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❶MATERIALE DIDATTICO n.

1 - LEZIONE DEL 17 MARZO 2020

Cosa signi ca inquadrare le migrazioni come "processi"?


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Vuol dire che, pur presentando trattiricorrenti, queste vanno assunte come un fenomeno mutevole,
che cambia continuamente e rapidamente, che viene continuamente rielaborato e "socialmentecostruito"
nell'interscambio con la società ricevente e che proprio per questo è impossibile
ingabbiare una volta per tutte in de nizioni, schemi e classi cazioni rigide.

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Le migrazioni vanno inquadrate come processi ma anche come sistemi di relazioni che riguardano le
aree di partenza degli immigrati, quelle di transito, quelle di destinazione;
relazioni che coinvolgono una pluralità di attori e di istituzioni quali le autorità dei paesi di origine e di
destinazione, quelle dei paesi attraversati, i sistemi normativi che regolano i loro spostamenti.

Solo se si da la giusta attenzione all'insieme di legami economici, sociali, politici, culturali che
uniscono le aree di origine e quelle di destinazione dei migranti, è possibile cogliere la
complessità dei fattori che sono all'origine del fenomeno stesso.

(Approccio sistemico)
Questa premessa permette di affermare che le migrazioni sono un Fatto sociale totale,
un fenomeno sociale globale che attraversa le società contemporanee e le trasforma in
profondità, mettendo in discussione i fondamenti impliciti del patto di convivenza.

Il nostro stare insieme, nel contesto europeo, si è basato a lungo su una solidarietà tra simili, derivante
dall'idea di una comune appartenenza geogra ca, etnica, linguistica, e per molti anche religiosa.
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Oggi le migrazioni ci obbligano a riscrivere il patto che ci ha unito adattandolo ad una
società che sta diventando per molti aspetti post-nazionale, pluralistica, e soprattutto mobile.
Le migrazioni rappresentano inoltre un osservatorio privilegiato da cui analizzare molti aspetti della
società contemporanea, dal funzionamento delle reti sociali dei migranti all'attribuzione dei diritti di
cittadinanza, dall'integrazione sociale dei giovani alla nascita di nuove forme di lavoro e di imprenditorialità.

Offrono quindi una prospettiva estremamente stimolante per analizzare più a fondo svariati aspetti
dell'organizzazione sociale nel suo complesso.

Osservando ciò che apparentemente ci sembrano "gli altri" possiamo imparare molto su noi stessi.
In realtà, oggi conosciamo molto dell'immigrazionein Italia, molto meno sappiamo invece di come
sta cambiando l'Italia del tempo delle migrazioni.

Lo studio di questi fenomeni può quindi aiutare ad acquisire una maggiore consapevolezza delle
questioni in gioco, dei rischi da evitare, dei problemi da fronteggiare, delle possibili soluzioni di politica sociale.

Oggi contiamo peraltro su ottimi Rapporti annuali, di carattere statistico o meno, che documentano puntualmente
l'evoluzione del fenomeno immigratorio nel nostro e in altri paesi; e disporre di un quadro statistico aggiornato dei
fenomeni sociali è importante, ma pretendere che le scelte politiche di una società nei confronti dell'immigrazione
dipendano da variabili quantitative, ossia dal numero degli immigrati rispetto ai cittadini autoctoni.
Un approccio di questo genere è contraddetto peraltro dall'esperienza storica di molti paesi di immigrazione.

In alcuni casi, piccoli numeri di immigrati)sono stati duramente perseguitati (pensiamo ancora oggi, al ri uto verso i
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cosiddetti "nomadi"), in altri casi, società anche con tassi di immigrazione molto elevati, funzionano bene, o comunque
non peggio di società più chiuse.
Molto dipende dal modo in cui avviene la ricezione dell'immigrazione e dalla rappresentazione sociale che se ne fa
(la società ospitante; come di un fenomeno minaccioso e incontrollabile, oppure di un processo siologico che non
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solo può essere governato ma rappresenta anche una occasione per promuovere il cambiamento in termini positivi
e di co-sviluppo, ossia di uno sviluppo locale partecipato.

E' importante allora capire che sono le "visioni dell'immigrazione" che determinano la percezione dell'eccessività o
tollerabilità di questa, e non viceversa.

La Commissione per le 9 politiche di integrazione ha elaborato agli inizi del 2000:' ossia quello di "un’interazione positiva,
basata sulla parità di trattamento e sull'apertura reciproca, tra società ricevente e cittadini immigrati".
Il "fatto sociale" che la sociologia delle migrazioni mette a fuoco è quello della mobilità umana nello spazio e il mutamento
che questa produce nelle relazioni sociali, nei modelli sociali e culturali di vita,la sociologia ha centrato la sua attenzione
sulla descrizione e sulla spiegazione di cosa succede a seguito dell'impatto del migrante con la nuova società di accoglienza:
facendo luce cioè sul processo di inserimento dei nuovi arrivati, sui fattori che lo facilitano o che lo ostacolano.

In sostanza, si è occupata soprattutto della fase in cui emigrazione si manifesta come immigrazione.
Non è un caso che la massiccia immigrazione vissuta dagli USA agli inizi del '900 (e che, come noto, ha riguardato anche
milioni di italiani), con tutto il suo carico di problematicità ed emergenzialità, abbia rappresentato uno dei principali interessi
dei sociologi della Scuola di Chicago (la sola popolazione di questa città era passata tra il 1840 e il 1890 da 4K a oltre 1,Mln di abitanti).

Interesse motivato dal contestuale aumento del tasso di criminalità le cui cause venivano ricondotte ai fenomeni di "disorganizzazione" degli immigrati.
Decisivo in questo senso fu il contributo scienti co di Thomas e Zaniecki, autori di The polish peasant in Europe and America (1918-20),
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considerato un vero e proprio classico della Sociologia; Attraverso l'impiego massiccio di documenti personali quali lettere,
resoconti di parrocchie, servizi sociali, tribunali, associazioni di emigrati polacchi emigrati negli Stati Uniti e persino dell'autobiogra a
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di un giovane immigrato (Wladek Wiznieswski) che nisce col costituire una sorta di libro nel libro (200 pp. circa),
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Thomas e Znaniecki vengono ad analizzare la condizione dei contadini polacchi sia nei loro contesti di origine che in quelli
di nuova accoglienza rispetto ad una serie di temi da loro ritenuti centrali (la famiglia, il matrimonio, la classe sociale, la vita
economica, la religione e la superstizione.

È proprio in questo clima sociologico che negli anni $20/30 del 900 si afferma il Paradigma dell'assimilazione che ha rappresentato
" no alla ne degli anni '60 la prospettiva egemone e più accreditata.
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Gli autori legati a questa scuola, pur nutrendo un interesse sincero per le condizioni di vita e le sofferenze degli immigrati, sostenevano
ottimisticamente che gli immigrati al loro arrivo tendono a collocarsi ai gradini più bassi della strati cazione sociale, a farsi carico dei
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lavori più pesanti e sgraditi alla forza lavoro locale ma che col tempo si inseriscono nella nuova società, ne imparano la lingua, ne fanno
propri usi, valori e consuetudini, abbandonando il patrimonio di cultura, di appartenenze che li legano ai paesi di origine e assimilandosi
al nuovo ambiente n quasi a non rendersi più distinguibili rispetto alla popolazione nativa di quel paese.
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Assimilazione era quindi non solo un processo inevitabile ma addirittura auspicabile: prima gli immigrati perdevano i tratti culturali originari che li
differenziavano e distanziavano dalla popolazione nativa, prima riuscivano a farsi accettare e a progredire nella scala sociale; e appartenenze
etniche e identità ascritte non erano dunque altro che ostacoli da rimuovere.
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A partire dagli anni '80 la sociologia ha iniziato ad occuparsi anche delle cause dei movimenti migratori e così facendo,
è andata ad invadere un campo di studio di cui tradizionalmente si erano occupate demogra a ed economia.

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Una invasione di campo che però si è rivelata estremamente utile dal momento che l'approccio sociologico ha permesso di
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arricchire le interpretazioni date dalle teorie economiche facendo luce sull'intricato complesso dei fattori che de niscono
il contesto in cui singole persone e famiglie maturano la decisione di emigrare.

Come avremo modo di osservare nelle prossime lezioni, la Sociologia ha permesso soprattutto di capire che questi fattori non
sono mai solo economici ma sono anche, e contemporaneamente, sociali, culturali, istituzionali etc.

La de nizione di immigrato varia infatti a seconda dei sistemi giuridici, delle vicende storiche, delle congiunture politiche etc.
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Sono le società di arrivo che decidono come classi care i migranti (ossia come rifugiati, lavoratori temporanei, clandestini, irregolari familiari al seguito etc.)

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e sono sempre le società di arrivo che stabiliscono unilateralmente cosa vada inteso come migrazione, chi può essere considerato migrante e così via.
Come sostiene Laura Zanfrini, le categorie con cui si de niscono i migranti non esistono "in natura" ma sono il frutto di processi di Costruzione sociale

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che ri ettono scelte di tipo politico-giuridico, atteggiamenti e vissuti della popolazione, sentimenti custoditi nella memoria collettiva.

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Emblematico è il caso degli immigrati romeni e bulgari in Italia che, a partire dal 1 gennaio 2007, con l'ingresso dei loro paesi nell'UE, hanno cambiato il
loro status giuridico di immigrati extra-comunitari per diventare a tutti gli effetti cittadini comunitari, aventi nuovi diritti e opportunità.
Dal 1 gennaio di quell'anno, con un semplice clic, i cittadini di quei paesi che soggiornavano in Italia sono scomparsi (sul piano formale ma non nella
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percezione degli italiani) dalle statistiche dell'immigrazione che hanno registrato una brusca caduta del numero dei cd. extra-comunitari.
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Le categorie con cui si de niscono le persone migranti non esistono in natura ma, per usare l'espressione di Abdelmalek Sayad, sono
"parole di Stato", rimandano sempre a una certa di idea di con ne che governa e regola i processi di inclusione/esclusione.
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Le parole, dunque, "contano" (Zanfrini 2015). Contano nel determinare per esempio chi è migrante e chi non lo è; nel classi care i migranti secondo

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diversi tipi, che generano differenti trattamenti e posizionamenti nella gerarchia sociale; e contano nel de nire il livello di accettabilità sociale dei migranti,
che a sua volta in uenza le politiche migratorie e quelli che sono i dispositivi di ammissione.

Questa premessa permette di comprendere che, quando si tratta di migrazioni, non esistono le parole "giuste", perché ogni
de nizione è l'esito di un processo di costruzione sociale e istituzionale inevitabilmente arbitrario.
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Il carattere " ttizio" e contingente dei con ni che distinguono i migranti dai non migranti, de niscono le
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diverse categorie di migranti e separano i gruppi etnici e razziali non le rende, però, meno importanti.

È importante allora rimarcare che quello che scegliamo di de nire migrante - ovvero migrante internazionale - è sempre il frutto di una decisione

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arbitraria e valida solo con riferimento ad un determinato momento, destinata dunque ad essere prima o poi rimessa in discussione.
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Lo stesso vale ovviamente, per i diversi "tipi" di migranti; È quest'ultima infatti che decide come classi care il migrante (lavoratore temporaneo,

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rifugiato, familiare al seguito, "regolare", "clandestino", e via dicendo), stabilendo, in modo unilaterale cosa debba intendersi per migrazione e chi
può essere considerato migrante, spesso del tutto indipendentemente dall' intenzionalità degli attori coinvolti.

Il concetto di politiche migratorie indica esattamente la prerogativa dello Stato di decidere, perlopiù unilateralmente, chi può essere ammesso a risiedere
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e lavorare sul proprio territorio e chi no, comportando la ssazione di un limite al diritto di immigrazione in un determinato stato.
Storicamente, le politiche migratorie sono state fortemente in uenzate dalla distanza sociale, ossia dal grado di intimità, vicinanza sica e condivisione
delle opportunità sociali ritenuto accettabile nelle relazioni con appartenenti a determinati gruppi o categorie sociali.
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Anche in tempo di pace Paesi cosiddetti "civili"hanno spesso fondato su criteri esplicitamente etnici e razziali il governo dei ussi migratori.
Un esempio emblematico è quello dell'Australia dove, in diversi momenti storici, quando gruppi in uenti avevano interesse ad emarginare un settore speci co
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della popolazione, il richiamo alla tradizionale e quasi ossessiva convinzione della "superiorità dei bianchi", servì a giusti care i rapporti di disuguaglianza.
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Anche nel contesto dell'emergenza profughi che ha investito l'Europa in questi ultimi anni, si è assistito a svariati tentativi di selezionare profughi e migranti
in base ad esempio al loro background culturale e religioso (erigendo il cristianesimo, dopo averlo espunto dalla Costituzione europea, a meccanismo di esclusione),
del loro livello di quali cazione, o della loro origine nazionale, aprioristicamente eretta a criterio di "meritevolezza".
Un criterio, quello della meritevolezza, che sempre più costituisce un cardine fondamentale sia delle politiche migratorie sia delle politiche di integrazione.
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Il linguaggio con cui si de niscono gli attori e le loro relazioni non è neutro e che tutte le volte in cui si sceglie di utilizzare un determinato termine o
meccanicamente si ripete ciò che si sente dire da altri, si contribuisce attivamente alla "costruzione sociale delle differenze".
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È emblematico il modo in cui il linguaggio comune de nisce gli immigrati, esagerando e deformando spesso alcune loro caratteristiche,
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specie quelle legate all'aspetto sico, al modo particolare di parlare, al tipo di alimentazione etc.
tra i termini a noi noti, c'è il dispregiativo francese "Macaroni" con cui, nella prima metà del XX secolo, venivano indicati gli emigranti italiani in Francia e Belgio.
Il termine "terrone" è anche un corrispettivo dell'inglese "wop" (acronimo di without passport), con cui venivano indicati,
negli Stati Uniti dei primi anni del XX secolo, gli immigrati clandestini provenienti soprattutto dall'Italia;

In Italia, è stato a lungo diffuso il termine "vucumprà", usato per de nire un particolare gruppo di immigrati, quelli provenienti dall'Africa che lavoravano
nel settore del commercio ambulante nelle strade delle principali città italiane, ma che alla ne veniva generalizzato a tutti gli immigrati, a prescindere dal tipo di lavoro svolto. Prima ancora il venditore ambulante
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veniva chiamato "marocchino", nonostante spesso si trattasse di senegalesi.
Un altro esempio utile a capire come avvengono i processi di costruzione sociale delle differenze è quello che riguarda l'uso di termini evocativi di una
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certa provenienza nazionale che niscono con l'indicare un determinato mestiere, quasi a suggellare il posto degli immigrati nel mercato del lavoro.
Emblematico è l'uso che viene fatto del termine lippina che è diventato ormai 'esatto equivalente e sinonimo di collaboratrice domestica.
Venendo all'oggi, un termine ormai tanto diffuso quanto delicato è quello di badante, un vocabolo nuovo nato in ambito legislativo che dimostra ancora una
volta come il genere più l'etnia possano predeterminare il destino professionale di una persona; questo termine richiama infatti l'immagine di una donna e straniera,
perlopiù proveniente dall'Europa dell'Est.

Si parla in questi casi di una doppia discriminazione dal momento che a questi soggetti si applicano stereotipi che ne limitano
le possibilità di impiego e di espressione di sé e che a fatica permettono di fuoriuscire dal lavoro domestico-assistenziale.
Gli esempi sarebbero numerosi ma è importante che sia chiaro come il linguaggio con cui si de niscono le persone e i fenomeni non è mai neutro ma esprime la
nostra visione dei fatti o più spesso quella che abbiamo fatto nostra e che involontariamente riproduciamo attraverso le parole.
Un termine o una de nizione apparentemente innocui possono infatti contribuire ad affermare e mantenere una distanza sociale, enfatizzare o
esasperare la diversità, negare la possibilità che ci sia integrazione o interscambio tra immigrati e residenti autoctoni.]
❷LE DIVERSE TIPOLOGIE DI MIGRANTI E DI MIGRAZIONI

Definizione immigrato ONU: "una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno".
Questa definizione si basa sostanzialmente su tre elementi: quello della mobilità fisica, quello dello spostamento da un Paese a un altro diverso da quello di
nascita o di residenza abituale, quello di una permanenza prolungata; fissata convenzionalmente in almeno un anno, nel nuovo paese.

Questa definizione non tiene conto ad esempio: (delle migrazioni interne pensíamo agli ingenti flussi di migranti che negli anni'40/50
dal Meridione d'Italia si dirigevano verso le regioni del Nord oppure ai movimenti di popolazione che avvengono anche all'interno di
una stessa regione e che rappresentano delle forme di migrazione a tutti gli effetti;
Degli spostamenti inferiori ad un anno: fra questi, i più frequenti e rilevanti sul piano quantitativo sono quelli per lavoro stagionale e di tipo transfrontaliero.
Pensiamo ai tanti giovani che da decenni partono ogni anno dalla Sardegna per "fare la stagione", ossia a lavorare durante l'estate nelle località
turistiche o d'inverno in quelle del turismo montano; transfrontalieri sono invece lavoratori friulani, veneti, piemontesi, che ogni mattina, per motivi di lavoro,
attraversano i confini di paesi come la Svizzera, l'Austria o la Slovenia e che alla fine della giornata fanno rientro nei loro luoghi di residenza;

Delle diverse visioni giuridiche in base alle quali si stabilisce chi siano gli immigrati e i cittadini: è il caso ad esempio dei figli degli immigrati che,
pur essendo nati e cresciuti nel paese in cui i loro genitori si sono trasferiti, in Paesi come l'Italia vengono considerati stranieri.
Soprattutto nel contesto europeo, è bene ricordare come la sovrapposizione tra la figura dell'immigrato e quella del lavoratore
(temporaneo) sia un aspetto distintivo del regime europeo di regolazione degli ingressi fin dalla sua nascita.
Ai modelli tradizionali rappresentati ad esempio dalle migrazioni stagionali e da quelle transfrontaliere, si sono aggiunte nuove tipalogie come
la migrazione circolare che, secondo una definizione dell'OIM-Organizzazione Internazionale delle Migrazioni è data dal "movimento fluido
delle persone tra i Paesi, compresi i movimenti temporanei o a lungo termine, che può essere utile a tutti i soggetti coinvolti, se avviene
volontariamente e se legato alle esigenze del mercato del lavoro dei Paesi di origine e destinazione".

Al di là delle valutazioni che si vogliano esprimere, questi costituiscono altrettanti modi per perseguire quello che Abdelmalekr
Sayad definì VENE DEFINIT 'imperativo della provvisorietà", un'illusione necessaria a non turbare nessun ordine nazionale,
né quello dei paesi di immigrazione né quello dei paesi di origine.

Invero, la scelta della temporaneità ha certamente a che vedere con le preoccupazioni per i "costi" che in senso lato l'immigrazione
a titolo permanente comporta, specie quando si trasforma in una presenza di famiglie che richiedono diritti e protezioni.
I migranti si ritrovano poi inseriti in sistemi di stratificazione civica, ossia in sistemi di disuguaglianze basati sulla relazione tra lo Stato
e le diverse categorie di immigràti, e di diritti che sono di conseguenza loro riconosciuti o negati.

Emblematico dell'operare di sistemi di stratificazione civica è uno dei termini piùdiffusi nel discorsó sulle migrazioni, quello di extra-comunitario.
Spesso viene utilizzato per indicare una certa componente della presenza stranièra, quella che proviene dai paesi cosiddetti a forte pressione
migratoria, senza una esatta sovrapposizione con il suo significato giuridico (che include anche cittadini svizzeri, giapponesi e nordamericani).
Nell'asettico linguaggio delle burocrazie europee, è la formula "cittadini di Paesi terzi" a marcare la distinzione con i cittadini dell'Unione; una
distinzione che plasma sia le politiche migratorie sia le politiche "per" gli immigrati, sia infine la distribuzione dei diritti e delle opportunità, che
colloca i cittadini dell'Unione europea in una posizione privilegiata.

Entro certi limiti, questo vale anche per una distinzione ancora più importante, quella tra migranti regolari e irregolari
Possiamo definire la migrazione irregolare come un movimento che prende forma al di fuori del quadro normativo del Paese di origine,transito,destinazione.
Molti regimi autoritari del passato e del presente, infatti, hanno limitato fortemente la possibilità per i propri cittadini di emigrare legalmente,
inducendoli così a lasciare il paese senza le autorizzazioni necessarie.
Gli immigrati in condizioni di regolarità sono i non-cittadini che sono stati autorizzati dall'ordinamento giuridico del paese in cui si trovano ad entrarvi,
risiederci ed eventualmente lavorare;
gli immigrati in condizione di irregolarità sono, all'opposto, coloro che entrano, risiedono e/o lavorano in un paese senza esserne stati autorizzati.

A seconda dello status giuridico i migranti regolari possono essere ulteriormente distinti in:
1)Free migrants migranti liberi, sono gli stranieri provenienti da stati con i quali-il paese di nuova accoglienza ha sottoscritto accordi bilaterali che prevedono
la-libera circolazione delle persone. È il caso dei cittadini membri dell'UE che, a partire dall'entrata in vigore del Sistema Shengen (1997), possono circolare
liberamente all'interno dello Spazio comune europeo, senza subire alcun tipo di restrizione sia nel controllo dei passaporti alla frontiera sia nell'accesso al lavoro
(solo segnalazione presenza presso questure della città in cui si stabiliscono).
2)Migranti temporanei in questa categoria rientra la maggior parte degli immigrati presenti in italia ossia tutti coloro vivono e lavorano in Italia grazie al
possesso di un permesso di soggiorno che ha però una durata limitata e che deve essere rinnovato, pena l'obbligo del rientro in patria; Il rinnovo di questo
diritto a soggiornare in Italia dipende dalla possibilità di dimostrare di avere i requisiti necessari (un contratto regolare di lavoro, una abitazione adeguata etc.).
3)Residenti a titolo permanente, coloro che sono titolari di un diritto a soggiornare in Italia per un tempo illimitato. È la condizione dei cittadini stranieri
che possiedono la Carta di soggiorno che può essere rilasciata ai cittadini che vivono e lavorano regolarmente nel nostro paese da almeno sei anni
si tratta di una condizione giuridica intermedia tra quella di cittadino e quella di straniero mache assicura in ogni caso la pienezza dei diritti civili anche
a chi non ha acquisito la nazionalità e la cittadinanza italiana.

Se per alcuni studiosi la pressione migratoria irregolare è dovuta al carattere sempre più restrittivo delle politiche dei paesi di destinazione (sia quelle che
regolano le migrazioni economiche sia quelle che regolano l'asilo e il ricongiungimento familiare), per altri autori un ulteriore fattore incentivante è dato dal
consolidamento di una potente industria dell'immigrazione e di estese catene migratorie, insieme alla relativa facilità di ottenere visti di ingresso per motivi turistici;
per non parlare dei meccanismi di attrazione presenti nei contesti di arrivo, costituiti in particolare dalla domanda di una forza lavoro iper-adattabile (che proprio
nell'immigrazione irregolare può trovare la risposta più conveniente) e dalla presenza di istituzioni facilitatrici, quale il mondo delle organizzazioni nonprofit, che
agevolano l'inserimento degli immigrati anche se privi didocumenti.

L'ampia galassia di attori che guadagnano dall'immigrazione irregolare (trafficanti, ufficiali corrotti, datori di lavoro,inibisce il successo delleniniziative di contrasto
al fenomeno e porta a sottovalutare i suoi costi; Costi che sono di tipo individuale: basti pensare alla triste contabilità delle morti sulle rotte dell'immigrazione
clandestina costi a livello familiare se pensiamo alle tante famiglie costrette a restare divise anche per anni, perché la condizione di irregolarità impedisce
il ricongiungimento e i ritorni periodici nel Paese di origine;

Indipendentemente dalla valutazione che si voglia dare al fenomeno, bisogna osservare come l’ irregolarità non dipenda da una caratteristica
soggettiva della persona, bensì dalla definizione che di questa dà il quadro normativo vigente;
Proprio per questa ragione sono numerosi i pronunciamenti - dalle Nazioni Unite al Consiglio d'Europa alla Commissione europea fino al Magistero
della Chiesa cattolica e agli stessi ordini dei giornalisti - che raccomandano di evitare termini come "clandestino" o "illegale" proprio per la loro valenza
discriminatoria, criminalizzante e disumanizzante, suggerendo il ricorso a parole meno stigmatizzanti come undocumented o "in condizioni di irregolarità".

In Europa l'immigrazione irregolare rappresenta un fenomeno degli ultimi decenni, successivo alla generalizzazione delle cosiddette
"Politiche degli stop che negli anni 70 hanno messo fine all'importazione ufficiale di forza lavoro immigrato; fino a quelmomento-si parlava piuttosto di migrazioni
spontanee, composte da lavoratori arrivati senza le necessarie autorizzazioni, ma che potevano facilmente mettersi in regola una volta trovato lavoro.

È anche una conseguenza della nascita di uno spazio unico europeo che ha avuto, come inevitabile condizione, il rafforzamento delle frontiere esterne, tanto da evocare
l'idea di una Fortezza Europa assediata da quanti cercano di forzarne gli accessi e i controlli; Un effetto paradossale delle politiche restrittive e del rafforzamento dei sistemi
di controllo in Europa è stato il venir meno del meccanismi di uscita dall'Europa dei migranti irregolari, preoccupati di non riuscire più a rientrare una volta lasciato il Paese.

Proprio perché non indica una qualità intrinseca dei soggetti coinvolti, la condizione di irregolarità non è data una volta per tutte; la stessa persona può ritrovarsi in fasi
diverse della sua vita a essere un "regolare" o un "irregolare", un eventualità particolarmente frequente in Italia e, per certi aspetti comune all'intera Europa.
In ogni caso per gli Stati democratici la gestione dell'immigrazione irregolare è una questione piuttosto insidiosa.
In un scenario come quello attuale in cui la distinzione tra migrazioni volontarie ed emigrazioni forzate si fa via via più incerta, anche la
de nizione dell'immigrazione irregolare nisce col risultare l'esito di un compromesso quasi sempre insoddisfacente.
Soprattutto negli ultimi anni, nel quadro delle migrazioni che hanno investito i paesi dell'Europa meridionale e balcanica, il fenomeno dei cosiddetti ussi
misti - composti sia da migranti "meritevoli" di protezione umanitaria, sia da migranti economici che cercano di trarre vantaggio dalla migrazione -
ha rivelato tutti i limiti tanto dei sistemi internazionali di protezione, quanto degli strumenti di contrasto agli ingressi irregolari,sostanzialmente
inapplicabili in queste circostanze, facendo comunque apparire ancora più arbitraria la distinzione di cui stiamo parlando.

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I paesi democratici possono così trovarsi in serio imbarazzo nel gestire l'arrivo e la presenza di immigrati pur provvisti di regolari autorizzazioni;

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quando poi il loro numero supera una certa soglia, il loro impatto sui sistemi scali diventa particolarmente svantaggioso, ed è la stessa "coesione sociale",
la tenuta della democrazia a essere messa in discussione. E così si nisce spesso col percorrere procedure (più o meno trasparenti e farraginose) che
"li trasformano" in-migranti (almeno temporaneamente regolari), in rifugiati politici o titolari di una protezione temporanea; oppure col ricorrere a
regolarizzazioni di massa per "svuotare" il bacino dell'irregolarità. Specularmente, ad alimentare la presenza irregolare sono spesso persone entrate
regolarmente, esibendo un visto turistico alla cui scadenza si trasformano in irregolari (i cosiddetti overstayers).

È importante chiarire a questo proposito che, contrariamente a quanto molti pensano, la maggior parte degli oltre 5 milioni di immigrati regolarmente
presenti in Italia sono passati attraverso questo genere di percorso, ossia sono entrati con regolari visti turistici, e non attraverso canali illegali.

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In alcuni casi sono gli stessi dispositivinormativi messi in campo dai governi in materia di immigrazione che concorrono all'incremento di determinate
tipologie di migranti e alla produzione dell'irregolarità:
La legge n. 139 del 30 luplio 2002 di "'Modi ca alla normativa in materia di immigrazione e di asilo" ha infatti introdotto, come noto, la gura del
"Contratto di soggiorno", in cui vengono inglobate le due gure precedenti del "Contratto di lavoro e del "Permesso di soggiorno".
Per il lavoratore immigrato non è più possibile, come in passato, arrivare nel nostro Paese per cercare un lavoro e ottenere un contratto regolare.

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Attualmente possono entrare in Italia solo persone che abbiano già un "contratto di soggiorno", ossia il permesso di soggiornare sul territorio nazionale
è strettamente vincolato al possesso di un contratto di lavoro:In assenza di questo canale, molti aspiranti emigrati si sono trovati a dover percorrere la
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via obbligata dell'ingresso con visto turistico di tre mesi (seguito da una inevitabile, generalizzata caduta nell'irregolarità), ma sapendo che si trattava
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di una soluzione precaria che permetteva loro di mettersi subito alla ricerca di un lavoro, inevitabilmente "in nero" o nel settore irregolare dell'economia
piuttosto che attenersi a quanto prevede la legge Bossi-Fini, ossia:
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frequentare nei paesi di origine dei corsi professionalizzanti, perlopiù inesistenti, che la norma prevede ma che a tutt'oggi non risulta chiaro da chi debbano
essere promossi; maturare così un titolo aspettare in ne la chiamata da un datore di lavoro che non si comprende perché dovrebbe muovere una complicatissima

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macchina burocratica per assumere uno candidato che non conosce, di cui non ha alcuna informazione e dal quale è legittimato ad aspettarsi il peggio.
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La stessa Sanatoria varata dal Governo Berlusconi nel 2002, la più massiccia della storia italiana (700 mila regolarizzazioni), ha rappresentato una evidente
conferma dei limiti della legge nella misura in cui, regolarizzando I lavoratori irregolari presenti nel paese ha dato ai potenziali migranti nei paesi di origine il
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chiaro messaggio che, al di là di quanto da essa prescritto, occorreva entrare in Italia per trovare un lavoro, e che, attraverso delle misure di sanatoria si sarebbe
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successivamente regolarizzata la posizione, Terminata la stagione delle sanatorie, le procedure di reclutamento attraverso i cosiddetti decreti ussi (il fabbisogno
di manodopera straniera dichiarato ogni anno dal Governo) si sono via via trasformate in una sorta di "sanatoria mascherata" nei confronti delle migliaia di immigrati
che già risiedono e lavorano irregolarmente in Italia no ad arrivare a una situazione come quella attuale in cui, in assenza di una normativa che regoli in modo
speci co l'istituto dell'asilo e individui canali di ingresso appositi, si è prodotta una totale commistione tra migrazioni volontarie e forzate,La distinzione tra Migrazioni
volontarie e forzate da almeno cinque anni a questa parte, non è mai stata, dunque, così complessa.

Tradizionalmente si tendeva a de nire migrante chi lasciava volontariamente il proprio paese mentre i protagonisti delle migrazioni forzate erano de niti profughi,
ossia singoli o gruppi costretti ad allontanarsi dal proprio paese per sfuggire da situazioni di guerra, dal rischio di persecuzioni e così via.Oggi,invece, in una
situazione mondiale in cui la migrazione è spesso causata da povertà, violenti con itti civili, violazione dei diritti umani, disastri di tipo ambientale etc.
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È assai più dif cile distinguere le migrazioni economiche da quelle forzate.

Affronteremo a breve la questione delle migrazioni forzate, o umanitarie, ma n d'ora è utile che facciamo chiarezza sulla differenza tra Rifugiato e Richiedente Asilo:
- quello di rifugiato è un termine che ha un signi cato giuridico preciso e condiviso a livello internazionale e viene usato per de nire solo coloro che hanno ottenuto il
riconoscimento formale del loro status di rifugiato politico. Questo status comporta il dovere della protezione e dell'assistenza nei suoi confronti da parte del paese
che lo accoglie in base alla Convenzione di Ginevra del 1951. Secondo la Convenzione il rifugiato è una persona che "temendo con ragione di essere persequitata a
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causa della sua razza, religione, nazionalità o delle sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la nazionalità e non può o, a causa di questo timore, non
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vuole richiedere la protezione del suo paese".
- 1/ Richiedente protezione internazionale è invece una persona che ha fatto domanda di rifugio politico e che ancora non sa se tale domanda verrà accolta.
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In Italia ad esempio, mai come negli ultimi anni è stato cosi alto il numero dei richiedenti asilo. Un altro, importante attore delle migrazioni contemporanee è la
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-vittima di tratta, ossia uno straniero, giovane, spesso una donna, che viene spinto con la forza,o con l'inganno ad attraversare le frontiere e pol privato della libertà
di scegliere il posto in cui soggiornare e il lavoro da svolgere dalle organizzazioni che ne organizzano il viaggio, ne gestiscono Il soggiorno e lucrano sul suo lavoro.
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Il caso più conosciuto è quello della tratta a ni di sfruttamento sessuale, ossia della prostituzione coatta di giovani donne che provengono perlopiù dall'Africa
o dai Paesi dell'est, ma si registra un aumento anche dei casi di minori non accompagnati vittime di tratta, fatti arrivare in Italia clandestinamente e poi avviati
alla mendicità, al lavoro coatto o alla prostituzione stessa.
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Quella dei familiari al seguito rappresenta un'altra categoria diventata importante.
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Da quel momento i ricongiungimenti familiari sono diventati, la motivazione principale per gli ingressi regolari di nuovi cittadini stranieri.
L'intensi carsi dei ricongiungimenti familiari ha comportato in tutti i paesi europei e in Italia l'aumento della percentuale di popolazione immigrata inattiva,
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ossia di familiari a carico - quali mogli, gli, genitori anziani - che non partecipano attivamente al mercato del lavoro.

Un'altra de nizione che rivela la dif coltà e spesso l'impossibilità di procedere per classi cazioni rigide è quella dei migranti di seconda generazione
o giovani di origine immigrata: questa formula ricomprende generalmente sia i gli di coppie immigrate nati nel nuovo paese di accoglienza, sia quelli
che sono nati nel paese di origine dei genitori e che sono arrivati successivamente attraverso la pratica del ricongiungimento.
In questo ultimo caso è abbastanza facile de nirli minori immigrati, dal momento che hanno effettivamente lo stesso status giuridico dei genitori.
Nel caso dei minori che nascono nel paese di immigrazione (migranti senza migrazione) il discorso sul loro status si fa invece decisamente più complesso
perché la loro situazione e il loro riconoscimento istituzionale cambia a seconda della legislazione in vigore nei paesi che li ospitano.

Un'altra de nizione che rivela la dif coltà e spesso l'impossibilità di procedere per classi cazioni rigide è quella dei migranti di seconda generazione o
giovani di origine immigrata: questa formula ricomprende generalmente sia i gli di coppie immigrate nati nel nuovo paese di accoglienza, sia quelli che
sono nati nel paese di origine dei genitori e che sono arrivati successivamente attraverso la pratica del ricongiungimento.
In questo ultimo caso è abbastanza facile de nirli minori immigrati, dal momento che hanno effettivamente lo stesso status giuridico dei genitori.
Nel caso dei minori che nascono nel paese di immigrazione (migranti senza migrazione) il discorso sul loro status si fa invece decisamente più complesso
perché la loro situazione e il loro riconoscimentoistituzionale cambia a seconda della legislazione in vigore nei paesi che li ospitano.
❸ Cause migrazioni internazionali

Come per altri fenomeni sociali, si tende solitamente a mettere a confronto le due principali prospettive sociologiche:
quella macrosociologica, strutturalista, che assegna il primato alle forze esterne che condizionano l'agire degli» individui (ad esempio economiche, politiche, culturali etc.)
e quella microsociologica che parte invece dall'individuo e lo considera un attore razionale che assume decisioni orientate a massimizzare il suo benessere.

Alcune interpretazioni più recenti cercano di gettare un ponte tra prospettive macro e micro, collocandosi pertanto a un livello intermedio tra le due (meso-relazionale), definito da
Thomas Faist come "The crucial meso-level".
Lo sforzo di spiegare le migrazioni costruendo modelli teorici è relativamente recente se è vero che ha avuto inizio nella sola seconda metà del '900 e che si tratta perlopiù di sforzi
parziali, poco connessi e non cumulativi; nessuno di questi è riuscito a proporre una teoria esplicativa globale delle migrazioni, un fenomeno troppo sfaccettato e multiforme per
essere spiegato da una sola teoria.
Le teorie che spiegano l'avvio delle migrazioni internazionali Secondo il Paradigma neoclassico dell'economia, all'origine delle migrazioni internazionali ci sarebbero le differenze salariali
e dei livelli di reddito tra paesi ricchi e paesi poveri.

I lavoratori che vivono là dove l'offerta eccede la domanda saranno spinti a muoversi verso quelle regioni in cui questo rapporto risulta invertito.
Al fine di realizzare un maggiore guadagno, andranno ad investire il loro capitale umano nei paesi in cui i livelli retributivi sono più elevati, scegliendo dunque,
tra le diverse destinazioni, quelle ritenute più favorevoli e vantaggiose.

Come sostiene Borjas, si presuppone l'esistenza di un mercato migratorio globale in cui gli individui calcolano razionalmente i vantaggi associati alle diverse alternative di
comportamento; Si suppone cioè che l'attore economico, il potenziale migrante, sulla base di un freddo calcolo costi/benefici, sia dunque in grado di stimare il rendimento
atteso dalla scelta di emigrare e, qualora la stima di questo rendimento sia positiva, di scegliere la destinazione da lui ritenuta più vantaggiosa.
L'emigrazione per sostenitori di questo approccio è dunque l'esito di una scelta individuale.
Non è senza importanza premettere che questa spiegazione nasce in un campo disciplinare che è quello dell'Economia.

I teorici del Paradigma neoclassico sono degli economisti, e Quella che loro propongono è una spiegazione di livello micro, nel senso che l'unità decisionale che viene presa
in considerazione per la spiegazione delle cause è il singolo individuo atomisticamente considerato, ossia sganciato da qualsiasi condizionamento "sociale".

Un soggetto che si suppone tagli completamente i ponti con il contesto di origine ed egoisticamente scelga di migrare verso la destinazione che ritiene più proficua.
Secondo questi autori, tanto più consistenti sono i differenziali salariali e di reddito, tanto più voluminosi saranno i flussi migratori necessari a riequilibrare domanda e offerta
di lavoro nei diversi mercati locali e nazionali.
Stando alla loro spiegazione, le migrazioni internazionali dovrebbero costituire un fenomeno destinato a scomparire e ad esaurirsi spontaneamente nel momento in cui
si giunge ad un riequilibrio dei livelli della domanda e dell'offerta del lavoro nei paesi interessati.
È chiaro che in questo modo si trascura il complesso di vincoli e di opportunità che agiscono nello specifico contesto sociale e istituzionale in cui il migrante vive.
Si trascura cioè la natura socialmente embedded delle azioni individuali; si ritiene cioè che il migrante, nel le sue decisioni, sia condizionato da fattori economici,sociali, culturali etc.

A teorie come queste, di tipo individualista - che hanno goduto di una prolungata fama non solo in campo scientifico ma anche tra le diverse organizzazioni internazionali -,
manca la comprensione del fatto che le migrazioni sono sì collegate alle differenze di reddito e di occupazione tra diverse regioni del mondo, ma queste da sole non sono una ragione
sufficiente a spingere i migranti alla partenza.

Un tentativo di superare l'economicismo e i limiti insiti nelle analisi dei teorici del Paradigma neoclassico è maturata nell'ambito stesso della scienza economica ed è identificabile nella
Nuova economia delle migrazioni. Grazie al contributo di studiosi come Odded Stark, Bloom e altri, questa teoria non si limita a considerare ciò che succede nel mercato del lavoro, ma
dà attenzione anche ad altri mercati che pure, in vario modo, condizionano gli orientamenti del mercato del lavoro stesso.

Un altro importante elemento di novità è dato dalla scelta di spostare dall'individuo alla famiglia l'unità di analisi pertinente per lo studio della decisione di emigrare.
Come ha rilevato Stark, la migrazione non è mai il frutto di una decisione individuale, anche quando chi parte è un singolo. Egli concentra quindi l'attenzione non sull'individuo
ma sulla famiglia e sulle sue strategie di allocazione delle risorse umane, finalizzate non solo a massimizzare i guadagni, ma anche a "minimizzare i rischi" da affrontare.

A questo proposito è bene tener conto di due importanti aspetti:


1)l'assenza nei paesi di origine dei migranti di quegli ombrelli protettivi costituiti dai sistemi e dagli apparati di welfare fa si che spesso siano le giovani generazioni, attraverso
le rimesse, a farsi carico dei genitori ormai anziani e inattivi, della scolarizzazione dei fratelli più piccoli, delle spese di cura dei familiari malati, del sostegno a quelli disoccupati.
2) Il fatto che le famiglie in questi paesi si trovano spesso a dover affrontare le profonde trasformazioni che caratterizzano le fasi iniziali di una ancora precaria modernizzazione
economica e a doversi dunque organizzare per contenere i rischi dei possibili fallimenti del mercato.
All'interno di questo quadro, la scelta di inviare un membro della famiglia all'estero per un certo periodo, rientra in una strategia di diversificazione degli impieghi del lavoro familiare.
Famiglie composte ad esempio da una coppia di genitori con molti figli possono ritenere prudente inviare all'estero il membro più giovane che, nel caso di crisi del mercato e di dissesti
economici, con le loro rimesse possono assolvere ad una sorta di funzione di "assicurazione casco" nei confronti dei famigliari rimasti a casa.

L’emigrazione non è più quindi il frutto di una decisione individuale che taglia i ponti con la comunità di origine, ma una scelta che ridefinisce i rapporti secondo nuove modalità.
Così, mentre l'attore razionale del Paradigma neoclassico, a causa degli squilibri temporanei esistenti nei diversi mercati del lavoro, si trasferisce all'estero in modo permanente
al fine di realizzare redditi relativamente più alti nel corso della vita, l'attore della Nuova economia delle migrazioni di lavoro cerca di gestire i fallimenti dei mercati finanziari e assicurativi
del proprio paese attraverso una migrazione temporanea che serve a riportare in patria i redditi prodotti in forma di rimesse regolari o di trasferimenti una tantum.

La Nuova economia delle migrazioni introduce un concetto che col tempo si è rivelato di grande utilità interpretativa: quello di "deprivazione relativa".
Un concetto che viene preso in prestito dalla psicologia sociale e che indica la convinzione di essere in condizioni peggiori delle persone e famiglie che costituiscono il proprio
gruppo di riferimento, ossia il gruppo sociale scelto come termine di riferimento per valutare la propria condizione.
Dalla comparazione tra le proprie condizioni di vita e di benessere e quelle degli altri che si individuano come parte del proprio gruppo di riferimento,
nasce cioè il desiderio di migliorare il proprio status ed eventualmente di emigrare.
Non è dunque il livello di reddito inteso in senso assoluto che fa sentire gli individui più o meno poveri, ma la loro collocazione nella stratificazione sociale.

Diventa così possibile spiegare una delle "anomalie" del fenomeno migratorio: quando i livelli di benessere nei paesi di origine crescono è più facile che la pressione migratoria,
anziché ridursi, aumenti. Quanto meno nel breve periodo, le migrazioni internazionali derivano non dalla carenza di sviluppo economico nei paesi poveri, ma dallo sviluppo stesso.

E in effetti le evidenze empiriche dimostrano che i migranti raramente provengono da luoghi poveri e isolati, scollegati cioè dai mercati mondiali, bensi, dal páesi e cale regioni
immerse nei tumultuosi cambiamenti che derivano dall'incorporazione economica nel commercio internazionale, nelle reti produttive, nell'informazione.
Per quanto strano possa sembrare, la povertà più estrema rappresenta un freno e non uno stimolo alla migrazione internazionale.

In definitiva, è pur vero che le migrazioni su vasta scala sono in genere associate all'esistenza di differenziali occupazionali nei livelli di reddito, ma è anche vero che questi
differenziali non implicano necessariamente la presenza di flussi migratori, né la loro assenza li esclude.
Soprattutto trova conferma l'idea che questi differenziali non possono essere assunti come il fattore principale che determina la decisione di emigrare.
La Nuova economia delle migrazioni mette l'accento invece sull'importanza che hanno gli apparati di protezione sociale, i sistemi welfare.
Questo significa che la decisione di emigrare non implica necessariamente una condizione di disoccupazione:Al contrario, la presenza di reti di welfare può scoraggiare la
mobilità della manodopera anche dove la disoccupazione è diffusa.

È interessante notare inoltre come l'approccio della Nuova economia delle migrazioni sia sostanzialmente coerente con gli assunti del Paradigma della modernizzazione dove
l'enfasi è posta sulle motivazioni individuali del migrante che sceglie razionalmente di passare da un ambiente "tradizionale" a uno "moderno" con il risultato di contribuire sia allo
sviluppo del paese di origine che a quello della società di immigrazione. In questa prospettiva il migrante è un agente di cambiamento che per mezzo delle rimesse e dei suoi
investimenti promuove il cambiamento della sua società.
Negli ultimi decenni la notevole accelerazione subita dai movimenti migratori ha contribuito a rafforzare la tesi che la crescente propensione alla mobilità umana andasse
attribuita ai soli fattori di tipo push o espulsivi (crisi economiche, disoccupazione, con itti etc. ) che agiscono nei paesi di origine e che determinano la partenza dei migranti.
Nel caso degli Stati europei, in particolare, l'avvento di regimi di ammissione sempre più restrittivi, ha indotto a ritenere che fossero le forze espulsive dei paesi di origine a
generare un usso di migranti non desiderati.
Si tratta di una convinzione ampiamente radicata nell'opinione pubblica europea che induce a misconoscere e a sottovalutare il ruolo dei cosiddetti pull factors o fattori di

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attrazione (quell'insieme di fattori che nei paesi di destinazione attraggono i migranti: le caratteristiche di irregolarità del mercato del lavoro, la possibilità di ricongiungersi

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ai familiari già presenti, il ruolo giocato dalla solidarietà organizzatanell'accoglienza dei nuovi arrivati etc.)
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Questa diffusa tendenza a concentrarsi sui soli fattori pull, o espulsivi, è stata diffusamente criticata, a partire dai primi anni '80, da una serie di sociologi del lavoro;
il capostipite di questo lone, individuabile come Teoria dualistica del mercato del lavoro, è M. J. Piore con il suo citatissimo volume, Birds of passage (1979).
L'idea di fondo di questi autori è che lemigrazioni internazionali siano causate da una domanda permanente di manodopera straniera intrinseca alla struttura economica
delle nazioni ricche e che agisce da potente fattore di attrazione.

Queste migrazioni vanno lette cioè nel quadro delle profonde trasformazioni che avvengono nei mercati del lavoro e nelle società dei paesi cosiddetti
'economicamente avanzati", che generano un fabbisogno di manodopera a basso costo e disposta a svolgere mansioni di modesto prestigio sociale.
Caratteristiche, queste ultime, sempre meno diffuse nell'offerta di lavoro autoctona, tanto che il ricorso a manodopera di importazione diventa una soluzione obbligata.

La prospettiva assunta dai Teorici del mercato duale del lavoro non è più quella di tipo micro, corrispondente all'unità che matura la decisione di emigrare, ma l'attenzione
si focalizza sulle forze operanti a un livello di aggregazione più alto (macrosociologica)
Il punto di partenza dei teorici del mercato duale del lavoro, il cui approccio si inquadra in una prospettiva di tipo "macro", è che le migrazioni internazionali non derivano solo
dalle condizioni dei paesi di partenza ma sono causate dal fabbisogno di lavoro immigrato espresso dalle economie delle nazioni ricche, ossia da fattori di tipo puro attrattivo.

La domanda di lavoro gioca insomma una autonoma funzione in termini di capacità attrattiva.
In altri termini, determinante non è quindi la "spinta ad emigrare" ma l'attrazione" esercitata dai sistemi economici dei paesi ricchi nei confronti dei lavoratori dei paesi poveri.
Posto che le persone lavorano non solo per produrre un reddito ma anche per mantenere uno status sociale e realizzare le proprie aspirazioni professionali, nelle società a
benessere diffuso risulta dif cile ricorrere alla leva salariale (aumentare i compensi) per convincere i lavoratori autoctoni a ricoprire dei ruoli socialmente svalutati.

È allora senz'altro preferibile importare dall'estero lavoratori che siano disponibili a ricoprire quelle posizioni senza dover accrescere le relative retribuzioni.
Se le ragioni che rendono indisponibile la manodopera autoctona sono note e sono perlopiù riconducibili a ragioni di tipo culturale (esempli cabili dalla sollecitazione spesso
rivolta in famiglia ai gli a ri utare lavori a bassa quali cazione ritenuti non congruenti con i titoli di studio acquisiti), quelle che rendono invece gli immigrati più disposti a
svolgere i lavori più pesanti, precari e meno quali cati possono essere individuati nel carattere di temporaneità che ad essi assegnano nell'interesse di massimizzare i guadagni
in vista di un rientro nei paesi di origine.
Se questi sono i cambiamenti che si sono registrati sul fronte dell'offerta di lavoro, bisogna prestare necessariamente attenzione anche all'evoluzione della domanda.

Le trasformazioni dei modi di produzione e dei modelli di vita hanno contribuito a far crescere la domanda dei cosiddetti bad jobs, ossia dei lavori che associano scarsi livelli di
retribuzione e di protezione sindacale. secondo la Teoria dualistica del lavoro, al settore primario, basato, sull'impiego di lavoratori quali cati che godono di alte retribuzioni,
sicurezza dell'impiego, possibilità di carriera interna etc.

Si contrappone un settore secondario in cui i lavoratori godono di basse retribuzioni, sono perlopiù sprovvisti di tutele sindacali, hanno scarse possibilità di progressione di
carriera e sono fortemente esposti al rischio di disoccupazione.In sostanza, mentre una quota sempre più alta di lavoratori autoctoni manifesta aspettative sempre più elevate
nei confronti del lavoro (come reddito, condizioni di lavoro, status professionale etc.) vi è una non trascurabile percentuale di posti offerti che corrispondono ai lavori poveri,
poco retribuiti, insalubri, scarsamente tutelati, precari e spesso pericolosi (il lavoro delle famose 3D - Dirty, Dangerous, Demeaning, sporchi, pericolosi, degradanti).

L'esito combinato di questa serie di fenomeni contraddittori è la creazione di una domanda di lavoro immigrata che si manifesta in modi non necessariamente espliciti e formali
anche in paesi con alti tassi di disoccupazione, Con la conseguenza di condurre ad una crescente segmentazione del mercato del lavoro dei cosiddetti paesi ad economia avanzata.

Questi fenomeni sono particolarmente visibili nel contesto di quelle che studiosi come Saskia Sassen hanno de nito "Città globali" ossia le metropoli del mondo ricco in cui si
concentrano le attività strategiche per il funzionamento dell'attuale economia globalizzata, nei settori della nanza, dell'amministrazione, dei servizi, professionali e del terziario ad
alta quali cazione. Qui il lavoro povero degli immigrati è visto come strettamente necessario e strutturalmente connesso al lavoro ricco.
❹LE MIGRAZIONI TRANSNAZIONALI

Transnazionalismo e co-sviluppo

Nell'ambito degli studi sulle migrazioni si è andato affermando, in particolare, un lone di ricerca particolarmente interessante che va sotto il nome di "transnazionalismo"

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Parliamo di un lone di riCerca che si impegna a studiare e comprendere quella che Va emergendo come una modalità nuova di organizzare le esperienze migratorie;

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grazie alla diffusione di tecnolopie satcllitari, Computer, COllegamenti 3erci a basso costo, mezzi hanno reso la comunicazione su lunghe distanze possibile con maggior
frequenza, velocità e regolarità di quanto non lo fosse nel passato, viene infatti contemplata la possibilità, per un numero crescente di persone, di vivere una vita duale,

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parlando almeno due lingue, avendo casa in due paesi diversi e conducendo una vita intessuta di continui e regolari contatti attraverso i con ni nazionali.
Si consolida cioè la capacità dei migranti di vivere qui e là contemporaneamente, di vivere trasversalmente rispetto ai con ni geogra ci e politici.

Sebbene in Italia la componente dei migranti che si possono effettivamente quali care come transnazionali sia ancora quantitativamente limitata, questa si prospetta come
una tendenza destinata a crescere nel tempo in modo sempre più signi cativo e a cambiare in modo radicale le stesse dinamiche di integrazione e di conseguenza le politiche.
Secondo questo approccio, la complessità degli attuali fenomeni immigratori richiede nuovi scenari interpretativi e operativi che, abbandonando i modelli bipolari che rappresentano
il migrante come uno "sradicato" impegnato ad "assimilarsi" faticosamente nel contesto di immigrazione, permettano di dar conto invece della presenza e dell'azione dei gruppi
migranti "simultaneamente"in diversi luoghi!

I migranti transnazionali tendono infatti ad essere coinvolti, come sostengono i colleghi Ceschi e Riccio, in processi sociali attraverso i quali tessono reti e
mantengono relazioni multiple che collegano le loro società di partenza, quelle di approdo, e molto spesso altre località dove sono presenti gruppi di connazionali.

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Queste collettività sono oggi intese come comunità mobili di soggetti che soggiornano all'estero senza un preciso termine temporale, circolando continuamente tra due o più territori
appartenenti a stati diversi e alimentando circuiti tramite cui transitano informazioni, oggetti, idee, capitali e immagini, conoscenze, stili di vita, signi cati, linguaggi, beni, oltre che persone.
Questi elementi contribuiscono a disegnare spazi transnazionali diversi cati e in continua trasformazione in cui i migranti sono inseriti attivamente.
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Le attività prodotte all'interno di questi ussi spaziano dal campo economico a quello politico, da quello sociale a quello più propriamente culturale e simbolico, cosicché diverse
prospettive di analisi dei fenomeni transnazionali si sono andate sviluppando. evidenziando innanzitutto la natura multidimensionale dei processi che strutturano questi nuovi spazi sociali.
Da un punto di vista più strettamente identitario, le pratiche transnazionali dei migranti contemporanei sembrano rimandare ad una nuova modalità di vivere e gestire
le vicende e le identità migratorie e di riorganizzare sia a livello pratico sia sul piano simbolico, appartenenze ed istanze di vita connesse alla propria mobilita.

Se nella retorica multiculturale, come osserva Salih, i migranti sono visti come portatori di 'culture' e 'identità', quando non di 'tradizioni*, statiche e chiuse su se stesse,
una sorta di bagaglio a mano' che donne e uomini migranti si portano appresso nel viaggio verso la modernità, l'emergere di una maggiore consapevolezza circa la dimensione
transnazionale dei processi migratori sembra contribuire a svelare la complessità dei processi identitari e culturali". il transnazionalismo sposta decisamente l'attenzione sulle istituzioni,
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sulle pratiche sociali, sulle attività economiche e sulle identità culturali che i migranti creano, nella misura in cui sono contemporaneamente partecipi della vita di due o più società.

Si creano e si diffondono così nuove reti di relazione, nuove interazioni tra identità, culture, società ed economie.
Come opportunamente ha rilevato Ambrosini. impostare transnazionalismo equivale a superare, o quanto meno a rendere più uide, le tradizionali categorie di
emigrato e di immigrato, e smettere di concerire la mirazi un processo che si gioca solamente tra luogo d'origine e luogo di destinazione.
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In questa visione, trasmigranti sono coloro che costruiscono nuovi campi sociali che collegano i diversi poli del movimento migratorio, mantenendo un ampio arco di relazioni sociali,
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affettive o strumentali attraverso i con ni".

Non di meno, nel corso degli ultimi anni, questa lettura è stato sottoposta a severi rilievi critici sia come fenomeno che come concetto; e ciò in quanto ritenuto sostanzialmente analoghi
nozioni come quelle di catena migratoria, etnicità simbolica o famiglie multi-locali già diffusamente e lungamente utilizzate negli studi etnici e migratori.

Pur assumendo come legittime le perplessità circa la reale ed effettiva novità di questo fenomeno, diversi autori hanno evidenziato l'importanza del transnazionalismo nel
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promuovere anche un approccio di politica di cooperazione allo sviluppo e dell'immigrazione centrato sulla valorizzazione delle reti dei migranti per la circolazione di
conoscenze e capacità, commercio, investimenti, aiuti comunitari, trasformazioni culturali e politiche tra paese di arrivo e di origine.
In effetti, negli ultimi anni, nell'opinione pubblica e negli ambienti politici è prevalsa la tendenza a mettere al centro del dibattito soprattutto la questione del come governare
i crescenti ussi di migranti mentre l'attenzione rivolta alla comprensione dei modi in cui questi possano agire da attori dello sviluppo e dell'integrazione translocale tra i paesi
di destinazione e di partenza ha assunto un vnlenzn aunsi residunle.
Questa prospettiva, come osserva Ceschi, permette invece di studiare, sostenere ed accompagnare l'attivazione del gruppi migrantt in direzione del miglioramento dei contesti
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di provenienza promuovendo reale e potenziale impatto delle loro azioni sullo sviluppo umano, sociale e economico del proprio proprio paese.
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Il co-sviluppo diventa quindi un modo per collegare pro cuamente per tutti ma in particolare per il mighoramento dei contesti di provenienza.
Poco per volta la tematica del co-sviluppo sta diventando per la società civile, i governi, le città, attraverso ad esempio la "cooperazione decentrata", un nuovo campo di azione
che si basa sul presupposto che i migranti possono rappresentare degli attori signi cativi per lo sviluppo sia dei territori presso i quali emigrano che di quelli di origine, tanto in
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ambito culturale e sociale quanto in quello economico".

Come detto sopra, questa nuova prospettiva impatta anche sulla questione dell'integrazione.

A partire dalla presa di coscienza dei limiti evidenti che incontrano i modelli e le politiche di integrazione "classiche" (multiculturalismi, assimilazionismi, etc.) nei confronti delle nuove
immigrazioni, oggi si tende a ragionare sulla possibilità di af ancare ad uma visione dell'integrazione intesa come processo lineare di inserimento dell'immigrato nel paese di accoglienza.
Un approccio, questo, che si fonda sul riconoscimento del diritto a uno sviluppo auto-centrato dei paesi di emigrazione e dell'imprescindibile legame che unisce sviluppo e migrazioni.
Si considerano cioè strettamente collegati i processi d'integrazione dell'immigrato con lo sviluppo "integrato" di territori locali nei paesi di origine e di accoglienza.

Più che di assumere l'integrazione circolare come un 'alternativa secca a una sempre più complicata integrazione lineare, si tratta di riconoscere la centralità delle "tradizionali politiche
di integrazione" basate sulla progressivaacquisizione di diritti politici, economici e sociali e sul raggiungimento dell'eguaglianza e delle pari opportunità tra immigrati e autoctoni (anche
se nell'esperienza dei paesi di antica immigrazione, non sempre hanno avuto successo), ma anche di af ancare a queste politiche delle iniziative che favoriscano l'"integrazione circolare"
e valorizzino a questo ne le potenzialità degli attori immigrati.

La Politica di cooperazione allo sviluppo e politica migratoria andrebbero considerate in modo complementare, e così anche le politiche commerciali e di internazionalizzazione.
I migranti, nella misura in cui non vengono assunti e considerati unicamente come vittime passive dei processi di esclusione o come meri fruitori di politiche e di interventi,
possono dunque quali carsi come attori e promotori di trasformazioni politiche, culturali e sociali, in Italia e nei loro paesi, attraverso pratiche e progetti transnazionali di scambio
di conoscenze e di promozione di forme di sviluppo comunitario dei villaggi e delle città di origine.
❺LA FEMMINILIZZAZIONE DEI FLUSSI MIGRATORI.
LE DONNE IMMIGRATE NEL SETTORE DEL LAVORO DI CURA

Migrazione, Genere e Cura


Tra i protagonisti delle migrazioni contemporanee, e di quelle transnazionali in
particolare, le donne rappresentano senz'altro una delle componenti più importanti.Donne che partono da sole, per cercare lavoro in un altro paese, come gli uomini.
Donne che assumono la responsabilità di breadwinner (ossia di capofamiglia), assicurando le risorse economiche necessarie a provvedere alle necessità della propria famiglia.
Donne che sempre più danno vita a ricongiungimenti familiari rovesciati, in cui spesso sono i mariti e/o i figli a raggiungerle all'estero.
Donne impegnate in lavori che, per quanto modesti e svalutati, si inseriscono in processi che sono determinanti per la vita quotidiana e il funzionamento delle società di accoglienza.
Donne che aumentano anche nei flussi di rifugiati e richiedenti asilo, come pure negli spostamenti prodotti del traffico di esseri umani e della tratta a scopo di sfruttamento sessuale.

Per quanto i dati siano sempre incerti e relativamente affidabili, l'ONU stima che in Europa dei quasi 22 milioni di immigrati residenti che provengono da paesi cosiddetti a forte
pressione migratoria,circa la meta sono donne. La femminilizzazione è dunque ormal riconosciuta come un tratto fondamentale delle migrazioni contemporanee.
Di fronte a questi cambiamenti, non poteva non cambiare anche lo sguardo della ricerca grazie soprattutto al contributo di numerose studiose, molte delle quali di origine immigrata,
che hanno introdotto una prospettiva di genere negli studi sulle migrazioni.

Il loro contributo ha permesso di rileggere anche il passato, mettendo in evidenza come già in epoche precedenti le donne emigrassero, spesso da sole, per fare lavori come quelli
di balia, cameriera, operaia in alcuni settori (come quello delle confezioni), senza contare il traffico di donne da avviare alla prostituzione, che non è affatto una novità dei nostri giorni.

Il protagonismo femminile nelle attuali migrazioni appare insomma come un elemento di continuità piuttosto che di rottura.
Donne migranti lavoratrici, per le quali l'andare altrove ha costituito un progetto di vita sono sempre esistite. le donne immigrate sono impiegate nel lavoro domestico assistenziale.
Il rapporto tra cura, genere e immigrazione è un tema che incrocia sempre più l'interesse di studiosi delle più diverse discipline ma che, pur nella pluralità di approcci, evidenziano un
nodo di fondo comune: la problematizzazione della questione di genere, rappresenta il vero anello di congiunzione tra quanti si occupano di care e quanti studiano, invece, soprattutto
il lato della migrazione.Da un lato, gli studi sulle migrazioni hanno visto il prevalere della figura del "migrante economico", orientato a soddisfare obiettivi materiali e idealmente
"a-sessuato" ma implicitamente identificato con il capofamiglia maschio che per sostenere il proprio nucleo famigliare cerca opportunità migliori all'estero; dall'altro la ricerca sulle
politiche di welfare ha spesso relegato in secondo piano, se non del tutto ignorato, il lavoro informale delle donne nella cura dei congiunti è nell'accudimento della casa.

Il ruolocentrale ricoperto Oggi dalle donne migranti nel settore della cura, in molti paesi europei dell'area mediterranea ed extraeuropei, svela in modo chiaro la centralità
che la dimensione di genere riveste per la comprensione tanto del flussi migratori contemporanei quanto dei processi di ristrutturazione del sistemi di welfare.
Ad essere messa in primo piano in questo contesto è soprattutto la donna originaria dei paesi dell'Est, spesso emancipata e istruita, che decide di tentare l'esperienza migratoria
nella speranza di migliorare le condizioni economiche della sua famiglia.
In realtà la situazione è molto più eterogenea e vede, oltre a donne provenienti dai paesi neocomunitari, presenze più tradizionali che si ricollegano a flussi tipicamente femminili
come quello filippino, capoverdiano, e in anni più recenti, peruviano ed ecuadoriano, nonché numerose mogli di primomigranti maschi provenienti da Asia e Nord Africa che vedono
nell'occupazione domestica, di solito ad ore/e svolta in forma irrégolare, la possibilità di integrare il bilancio familiare. Insomma, la presenza sempre più consistente di donne straniere
nei settori domestico e di cura, non solo nei paesi caratterizzati da un sistema di welfare marcatamente familistico come nell'Europa del Sud ma anche in contesti con una tradizione
più forte di intervento pubblico a favore di bambini e anziani come la Germania, l'Olanda o la Francia, mette in luce come di fatto la dimensione di -genere rappresenti una sorta di nodo
irrisolto dei sistemi di welfare contemporanei.

Appena le politiche pubbliche si ritirano, ecco che a tornare in 1º piano è la connotazione prettamente femminile della cura, che la presenza di lavoratrici straniere conferma e rafforza.
La dimensione di genere, quindi, risulta decisiva per cogliere le stratificazioni interne e le diverse rappresentazioni del lavoro domestico e di cura, che sembra attraversato da una
distinzione netta tra lavori - anche - da uomo, e lavori esclusivamente da donna (assistere, fare compagnia, cucinare, pulire etc.). Non solo quindi la presenza di donne straniere nel
settore domestico è decisamente più significativa rispetto a quella degli uomini, ma bisogna considerare anche la percezione, socialmente diffusa e legittimata, di una loro maggiore
"vocazione", "capacità" e "versatilità" ai lavori domestici e ai compiti della cura, data invece molto meno per scontata nel caso degli uomini.

La nascita del welfare informale

Il rapporto tra migrazione, genere e cura, assume un'importanza cruciale anche rispetto ai paesi di origine, dove la partenza delle donne mette in moto processi sociali non che scontati;
Oggi è al centro di un filonè di ricerca oramai estremamente ricco e sfaccettato come quello sulla famiglia transnazionale. La cura in questo caso è soprattutto "quella che viene
a mancare", che mette a nudo come la dimensione di genere influenzi profondamente, anche nelle società di origine, la percezione di cosa dovrebbe essere "giusto" e "normale",
e di cosa invece normale non è, come il lavoro di cura maschile in sostituzione di quello della madre/moglie all'estero.

E non si tratta di società facilmente liquidabili come "patriarcali", come si potrebbe pensare di alcuni contesti di partenza, ma anche di paesi, come
ancora una volta quelli dell'Europa dell'Est, dove le donne hanno sempre partecipato attivamente al mondo del lavoro.

Eppure, cura e sfera domestica restano gli ambiti femminili per eccellenza, al punto che oggi si parla sempre più diffusamente di care drain, di un drenaggio delle risorse di
accudimento dai contesti di origine, per indicare le conseguenze inevitabilmente problematiche dell'emigrazione delle donne.In questi ultimi contesti infatti, la partecipazione
delle donne autoctone al mercato del lavoro, non più sostenuta da servizi pubblici adeguati, sembra tradursi quasi automaticamente in domande di cura che rappresentano
altrettante opportunità di lavoro per altre donne, di origine straniera, che nel corso di questi anni hanno dato vita a un mercato informale di cura che corre parallelo a quello
pubblico, il cosiddetto Welfare informale' o 'parallelo'.

E lo scenario che si è affermato è stato quello di una forte crescita del protagonismo migrante nell'offerta di servizi di cura.
Un protagonismo che però ha il sapore di una delega più che di una politica consapevolmente perseguita dalle istituzioni.

Il sistema di welfare italiano risulta infatti dipendente da una manodopera importata dall'estero, ma al tempo stesso sembra incapace di includerla nelle proprie maglie istituzionali
e di renderla parte di una programmazione più complessiva.
| cosiddetti "registri delle badanti", istituiti in questi ultimi anni in molti comuni italiani hanno risposto, seppur in modo limitato, proprio all'esigenza
di favorire l'emersione del lavoro nero e di incorporarlo nell'offerta di servizi erogati in favore delle persone non autosufficienti.

In un contesto come quello attuale di crescente privatizzazione e di terziarizzazione della cura, il protagonismo dei migranti non può che rafforzarsi ma deve (e dovrà in
previsione degli effetti di recessione economica che l'attuale crisi sanitaria inevitabilmente produrrà nel breve/medio periodo) fare sempre più i conti con una tendenza
di ridottissima crescita del reddito pro-capite e di erosione della capacità di spesa delle famiglie.

Questa domanda di lavoro femminile immigrato finora si è incastrata perfettamente con il modello "familistico" di welfare, tipico del nostro come di altri paesi mediterranei:
un sistema di protezione sociale basato principalmente su trasferimenti di reddito, soprattutto sotto forma di pensioni, e meno su servizi pubblici alle persone e alle famiglie
(pensiamo solo alla forte carenza di asili nido e di scuole per l'infanzia).
In questo modo alle famiglie (e in particolare alle donne), implicitamente, vengono delegati svariati compiti di cura che in altri paesi vengono presi in carico dai servizi pubblici.
Ma questa architettura del welfare riflette un assetto sociale "tradizionale", in cui gli uomini lavorano fuori casa e le donne si occupano dei compiti che riguardano la sfera domestica.
Un assetto che però traballa sempre più, soprattutto da quando anche le donne sposate sono entrate massicciamente nel mercato del lavoro extra-domestico ed è aumentato il
numero di anziani da assistere, mentre non ha fatto grandi progressi la redistribuzione dei compiti domestici all'interno delle famiglie.

Sul versante dell'assistenza agli anziani i limiti del modello italiano sono particolarmente evidenti, visto che assistenza domiciliare pubblica e i vari assegni di cura non bastano a
fronteggiare i fabbisogni delle famiglie e il ricovero in strutture di assistenza comporta costi economici e sensi di colpa.

L'impiego di assistenti familiari immigrate serve proprio a puntellare le difficoltà sempre più evidenti delle famiglie nel sostenere carichi domestiche assistenziali crescenti.

Come da tempo sostiene Jacqueline Andall, l'emancipazione di molte donne, italiane comprese, dall'incombenza delle attività di casa e di cura dei figli o dei familiari anziani,
a seguito del loro ingresso nel mercato del lavoro extra-domestico, e in assenza di un adeguato sostegno dei servizi pubblici, è stata e viene ottenuta in molti casi delegando ad
altre donne, quelle straniere appunto, una parte più o meno importante di questi compiti.
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Donne che a loro volta si trovano nella condizione di dover rinunciare a svolgere quegli stessi compiti di cura dei propri gli e familiari nei loro paesi di origine.

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Un fenomeno che, oggi come ieri, è destinato a produrre un trasferimento di risorse di accudimento dai paesi poveri verso le famiglie dei paesi più ricchi e che contribuisce a creare
le cosiddette catene di cura internazionali.

Le prestazioni che le società di accoglienza richiedono a queste donne derivano semplicemente dalla loro identità femminile, con l'aggiunta della provenienza da società
suppostamente "tradizionali" che si presume le predisponga positivamente a prendersi cura della casa e di persone che si trovano in una condizione di debolezza.
La relativa facilità nel trovare lavori di questo tipo nelle nostre città e nei piccoli centri, specie in assenza di un regolare permesso di soggiorno, ha come contrappunto una certa
dif coltà a uscirne per inserirsi in attività più quali cate.

Le conseguenze sono diverse:


Prima tra tutte, la saldatura tra uno stereotipo "etnico" e uno di genere: essere donna; immigrata, originaria di determinati paesi, ed essere considerata "naturalmente
predisposta" a svolgere mansioni di collaboratrice domestica o assistente familiare, diventano caratteristiche che niscono col coincidere completamente.
È evidente che il lavoro di assistente familiare non risponde ad alcuna vocazione naturale delle lavoratrici immigrate (che possono avere, e
spesso hanno, le esperienze e le aspettative professionali più diverse), ma ne rispecchia semmai la essibilità:
manifesta la loro capacità di adattarsi alla domanda di lavoro esistente, laddove, sul medio periodo, si creano spazi di lavoro meno penalizzanti rispetto alle istanze
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extralavorative, o meglio conciliabili con progetti di ricongiungimento familiare, le lavoratrici straniere tendono a farne uso:
"Fare la badante" è, in altre parole, il primostep di un iter migratorio, spesso con valenza strumentale ed estemporanea, rispetto a:
un inserimento relativamente più tutelato, per lo più in altre nicchie dei servizi alla persona.

Sono ormai numerosi i riscontri empirici su fenomeni di diffusa violazione degli obblighi contrattuali, ma anche di soprusi e prepotenze. Specialmente nel caso di migranti in condizioni
di irregolarità, è facile che si creino situazioni che sembrano riportare indietro le lancette dell'orologio della storia, intrise come sono di legami personali, di dipendenza dalla benevolenza
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dei datori di lavoro che si estende a vari aspetti della vita privata. Le stesse lavoratrici straniere spesso mettono in evidenza l'importanza dei rapporti umani stabiliti, che compensano
le zone d'ombra nella formalizzazione dei contratti e nel riconoscimento dei diritti.
Maurizio Ambrosini sostiene"Ritorna la sovrapposizione tra abitazione e luogo di lavoro; Ritorna la benevolenza come atteggiamento e come scelta discrezionale dei datori di lavoro.

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Ritorna un'asimmetria, uno squilibrio profondo nei rapporti, insieme alla dipendenza reciproca tra datori di lavoro e lavoratrici; Ritorna un contesto in cui il "padrone" è anche "patrono",
non sempre conosce bene il linguaggio dei diritti ma è disponibile ad assumere un ruolo di 'protezione' nei confronti della lavoratrice che accoglie sotto ilproprio tetto".
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Questa benevolenza a un certo punto spinge molti datori di lavoro a farsi promotori della regolarizzazione delle donne in condizioni di irregolarità che lavorano per loro in nero,
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Un elemento importante su cui ri ettere attentamente e che parliamo di un lavoro che, anche quando regolarizzato, non viene facilmente riconosciuto come "lavoro", affonda, o meglio a
volte è il caso di dire che sprofonda nell'invisibilità sociale.

Gli effetti della migrazione delle donne sui paesi di origine


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Il usso di donne migranti e il loro impiego nei lavori di cura, come già osservato, da un lato sopperisce alle carenze del sistema di
welfare nei paesi europei e, dall'altro, crea nuovi problemi di welfare nei paesi di origine a causa del cosiddetto "care drain".
I rapporti famigliari delle donne che emigrano vengono assai spesso sottoposti a tensioni emotive, sociali e psicologiche che non tutti
i nuclei di origine riescono a reggere nel corso del tempo, con evidenti conseguenze negative sulle relazioni con il partner, i gli ed i genitori.
Se da un lato le rimesse economiche e l'invio sistematico di beni che derivano dal lavoro di cura svolto in Italia permettono di superare le
dif coltà nanziarie che sono spesso alla base del progetto migratorio, con un evidente ritorno complessivo per il paese d'origine, dall'altro
non sono indifferenti le dif coltà relazionali vissute da molte famiglie transnazionali di immigrati.
La migrazione femminile puo avere in molti casi effetti devastanti nei sistemi di welfare del paese di origine.
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Le donne che lasciano il paese fanno venir meno un’importante fonte di cura familiare (care drain) che a sua volta si traduce in una maggiore
e diversa domanda di cura rivolta sistema formale dei servizi nei loro paesi.
In diversi contesti di origine, si stanno mobilitando attraverso nuove iniziative per far fronte alle nuove problematiche e alle forme di disagio che
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i gli detti anche orfani bianchi spesso esprimono. Anche le strutture che si occupano di anziani risentono dell’accresciuta migrazione femminile.
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Esiste ormai un vivace dibattito a livello internazionale sull’effetti dell’interdipendenza tre processi di un sedimento socio lavorativo di migranti
nelle società ospitanti e le condizioni di vita nel contesto d’origine, per lo scambio di risorse di accudimento veicolato dei processi migratori;
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Per il ruolo delle politiche sociali nei paesi di provenienza e per il fabbisogno di nuovi interventi non necessariamente riferibili ai soli attori pubblici;
per le conseguenze sugli assetti di welfare delle società d'origine e di destinazione dei migranti.
Di qui l'esigenza di ampliare il campo d'analisi della politica sociale al di là della convenzionale cornice statocentrica, per cercare di cogliere la portata
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e le implicazioni della circolazione transnazionale di personale di cura verso i paesi riceventi, e di trasferimenti monetari - nonché di risorse di accudimento
in senso lato - verso i paesi d'origine.
Rispetto a questo dibattito nel contesto italiano è ancora poco diffusa la ri essione sul rapporto tra immigrazione e welfare, così come sulle interrelazioni tra
migrazioni e cooperazione allo sviluppo, specie nell'ottica decentrata e partecipativa del cosiddetto "co-sviluppo".
Le migrazioni di cura mettono risorse per soddisfare i bisogni sociali che vuol far State nazionali non riescono a soddisfare internamente ma al contempo
la loro stessa esistenza produce un impatto che trasforma i con ni del Well far, lanciando nuove s de agli Stati sociali. Il dibattito italiano sul lavoro immigrato
femminile di cura si è recentemente esteso alle implicazioni sociali, comunitarie e familiari di nuovi ussi mica migratori, rispetto agli assetti di Well far e di
accudimento informale nei paesi di provenienza.
Oggi ci si chiede prima di tutto se il 'transnational care trade' sia necessariamente fonte di ulteriori disuguaglianze; se lo scambio di risorse di cura tra paese
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d'origine e di destinazione si debba con gurare necessariamente come scambio ineguale, o se esistano condizioni e margini d'intervento politico per fare in
modo che non sia un "gioco a somma negativa".
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In questa prospettiva, e anche a partire da un rinnovato ruolo della cooperazione sociale, si stanno mettendo a punto nuove progettualità tese a valorizzare il protagonismo
dei migranti nel settore dell'assistenza, nalizzandolo a uno sviluppo sociale contestuale sia dei paesi presso i quali emigrano sia di quelli di origine (co-sviluppo).

Alcuni progetti pilota realizzati in questi ultimi anni hanno dimostrato l'importanza di un impegno in questo senso: in alcuni paesi, lo sviluppo di partnership
tra cooperative sociali che operano nel settore nei contesti di arrivo e in quelli di origine delle donne migranti ha creato migliori possibilità di sviluppo e di
circolazione delle competenze e ha rafforzato attrattività delle professioni di cura e motivazione al lavoro, anche a fronte di compensi ridotti.

Come è accaduto questo? Facendo ricorso ad esempio a delle forme di rotazione organizzata delle presenze che consentono alle donne interessate di alternare,
nel corso dell'anno, periodi di lavoro all'estero con periodi di permanenza in famiglia; ossia strutturando in forma organizzata ciò che molte assistenti familiare
straniere nella realtà già fanno ed evitando un turnover spesso disorientante per i loro assistiti e per i loro familiari.
Quelli che al momento si con gurano come progetti di cooperazione prevalentemente da organizzazioni della solidarietà organizzata potrebbero
dunque trasformarsi in interventi di governo e di cooperazione utili a promuovere circuiti integrati di welfare trans-nazionale.
In questa prospettiva, una gestione adeguata dei ussi migratori potrebbe contribuire ad una migliore erogazione di welfare sia nei contesti di immigrazione
che nelle società di provenienza dei migranti e la cooperazione, combinando le proprie risorse con quelle di altri attori, potrebbe contribuire a questo esito.
Se i tradizionali sistemi di welfare, come noto, sono nati all'interno di spazi nazionali, esperienze come quelle appena descritte aprono invece - in analogia con il
concetto precedentemente visto di co-sviluppo - a una prospettiva di ragionamento nei termini di un Co-welfare.
❻LEZIONE DEL 31 MARZO 2020 LA MOBILITÀ FORZATA

Le cause che sono all'origine delle migrazioni forzate sono varie e tutte note:

con itti armati, violazioni dei diritti umani ma anche disastri ambientali e naturali e spesso, contestualmente, condizioni economiche
così drammatiche da mettere repentaglio la sopravvivenza stessa delle persone; A questi soggetti si possono aggiungere poi le vittime
della tratta a scopo di sfruttamento sessuale di lavoro forzato, così come i cosiddetti bambini soldato.
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La distinzione tra migrazioni volontarie e forzate si è basata tradizionalmente su un istituto giuridico internazionalmente riconosciuto che
è quello del rifugio politico che de nisce lo status di rifugiato, ossia di colui che è costretto a lasciare il proprio paese e che ha diritto alla
protezione all'assistenza da parte del paese che lo ha accolto.
Il rifugiato, ricordiamo, è una persona che "temendo con ragione di essere perseguitata a causa della sua razza, religione, nazionalità, della
sua appartenenza a un certo gruppo sociale o delle sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui ha la nazionalità e non può o, a
causa di questo timore, non vuole richiedere la protezione del suo Paese".
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Ricordiamo anche che il (Richiedente asilo) è invece una persona che ha fatto istanza di riconoscimento (della protezione internazionale e
che è in attesa di conoscere l'esito della sua richiesta.
Nel tentativo di adattare il sistema di protezione alla mutata natura dei ussi migratori forzati, nei decenni successivi si è cercato di adottare
degli strumenti complementari a livello regionale.

Si è dunque estesa la de nizione di rifugiato introdotta nella Convenzione di Ginevra, che tutela soltanto coloro che si trovano fuori dal proprio paese
per sfuggire ad atti persecutori motivati da una delle ragioni (razza, religione, opinioni politiche, etc.) contenute nella de nizione stessa della Convenzione.
Così, ad esempio, la Convenzione dell'Organizzazione dell'Unità Africana ha incluso nella de nizione di rifugiato anche coloro che sono stati costretti
a lasciare il proprio Paese a causa di un'aggressione esterna, occupazione.

In particolare, la Direttiva 2011/95/UE contiene norme sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della quali ca di bene ciario di protezione
internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a bene ciare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto
della protezione riconosciuta, ha aggiunto allo status di rifugiato quello di Protezione sussidiaria, che deve essere accordato a coloro che, pur non
possedendo i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati, se rimpatriati correrebbero un rischio effettivo di subire un danno grave.
Il concetto di danno grave include "la condanna a morte o,all'esecuzione, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante.
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In questi ultimi anni in Europa è aumentato inoltre il numero di migranti ai quali viene accordata una forma di protezione umanitaria pssia di soggetti
che non possiedono requisiti utili ad ottenere lo status di rifugiato o diprotezione sussidiariayma per i quali si ritiene che esistano cause di natura

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umanitaria tali da non permettere di disporre il ritorno nel Paese di origine, Il ricorso a questa forma di protezione, quasi "residuale" varia molto a
seconda dei paesi tanto da non essere neppure prevista nella legislazione di diversi Stati europei.

Le speci cità del caso italiano in merito al riconoscimento di Protezione internazionale, Protezione sussidiaria e Protezione umanitaria:
- Il riconoscimento dello status di titolare di protezione internazionale (o di rifugiato) permette di ottenere un permesso di soggiorno della durata di
cinque anni che può essere rinnovato ad ogni scadenza. Questo permesso dà diritto, a chi ne è titolare, di svolgere un'attività lavorativa sia autonoma
che subordinata, di accedere al pubblico impiego, alle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale, alle prestazioni assistenziali dell'Inps e allo studio.
Il rifugiato ha inoltre diritto, in questo caso, al ricongiungimento familiare e a disporre di un documento di viaggio.

2011/95/UE, de nisce la persona ammissibile alla protezione sussidiaria "il cittadino di un Paese non appartenente all'Unione europea o l'apolide che
non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine,
o, nel caso di apolide, se ritornasse nel paese di residenza abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e il quale non può o, a causa
ditale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese".

Il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria ha una durata di cinque anni, è rinnovabile a patto che sussistano ancora i motivi per cui è stato
rilasciato e consente, tra le altre cose, l'accesso allo studio, lo svolgimento di un'attività lavorativa e l'iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale.
Anche il titolare di protezione sussidiaria può richiedere l'ingresso in Italia dei propri familiari e richiederne la conversione, in presenza dei requisiti di legge,
in un titolo di soggiorno per motivi di studio, lavoro o famiglia.

- Un ulteriore livello di protezione,è quello della( protezione umanitaria) Questo dispositivo è stato abrogato dal decreto legge 4 ottobre 2018 n. 113 su
Immigrazione e sicurezza, noto come Decreto Salvini. Si tratta di una forma di protezione che veniva concessa per ragioni diverse che potevano andare
da problemi di salute a condizioni di grave povertà nel paese d'origine di un richiedente asilo.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari veniva rilasciato nei casi in cui non sussistevano i requisiti per l'asilo politico e per la protezione sussidiaria,
ossia nei casi in cui la Commissione territoriale riteneva vi fossero gravi motivi di carattere umanitario.
La decisione di abolire la protezione umanitaria è stata giusti cata con argomentazione di un uso strumentale e discrezionale che nel corso degli anni se ne
sarebbe stato fatto e sulla convinzione che costituisse un dispositivo che estendeva una serie di importanti diritti a un numero eccessivo di richiedenti asilo.

Alcune tipologie di permessi di soggiorno, già previste nel Testo Unico in materia di immigrazione del 1998, sono state invece ride nite con la dicitura "casi speciali":
Permesso di soggiorno per protezione sociale,) rilasciato agli stranieri che hanno necessità di protezione, (ad esempio dalla criminalità organizzata o da associazioni
per lo sfruttamento dalla prostituzione.
Permesso di soggiorno per /vittime di violenza domestica), rilasciato allo (straniero per cui si accerta che sia vittima di situazioni di violenza o abuso tali da
rappresentare un pericolo per la sua incolumità a causa della sua denuncia di tali violenze o abusi.
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Permesso di soggiorno per (particolare(sfruttamento lavorativo, rilasciato agli stranieri che (abbiano denunciato casi di grave fruttamento lavorativo)
Questi nuovi permessi di soggiorno risultano applicabili a una minoranza decisamente più ristretta di persone; secondo alcune autorevoli previsioni
(come quelle formulate dall'ISPI-Istituto di Studi per la Politica Internazionale), a seguito dell'abolizione della protezione umanitaria, sarebbero quasi
70.000 le persone a rischio di caduta in situazioni di irregolarità entro la ne di quest'anno.
Rischio che, in altre parole, aumenti il numero di migranti che non possono regolarizzare la propria situazione e che decidano di restare in Italia in

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condizioni di irregolarità Tra coloro che bene ciano dello status di rifugiato, una componente speci ca è rappresentata dai migranti che sono coinvolti
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in procedure di resettlement o reinsediamento), ossia di ricollocamento dal Paese che aveva inizialmente accordato loro protezione a un altro Paese
che ha accettato di 'farsene carico'.

L'emergenza profughi esplosa nel corso del 2014/15, con l'improvviso impennata delle richieste d'asilo, ha però imposto la necessità di intensi care
le operazioni di resettlement e di redistribuzione fra gli Stati membri dell'Unione europea dei richiedenti asilo.

Questo meccanismo,rappresenta una deroga, anche se di carattere emergenziale, alle norme in vigore e basate sull'ormai noto Regolamento di
Dublino che assegna abitualmente la responsabilità per la valutazione delle domande d'asilo allo Stato
membro di primo ingresso nel territorio dell'Unione.Dal punto di vista delle politiche, motivi di tipo legale nanziario e morale rendono comunque
piuttosto dif cile il trasferimento di quanti hanno visto rigettare la propria domanda di asilo. Si è così diffuso un fenomeno come quello degli asilanti in
nero, ossia di persone di cui si tollera la presenza nonostante la loro istanza di protezione internazionale sia stata rigettata.

È proprio lo sforzo di ridurre il numero delle richieste di asilo presentate e di impedire l'ingresso sul territorio del Paese che alimenta gli ingressi irregolari
dei "veri" e dei "falsi" migranti umanitari, aggravando il fenomeno della sovrapposizione tra migrazioni umanitari e irregolari che indebolisce ulteriormente
l'ef cacia del sistema internazionale di protezione.

Le dif coltà nella gestione dei richiedenti protezione internazionale, insieme al moltiplicarsi dei ussi misti, rendono pertanto sempre più dif cile delimitare
in modo netto i contorni della mobilità forzata.
Non a caso gli esperti a livello internazionale parlano di un migration-asylum nexus, ossia evidenziano come ussi per ragioni diverse e inquadrati in
diversi regimi giuridici si manifestino con modalità praticamente identiche, ad esempio facendo ricorso alla stesse rotte (mediterranea o balcanica) e
agli stessi canali di ingresso.
Il proliferare di forme di protezione così diversi cate, non solo ha reso più dif cile la distinzione tra migranti volontari e migranti forzati ma ha fatto sì
che questi ultimi somigliassero sempre meno al tipo di rifugiato che è scaturito dalla Convenzione di Ginevra, quello del dissidente politico perseguitato
dalle autorità del suo governo.
La minaccia dalla quale si fugge oggi non è necessariamente lo Stato ma anche un attore della società civile o addirittura un membro della propria famiglia.
Le paure di persecuzione non riguardano solo 'imprigionamento ma la più ampia dimensione dei diritti umani; comprendono ad esempio la paura di subire
mutilazioni genitali, le violazioni dei diritti di persone appartenenti a minoranze che vengono de nite in base all'orientamento sessuale e così via.
In ne, non dobbiamo neanche trascurare il fatto che gli attuali regimi di protezione sono stati concepiti in base a un "modello" storicamente maschile di
rifugiato mentre oggi si sa che i percorsi dei migranti forzati si declinano in gran parte al femminile.

Una più chiara de nizione dei con ni tra migrazioni forzate e irregolari sarebbe funzionale anche a mantenere il consenso delle opinioni pubbliche che nel
corso di questi anni hanno manifestato atteggiamenti di sempre più marcata insofferenza nei confronti dei migranti umanitari.

Se in passato questi ultimi venivano rappresentati come soggetti "meritevoli" di essere accolti, più di recente, per via della tumultuosa crescita del fenomeno,
tendono ad essere considerati, no a prova contraria, come possibili mentitori, come soggetti che utilizzano strumentalmente l'istituto del rifugio per aggirare
le norme restrittive in materia di migrazioni per lavoro.
In questa fase delle migrazioni internazionali, caratterizzata da una sempre più accentuata ansia di controllo, contrasto e "difesa" da arrivi sempre meno spesso
desiderati e sollecitati dai Paesi di destinazione, le migrazioni forzate tendono ad essere considerate come un fenomeno indesiderabile per le società di accoglienza.

Anche le migrazioni propriamente umanitarie sono esposte sempre di più a processi di criminalizzazione, alimentati dalla rappresentazione dei richiedenti asilo
come competitori e usurpatori della generosità dei sistemi di tutela e protezione, ossia come coloro che tentano di forzare illegittimamente il con ne tra insider outsider,
no ad alimentare forme inedite di razzismo.
La rappresentazione di questi migranti tende a collocarsi sempre più spesso tra le due polarità opposte delle "criminalizzazione" e "vittimizzazione".
❼LE SECONDE GENERAZIONI DELL'IMMIGRAZIONE

Recentemente l'attenzione, a livello di dibattito pubblico, si è focalizzata soprattutto sulla categoria dei Minori Stranieri soli,

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nendo spesso col trascurare quella componente, numericamente assali più rilevante, della popolazione straniera ) presente

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in itala che sono i gli dell'immigrazione" a giovani nati in Italia o ricongiunti alla famiglia in tenera età, e che nel loro insieme
formano la cosiddetta "Seconda generazione di migranti"

-Nelle migrazioni di ogni tempo il passaggio da una prima a una seconda generazione ha rappresentato sempre un fattore di
cambiamento di fondamentale importanza. Importante perché sviluppa il presente (i problemi, le dif coltà, il bisogno di sentirsi
riconosciuti comeinsiders ma di essere anche rispettati nelle proprie differenze) include il futuro (i nuovi cittadini, la società che
saremo, la multiculturalità come norma), senza però dimenticare il passato, le precedenti appartenenze, origini, i riferimenti identitari.
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Minori stranieri, alunni immigrati, giovani di origine immigrata, seconde generazioni, studenti di gruppi etnici minoritari etc.,;
qualunque sia la de nizione usata non è dif cile coglierne subito il carattere riduttivo e limitante Riduttivo perché queste de nizioni,
come tutte le de nizioni, espongono al rischio concreto di ridurre) appunto, la ricchezza di una storia, di una biogra a e della speci ca
cultura Jai qui è espréssioné/pauna,indistinta e generalizzante matrice comune;

Sono "giovani stranieri" e basta. Come ha scritto il collega Alessandro Dal Lago, i migranti, e ancora di più i giovani, "non minacciano
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la nostra cultura perché visibilmente appartenenti ad un'altra, ma perché esercitano la pretesa di vivere fuori dalla loro".

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Ad esempio quella della Rete G2-Seconde Generazioni: un'associazione nata nel 2005 a Roma e poi diffusasi poco per volta a livello nazionale.
Nella Home page del loro sito https://www.secondegenerazioni.it/ questi giovani si presentano come "un'organizzazione nazionale apartitica fondata
da gli di immigrati e rifugiati nati e/o cresciuti in Italia. Chi fa parte della Rete G2 si autode nisce come "Tiglio di immigrato" e non come "immigrato":
i nati in Italia non hanno compiuto alcuna migrazione; chi è nato all'estero, ma cresciuto in Italia, non è emigrato volontariamente,ma è stato portato
qui da genitori o altri parenti.

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Oggi Rete G2 è un network di "cittadini del mondo") originari di Asia, Africa, Europa e America Latina, che lavorano insieme su due punti fondamentali;

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I diritti negati alle seconde generazioni senza cittadinanza italiana e l'identità come incontro di più culture"
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Come accade per i giovani delle cosiddette "Gang", o Bande dei Latinos, sono piuttosto le società di accoglienza, (opinione pubblica, media, studiosi etc.)

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a raccontarli/rappresentarli/de nirli con modalità che niscono per essere spesso parziali, unilaterali, riducendo le loro presente perlopiù a fenomeni"
problematici, senza che "loro" possano de nirsi e raccontarsi in prima persona.
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Diventa facile allora ridurli, seguendo allarmismi e ansie criminologiche, a "una bomba sociale a scoppio ritardato", a gruppi sospesi tra troppi mondi
(quello che si sono lasciati alle spalle, il nostro etc.); a giovani sempre in difetto, "potenzialmente devianti" e comunque esposti al sospetto della società adulta:

L'immigrazione straniera in Italia è entrata ormai in una fase matura, segnata dalla graduale stabilizzazione sul territorio dei nuovi arrivati.
Il segnale più chiaro di questo passaggio è dato proprio dalla crescente presenza del contingente dei gli di immigrati e si tratta di un fenomeno che rappresenta non solo
Un nodo fondamentale degli attuali fenomeni immigratori ma anche un fattore importante di cambiamento delle nostre società e una s da cruciale per la coesione sociale.
Spesso il desiderio dell'immigrato stesso è comprensibilmente quello di tornare nel proprio Paese ma la realtà dei fatti e le circostanze della vita portano,
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in molti casi, a una ride nizione del progetto migratorio e all'insediamento de nitivo, o comunque a lungo termine, sul territorio.
Il segno più evidente di questa scelta è la ricostituzione del nucleo familiare attraverso il ricongiungimento con mogli, gli, genitori etc. arrivati dal Paese
d'origine oppure attraverso la formazione di una nuova famiglia (un fenomeno in aumento è quello dei matrimoni misti, ossia le unioni tra italiani e stranieri).
Attualmente, in Italia, i gli degli immigrati rappresentano un gruppo in forte crescita e composto in prevalenza da giovanissimi: e i numeri ce ne danno conferma.
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La Fondazione ISMU nel XXV Rapporto sulle migrazioni in Italia 2019, ha stimato una presenza in Italia di 6 milioni e 222 mila stranieri su una popolazione di
60 milioni e 360mila residenti (oltre uno straniero ogni 10 abitanti).
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La presenza complessiva delle seconde generazioni di età compresa tra i 0 e i 35 anni (nate in Italia da almeno un genitore straniero o giunte minorenni) è di 2.825.182.
Gli alunni/studenti di origine immigrata sono 842mila, pari al 9,7% del totale degli iscritti nelle scuole italiane, dall'infanzia alle secondarie di secondo grado.

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In Italia si sono utilizzate diverse de nizioni per inquadrare questa categoria di persone; La de nizione più rigida considera appartenenti alle seconde generazioni soltanto
coloro che nascono nel paese in cui la famiglia è emigrata, nel nostro caso quindi solo i nati in Italia da genitori stranieri.
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Un'accezione un po' più ampia considera sia i nati in Italia sia quelli che sono arrivati entro i primi anni di vita (4-5) specie attraverso i ricongiungimenti familiari.
In ne, in base a un'accezione più estensiva, si de niscono come appartenenti alle seconde generazioni tutti i minori stranieri, nati o meno in Italia; e quindi i minori
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"minori non accompagnati", compresi i richiedenti protezione internazionale e spesso anche quelli arrivati attraverso le adozioni internazionali.
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È chiaro che a seconda della de nizione utilizzata cambia anche il modo in cui li si quanti ca e dunque i numeri stessi.
Fatte queste premesse, possiamo iniziare col dire che ogni ragazzo-adolescente, autoctono o migrante che sia; come suggeriva un autorevole psicologo
come Erikson, può essere paragonato ad un acrobata, un trapezista che «nel bel mezzo del suo slancio vigoroso, deve abbandonare la salda presa
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dell'infanzia e cercare di afferrare un solido appiglio nell'età adulta, e tutto ciò dipende, in un intervallo di tempo che mozza il ato dall'emozione, dalla
possibilità di instaurare un legame tra passato e futuro, nonché dall'attendibilità di coloro da cui si sgancia e di coloro che sono destinati a riceverlo».

L'esperienza di mobilità socio-territoriale vissuta dal giovane migrante può rendere ancora più complessa, dif cile, e a volte dolorosamente drammatica, una crisi
adolescenziale che interessa tutti i giovani. Quale appigli lascia e quale appigli afferra il giovane immigrato arrivato in Italia in minore età dai paesi dell'Est europeo.
Con il loro arrivo o con il loro essere gli di migranti già inseriti nel paese di accoglienza, i ragazzi entrano in rapporto con diversi «mondi di signi cato», dif cili da
capire no in fondo, con modi di fare e abitudini diverse, spesso contrastanti tra loro; Mondi che avevano immaginato, sognato magari attraverso i racconti dei genitori
(che spesso non descrivono il paese reale ma, appunto, quello sognato e immaginato), le rappresentazioni dei mass medi, della pubblicità. Si ritrovano non di rado a
confrontarsi, spesso in modo ancora più stringente dei loro coetanei autoctoni, con il problema cruciale dell'appartenenze e dell'identità e spesso si trovaho a doverlo
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fare a partire da un "non".
La dif coltà principale per molti giovani è allora quella di ricercare soluzioni e strategie capaci di organizzare e dare la giusta importanza in modo coerente e armonico
agli antichi e ai nuovi valori, espressi dai due, e spesso più, modelli culturali e di vita (quelli del paese da cui arriva, quelli della nuova società o di altre in cui ha vissuto
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precedentemente), all'interno di un complesso e coerente sistema di ideali, valori e progetti?

Ecco xké il minore immigrato viene descritto come "sospeso tra 2 mondi e 2 culture", anche se non sempre ha propriamente una condizione precedente da cui allontanarsi.
Mai come in questo caso il condizionale è d'obbligo in quanto i fattori che rendono laboriosi i percorsi di integrazione nel paese ospite sono molteplici; innanzitutto perchéle
differenze, somatiche, linguistiche e culturali, continuano spesso a essere percepite, sia a livello individuale sia a livello sociale, come "segni di diversità".

Differenze che a seconda delle origini, possono facilmente trasformarsi in uno stigma, in un marchio sociale che rischia di accentuare la
sensazione di ritrovarsi sospesi su una linea di con ne che divide due spazi e due culture di riferimento.
È spesso la penosa sensazione che intere generazioni di migranti hanno vissuto, quella di non appartenere più del tutto alla realtà che si è lasciata ma di non appartenere
neanche a quella in cui si vive; di essere vissuti con distacco nel paese da cui provengono e di non essere riconosciuti come parte integrante della società in cui si sono trasferiti;
Il minore straniero vive senz'altro la dif coltà di affrontare il complesso legame tra il proprio passato - reale o simbolico - e il proprio presente.
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La costruzione dell'identità nei minori stranieri coinvolge persone che appartengono a mondi culturalidifferenti e comporta dunquê,
che, a differenza dei coetanei italiani (ma questo è vero no a un certo punto), a loro non sia data la possibilità di avere un'unica forte identità.
È la dif coltà a rispondere alla fondamentale domanda "chi sono"? "A quale terra, lingua, cultura appartengo veramente"?
Questi giovani sono stati de niti dagli studiosi la "generazione del sacri cio", in quanto generazione destinata a pagare forse i costi più alti
del percorso migratorio familiare, Sono "migranti" senza averlo voluto o deciso e devono adattarsi ad una situazione in cui spesso i genitori

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sono logorati dal lavoro e dalla lontananza dal paese d'origine; Rappresentano una generazione che è cresciuta molto negli ultimi anni, in molti
paesi europei e soprattutto in Italia, rendendo il fenomeno impegnativo e faticoso da gestire nei modi più adeguati e rispettosi della loro diversità.

Scuola, servizi sociali, sono istituzioni che ogni giorno si confrontano con i nuovi interrogativi che la crescita di una società plurietnica comporta.
Si tratta di una generazione che cresce, congiuntamente alla problematicità di cui si fa espressione e che talvolta si rende più concretamente
riconoscibile attraverso fenomeni come - purtroppo - il ritardo e l'insuccesso scolastico, il disagio individuale e familiare, il maggior rischio di devianza.

Con la nascita del gli, nascono anche nuove esigenze di de nizione, rielaborazione e trasmissione del patrimonio culturale del paese da cui si arriva,
nonché del modelli di educazione familiare. A questo riguardo, le differenze religiose sono diventate negli ultimi anni un nodo cruciale della regolazione
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del pluralismo etnico e culturale in molti paesi europei di più antica tradizione immigratoria.
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È indubbio che una funzione integrativa di primaria importanza è quella assolta dalle politiche locali, e in particolare da quelle educativo/formative;
molto dipende infatti dal grado di apertura di queste ultime nei confronti di alunni e studenti con un diverso retroterra linguistico e culturale, dagli investimenti

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nel sostegno all'inserimento e all'affermazione dell'educazione interculturale come valore. Ultimo, ma non ultimo, dalla capacità di fornire ai gli dell'immigrazione
prospettive reali di pari opportunità e di possibilità di competizione, eliminando il gradino sociale di differenza che spesso caratterizza le prime generazioni immigrate.
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È infatti evidente che la questione dell'integrazione delle Seconde generazioni ripropone e rimette prepotentemente al centro del dibattito la questione
dell'uguaglianza delle opportunità e del ruolo dell'istruzione come strumento di mobilità sociale. Più in generale la presenza di questi giovani rappresenta per la
scuola una importante occasione per ripensare se stessa e avviare una nuova ri essione su quelli che sono i suoi orientamenti educativi, sulle modalità didattiche
ma soprattutto sul tipo di sapere e di conoscenza che essa trasmette, riproduce e che si sono a lungo orientati in senso monoculturale.

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Le future generazioni di nuovi italiani saranno probabilmente più disponibili a riconoscersi in un'identità "anche" italiana se ne avvertiranno la matrice autenticamente
inclusiva e rispettosa delle loro appartenenze.
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Alcuni nodi della convivenza interetnica
Una prima questione riguarda la regolazione degli ingressi.
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È ormai evidente che l’ammissione sul territorio nazionale di "individui-lavoratori", sollecitata dal sistema economico e dalle famiglie, mette in moto processi
di cambiamento demogra co e sociale che alla lunga incidono sulla composizione della popolazione e conducono alla formazione di minoranze etniche.
In altre parole, è dif cile pensare di reclutare soltanto, dei lavoratori isolati; dietro ad essi si formeranno delle famiglie e delle giovani generazioni che
cresceranno in Italia e progetteranno qui il loro avvenire.
L'esperienza di questi anni insegna peraltro che presumere di bloccare l'immigrazione di contingentarla rigidamente su piccoli numeri produce conseguenze
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perverse, sotto forma di ingressi irregolari e incontrollati, nonché di accentuazione del ri uto degli immigrati e della con ittualità interetnica.
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La limitazione delle opportunità di accesso alla cittadinanza italiana per gli immigrati lungo-residenti è un altro fattore decisivo che, pesando sull'assimilazione
dei genitori, complica i percorsi di inclusione dei gli, in uenzando la visione del loro posto nella società in cui ,si trovano a crescere.
In Italia la strada quasi unica per l'acquisizione della nazionalità è il matrimonio, mentre la naturalizzazione su richiesta rimane pressoché impossibile, anche
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per chi vive e lavora onestamente da molti anni nel nostro paese.
Anzi, l'evoluzione normativa è andata nel senso di inasprire i vincoli per gli stranieri, introducendo invece una corsia preferenziale per il recupero della cittadinanza
italiana da parte dei discendenti degli antichi emigrati. Di conseguenza, i gli degli immigrati, nati e cresciuti in Italia, a 18 anni potranno diventare italiani, ma si saranno
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formati in un ambito familiare escluso per legge dalla partecipazione politica e dalla frequentazione su un piano di parità di diverse istituzioni della società italiana.
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Saranno gli «italiani» di genitori a cui le normative hanno chiesto di rimanere estranei alla comunità nazionale, di ,non interessarsi delle
nostre vicende politiche, di non prendersi cura della nostra democrazia.
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Si capisce allora l’importanza di un percorso di de nizione di una nuova legge in materia di cittadinanza che prevenga dai rischi di una "discriminazione
istituzionale"; Un secondo ordine di questioni riguarda la posizione degli immigrati nel sistema economico e nel mercato del lavoro.
Un'inclusione basata di fatto sull'integrazione subalterna (dei famosi lavori delle 3 D) può giovare all'accettazione dell'immigrazione nel breve periodo da parte della
società di accoglienza, ma non prepara un futuro sereno per i rapporti interetnici.

Con ogni probabilità, i gli di immigrati laboriosi e paci ci di oggi, saranno sempre - disponibili a riprodurre la collocazione occupazionale e sociale dei genitori.
La scelta di prevedere spazi e porte di accesso per l'immigrazione quali cata, opportunità di miglioramento per i lavoratori stranieri in possesso di competenze
sottoutilizzate, modalità meno penalizzanti di riconoscimento dei titoli di studio, può servire a differenziare l'immagine dell'immigrazione e affermare l'idea che i
lavoratori stranieri sono anche in grado di svolgere occupazioni di rango intermedio elevato, incluse le libere professioni: Le 2ª generazioni ne trarrebbero giovamento.

Un ruolo signi cativo potrebbe essere giocato dal lavoro indipendente, in cui con uiscono caratteristiche peculiari del sistema economico italiano e strategie di
mobilità sociale delle popolazioni immigrate. Un maggior numero di imprese con titolari immigrati aumenta la possibilità, come spesso effettivamente"accade,
che si creino ulteriori sacche di sfruttamento, anche intrafamiliare, ma anche l'opportunità di offrire maggiori spazi di inserimento in occupazioni non meramente
esecutive per i gli dei protagonisti.

Un terreno complesso ma ineludibile è poi quello della gestione delle differenze culturali e dei con itti identitari.
Indubbiamente, un'immigrazione stabilmente insediata e soprattutto la formazione di seconde generazioni e terze generazioni sono destinate ad accentuare
la segmentazione culturale della società italiana e a rimescolare i criteri, già di per sé sempre più incerti, di de nizione dell'identità nazionale.

Il passaggio da un'idea di appartenenza di tipo "nazionale", basata su una presunzione di relativa omogeneità della popolazione, a una concezione pluralistica
e negoziata dell'appartenenza nazionale, (in cui conti non solo il sangue, ma anche la socializzazione, la residenza prolungata, la volontà di adesione al patto
di cittadinanza), rappresenta il perno dell'elaborazione di un'identità nazionale capace di incorporare le seconde generazioni immigrate.

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