Sei sulla pagina 1di 47

Apprendere e insegnare la comunicazione

interculturale

  Apprendere e insegnare la comunicazione interculturale  

“L’acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale passa attraverso tre


fasi: consapevolezza, conoscenza e abilità. Tutto comincia con la
consapevolezza: il riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software
mentale che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in
altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso software
mentale. ...
Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo interagire con altre culture,
dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro simboli, i loro
eroi, i loro riti ... .
L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza
e dall’esperienza personale”

(Hofstede 1991: 230-231).

    Crediamo che questa citazione, tratta da uno dei padri della ricerca sulla
comunicazione interculturale, sia illuminante sul piano didattico. Riprendiamo le
tre nozioni evidenziate da Hofstede: consapevolezza, esperienza ed abilità.
    Il presente volume ha come scopo quello di portare alla consapevolezza della
varietà del mondo e di come questa influisca sull’interazione tra persone che
appartengono a culture differenti. Nel complesso del volume, questo ultimo
capitolo, specificamente didattico, illustrerà come ogni persona, in maniera
autonoma o in contesti di formazione, possa trarre vantaggio dalla propria
esperienza di comunicazione interculturale, come possa continuare ad imparare
dalla propria interazione con membri di altre culture, costruendo giorno dopo
giorno la propria abilità, che nel nostro linguaggio specifico abbiamo sempre
definito “competenza comunicativa interculturale”.
    Riprendiamo ora la “filosofia” interculturale che abbiamo esposto nel
paragrafo 0.3 per costruire su quelle basi una proposta didattica coerente con
tutta l’impostazione del volume. Se è vero che entrare in una prospettiva
interculturale non significa abbandonare i propri valori ma (a) conoscere gli altri,
(b) tollerare le differenze almeno fino a quando non entrano nella sfera
dell’immoralità che, secondo i nostri standard, non intendiamo accettare, (c)
rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano
solo alle diverse culture, (d) accettare il fatto che alcuni modelli culturali degli
altri possono essere migliori dei nostri e, in questo caso, (e) mettere in
discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti; e se è vero che
l’interculturalità come l’abbiamo definita noi è un atteggiamento di fondo, che
prende atto della ricchezza insita nella varietà, che non si propone
l’omogenizzazione ma mira soltanto di permettere un’interazione il più piena e
fluida possibile tra le diverse culture, ne consegue che formare alla
comunicazione (e, più in generale, ad un atteggiamento) interculturale significa
formare:

a) persone che consapevolmente scelgono quali modelli comunicativi e culturali


accettare, tollerare, rifiutare nelle varie situazioni in cui si trovano ad operare
 
b) operatori che sanno evitare i conflitti involontari dovuti alle differenze
culturali
 
c) protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche sostituiscono la curiosità, il
rispetto, l’interesse per soluzioni diverse da quelle proprie.

    Con queste finalità un corso di formazione alla comunicazione interculturale


non è più un semplice “addestramento”, un training finalizzato ad un bisogno
immediato, ma si colloca nella sfera dell’educazione, che cambia la natura delle
persone e, indirettamente, quella della società in cui viviamo.
    Proporremo anzitutto, nei paragrafi 7.1 e 7.2, due strumenti che chiunque (un
formatore di personale oppure una persona che vuole migliorare la propria
competenza comunicativa interculturale) può portare con sé vita natural durante e
continuare a compilare, raccogliendovi il frutto delle sue osservazioni.
    In 7.3 daremo infine alcune indicazioni sulla metodologia della formazione in
questo settore.

7.1 Uno strumento per l’osservazione culturale


    Una “cultura” è l’insieme dei “modelli culturali” messi in atto da un popolo
per rispondere a bisogni di “natura”: nutrirsi, procreare, proteggersi dal freddo,
vivere in gruppo, ecc.
    Poiché siamo cresciuti all’interno dei modelli della nostra cultura, ne siamo
generalmente inconsapevoli: ci sembra ad esempio “naturale”, mentre è
“culturale”, che ci sia un capofamiglia e non una capofamiglia, che non si debba
picchiare chi ha idee diverse dalle nostre (ma sono passati pochi decenni dal
fascismo, dagli anni di piombo... e negli stadi di calcio ci si picchia oggi per tifo,
neppure per idee), che la gerarchia sia fatta in un certo modo, che nelle scuole e
nelle università un docente faccia domande di cui sa già la risposta, e così via.
    E’ quindi necessario saper osservare la propria cultura mentre si osserva quella
altrui. Gli antropologi hanno individuato parametri e metodiche di osservazione
sofisticatissimi; ma per i nostri fini è meglio ricorrere ad una nozione
sociolinguistica più semplice ma più maneggevole, cioè quella di “ambito”
situazionale. Per ogni ambito vengono indicati alcuni modelli culturali che si
possono osservare per comprendere come davvero funziona la nostra cultura, per
osservarci dall’esterno, così come ci vedono membri di altre culture con i quali
vogliamo comunicare.
    Il modello che proponiamo qui di seguito è basato su Balboni 1996a, a cui si
rimanda per approfondimenti. Si può usare questa tassonomia creando un file di
banca dati in computer oppure in un normale quaderno a fogli mobili con una
voce per ogni pagina: in questa griglia si può possono poi registrare

a.  le riflessioni sui modelli culturali del nostro paese


b.  le osservazioni che si fanno mano a mano le vicende professionali o i
momenti di vacanza ci portano in contatto con altre culture.

    Il fatto di avere delle voci da osservare porta a “vedere” degli atteggiamenti,
dei gesti, dei valori della nostra cultura che prima passavano inosservati, quasi
fossero naturali e non culturali, e che nella stessa scheda queste osservazioni si
mescolino con quelle relative ad altre culture, mettendo le basi per un
comparazione interculturale.
    Che sia realizzata su computer o su carta, questa tassonomia rappresenta uno
strumento semplice ma efficace per uscire dagli stereotipi e creare, se possibile,
dei sociotipi.
    I domini che abbiamo selezionato, e che abbiamo articolato in una serie di voci
che ciascuno può modificare o integrare a seconda dei propri interessi,  sono i
seguenti:
 

DOMINIO 1: LE RELAZIONI SOCIALI


a) Rapporto con uno straniero
b) Rapporto giovani / adulti
c) Rapporto con i superiori
d) Corteggiamento, relazione amorosa
e) Relazioni omosessuali
f) Uso di offrire sigarette, bevande, ecc.
g) Modo di riparare ad errori, scusarsi
eccetera
DOMINIO 2: L'ORGANIZZAZIONE SOCIALE
a) Sistema istituzionale ed elettorale
b) Sistema giudiziario
c) Sistema bancario e finanziario
d) L'industria
e) L'agricoltura
f) Il terziario
g) Le tele-comunicazioni
h) I trasporti
i) I mass media
j) La criminalità
k) La/e religione/i
eccetera
DOMINIO 3: LA CASA E LA FAMIGLIA
a) Dimensione della famiglia
b) Ruoli nella famiglia
c) Rapporto genitori-figli
d) Autonomia dei figli da ragazzini, età dell’uscita da casa
e) Tipologia della casa
f) Tradizione e innovazione nelle case
g) Proprietà e affitto di abitazioni
h) Pulizia della casa
i) La casa di città
j) La casa di paese
k) La casa in campagna
l) Interesse della famiglia per la casa: pulizia, restauro, ecc.
eccetera
DOMINIO 4: LA CITTA'
a) Rapporto città-cittadina-paese-campagna
b) Rapporto centro-periferia
c) Traffico privato e traffico pubblico
d) Strutture produttive e città
e) Divertimento, sport e città
f) Città e cultura
g) Il governo della città
h) La città e gli abitanti: come questi si sentono “cittadini”, padroni della città
i) Città e sostegno alle famiglie: asili, ricoveri, ecc.
j) Città e scuole
k) I problemi della droga
eccetera
DOMINIO 5: LA SCUOLA
a) Scuola privata e pubblica
b) Livelli scolastici
c) Prestigio sociale della scuola, degli insegnanti
d) Rapporto scuola-mondo del lavoro
e) Tradizione e innovazione nella scuola
f) Ruolo delle famiglie nella scuola
g) Le lingue straniere
h) Scuola come formazione personale e/o professionale
eccetera
DOMINIO 6: I MASS MEDIA
a) MM pubblici e privati
b) Autonomia dei MM,  MM e politica
c) I giornali quotidiani
d) I settimanali politici e culturali
e) I settimanali per pubblici speciali (donne, sport, ecc.)
f) La pornografia
g) Televisione: informazione e intrattenimento
h) La radio
i) Il cinema d'autore e quello popolare
j) Presenza di mass media stranieri
k) Letteratura d'autore e d'evasione
eccetera.
 

7.2 Uno strumento per l’osservazione della comunicazione interculturale

    Molti esempi contenuti contenuti in questo libro, così come le raccolte
aneddotiche della letteratura sulla comunicazione interculturale in azienda e
come i siti Internet sulla comunicazione interculturale (cfr. 8.1) sono obsoleti nel
momento in cui vengono pubblicati: la rapidità degli scambi internazionali che
portano le persone e le immagini televisive e multimediali in giro per il mondo
fanno sì che l’interscambio di modelli culturali e di modelli di comunicazione
interculturale sia fluidissimo, costante, inarrestabile e non descrivibile in tempo
reale.
    Al contrario, la struttura concettuale che abbiamo posto alla base di questo
volume non si modifica con il tempo: il concetto di competenza comunicativa
interculturale collocata sullo sfondo di alcuni valori culturali e di alcuni fattori di
particolare rischio comunicativo (essenzialmente, quanto discusso nei paragrafi
1.6, 1.7 e nel capitolo 2) ci pare un modello universale, almeno allo stato attuale
della ricerca, ci pare cioè in grado di descrivere il fenomeno indipendentemente
dal luogo e ieri come oggi o domani – fatto salvo il cambiamento indotto dalla
comparsa di strumenti comunicativi di massa, del computer, ecc.
    Se è vero che il modello di descrizione della competenza comunicativa
interculturale è affidabile, allora chi opera in ambiente internazionale può creare,
come abbiamo detto già per la griglia presentata in 7.1, un file oppure impostare
un quaderno a fogli mobili indicando gli elementi della competenza comunicativa
interculturale da tenere sotto osservazione quando si interagisce con stranieri,
quando si va all’estero, quando si raccontano aneddoti a tavola, quando si
guardano film stranieri.
    L’elenco è implicito nell’indice di questo volume e può essere arricchito,
specialmente per quanto riguarda i valori culturali, da alcune voci riprese dalla
griglia del paragrafo precedente. I modelli culturali e comunicativi da osservare
sono:

Valori culturali di fondo


a) Il tempo
b)  La gerarchia e il potere
c)  Il rispetto sociale e la “correttezza politica”
d)  Attribuzione e mantenimento dello status: la necessità di salvare la faccia
Uso del corpo per fini comunicativi
a) Sorriso
b) Occhi
c) Espressioni del viso
d) Braccia e mani
e) Gambe e piedi
f) Sudore (e profumo)
g) Rumori corporei
h) Toccarsi i genitali
i) Distanza frontale tra corpi
j) Contatto laterale
k) Il bacio
l) Lo spazio personale nel luogo di lavoro
Uso di oggetti per fini comunicativi
a) Vestiario
b) Status symbol
c) Oggetti che si offrono:  sigarette, liquori, ecc.
d) Regali
e) Danaro
f) Biglietti da visita
La lingua
a) Tono di voce
b) Velocità
c) Sovrapposizione di voci
d) Superlativi e comparativi
e) Forme interrogativa e negativa
f) Altri aspetti grammaticali
g) Titoli e appellativi
h) Registro formale/informale
i) Struttura del testo
Mosse comunicative
a) Abbandonare l) Ironizzare
b) Attaccare m) Lamentarsi
c) Cambiare argomento n) Ordinare
d) Concordare o) Proporre
e) Costruire p) Riassumere
f) Difendersi q) Rimandare
g) Dissentire r) Rimproverare
h) Domandare s) Scusarsi
i) Esporsi t) Sdrammatizzare
j) Incoraggiare u) Tacere
k) Interrompere v) Verificare la comprensione
Situazioni comunicative
a) Dialogo
b) Telefonata
c) Conferenza
d) Presentazione della propria azienda, dei propri prodotti
e) Partecipazione a cocktail party, pranzo o cena
f) Riunione, lavoro di gruppo
 

7.3 Insegnare comunicazione interculturale

    I due paragrafi precedenti si basano su un’idea di apprendimento auto-diretto e


continuo che, a nostro avviso, rappresenta la modalità formativa naturale per una
persona impegnata nel fare quotidiano.
    Tuttavia, riprendendo la metafora informatica, per imparare ad imparare è
necessario essere “formattati” in maniera giusta. La formattazione è costituita
dall’esperienza di apprendimento. La maggior parte delle persone che operano in
aziende, università e istituzioni diplomatiche hanno nella propria storia di
formazione due tipi di esperienze:

a) insegnamento frontale in aula


    Dalla scuola all’università, alla maggior parte dei corsi di formazione aziendali
la modalità di formazione ritenuta naturale è quella per cui chi “sa” veicola la
propria conoscenza a chi “non sa” verbalmente o con il supporto di qualche
lucido o video
    In realtà non è possibile parlare frontalmente della comunicazione
interculturale, non è possibile “insegnarla”, se non nei termini che abbiamo
cercato di proporre in questo studio: intendendo cioè l’insegnamento frontale
come sensibilizzazione al problema e fornendo strumenti di analisi e
catalogazione.
    Ma se non sono condotte con una metodologia precisa (vedi sotto), le lezioni
frontali servono esattamene come le dimostrazioni di tecnici informatici che
montano un programma e, cliccando a velocità inumana su icone e bottoni e
cartelle e quant’altro, “spiegano” al povero utente come funziona il programma:
sul momento gli pare anche di aver capito ma, uscito il tecnico, non è più
neppure capace di avviare il programma;

b) simulazioni più o meno strutturate e controllate


    Le simulazioni rappresentano la modalità “alla moda” nei corsi di formazione
aziendale, dove sono stati importati dalla tradizione americana che, a differenza
di quella italiana, utilizza moltissimo la simulazione dalla scuola primaria al
college. Di fronte a questa importazione dal fascinoso nome inglese di roleplay
gli adulti italiani si rassegnano, ma lo fanno malvolentieri.
    D’altro canto non si possono impostare giochi di ruolo interculturali perché
sono irrimediabilmente falsi: i problemi interculturali sono di software di
sistema, cioè di cultura profonda e inconscia, di meccanismi di cui non siamo
consapevoli, e nelle simulazioni si lavora solo su ciò di cui si è consci e
consapevole 1 .

    Nessuna delle due modalità, né quella tradizionale né quella innovativa, è


quindi funzionale all’insegnamento della competenza comunicativa
interculturale. Non lo è perché, parafrasando il discorso di Wilhem Von
Humboldt sull’insegnamento delle lingue straniere: “non si può insegnare la
comunicazione interculturale , si può al massimo creare le condizioni perché
qualcuno l’apprenda”.
    Per individuare una metodologia, un “come”, dobbiamo dunque partire da una
riflessione sui fini, sul “perché”. In questa prospettiva dunque possiamo dire che
la formazione del personale aziendale, accademico e diplomatico impegnato in
ambiente multiculturale può aver senso, a nostro avviso, solo se essa

a)  mira a rendere consapevoli le persone dei problemi della comunicazione


interculturale
 
b)  le rende consapevoli del fatto che non si tratta di differenze esotiche, di
superficie, del tipo “il mondo è bello perché è vario”, ma che si tratta di diversi
software mentali, che operano cioè alla radice stessa dell’interazione in un evento
comunicativo
 
c)  offre alle persone degli strumenti concettuali, semplici e chiari (ma non per
questo banalizzati, anche se dai cenni si può cogliere che i problemi della
competenza comunicativa interculturale sono più sofisticati di quelli che abbiamo
scelto di trattare esplicitamente) quali quelli che abbiamo esposto nel capitolo 1,
relativamente alle nozioni di comunicazione, di competenza comunicativa e di
parametri di valutazione, nonché quelli esposti nel capitolo 2 relativo ai valori
culturali che fanno da sfondo agli eventi comunicativi
 
d)  offre alle persone degli strumenti operativi, quali le liste di punti da osservare
che abbiamo presentato nei due paragrafi precedenti, in questo capitolo;
qualunque azienda o università può facilmente trasformare quegli elenchi in un
software, basato su un programma di data base, da dare in dotazione al proprio
personale per l’osservazione continua - e la condivisione delle osservazioni con il
resto dell’azienda attraverso una banca dati aziendale che raccolga le esperienze
individuali
 
e)  soprattutto, convince le persone che la realtà muta ogni giorno, per cui le varie
culture - sempre più interrelate - si modificano, si integrano, per altri versi si ri-
differenziano, per cui è necessario continuare ad osservare giorno dopo giorno,
anno dopo anno, con l’occhio dello scienziato che osserva, cataloga e interpreta
ciò che avviene (sulla base delle chiavi che ha avuto nei corsi di formazione o in
volumi come questo)
 
f)  fa scoprire che la comunicazione interculturale è certo complessa, crea
problemi, rallenta le operazioni, ma che l’alternativa è una società omologata che
costringe tutti a rinunciare alle proprie radici e ai propri valori in nome di valori
più universali - scelti da chi? Fa scoprire, in altre parole, concludendo la metafora
informatica, che il mondo perfetto non è quello in cui tutti hanno Windows o
Macintosh o Unix, ma in cui ciascuno ha il sistema operativo che preferisce o che
si è trovato nel suo computer e che questo non gli crea difficoltà nel collegarsi
con altri.

Su queste premesse, nell’organizzazione di corsi di formazione la metodologia


non potrà che essere quella che

a)  parte dalla condivisione delle esperienze di comunicazione interculturali


effettivamente vissute dai partecipanti al corso, esperienze, aneddoti, incidenti,
impressioni che vengono elicitate dal formatore fin dall’inizio della sessione;
 
b)  prosegue fornendo la griglia di analisi, quale ad esempio quella indicata in 7.2
 
c)  insegna ai corsisti ad osservare spezzoni di video:
- film, in cui attori e registi si sforzano di essere “naturali” e quindi di imitare
consapevolmente gesti, distanze, mosse della vita quotidiana, rendendole però
facilmente osservabili proprio perché arte-fatte
- talk show e spettacoli di varietà in cui ci sono interazioni spontanee
- telegiornali, tribune politiche, ecc., in cui abbiamo monologhi che si alternano a
dialoghi
- registrazioni autentiche di lavori di gruppo, di presentazioni aziendali, di
conferenze, di negoziazioni e trattative.
Non importa, in molti di questi casi, se non si capisce la lingua: la massa di
informazioni non-verbali e relazionali che si può ricavare è immensa e il fatto di
non poter contare sull’input verbale costringe, finalmente, ad osservare tutto il
restante meccanismo di comunicazione.
    Lo scopo di questa attività non è quello di istruire sui contenuti ma piuttosto di
far apprendere un metodo di osservazione, e quindi la sintesi conclusiva
dell’incontro non sarà basata sulle informazioni che si sono date e che sono
servite da esemplificazione, ma sul modo in cui i partecipanti al corso sono
riusciti ad osservare i personaggi dei video, ad osservare se stessi “in differita”,
richiamando alla mente episodi del proprio vissuto che a questo punto assumono
una luce nuova e vengono interpretati in maniera diversa.
    Come si nota, dunque, l’esperienza personale dei soggetti i formazione
rappresenta il punto di partenza e quello conclusivo di un percorso che, dovendo
solo rendere consapevoli e dare strumenti, non richiede più di due giornate di
lavoro e che può essere svolto anche con gruppi relativamente numerosi:
condividere le esperienze di 20 persone arricchisce molto di più di quello che è
possibile in un gruppo elitario di 5 partecipanti.

    Quanto detto finora si riferisce a corsi specificamente organizzati per la


formazione interculturale di quadri, funzionari, tecnici, dirigenti, ecc. Un caso
diverso è rappresentato dall’introduzione di tematiche interculturali all’interno
dei normali corsi di formazione linguistica, sia nelle scuole superiori che nelle
università e nelle aziende.
    Esiste una letteratura ormai consolidata sul tema, che abbiamo cercato di
riorganizzare in maniera innovativa in Balboni 1996 2 , ma è una letteratura
spesso basata sugli stereotipi anziché sui sociotipi. Inoltre, nell’insegnamento
linguistico l’attenzione è e rimane ancor oggi eccessivamente concentrata
sull’aspetto verbale e ignora di fatto le componenti non verbali: la correttezza
morfosintattica e la fluidità rappresentano i valori positivi, dimenticando che si
può essere corretti e fluent fin che si vuole ma se non si raggiungono i propri
scopi socio-pragmatici, che possono essere raggiunti solo se si comunica anche
sul piano socio-culturale, non si sa usare la lingua straniera.
    In sintesi, diremo che non si può relegare l’aspetto culturale solo ad un
momento dell’Unità Didattica, ma che la riflessione (inter)culturale deve
pervadere tutto l’insegnamento, deve sgorgare ogni volta che i testi e i materiali
didattici usati ne offrono lo spunto.
 
 
 

1 L’opinione opposta è sostenuta – in maniera non sufficientemente convincente,


a nostro avviso – in alcuni saggi e relazioni di esperienze da Dietmar Larcher e
Helga Moser Rabenstein in un volume molto interessante, Baur-Montali 1994. Il
“vizio” di fondo di questi approcci basati sulla simulazione di scambi
comunicativi in ambiente interculturale è che essi tendono ad applicare il
principio “ti butto in acqua: adesso nuota”, che sul piano didattico può funzionare
con bambini ma non è adatto ad adulti che hanno poco tempo, sono fortemente
razionali nel loro approccio ai problemi, non amano sbagliare di fronte a colleghi.

2 Tra i volumi più interessanti: Attard 1996, Baur-Montali 1994, Byram-Zarate


1994, Cain 1994, Garcia 1994, Nalesso 1997, Prodomou 1992, Valdes 1986

Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo


, pp. 95-116
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
107
Come afferma Melandri a tal proposito (2009, p.
4): «il superamento del
livello di incomprensione culturale non è quindi possibile semplicemente
esplorando la cultura dell’altro, ma piuttosto entrando in quel territorio
di mezzo costituito da ciò che avviene nel dinamico processo di transcul-
turazione. La comunicazione interculturale si basa non tanto e non solo
sulla conoscenza descrittiva ed euristica dell’altro, quanto sulle capacità
di ascolto (attivo), attenzione, avvicinamento».
Alla luce dei concetti presentati, dunque, abbiamo individuato alcune
abilità relazionali che, a nostro avviso, possono aiutare ad evitare equivoci
e fraintendimenti comunicativi dovuti alle diverse ‘grammatiche culturali’
e a gestire più efficacemente le situazioni problematiche.
Le presentiamo premettendo che esse non sono il frutto di una classifi-
cazione scientifica preesistente ma piuttosto di una nostra sintesi tra vari
studi mutuati dall’ambito glottodidattico, antropologico, psico-sociologico
e pedagogico interculturale (cfr. la bibliografia per gli approfondimenti).
Non abbiamo dunque nessuna pretesa di fornire un elenco esaustivo né
tantomeno ‘chiuso’ e definitivo; anzi, le riteniamo un punto di partenza,
uno spunto di riflessione aperto alle integrazioni che le sensibilità e le ri-
cerche di ognuno potranno incrementare, nell’ottica di quel manuale ‘fai-
da-te’ della comunicazione interculturale di cui auspichiamo la creazione.
Sulla base di quanto detto, riteniamo che le abilità relazionali fonda-
mentali siano:
a.
saper osservare (decentrarsi e straniarsi);
b.
saper relativizzare;
c.
saper sospendere il giudizio;
d.
saper ascoltare attivamente;
e.
saper comprendere emotivamente (empatizzare ed exotopizzare);
f.
saper negoziare i significati.
5.1
Saper osservare
Nell’incontro con l’altro, ognuno porta con sé esperienze pregresse, idee,
proiezioni, concezioni estetiche, valori che condizionano lo sguardo nel
momento del contatto.
Nell’incontro con persone di altra cultura, spesso, si aggiungono ‘filtri’
intrapersonali o interpersonali (ad esempio, visioni stereotipate con le
già citate implicazioni sulle aspettative) che rendono ancora più difficile
alleggerire il peso del pregiudizio e che possono però condizionare la
comunicazione.
A tali condizionamenti si aggiunga l’importanza nella comunicazione
di quello che viene definito
effetto primacy
secondo cui la prima impres-
sione è quella che conta e che determina l’evoluzione del rapporto: se la
prima impressione è pregiudiziale
– cioè orientata alla categoria più che
108
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
alla persona
– è facile immaginare come il rischio di una comunicazione
falsata già in partenza sia evidente.
È fondamentale, quindi, sviluppare una capacità di osservazione che
permetta di evitare (o perlomeno di ridurre) il rischio di compromettere
la comunicazione. L’osservazione, nella nostra accezione, è un’attività
intenzionale
che si pone in equilibrio tra ‘distacco’ e ‘partecipazione’ e
prevede lo sviluppo di:
a.
capacità di decentramento
. Per decentrarsi è utile sviluppare un
distacco rispetto ai propri ruoli o ai comportamenti abituali; occor-
re riuscire a interpretare l’evento comunicativo da una posizione
‘terza’, differente sia da quella propria sia da quella dell’interlocu-
tore: è come se si dovesse osservare se stessi dall’esterno e parlare
di sé in terza persona;
b.
capacità di straniamento
. Lo straniamento prevede un distacco
emotivo rispetto alla situazione osservata. Anche in questo caso,
occorre non lasciarsi condizionare da pensieri e soprattutto da
emozioni nel momento dell’incontro e del dialogo: gli errori ‘cul-
turali’ molto più di quelli ‘linguistico-grammaticali’ rischiano di
compromettere la comunicazione proprio perché investono emo
-
zioni e chiamano in causa valori e credenze tanto profonde quanto
poco consapevoli.
Le capacità succitate vanno ‘allenate’, come giustamente affermano Nan
-
ni e Curci (1995) con una costante opera di ‘decostruzione’ della propria
verità, che è sempre ‘parziale’, mai ‘definitiva’.
Poiché ognuno osserva l’altro attraverso il filtro della propria cultura,
bisogna avere alcune attenzioni al fine di limitare la possibilità di pro-
iettare le proprie categorie sulle culture osservate: secondo Mantegazza
(2006, p.
180) «uno scambio di sguardi arricchisce sempre purché gli
sguardi siano onestamente collocati nella cultura che li ha definiti».
Avere consapevolezza del punto da cui si osserva e allenarsi a cambia-
re il punto d’osservazione attraverso il decentramento e lo straniamento
diventano i presupposti fondamentali per comunicare con interlocutori
di altra cultura e ridurre il rischio di giudicare sulla base di pregiudizi e
di stereotipi.
L’osservazione, però, può essere funzionale all’avvio di un processo
di decentramento solo se viene seguita da un processo di ‘restituzione’
attraverso il quale l’osservatore rende esplicita la propria visione all’inter
-
locutore con espressioni del tipo «io ho visto questo, a me è sembrato di
vederti così», «io ti ho visto fare così». Tali espressioni infatti si limitano
a restituire, come in uno specchio, quanto osservato sospendendo giudizi
e permettono ad entrambi gli interlocutori (osservatore e osservato) di
relativizzare
la propria visione.
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
109
5.2
Saper relativizzare
Abbiamo detto che ognuno di noi vede la realtà con una lente personale,
la quale è anche costituita dal sostrato culturale e dall’orizzonte valoriale
in cui la persona si è formata. Se, come afferma Franca Pinto Minerva
(2002, p.
15) «riconoscere l’altro significa accettare di relativizzare il
proprio sistema di idee e di valori, per opporsi al rischio, sempre incom-
bente, di voler spiegare, interpretare e ‘piegare’ i sistemi di vita e di valori
degli altri attraverso le nostre categorie concettuali e interpretative», è
importante, allora, avere innanzitutto consapevolezza della parzialità del
nostro sguardo rispetto alla realtà.
Tale consapevolezza però non basta, essa si deve trasformare in costan
-
te atteggiamento di ricerca di un dialogo volto sia alla chiarezza nell’at-
tribuzione di significati condivisi ai comportamenti, sia alla comprensione
di cosa essi significano all’interno del paradigma valoriale dell’altro.
In questo modo possiamo ‘relativizzare il relativismo’, ossia non asso-
lutizzarlo. Il rischio, infatti, è quello di restare in una posizione di immo-
bilismo cognitivo ed emotivo
– tipico del multiculturalismo
– in cui non vi
è ibridazione (o, come vedremo ‘creolizzazione’) tra le persone, in nome
del rispetto dell’altro. Tale rispetto, assolutamente condivisibile in linea
di principio, non è però sufficiente, a nostro avviso, a governare (anche
comunicativamente) i complessi processi legati alla globalizzazione, alle
grandi migrazioni e alle conseguenti rapide e irrimediabili ristrutturazioni
degli assetti sociali e culturali che viviamo.
Nel confronto rispettoso e nella possibilità del cambiamento e della
trasformazione (che invece è specifico del concetto di interculturalità)
occorre allenarsi a comunicare. Il cambiamento, qui, non va inteso come
necessaria modificazione del proprio orizzonte valoriale ma, appunto, co
-
me possibilità che chiama ognuno a contemplare costantemente il dubbio
più che la certezza come chiave strategica della comunicazione.
Per un approfondimento si riveda
– ad esempio
– la differenza fonda-
mentale fatta da Balboni (2007, p.
140) tra Cultura (
way of life
) e Civiltà
(
way of thinking
), ovvero tra le «risposte di cultura ai bisogni di natura»
(come, ad esempio, vestirsi, mangiare, ripararsi dagli agenti climatici, i
quali di solito non danno problemi interculturali) e i «valori irrinunciabili»
(come, ad esempio, la pena di morte, l’infibulazione, il lavoro minorile, i
quali invece possono porre problemi) che definiscono l’identità del sin-
golo al di là dell’appartenenza culturale. È proprio su questi valori che
ognuno è chiamato a interrogarsi per identificare quelli che ritiene essere
i fondamenti del proprio vivere.
110
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
5.3
Saper sospendere il giudizio
Abbiamo visto, parlando di stereotipi e pregiudizi, quanto il classificare
sia funzionale all’economia della nostra mente. Nella vita quotidiana,
fatta di scambi frequenti, noi abbiamo bisogno anche di una rapidità nel
categorizzare le cose e le persone per essere ‘pronti’ agli imprevisti che
possiamo incontrare continuamente e che, minando il nostro ‘equilibrio’,
ci possono turbare.
Marianella Sclavi (2003, p.
47) parla, a tal riguardo, di «urgenza clas-
sificatoria» e di come essa orienti «verso credenze pregiudiziali piuttosto
che verso meticolose analisi dell’esperienza»: ecco allora che, in prospet
-
tiva interculturale, occorre invece «sviluppare la capacità di convivere col
disagio dell’incertezza, di sopportare l’esplorazione prolungata e pazien-
te».Per quanto difficile e poco ‘economica’ tale capacità sia, essa deve
diventare una risorsa cognitiva ed emotiva da utilizzare nella valutazione
delle dinamiche comunicative che orienti a strategie di negoziazione e
contrasti il sopravvivere o l’instaurarsi di forme pregiudiziali di pensiero
le quali hanno l’effetto di spostare la comunicazione dalla persona alla
categoria culturale, corrompendone l’efficacia per le ragioni esposte nel
paragrafo dedicato ai pregiudizi e agli stereotipi.
5.4
Saper ascoltare attivamente
Secondo Marianella Sclavi (2005, pp. 143-145)
l’Ascolto Attivo implica il passaggio da un atteggiamento del tipo
‘giusto – sbagliato’, ‘io ho ragione – tu hai torto’, ‘amico – nemico’,
‘vero
– falso’, ‘normale
– anormale’, ad un altro in cui si assume che
l’interlocutore è intelligente e che dunque bisogna mettersi nelle con-
dizioni di capire com’è che comportamenti e azioni che ci sembrano
irragionevoli e/o che ci disturbano o irritano, per lui sono totalmente
ragionevoli e razionali (...). L’Ascolto Attivo non è un comportamento o
una serie di comportamenti, è un processo relazionale complesso che
richiede, per poter dirsi compiuto, il ricorso alla autoconsapevolezza
emozionale e alla gestione creativa dei conflitti.
Lo sviluppo dell’ascolto attivo si rivela strategico per formare la compe-
tenza comunicativa interculturale in quanto, come abbiamo già detto,
con persone di altre culture il medesimo comportamento può assumere
differenti significati.
L’ascolto attivo con persone di differente nazionalità è sicuramente
favorito dalla consapevolezza che:
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
111
c.
le lingue parlate condizionano i modi di pensare: senza raggiungere
i limiti di antropologi come Sapir e Whorf, che negli anni Trenta-
Quaranta ipotizzavano il ruolo determinante del linguaggio nella
concettualizzazione della realtà, il fatto che avere nella propria
lingua la parola
glas
consente ai bretoni di ‘vedere’ come autonomo
il color
glas
, che nelle lingue indoeuropee parlate nel resto del con
-
tinente non è visto come autonomo, ma come «azzurrino, verdino,
grigiazzurro»
– il colore delle montagne in lontananza (Caon 2008);
d.
la cultura d’appartenenza condiziona la
modalità
di comunicazio-
ne (e anche di apprendimento o di relazione
– si pensi ad esempio
ad un’attività come la partecipazione attiva ai lavori di un centro
internazionale);
e.
diverse culture attribuiscono differenti valori ai codici. Scrive a
tal riguardo Elisabetta Zuanelli Sonino (1983, p.
51): «ogni socie-
tà dispone di codici verbali e non verbali ai quali associa valore e
funzione sociale diversi. Da ciò discende una duplice implicazione:
da un lato lo stesso
mezzo
di comunicazione svolge funzione co-
municativa e sociale diversa presso le diverse culture; dall’altro lo
stesso
tipo
di codice [verbale o non verbale] ha funzione e valore
sociale diverso a seconda delle culture».
Il saper ascoltare attivamente, dunque, muovendo dai presupposti qui
esposti, prevede delle strategie comunicative utili a chiarire sempre i
messaggi sia ‘in uscita’ sia ‘in entrata’ quali, ad esempio,
riassumere
,
riformulare
,
parafrasare
,
rispecchiare
e tutte quelle azioni che mirano,
da un lato a precisare il proprio messaggio alla luce della consapevolez-
za dei propri impliciti culturali, dall’altro a ottenere dall’interlocutore
una eventuale chiarificazione (attraverso domande dirette o vie indirette)
qualora si avessero dei potenziali dubbi rispetto ai significati impliciti dei
suoi messaggi.
5.5
Saper comunicare emotivamente
La competenza comunicativa interculturale non necessita solo di risor-
se cognitive ‘razionali’ (quali ad esempio la consapevolezza del proprio
sguardo relativo, ecc.) ma deve costantemente contemperarle con risorse
emotive che vadano, anche in questo caso, nella direzione dell’altro ma
anche del proprio io: riconoscere le proprie emozioni, dare loro un nome,
auscultarle cercandone eventualmente i legami più o meno consapevo-
li con il proprio vissuto è un processo fondamentale per gestirle e per
poterle utilizzare come uno strumento dialettico costruttivo. Marianella
Sclavi (2003, p.
125), a tal riguardo, porta un esempio che riteniamo
interessante: «Se il rancore verso un interlocutore non viene visto come
112
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
un impulso ad attaccarlo, ma come un avvertimento che tale impulso è in
atto, allora questa emozione non è più mia nemica, ma mia alleata nella
regolazione del mio comportamento».
Dunque, nella nostra prospettiva, occorre
osservare
le emozioni (nell’ac
-
cezione che abbiamo dato in questa sede) e poi dialogare con loro quasi
potessimo portarle fuori di noi e interrogarle sul come e, ancor più, sul
perché agiscono in quella situazione.
Allo stesso modo, il contatto con l’altro deve necessariamente tenere
conto delle sue emozioni che possono essere filtrate dalle stesse ragioni
personali e culturali summenzionate.
Utili per un decentramento funzionale alla comprensione è la
comuni
-
cazione emotiva
che prevede la capacità di decentrarsi attraverso due
concetti:
a.
l’
empatia
, ovvero la capacità di partecipare attivamente allo stato
emozionale dell’interlocutore riconoscendo la ‘qualità’ del suo vis-
suto emotivo. Anche grazie agli studi sui neuroni specchio, l’idea
che sta alla base dell’empatia è la nostra possibilità di ‘riconoscere’
emotivamente il vissuto degli altri, trovando connessioni indirette
con la nostra storia e l’elaborazione emozionale del nostro vissu-
to. Tale capacità di ‘immedesimazione’ nell’altro
– seppur con una
intensità diversa, in quanto l’esperienza a cui si fa riferimento per
empatizzare è differente
– può favorire un contatto emotivo con
l’altro, come se noi lo
sentissimo
, oltre che capirlo (per approfon-
dimenti, cfr. Boella 2006);
b.
l’
exotopia
ovvero la capacità di riconoscersi diversi dagli altri e di
riconoscere la loro diversità. Sclavi (2003, p.
172), aprendo una
sorta di gerarchia valoriale tra i due concetti, la definisce con que-
ste parole: «una tensione dialogica in cui l’empatia gioca un ruolo
transitorio e minore, dominata invece dal continuo ricostituire l’al-
tro come portatore di una prospettiva autonoma, altrettanto sen-
sata della nostra e non riducibile alla nostra« e continua (p.
174):
«nell’empatia il ricercatore isola e decontestualizza alcuni tratti
della esperienza dell’altro per comprenderla in base alla propria
esperienza, quindi mantenendo valido il proprio contesto. Finge di
mettersi nelle scarpe dell’altro, ma in realtà, all’ultimo momento,
mette l’altro nelle proprie scarpe. Nell’exotopia invece la ricerca
inizia quando il ricercatore, avendo cercato di mettersi nelle scarpe
dell’altro, si accorge che non gli vanno bene. Ma per accorgersi
bisogna ‘esporsi’ (...)».
L’exotopia può rappresentare, a nostro avviso, una tappa preliminare per
un’empatia più consapevole: un’ulteriore avvicinamento a quella ‘giusta
distanza’ che abbiamo già definito nel capitolo precedente.
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
113
5.6
Saper negoziare i significati
La summenzionata disponibilità ad ‘esporsi’, propria della sfera emoti-
va, unita alla consapevolezza razionale della propria ‘relatività’ possono
favorire quel processo di spiazzamento che viene definito
transitività co-
gnitiva
.
La transitività cognitiva crea una sorta di ‘permeabilità’ relazionale e
comunicativa, una disponibilità ad accogliere l’altro e a valutare se cosa
egli ‘propone’ possa essere accolto e integrato nel nostro sistema cogni-
tivo o se, invece, sia da accettare parzialmente o da rifiutare (vedi ancora
la dicotomia tra
cultura
e
civiltà
).
Le abilità che abbiamo qui presentato possono aiutare a sviluppare
quel saper
negoziare i significati
che riteniamo essere il punto d’arrivo
di questa parte del modello.
Sulla scia di Wenger (2006, p.
54) secondo cui «un significato è sempre
il prodotto della sua negoziazione [...], non esiste né in noi, né nel mondo
ma in quella relazione dinamica che è il vivere nel mondo», riteniamo
che il saper negoziare i significati muova dall’idea che l’attribuzione dei
significati ai comportamenti (connotati culturalmente e, di conseguenza
con alta probabilità differenti nelle manifestazioni), sia da cercare nella
co-costruizione
di un discorso comune
che espliciti il più possibile que-
gli impliciti culturali che spesso creano problemi comunicativi in ambito
interculturale.
Interessante, a questo proposito, il concetto di
creolizzazione
che Ar-
mando Gnisci (2001) rielabora partendo dallo scrittore caraibico fran
-
cofono Édouard Glissant. Tale concetto integra l’idea generica di ‘me-
ticciamento’ o di ‘ibridazione’ aggiungendo un aspetto creativo proprio
dell’incontro: come le lingue creole sono lingue
pidgin
(cioè frutto dell’in

-
contro di parlanti lingue diverse) nativizzate, la creolizzazione introduce
un’idea di creatività e di imprevedibilità propria di quello che la comuni-
cazione è sempre: una costruzione di significati originali tra persone che
interpretano delle culture.
Un ulteriore punto di arrivo per noi è rappresentato dalla proposta
del concetto di ‘cultura di appartenenza’ da intendersi come categoria
di fondo della quale prendere piena coscienza e sulla quale costruire
poi le relazioni. La cultura d’appartenenza è una costruzione soggettiva,
un’autopercezione del proprio originale modo di vivere e reinterpretare
norme, valori e abitudini di una società.
Essa non è descrivibile in maniera definita e conclusa poiché ognuno
di noi costruisce la propria appartenenza nell’intersoggettività, nella re-
lazione con gli altri ed è innanzitutto espressione delle conoscenze che
assimila e delle esperienze che fa.
Accorgersi di noi stessi mentre comunichiamo con gli altri, dei nostri
paradigmi che diamo spesso per scontati (e spesso per aprioristicamente
114
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
giusti o come gli unici possibili) è il primo grande obiettivo per poter darci
una possibilità di scelta che altrimenti, restando staticamente nella no-
stra cornice culturale, non potremmo avere: come afferma Umberto Eco,
«riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che siamo pronti
a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili».
La grande possibilità che ci offre la comunicazione interculturale è,
quindi, quella di guardare meglio gli altri grazie ad uno sguardo più at-
tento ma, prima ancora, di guardare meglio noi stessi attraverso gli altri,
potendo disporre di angolazioni plurali e inaspettate, valorizzando il mag
-
gior potenziale di differenze rappresentate da lingue e linguaggi diversi.
Bibliografia
2
Balboni, P.E. (1999).
Parole comuni, culture diverse: Guida alla comuni
-
cazione interculturale
.
Venezia: Marsilio.
Balboni, P.E. (2002). «Conflitti di cultura/civiltà in una classe inter/mul
-
ticulturale». In:
Atti del convegno Anils di Cagliari
.
Cagliari: CUEC.
Balboni, P.E. (2007).
La comunicazione interculturale
. Venezia: Marsilio.
Balboni, P.E.; Caon, F. (2014).
A performance-oriented Model of Inter
-
cultural Communicative Competence
[online]. Disponibile all’indiriz
-
zo
https://iris.unive.it/retrieve/handle/10278/42489/31208/A%20
Performance-oriented%20Model%20of%20IIC.pdf
(2016 - 03 -11).
Balboni, P.E.; Caon, F. (2015).
La comunicazione interculturale
. Venezia:
Marsilio.
Boella, L. (2006).
Sentire l’altro: Conoscere e praticare l’empatia
. Milano:
Cortina.
Brislin, R.W.; Yoshida, T. (1994).
Intercultural Communication Training:
An Introduction
.
Thousand Oaks: Sage.
Byram, M. (1997).
Teaching and Assessing Intercultural Communicative
Competence
.
London: Multilingual Matters.
Byram, M.S. (2008).
From Foreign Language Education to Education for
Intercultural Citizenship:
Essays and Reflection
. Clevedon: Multilin
-
gual Matters.
Byram, M.S.; Phipps A. (eds.) (2007).
Languages for Intercultural Com
-
munication and Education
. Clevendon: Multilingual Matters.
Caon, F. (a cura di) (2008).
Tra lingue e culture
. Milano: Bruno Mondadori-
Pearson.
2
In questa sede presentiamo esclusivamente i testi citati nel saggio. Per un’ampia biblio
-
grafia di riferimento, consultare Balboni, Caon 2015.
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
115
Caon, F. (2014). «Cultura e civiltà nella didattica delle lingue: Una tra
-
dizione omogenea, una prospettiva tripartita (parte seconda)».
SeLM
(Scuola e Lingue Moderne)
, 53 (1-2).
Caon F. (2013). «Cultura e civiltà nella didattica delle lingue: Una tra
-
dizione omogenea, una prospettiva tripartita (parte prima)».
Se
www.edulingua.it
17
In te
rmini pratici, osserva Campomori (2012: 43)
,
«
la realizzazione di questo principio ha significato
l’introduzione di percorsi di integrazione attraverso la
somministrazione di test linguistici e/o di conoscenza
della cultura e della storia del
Paese
ospite,
nonché la predisposizione di co
rsi di integrazione obbligatori»
16
.
Rimandando
alla seconda parte del lavoro
l’approfondimento di tali ‘vincoli’ normativi legati alla
conoscenza della lingua, in un necessario parallelismo tra le
principali realtà europee, v
ale qui il sottolineare
come l
o spostamento del concetto di integrazione da aspetti
idealmente culturali (assimilazione alla cultura
ospite
vs
accettazione di convivenza civica pluri/multiculturale) ad
aspetti pragmatici di comunicazione
(semmai intercultu
rale)

in quanto la conoscenza linguistica “certificata” è divenuto
uno dei requisiti
fondanti, quando non il requisito fondamentale

ha determinato una serie di riflessioni ulteriori sulle
dinamiche qu
otidiane che chiamano in causa «
problemi reali, con
persone in carne ed ossa e con situ
azioni
concrete e problematiche»
(Ambrosini 2013:1).
L’introduzione dei test di integrazione in numerosi Stati europei,
infatti, ha dato il via ad un acceso dibattito
sulle implicazioni sociali in termini di diritti e lib
ertà e
sono state sollevate perplessità, per non dire
obiezioni, sul fatto che non sia lecito ad uno Stato
democratico pretendere l’assimilazione come grado
ulteriore rispetto all’accettazione dei principi costituzionali,
ovvero come disponibilità all’accu
lturazione
(Habermas
2008:
157).
2.4
Nuove ‘tendenze’ da affrontare
Nel panorama dei modelli di integrazione l’Italia, come
unanimemente riconosciuto, non
ha ancora
chiaramente definito
una
sua ‘via’
né ideale, né pragmatica
17
che
abbia come obbiettivo la real
e inclusione
della componente immigrata nel tessuto sociale, né ha mai
fatto esplicito riferimento ad uno dei modelli
classici di inclusione, né viene inserito nella letteratura in alcuno
di essi (Campomori 2012: 50).
Al più, dagli anni ’90 in poi
si è dat
o vita ad una serie di «azioni
-
tampone»
(Vanfretti 2013) che per alcuni
rispecchiano l’ipocrisia di fondo di un assetto normativo, certo
non limitato alla Bossi
-
Fini, ma orientato alla
gestione del mero approvvigionamento di manodopera
(Cacciapuoti 2009).
Eppure, dallo studio di una serie di realtà europee e dallo
stretto paragone con le dinamiche italiane, è
possibile individuare 4 nuove “tendenze” (così vengono
definite in Ambrosini 2013) affrontando le quali,
con un esame attento, è possibile pianificare
, almeno tentativamente, sistemi di intervento efficaci per
un
16
Come ricorda sempre Campomori, l’Olanda è stata tra le prime nazioni ad
istituire Corsi di Integrazione obblig
atori di 600 ore,
con insegnamento della lingua olandese, educazione civica e
preparazione per il mercato del lavoro. I corsi erano gratuiti, m
a

soprattutto

la mancata frequenza non comportava particolari sanzioni, come invece è
stato dal 2006, anno in
cui la nuova legge
sull’Integrazione Civica ha legato il super
a
mento di un test (che è diventato a carico dell’immigrato) al permesso di
soggiorno di
lunga durata. In questo facendo scuola alle altre nazioni europee, compresa
l’Italia che

come vedremo n
el
cap.5

ha fatto suo un
sistema simile con la legge 94 del 2009, s
i
gnificativamente intitolata “
Disposizioni in materia di sicurezza pubblica
”.
17
Come già accennato, esiste in realtà un documento ufficiale che è il
Piano per l’integrazione nella sicurez
za
. Identità e
incontro
. Italia 2020
, ma forse è ancora prematuro considerarlo tout court come il modello
italiano.
www.edulingua.it
18
modello di inclusi
one e far sì che
Italia 2020
, diventi

da iniziale documento di indirizzo

una base solida
su cui impostare interventi concreti ed
efficienti.
2.4.1
Eterogeneità dell’immigrazion
e
Uno dei grossi limiti a piani di intervento efficaci
, ad esempio,
è l’aver da sempre confuso all’interno di un
unico, enorme ‘calderone’ quello che in realtà è
l’estremamente variegato mondo dell’immigrazione. La
facilità con cui
noi italiani identifichi
amo il ‘diverso’
è legata, infatti, alla rapidità con cui i cambiamenti
imposti dalle dinamiche migratorie si sono verificati.
Ma

come ben sottolinea Ambrosini

andando in giro per l’Europa, alla domanda “Quanti sono gli immigrati
nella vostra città?
” la risposta era un’altra
domanda, ovvero “Che cosa intendete per immigrati?”
.
Proviamo a pensare a Bruxelles, il caso più interessante da
questo punto di vista, dove sono presenti sia i lavoratori immigrati e
le loro famiglie sia gli espatriati dell’Unio
ne
europea, che ugualmente sono persone che provengono dall’estero ed
hanno cittadinanza di un altro Paese. Ai
registri dell’anagrafe, però, non è allegata la denuncia del reddito,
quindi distinguere questi due gruppi è
praticamente impossibile: a Bruxelle
s ci sono i romeni professionisti espatriati e i Rom o gli immigrati poveri e
tutti
costoro non sono distinguibili l’uno dall’altro dal punto di vista anagrafico o
istituzionale.
E se è vero che in
Paesi
con una lunga storia di immigrazione le cose si com
plicano terribilmente per la
presenza di persone che hanno ormai acquisito la
cittadinanza nazionale (per cui sono immigrati, ma non
stranieri), seconde e terze generazioni, matrimoni misti e
‘mescolanze’ varie, anche in Italia, come
dimostreremo più avant
i, il problema comincia a farsi rilevante nella misura in cui
si presentano ai CTP
18
per l’iscrizione ai
corsi di integrazione linguistica
e sociale
un albanese, un moldavo, un romeno e un
polacco. Mentre i primi due possono essere inseriti senza
distinzion
e all’interno di un
Corso di integrazione
linguistica e sociale,
‘curricolare’ o a finanziamento FEI, gli altri due non possono
essere inseriti nella classe
di lingua e formazione civica
attivata con un finanziamento del Fondo Europeo per
l’Integrazione
(F
EI)
in
quanto questo è riservato ai “cittadini di
Paesi
terzi”, ovverosia non membri dell’UE.
Ma ai fini della coesione sociale
l’importanza della conoscenza linguistica vale per gli uni come
per gli altri.
Se poi ci spostiamo sul fronte giuridico, come so
ttolin
ea ancora Ambrosini (2013: 2), «
l’ingresso dei Paesi
dell’Europa orientale nell’Unione Europea ha aggiunto un
grande elemento di differenziazione perché un
cittadino romeno, bulgaro o polacco gode di diritti molto vicini a
quelli di un cittadino ital
iano e può entrare
e uscir
e da un Paese senza limitazioni»
. Il meccanismo dell’espulsione legato a pratiche di
delinquenza,
ovviamente, diventa quasi risibile e si apre un dilemma politico
di dimensioni ‘incontrollate’

privilegiamo
la sicurezza utilizzan
do barriere e filtri, rafforzando i controlli e rendendo più
problematico il turismo e gli
scambi commerciali, oppure andiamo verso una maggiore
integrazione su scala europea facilitando la
18
Centri Territoriali Permanenti per l’Educazione degli Adulti, istituiti con
l’O.M. 455/1997. Se ne parlerà diffusamente più
avanti.
www.edulingua.it
19
mobilità, come si è fatto in questi anni, e diminuendo il
controll
o pubblico sulla mobilità
interna europea
delle persone?»
.
Un altro caso di palese eterogeneità

verificatosi all’interno delle
Sessioni di formazione civica ed
i
nformazione
introdotte dal DPR 179 del 14 settembre 2011 (cfr
.
6.4.4
)

è dato dalla frequenz
a di immigrati
sostanzialmente analfabeti e immigrati in Italia per motivi, ad
esempio, di ricerca universitaria.
La competenza richiesta per comprendere i contenuti
previsti dall’Accordo di Integrazione

sebbene la
Sessione avvenga nella lingua dell’immi
grato

pone una naturale distanza tra le due persone e, dovendo
successivamente valutare gli esiti di tale Sessione Formativa, al
somministratore, docente o tutor che sia, si
porranno inevitabi
lmente scrupoli:
privilegiare la frequenza o l’effettiva compr
ensione dei contenuti?
Sebbene
più avanti
torneremo più approfonditamente sulla questione, per il
momento
crediamo
sia
importante tenere in adeguata considerazione l’
eterogeneità del concetto di immigrato
,
in una presa di
coscienza
che, in buona sostanza,
diviene requisito indispensabile per qualsiasi piano di
inclusione.
2.4.2
Ricerca di “coesione sociale”
In maniera non dissimile da quanto abbiamo già segnalato
a proposito del termine inclusione (cfr.
1.2.1
)
,
Ambrosini rac
coglie «
sotto l’ombrello della coesion
e sociale [...] preoccupazioni e punti di vista diversi
che, nel nostro caso, significano riqualificazione dei quartieri
difficili, investimenti sulla scolarità delle fasce
deboli, promozione dell’occupazione di gruppi disagiati, misure
a favore delle famigl
ie, in particolare quelle
frag
ili, ricongiungimenti familiari»
.
Si tratta fondamentalmente di avere in mente una visione
d’insieme più ampia che tenga conto che
l’applicazione di politiche di integraz
ione in pura chiav
e ostativa

per avere il permesso di
soggiorno di
lunga durata occorre dimostrare di possedere una conoscenza
della lingua itali
ana non inferiore al livello A2

non produce di per sé garanzia di reale inclusione.
Una politica che si traduca, invece, in provvedimenti mirati
all’accoglienza de
ll’immigrato va affrontata
nell’ottica di tener conto di tutti i suoi bisogni, a partire da
quelli ‘fisiologici’, su su fino a completare la
scala che Maslow
(cfr.
infra
)
ha identificato come gerarchia dei bisogni fondamentali.
L’uomo

sostiene lo psicolo
go statunitense (Maslow
1970
: 86
-
87)

,
quando è dominato da alcuni bisogni,
tende a mutare anche tutto il suo sguardo verso il futuro, al
punto tale che la cultura in sé è uno strumento di
adattamento fra le cui principali funzioni c’è quella di
ridurre i
l più possibile le situazioni di emergenza
fisiologica.
Pensare che un immigrato rimasto senza lavoro abbia come
priorità quella di integrarsi con il tessuto sociale
circostante è un’illusione ormai superata, tanto che
Campomori
,
analizzando alcuni dati de
l CNEL
relativamente all’integrazi
one sociale dei migranti nelle regioni i
taliane
,
sulla base di un pacchetto di
indicatori di natura demografica e socio
-
economica, rileva come due regioni con dichiarata diversità
di
www.edulingua.it
20
approccio al problema immigrazione come
il Veneto e l’Emilia Romagna (il primo a lungo guidato dal
Centrodestra e da leader politici decisamente poco
propensi all’accoglienza, la seconda tradizionalmente
guidata dal Centrosinistra e ben più favorevole nei
confronti degli immigrati) si trovino i
n realtà appaiate
nell’indicatore del potenziale integrativo studiato dal
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
,
grazie evidentemente alle situazioni strutturali del territorio,
mercato del lavoro
in primis
.
Avere un lavoro regolare, a lungo term
ine e con uno stipendio dignitoso permette agli immigrati e alle loro famiglie
di poter alzare lo sguardo dalle necessità propriamente primarie e di inserirsi
con maggiore slancio negli stili di vita
e nella cultura della società ospite (Campomori 2012: 65
).
2.4.3
Sinergie pubblico
-
privato e triangolazione
Non sono da sottovalutare, poi, all’interno delle dinamiche
che contribuiscono all’inclusione, le reti
informali di mutuo aiuto che vengono a formarsi,
autonomamente o in relazione più o meno stretta con
l’int
ervento pubblico, per l’intervento del terzo settore o
direttamente per iniziativa dei migranti
(associazioni,
network
più o meno formalizzati, ecc.).
Sono due tendenze che Ambrosini etichetta come
“sinergia pubblico
-
privato” e “tolleranza e
triangolazione
”, ma che noi preferiamo far confluire in un unico
rilevante
fenomeno.
L’importanza di sindacati, istituzioni o associazioni di ispirazione
religiosa o anche laica, ma improntate ad
azioni di tipo umanitario risiede, oltreché nella capillarità
della diffus
ione e nella capacità di prima
accoglienza
,
cui spesso il pubblico non riesce a dare adeguata
risposta, soprattutto nella ‘gestione’ di una
partita generalmente molto difficile e delicata per il livello
istituzionale: la tutela degli immigrati in
condizion
i irregolari, ad esempio, ovvero dei richiedenti asilo che

il più
delle volte

si trovano in un
limbo
normativo che rende complesso qualsiasi intervento, diciamo
così,
istituzionalizzato
.
L’impossibilità che hanno le i
sti
tuzioni pubbliche, infatti, di «
sconfessare una politica nazionale che afferma
l’esistenza di confini, la sovranità dello Stato, l’impossibilità di
dimorare nel nostro St
ato senza permesso di
soggiorno»
(Ambrosini 2013: 8) rischierebbe di creare forme di
discriminazione p
ericolose non so
lamente
per la coesione
, ma anche per la tenuta stessa della struttura sociale
nazionale. Queste persone

continua
Ambrosini

«
sono arrivate e rimaste, e la questione, in una certa
misura, va affrontata. Il modo più
semplice, più accorto, più avveduto pe
r gestire il problema è quello di passare attraverso
soggetti non
governativi
che, quindi, hanno meno vincoli»
, come ad esempio medici volontari, in forma più o meno
associata, che curano presso i propri ambulatori o
appoggiandosi a realtà come la Caritas,
gli immigrati
irregolari.
L’esempio sanitario è interessante perché la sanità è un capitolo dello
Stato sociale molto importante e parecchio
costoso. La tendenza principale è quella di dire che le cure mediche si
danno anzitutto al contribuente, poi, in
base
alla cittadinanza, al cittadino nazionale, quindi all’immigrato
residente regolare, il quale spesso è anche
contribuente. Ci sono, però, anche gli ingombranti soggiornanti che
non hanno alcun titolo legale: in questo caso
cosa si può fare? La tendenza
principale, anche alla luce di politiche di integrazione più muscolari e confini
interni
www.edulingua.it
21
più rigidi, è di escludere gli immigrati irregolari, però vi è l’urgenza: se un
irregolare ha un attacco di appendicite, lo
lasciamo per la strada o lo ricoveriamo in
ospedale?
Ci si può ancora accordare, allora, di fornire le cure necessarie d’urgenza ed
escludere la medicina di base, ma nel
secondo caso, se in una città circolano persone irregolari malate che
non vengono curate, queste potranno o
ammalarsi seriamente
, quindi ricadranno nella casistica dell’urgenza, oppure sarà possibile
che essi diffondano
malattie nella popolazione. Anche in questo caso il dilemma si risolve
triangolando, ossia girando la faccia dall’altra
parte o favorendo il fatto che vi sia un att
ore non governativo che si fa carico del problema della sanità di base per
gli immigrati irregolari. In questo caso la norma è salva, la sovranità
dello Stato è garantita, ma le persone sono
curate perché ogni ipotesi diversa sarebbe disastrosa (Ambrosini
2013: 2).
2.4.4
Città multietniche
Ultima tendenza messa in luce da Ambrosini è il volto
multietnico delle nostre città, ovverosia la scelta di
valorizzare in chiave interculturale la diversità delle
popolazioni che fanno oramai parte del nostro vissuto
quotidi
ano.
Feste a tema, serate di musica etnica, manifestazioni della
gastronomia esotica presentate in formule ora più
folkloriche ora più ‘seriamente’ culturali.
Anche la religione ed anche in contesti molto secolarizzati (ad
esempio la laicissima Francia) to
rna ad essere
valorizzata come «
un canale di dialogo e
di costruzione della convivenza»
.
La funzione dell’Ente locale in questo, come
ci sarà
modo di approfondire
nel corso del lavoro
, è a dir poco
fondamentale nella misura in cui si fa garante di quelli c
he Demetrio c
hiama «diritti di appartenenza»
:
per un verso, esso si qualifica come l’organismo che opera perché ogni
cittadino, italiano o straniero, possa sentirsi
accolto e accettato dal territorio sentendolo come suo. Poco importa
se per breve o lungo
tempo. Senso di
appartenenza che l’incontro con le occasioni formative contribuisce a
indurre alla luce di altri principi oggi così
centrali. Su un altro versante, il diritto di appartenenza ha bisogno di
essere garantito in quanto necessità di
riconoscers
i nelle proprie radici culturali. Chi garantisce entrambi questi volti del senso
di appartenenza ha, dunque,
il compito di evitare ogni forma di ghettizzazione e di fare in modo
che ciò non avvenga andando incontro a chi,
soprattutto
,
desideri confrontarsi
con
il presente e trovare, qui ed o
ra, uno spazio di vita e di azione sociale
(Demetrio 1990: 142).
2.5
Perché un nuovo modello
?
Soprattutto
la parcellizzazione dell’emigrazione
,
che ha caratterizzato l’immigrazione in Italia con la
presenza di decine di gru
ppi etnici diversi
19

differenza per alcuni sostanziale rispetto alle esperienze della
Francia o della Germania
,
in cui la componente del Maghreb, nel primo caso,
turca/curda, nel secondo,
hanno da semp
re rappresentato la maggioranza ‘culturale’ con cui co
nfrontarsi

,
unitamente al ‘fallimento’
dei modelli esistenti, pone senza dubbio la domanda, non solo
se sia lecito ipotizzare un nuovo modello di
inclusione, ma soprattutto su cosa poggiare tale modello.
19
Se è
vero che gli immigrati provenienti dalla Romania (circa un milione),
dall’Albania e dal Marocco (circa 500 mila) e da Cina
e Ucraina (circa 200 mila) rappresentano a buon diritto quasi la metà
dei cittadini stranieri residenti in Italia, sono prese
nti nel
nostro Paese oltre 150 differenti nazionalità, e di queste 15 raggiungono o
superano le 100 mila unità (la dimensione media d
i un
capoluogo di provincia). 19 le lingue in cui il Ministero dell’Interno ha
ritenuto utile far tradurre tutti gli strumenti rel
ativi al
nuovo Accordo di Integrazione (D.P.R. 179/2011).
www.edulingua.it
22
Premettendo
:
a)
che la risposta alla domanda che
apre il paragrafo non è tanto contenuta in queste righe
,
quanto fa da
fil rouge
a tutto il nostro studio;
b)
che non si tratta tanto di proporre un modello teorico
,
quanto di leggere
,
dentro le dinamiche che
stanno connotando tutto il territorio nazionale do
po l
’uscita della legge 94/2009 e
soprattu
tto dei vari
decreti attuativi,
il consolidarsi del
modello di intervento
, idealmente
introdotto da
l documento
Italia
2020. Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e
Incontro
,
fortemente centrato sui ter
ritori e
sui reali biso
gni della popolazione immigrata,
le osservazioni che seguono partono dalla considerazione
che
,
nonostante

e forse anzi
proprio perché

i
continui sbarchi di immigrati sulle nostre coste in seguito a c
risi sempre più endemiche las
ci
no pensare ad
una condizione di
continua emergenza
, è necessario affrontare il ‘problema’ immigrazione in
maniera
coordinata e sistematica
.
Come osserva Carraresi (2007: 57)
,
i
bisogni degli immigrati non si esauriscono in mere necessità
strumentali tip
iche di una situazione di emergenza
legata soprattutto alla fase iniziale del progetto migratorio, ma dev
ono ormai essere inseriti in un
’ottica più generale
di accoglienza che favorisca un processo di integrazione nella nuova
cultura
,
salvaguardando al tem
po stesso (per
quanto possibile) quella di origine; un’ottica che tenga conto di una
scala differenziata di bisogni che vanno da
quelli che potremmo definire “primari” (identità, inserimento,
formazione) a bisogni più generali
,
tali da
promuovere una vera
integrazione (socializzazione, partecipazione, cultura).
Cosa questo significhi a livello ideale,
e al contempo
nella concretezza dell’agire quotidiano, lo spiega
Balboni (2004)
,
descrivendo quella dinamica che dal relativismo culturale,
passando per la t
olleranza e per il
rispetto, ci porta a
d un vero e proprio interesse per il
diverso, all’educazione ad un «piacere della
differenza», fino ad accorgersi che «
ci sono prove antropologiche sufficienti ad indicare che i
desideri
fondamentali o ultimi di tutti
gli esseri umani non differiscono fra loro di tanto di quanto
differiscono i loro
desideri quotidiani
»
(Maslow 1970: 65
-
66)
20
.
Questo interesse
all’altro, al
«
tu
»
non può e non deve ridursi ad una dinamica meram
ente filantropica, ma
esige la «
responsabile
decisione di individui e di comunità che sappiano recuperare il
senso di un percorso
educativo
-
culturale
-
politico capace di coniugare le esigenze della persona,
unica e irripetibile, e quelle
dell’appartenenza alla comunità umana, attraverso strategie
di
animazione capaci di rivitalizzare il tessu
to
antropologico del territorio»
(
Milan
2008: 9).
20
Osserva
Nkafu
(2003: 5): «E
sistono alcuni interrogativi essenziali e fondamentali, ai quali ciascun essere
umano pensante, quale
che sia la sua appartenenza culturale o di genere, cerca di dare un
a risposta. Sono interrogativi che attengono essenzialmente ad
una ricerca di senso dell’esistenza stessa, dell’agire umano nel mondo
e quindi, coinvolgono problematiche che, pur da divers
e
angolazioni, sono state oggetto di indagine da parte di più cultur
e: l’essere e l’esistenza, l’anima e il corpo, l’io e il mondo,
l’anima e Dio, la materia e lo spirito, la vita e le sue manifestazioni.
Ripercorrendo ognuno di questi universi culturali ci
si
accorge di essere di fronte ad una grande differenziazione di v
edute
,
ma anche davanti ad
una profonda unità sostanziale».
www.edulingua.it
23
È questo il motivo per cui, più che di un “modello
unitario”, quando descriviamo il consolidarsi di un
nascente “modello umanistico
” italiano
,
intendiamo piuttosto
il valorizzare quelle declinazioni locali,
territoriali, regionali che si pongono come risposta
realmente inclusiva

e non meramente istituzionale

alle istanze di una società plurilingue e pluricultur
ale
.
D’altronde, come riporta il documento
Italia 20
20
(
9)
,
l
’assunto di tale visione, che vogliamo definire dell’Identità Aperta, è la
consapevolezza di un livello elementare di
esperienza comune a tutti gli uomini, che abbatte gli steccati delle ideologie
ed è premessa per un incontro sincero e
per una a
ccoglienza all’interno dell’alveo tramandato dai nostri padri. Si tratta,
dunque, di una lettura dell’umana
vicenda che supera, da un lato, l’impostazione multiculturalista (per la
quale le differenti culture per convivere
debbono rimanere giustapposte e p
erfettamente divise), e, dall’altro, la matrice assimilazionista (che mira
alla
neutralizzazione delle tradizioni presenti in un ambito sociale a vantaggio di
quella che ospita le altre). Entrambe le
visioni, frutto di un pensiero relativista che di fatto
ritiene impossibile l’incontro, portano a una ghettizzazione
perfetta, inesorabile premessa del conflitto sociale come già verificato in
molti altri Paesi.
In una scelta
culturale di campo, spesso contrastata
sia dalle comunità monoculturali sia da quelle
multiculturali che hanno trovato un
modus vivendi
istituzionalizzato
, mentre è solo con «
l’interesse,
inter
esse
,“
essere fra

, che
l’arricchimento indotto dalla
differenziazione risulta pieno»
.
Balboni (2004: 28).
Il grande valore aggiunto
di
una polit
ica ‘pubblica’
che si pone quale guida
,
attraverso indicazioni normative
sempre più cogenti e sotto certi aspetti prescrittive
,
risiede infatti nel suo essere modello di coordinamento
sussidiario all’offerta didattica, sociale, umana che tanto
volontariato
ha
profuso
in questi anni

offerta
preziosa

grazie ad improvvisazione e tanto buon senso.
Il modello italiano potrà fu
nzionare solo individuando nel «popolo»
(Italia 2020: 9) il soggetto protagonista
di dinamiche inclusive e di una seria ricerca di coe
sione sociale. Valorizzando il terzo settore (Ambrosini
2013) in una sinergia pubblico
-
privato
realmente sussidiaria. Fin dagli inizi, la politica italiana
sull’immigrazione si è retta grazie a
persone e operatori sociali
in grado di incontrare
l’umanità d
egli altri e
coscienti di portare in sé qualcosa capace di
sostenere la sfida delle aspettative e delle esigenze di tutti
gli
altri in quanto uomini, al di sopra
delle determinazioni culturali particolari.
«
Da questo punto di vista è
possibile parlare di a
micizia
e fratellanza umane in maniera non retorica
»
21
(Italia 2020: 9).
Ma
per andare oltre l’emergenza
occorre
superare un’ottica ‘assistenzialista’
e valorizzare:
a)
la
tradizione di inclusione sociale (e linguistica) che il nostro
Paese
ha da sempre avu
to, a prescindere
dall’immigrazione da
Paesi
terzi, ma in forza di una storia forse millenaria di
incontro/scontro tra
culture differenti e culminata in un percorso unitario che

velleità di qualche politico a parte

non è
in discussione;
21
Nulla di retorico, infatti, hanno comunicato le immagini dei bagnanti
che proprio il giorno di ferragosto (15 agosto 2013) a
Morghella di Capo
Pachino
,
in provincia di Siracusa
, hanno formato un
a catena umana, aiutando lo sbarco di 160 immigrati tra
cui 50 bambini.
www.edulingua.it
24
b)
un
know how
no
n indifferente negli ambiti dell’interculturalità, della
glottodidattica, della
sociologia...
;
c)
un percorso normativo che, sapendo guardare con
intelligenza quanto avvenuto nei
Paesi
con più
longeva tradizione di accoglienza degli immigrati, ma
sentendosi al
tresì liberi da ‘modelli
preconfezionati’, sia in grado di offrire il necessario quadro di
riferimento
,
avviando una dinamica sistem
ica oramai inevitabile
e consolidando, proprio a partire
dall’istituzionalizzazione di buone pratiche diffuse sul
territori
o,
un

modello umanistico

italiano per
l’inclusione linguistica e socioculturale degli immigrati.
www.edulingua.it
25

BIBLIOGRAFIA
A
MBROSINI
M., 2013, “La ricerca della coesione sociale per vivere in
città multiculturali”, in
Rezzara
notizie,
n. 4.
A
MBROSINI
M. (a cura di)
, 2012,
Governare città plurali
.
Politiche locali di
A
NTONELLI
V., 2012, “Quale disciplina della cittadinanza per
l’inclusione sociale”, in
Per l’inclusione
sociale. Politiche pubbliche e garanzia dei diritti,
Roma, Astrid.
B
ALBONI
P.
E.,
2002, “Conflitti
di cultura/civiltà in una classe inter/multiculturale”, in
A
A
.V
V
.,
Atti del IV
seminario di aggiornamento insegnanti di italiano L2,
Roma,
A
SILS
.
B
ALBONI
P.
E
., 2004, “Being Many and Being One. The Language
Policy of the European Union”, in
Mosaic
, n. 3.
B
ALBONI
P.
E
., 2004, “La comunicazione interculturale nella classe con
immigrati”, in
M.
F
IORUCCI
a cura
di),
Incontri. Spazi e luoghi della mediazione interculturale
, Roma, Armando.
B
ALBONI
P.
E.
, 2004, “Transition to Babel: The Language Policy of the
Eur
opean Union”, in
Transition
Studies Review
, n. 3.
B
ALBONI
P.
E.,
2006,

Dal «Quadro di Riferimento» al «Piano d’Azione» e al
«Quadro Strategico per il
Multilinguismo»: linee di politica linguistica europea del
prossimo decennio”, in
M
EZZADRI
M. (a

Potrebbero piacerti anche