indipendenza non ha un valore assoluto nelle comunità differenziate e che il vero scopo di queste ultime è la difesa fisica dei suoi membri e del suo patrimonio culturale: indipendenza, autogoverno o federalismo sono solo dei mezzi per il perseguimento di questo obiettivo. La valutazione dei costi e benefici porterà verso una maggiore spinta indipendentista, quindi con la creazione di un nuovo Stato, o una autonomista, ovvero il riconoscimento di una maggiore autogoverno all’interno dello Stato che comprende la comunità. Il modello di Sorens, invece, afferma che la sola esistenza di un’identità differenziata non basta a spiegare un movimento secessionista e che questo si sviluppa solo ne momento in cui la comunità percepisce che politicamente, economicamente e socialmente starebbe meglio in una giurisdizione politica autonoma. Per cui lo studioso considera una serie di attori e fattori che intervengono nel processo di valutazione di una comunità del rapporto costi/benefici per un sostegno all’indipendenza o all’autonomia. Un ruolo importante lo svolge anche il governo centrale, che può assumere un atteggiamento reazionario e quindi una risposta violenta, oppure un accomodamento verso le richieste della comunità che vede legittimate tramite vie legali il riconoscimento costituzionale, in forma scritta o meno, del diritto alla secessione. Per Sorens, questa via legale ridurrebbe le frizioni e la conflittualità tra Stato ospitante e comunità differenziata.
7. Il nazionalismo dei ricchi nell’Europa di oggi: Dalle Mulle
Emmanuel Dalle Mulle si concentra su alcune caratteristiche emergenti in alcuni dei nazionalismi periferici contemporanei in Europa Occidentale, ovvero il nazionalismo dei ricchi che definisce come mettere fine a una sorta di sfruttamento economico che subisce una nazione benestante a causa di aree povere o di politiche statali insufficienti. In sostanza le regioni economicamente più povere trascinerebbero nel ribasso quelle più avanzate. Oltre ai fattori economici e fiscali sono fondamentali anche elementi culturali e politico-istituzionali, tanto che la maggiore capacità economica dei membri della nazione è diventato un tratto distintivo dell’identità nazionale che la distingue da altri gruppi che vivono nello stesso Stato. Questa fusione tra interessi e identità sarebbe una potente risorsa per la mobilitazione alle organizzazioni sociali e politiche nazionaliste. Dalle Mulle non traccia un quadro generale valido per tutti i casi di nazionalismo periferico, ma si concentra solo su alcuni esempi di partiti politici all’interno di casi selezionati come Italia (Lega Nord), Scozia (Scottish National Party) e Catalogna (Esquerra Republicana de Catalunya). Focalizzandosi solo su esempi circostanziali lo studioso considera il nazionalismo come una forma del fare politica e una fonte di legittimazione politica. L’analisi dei casi selezionati vede l’emergere di una forma di vittimismo economico che non può essere ricondotto al discorso anticolonialista classico, di denuncia di un’occupazione straniera che drena risorse alla nazione occupata, ma si strutturano intorno a forme più complesse di subordinazione e si differenziano tra loro, con la mancanza di un riconoscimento dello status di nazione nel caso catalano, la mancata corrispondenza tra la forza economica della comunità territoriale e il suo effettivo peso sulla rappresentanza politica nel caso della Lega Nord, il senso di abbandono percepito dalla minoranza in conseguenza delle politiche economiche e sociali implementate da governo centrale per la Scozia. Ecco perché, per Dalle Mulle, il nazionalismo dei ricchi va interpretato come una strategia retorica che dipinge la creazione di uno Stato indipendente come soluzione per superare la crisi del modello welfare e raccogliere la sfida della globalizzazione e dell’integrazione europea. Rispetto ai discorsi nazionalisti del passato i tre partiti analizzato avrebbero normalizzato l’idea della secessione e indipendenza, accettando i metodi democratici per il raggiungimento degli obiettivi politici o l’uso di argomentazioni prevalentemente economiche invece di quelle di carattere identitario. Motivo per cui il nazionalismo dei ricchi riesce ad attirare consensi da gruppi sociali diversi e si articola in proposte ideologiche di vario tipo. Il problema del modello di Dalle Mulle è l’essersi limitato ad analizzare solo i partiti politici, che impedisce di tenere in considerazione dinamiche importanti nella costruzione e ricostruzione del discorso nazionalista attraverso l’interazione tra organizzazioni politiche e organizzazioni sociali nei movimenti nazionalisti; un’interazione non trascurabile nei casi di nazionalismo periferico contemporaneo, in cui la mobilitazione nazionale si caratterizza anche come movimento di protesta con un impatto non trascurabile sulle organizzazioni politiche più tradizionali come i partiti politici.
Parte seconda: PROBLEMI
1. La necessità di un chiarimento concettuale Nel trattare dal punto di vista mediatico e scientifico i fenomeni dell’etnoragionalismo e del nazionalismo periferico si incappa in problemi di natura terminologica che rischia di confondere facilmente il significato di un termine con l’altro. Tra i fautori di una maggiore chiarezza terminologica c’è Walker Connor, che ha proposto la definizione di nazionalismo (o meglio ancora etnonazionalismo) come il sentimento di lealtà e appartenenza a una nazione (con Stato o senza) e con patriottismo il senso di lealtà e appartenenza a uno Stato (indipendentemente dalla propria identità nazionale). Secondo Peter Lynch le difficoltà terminologiche per i fenomeni del regionalismo e del nazionalismo minoritario si devono a due fattori: le differenze economiche, sociali, politiche alla base dei nazionalismi minoritari producono effetti differenziati nei diversi casi in cui si concretizza il fenomeno in questione; l’elemento centrale del nazionalismo minoritario è la rivendicazione di autodeterminazione, che non implica necessariamente la creazione di uno Stato-nazione separato perché scelgono di adattarsi anche a soluzioni di compromesso. Con il termine etnia intendiamo un gruppo umano basato su una credenza soggettiva in una discendenza comune e una memoria storica condivisa. Il gruppo etnico si caratterizza per una cultura propria, un territorio a cui è associato (fatta eccezione per i nomadi), per una denominazione comune, per il senso di solidarietà tra i propri membri e per il riconoscimento dello stesso come tale dall’esterno. Il carattere relazione è fondamentale nel gruppo etnico e i caratteri culturali possono variare nel tempo, ma non il legame affettivo collegato alla credenza nella discendenza comune; possono cambiare anche i significati dei simboli associati a un gruppo etnico. La presenza di questi elementi esclude che l’etnia manifesti un carattere politico esclusivamente xenofobo, violento, escludente. Infine, il termine etnia non si riferisce necessariamente a un gruppo minoritario, in quanto può fare riferimento anche a quello dominante politicamente e culturalmente a livello statale. L’etnicità o identità etnica è il senso di appartenenza degli individui nei confronti del proprio gruppo etnico. Nella sua formazione interagiscono diversi fattori culturali, psicologici e sociali, rendendo possibili diverse espressioni della stessa. In società complesse e plurali, l’etnicità è solo una delle possibili forme di appartenenza di un individuo. Una nazione è una collettività composta da una o più etnie politicamente consapevole e autodefinita. Ciò che la differenzia dall’etnia è la relazione con il potere politico: la nazione possiede uno Stato politicamente sovrano o aspira ad averne uno ed esprime una cultura pubblica condivisa sostenuta dalle istituzioni politiche. La nazione è un fenomeno politico di natura psicosociale in cui è centrale la relazione con il territorio percepito come proprio dai membri del gruppo nazionale e in cui esercitare l’autogoverno politico. La nazione può essere considerata come la politicizzazione delle etnie in seguito all’affermazione dello Stato moderno centralizzato e burocratico, ma non tutte le etnie si trasformano necessariamente in nazioni. Il nazionalismo è un’ideologia e un movimento politico che rivendica la legittimità dell’autogoverno di un determinato territorio considerato come proprio da parte di una nazione esistente. La dottrina centrale del nazionalismo si articola in pochi punti: concezione del mondo diviso in nazioni, rilevanza dell’identità nazionale nella vita degli individui, necessità della sovranità politica delle diverse nazioni. Data la scarsa articolazione della sua struttura, può essere facilmente associata a idee secondarie o generate dall’insorgere di conflitti di varia natura (economica, politica, culturale), alimentando così movimenti sociopolitici diversificati dal punto di vista ideale e organizzativo. Per districarci all’interno della magmaticità ideologica del nazionalismo utilizzeremo il concetto di campo nazionalista che definisce la nazione non come un’entità fissa o un gruppo unitario, ma come le diverse posizioni e atteggiamenti in competizione tra loro adottate da movimenti, partiti, organizzazioni, che provano a dimostrare di essere gli unici legittimati a rappresentare il gruppo. Bisogna indagare le diverse forme discorsive e ideologiche assunte dalle diverse anime del movimento nazionalista sia in uno specifico periodo sia in una prospettiva storica considerando i cambiamenti che si sono verificati negli anni. Non si può affermare che un partito è nazionalista da punto di vista analitico, bisogna approfondire l’analisi indagando anche quali sono e come vengono combinati gli elementi ideologici accessori dalle diverse organizzazioni per richiamare alla mobilitazione nazionalista. Ci sono, poi, anche gruppi impegnati nel rafforzamento dell’identità culturale del gruppo nazionale parallelamente o meno alle rivendicazioni di autogoverno politico. Infine, non bisogna dimenticare anche il fattore psicologico e affettivo: il nazionalismo è il sentimento di appartenenza a una comunità i cui membri si identificano con un insieme di simboli, credenze e stili di vita e hanno la volontà di decidere sul loro comune destino politico. In sintesi, bisogna distinguere il nazionalismo come ideologia e movimento dalla rappresentazione della nazione come viene percepita dai mebri e dal sentimento nazione, ovvero la forza del legame affettivo che lega gli individui alla propria etnonazione. Lo studio dell’interazione di queste tre dimensioni favorisce la comprensione del fenomeno nazionalista. Si possono distinguere due forme di nazionalismo: il nazionalismo statale o maggioritario nei casi di Stati nazionalmente omogenei o di gruppi etnonazionali dominanti, volti all’assimilazione degli altri gruppi minoritari o periferici all’interno di Stati multinazionali; il nazionalismo minoritario, espressione della mobilitazione di gruppi etnonazionali che si trovano in condizioni periferiche negli Stati multinazionali. In pratica il concetto di Stato-nazione è astratto, perché sono pochissimi gli Stati nazionalmente omogenei, per lo più sono tutti multinazionali o multietnici ed è più facile che si sviluppi un conflitto tra il centro e una o più periferie. Solitamente lo scontro mira alla richiesta di uno Stato proprio da parte degli esponenti del nazionalismo periferico, ma si cerca anche una situazione di compromesso che garantisca maggiore autonomia politica nello Stato multinazionale. Possiamo distinguere diversi tipi di movimenti e organizzazioni: Indipendentista: rivendica un nuovo Stato indipendente e sovrano per la comunità nazionale di riferimento. Per questa categoria si parla anche si secessionismo o separatismo in accezione negativa; Irredentista: riunificare un territorio in cui è presente il gruppo nazionale minoritario a un altro Stato, esterno, già esistente, a cui ci si sente legati per una stessa identità etnonazionale. L’eventuale nazionalismo dello Stato esterno che mira a ricongiungersi con il territorio esterno in cui vivono i suoi connazionali si definisce annessionista. Autonomista: rivendicare la creazione di istituzioni autonome o il rafforzamento dell’autonomia esistente senza rivendicare la creazione di uno Stato nuovo o l’annessione a un altro Stato esistente. Rimangono incertezze di significato ancora per alcuni termini come regionalista, che in alcuni casi diventa sinonimo di autonomista, a volte per descrivere genericamente i movimenti autonomisti e anche quelli indipendentisti. Un ambivalenza di significato si vede anche per l’uso del prefisso etno- davanti a nazionalismo e regionalismo. In passato si distingueva tra nazionalismo civico ed etnico, in cui le rivendicazioni territoriali legate a un elemento etnico veniva inteso come sinonimo di xenofobia e potenziale razzismo. Oggi questa contrapposizione è stata superata e si tende a usare i concetti di etnonazionalismo ed etnoregionalismo per riferirsi a rivendicazioni autonomiste, irredentiste o indipendentiste senza implicare un giudizio di valore. Tuttavia, in questo caso l’uso del prefisso etno- sarebbe ridondante, perché non avrebbe senso specificare un tipo di nazionalismo espressione di etnicità in quanto non ce ne sono altri, perché tutti i nazionalismo sono considerati varianti dell’etnicità- l’introduzione del termine etnoterritorialità può aiutare a chiarire queste terminologie: la dimensione concettuale in cui si sviluppano conflitti identitari e mobilitazioni politiche e in cui i principali attori sociali sono gruppi etnici con un ancoraggio geografico delimitato. Un movimento etnoterritoriale, espressione della mobilitazione di un’etnonazione periferica all’interno di uno Stato multinazionale, può caratterizzarsi sia come movimento pienamente indipendentista che come movimento autonomista/regionale. Tale distinzione dipende dalle diverse congiunture sociopolitiche.
2. È corretto distinguere tra il nazionalismo civico e il nazionalismo etnico?
La distinzione tra nazionalismo civico e nazionalismo etnico rappresenta un elemento costante in molte analisi contemporanee del fenomeno nazionalista. Per nazionalismo civico si intende l’appartenenza al gruppo nazionale su base volontaria, in quanto dipende dalla volontà di appartenere dimostrare lealtà e attaccamento alle istituzioni politiche, civili e territoriali specifiche della nazione; il nazionalismo etnico è chiuso, in quanto al centro dell’identità nazionale ci sono carrettieri biologico-razziali, etnici, religiosi, linguistici e culturali che solo chi possiede può far parte della nazione etnica. Hosbawn utilizza la distinzione tra questi due nazionalismi nella sua classificazione dei diversi movimenti nazionalisti. La sua teoria si basa sul legame tra la nascita e lo sviluppo del nazionalismo in relazione allo sviluppo del capitalismo in epoca moderna e le diverse fasi del suo sviluppo portano all’affermazione di diversi tipi di nazionalismo: nella fase delle rivoluzioni industriali in Europa nel XIX secolo i movimenti nazionalisti sono espressione delle istanze di emancipazione politica e sociale delle diverse borghesie, per cui si caratterizzano come civici e democratici; dal 1890, con l’avvento della fase espansionista e imperialista del capitalismo, si è sviluppato il nazionalismo etnico xenofobo ed escludente che ha dominato fino alla fine del secondo conflitto mondiale; nel secondo dopoguerra Hobsbawn individua una nuova forma di nazionalismo civico nei movimenti di liberazione nazionale e anticolonialisti afroasiatici degli anni Sessanta e Settanta, movimenti guidati da élites che si erano formate in Europa sui modelli di nazionalismo civico europeo di metà Ottocento, applicato poi alle proprie lotte di liberazione nazionale; infine, la nuova ondata di revival etnico che ha interessato l’Europa dei primi anni Ottanta è una reazione alla fine del capitalismo a base statale e l’emergere di un potere politico ed economico transnazionali. Brubaker utilizza la distinzione civico/etnico per spiegare le diverse politiche sull’immigrazione in Francia e in Germania: nel primo caso è stato adottato il principio dello ius soli, tanto che l’identità civica nazionale è frutto di un nazionalismo incentrato sulla volontarietà di legarsi alle istituzioni politico-territoriale, con il conseguente sviluppo di una cittadinanza libera da ogni elemento etnico, culturale o razziale; in Germania si è applicato il principio dello ius sanguinis come criterio per l’assegnazione della cittadinanza, facendo prevalere una visione organicista della nazione, frutto di un nazionalismo etnico incentrato sulla specificità etnoculturale del popolo tedesco. Tuttavia, non mancano anche in Francia nella formazione dell’identità nazionale francese elementi riconducibili al nazionalismo etnico, come le politiche di francesizzazione per contrastare la persistenza di altre lingue o identità periferiche dal governo della Terza Repubblica. Non necessariamente il nazionalismo civico è inclusivo e quello etnico è escludente. Come sottolinea Smith, nel percorso di formazione delle nazioni moderne queste ultime sono influenzate tanto da principi territoriali quanto etnici e rappresentano un difficile modello di confluenza di un modello civico di organizzazione socio- culturale e uno più antico genealogico (etnico). Il peso di queste due componenti dipende dallo sviluppo successivo dello Stato e può variare nel corso del tempo. Siccome la distinzione tra questi due tipi di nazionalismo non aiuta a comprendere la realtà sociologica del nazionalismo, possiamo affermare che le dimensioni etnoculturali e civiche sono elementi presenti in ogni identità nazionale e in ogni movimento nazionalista, anche se in configurazioni diverse.
3. Etnoregionalismi e processo di integrazione europea
Il processo di integrazione europea rappresenta una dimensione importante per capire l’evoluzione e le trasformazioni dei movimenti e dei partiti regionalisti e indipendentisti europei. I vari step che hanno portato alla formazione dell’Unione Europa hanno riconfigurato il rapporto tra territorio e potere politico nel Vecchio Continente. In relazione al processo di integrazione gli Stati hanno ceduto da un lato competenze e sovranità verso le istituzioni comuni europee, dall’altro hanno sperimentato anche un trasferimento di competenze e poteri decisionali verso il basso, cioè verso le entità regionali al loro interno. Gli studi degli ultimi decenni hanno sottolineato come si sia diffuso sempre più un sentimento euroscettico o eurocritico in gran parte degli etnoregionalisti europei. Questo cambiamento può essere spiegato considerando le diverse fasi di sviluppo e creazione dell’Unione Europea. Nella prima fase (tra glia anni Cinquanta e quelli Sessanta) si caratterizza per la centralità dell’integrazione economica e la costruzione di un mercato comune. Questa svolta aiuterebbe le regioni e realtà substatali forti economicamente fornendo un mercato sovrastatale che permetteva di sfruttare opportunità economiche a di là dei vincoli territoriali posti dai rispettivi Stati. Le posizioni politiche favorevoli sono ovviamente di centro e centro-destra, ma anche alcune forse secessioniste che colgono le opportunità economiche di ridurre i costi in previsione di un’eventuale indipendenza politica, mentre le forze autonomiste e indipendentiste di sinistra radicale vedono in un mercato comune un progetto imperialista e funzionale agli interessi del capitalismo mondiale. La seconda fase (dagli anni Ottanta a quelli Novanta) ha visto l’affermarsi del modello dell’Europa sociale e delle politiche regionali da parte delle istituzioni europee. Si pone attenzione non solo sull’integrazione economica, ma soprattutto sul ridurre le disuguaglianze sociali anche a livello territoriale. Anche le formazioni di sinistra sono state attratte da questo progetto, che hanno appoggiato politiche di integrazione di fronte all’attivazione di risorse per lo sviluppo delle politiche regionali; inoltre, lo sviluppo delle politiche regionali comunitarie ha incoraggiato i processi di decentralizzazione e regionalizzazione da parte degli Stati membri, rafforzando il legame tra regionalizzazione e processo di integrazione europea. Questo periodo ha permesso ai rappresentanti politici e delle istituzioni della regioni/nazioni senza Stato di aumentare la propria voce nell’arena politica rafforzando l’idea di un’architettura istituzionale del processo di europeizzazione come espressione di un modello di governo multilivello e di sovranità condivisa tra diversi livelli decisionali e deliberativi. Il culmine di questa fase è stato il Trattato di Maastricht del 1992, che ha istituito un Comitato delle Regioni in cui le regioni e altre istituzioni substatali hanno visto un certo riconoscimento del loro ruolo all’interno dei processi deliberativi comunitari. In questo periodo anche le formazioni autonomiste e indipendentiste più radicali si sono mostrate favorevoli al processo di integrazione europea, aprendosi a una maggiore partecipazione dell’arena politica comunitaria. La terza fase (gli anni Duemila) è caratterizzata dal tentativo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea, da un importante allargamento dei membri e dal ridimensionamento del modello di Europa sociale: meno soldi per la spesa sociale, più politiche di sviluppo e redistribuzione a scala continentale. Nel Trattato di Lisbona del 2005 sono gli Stati membri a essere riconosciuti come elementi centrali nell’architettura politica e decisionale dell’UE, indicata come garante dell’unità territoriale dei suoi membri. Inoltre, il Trattato ridistribuisce alcune delle competenze riservate alle regioni alle istituzioni europee. Questo ridimensionamento del ruolo delle regioni senza Stato ha mutato profondamente la visione dell’Unione Europea, assumendo atteggiamenti contrari, tanto da chi era favorevole, tanto da chi continuava a mantenere un certo scetticismo verso l’aiuto che l’UE poteva dare alla realizzazione di un autogoverno. Elias distingue quattro tipi di atteggiamenti versi l’Unione Europea in questa fase: gli euroentusiasi, che combinano il sostegno al principio dell’integrazione europea come ambito di sviluppo dell’autogoverno con una valutazione sostanzialmente positiva delle opportunità sociali, politiche e culturali favorevoli per gli interessi delle regioni e delle nazioni minoritarie all’interno dell’UE così come oggi esiste; gli eurorejects rifiutano l’idea che l’integrazione europea permetta poi nel lungo periodo di arrivare a forme di autogoverno richieste da regioni e nazioni senza Stato, criticando duramente l’effettiva realtà politica e istituzionale incarnata dall’UE; gli euroscettici vedono nel processo di integrazione un alleato per ottenere le rivendicazioni di autogoverno, ma non nel modo in cui l’UE si è andata sviluppando; gli europragmatici sostengono il processo di integrazione basandosi solo sui vantaggi che ne derivano, ma rifiutano i principi sottostanti all’idea di integrazione non riconoscendone il potenziale per soddisfare nel lungo periodo le proprie esigenze di autogoverno. Maragarita Gòmez-Reino Cachafeiro distingue gli euroscettici dagli eurocritici, considerando questi ultimi più come un modo per distinguersi dalle posizioni dei partiti euroscettici. Bisogna mantenere una certa attenzione alla multidimensionalità e complessità nell’analisi degli atteggiamenti etnoregioanalisti e indipendentisti verso l’integrazione europea, soprattutto in una fase particolarmente convulsa e delicata per il futuro del processo di integrazione stesso, che vede proprio nelle rivendicazioni etnoregionaliste uno dei temi principali. Un esempio è il caso Brexit, vale a dire il processo di negoziato dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’esito del voto e la gestione del negoziato tra Londra e Bruxelles ha riattivato e riacuito alcune rivendicazioni legate alla frattura centro-periferie nello Stato britannico. In Scozia i voti erano favorevoli a restare nell’UE e ciò ha riattivato le rivendicazioni indipendentiste, frenate dall’esito negativo del referendum per l’indipendenza. Dopo il referendum per la brexit lo Scottish National Party ha posto la questione di un negoziato parallelo per garantire la permanenza della Scozia nell’Unione. Lo stallo nella trattativa tra le parti rischia un hard brexit, ovvero un’uscita competa e immediata del regno Unito che ha portato la leader dell’SNP a esprimere la volontà di convocare un nuovo referendum sull’indipendenza entro la fine del 2021 come opzione per garantire una presenza scozzese nell’UE. Nell’Irlanda del Nord, invece, la dimensione europea è uno dei fili che tengono in piedi l’accordo del Venerdì Santo del 1998, che ha messo fine a un conflitto trentennale. L’uscita dall’UE rischia di far saltare una serie di programmi sociali europei, l’applicazione e il riconoscimento da parte del governo britannico della Convenzione europea sui diritti umani e l’apertura e smilitarizzazione del confine con la Repubblica d’Irlanda e le 6 contee del Nord ancora sotto amministrazione britannica. Per cui si è sviluppato un largo consenso alla permanenza nell’Unione anche da parte delle forze più radicali, che hanno visto gli accordi sottoscritti nel 1998 messi a rischio dalla brexit. Lo stallo nella trattativa tra Londra e Bruxelles e il rischio di una hard brexit ha portato alla ripresa di alcune forme di violenza politica da parte di alcuni gruppi dissidenti ch non avevano accettato gli accordi di pace del 1998, sebbene rimangano ancora una minoranza. Un’altra crisi si è verificata tra la Spagna e la Catalogna. Dal 2012 i rapporti tra il governo di Madrid e l’indipendentismo catalano si sono incrinati sempre più e sono un esempi di evoluzione degli etnoregionalismi verso il processo di integrazione europea. Inizialmente il nazionalismo catalano era europeista, anche in seguito alla radicalizzazione indipendentista della maggior parte delle forze politiche e delle organizzazioni sociali del catalanismo politico, che si sono focalizzate sull’idea di “indipendenza in Europa” su modello scozzese. In seguito al sostanziale appoggio delle istituzioni europee alla politica della mano dura seguita dal governo spagnolo in occasione del referendum di autodeterminazione convocato dalla Generalitata catalana il 1 ottobre 2017, in cui le forze dell’ordine inviate da Madrid hanno usato la forza per impedire lo svolgimento di una votazione considerata illegale con successivo processo e incarceramento dei leader sociali e politici indipendentisti, le posizioni europeiste hanno ceduto sempre più il passo a posizioni eurocritiche presso l’opinione pubblica che si definisce indipendentista. Negli ultimi decenni una serie di studi hanno evidenziato l’aumento di posizioni eurocritiche ed euroscettiche tra i movimenti e i partiti etnoregionalisti, collocando questo cambiamento in un quadro di trasformazione o crisi della democrazia in Europa.
4. Gli etnoregionalismi europei e le reazioni alla crisi sociale e politica: tra
populismo e radicalizzazione della democrazia Gli attuali movimenti e partiti politici regionalisti, autonomista e indipendentisti attivi in Europa sono il frutto di conflitti ancora presenti tra centro e periferia come risultato di processi di nazionalizzazione incompleti in Stati che erroneamente definiamo nazionali, ma che sono, invece, plurinazionali. Tuttavia, la complessità del fenomeno può subire variazioni in base al contesto e all’emergere di altri conflitti in diversi momenti storici. Per cui, per comprendere i movimenti autonomisti e indipendentisti nell’Europa di oggi bisogna studiare i processi attraverso cui si sono formate queste identità e come sono cambiate nel corso del tempo, insieme alla presenza di elementi sociali e politici che entrano in gioco in maniera rilevante. Il Centre d’Estudis d’Opiniò (CEO), uno dei principali centri di ricerca demoscopica pubblici catalani, ha formulato le stesse domande, periodicamente, a diversi campioni rappresentativi della società catalana nel corso degli anni, studiando l’evoluzione nel periodo dal 2010 al 2019 dell’accordo del campione alla creazione di uno Stato catalano indipendente e le percentuali relative all’autoidentificazione nazionale esclusivamente catalana da parte degli intervistati. Dai risultati è emerso che non tutti quelli che sono favorevoli all’indipendenza della Catalogna si definiscono esclusivamente catalani per quanto riguarda l’identificazione nazionale. Anche nei momenti di maggiore scontro con il governo spagnolo, un terzo dell’opinione pubblica indipendentista si riconosceva in un’identità nazionale spagnola. Questi risultati mostrano come l’etnoregionalismo e l’indipendentismo siano fenomeni esclusivamente legati a un sentimento di identità nazionale o territoriale differenziato, ma bisogna approfondire aspetti sociopolitici che li influenzano. Nell’approfondire questi risultati, alcuni studi hanno approfondito il piano sociologico dei “nuovi indipendentisti”, che hanno alimentato la diffusione dell’indipendentismo dal 2010. L’opzione indipendentista ha attratto nell’ultimo decennio settori sociali tradizionalmente non legati al catalanismo politico: per lo più sono settori della classe media e media-bassa, spesso di origine non catalana o non catalana parlante, che ha sofferto di più le conseguenze della crisi economica del 2008, che hanno partecipato alle proteste del movimento Indignados e che nella mobilitazione per la creazione di una repubblica catalana indipendente hanno visto la possibilità di difendere il benessere, la maggiore partecipazione democratica e di lotta all’esclusione sociale. Per cui nel caso catalano si sommano fattori storici, un’identità nazionale fatta di una lingua e valori culturali tipici e specifici della nazionalità catalana e un nazionalismo non influenzato solo dalla dimensione storica o culturale, ma che si mobilita e ottiene consensi sulla base della percezione di un possibile benessere economico declinato in modo diverso, legato al recupero o rafforzamento della sovranità nazionale che nel caso catalano si è concretizzato nel progetto di uno Stato indipendente in forma di repubblica. Casi simili si ritrovano anche in altri movimenti indipendentisti e autonomisti europei, come il caso della Scozia, dove l’opzione indipendentista raccoglie consensi sull’idea di mantenere un sistema sociale più redistributivo o sulla gestione delle risorse provenienti dall’estrazione del petrolio nel Mare del Nord. Non a caso il referendum del 2014 ha visto la vittoria di quella parte di elettori delle classi medio-alta e alta e dalla parte più anziana della popolazione, preoccupata dalla gestione del sistema pensionistico e del sistema sanitario, mentre quelli favorevoli erano per lo più esponenti della working class colpiti dalla precarizzazione del lavoro. In altri casi il welfare nationalism trova risposte all’incertezza prodotta dalla frammentazione e precarizzazione lavorativa ed esistenziale in una forma di chiusura neocomunitarista, in cui la comunità nazionale definita tramite caratteri biologici (nascita e legame di sangue) viene mobilitata per difendere le risorse contro il presunto intervento depredatore dall’esterno (migranti, Stato centrale, ecc.; è il caso della Lega Nord). Bisogna anche considerare l’impatto avuto sui movimenti e partiti etnoregionalisti e indipendentisti dell’ultimo decennio di crisi economica e sociale, che ha visto emergere nuove e vecchie forme di populismo, leadership carismatiche e personalistiche, la crisi delle forme di partito tradizionali, l’affermazione dei partiti-movimento, le esperienze di centrodemocrazia. Un modello multidisciplinare e interdisciplinare per l’analisi delle forme sociopolitiche contemporanee di etnoregionalismo deve comprendere: 1. Il repertorio etnoculturale, ovvero il contenuto culturale considerato proprio e autentico da parte dei membri della comunità nazionale, ciò che viene utilizzato per rafforzare la differenza verso l’esterno. Gli elementi che lo costituiscono devono essere socialmente rilevanti e vivi nella comunità nazionale e ogni selezione riduce il repertorio di elementi da poter selezionare in seguito; 2. Il quadro politico-istituzionale, ovvero le variabili che caratterizzano il sistema politico in cui agisce il movimento etnonazionalista. In ciò ci aiuta il concetto di struttura delle opportunità politiche (SOP), con il quale si intendono le diverse variabili che limitano e/o agevolano la mobilitazione politica. Nel caso dei movimenti etnoregionalisti bisogna distinguere tra una SOP formale (evoluzione storica della costruzione dello Stato- nazione, decentralizzazione politica e, nel caso europeo, formazione di spazi istituzionali riconosciuti a livello sovrastatale) e informale, come politiche governative che favoriscono il nazionalismo, riallineamento elettorale, conflitti intraélites, disponibilità di nuove alleanze, ecc. I movimento etnonazionalisti non devono adattare la loro azione solo ai determinati contesti politico-istituzionali, ma contribuiscono anche alla formazione di una SOP percepita che, attraverso la mobilitazione politica, può influenzare quella reale; 3. La mobilitazione ideazionale, che adotta una serie di strategie per attirare ampi settori sociali, consolida organizzativamente il movimento nazionalista, fornisce quadri interpretativi della realtà sociale che, mediante un processo di allineamento sostenuto da strategie appropriate, siano in fine assunti dalla maggior parte della popolazione come modello di riferimento. Il concetto di frame ben si adatta a quello di nazionalismo per la sua propensione ad associarsi ad altre idee e rivendicazioni sorte nel sistema politico e sociale.
5. Etnoregionalismi e fenomeni migratori
I processi migratori sono uno dei temi più caldi nell’agenda politica di molti Stati e il fenomeno riguarda da vicino anche gli etnoregionalismi periferici perché rimette al centro della discussione il tema della cittadinanza, che stabilisce la differenza tra chi è membro della comunità politica e chi non lo è. Nei confronti dell’immigrazione e dell’integrazione delle comunità migranti i vari etnoregionalismi hanno assunto posizioni molto diverse: Kymlicka, fin dai primi anni Duemila, ha criticato la teoria della minaccia, secondo cui gli etnoregionalismi e nazionalismi periferici assumerebbero un atteggiamento di chiusura generalizzata. Come ha osservato, invece, il verificarsi di determinate condizioni (gestione del flusso da parte delle istituzioni regionali, definire i termini dell’integrazione) portano a un atteggiamento di apertura e inclusività. Parlando di singoli casi, si può citare il nazionalismo basco, che alle sue origini nel XIX secolo si presentava come fortemente razzista, mentre le diverse trasformazioni ideologiche del XX secolo hanno prodotto un atteggiamento di sostanziale apertura, basato su una concezione volontarista di appartenenza alla comunità nazionale condiviso sia dalla componente più radicale che quella moderata. Abbiamo, poi, il caso della Catalogna: anche qui si è sviluppato un modello di nazionalismo interculturale condiviso dalla quasi totalità delle forze politiche e sociali indipendenti, basato sull’apertura nei confronti della sfida interculturale delle migrazioni internazionali. Le varie componenti del catalanismo condividono una concezione includente e interculturale di catalanità, concepita a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento nel contesto delle migrazioni interne alla Spagna. Il caso belga, invece, presenta una risposta opposta: la politicizzazione dell’identità regionale o nazionale periferica da parte di alcune organizzazioni politiche etnoregionaliste si combina con un discorso di chiusura e rifiuto dei migranti, considerati come una minaccia per il benessere e l’identità della comunità nazionale ospitante.
6. Etnoregionalismi e violenza politica
Per completare il quadro degli etnoregionalismi periferici è il caso di considerare anche l’uso di strategie violente da parte di alcune delle organizzazioni che rivendicavano maggiori autonomie o l’indipendenza. I casi più noti sono quelli dell’IRA e dell’ETA: la prima è un organizzazione armata irlandese nata nei primi anni del XX secolo che tornò in auge, con importanti cambiamenti organizzativi e ideologici, nel periodo dei Trobles in Irlanda del Nord in difesa delle 6 contee cattoliche dell’Ulster; il secondo nacque negli anni Cinquanta in Spagna durante la dittatura di Franco, portando avanti per oltre mezzo secolo una campagna armata che ha subito numerose riconfigurazioni strategiche e ideologiche per la formazione di uno Stato basco indipendente. Siccome non si sviluppa in tutti i casi dei movimenti etnoregionalisti e indipendentisti una forma strategica violenta, è necessario analizzare tali fenomeni senza bollarli come terrorismo, ma secondo le analisi, gli approcci e le teorie della volenza politica. I gruppi armati sono organizzazioni soggette alle stesse dinamiche di altre organizzazioni dei movimenti sociali e la violenza è intesa come uno dei repertori d’azione collettiva che individui e gruppi possono adottare per ottenere risultati politici. Sono diversi i fattori che contribuiscono all’emergere dei fenomeni di violenza politica. Il primo riguarda la chiusura o apertura dello Stato centrale rispetto alle rivendicazioni di maggiore autogoverno delle periferie: nel caso di una chiusura allora la violenza diventa una risorsa efficace per costringere lo Stato centrale a negoziare una soluzione accettata anche dalla comunità periferica. Nel caso dell’IRA il fattore scatenante è stata la repressione dell’esercito britannico contro la minoranza cattolica nelle contee dell’Ulster; nel caso dell’ETA, invece, la regione basca era stata soggetta a un processo di industrializzazione che aveva acuito le rivendicazioni degli operai, soppresse dal franchismo tanto quanto quelle indipendentisti, per cui la lotta armata è diventata una strategia accettata da un gran numero di individui della comunità. Altro fattore che può portare all’emergere della violenza politica è la forza o debolezza degli elementi culturali differenzianti la comunità etnoterritoriale. Considerando il caso catalano e quello basco possiamo vedere come il catalano era una lingua ampiamente diffusa nella regione nonostante il divieto a utilizzarlo in pubblico, mentre l’euskera veniva parlato da una minoranza della popolazione acquisendo un valore prettamente simbolico. Il nazionalismo basco era troppo debole, per cui si è affermato un nazionalismo militare, affermatosi anche grazie alla repressione indiscriminata del regime franchista, mentre in Catalogna si affermavano forme di protesta di massa e non violente tenendo ai margini i rami più radicali. Un terzo fattore da tenere in considerazione è l dimensione ideologica: molti dei gruppi armati etnoregionalisti in Europa si sono formati tra glia nni Cinquanta e Settamta del Novecento, in un contesto di liberazione nazionale anticoloniale in Africa, Asia e America Latina; l’influenza di queste lotte (in particolare della rivoluzione di Castro) ha fornito un modello organizzativo e ideologico per diverse organizzazioni armate etnoregionaliste europee, che hanno adattato i modelli di guerriglia ai rispettivi contesti integrando anche molti elementi ideologici e organizzativi di matrice marxista-leninista, secondo cui l’uso della violenza era da considerare legittimo e necessario. Oggi, i gruppi armati formatisi nel XX secolo hanno abbandonato la lotta armata: l’IRA si è sciolta definitivamente nel 2008 dopo aver cessato la lotta armata in seguito agli accordi del Venerdì Santo del 1998, sebbene lo stallo nelle negoziato brexit ha fatto riemergere una certa violenza per le strade nordirlandesi, con la politica che ha optato per la marginalizzazione dei gruppi più radicali; l’ETA ha annunciato pubblicamente la sua dissoluzione nel 2018: l’indipendentismo basco ha scelto di portare avanti i propri obiettivi solo tramite la via politica e democratica, una scelta unilaterale che non ha permesso una contrattazione per porre fine anche ai problemi post-conflitto, ma che vede la leadership indipendentista lasciare ai margini le frange più radicali. Analizzando il caso scozzese e catalano notiamo una radicalizzazione che ha portato dalla richiesta di maggiore autonomia a quella dell’indipendenza che non ha portato ad adottare strategie di violenza politica, anzi in Scozia il referendum del 2014 è stato concordato con il governo britannico, mentre lo stallo della brexit e le conseguenze sulla Scozia hanno portato di nuovo al centro dell’agenda politica l’indipendenza del Paese; in Catalogna, nonostante la repressione del governo di Madrid in occasione del referendum non riconosciuto del 1 ottobre 2017, non si è sviluppata una strategia armata scegliendo la strada della disobbedienza civile non violenta. Lo scemare della violenza politica è conseguenza di alcuni fattori. Il primo è, in alcuni casi, il cambiamento dell’atteggiamento del governo centrale; nel momento in cui questo cambiamento non è avvenuto sono intervenuti altri fattori a facilitare il superamento o a ostacolare la formazione delle opzioni violente dentro i gruppi etnoregionalisti radicali. Uni di questi fattori è il mutato scenario internazionale in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001 e i successivi attentati realizzati da diverse organizzazioni islamiche radicali in diversi Paesi occidentali. La nuova ondata di terrorismo ha creato una rete di collaborazione tra le intelligence internazionali che ha reso più complesso mantenere campagne armate efficaci da parte delle organizzazioni indipendentiste; d’altra parte il nuovo terrorismo islamico ha ridotto la comprensione e legittimazione, anche implicita, della violenza per scopi politici presso settori sempre più ampi dell’opinione pubblica internazionale, riducendo la possibilità di creare una rete di solidarietà e sostegno internazionale ai movimenti indipendentisti associati all’uso della violenza. Un terzo fattore è il cambiamento dei quadri ideologici di riferimento a livello globale: molte lotte armate seguivano ideali che legittimavano la violenza politica e trovavano punti di riferimento in altre esperienze simili, ma al caduta del Muro di Berlino e la fine del bipolarismo della Guerra Fredda ha messo fine a tutto ciò, portando alla nascita di nuovi movimenti sociali che, sia a livello locale che a livello transnazionale, si basano su una concezione organizzativa aperta, partecipativa e orizzontale e su un sostanziale rifiuto della violenza che contrastano con i modelli gerarchici e militaristici su cui si basavano le organizzazioni armate etnoregionaliste.
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