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Parte prima: TEORIE

1. Nazione e nazionalismo come fenomeni della modernità: Deutsch, Gellner,


Anderson e Hobsbawm
Il modernismo è stato il paradigma dominante negli studi sul nazionalismo nel secondo dopoguerra,
sottolineando l’assoluta modernità delle identità nazionali e del nazionalismo come fenomeni
prodotti dai processi di modernizzazione sociale, politica ed economica veicolati dalla creazione di
Stati moderni, dalle rivoluzione politiche di fine XVIII secolo negli Stati Uniti e in Francia, e
dall’affermazione del capitalismo. Detto ciò, all’interno del paradigma modernista le teorie e gli
autori si dividono sugli aspetti della modernità da considerare più importanti e rilevanti
nell’affermazione dell’idea di nazione e del nazionalismo come fenomeno politico moderno. Ecco
alcuni autori e le rispettive teorie. Deutsch ha delineato un modello integrativo della costruzione
della nazione in cui l’opposizione tra l’etnicità (considerata un’identità premoderna) e la nazione
moderna viene proposta in modo chiaro ed esplicito. Le categorie centrali in tale modello sono:
nazione, comunicazione sociale, integrazione e assimilazione e mobilitazione sociale. Per Deutsch a
svolgere un ruolo fondamentale nella formazione della nazione sono i mezzi di comunicazione di
massa che permette a individui distanti e separati socialmente si fondono in un’unica realtà grazie a
processi di omogeneizzazione culturale richiesti dalla modernizzazione, dall’industrializzazione e
dal mercato nazionale. L’assimilazione è favorita dai processi di cambiamento strutturale delle
società industriali moderne che rendono più intensa la comunicazione tra gruppi sociali distinti, sia
la mobilitazione sociale veicolata dalla Stato per diffondere nuovi modelli di socializzazione e di
comportamento in sostituzione di quelli premoderni. Tuttavia, nel corso di questo processo di
modernizzazione politica ed economica i conflitti etnolinguistici potrebbero riemergere in quelle
comunità che vedono i propri costumi e la propria lingua minacciati dall’assimilazione.
Ciononostante, la conflittualità per Deutsch deve risolversi nei processi assimilativi, analizzando
anche la fasi che porteranno i gruppi etnici all’accettazione dell’assimilazione:
1. Resistenza aperta o latente;
2. Integrazione minima, fino alla collaborazione passiva con il governo centrale;
3. Integrazione politica più profonda, con supporto attivo allo Stato centrale, pur nella
conservazione della diversità etnica;
4. Assimilazione di tutti i gruppi nell’ambito di una lingua e cultura comuni.
Il limite del modello proposto da Deutsch è la forte caratterizzazione evoluzionista e normativo-
prescrittiva. È evoluzionista perché ritiene che l’assimilazione e l’integrazione sono processi
inevitabili e universali, seppur contraddittori e complessivi, verso cui convergono tutte le società
umane; è normativo-prescrittivo perché considera tale processo positivo. Per Gellner nazione e
nazionalismo sono fenomeni moderni sorti per sostenere processi di socializzazione,
l’omogeneizzazione culturale e l’elevata mobilità sociale nelle moderne società industriali, che si
caratterizzano per un alto sviluppo tecnologico, una divisone mobile del lavoro, una capacità
comunicativa tra estranei continua e precisa tramite un linguaggio standard nel parlato e nella
scrittura. Il livello di istruzione e competenza tecnica e così elevato che tale linguaggio non può
essere fornito dalle unità locali e familiari, ma è necessario un sistema educativo nazionale
promosso e controllato dallo Stato burocratico centralizzato. Una trasformazione del genere
permetterà la diffusione di un linguaggio standardizzato e codificato per le esigenze tecnologiche e
burocratiche di una società impersonale, tenuta insieme da una cultura comune rispetto a una
precedente struttura complessa di gruppi locali che riproducono culture popolari proprie. Per
Gellner è il nazionalismo, vale a dire il principio secondo cui politico e nazionale devono essere
congruenti, a creare la nazione nello sforzo di allineare confini etnici e politici fornendo la cultura
comune standardizzata funzionale a una moderna società industriale. Le culture popolari sono in
numero nettamente superiore rispetto al numero di Stati-nazione, per cui l’affermazione di una
“cultura alta” potrebbe portare le “culture basse” a opporsi alla cultura assimilatrice con una propria
cultura nazionale “modernizzata” in nome della quale rivendicare l’autogoverno politico. Il limite
principale della teoria di Gellner è che guarda allo sviluppo industriale come unico fattore
determinante per l’esistenza di nazioni e nazionalismo, escludendo casi come quello della Serbia o
del Messico in cui il nazionalismo è emerso quando non c’era uno sviluppo industriale significativo.
Inoltre, anche questo modello si inserisce in una concezione evoluzionista e universalista della
modernizzazione in cui si esagerano le rotture tra “tradizione” e “modernità” e non si tengono conto
le specificità dei diversi processi di modernizzazione e di formazione delle identità nazionali. A
cercare di inserire la dimensione psicologico-cognitiva e quella culturale nella riflessione teorica
relativa al rapporto tra nazione, nazionalismo e modernità è stato Benedict Anderson che parla di
nazioni come comunità immaginate in cui gli abitanti non conosceranno mai tutti i propri
compatrioti, né ci parlerà mai, ma tutti condividono l’idea di appartenere alla stessa comunità. La
nascita di queste comunità immaginate p stato possibile grazie ad alcuni cambiamenti culturali
rispetto alla religione, l’autorità politica e il tempo cosmologico. Riguardo al primo punto l’avvento
dell’Illuminismo ha messo in dubbio le secolari convinzioni religiose che vengono sostituite
dall’idea di nazione; per tale motivo non dobbiamo considerare il nazionalismo solo come
un’ideologia politica. Sul finire del XVII secolo si diffonde l’idea di nazione sovrana e libera, che al
massimo dipende solo da Dio, con la sovranità che non è più legata a un diritto divino dinastico. La
garanzia di tale libertà è lo stato nazionale. Per quanto riguarda la concezione del tempo diventa
omogeneo, lineare, vuoto, in perfetta armonia con l’idea di nazione concepita come una solida
comunità che si sposta su e giù lungo la storia. Tuttavia, queste precondizioni culturali non sono
sufficienti a far emergere le comunità politiche nazionali, ma sono stati lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione di massa (i giornali in particolare) e la diffusione di lingue locali nel contesto
dell’economia capitalista a permettere di rappresentare le comunità immaginate in cui gli individui
si riconoscono. Le comunità immaginate potrebbero svolgere un ruolo importante anche nella
formazione di un nazionalismo a lunga distanza grazie alle nuove tecnologie di comunicazione e dei
trasporti, coinvolgendo direttamente le comunità di emigrati con quella nazionale di origine.
Anderson pone l’accento sulla dimensione cognitiva e lo sviluppo della cultura scritta come base
dell’affermazione del sentimento nazionale in epoca moderna. Tuttavia, anche la teoria di Anderson
è carente perché, pur riconoscendo il ruolo importante della lingua nella formazione delle identità
nazionali, bisogna considerare l’estrema varietà d tratti culturali e di codici cognitivi (miti, simboli,
tradizioni, ecc,) attorno ai quali prende forma la rappresentazione della comunità nazionale.
Hobsbawn sostiene che nazione e nazionalismo sono concetti creati dalle élites borghesi nazionali a
partire dal XIX secolo in funzione di un sistema economico capitalista a base statale. Per tale
motivo l’identità nazionale è una tradizione inventata della modernità, ovvero un insieme di
pratiche tacitamente o apertamente accettate che cercano di inculcare un sistema di valori e norme
comportamentali attraverso la ripetizione in continuità con il passato. Di fatto il richiamo al passato
è fittizio e strumentale. La nazione e il nazionalismo si possono comprendere solo in funzione di
uno Stato (esistente o richiesto) perché rappresentano gli elementi necessari per la legittimazione
degli Stati come attori centrali di un’economia internazionale perché nel periodo tra il XVIII secolo
e gli anni post Seconda guerra mondiale hanno avuto poco spazio quelle realtà extraterritoriali e
transnazionali che avevano svolto un ruolo fondamentale nella nascita di un’economia capitalista a
livello mondiale e che oggi hanno riacquistato importanza. Per cui il nazionalismo come vettore
principale dello sviluppo storico è legato all’evoluzione del capitalismo. Per Hobsbawn le
trasformazioni politiche ed economiche in atto nel XX secolo avrebbero dato maggiore importanza
alle realtà extraterritoriali e transnazionali, delineando un’economia più che internazionale, in cui
nazione e nazionalismo erano destinati a occupare una posizione marginale ed essenzialmente
reazionaria. L’interpretazione proposta da Hobsbawn è di stampo marxista ortodosso: il
nazionalismo è una forma di falsa coscienza costruita dalle élites borghesi per soggiogare le classi
subalterne e legittimare lo Stato capitalista. Tuttavia, questa teoria non spiega perché queste classi
subalterne abbiano creduto così tanto a questo “falso mito” della nazione e al sentimento di
appartenenza nazionale. L’identità nazionale non si crea dal nulla, ma poggia su valori, sentimenti e
identità preesistenti socialmente e culturalmente rilevanti; vive nella memoria collettiva del gruppo
etnonazionale che si mobilita politicamente. La formazione dell’identità nazionale è la sintesi tra
identità, miti, valori e storie condivise dalla collettività nazionale e la rielaborazione, adattamento e
interpretazione degli stessi da parte delle élites politiche e intellettuali nazionaliste. Inoltre, ridurre
le esperienze contemporanee di mobilitazione regionalista e nazionalista periferica a semplice
reazioni etniche ed escludenti non considera la varietà delle forme organizzative e ideologiche
assunte dalle stesse.

2. Il nazionalismo come forma della politica e come ideologia politica: Breuilly e


Freeden
La proposta teorica di Breuilly si caratterizza per un maggiore apporto comparatistico
nell’individuazione dei diversi tipi di movimenti regionalisti e nazionalisti periferici. L’opera di
Breuilly fornisce un’analisi comparativa dei vari casi e tipologie di nazionalismo in diversi ambiti
territoriali e storici. Lo scopo dello studioso è quello di individuare e applicare una procedura
generale per lo studio del nazionalismo, con un’attenzione alla specificità dei casi che non possono
essere ricondotti a una teoria generale. Il nazionalismo è un concetto che si riferisce a movimenti
politici che cercano di ottenere o esercitano il potere statale e giustificano tali azioni con argomenti
nazionalisti. Un argomento nazionalista è una dottrina politica costruita attorno a tre asserzioni:
1. Esiste una nazione con un carattere esplicito e peculiare;
2. Gli interessi e i valori di questa nazione sono prioritari rispetto a ogni altro interesse o
valore;
3. La nazione deve essere quanto più possibile indipendente, per cui deve raggiungere la
sovranità popolare.
Breuilly considera il nazionalismo solo nell’ambito dei fenomeni politici, considerandolo una
dottrina moderna nata per colmare la crescente distanza tra Stato e società, acuita dalla divisione
sociale del lavoro e conseguente differenziazione e individualizzazione degli stili di vita. Questa
teoria, rispetto a quella di Gellner, collega la nascita del nazionalismo a una concezione più ampia
di modernizzazione e industrializzazione, includendo anche quelle realtà non così sviluppate dal
punto di vista industriale. La funzione di collante tra Stato e società svolta dal nazionalismo
spiegherebbe anche perché negli Stati multinazionali l’identità culturale diventa una forma di
opposizione giusta allo Stato, in quanto gli individui non si identificano in esso perché non
rappresenta la propria nazione e rifiuta di riconoscere gli argomenti dello Stato che provano a
superare tale distinzione. In un’edizione successiva di Nationalism and the State, Breuilly
perfeziona le sue teoria considerando il riemergere di mobilitazioni nazionali periferiche in cui
individua una nuova appartenenza sociale degli attivisti e regioni spesso tra le più industrializzate o
con uno sviluppo più rapido: sono classi medie manageriali, tecniche e amministrative e una classe
di contadini e una classe operaia più mobile e spesso più qualificata rispetto a quella tradizionale.
L’evidente limite della teoria di Breuilly è la riduzione del nazionalismo a fenomeno prettamente
politico: in alcuni casi il nazionalismo può essere latente, ma i sentimenti nazionali sono comunque
diffusi e socialmente rilevanti. Considerare il nazionalismo solo dal punto di vista politico e le
identità cultural come strumenti utilizzati dalle élites nazionaliste limita il campo di indagine a
fenomeni facilmente osservabili, ma non aiuta a comprendere la realtà complessa della formazione
dell’identità nazionale e del nazionalismo. Il nazionalismo è anche un’ideologia politica, ma di tipo
particolare, caratterizzata da grande flessibilità, tanto che si può dubitare della sua classificazione
come ideologia politica. Considerando ciò risulta particolarmente utile la teoria di Freeden che
considera il nazionalismo un’ideologia incompleta che si basa su 5 principi chiave:
1. L’elevazione della nazione come contesto esistenziale chiave per gli esseri umani;
2. La valorizzazione positiva della nazione;
3. Il desiderio di dare una forma politica e istituzionale alla nazione;
4. L’importanza dello spazio e del tempo nel determinare le identità sociali;
5. Un senso di appartenenza strettamente legato alla sfera psicoaffettiva e sentimentale.
Il primo e il terzo di questi principi sintetizzano l’impegno ideologico di rivendicazione
dell’autodeterminazione nazionale, senza però fornire una direzione da seguire o come raggiungere
ciò. Sono tali mancanze a rendere il nazionalismo un’ideologia incompleta che ha bisogno di
concetti aggiuntivi per trasformare i propri principi astratti in un piano di azione politica. Il nucleo
ideologico viene interpretato diversamente a seconda delle circostanze: da qui deriva la flessibilità
del nazionalismo che si adatta a diverse situazioni. Il nazionalismo è un’ideologia in sé ma deve
essere riempita, rafforzata e sostenuta da concetti accessori per adattarsi a contesti specifici: ecco
perché esistono diversi tipi di nazionalismo politico e perché, nell’analizzare il fenomeno, bisogna
avere un armamentario teorico e concettuale adatto a comprendere tutte le pluralità di forme
attraverso cui si esprime.

3. I conflitti centro-periferie e il colonialismo interno: Rokkan, Urwin e Hechter


Il modello di Stein Rokkan fornisce una soluzione multidimensionale delle mobilitazioni politiche
etnonazionaliste rispetto alle teorie moderniste classiche. Nel suo modello si concentra
sull’affermazione dello Stato moderno centralizzato in Europa evidenziando il carattere incompleto
e conflittuale di tale processo, tenendo conto dell’influenza e rilevanza di alcuni elementi della
premodernità (istituzioni religiose, etniche, territoriali, ecc.) nella struttura dei sistemi politici
moderni. Il lavoro in cui esprime le sue teorie è stato pubblicato postumo a cura di Derek Urwin, un
suo collaboratore, nel quale analizza le caratteristiche, le cause e le possibili soluzioni dei conflitti
centro-periferia in Europa. Nella sua analisi della formazione dello Stato centralizzato nell’Europa
prettamente occidentale, Rokkan rivela l’incompiutezza di tale processo perché porterà a un
conflitto inevitabile per il controllo delle risorse di vario tipo tra uno o più centri e una o più
periferie. Le caratteristiche chiave della periferia sono la distanza, la differenza e la dipendenza
dalle aree centrali: la prima causa un costo di transito; la seconda genera l’idea di identità separate;
la terza fa riferimento a una dipendenza di tipo politico, economico e culturale. Il modello di
Rokkan identifica due condizioni necessarie per l’emergere del nazionalismo o regionalismo
periferico:
1. Le regioni devono avere un certo grado di potere decisionale in una delle tre dimensioni
(culturale, economica o politica);
2. Il centro prova a imporre una politica di State-building che entra in conflitto con le strutture
di potere delle regioni periferiche.
Per cui, il nazionalismo si intende come la manifestazione delle tensioni tra centro e periferia o
come la politicizzazione delle difficoltà periferiche, ma questa non implica una rivendicazione
secessionista o indipendentista. Il tipo di rivendicazioni delle regioni periferiche possono essere
diverse in base al contesto e all’interazione tra i diversi fattori in campo, tanto che Rokkan e Urwin
ne identificano sette:
1. Costruzione dell’identità periferica;
2. Protesta periferica;
3. Regionalismo;
4. Autonomia regionale (differente dalla precedente per l’esplicita rivendicazione di un
riconoscimento istituzionale dell’autogoverno regionale);
5. Federalismo;
6. Confederalismo;
7. Separatismo (con obiettivo la creazione di un nuovo Stato) o irredentismo (unificazione con
uno Stato già esistente).
La complessità dei fattori alla base dei conflitti centro-periferie rendono evidenti l’inutilità dei
modelli precedenti e la necessità di una visione multidimensionale. Per cui, limitandolo al contesto
europeo, il modello di Rokkan è uno strumento importante per lo studio del fenomeno
etnonazionale. Nella teoria del colonialismo interno elaborata da Hechter negli anni Settanta
vengono considerati i movimenti etnonazionali substatali come espressione di conflitti dovuti alle
polarizzazioni interne agli Stati. Lo scopo dell’autore è fornire una spiegazione marxista dei diversi
movimenti etnonazionalisti sorti con forza in diversi Paesi occidentali industrializzati verso la fine
degli anni Sessanta. Questi fenomeni contrastavano la teoria marxista ortodossa del superamento
della rilevanza delle identità etniche e nazionali con il progressivo affermarsi della dell’identità e
della lotta di classe. Per superare questo problema teorico, Hetcher applica le teorie dello sviluppo
ineguale e della dipendenza al Regno Unito per spiegare l’emergere dei movimenti nazionalisti
periferici in Galles, Irlanda e Scozia e, per estensione, negli altri Paesi occidentali a capitalismo
avanzato. Nel Regno Unito si è creata una sorta di colonialismo interno in cui le regioni/nazioni
periferiche vivono una situazione di dipendenza strutturale, funzionale allo sviluppo
dell’Inghilterra, simile a quella dei Paesi non industrializzati in Africa, Asia e America Latina
rispetto ai Paesi centrali dell’economia-mondo capitalista. Il colonialismo interno nei Paesi
dell’Europa occidentale si caratterizza per lo sviluppo di una divisione culturale del lavoro: le
occupazioni di status elevato tendono a essere riservate agli abitanti della metropoli, mentre quelli
della provincia occupano a stratificazione più bassa. Per cui, il nazionalismo periferico sarebbe nato
come reazione al mancato sviluppo regionale esprimendo, tramite la mobilitazione dell’identità
culturale/nazionale un’opposizione alla situazione di dipendenza economica di tipo coloniale dal
centro. La teoria di Hetcher attribuisce a elementi economici la formazione dei nazionalismi
periferici. Questo riduzionismo è il limite maggiore che i critici hanno trovato nel suo modello,
perché il fenomeno del nazionalismo periferico ha interessato sia aree depresse dal punto di vista
economico che Paesi industrializzati, Nel cercare di perfezionare la sua teoria, Hetcher ha rivisto il
suo modello, distinguendo tra la divisone culturale del lavoro e la divisione segmentale del lavoro,
in cui i membri del gruppo etnonazionale interagiscono completamente dentro i confini del proprio
gruppo e alcuni monopolizzano certe nicchie nella struttura occupazionale. Le regioni periferiche
che presentano una divisione segmentale del lavoro non posso essere considerate nazioni proletarie
o colonie interne depresse. Tuttavia, il modello è ancora molto limitato perché trova applicazione
solo in determinati contesti e su un ancora eccessivo riduzionismo economico che non tiene conto
delle diverse dimensioni della mobilitazione etnoterritoriale. Negli anni Duemila, Hetcher ha
sviluppato un nuovo approccio teorico incentrato su un modello di scelta razionale in cui lo
sviluppo dei movimenti nazionalisti periferici viene collegato a valutazioni di costi-benefici dei
membri dei gruppi etnonazionali periferici, che vedono nella creazione di istituzioni di autogoverno
la possibilità di accedere a maggiori risorse e a migliori posizioni sociali.

4. I processi di politicizzazione dell’identità etnica: Smith e Hroch


Anthony D. Smith rivaluta l’importanza delle eredità premoderne nella formazione delle nazioni in
epoca moderna: le nazioni, sebbene siano un fenomeno moderno, si basano su un preesistente
intreccio di miti, tradizioni, valori che costituiscono il potere della memoria collettiva dell’identità
etnonazionale. Le nazioni moderne sono il risultato della riscrittura, dell’adattamento e
ricostruzione di identità, miti, valori e codici etnici premoderni in seguito all’affermazione dello
“Stato scientifico burocratico”. Ovvero, il nazionalismo è una sorta di ponte tra l’eredità distintiva
del passato etnico e la necessità di una comunità di vivere come una nazione tra le altre in un
mondo di capitalismo industriale sempre più burocratizzato. In questo modo, preserva alcuni tratti
del passato e instaura una continuità con le trasformazioni moderne. Le etnie si sono dovute
politicizzare e uscire fuori dal proprio immobilismo per diventare nazioni, anche se non lo
volevano, ma è stato necessario per sopravvivere cercando un territorio proprio e delimitato, una
cultura pubblica, un’unità economica ed eguali diritti e doveri per i propri membri. In questo
processo un ruolo fondamentale lo svolgono gli intellettuali e, soprattutto, gli storici, che forniscono
una passato etnico autentico su cui basare la nascita dell’identità nazionale, ma non è un processo
che si crea dal nulla: devono riscoprire e riappropriarsi di un passato etnico che ha un certo valore
presso la popolazione, anche se è scarsamente documentata. I processi di riscrittura, riscoperta e
recupero sono fondamentali anche per la globalizzazione, un processo che si pensava portasse a
superare le appartenenze etniche e nazionali grazie a nuovi mezzi di trasporto, della comunicazione
e dell’informazione, ma ha prodotto solo una riattivazione delle stesse perché gli individui cercano
punti di stabilità e riferimento in un’epoca di grandi cambiamenti e trasformazioni delle identità
etniche e nazionali per adattarsi a un nuovo contesto globale. Il “modernismo riflessivo” di Smith,
nonostante la complessità nel ricostruire il passato etnico di un popolo, sottolinea il complesso
rapporto tra tradizione e modernità, fortemente semplificata in altri modelli. Anche Hroch si
concentra sui processi di politicizzazione delle identità culturali anche di origini preemoderne nei
movimenti nazionali moderni. Prima di tutto collega la formazione delle nazioni ai processi di lunga
durata che hanno prodotto trasformazioni sociali nella modernità, in particolare quelli associati alla
diffusione del capitalismo, considerando anche gli effetti della maggiore mobilità sociale e
geografica dell’epoca moderna, le comunicazioni più intense tra individui e gruppi, la diffusione
dell’alfabetizzazione e i mutamenti generazionali. Prima di tutto lo studioso ceco parte dal
presupposto che gli Stati-nazione propriamente detti all’inizio del XIX secolo sono solo 8 e
presentano una cultura letteraria più o meno consolidata, una cultura alta e delle élites dominanti
(compresa aristocrazia e borghesia commerciale e industriale) etnicamente omogenee: questi Stati
sono nati in seguito a lunghi processi di nazionalizzazione risalenti al Medioevo e sono Francia,
Inghilterra, Paesi Bassi, Svezia, Spagna, Portogallo, Danimarca e Russia. Allo stesso tempo Hroch
individua più di trenta gruppi non dominanti all’interno di imperi multietnici e negli Stati-nazione.
In alcuni di questi gruppi si è sviluppata la consapevolezza della propria etnicità differenziata
iniziando a concepirsi come potenziali nazioni. Da questa consapevolezza nascono i movimenti
nazionali, ovvero il tentativo, riuscito in alcuni casi, di conseguire tutti gli attributi di una nazione
matura. Hroch non parla di nazionalismo perché è definito come una mentalità che attribuisce una
priorità assoluta ai valori della nazione s tutti gli altri valori e interessi, ma non tutti i membri del
gruppo appoggiano questa mentalità. Lo studioso individua tre diverse fasi strutturali del processo
che va dall’inizio di ogni movimento nazionale e del suo eventuale completamento: nella Fase A un
gruppo ristretto di attivisti si concentra sullo studio degli attributi linguistici, storici e culturali del
proprio gruppo etnico, ma non c’è nessuna finalità politica o lo sviluppo di un’agitazione
patriottica; la Fase B vede l’affermazione di un nuovo gruppo di attivisti che si pone l’obiettivo di
ottenere quanto più consenso possibile all’interno del gruppo etnico per il progetto di creazione di
una nazione e, nel caso in cui si è diffusa una coscienza nazionale accettata da molti, si formano i
movimenti nazionali di massa che hanno scopi prettamente politici, che caratterizzano la Fase C. Il
passaggio tra le varie fasi avviene con tempistiche diverse. Per classificare e analizzare i vari tipi di
movimenti nazionali, bisognerà capire se, come e quando si è sviluppata la transizione dalla Fase B
e quella C. Hroch aggiunge anche un altro fattore, la costituzionalizzazione dello Stato in cui sono
presenti i gruppi etnici non dominanti al momento dell’affermazione del movimento nazionale di
massa. La combinazione di questi due aspetti ha portato all’individuazione di quattro tipi di
movimenti nazionali in Europa:
1. L’agitazione nazionale è iniziata sotto un regime assolutista raggiungendo la sua fase di
massa in un periodo di cambiamenti rivoluzionari (ad esempio, il movimento ceco in
Boemia o i movimenti nazionali ungherese e norvegese);
2. L’agitazione nazionale è iniziata sotto regime assolutista, ma la transizione alla Fase C è
avvenuta solo dopo la rivoluzione costituzionale (ad esempio, i movimenti lituano, lettone e
sloveno);
3. Il movimento di massa, quindi la Fase C, si è sviluppato in periodo assolutista, quindi prima
dello stabilirsi di uno Stato costituzionale (ad esempio, solo i territori europei appartenenti
all’Impero ottomano come Bulgaria, Serbia e Grecia);
4. L’agitazione nazionale è iniziata in un contesto di Stato costituzionale e di capitalismo più
sviluppato, tipo caratteristico soprattutto dei movimenti nazionali dell’Europa Occidentale
(Catalogna, Scozia, Galles, Bretagna) con alcune differenze temporali tra i vari casi.

5. Il neoregionalismo nell’epoca della postsovranità: Keating


Tra fine anni Novanta e inizio anni Duemila molti studiosi hanno provato nuovi approcci per
l’analisi degli etnoregionalismi ed etnonazionalismi riadattandola a un contesto politico di
globalizzazione e di governance multilivello, che mina sempre di più l’autonomia decisionale degli
Stati-nazione, tenendo in considerazione la flessibilità strategica dei movimenti etnoterritoriali in
seguito alle trasformazioni nelle relazioni tra la sfera statale, locale e sovrastatale. Gli attuali
movimenti etnoterritoriali andrebbero considerati come fenomeni di neoregionalismo e
neonazionalismo, con un carattere politico rinnovo e più ambivalente rispetto ai movimenti dello
stesso tipo del passato. Uno dei maggiori sostenitori di tale teoria, Michael Keating, siamo in una
fase di postsovranità, in cui gli Stati-nazione vedono messa in dubbio la propria sovranità assoluta e
riemergono e si diffondono forme di sovranità diffusa, condivisa, frammentata e multilivello, con
una maggiore rilevanza politica di realtà definite a inizio Novecento “frammenti di Stato”, nel
contesto di una maggiore interdipendenza, connessione e fluidità di rapporti tra i diversi centri del
potere che caratterizza le attuali società tardomoderne. Per analizzare efficacemente queste
trasformazioni Keating divide il concetto di Stato da quello di nazione: la nazione è la dimensione
sociale, lo Stato quella politica. Tra i due non c’è necessariamente una relazione, soprattutto nel
contesto contemporaneo in cui le soluzioni istituzionali di autogoverno di regioni e nazioni
periferiche sono complesse e non necessariamente riconducili alla forma di Stato come si è
sviluppata dopo Westfalia. Bisogna poi differenziare i diversi tipi di regione nel contesto
sociopolitico contemporaneo:
 Le nazionalità storiche o regioni nazionalistiche minoritarie, caratterizzate da un forte senso
di appartenenza culturale, linguistica o storica e da proprie istituzioni e reti sociali, che
possono avanzare o meno rivendicazioni nazionali sviluppate (ad esempio, la Scozia);
 Le regioni istituzionali caratterizzate dall’uso delle risorse istituzionali per definire uno
spazio politico un sistema efficace di azione politica;
 Le regioni amministrative, cui manca un senso di identità comune e che sono delle creazioni
artificiali recenti ai fini amministrativi.
Il fenomeno della regionalizzazione è comune in tutta Europa, mentre il neoregionalismo e il
neonazionalismo riguarda solo i primi due tipi di regione. Secondo Keating i nazionalisti adattano la
propria azione politica alle nuove opportunità fornite dalla crisi della sovranità assoluta dello Stato-
nazione. Questa trasformazione risulta radicale nel contesto europeo, data la profonda
riconfigurazione territoriale delle istituzioni politiche collegata allo sviluppo del processo di
integrazione. I nuovi movimenti nazionalisti si sono concentrati, nella costruzione della nazione, più
sugli aspetti civili che quelli etnici o statali. Questo nuovo regionalismo è una forma nuova di
politica territoriale che, dal punto di vista normativo, potrebbe essere la base per solidarietà
collettive su cui costruire nuovi spazi pubblici di deliberazione democratica in risposta alle tendenze
disgreganti del mercato globale, inoltre, il nuovo contesto di post-sovranità e maggiore permeabilità
dei confini creerebbe nuove opportunità per la soluzione di alcuni dei più complessi conflitti
etnonazionalisti. Gli attuali movimento etnoterritoriali periferici occidentali sono caratterizzati da:
 L’emergere di un nazionalismo del libero mercato che mette fine al legame tra nazionalismo
e protezionismo/autarchia;
 L’accettazione, da parte dei movimenti nazionalisti, dell’integrazione transnazionale;
 Lo sviluppo di una forte dimensione civica dei movimenti nazionalisti, con una maggiore
attenzione all’autogoverno territoriale nel contesto del mercato globale, e una minore
rilevanza della dimensione identitaria e della purezza etnica;
 Le basi sociali dei nazionalismi attuali sono nuove e più ampie rispetto a quelle dei
movimenti nazionalisti del XIX secolo;
 Il discorso nazionalista è modernista e orientato al futuro, non reazionario e antimodernista;
 L’accettazione dell’attuale limitazione di sovranità, ricercando formule attraverso le quali
l’autogoverno possa realizzarsi, e un progetto di autoaffermazione nazionale concretizzarsi,
in un contesto di superamento dello Stato-nazione classico;
 Una profonda ambiguità, espressa dalla flessibilità strategica articolata tra la rivendicazione
semplicemente regionalista e le rivendicazioni più radicali che mettono in dubbio la
legittimità dello Stato-nazione in cui agiscono.
Questo quadro descrittivo e in parte normativo è stato sottoposto a una revisione in seguito al
riemergere delle rivendicazioni indipendentiste in Europa negli anni Duemila: il Trattato di
Lisbona riconfigura la struttura del sistema di governanace attribuendo nuovamente
un’importanza centrale agli Stati nel sistema decisionali delle istituzioni comunitarie. In un
contesto simile sono di nuovo attuali le questioni costituzionali e l’idea di indipendenza che
erano state marginalizzate dal sistema di governance europea multilivello. Nella sua produzione
scientifica più recente Keating fornisce nuova rilevanza alle rivendicazioni secessioniste e
indipendentiste, che si abbinano a una riattivazione dei nazionalismi statali e quindi a una
crescente conflittualità, dovuta allo scontro tra questi diversi tipi di nazionalismo. Tuttavia,
l’analisi di questi casi fa emergere una visione non assoluta di sovranità e autogoverno: le
rivendicazioni indipendentiste odierne propongono un modello di interdipendenza di
indipendenza, ovvero si rivendica la creazione di uno Stato indipendente e sovrano, ma viene
riconosciuta anche l’importanza di un certo grado di condivisione della sovranità con altre
istituzioni politiche ed economiche su più livelli territoriali, in un contesto di interdipendenza
globale. L’indipendenza non è un obiettivo politico assoluto, ma relativo: le nazioni europee
senza Stato vogliono mantenere un certo grado di autogoverno. Questa domanda viene declinata
attraverso l’obiettivo massimo di indipendenza, ma potrebbe essere abbandonato se risulta più
facile da realizzare l’ipotesi di un’autonomia estesa e rafforzata. L’analisi degli studiosi
riconducibili all’impostazione neoregionalista ha il merito di chiarire la complessità e
ambivalenza dei delle mobilitazioni etnoterritoriali attuali, considerandole non come rivolta
contro la modernità, ma come fenomeni interni e ambivalentemente sia funzionali che
conflittuali con la realtà sociopolitica delineata da questi processi. Uno dei limiti di questo
approccio è l’eccesivo peso della dimensione normativa in cui le forme di neoregionalismo e
neonazionalismo periferico vengono collegate a opzioni politiche liberaldemocratiche,
escludendo quelle forme più conflittuali con il mondo liberaldemocratico o l’ideologia
liberoscambista dominante nei processi di globalizzazione economica. Alcuni casi di
mobilitazione regionalista e indipendentista dell’Europa contemporanea sono riconducibili a
forme di protesta frutto della crisi di fiducia verso le tradizionali forme della democrazia
rappresentativa e delle istituzioni liberaldemocratiche.

6. Le dinamiche multidimensionali del secessionismo: Bartkus e Sorens


Alcuni studiosi hanno sviluppato dei modelli teorici complessivi sul fenomeno del
secessionismo, che provano a descrivere i meccanismi e i fattori sociali, economici e politici
dietro a questi fenomeni o le rivendicazioni di maggiore autogoverno. Chi ha sviluppato tali
modelli ha provato a fornire una spiegazione a fenomeni che non siano iscrivibili alla sola
Europa; è il caso del modello della studiosa Vina Bartkus che risponde alla domanda: perché i
gruppi secedono? Per rispondere a questa domanda la studiosa non utilizza termini come
nazione o tribù, ma parla di comunità differenziate, territorialmente concentrate che vogliono
modificare la propria situazione politica sia attraverso la rivendicazione di una maggiore
autonomia sia rivendicando apertamente l’autonomia in un percorso che può essere più o meno
pacifico. La crisi secessionista si genera in virtù della presenza di altri tre fattori:
1. Il territorio e il controllo politico dello stesso;
2. Leader capace di canalizzare e gestire la mobilitazione;
3. Un malcontento rispetto allo status politico della comunità differenziata all’interno dello
Stato in cui è inclusa.
Appurata la presenza di questi quattro elementi, la decisione di avviare un percorso
secessionista o meno dipenderà da un’attenta valutazione dei costi e benefici tanto della
permanenza nello Stato quanto di un’eventuale separazione. Questo implica che l’indipendenza
non ha un valore assoluto nelle comunità differenziate e che il vero scopo di queste ultime è la
difesa fisica dei suoi membri e del suo patrimonio culturale: indipendenza, autogoverno o
federalismo sono solo dei mezzi per il perseguimento di questo obiettivo. La valutazione dei
costi e benefici porterà verso una maggiore spinta indipendentista, quindi con la creazione di un
nuovo Stato, o una autonomista, ovvero il riconoscimento di una maggiore autogoverno
all’interno dello Stato che comprende la comunità. Il modello di Sorens, invece, afferma che la
sola esistenza di un’identità differenziata non basta a spiegare un movimento secessionista e che
questo si sviluppa solo ne momento in cui la comunità percepisce che politicamente,
economicamente e socialmente starebbe meglio in una giurisdizione politica autonoma. Per cui
lo studioso considera una serie di attori e fattori che intervengono nel processo di valutazione di
una comunità del rapporto costi/benefici per un sostegno all’indipendenza o all’autonomia. Un
ruolo importante lo svolge anche il governo centrale, che può assumere un atteggiamento
reazionario e quindi una risposta violenta, oppure un accomodamento verso le richieste della
comunità che vede legittimate tramite vie legali il riconoscimento costituzionale, in forma
scritta o meno, del diritto alla secessione. Per Sorens, questa via legale ridurrebbe le frizioni e la
conflittualità tra Stato ospitante e comunità differenziata.

7. Il nazionalismo dei ricchi nell’Europa di oggi: Dalle Mulle


Emmanuel Dalle Mulle si concentra su alcune caratteristiche emergenti in alcuni dei
nazionalismi periferici contemporanei in Europa Occidentale, ovvero il nazionalismo dei ricchi
che definisce come mettere fine a una sorta di sfruttamento economico che subisce una nazione
benestante a causa di aree povere o di politiche statali insufficienti. In sostanza le regioni
economicamente più povere trascinerebbero nel ribasso quelle più avanzate. Oltre ai fattori
economici e fiscali sono fondamentali anche elementi culturali e politico-istituzionali, tanto che
la maggiore capacità economica dei membri della nazione è diventato un tratto distintivo
dell’identità nazionale che la distingue da altri gruppi che vivono nello stesso Stato. Questa
fusione tra interessi e identità sarebbe una potente risorsa per la mobilitazione alle
organizzazioni sociali e politiche nazionaliste. Dalle Mulle non traccia un quadro generale
valido per tutti i casi di nazionalismo periferico, ma si concentra solo su alcuni esempi di partiti
politici all’interno di casi selezionati come Italia (Lega Nord), Scozia (Scottish National Party) e
Catalogna (Esquerra Republicana de Catalunya). Focalizzandosi solo su esempi circostanziali lo
studioso considera il nazionalismo come una forma del fare politica e una fonte di
legittimazione politica. L’analisi dei casi selezionati vede l’emergere di una forma di vittimismo
economico che non può essere ricondotto al discorso anticolonialista classico, di denuncia di
un’occupazione straniera che drena risorse alla nazione occupata, ma si strutturano intorno a
forme più complesse di subordinazione e si differenziano tra loro, con la mancanza di un
riconoscimento dello status di nazione nel caso catalano, la mancata corrispondenza tra la forza
economica della comunità territoriale e il suo effettivo peso sulla rappresentanza politica nel
caso della Lega Nord, il senso di abbandono percepito dalla minoranza in conseguenza delle
politiche economiche e sociali implementate da governo centrale per la Scozia. Ecco perché, per
Dalle Mulle, il nazionalismo dei ricchi va interpretato come una strategia retorica che dipinge la
creazione di uno Stato indipendente come soluzione per superare la crisi del modello welfare e
raccogliere la sfida della globalizzazione e dell’integrazione europea. Rispetto ai discorsi
nazionalisti del passato i tre partiti analizzato avrebbero normalizzato l’idea della secessione e
indipendenza, accettando i metodi democratici per il raggiungimento degli obiettivi politici o
l’uso di argomentazioni prevalentemente economiche invece di quelle di carattere identitario.
Motivo per cui il nazionalismo dei ricchi riesce ad attirare consensi da gruppi sociali diversi e si
articola in proposte ideologiche di vario tipo. Il problema del modello di Dalle Mulle è l’essersi
limitato ad analizzare solo i partiti politici, che impedisce di tenere in considerazione dinamiche
importanti nella costruzione e ricostruzione del discorso nazionalista attraverso l’interazione tra
organizzazioni politiche e organizzazioni sociali nei movimenti nazionalisti; un’interazione non
trascurabile nei casi di nazionalismo periferico contemporaneo, in cui la mobilitazione nazionale
si caratterizza anche come movimento di protesta con un impatto non trascurabile sulle
organizzazioni politiche più tradizionali come i partiti politici.

Parte seconda: PROBLEMI


1. La necessità di un chiarimento concettuale
Nel trattare dal punto di vista mediatico e scientifico i fenomeni dell’etnoragionalismo e del
nazionalismo periferico si incappa in problemi di natura terminologica che rischia di confondere
facilmente il significato di un termine con l’altro. Tra i fautori di una maggiore chiarezza
terminologica c’è Walker Connor, che ha proposto la definizione di nazionalismo (o meglio
ancora etnonazionalismo) come il sentimento di lealtà e appartenenza a una nazione (con Stato o
senza) e con patriottismo il senso di lealtà e appartenenza a uno Stato (indipendentemente dalla
propria identità nazionale). Secondo Peter Lynch le difficoltà terminologiche per i fenomeni del
regionalismo e del nazionalismo minoritario si devono a due fattori: le differenze economiche,
sociali, politiche alla base dei nazionalismi minoritari producono effetti differenziati nei diversi
casi in cui si concretizza il fenomeno in questione; l’elemento centrale del nazionalismo
minoritario è la rivendicazione di autodeterminazione, che non implica necessariamente la
creazione di uno Stato-nazione separato perché scelgono di adattarsi anche a soluzioni di
compromesso. Con il termine etnia intendiamo un gruppo umano basato su una credenza
soggettiva in una discendenza comune e una memoria storica condivisa. Il gruppo etnico si
caratterizza per una cultura propria, un territorio a cui è associato (fatta eccezione per i nomadi),
per una denominazione comune, per il senso di solidarietà tra i propri membri e per il
riconoscimento dello stesso come tale dall’esterno. Il carattere relazione è fondamentale nel
gruppo etnico e i caratteri culturali possono variare nel tempo, ma non il legame affettivo
collegato alla credenza nella discendenza comune; possono cambiare anche i significati dei
simboli associati a un gruppo etnico. La presenza di questi elementi esclude che l’etnia
manifesti un carattere politico esclusivamente xenofobo, violento, escludente. Infine, il termine
etnia non si riferisce necessariamente a un gruppo minoritario, in quanto può fare riferimento
anche a quello dominante politicamente e culturalmente a livello statale. L’etnicità o identità
etnica è il senso di appartenenza degli individui nei confronti del proprio gruppo etnico. Nella
sua formazione interagiscono diversi fattori culturali, psicologici e sociali, rendendo possibili
diverse espressioni della stessa. In società complesse e plurali, l’etnicità è solo una delle
possibili forme di appartenenza di un individuo. Una nazione è una collettività composta da una
o più etnie politicamente consapevole e autodefinita. Ciò che la differenzia dall’etnia è la
relazione con il potere politico: la nazione possiede uno Stato politicamente sovrano o aspira ad
averne uno ed esprime una cultura pubblica condivisa sostenuta dalle istituzioni politiche. La
nazione è un fenomeno politico di natura psicosociale in cui è centrale la relazione con il
territorio percepito come proprio dai membri del gruppo nazionale e in cui esercitare
l’autogoverno politico. La nazione può essere considerata come la politicizzazione delle etnie in
seguito all’affermazione dello Stato moderno centralizzato e burocratico, ma non tutte le etnie si
trasformano necessariamente in nazioni. Il nazionalismo è un’ideologia e un movimento politico
che rivendica la legittimità dell’autogoverno di un determinato territorio considerato come
proprio da parte di una nazione esistente. La dottrina centrale del nazionalismo si articola in
pochi punti: concezione del mondo diviso in nazioni, rilevanza dell’identità nazionale nella vita
degli individui, necessità della sovranità politica delle diverse nazioni. Data la scarsa
articolazione della sua struttura, può essere facilmente associata a idee secondarie o generate
dall’insorgere di conflitti di varia natura (economica, politica, culturale), alimentando così
movimenti sociopolitici diversificati dal punto di vista ideale e organizzativo. Per districarci
all’interno della magmaticità ideologica del nazionalismo utilizzeremo il concetto di campo
nazionalista che definisce la nazione non come un’entità fissa o un gruppo unitario, ma come le
diverse posizioni e atteggiamenti in competizione tra loro adottate da movimenti, partiti,
organizzazioni, che provano a dimostrare di essere gli unici legittimati a rappresentare il gruppo.
Bisogna indagare le diverse forme discorsive e ideologiche assunte dalle diverse anime del
movimento nazionalista sia in uno specifico periodo sia in una prospettiva storica considerando
i cambiamenti che si sono verificati negli anni. Non si può affermare che un partito è
nazionalista da punto di vista analitico, bisogna approfondire l’analisi indagando anche quali
sono e come vengono combinati gli elementi ideologici accessori dalle diverse organizzazioni
per richiamare alla mobilitazione nazionalista. Ci sono, poi, anche gruppi impegnati nel
rafforzamento dell’identità culturale del gruppo nazionale parallelamente o meno alle
rivendicazioni di autogoverno politico. Infine, non bisogna dimenticare anche il fattore
psicologico e affettivo: il nazionalismo è il sentimento di appartenenza a una comunità i cui
membri si identificano con un insieme di simboli, credenze e stili di vita e hanno la volontà di
decidere sul loro comune destino politico. In sintesi, bisogna distinguere il nazionalismo come
ideologia e movimento dalla rappresentazione della nazione come viene percepita dai mebri e
dal sentimento nazione, ovvero la forza del legame affettivo che lega gli individui alla propria
etnonazione. Lo studio dell’interazione di queste tre dimensioni favorisce la comprensione del
fenomeno nazionalista. Si possono distinguere due forme di nazionalismo: il nazionalismo
statale o maggioritario nei casi di Stati nazionalmente omogenei o di gruppi etnonazionali
dominanti, volti all’assimilazione degli altri gruppi minoritari o periferici all’interno di Stati
multinazionali; il nazionalismo minoritario, espressione della mobilitazione di gruppi
etnonazionali che si trovano in condizioni periferiche negli Stati multinazionali. In pratica il
concetto di Stato-nazione è astratto, perché sono pochissimi gli Stati nazionalmente omogenei,
per lo più sono tutti multinazionali o multietnici ed è più facile che si sviluppi un conflitto tra il
centro e una o più periferie. Solitamente lo scontro mira alla richiesta di uno Stato proprio da
parte degli esponenti del nazionalismo periferico, ma si cerca anche una situazione di
compromesso che garantisca maggiore autonomia politica nello Stato multinazionale. Possiamo
distinguere diversi tipi di movimenti e organizzazioni:
 Indipendentista: rivendica un nuovo Stato indipendente e sovrano per la comunità
nazionale di riferimento. Per questa categoria si parla anche si secessionismo o
separatismo in accezione negativa;
 Irredentista: riunificare un territorio in cui è presente il gruppo nazionale minoritario a
un altro Stato, esterno, già esistente, a cui ci si sente legati per una stessa identità
etnonazionale. L’eventuale nazionalismo dello Stato esterno che mira a ricongiungersi
con il territorio esterno in cui vivono i suoi connazionali si definisce annessionista.
 Autonomista: rivendicare la creazione di istituzioni autonome o il rafforzamento
dell’autonomia esistente senza rivendicare la creazione di uno Stato nuovo o
l’annessione a un altro Stato esistente.
Rimangono incertezze di significato ancora per alcuni termini come regionalista, che in alcuni
casi diventa sinonimo di autonomista, a volte per descrivere genericamente i movimenti
autonomisti e anche quelli indipendentisti. Un ambivalenza di significato si vede anche per l’uso
del prefisso etno- davanti a nazionalismo e regionalismo. In passato si distingueva tra
nazionalismo civico ed etnico, in cui le rivendicazioni territoriali legate a un elemento etnico
veniva inteso come sinonimo di xenofobia e potenziale razzismo. Oggi questa contrapposizione
è stata superata e si tende a usare i concetti di etnonazionalismo ed etnoregionalismo per riferirsi
a rivendicazioni autonomiste, irredentiste o indipendentiste senza implicare un giudizio di
valore. Tuttavia, in questo caso l’uso del prefisso etno- sarebbe ridondante, perché non avrebbe
senso specificare un tipo di nazionalismo espressione di etnicità in quanto non ce ne sono altri,
perché tutti i nazionalismo sono considerati varianti dell’etnicità- l’introduzione del termine
etnoterritorialità può aiutare a chiarire queste terminologie: la dimensione concettuale in cui si
sviluppano conflitti identitari e mobilitazioni politiche e in cui i principali attori sociali sono
gruppi etnici con un ancoraggio geografico delimitato. Un movimento etnoterritoriale,
espressione della mobilitazione di un’etnonazione periferica all’interno di uno Stato
multinazionale, può caratterizzarsi sia come movimento pienamente indipendentista che come
movimento autonomista/regionale. Tale distinzione dipende dalle diverse congiunture
sociopolitiche.

2. È corretto distinguere tra il nazionalismo civico e il nazionalismo etnico?


La distinzione tra nazionalismo civico e nazionalismo etnico rappresenta un elemento costante
in molte analisi contemporanee del fenomeno nazionalista. Per nazionalismo civico si intende
l’appartenenza al gruppo nazionale su base volontaria, in quanto dipende dalla volontà di
appartenere dimostrare lealtà e attaccamento alle istituzioni politiche, civili e territoriali
specifiche della nazione; il nazionalismo etnico è chiuso, in quanto al centro dell’identità
nazionale ci sono carrettieri biologico-razziali, etnici, religiosi, linguistici e culturali che solo
chi possiede può far parte della nazione etnica. Hosbawn utilizza la distinzione tra questi due
nazionalismi nella sua classificazione dei diversi movimenti nazionalisti. La sua teoria si basa
sul legame tra la nascita e lo sviluppo del nazionalismo in relazione allo sviluppo del
capitalismo in epoca moderna e le diverse fasi del suo sviluppo portano all’affermazione di
diversi tipi di nazionalismo: nella fase delle rivoluzioni industriali in Europa nel XIX secolo i
movimenti nazionalisti sono espressione delle istanze di emancipazione politica e sociale delle
diverse borghesie, per cui si caratterizzano come civici e democratici; dal 1890, con l’avvento
della fase espansionista e imperialista del capitalismo, si è sviluppato il nazionalismo etnico
xenofobo ed escludente che ha dominato fino alla fine del secondo conflitto mondiale; nel
secondo dopoguerra Hobsbawn individua una nuova forma di nazionalismo civico nei
movimenti di liberazione nazionale e anticolonialisti afroasiatici degli anni Sessanta e Settanta,
movimenti guidati da élites che si erano formate in Europa sui modelli di nazionalismo civico
europeo di metà Ottocento, applicato poi alle proprie lotte di liberazione nazionale; infine, la
nuova ondata di revival etnico che ha interessato l’Europa dei primi anni Ottanta è una reazione
alla fine del capitalismo a base statale e l’emergere di un potere politico ed economico
transnazionali. Brubaker utilizza la distinzione civico/etnico per spiegare le diverse politiche
sull’immigrazione in Francia e in Germania: nel primo caso è stato adottato il principio dello
ius soli, tanto che l’identità civica nazionale è frutto di un nazionalismo incentrato sulla
volontarietà di legarsi alle istituzioni politico-territoriale, con il conseguente sviluppo di una
cittadinanza libera da ogni elemento etnico, culturale o razziale; in Germania si è applicato il
principio dello ius sanguinis come criterio per l’assegnazione della cittadinanza, facendo
prevalere una visione organicista della nazione, frutto di un nazionalismo etnico incentrato sulla
specificità etnoculturale del popolo tedesco. Tuttavia, non mancano anche in Francia nella
formazione dell’identità nazionale francese elementi riconducibili al nazionalismo etnico, come
le politiche di francesizzazione per contrastare la persistenza di altre lingue o identità periferiche
dal governo della Terza Repubblica. Non necessariamente il nazionalismo civico è inclusivo e
quello etnico è escludente. Come sottolinea Smith, nel percorso di formazione delle nazioni
moderne queste ultime sono influenzate tanto da principi territoriali quanto etnici e
rappresentano un difficile modello di confluenza di un modello civico di organizzazione socio-
culturale e uno più antico genealogico (etnico). Il peso di queste due componenti dipende dallo
sviluppo successivo dello Stato e può variare nel corso del tempo. Siccome la distinzione tra
questi due tipi di nazionalismo non aiuta a comprendere la realtà sociologica del nazionalismo,
possiamo affermare che le dimensioni etnoculturali e civiche sono elementi presenti in ogni
identità nazionale e in ogni movimento nazionalista, anche se in configurazioni diverse.

3. Etnoregionalismi e processo di integrazione europea


Il processo di integrazione europea rappresenta una dimensione importante per capire
l’evoluzione e le trasformazioni dei movimenti e dei partiti regionalisti e indipendentisti
europei. I vari step che hanno portato alla formazione dell’Unione Europa hanno riconfigurato il
rapporto tra territorio e potere politico nel Vecchio Continente. In relazione al processo di
integrazione gli Stati hanno ceduto da un lato competenze e sovranità verso le istituzioni comuni
europee, dall’altro hanno sperimentato anche un trasferimento di competenze e poteri
decisionali verso il basso, cioè verso le entità regionali al loro interno. Gli studi degli ultimi
decenni hanno sottolineato come si sia diffuso sempre più un sentimento euroscettico o
eurocritico in gran parte degli etnoregionalisti europei. Questo cambiamento può essere spiegato
considerando le diverse fasi di sviluppo e creazione dell’Unione Europea. Nella prima fase (tra
glia anni Cinquanta e quelli Sessanta) si caratterizza per la centralità dell’integrazione
economica e la costruzione di un mercato comune. Questa svolta aiuterebbe le regioni e realtà
substatali forti economicamente fornendo un mercato sovrastatale che permetteva di sfruttare
opportunità economiche a di là dei vincoli territoriali posti dai rispettivi Stati. Le posizioni
politiche favorevoli sono ovviamente di centro e centro-destra, ma anche alcune forse
secessioniste che colgono le opportunità economiche di ridurre i costi in previsione di
un’eventuale indipendenza politica, mentre le forze autonomiste e indipendentiste di sinistra
radicale vedono in un mercato comune un progetto imperialista e funzionale agli interessi del
capitalismo mondiale. La seconda fase (dagli anni Ottanta a quelli Novanta) ha visto
l’affermarsi del modello dell’Europa sociale e delle politiche regionali da parte delle istituzioni
europee. Si pone attenzione non solo sull’integrazione economica, ma soprattutto sul ridurre le
disuguaglianze sociali anche a livello territoriale. Anche le formazioni di sinistra sono state
attratte da questo progetto, che hanno appoggiato politiche di integrazione di fronte
all’attivazione di risorse per lo sviluppo delle politiche regionali; inoltre, lo sviluppo delle
politiche regionali comunitarie ha incoraggiato i processi di decentralizzazione e
regionalizzazione da parte degli Stati membri, rafforzando il legame tra regionalizzazione e
processo di integrazione europea. Questo periodo ha permesso ai rappresentanti politici e delle
istituzioni della regioni/nazioni senza Stato di aumentare la propria voce nell’arena politica
rafforzando l’idea di un’architettura istituzionale del processo di europeizzazione come
espressione di un modello di governo multilivello e di sovranità condivisa tra diversi livelli
decisionali e deliberativi. Il culmine di questa fase è stato il Trattato di Maastricht del 1992, che
ha istituito un Comitato delle Regioni in cui le regioni e altre istituzioni substatali hanno visto
un certo riconoscimento del loro ruolo all’interno dei processi deliberativi comunitari. In questo
periodo anche le formazioni autonomiste e indipendentiste più radicali si sono mostrate
favorevoli al processo di integrazione europea, aprendosi a una maggiore partecipazione
dell’arena politica comunitaria. La terza fase (gli anni Duemila) è caratterizzata dal tentativo di
costituzionalizzazione dell’Unione Europea, da un importante allargamento dei membri e dal
ridimensionamento del modello di Europa sociale: meno soldi per la spesa sociale, più politiche
di sviluppo e redistribuzione a scala continentale. Nel Trattato di Lisbona del 2005 sono gli Stati
membri a essere riconosciuti come elementi centrali nell’architettura politica e decisionale
dell’UE, indicata come garante dell’unità territoriale dei suoi membri. Inoltre, il Trattato
ridistribuisce alcune delle competenze riservate alle regioni alle istituzioni europee. Questo
ridimensionamento del ruolo delle regioni senza Stato ha mutato profondamente la visione
dell’Unione Europea, assumendo atteggiamenti contrari, tanto da chi era favorevole, tanto da
chi continuava a mantenere un certo scetticismo verso l’aiuto che l’UE poteva dare alla
realizzazione di un autogoverno. Elias distingue quattro tipi di atteggiamenti versi l’Unione
Europea in questa fase: gli euroentusiasi, che combinano il sostegno al principio
dell’integrazione europea come ambito di sviluppo dell’autogoverno con una valutazione
sostanzialmente positiva delle opportunità sociali, politiche e culturali favorevoli per gli
interessi delle regioni e delle nazioni minoritarie all’interno dell’UE così come oggi esiste; gli
eurorejects rifiutano l’idea che l’integrazione europea permetta poi nel lungo periodo di arrivare
a forme di autogoverno richieste da regioni e nazioni senza Stato, criticando duramente
l’effettiva realtà politica e istituzionale incarnata dall’UE; gli euroscettici vedono nel processo
di integrazione un alleato per ottenere le rivendicazioni di autogoverno, ma non nel modo in cui
l’UE si è andata sviluppando; gli europragmatici sostengono il processo di integrazione
basandosi solo sui vantaggi che ne derivano, ma rifiutano i principi sottostanti all’idea di
integrazione non riconoscendone il potenziale per soddisfare nel lungo periodo le proprie
esigenze di autogoverno. Maragarita Gòmez-Reino Cachafeiro distingue gli euroscettici dagli
eurocritici, considerando questi ultimi più come un modo per distinguersi dalle posizioni dei
partiti euroscettici. Bisogna mantenere una certa attenzione alla multidimensionalità e
complessità nell’analisi degli atteggiamenti etnoregioanalisti e indipendentisti verso
l’integrazione europea, soprattutto in una fase particolarmente convulsa e delicata per il futuro
del processo di integrazione stesso, che vede proprio nelle rivendicazioni etnoregionaliste uno
dei temi principali. Un esempio è il caso Brexit, vale a dire il processo di negoziato dell’uscita
del Regno Unito dall’Unione Europea. L’esito del voto e la gestione del negoziato tra Londra e
Bruxelles ha riattivato e riacuito alcune rivendicazioni legate alla frattura centro-periferie nello
Stato britannico. In Scozia i voti erano favorevoli a restare nell’UE e ciò ha riattivato le
rivendicazioni indipendentiste, frenate dall’esito negativo del referendum per l’indipendenza.
Dopo il referendum per la brexit lo Scottish National Party ha posto la questione di un
negoziato parallelo per garantire la permanenza della Scozia nell’Unione. Lo stallo nella
trattativa tra le parti rischia un hard brexit, ovvero un’uscita competa e immediata del regno
Unito che ha portato la leader dell’SNP a esprimere la volontà di convocare un nuovo
referendum sull’indipendenza entro la fine del 2021 come opzione per garantire una presenza
scozzese nell’UE. Nell’Irlanda del Nord, invece, la dimensione europea è uno dei fili che
tengono in piedi l’accordo del Venerdì Santo del 1998, che ha messo fine a un conflitto
trentennale. L’uscita dall’UE rischia di far saltare una serie di programmi sociali europei,
l’applicazione e il riconoscimento da parte del governo britannico della Convenzione europea
sui diritti umani e l’apertura e smilitarizzazione del confine con la Repubblica d’Irlanda e le 6
contee del Nord ancora sotto amministrazione britannica. Per cui si è sviluppato un largo
consenso alla permanenza nell’Unione anche da parte delle forze più radicali, che hanno visto
gli accordi sottoscritti nel 1998 messi a rischio dalla brexit. Lo stallo nella trattativa tra Londra e
Bruxelles e il rischio di una hard brexit ha portato alla ripresa di alcune forme di violenza
politica da parte di alcuni gruppi dissidenti ch non avevano accettato gli accordi di pace del
1998, sebbene rimangano ancora una minoranza. Un’altra crisi si è verificata tra la Spagna e la
Catalogna. Dal 2012 i rapporti tra il governo di Madrid e l’indipendentismo catalano si sono
incrinati sempre più e sono un esempi di evoluzione degli etnoregionalismi verso il processo di
integrazione europea. Inizialmente il nazionalismo catalano era europeista, anche in seguito alla
radicalizzazione indipendentista della maggior parte delle forze politiche e delle organizzazioni
sociali del catalanismo politico, che si sono focalizzate sull’idea di “indipendenza in Europa” su
modello scozzese. In seguito al sostanziale appoggio delle istituzioni europee alla politica della
mano dura seguita dal governo spagnolo in occasione del referendum di autodeterminazione
convocato dalla Generalitata catalana il 1 ottobre 2017, in cui le forze dell’ordine inviate da
Madrid hanno usato la forza per impedire lo svolgimento di una votazione considerata illegale
con successivo processo e incarceramento dei leader sociali e politici indipendentisti, le
posizioni europeiste hanno ceduto sempre più il passo a posizioni eurocritiche presso l’opinione
pubblica che si definisce indipendentista. Negli ultimi decenni una serie di studi hanno
evidenziato l’aumento di posizioni eurocritiche ed euroscettiche tra i movimenti e i partiti
etnoregionalisti, collocando questo cambiamento in un quadro di trasformazione o crisi della
democrazia in Europa.

4. Gli etnoregionalismi europei e le reazioni alla crisi sociale e politica: tra


populismo e radicalizzazione della democrazia
Gli attuali movimenti e partiti politici regionalisti, autonomista e indipendentisti attivi in Europa
sono il frutto di conflitti ancora presenti tra centro e periferia come risultato di processi di
nazionalizzazione incompleti in Stati che erroneamente definiamo nazionali, ma che sono,
invece, plurinazionali. Tuttavia, la complessità del fenomeno può subire variazioni in base al
contesto e all’emergere di altri conflitti in diversi momenti storici. Per cui, per comprendere i
movimenti autonomisti e indipendentisti nell’Europa di oggi bisogna studiare i processi
attraverso cui si sono formate queste identità e come sono cambiate nel corso del tempo,
insieme alla presenza di elementi sociali e politici che entrano in gioco in maniera rilevante. Il
Centre d’Estudis d’Opiniò (CEO), uno dei principali centri di ricerca demoscopica pubblici
catalani, ha formulato le stesse domande, periodicamente, a diversi campioni rappresentativi
della società catalana nel corso degli anni, studiando l’evoluzione nel periodo dal 2010 al 2019
dell’accordo del campione alla creazione di uno Stato catalano indipendente e le percentuali
relative all’autoidentificazione nazionale esclusivamente catalana da parte degli intervistati. Dai
risultati è emerso che non tutti quelli che sono favorevoli all’indipendenza della Catalogna si
definiscono esclusivamente catalani per quanto riguarda l’identificazione nazionale. Anche nei
momenti di maggiore scontro con il governo spagnolo, un terzo dell’opinione pubblica
indipendentista si riconosceva in un’identità nazionale spagnola. Questi risultati mostrano come
l’etnoregionalismo e l’indipendentismo siano fenomeni esclusivamente legati a un sentimento di
identità nazionale o territoriale differenziato, ma bisogna approfondire aspetti sociopolitici che li
influenzano. Nell’approfondire questi risultati, alcuni studi hanno approfondito il piano
sociologico dei “nuovi indipendentisti”, che hanno alimentato la diffusione
dell’indipendentismo dal 2010. L’opzione indipendentista ha attratto nell’ultimo decennio
settori sociali tradizionalmente non legati al catalanismo politico: per lo più sono settori della
classe media e media-bassa, spesso di origine non catalana o non catalana parlante, che ha
sofferto di più le conseguenze della crisi economica del 2008, che hanno partecipato alle
proteste del movimento Indignados e che nella mobilitazione per la creazione di una repubblica
catalana indipendente hanno visto la possibilità di difendere il benessere, la maggiore
partecipazione democratica e di lotta all’esclusione sociale. Per cui nel caso catalano si
sommano fattori storici, un’identità nazionale fatta di una lingua e valori culturali tipici e
specifici della nazionalità catalana e un nazionalismo non influenzato solo dalla dimensione
storica o culturale, ma che si mobilita e ottiene consensi sulla base della percezione di un
possibile benessere economico declinato in modo diverso, legato al recupero o rafforzamento
della sovranità nazionale che nel caso catalano si è concretizzato nel progetto di uno Stato
indipendente in forma di repubblica. Casi simili si ritrovano anche in altri movimenti
indipendentisti e autonomisti europei, come il caso della Scozia, dove l’opzione indipendentista
raccoglie consensi sull’idea di mantenere un sistema sociale più redistributivo o sulla gestione
delle risorse provenienti dall’estrazione del petrolio nel Mare del Nord. Non a caso il
referendum del 2014 ha visto la vittoria di quella parte di elettori delle classi medio-alta e alta e
dalla parte più anziana della popolazione, preoccupata dalla gestione del sistema pensionistico e
del sistema sanitario, mentre quelli favorevoli erano per lo più esponenti della working class
colpiti dalla precarizzazione del lavoro. In altri casi il welfare nationalism trova risposte
all’incertezza prodotta dalla frammentazione e precarizzazione lavorativa ed esistenziale in una
forma di chiusura neocomunitarista, in cui la comunità nazionale definita tramite caratteri
biologici (nascita e legame di sangue) viene mobilitata per difendere le risorse contro il presunto
intervento depredatore dall’esterno (migranti, Stato centrale, ecc.; è il caso della Lega Nord).
Bisogna anche considerare l’impatto avuto sui movimenti e partiti etnoregionalisti e
indipendentisti dell’ultimo decennio di crisi economica e sociale, che ha visto emergere nuove e
vecchie forme di populismo, leadership carismatiche e personalistiche, la crisi delle forme di
partito tradizionali, l’affermazione dei partiti-movimento, le esperienze di centrodemocrazia. Un
modello multidisciplinare e interdisciplinare per l’analisi delle forme sociopolitiche
contemporanee di etnoregionalismo deve comprendere:
1. Il repertorio etnoculturale, ovvero il contenuto culturale considerato proprio e autentico
da parte dei membri della comunità nazionale, ciò che viene utilizzato per rafforzare la
differenza verso l’esterno. Gli elementi che lo costituiscono devono essere socialmente
rilevanti e vivi nella comunità nazionale e ogni selezione riduce il repertorio di elementi
da poter selezionare in seguito;
2. Il quadro politico-istituzionale, ovvero le variabili che caratterizzano il sistema politico
in cui agisce il movimento etnonazionalista. In ciò ci aiuta il concetto di struttura delle
opportunità politiche (SOP), con il quale si intendono le diverse variabili che limitano
e/o agevolano la mobilitazione politica. Nel caso dei movimenti etnoregionalisti bisogna
distinguere tra una SOP formale (evoluzione storica della costruzione dello Stato-
nazione, decentralizzazione politica e, nel caso europeo, formazione di spazi istituzionali
riconosciuti a livello sovrastatale) e informale, come politiche governative che
favoriscono il nazionalismo, riallineamento elettorale, conflitti intraélites, disponibilità
di nuove alleanze, ecc. I movimento etnonazionalisti non devono adattare la loro azione
solo ai determinati contesti politico-istituzionali, ma contribuiscono anche alla
formazione di una SOP percepita che, attraverso la mobilitazione politica, può
influenzare quella reale;
3. La mobilitazione ideazionale, che adotta una serie di strategie per attirare ampi settori
sociali, consolida organizzativamente il movimento nazionalista, fornisce quadri
interpretativi della realtà sociale che, mediante un processo di allineamento sostenuto da
strategie appropriate, siano in fine assunti dalla maggior parte della popolazione come
modello di riferimento. Il concetto di frame ben si adatta a quello di nazionalismo per la
sua propensione ad associarsi ad altre idee e rivendicazioni sorte nel sistema politico e
sociale.

5. Etnoregionalismi e fenomeni migratori


I processi migratori sono uno dei temi più caldi nell’agenda politica di molti Stati e il fenomeno
riguarda da vicino anche gli etnoregionalismi periferici perché rimette al centro della
discussione il tema della cittadinanza, che stabilisce la differenza tra chi è membro della
comunità politica e chi non lo è. Nei confronti dell’immigrazione e dell’integrazione delle
comunità migranti i vari etnoregionalismi hanno assunto posizioni molto diverse: Kymlicka, fin
dai primi anni Duemila, ha criticato la teoria della minaccia, secondo cui gli etnoregionalismi e
nazionalismi periferici assumerebbero un atteggiamento di chiusura generalizzata. Come ha
osservato, invece, il verificarsi di determinate condizioni (gestione del flusso da parte delle
istituzioni regionali, definire i termini dell’integrazione) portano a un atteggiamento di apertura
e inclusività. Parlando di singoli casi, si può citare il nazionalismo basco, che alle sue origini nel
XIX secolo si presentava come fortemente razzista, mentre le diverse trasformazioni
ideologiche del XX secolo hanno prodotto un atteggiamento di sostanziale apertura, basato su
una concezione volontarista di appartenenza alla comunità nazionale condiviso sia dalla
componente più radicale che quella moderata. Abbiamo, poi, il caso della Catalogna: anche qui
si è sviluppato un modello di nazionalismo interculturale condiviso dalla quasi totalità delle
forze politiche e sociali indipendenti, basato sull’apertura nei confronti della sfida interculturale
delle migrazioni internazionali. Le varie componenti del catalanismo condividono una
concezione includente e interculturale di catalanità, concepita a partire dagli anni Sessanta e
Settanta del Novecento nel contesto delle migrazioni interne alla Spagna. Il caso belga, invece,
presenta una risposta opposta: la politicizzazione dell’identità regionale o nazionale periferica
da parte di alcune organizzazioni politiche etnoregionaliste si combina con un discorso di
chiusura e rifiuto dei migranti, considerati come una minaccia per il benessere e l’identità della
comunità nazionale ospitante.

6. Etnoregionalismi e violenza politica


Per completare il quadro degli etnoregionalismi periferici è il caso di considerare anche l’uso di
strategie violente da parte di alcune delle organizzazioni che rivendicavano maggiori autonomie
o l’indipendenza. I casi più noti sono quelli dell’IRA e dell’ETA: la prima è un organizzazione
armata irlandese nata nei primi anni del XX secolo che tornò in auge, con importanti
cambiamenti organizzativi e ideologici, nel periodo dei Trobles in Irlanda del Nord in difesa
delle 6 contee cattoliche dell’Ulster; il secondo nacque negli anni Cinquanta in Spagna durante
la dittatura di Franco, portando avanti per oltre mezzo secolo una campagna armata che ha
subito numerose riconfigurazioni strategiche e ideologiche per la formazione di uno Stato basco
indipendente. Siccome non si sviluppa in tutti i casi dei movimenti etnoregionalisti e
indipendentisti una forma strategica violenta, è necessario analizzare tali fenomeni senza bollarli
come terrorismo, ma secondo le analisi, gli approcci e le teorie della volenza politica. I gruppi
armati sono organizzazioni soggette alle stesse dinamiche di altre organizzazioni dei movimenti
sociali e la violenza è intesa come uno dei repertori d’azione collettiva che individui e gruppi
possono adottare per ottenere risultati politici. Sono diversi i fattori che contribuiscono
all’emergere dei fenomeni di violenza politica. Il primo riguarda la chiusura o apertura dello
Stato centrale rispetto alle rivendicazioni di maggiore autogoverno delle periferie: nel caso di
una chiusura allora la violenza diventa una risorsa efficace per costringere lo Stato centrale a
negoziare una soluzione accettata anche dalla comunità periferica. Nel caso dell’IRA il fattore
scatenante è stata la repressione dell’esercito britannico contro la minoranza cattolica nelle
contee dell’Ulster; nel caso dell’ETA, invece, la regione basca era stata soggetta a un processo
di industrializzazione che aveva acuito le rivendicazioni degli operai, soppresse dal franchismo
tanto quanto quelle indipendentisti, per cui la lotta armata è diventata una strategia accettata da
un gran numero di individui della comunità. Altro fattore che può portare all’emergere della
violenza politica è la forza o debolezza degli elementi culturali differenzianti la comunità
etnoterritoriale. Considerando il caso catalano e quello basco possiamo vedere come il catalano
era una lingua ampiamente diffusa nella regione nonostante il divieto a utilizzarlo in pubblico,
mentre l’euskera veniva parlato da una minoranza della popolazione acquisendo un valore
prettamente simbolico. Il nazionalismo basco era troppo debole, per cui si è affermato un
nazionalismo militare, affermatosi anche grazie alla repressione indiscriminata del regime
franchista, mentre in Catalogna si affermavano forme di protesta di massa e non violente
tenendo ai margini i rami più radicali. Un terzo fattore da tenere in considerazione è l
dimensione ideologica: molti dei gruppi armati etnoregionalisti in Europa si sono formati tra
glia nni Cinquanta e Settamta del Novecento, in un contesto di liberazione nazionale
anticoloniale in Africa, Asia e America Latina; l’influenza di queste lotte (in particolare della
rivoluzione di Castro) ha fornito un modello organizzativo e ideologico per diverse
organizzazioni armate etnoregionaliste europee, che hanno adattato i modelli di guerriglia ai
rispettivi contesti integrando anche molti elementi ideologici e organizzativi di matrice
marxista-leninista, secondo cui l’uso della violenza era da considerare legittimo e necessario.
Oggi, i gruppi armati formatisi nel XX secolo hanno abbandonato la lotta armata: l’IRA si è
sciolta definitivamente nel 2008 dopo aver cessato la lotta armata in seguito agli accordi del
Venerdì Santo del 1998, sebbene lo stallo nelle negoziato brexit ha fatto riemergere una certa
violenza per le strade nordirlandesi, con la politica che ha optato per la marginalizzazione dei
gruppi più radicali; l’ETA ha annunciato pubblicamente la sua dissoluzione nel 2018:
l’indipendentismo basco ha scelto di portare avanti i propri obiettivi solo tramite la via politica e
democratica, una scelta unilaterale che non ha permesso una contrattazione per porre fine anche
ai problemi post-conflitto, ma che vede la leadership indipendentista lasciare ai margini le
frange più radicali. Analizzando il caso scozzese e catalano notiamo una radicalizzazione che ha
portato dalla richiesta di maggiore autonomia a quella dell’indipendenza che non ha portato ad
adottare strategie di violenza politica, anzi in Scozia il referendum del 2014 è stato concordato
con il governo britannico, mentre lo stallo della brexit e le conseguenze sulla Scozia hanno
portato di nuovo al centro dell’agenda politica l’indipendenza del Paese; in Catalogna,
nonostante la repressione del governo di Madrid in occasione del referendum non riconosciuto
del 1 ottobre 2017, non si è sviluppata una strategia armata scegliendo la strada della
disobbedienza civile non violenta. Lo scemare della violenza politica è conseguenza di alcuni
fattori. Il primo è, in alcuni casi, il cambiamento dell’atteggiamento del governo centrale; nel
momento in cui questo cambiamento non è avvenuto sono intervenuti altri fattori a facilitare il
superamento o a ostacolare la formazione delle opzioni violente dentro i gruppi etnoregionalisti
radicali. Uni di questi fattori è il mutato scenario internazionale in seguito agli eventi dell’11
settembre 2001 e i successivi attentati realizzati da diverse organizzazioni islamiche radicali in
diversi Paesi occidentali. La nuova ondata di terrorismo ha creato una rete di collaborazione tra
le intelligence internazionali che ha reso più complesso mantenere campagne armate efficaci da
parte delle organizzazioni indipendentiste; d’altra parte il nuovo terrorismo islamico ha ridotto
la comprensione e legittimazione, anche implicita, della violenza per scopi politici presso settori
sempre più ampi dell’opinione pubblica internazionale, riducendo la possibilità di creare una
rete di solidarietà e sostegno internazionale ai movimenti indipendentisti associati all’uso della
violenza. Un terzo fattore è il cambiamento dei quadri ideologici di riferimento a livello globale:
molte lotte armate seguivano ideali che legittimavano la violenza politica e trovavano punti di
riferimento in altre esperienze simili, ma al caduta del Muro di Berlino e la fine del bipolarismo
della Guerra Fredda ha messo fine a tutto ciò, portando alla nascita di nuovi movimenti sociali
che, sia a livello locale che a livello transnazionale, si basano su una concezione organizzativa
aperta, partecipativa e orizzontale e su un sostanziale rifiuto della violenza che contrastano con i
modelli gerarchici e militaristici su cui si basavano le organizzazioni armate etnoregionaliste.

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