interculturale
Crediamo che questa citazione, tratta da uno dei padri della ricerca sulla
comunicazione interculturale, sia illuminante sul piano didattico. Riprendiamo le
tre nozioni evidenziate da Hofstede: consapevolezza, esperienza ed abilità.
Il presente volume ha come scopo quello di portare alla consapevolezza della
varietà del mondo e di come questa influisca sull’interazione tra persone che
appartengono a culture differenti. Nel complesso del volume, questo ultimo
capitolo, specificamente didattico, illustrerà come ogni persona, in maniera
autonoma o in contesti di formazione, possa trarre vantaggio dalla propria
esperienza di comunicazione interculturale, come possa continuare ad imparare
dalla propria interazione con membri di altre culture, costruendo giorno dopo
giorno la propria abilità, che nel nostro linguaggio specifico abbiamo sempre
definito “competenza comunicativa interculturale”.
Riprendiamo ora la “filosofia” interculturale che abbiamo esposto nel
paragrafo 0.3 per costruire su quelle basi una proposta didattica coerente con
tutta l’impostazione del volume. Se è vero che entrare in una prospettiva
interculturale non significa abbandonare i propri valori ma (a) conoscere gli altri,
(b) tollerare le differenze almeno fino a quando non entrano nella sfera
dell’immoralità che, secondo i nostri standard, non intendiamo accettare, (c)
rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano
solo alle diverse culture, (d) accettare il fatto che alcuni modelli culturali degli
altri possono essere migliori dei nostri e, in questo caso, (e) mettere in
discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti; e se è vero che
l’interculturalità come l’abbiamo definita noi è un atteggiamento di fondo, che
prende atto della ricchezza insita nella varietà, che non si propone
l’omogenizzazione ma mira soltanto di permettere un’interazione il più piena e
fluida possibile tra le diverse culture, ne consegue che formare alla
comunicazione (e, più in generale, ad un atteggiamento) interculturale significa
formare:
Il fatto di avere delle voci da osservare porta a “vedere” degli atteggiamenti,
dei gesti, dei valori della nostra cultura che prima passavano inosservati, quasi
fossero naturali e non culturali, e che nella stessa scheda queste osservazioni si
mescolino con quelle relative ad altre culture, mettendo le basi per un
comparazione interculturale.
Che sia realizzata su computer o su carta, questa tassonomia rappresenta uno
strumento semplice ma efficace per uscire dagli stereotipi e creare, se possibile,
dei sociotipi.
I domini che abbiamo selezionato, e che abbiamo articolato in una serie di voci
che ciascuno può modificare o integrare a seconda dei propri interessi, sono i
seguenti:
Molti esempi contenuti contenuti in questo libro, così come le raccolte
aneddotiche della letteratura sulla comunicazione interculturale in azienda e
come i siti Internet sulla comunicazione interculturale (cfr. 8.1) sono obsoleti nel
momento in cui vengono pubblicati: la rapidità degli scambi internazionali che
portano le persone e le immagini televisive e multimediali in giro per il mondo
fanno sì che l’interscambio di modelli culturali e di modelli di comunicazione
interculturale sia fluidissimo, costante, inarrestabile e non descrivibile in tempo
reale.
Al contrario, la struttura concettuale che abbiamo posto alla base di questo
volume non si modifica con il tempo: il concetto di competenza comunicativa
interculturale collocata sullo sfondo di alcuni valori culturali e di alcuni fattori di
particolare rischio comunicativo (essenzialmente, quanto discusso nei paragrafi
1.6, 1.7 e nel capitolo 2) ci pare un modello universale, almeno allo stato attuale
della ricerca, ci pare cioè in grado di descrivere il fenomeno indipendentemente
dal luogo e ieri come oggi o domani – fatto salvo il cambiamento indotto dalla
comparsa di strumenti comunicativi di massa, del computer, ecc.
Se è vero che il modello di descrizione della competenza comunicativa
interculturale è affidabile, allora chi opera in ambiente internazionale può creare,
come abbiamo detto già per la griglia presentata in 7.1, un file oppure impostare
un quaderno a fogli mobili indicando gli elementi della competenza comunicativa
interculturale da tenere sotto osservazione quando si interagisce con stranieri,
quando si va all’estero, quando si raccontano aneddoti a tavola, quando si
guardano film stranieri.
L’elenco è implicito nell’indice di questo volume e può essere arricchito,
specialmente per quanto riguarda i valori culturali, da alcune voci riprese dalla
griglia del paragrafo precedente. I modelli culturali e comunicativi da osservare
sono:
-
contro di parlanti lingue diverse) nativizzate, la creolizzazione introduce
un’idea di creatività e di imprevedibilità propria di quello che la comuni-
cazione è sempre: una costruzione di significati originali tra persone che
interpretano delle culture.
Un ulteriore punto di arrivo per noi è rappresentato dalla proposta
del concetto di ‘cultura di appartenenza’ da intendersi come categoria
di fondo della quale prendere piena coscienza e sulla quale costruire
poi le relazioni. La cultura d’appartenenza è una costruzione soggettiva,
un’autopercezione del proprio originale modo di vivere e reinterpretare
norme, valori e abitudini di una società.
Essa non è descrivibile in maniera definita e conclusa poiché ognuno
di noi costruisce la propria appartenenza nell’intersoggettività, nella re-
lazione con gli altri ed è innanzitutto espressione delle conoscenze che
assimila e delle esperienze che fa.
Accorgersi di noi stessi mentre comunichiamo con gli altri, dei nostri
paradigmi che diamo spesso per scontati (e spesso per aprioristicamente
114
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
giusti o come gli unici possibili) è il primo grande obiettivo per poter darci
una possibilità di scelta che altrimenti, restando staticamente nella no-
stra cornice culturale, non potremmo avere: come afferma Umberto Eco,
«riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che siamo pronti
a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili».
La grande possibilità che ci offre la comunicazione interculturale è,
quindi, quella di guardare meglio gli altri grazie ad uno sguardo più at-
tento ma, prima ancora, di guardare meglio noi stessi attraverso gli altri,
potendo disporre di angolazioni plurali e inaspettate, valorizzando il mag
-
gior potenziale di differenze rappresentate da lingue e linguaggi diversi.
Bibliografia
2
Balboni, P.E. (1999).
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-
cazione interculturale
.
Venezia: Marsilio.
Balboni, P.E. (2002). «Conflitti di cultura/civiltà in una classe inter/mul
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. Venezia: Marsilio.
Balboni, P.E.; Caon, F. (2014).
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cultural Communicative Competence
[online]. Disponibile all’indiriz
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https://iris.unive.it/retrieve/handle/10278/42489/31208/A%20
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(2016 - 03 -11).
Balboni, P.E.; Caon, F. (2015).
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. Venezia:
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Boella, L. (2006).
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Byram, M.S. (2008).
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-
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Caon, F. (a cura di) (2008).
Tra lingue e culture
. Milano: Bruno Mondadori-
Pearson.
2
In questa sede presentiamo esclusivamente i testi citati nel saggio. Per un’ampia biblio
-
grafia di riferimento, consultare Balboni, Caon 2015.
Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo
, pp. 95-116
Caon. Dalla cultura e civiltà straniera alla comunicazione interculturale
115
Caon, F. (2014). «Cultura e civiltà nella didattica delle lingue: Una tra
-
dizione omogenea, una prospettiva tripartita (parte seconda)».
SeLM
(Scuola e Lingue Moderne)
, 53 (1-2).
Caon F. (2013). «Cultura e civiltà nella didattica delle lingue: Una tra
-
dizione omogenea, una prospettiva tripartita (parte prima)».
Se
www.edulingua.it
17
In te
rmini pratici, osserva Campomori (2012: 43)
,
«
la realizzazione di questo principio ha significato
l’introduzione di percorsi di integrazione attraverso la
somministrazione di test linguistici e/o di conoscenza
della cultura e della storia del
Paese
ospite,
nonché la predisposizione di co
rsi di integrazione obbligatori»
16
.
Rimandando
alla seconda parte del lavoro
l’approfondimento di tali ‘vincoli’ normativi legati alla
conoscenza della lingua, in un necessario parallelismo tra le
principali realtà europee, v
ale qui il sottolineare
come l
o spostamento del concetto di integrazione da aspetti
idealmente culturali (assimilazione alla cultura
ospite
vs
accettazione di convivenza civica pluri/multiculturale) ad
aspetti pragmatici di comunicazione
(semmai intercultu
rale)
–
in quanto la conoscenza linguistica “certificata” è divenuto
uno dei requisiti
fondanti, quando non il requisito fondamentale
–
ha determinato una serie di riflessioni ulteriori sulle
dinamiche qu
otidiane che chiamano in causa «
problemi reali, con
persone in carne ed ossa e con situ
azioni
concrete e problematiche»
(Ambrosini 2013:1).
L’introduzione dei test di integrazione in numerosi Stati europei,
infatti, ha dato il via ad un acceso dibattito
sulle implicazioni sociali in termini di diritti e lib
ertà e
sono state sollevate perplessità, per non dire
obiezioni, sul fatto che non sia lecito ad uno Stato
democratico pretendere l’assimilazione come grado
ulteriore rispetto all’accettazione dei principi costituzionali,
ovvero come disponibilità all’accu
lturazione
(Habermas
2008:
157).
2.4
Nuove ‘tendenze’ da affrontare
Nel panorama dei modelli di integrazione l’Italia, come
unanimemente riconosciuto, non
ha ancora
chiaramente definito
una
sua ‘via’
né ideale, né pragmatica
17
che
abbia come obbiettivo la real
e inclusione
della componente immigrata nel tessuto sociale, né ha mai
fatto esplicito riferimento ad uno dei modelli
classici di inclusione, né viene inserito nella letteratura in alcuno
di essi (Campomori 2012: 50).
Al più, dagli anni ’90 in poi
si è dat
o vita ad una serie di «azioni
-
tampone»
(Vanfretti 2013) che per alcuni
rispecchiano l’ipocrisia di fondo di un assetto normativo, certo
non limitato alla Bossi
-
Fini, ma orientato alla
gestione del mero approvvigionamento di manodopera
(Cacciapuoti 2009).
Eppure, dallo studio di una serie di realtà europee e dallo
stretto paragone con le dinamiche italiane, è
possibile individuare 4 nuove “tendenze” (così vengono
definite in Ambrosini 2013) affrontando le quali,
con un esame attento, è possibile pianificare
, almeno tentativamente, sistemi di intervento efficaci per
un
16
Come ricorda sempre Campomori, l’Olanda è stata tra le prime nazioni ad
istituire Corsi di Integrazione obblig
atori di 600 ore,
con insegnamento della lingua olandese, educazione civica e
preparazione per il mercato del lavoro. I corsi erano gratuiti, m
a
–
soprattutto
–
la mancata frequenza non comportava particolari sanzioni, come invece è
stato dal 2006, anno in
cui la nuova legge
sull’Integrazione Civica ha legato il super
a
mento di un test (che è diventato a carico dell’immigrato) al permesso di
soggiorno di
lunga durata. In questo facendo scuola alle altre nazioni europee, compresa
l’Italia che
–
come vedremo n
el
cap.5
–
ha fatto suo un
sistema simile con la legge 94 del 2009, s
i
gnificativamente intitolata “
Disposizioni in materia di sicurezza pubblica
”.
17
Come già accennato, esiste in realtà un documento ufficiale che è il
Piano per l’integrazione nella sicurez
za
. Identità e
incontro
. Italia 2020
, ma forse è ancora prematuro considerarlo tout court come il modello
italiano.
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18
modello di inclusi
one e far sì che
Italia 2020
, diventi
–
da iniziale documento di indirizzo
–
una base solida
su cui impostare interventi concreti ed
efficienti.
2.4.1
Eterogeneità dell’immigrazion
e
Uno dei grossi limiti a piani di intervento efficaci
, ad esempio,
è l’aver da sempre confuso all’interno di un
unico, enorme ‘calderone’ quello che in realtà è
l’estremamente variegato mondo dell’immigrazione. La
facilità con cui
noi italiani identifichi
amo il ‘diverso’
è legata, infatti, alla rapidità con cui i cambiamenti
imposti dalle dinamiche migratorie si sono verificati.
Ma
–
come ben sottolinea Ambrosini
–
andando in giro per l’Europa, alla domanda “Quanti sono gli immigrati
nella vostra città?
” la risposta era un’altra
domanda, ovvero “Che cosa intendete per immigrati?”
.
Proviamo a pensare a Bruxelles, il caso più interessante da
questo punto di vista, dove sono presenti sia i lavoratori immigrati e
le loro famiglie sia gli espatriati dell’Unio
ne
europea, che ugualmente sono persone che provengono dall’estero ed
hanno cittadinanza di un altro Paese. Ai
registri dell’anagrafe, però, non è allegata la denuncia del reddito,
quindi distinguere questi due gruppi è
praticamente impossibile: a Bruxelle
s ci sono i romeni professionisti espatriati e i Rom o gli immigrati poveri e
tutti
costoro non sono distinguibili l’uno dall’altro dal punto di vista anagrafico o
istituzionale.
E se è vero che in
Paesi
con una lunga storia di immigrazione le cose si com
plicano terribilmente per la
presenza di persone che hanno ormai acquisito la
cittadinanza nazionale (per cui sono immigrati, ma non
stranieri), seconde e terze generazioni, matrimoni misti e
‘mescolanze’ varie, anche in Italia, come
dimostreremo più avant
i, il problema comincia a farsi rilevante nella misura in cui
si presentano ai CTP
18
per l’iscrizione ai
corsi di integrazione linguistica
e sociale
un albanese, un moldavo, un romeno e un
polacco. Mentre i primi due possono essere inseriti senza
distinzion
e all’interno di un
Corso di integrazione
linguistica e sociale,
‘curricolare’ o a finanziamento FEI, gli altri due non possono
essere inseriti nella classe
di lingua e formazione civica
attivata con un finanziamento del Fondo Europeo per
l’Integrazione
(F
EI)
in
quanto questo è riservato ai “cittadini di
Paesi
terzi”, ovverosia non membri dell’UE.
Ma ai fini della coesione sociale
l’importanza della conoscenza linguistica vale per gli uni come
per gli altri.
Se poi ci spostiamo sul fronte giuridico, come so
ttolin
ea ancora Ambrosini (2013: 2), «
l’ingresso dei Paesi
dell’Europa orientale nell’Unione Europea ha aggiunto un
grande elemento di differenziazione perché un
cittadino romeno, bulgaro o polacco gode di diritti molto vicini a
quelli di un cittadino ital
iano e può entrare
e uscir
e da un Paese senza limitazioni»
. Il meccanismo dell’espulsione legato a pratiche di
delinquenza,
ovviamente, diventa quasi risibile e si apre un dilemma politico
di dimensioni ‘incontrollate’
:«
privilegiamo
la sicurezza utilizzan
do barriere e filtri, rafforzando i controlli e rendendo più
problematico il turismo e gli
scambi commerciali, oppure andiamo verso una maggiore
integrazione su scala europea facilitando la
18
Centri Territoriali Permanenti per l’Educazione degli Adulti, istituiti con
l’O.M. 455/1997. Se ne parlerà diffusamente più
avanti.
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19
mobilità, come si è fatto in questi anni, e diminuendo il
controll
o pubblico sulla mobilità
interna europea
delle persone?»
.
Un altro caso di palese eterogeneità
–
verificatosi all’interno delle
Sessioni di formazione civica ed
i
nformazione
introdotte dal DPR 179 del 14 settembre 2011 (cfr
.
6.4.4
)
–
è dato dalla frequenz
a di immigrati
sostanzialmente analfabeti e immigrati in Italia per motivi, ad
esempio, di ricerca universitaria.
La competenza richiesta per comprendere i contenuti
previsti dall’Accordo di Integrazione
–
sebbene la
Sessione avvenga nella lingua dell’immi
grato
–
pone una naturale distanza tra le due persone e, dovendo
successivamente valutare gli esiti di tale Sessione Formativa, al
somministratore, docente o tutor che sia, si
porranno inevitabi
lmente scrupoli:
privilegiare la frequenza o l’effettiva compr
ensione dei contenuti?
Sebbene
più avanti
torneremo più approfonditamente sulla questione, per il
momento
crediamo
sia
importante tenere in adeguata considerazione l’
eterogeneità del concetto di immigrato
,
in una presa di
coscienza
che, in buona sostanza,
diviene requisito indispensabile per qualsiasi piano di
inclusione.
2.4.2
Ricerca di “coesione sociale”
In maniera non dissimile da quanto abbiamo già segnalato
a proposito del termine inclusione (cfr.
1.2.1
)
,
Ambrosini rac
coglie «
sotto l’ombrello della coesion
e sociale [...] preoccupazioni e punti di vista diversi
che, nel nostro caso, significano riqualificazione dei quartieri
difficili, investimenti sulla scolarità delle fasce
deboli, promozione dell’occupazione di gruppi disagiati, misure
a favore delle famigl
ie, in particolare quelle
frag
ili, ricongiungimenti familiari»
.
Si tratta fondamentalmente di avere in mente una visione
d’insieme più ampia che tenga conto che
l’applicazione di politiche di integraz
ione in pura chiav
e ostativa
–
per avere il permesso di
soggiorno di
lunga durata occorre dimostrare di possedere una conoscenza
della lingua itali
ana non inferiore al livello A2
–
non produce di per sé garanzia di reale inclusione.
Una politica che si traduca, invece, in provvedimenti mirati
all’accoglienza de
ll’immigrato va affrontata
nell’ottica di tener conto di tutti i suoi bisogni, a partire da
quelli ‘fisiologici’, su su fino a completare la
scala che Maslow
(cfr.
infra
)
ha identificato come gerarchia dei bisogni fondamentali.
L’uomo
–
sostiene lo psicolo
go statunitense (Maslow
1970
: 86
-
87)
–
,
quando è dominato da alcuni bisogni,
tende a mutare anche tutto il suo sguardo verso il futuro, al
punto tale che la cultura in sé è uno strumento di
adattamento fra le cui principali funzioni c’è quella di
ridurre i
l più possibile le situazioni di emergenza
fisiologica.
Pensare che un immigrato rimasto senza lavoro abbia come
priorità quella di integrarsi con il tessuto sociale
circostante è un’illusione ormai superata, tanto che
Campomori
,
analizzando alcuni dati de
l CNEL
relativamente all’integrazi
one sociale dei migranti nelle regioni i
taliane
,
sulla base di un pacchetto di
indicatori di natura demografica e socio
-
economica, rileva come due regioni con dichiarata diversità
di
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20
approccio al problema immigrazione come
il Veneto e l’Emilia Romagna (il primo a lungo guidato dal
Centrodestra e da leader politici decisamente poco
propensi all’accoglienza, la seconda tradizionalmente
guidata dal Centrosinistra e ben più favorevole nei
confronti degli immigrati) si trovino i
n realtà appaiate
nell’indicatore del potenziale integrativo studiato dal
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
,
grazie evidentemente alle situazioni strutturali del territorio,
mercato del lavoro
in primis
.
Avere un lavoro regolare, a lungo term
ine e con uno stipendio dignitoso permette agli immigrati e alle loro famiglie
di poter alzare lo sguardo dalle necessità propriamente primarie e di inserirsi
con maggiore slancio negli stili di vita
e nella cultura della società ospite (Campomori 2012: 65
).
2.4.3
Sinergie pubblico
-
privato e triangolazione
Non sono da sottovalutare, poi, all’interno delle dinamiche
che contribuiscono all’inclusione, le reti
informali di mutuo aiuto che vengono a formarsi,
autonomamente o in relazione più o meno stretta con
l’int
ervento pubblico, per l’intervento del terzo settore o
direttamente per iniziativa dei migranti
(associazioni,
network
più o meno formalizzati, ecc.).
Sono due tendenze che Ambrosini etichetta come
“sinergia pubblico
-
privato” e “tolleranza e
triangolazione
”, ma che noi preferiamo far confluire in un unico
rilevante
fenomeno.
L’importanza di sindacati, istituzioni o associazioni di ispirazione
religiosa o anche laica, ma improntate ad
azioni di tipo umanitario risiede, oltreché nella capillarità
della diffus
ione e nella capacità di prima
accoglienza
,
cui spesso il pubblico non riesce a dare adeguata
risposta, soprattutto nella ‘gestione’ di una
partita generalmente molto difficile e delicata per il livello
istituzionale: la tutela degli immigrati in
condizion
i irregolari, ad esempio, ovvero dei richiedenti asilo che
–
il più
delle volte
–
si trovano in un
limbo
normativo che rende complesso qualsiasi intervento, diciamo
così,
istituzionalizzato
.
L’impossibilità che hanno le i
sti
tuzioni pubbliche, infatti, di «
sconfessare una politica nazionale che afferma
l’esistenza di confini, la sovranità dello Stato, l’impossibilità di
dimorare nel nostro St
ato senza permesso di
soggiorno»
(Ambrosini 2013: 8) rischierebbe di creare forme di
discriminazione p
ericolose non so
lamente
per la coesione
, ma anche per la tenuta stessa della struttura sociale
nazionale. Queste persone
–
continua
Ambrosini
–
«
sono arrivate e rimaste, e la questione, in una certa
misura, va affrontata. Il modo più
semplice, più accorto, più avveduto pe
r gestire il problema è quello di passare attraverso
soggetti non
governativi
che, quindi, hanno meno vincoli»
, come ad esempio medici volontari, in forma più o meno
associata, che curano presso i propri ambulatori o
appoggiandosi a realtà come la Caritas,
gli immigrati
irregolari.
L’esempio sanitario è interessante perché la sanità è un capitolo dello
Stato sociale molto importante e parecchio
costoso. La tendenza principale è quella di dire che le cure mediche si
danno anzitutto al contribuente, poi, in
base
alla cittadinanza, al cittadino nazionale, quindi all’immigrato
residente regolare, il quale spesso è anche
contribuente. Ci sono, però, anche gli ingombranti soggiornanti che
non hanno alcun titolo legale: in questo caso
cosa si può fare? La tendenza
principale, anche alla luce di politiche di integrazione più muscolari e confini
interni
www.edulingua.it
21
più rigidi, è di escludere gli immigrati irregolari, però vi è l’urgenza: se un
irregolare ha un attacco di appendicite, lo
lasciamo per la strada o lo ricoveriamo in
ospedale?
Ci si può ancora accordare, allora, di fornire le cure necessarie d’urgenza ed
escludere la medicina di base, ma nel
secondo caso, se in una città circolano persone irregolari malate che
non vengono curate, queste potranno o
ammalarsi seriamente
, quindi ricadranno nella casistica dell’urgenza, oppure sarà possibile
che essi diffondano
malattie nella popolazione. Anche in questo caso il dilemma si risolve
triangolando, ossia girando la faccia dall’altra
parte o favorendo il fatto che vi sia un att
ore non governativo che si fa carico del problema della sanità di base per
gli immigrati irregolari. In questo caso la norma è salva, la sovranità
dello Stato è garantita, ma le persone sono
curate perché ogni ipotesi diversa sarebbe disastrosa (Ambrosini
2013: 2).
2.4.4
Città multietniche
Ultima tendenza messa in luce da Ambrosini è il volto
multietnico delle nostre città, ovverosia la scelta di
valorizzare in chiave interculturale la diversità delle
popolazioni che fanno oramai parte del nostro vissuto
quotidi
ano.
Feste a tema, serate di musica etnica, manifestazioni della
gastronomia esotica presentate in formule ora più
folkloriche ora più ‘seriamente’ culturali.
Anche la religione ed anche in contesti molto secolarizzati (ad
esempio la laicissima Francia) to
rna ad essere
valorizzata come «
un canale di dialogo e
di costruzione della convivenza»
.
La funzione dell’Ente locale in questo, come
ci sarà
modo di approfondire
nel corso del lavoro
, è a dir poco
fondamentale nella misura in cui si fa garante di quelli c
he Demetrio c
hiama «diritti di appartenenza»
:
per un verso, esso si qualifica come l’organismo che opera perché ogni
cittadino, italiano o straniero, possa sentirsi
accolto e accettato dal territorio sentendolo come suo. Poco importa
se per breve o lungo
tempo. Senso di
appartenenza che l’incontro con le occasioni formative contribuisce a
indurre alla luce di altri principi oggi così
centrali. Su un altro versante, il diritto di appartenenza ha bisogno di
essere garantito in quanto necessità di
riconoscers
i nelle proprie radici culturali. Chi garantisce entrambi questi volti del senso
di appartenenza ha, dunque,
il compito di evitare ogni forma di ghettizzazione e di fare in modo
che ciò non avvenga andando incontro a chi,
soprattutto
,
desideri confrontarsi
con
il presente e trovare, qui ed o
ra, uno spazio di vita e di azione sociale
(Demetrio 1990: 142).
2.5
Perché un nuovo modello
?
Soprattutto
la parcellizzazione dell’emigrazione
,
che ha caratterizzato l’immigrazione in Italia con la
presenza di decine di gru
ppi etnici diversi
19
–
differenza per alcuni sostanziale rispetto alle esperienze della
Francia o della Germania
,
in cui la componente del Maghreb, nel primo caso,
turca/curda, nel secondo,
hanno da semp
re rappresentato la maggioranza ‘culturale’ con cui co
nfrontarsi
–
,
unitamente al ‘fallimento’
dei modelli esistenti, pone senza dubbio la domanda, non solo
se sia lecito ipotizzare un nuovo modello di
inclusione, ma soprattutto su cosa poggiare tale modello.
19
Se è
vero che gli immigrati provenienti dalla Romania (circa un milione),
dall’Albania e dal Marocco (circa 500 mila) e da Cina
e Ucraina (circa 200 mila) rappresentano a buon diritto quasi la metà
dei cittadini stranieri residenti in Italia, sono prese
nti nel
nostro Paese oltre 150 differenti nazionalità, e di queste 15 raggiungono o
superano le 100 mila unità (la dimensione media d
i un
capoluogo di provincia). 19 le lingue in cui il Ministero dell’Interno ha
ritenuto utile far tradurre tutti gli strumenti rel
ativi al
nuovo Accordo di Integrazione (D.P.R. 179/2011).
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22
Premettendo
:
a)
che la risposta alla domanda che
apre il paragrafo non è tanto contenuta in queste righe
,
quanto fa da
fil rouge
a tutto il nostro studio;
b)
che non si tratta tanto di proporre un modello teorico
,
quanto di leggere
,
dentro le dinamiche che
stanno connotando tutto il territorio nazionale do
po l
’uscita della legge 94/2009 e
soprattu
tto dei vari
decreti attuativi,
il consolidarsi del
modello di intervento
, idealmente
introdotto da
l documento
Italia
2020. Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e
Incontro
,
fortemente centrato sui ter
ritori e
sui reali biso
gni della popolazione immigrata,
le osservazioni che seguono partono dalla considerazione
che
,
nonostante
–
e forse anzi
proprio perché
–
i
continui sbarchi di immigrati sulle nostre coste in seguito a c
risi sempre più endemiche las
ci
no pensare ad
una condizione di
continua emergenza
, è necessario affrontare il ‘problema’ immigrazione in
maniera
coordinata e sistematica
.
Come osserva Carraresi (2007: 57)
,
i
bisogni degli immigrati non si esauriscono in mere necessità
strumentali tip
iche di una situazione di emergenza
legata soprattutto alla fase iniziale del progetto migratorio, ma dev
ono ormai essere inseriti in un
’ottica più generale
di accoglienza che favorisca un processo di integrazione nella nuova
cultura
,
salvaguardando al tem
po stesso (per
quanto possibile) quella di origine; un’ottica che tenga conto di una
scala differenziata di bisogni che vanno da
quelli che potremmo definire “primari” (identità, inserimento,
formazione) a bisogni più generali
,
tali da
promuovere una vera
integrazione (socializzazione, partecipazione, cultura).
Cosa questo significhi a livello ideale,
e al contempo
nella concretezza dell’agire quotidiano, lo spiega
Balboni (2004)
,
descrivendo quella dinamica che dal relativismo culturale,
passando per la t
olleranza e per il
rispetto, ci porta a
d un vero e proprio interesse per il
diverso, all’educazione ad un «piacere della
differenza», fino ad accorgersi che «
ci sono prove antropologiche sufficienti ad indicare che i
desideri
fondamentali o ultimi di tutti
gli esseri umani non differiscono fra loro di tanto di quanto
differiscono i loro
desideri quotidiani
»
(Maslow 1970: 65
-
66)
20
.
Questo interesse
all’altro, al
«
tu
»
non può e non deve ridursi ad una dinamica meram
ente filantropica, ma
esige la «
responsabile
decisione di individui e di comunità che sappiano recuperare il
senso di un percorso
educativo
-
culturale
-
politico capace di coniugare le esigenze della persona,
unica e irripetibile, e quelle
dell’appartenenza alla comunità umana, attraverso strategie
di
animazione capaci di rivitalizzare il tessu
to
antropologico del territorio»
(
Milan
2008: 9).
20
Osserva
Nkafu
(2003: 5): «E
sistono alcuni interrogativi essenziali e fondamentali, ai quali ciascun essere
umano pensante, quale
che sia la sua appartenenza culturale o di genere, cerca di dare un
a risposta. Sono interrogativi che attengono essenzialmente ad
una ricerca di senso dell’esistenza stessa, dell’agire umano nel mondo
e quindi, coinvolgono problematiche che, pur da divers
e
angolazioni, sono state oggetto di indagine da parte di più cultur
e: l’essere e l’esistenza, l’anima e il corpo, l’io e il mondo,
l’anima e Dio, la materia e lo spirito, la vita e le sue manifestazioni.
Ripercorrendo ognuno di questi universi culturali ci
si
accorge di essere di fronte ad una grande differenziazione di v
edute
,
ma anche davanti ad
una profonda unità sostanziale».
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23
È questo il motivo per cui, più che di un “modello
unitario”, quando descriviamo il consolidarsi di un
nascente “modello umanistico
” italiano
,
intendiamo piuttosto
il valorizzare quelle declinazioni locali,
territoriali, regionali che si pongono come risposta
realmente inclusiva
–
e non meramente istituzionale
–
alle istanze di una società plurilingue e pluricultur
ale
.
D’altronde, come riporta il documento
Italia 20
20
(
9)
,
l
’assunto di tale visione, che vogliamo definire dell’Identità Aperta, è la
consapevolezza di un livello elementare di
esperienza comune a tutti gli uomini, che abbatte gli steccati delle ideologie
ed è premessa per un incontro sincero e
per una a
ccoglienza all’interno dell’alveo tramandato dai nostri padri. Si tratta,
dunque, di una lettura dell’umana
vicenda che supera, da un lato, l’impostazione multiculturalista (per la
quale le differenti culture per convivere
debbono rimanere giustapposte e p
erfettamente divise), e, dall’altro, la matrice assimilazionista (che mira
alla
neutralizzazione delle tradizioni presenti in un ambito sociale a vantaggio di
quella che ospita le altre). Entrambe le
visioni, frutto di un pensiero relativista che di fatto
ritiene impossibile l’incontro, portano a una ghettizzazione
perfetta, inesorabile premessa del conflitto sociale come già verificato in
molti altri Paesi.
In una scelta
culturale di campo, spesso contrastata
sia dalle comunità monoculturali sia da quelle
multiculturali che hanno trovato un
modus vivendi
istituzionalizzato
, mentre è solo con «
l’interesse,
inter
esse
,“
essere fra
”
, che
l’arricchimento indotto dalla
differenziazione risulta pieno»
.
Balboni (2004: 28).
Il grande valore aggiunto
di
una polit
ica ‘pubblica’
che si pone quale guida
,
attraverso indicazioni normative
sempre più cogenti e sotto certi aspetti prescrittive
,
risiede infatti nel suo essere modello di coordinamento
sussidiario all’offerta didattica, sociale, umana che tanto
volontariato
ha
profuso
in questi anni
–
offerta
preziosa
–
grazie ad improvvisazione e tanto buon senso.
Il modello italiano potrà fu
nzionare solo individuando nel «popolo»
(Italia 2020: 9) il soggetto protagonista
di dinamiche inclusive e di una seria ricerca di coe
sione sociale. Valorizzando il terzo settore (Ambrosini
2013) in una sinergia pubblico
-
privato
realmente sussidiaria. Fin dagli inizi, la politica italiana
sull’immigrazione si è retta grazie a
persone e operatori sociali
in grado di incontrare
l’umanità d
egli altri e
coscienti di portare in sé qualcosa capace di
sostenere la sfida delle aspettative e delle esigenze di tutti
gli
altri in quanto uomini, al di sopra
delle determinazioni culturali particolari.
«
Da questo punto di vista è
possibile parlare di a
micizia
e fratellanza umane in maniera non retorica
»
21
(Italia 2020: 9).
Ma
per andare oltre l’emergenza
occorre
superare un’ottica ‘assistenzialista’
e valorizzare:
a)
la
tradizione di inclusione sociale (e linguistica) che il nostro
Paese
ha da sempre avu
to, a prescindere
dall’immigrazione da
Paesi
terzi, ma in forza di una storia forse millenaria di
incontro/scontro tra
culture differenti e culminata in un percorso unitario che
–
velleità di qualche politico a parte
–
non è
in discussione;
21
Nulla di retorico, infatti, hanno comunicato le immagini dei bagnanti
che proprio il giorno di ferragosto (15 agosto 2013) a
Morghella di Capo
Pachino
,
in provincia di Siracusa
, hanno formato un
a catena umana, aiutando lo sbarco di 160 immigrati tra
cui 50 bambini.
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24
b)
un
know how
no
n indifferente negli ambiti dell’interculturalità, della
glottodidattica, della
sociologia...
;
c)
un percorso normativo che, sapendo guardare con
intelligenza quanto avvenuto nei
Paesi
con più
longeva tradizione di accoglienza degli immigrati, ma
sentendosi al
tresì liberi da ‘modelli
preconfezionati’, sia in grado di offrire il necessario quadro di
riferimento
,
avviando una dinamica sistem
ica oramai inevitabile
e consolidando, proprio a partire
dall’istituzionalizzazione di buone pratiche diffuse sul
territori
o,
un
“
modello umanistico
”
italiano per
l’inclusione linguistica e socioculturale degli immigrati.
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