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12MIUR, Gli alunni con cittadinanza non italiana. Anno scolastico 2017-18, Roma,
2019 (https://miur.gov.it/documents/20182/250189/Notiziario+Stranieri+1718.pdf/
78ab53c4-dd30-0c0f-7f40-bf22bbcedfa6?version=1.1&t=1562782116429).
13MIUR, Alunni con cittadinanza non italiana, anno scolastico 2001/02, Roma,
2002. (https://www.edscuola.it/archivio/statistiche/nonit01_02.pdf)
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l’effetto in parte di eventi storici contingenti, come il crollo dei
paesi socialisti e la crisi balcanica, in parte di una maggiore
mobilità consentita dagli strumenti della globalizzazione,
nonché dell’affermazione di nuovi modelli migratori
soprattutto riguardanti i Paesi del Maghreb. Nel 2001/02 infatti
le componenti più forti della presenza straniera nella scuola
sono quella albanese, marocchina e dei paesi dell’ex-
Jugoslavia. Nel primo decennio del 2000 sia il numero assoluto
sia la percentuale degli studenti senza cittadinanza italiana
cresce costantemente e rapidamente. Nel 2011/12 sono circa
756.000, pari all’ 8,4%14, fino ad arrivare al quasi 10% delle
rilevazioni più prossime. Oggi le nazionalità più rappresentate
sono Albania, Romania, Marocco e Cina. Occorre tener conto
del fatto che oltre il 60% di questi “stranieri” è in realtà nato in
Italia: rappresenta cioè una “seconda generazione” di
immigrati. E dobbiamo anche considerare che le medie
statistiche nascondono una distribuzione molto differenziata sul
territorio nazionale: la presenza “straniera” è debole al Sud e
forte al Centro-Nord. In Emilia-Romagna ad esempio è
superiore al 16% del totale, e poco al di sotto di questa cifra si
collocano regioni come la Lombardia (che ospita il maggior
numero di studenti “stranieri” in numeri assoluti), la Toscana,
l’Umbria, il Veneto e il Piemonte). Anche all’interno delle
singole regioni, poi, la distribuzione è spesso a macchia di
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Ramo d’oro di James G. Frazer16 ). Per quanto non usi il
linguaggio del razzismo, una simile concezione stabilisce
comunque una gerarchia, e si presta a giustificare il dominio
coloniale.
16 J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione, ed. abbreviata,
trad. it. L. De Bosis, Einaudi, Torino 1950.
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sviluppano forme culturali (sistemi di parentela, modi di
denominare i colori, modi di scambio e di reciprocità ecc.) le
più diverse: forme che possono essere comparate ma non in
modo valutativo, disponendole cioè su un’asse superiore/
inferiore, oppure progredito/arretrato. Anzi, un assunto della
posizione relativista è che le forme culturali possono esser
comprese solo dall’interno.
17M. de Montaigne, Saggi, 2 voll., trad. it. a cura di F. Garavini, Mondadori, Milano
1970, p. 58.
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dobbiamo invertire quel processo che ci fa apparire “naturale”
la nostra cultura, un po’ come gli antropologi che vanno a
vivere per un anno in un villaggio sperduto dall’altra parte del
mondo. O che andavano, sarebbe meglio dire: dal momento che
oggi il concetto di “villaggio sperduto”, e anche quello di “altra
parte del mondo” sono essi stessi relativizzati dalla
globalizzazione. Eppure, proprio quella preferenza degli
antropologi per la ricerca in piccole realtà isolate (le isole
melanesiane, le “tribù” africane, i piccoli gruppi di cacciatori e
raccoglitori dell’Amazzonia, le riserve indiane del Nord
America ecc.) ha accentuato la tendenza ad attribuire alle
identità culturali una natura autonoma e discreta – quasi fossero
monadi incomunicanti, mondi autosufficienti di significato,
sottratti a una storia comune di intrecci e contaminazioni. Su
questo punto dovremo ben presto tornare.
18 Per una recente ricostruzione di questo indirizzo di studio e del suo impegno
sociale e antirazzista si veda Ch. King, La riscoperta dell’umanità, trad. it., Einaudi,
Torino 2020.
23 Ibid., p. 326.
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di un concetto analogo come quello di tradizione24 ) non è un
concetto descrittivo, che fotografa una realtà delle cose, una
essenza oggettiva di certi esseri umani che li accomuna e al
tempo stesso li distingue nettamente da altri, che essi lo
vogliano o no. È piuttosto un concetto normativo: ha a che fare
cioè con la decisione più o meno consapevole di un gruppo
umano di mettere in evidenza alcuni tratti del proprio modo di
vita (o del proprio passato, in riferimento alla “tradizione”), che
vedono come caratterizzanti e in cui decidono di riconoscersi
come comunità.
24 Hobsbawm, E. – Ranger, a cura di, L’invenzione della tradizione, trad. it. Torino,
Einaudi, 1983; G. Lenclud, La tradizione non è più quella di una volta, in P.
Clemente, F. Mugnaini, Oltre il folklore, Roma, Carocci; H. Shoham, Ripensare la
tradizione, in «Lares», LXXXVI (1), in corso di stampa.
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o quelle di genere. Non sono, nell’ottica di Bourdieu, le
differenze naturali tra uomo e donna che fondano il dominio
maschile, ma al contrario quest’ultimo che fonda le
differenze25 . Nel caso del genere, questa affermazione può
sembrare eccessiva o magari puramente ideologica: dopo tutto
le differenze naturali fra uomo e donna, date prima di ogni
possibile storia, ci sono eccome. Ma non si tratta certo di
negare questo dato ovvio: il punto riguarda invece i significati
che le differenze “date” assumono in diversi contesti storico-
culturali. La diversità dei corpi e dei rispettivi organi genitali, e
che le donne partoriscono e gli uomini no, sono fatti
generalissimi della natura umana dai quali non si può in alcun
modo prescindere. Sarebbe stupido pretendere di costruire una
teoria dei generi senza tenerne conto. Questi fatti generalissimi
sono per così dire i limiti di ogni interpretazione delle
differenze sessuali e di genere: ma attorno ad essi si costruisce
una grande varietà di interpretazioni, di forme culturali, di
attribuzione di significati. Significati che a loro volta si
inscrivono profondamente nei corpi, costituendo una vera e
propria “seconda natura”. Bourdieu ha cercato di rendere
questo aspetto, che potremmo chiamare la fisicità delle
distinzioni sociali e culturali, attraverso il concetto di habitus.
L’habitus, qualcosa che acquisiamo fin dalla nascita, è un
insieme di disposizioni che strutturano il nostro atteggiamento
sociale, i nostri modi di parlare e di usare il corpo, i nostri gusti
27 P. Radin, a cura di, Fiabe africane, Torino, Einaudi, 1994; N. Mandela, Le mie
fiabe africane, Roma, Donzelli, 2016.
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certamente un ottimo progetto, che vuol portare il
multiculturalismo nel cuore stesso della famiglia. Ma che dire
delle fiabe? Apparentemente è qui in gioco la logica
classificatoria di cui sopra: noi abbiamo Cenerentola,
Biancaneve, La bella addormentata nel bosco ecc., loro hanno
I doni del Re Leone, La lepre e la iena ecc. Solo che magari i
migranti hanno perso il rapporto con l’antica tradizione, hanno
conoscenze “contaminate” dai media occidentali, e
l’educazione multiculturale della bambina ha bisogno di
tornare alle fonti originali dell’identità africana. Ma le cose non
sono così semplici. E le fiabe sono un ottimo caso per discutere
di autenticità e contaminazione. Cominciamo dalle nostre.
È vero che per molti di noi certe fiabe hanno un forte valore
identitario: a ripensarle da adulti suscitano spesso nostalgia,
rappresentano un riferimento comune per un’intera
generazione, e se le raccontiamo ai nostri figli danno
l‘impressione della trasmissione di una continuità culturale. Ma
quali fiabe? Prendiamo ad esempio Cenerentola: una storia che
indubbiamente attiva un senso profondo di intimità culturale
per più generazioni di italiani, di europei, di “occidentali”. Ma
in che senso fa parte “del nostro patrimonio”? Si tratta di una
fiaba diffusa in tutto il mondo28 , composta da un intreccio
variabile di “temi” e “motivi” che si intrecciano in
innumerevoli versioni diverse ma somiglianti (non manca
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ogni volta riplasmata senza nulla perdere del suo potere di
suggestione.
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che Pindaro avesse ragione quando affermava che «la consuetudine
è regina di tutte le cose» 32.
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Dunque, quando sopra scrivevo che l’identità andrebbe
concepita normativamente come il frutto di una scelta
consapevole motivata politicamente (sia pur nel senso più
ampio del termine), lasciavo fuori questa dimensione che è per
lo più inconscia e collettiva. I due esempi proposti vogliono
semplicemente mostrare come sia possibile rintracciarla
trasversalmente ai contesti storici e culturali. Si tratta di una
base di roccia che non scegliamo, e che rappresenta semmai
l’assunto di tutte le altre nostre scelte. Come la roccia, può
essere erosa, scalfita e persino plasmata, ma in tempi lunghi.
D’altra parte, proprio per la loro collocazione nello spazio del
corpo e nella lunga durata, questi tratti identitari sono poco
adatti ad esser mobilitati e strumentalizzati in senso politico.
Restano per lo più sullo sfondo della nostra vita sociale, poco
adatti a dividere o a escludere, e raramente tirati in ballo nei
conflitti legati al multiculturalismo.
37H. Bausinger, Cultura popolare e mondo tecnologico, trad. it., Guida, Napoli 2005
(ed. orig. 1961).
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tuttavia questa tendenza raggiunge dimensioni nuove, da un
lato planetarie, come dimostra la fortuna in tutto il mondo della
nozione di heritage o patrimonio culturale38 , dall’altro
capillari, diffuse a ogni livello della vita sociale e tra ogni ceto,
incluse quelle classi popolari che in passato erano semmai
spettatrici passive. E sono proprio le risorse economiche e gli
strumenti comunicativi messi a disposizione dalla
globalizzazione a consentire questa diffusa ricostruzione di
identità. Basterebbe pensare alla pratica sempre più diffusa di
commissionare ad apposite imprese l’analisi del DNA, per
scoprire (per il valore che può avere) la propria genealogia e
persino le proprie origini etniche; oppure, su un altro piano,
all’uso di Internet e dei social media per costruire “comunità di
memoria” disperse nel tempo e nello spazio (ad esempio la
comunità diasporica degli emigrati da un certo paese, o quella
degli ex-compagni di scuola e così via). Personalmente, ho
studiato negli ultimi anni il fenomeno delle rievocazioni
storiche, che a partire dalla fine del secolo scorso si sono
capillarmente sviluppate in Italia (come in molte altre parti
d’Europa), interessando in alcune regioni praticamente ogni sia
pur piccola città o paese. Partendo dalla struttura delle feste
storiche urbane, sul modello del Palio di Siena (suddivisione in
contrade, gare a premio, sfilate in costume medioevale o
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dei paesi islamici, con il fallimento dell’occidentalizzazione
post-coloniale, con le vicende delle guerre e del terrorismo, con
la rinascita dei movimenti islamisti. L’antropologo Clifford
Geertz ha osservato una volta che quando le generazioni più
giovani di donne islamiche – dall’Indonesia all’Iran, dal
Marocco alle metropoli europee – hanno deciso di indossare il
velo nei luoghi pubblici, non lo hanno fatto perché così
facevano le loro nonne, ma proprio perché le loro nonne non lo
facevano42 , dunque per differenziarsi dalle generazioni
precedenti e mostrare così la propria modernità. Da un lato, ciò
deve spingerci a tentare di comprendere le complesse
motivazioni politico-culturali di chi sceglie il velo (che possono
esser diverse caso per caso, certo, non escludendo la possibilità
dell’imposizione violenta da parte di padri-fratelli-mariti
padroni). Dall’altro, per quanto riguarda la scuola, la
consapevolezza di tali processi dovrebbe renderci molto cauti
verso i tentativi di strumentalizzazione di questioni del genere
nell’ottica del cosiddetto “scontro di civiltà”. Solo i movimenti
fondamentalisti, su entrambi i fronti, possono aver interesse a
promuovere il velo, o il presepe o le canzoni natalizie dei
bambini, a occasione di conflitto e creazione di odio. Al di
fuori di un simile piano di furore ideologico, queste piccole
“frizioni interculturali” si possono di solito risolvere facilmente
sul piano pratico, diventando magari occasioni di dialogo e
confronto. Includerei nel piano ideologico del quale diffidare
42 C. Geertz, Mondo globale mondi locali. Cultura e politica alla fine del XX secolo,
Il Mulino, Bologna 1999.
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anche una certa rigida concezione del “politicamente corretto”,
che a me pare nemica degli obiettivi di integrazione e che tende
a reificare le appartenenze quanto i movimenti identitari più
radicali. Su questo tornerò oltre: non prima di aver discusso
una questione che abbiamo fin qui sfiorato senza approfondirla,
quella del razzismo.
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