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• La com.interculturale è vecchia quanto il genere umano.

Le culture
 hanno sempre comunicato tra di loro, influenzandosi a vicenda, ma
anche cercando di dominare le une sulle altre. Come area di studio la
c.i. ha origine intorno agli anni Settanta per lo più negli USA. La
protesta studentesca del Sessantotto, la crescente consapevolezza
delle minoranze negli USA e nel Canada, ma anche le esperienze degli
studenti d’oltreoceano, le loro esigenze psicologiche e un generale
mutamento nella ricerca sulla comunicazione hanno ulteriormente
contribuito allo sviluppo della c.i. come scienza.
• Gli antropologi e soprattutto i linguisti hanno sottolineato la necessità
di prendere maggiormente in considerazione il contesto culturale
generale degli interessi individuali. Nelle Chiese cristiane i
missionologi, evidenziando il bisogno di traduzioni contestualizzate
della Bibbia, hanno altresì richiamato l’attenzione verso una maggiore
integrazione cristiana in seno alle culture locali. Anche il mondo degli
affari si è sempre più interessato all’allargamento del proprio campo
di azione nei diversi contesti culturali. La Society for International
Education, Training and Research (SIETAR), fondata nel 1974 con sede
a Washington, è oggi una dinamica organizzazione internazionale
interessata alla c.i.
• 2. Definizione
• L’espressione com.intercult. si riferisce principalmente alla
comunicazione tra due (o più) persone di due (o più) culture diverse.
Sitaram (1976) la definisce come la "interazione tra membri di diverse
culture", e Gerhard Maletzke (1976) la considera un "processo di
scambio di pensieri e significati tra persone di diverse culture".
Molto spesso, oltre all’espressione c.i., viene usata
l’espressione crosscultural communication. William Howell (1979) ha
fatto una distinzione tra le due affermando che "la crosscultural
communication si limita ai mass media, mentre la comunicazione diretta
tra le persone è meglio definita come interculturale".
• In un’ulteriore specificazione, Howell descrive la c.i.
Come:
• interattiva,
• reciproca,
• Informale
• e con un messaggio proprio,
mentre la comunicazione culturale incrociata  crosscultural communication È:
• unilaterale,
• individualizzata,
• formale
• e con un messaggio preconfezionato.
La crosscultural communication attraversa i confini perseguendo scopi e interessi particolari, mentre la c.i. è
basata sulla collaborazione e sul dialogo tra partner di diverse culture (fra i modelli di comunicazione questo viene
detto modello della convergenza)
• 3. Condizioni
• La comunicazione tra le culture presuppone una certa conoscenza e
consapevolezza della comunicazione in una data cultura. In altri
termini lo studio della comunicazione intraculturale, definita
anche etnocomunicazione, comporta lo studio dei mezzi, delle
strutture, del flusso, degli effetti e dei contesti della comunicazione in
una cultura (Eilers, 1986, 1992).
• Senza una conoscenza di base dei mezzi, delle strutture e delle attività di
comunicazione della propria cultura e di quella delle persone con cui si
dialoga, è molto difficile comunicare in maniera efficace gli uni con gli
altri.
• 4. Le variabili
• Secondo la definizione di cultura come "un disegno di vita
socialmente condiviso" e un "piano secondo cui la società si adatta
alle proprie esigenze fisiche, sociali e intellettuali" (Luzbetak, 1963,
1989), esistono diverse variabili che possono influire e in parte
determinare la c.i. e il procedere del suo flusso.
• a) La comunicazione non verbale. Più del 70% della comunicazione umana è di
carattere non verbale, come diversi studiosi affermano (ad es. Ray Birdwhistell e
Edward T. Hall), e quindi i fondamenti della comunicazione non verbale sono di
particolare importanza per la c.i. Nella comunicazione non verbale svolgono un
ruolo cruciale: il linguaggio del corpo (Cinesici, codici), i rapporti di
distanza/vicinanza (Prossemica), l’esperienza del tempo (cronematica), del senso
tattile, olfattivo e del gusto. Anche il linguaggio delle cose e il linguaggio-azione
delle persone fa parte della comunicazione non verbale. In altri termini, la
comunicazione non verbale spesso non avviene direttamente, ma può essere
compresa solo attraverso il contesto generale di un evento culturale più ampio. La
comunicazione non verbale, dunque, è efficace dal punto di vista interculturale
solo se viene preso in considerazione anche il rispettivo contesto entro cui essa si
verifica.
• B. La comunicazione verbale. Molto spesso radicata in contesti non
verbali, la comunicazione verbale gode anche di un proprio valore (
Oralità). Tra persone di diverse culture essa presuppone una
sufficiente conoscenza dei rispettivi linguaggi non solo in senso
grammaticale e ‘denotativo’, ma anche culturale e ‘connotativo’. La
consapevolezza dei significati profondi, spesso nascosti, delle parole è
tanto importante quanto la conoscenza dei loro significati descrittivo-
pittorici.
• C. La struttura sociale. Un ulteriore fattore di influenza della c.i. è la
struttura sociale di una data cultura. Chi occupa un determinato livello
della scala sociale e come comunica? I ruoli sociali (per esempio
quello di padre, madre, datore di lavoro, ecc.) e le istituzioni (per
esempio, la famiglia, i sistemi politici, ecc.) influenzano, e a volte
determinano, le modalità e il successo/fallimento della c.i.
• d) Visione del mondo e valori. Altri importanti elementi della c.i. sono
la visione del mondo e i valori condivisi in una data cultura (
Immaginario). Le culture hanno infatti sistemi valoriali che influiscono
anche sui loro modi e mezzi di comunicazione. La c.i. non può essere
basata sull’etnocentrismo, ma sull’etnorelativismo il quale richiede un
atteggiamento positivo verso tutte le culture e una certa competenza
non solo della comunicazione della propria, ma anche dell’altrui
cultura (si vedano gli studi sul concetto di competenza e fluenza
culturale)
• 5. C.i. e media
• La c.i. molto spesso assume la forma di comunicazione interpersonale
tra due o più persone, o anche tra diversi gruppi di persone. I mass
media possono contribuire alla c.i. e a volte possono anche esserne
uno strumento importante, ma tendenzialmente sono
più crosscultural in quanto di natura monologica in linea di principio e
dialogica in casi limitati. In altri termini, la c.i. è essenzialmente
dialogica e i mass media a volte possono contribuire indirettamente
allo sviluppo di una maggiore e migliore comprensione tra le culture,
preparando le diverse parti allo scambio e al dialogo interculturale.
• Il Mediatore Interculturale è una figura professionale che opera per facilitare 
• l’interazione, 
• la collaborazione
•  e la convivenza negli ambienti multiculturali, sia tra i cittadini di origini e culture varie che
con le istituzioni pubbliche.
• In Italia, manca un quadro normativo unificato per definire il profilo professionale, le
qualifiche, le mansioni e l’inquadramento contrattuale della figura del Mediatore
Interculturale. La situazione varia da regione a regione, certe volte anche da comune a
comune. Ma con il tempo, l’esperienza, la messa a confronto di varie esperienze e buone
pratiche, si può tracciare un profilo abbastanza chiaro di cos’è un Mediatore Interculturale
(Qui sotto abbreviato con MIC.), Come lo si diventa, cosa fa, dove opera e in quali
condizioni. Ma prima di dire cos’è il Mic., in Italia, oggi, vediamo com’è e quand’è apparsa
questa figura professionale
Storia
• ’Italia è una terra che, più di ogni altra, ha conosciuto la migrazione. Ma per secoli l’ha vissuta sulla propria
pelle come Emigrazione. Dalla metà del diciannovesimo secolo fino a oggi, milioni di cittadini Italiani hanno
dovuto lasciare la propria terra per trovare una vita decente altrove. Infatti, oggi, anche se il termine emigranti
è caduto in disuso, oltre il circa 5 milioni di cittadini nati in Italia e residenti all’estero, ci sono tra i 60 e 80
milioni di Oriundi, i discendenti dei migranti, nelle americhe e nel Nord Europa, in modo particolare.  
• Dopo la II° Guerra Mondiale il paese entra in una fase di industrializzazione veloce che lo porta alla
ricostruzione post bellica, poi all’uscita dalla povertà fino a diventare una delle maggiori potenze industriali
del pianeta. Questo frena progressivamente i flussi di emigrazione verso l’estero. E poi, verso la fine degli anni
70′ comincia a costituirsi un flusso in entrata di Immigrazione.
• Come succede spesso, i primi migranti erano per alcune nazionalità solo uomini che lavoravano
nell’agricoltura, nell’edilizia, nel commercio. Per altre nazionalità, c’erano solo donne che lavoravano nella
collaborazione domestica (donne di servizio, assitenti di cura per anziani, bambini e persone malate). Si
parlava di immigrazione invisibile. Braccia senza pretese nè diritti.
• Alla fine degli anni 80 il numero era cresciuto tanto, in modo particolare con arrivi significativi dal Marocco e
dall’Albania. Nel 1990 fu adottata la prima legge quadro, detta legge Martelli, che regolarizzava la presenza
dei cittadini stranieri sul territorio italiano, dando loro un riconoscimento ufficiale, dei diritti
• L’arrivo in Italia di popolazioni di origine magrebina negli anni 80′ e albanese negli anni 90′, ha generato
situazioni nuove e che richiedevano una nuova legislazione, prima negli ambiti lavorativo,  scolastico e
sanitario, poi in seguito, in quelli della gestione dell’ordine pubblico, la giustizia, l’amministrazione pubblica,
gli sportelli di informazione, le banche e in vari altri ambiti. Nel frattempo i numeri e le aree di provenienza
delle nuove popolazioni aumentavano.
• Urgeva l’ingresso in campo di una nuova figura professionale, quella del Mediatore
Interculturale, in grado di tradurre la lingua, spiegare la cultura, aiutare a risolvere problemi,
proporre soluzioni, mediare nei conflitti, progettare e valorizzare le risorse per una
convivenza pacifica tra i cittadini di origine straniera da una parte e la popolazione e le
istituzioni italiani dall’altra.
Passando gli anni, con l’arrivo dei flussi di profughi  dall’Africa e da altre zone del mondo in
guerra, la figura del Mediatore Interculturale entra a giocare un ruolo centrale nei Centri di
Accoglienza Temporanea per adulti e per minori. Urgeva l’ingresso in campo di una nuova figura
professionale, quella del Mediatore Interculturale, in grado di tradurre la lingua, spiegare la
cultura, aiutare a risolvere problemi, proporre soluzioni, mediare nei conflitti, progettare e
valorizzare le risorse per una convivenza pacifica tra i cittadini di origine straniera da una parte
e la popolazione e le istituzioni italiani dall’altra.
Passando gli anni, con l’arrivo dei flussi di profughi  dall’Africa e da altre zone del mondo in
guerra, la figura del Mediatore Interculturale entra a giocare un ruolo centrale nei Centri di
Accoglienza Temporanea per adulti e per minori.
• E’ intorno agli anni 1990-1995 che iniziano i primi grandi corsi di formazione per i Mediatori Interculturali.
Generalmente finanziati dalle Regioni o dal Ministero del Lavoro, alcuni altri dal Fondo Sociale Europeo (Cies  e
Fondazione Andolfi a Roma, Cospe a Firenze).
• All’inizio i corsi di “mediazione culturale” erano frequentati in maggioranza da italiani. E’ solo in un secondo
momento che ci si è resi conto del fatto che non si trattava solo di mediazione linguistica (tradurre da una lingua
all’altra) né di mediazione culturale (avvicinare un profano a un concetto o una disciplina culturale) Si tratta in questo
caso di mediare tra due culture, due visioni del mondo, due sistemi di pensiero.
• La disciplina richiede quindi, oltre alla conoscenza della lingua di origine e dell’italiano, anche una buona conoscenza
sia della cultura di origine degli immigrati che quella del paese di approdo. Il profilo ideale del Mediatore
Interculturale si definisce quindi da sé: un immigrato che  ha una buona conoscenza del paese e della cultura
d’origine e che ha vissuto abbastanza in Italia da conoscerne bene la lingua, le usanze, la cultura, il sistema politico,
sociale, amministrativo e culturale. La formazione serve a dare una migliore conoscenza del territorio e delle
istituzioni e strumenti per mediare.
• In un se condo momento, i vari percorsi formativi hanno maturato la necessità di suddividere la formazione in un
primo livello (base) e poi in un secondo livello (specialistico- settoriale).
• Il primo manuale/linee guida per un corso di base per i mediatori culturali esce soltanto nel 2015 per FrancoAngeli
editore
• Il Mediatore interculturale è una persona adulta, che proviene da una delle aree di origine di una delle
popolazioni immigrate, che vive da almeno due anni in Italia, che ha almeno un diploma di scuola
superiore, e possiede ottime competenze linguistiche sia in lingua madre che in italiano.
• Inoltre il mediatore è in grado di comprendere e interpretare i codici culturali sia del paese d’origine
che di quello di accoglienza.
• Il Mediatore interculturale si definisce come un operatore competente che funge da cerniera tra gli
immigrati e il contesto territoriale e sociale in cui vivono e lavorano.
• E che cosa fa?
• Il Mediatore Interculturale interviene nelle seguenti attività: Intermediazione linguistica,
accompagnamento nei percorsi individuali, facilitazione degli scambi tra cittadini immigrati e
operatori, servizi e istituzioni. Analizza i bisogni e le risorse di un singolo utente o di un gruppo,
orienta e progetta iniziative e strumenti che aiutano l’integrazione.
• Le funzioni della mediazione sono multiple: traduzione, comunicazione interpersonale tenendo conto
delle differenze culturali, etniche, religiose, di genere e di vissuto; saper ascoltare ed essere empatici;
riconoscere e valorizzare le differenze.
• Gli ambiti di intervento del mediatore sono: Il sistema educativo e formativo, salute, giustizia, pubblica
amministrazione, sicurezza e accoglienza di primo livello; e, alla fine, anche nel settore privato di no-
profit (Protezione Civile, Croce Rossa, Ong, associazionismo laico e religioso).
• I servizi di mediazione interculturale si differenziano in base alle aree di specializzazione, alle
situazioni e alle necessità, ordinarie o dettate dalle necessità per le quali  vengono impiegati.
• Quadro normativo
• il mediatore è persona che per favorire la relazione fra le differenze per
primo deve averle riconosciute, accettate e poste in relazione fra loro, non
secondo schemi basati sugli stereotipi, ma in un sistema identitario
flessibile, anche se ben strutturato e solido. Solo su queste premesse
identitarie può avvenire una seria introiezione dei principi di terzietà, equi-
prossimità, equidistanza, neutralità e contemporaneamente empatia,
comprensione profonda dei bisogni e capacità di interpretazione e
restituzione comprensibile degli stessi agli operatori che a tali bisogni sono
tenuti a rispondere, tutte componenti delle competenze necessarie, ma
anche di un codice deontologico che il mediatore non può far a meno di
rispettare per l’efficacia del suo intervento.

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