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Capitolo secondo


La scuola multiculturale e il problema delle


“identità”

2.1 La scuola italiana e gli “stranieri”

Cominciamo con qualche numero. Nell’anno 2017/18 le


studentesse e gli studenti con cittadinanza non italiana, che
frequentavano scuole italiane di ogni ordine e grado, erano
circa 842.000, corrispondenti al 9,7% della popolazione
studentesca totale12. Una/uno su dieci, insomma. Si tratta di una
percentuale che è andata crescendo costantemente nel tempo.
Nell’anno scolastico 1983/84 gli studenti stranieri in Italia
erano appena 6.000, lo 0,06 per cento del totale. Nel 1991/92
erano 27.000, pari allo 0,27%. Movimenti migratori dall’estero
erano già iniziati in quegli anni, ma solo raramente si trattava di
migrazioni familiari. I migranti erano per lo più giovani
lavoratori maschi, che mandavano in patria le rimesse
economiche e non avevano progetti di stabilizzazione familiare
in Italia. Dieci anni dopo, nell’anno scolastico 2001/02, il
numero è cresciuto a circa 180 mila, 2,31% del totale13. È

12MIUR, Gli alunni con cittadinanza non italiana. Anno scolastico 2017-18, Roma,
2019 (https://miur.gov.it/documents/20182/250189/Notiziario+Stranieri+1718.pdf/
78ab53c4-dd30-0c0f-7f40-bf22bbcedfa6?version=1.1&t=1562782116429).

13MIUR, Alunni con cittadinanza non italiana, anno scolastico 2001/02, Roma,
2002. (https://www.edscuola.it/archivio/statistiche/nonit01_02.pdf)
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l’effetto in parte di eventi storici contingenti, come il crollo dei
paesi socialisti e la crisi balcanica, in parte di una maggiore
mobilità consentita dagli strumenti della globalizzazione,
nonché dell’affermazione di nuovi modelli migratori
soprattutto riguardanti i Paesi del Maghreb. Nel 2001/02 infatti
le componenti più forti della presenza straniera nella scuola
sono quella albanese, marocchina e dei paesi dell’ex-
Jugoslavia. Nel primo decennio del 2000 sia il numero assoluto
sia la percentuale degli studenti senza cittadinanza italiana
cresce costantemente e rapidamente. Nel 2011/12 sono circa
756.000, pari all’ 8,4%14, fino ad arrivare al quasi 10% delle
rilevazioni più prossime. Oggi le nazionalità più rappresentate
sono Albania, Romania, Marocco e Cina. Occorre tener conto
del fatto che oltre il 60% di questi “stranieri” è in realtà nato in
Italia: rappresenta cioè una “seconda generazione” di
immigrati. E dobbiamo anche considerare che le medie
statistiche nascondono una distribuzione molto differenziata sul
territorio nazionale: la presenza “straniera” è debole al Sud e
forte al Centro-Nord. In Emilia-Romagna ad esempio è
superiore al 16% del totale, e poco al di sotto di questa cifra si
collocano regioni come la Lombardia (che ospita il maggior
numero di studenti “stranieri” in numeri assoluti), la Toscana,
l’Umbria, il Veneto e il Piemonte). Anche all’interno delle
singole regioni, poi, la distribuzione è spesso a macchia di

14Fondazione ISMU, Alunni con cittadinanza non italiana, la scuola multiculturale


nei contesti locali. Rapporto nazionale anno scolastico 2014/15, Quaderni ISMU, 1,
2016, p. 18 (https://www.istruzione.it/allegati/2016/Rapporto-Miur-
Ismu-2014_15.pdf).
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leopardo, concentrandosi in specifiche aree, città o quartieri. È
chiaro comunque che le percentuali sono destinate ad
aumentare, se si pensa ai dati sulle nascite. Com’è noto, nel
quadro di tassi di natalità drasticamente in ribasso, in Italia
sono le famiglie straniere a procreare mediamente di più; nel
2019 il 15% dei nati in Italia viene da famiglie con entrambi i
genitori stranieri, un dato che supera il 20% in quasi tutto il
Centro-Nord raggiungendo punte del 25% in Emilia-Romagna.
È evidente come questi numeri si proiettino sulla composizione
scolastica dei prossimi anni.

Da qui la nozione di una società, e di una scuola,


“multiculturale”. Questo termine è nato in realtà per descrivere
la situazione di alcuni particolari Stati-nazione, nei quali
coesistono insiemi culturali diversi. Un classico esempio è la
provincia francese del Québec in Canada, oppure, sempre in
quel Paese, le aree di insediamento dei popoli indigeni; o,
ancora, società come quella statunitense, composte da aggregati
etnici (anglo-sassoni, afroamericani, italiani, irlandesi,
polacchi, latinos ecc.) che hanno raggiunto un certo punto di
integrazione mantenendo tuttavia spiccate caratteristiche
differenziali, anzi coltivandole come tratti distintivi. Stati
“anomali”, secondo la concezione classica del nazionalismo,
che presuppone l’unità e la purezza etnica – una nazione, un
popolo, un linguaggio, una cultura. Concezione molto
discutibile, più ideologica che realistica: dal momento che
questa compattezza è stata prodotta spesso forzatamente nel
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processo di nation-building e in particolare nell’Ottocento
europeo, pretendendo poi di imporla come modello a tutto il
mondo attraverso le politiche coloniali. Un simile modello, che
ha permeato a fondo la nostra storia e il nostro modo di pensare
(spesso anche al di là della nostra immediata consapevolezza),
ci fa immaginare come “naturale” una originaria divisione del
mondo in unità culturali, che la storia ha talvolta mischiato o
diviso e che solo il nazionalismo si sarebbe incaricato di
ripristinare. È importante renderci conto di quanto la stessa
scuola sia stata impregnata di questa prospettiva, abbia anzi
rappresentato (e torniamo qui a Cuore) un canale privilegiato
della sua diffusione. C’è chi sostiene oggi che dovremmo
rovesciare il punto di vista, e considerare piuttosto come
originaria la mescolanza o il meticciato15; concezione
provocatoriamente utile ma a sua volta paradossale, dal
momento che parlare di “meticciato” implica delle precedenti
unità che si mescolano.

Basta osservare per ora che i flussi della globalizzazione


hanno comunque trasformato la presunta eccezione o anomalia
nella regola: difficile trovare oggi società che non siano in
qualche modo multiculturali, non solo per la presenza di
consistenti dinamiche migratorie, ma anche per i meccanismi di
circolazione di merci, idee, immagini e prodotti culturali di
vario tipo che sono ormai solo in minima parte determinati dai
confini nazionali, tanto meno dalle appartenenze locali.

15 J. L. Amselle, Logiche meticce, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999.


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Dunque, la stessa popolazione autoctona è esposta a influenze
culturali che solo in parte sono riconducibili a insiemi
territoriali separati e distintivi, com’era stato per gran parte del
Novecento. Certo, in parte lo sono ancora. Non sto sostenendo
che il ruolo culturale degli Stati-nazione è completamente
esaurito. Per certi versi, anzi, sembra oggi riproporsi proprio
come risposta o reazione alla globalizzazione. Lo dimostrano
da un lato i risorgenti movimenti politici nazionalisti e
“sovranisti”, dall’altro, con un segno politico molto diverso,
una serie di nuovi processi di costruzione di identità locali.
Torneremo su questi fenomeni, che in ogni caso
presuppongono un ampio fenomeno di trasformazione in senso
multiculturale delle società contemporanee. Il fatto cioè – si
dice di solito – che in esse convivano e si intreccino diverse
“culture”, “identità culturali” o “identità etniche”. Per cercare
di capire meglio, cominciamo allora a interrogarci sul
significato di queste espressioni.

2.2 Il concetto di cultura

Cultura, intanto. Questo concetto, nel suo senso


antropologico o etnografico, emerge negli ultimi decenni
dell’Ottocento. Viene utilizzato da alcuni indirizzi
antropologici per descrivere la peculiarità dell’evoluzione
umana rispetto a quella di altre specie animali. Mentre queste
ultime si adattano all’ambiente ed evolvono attraverso
mutamenti morfologici (del loro corpo, della loro dotazione
biologica), la specie umana da un certo punto in poi lo fa
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attraverso strumenti che pone all’esterno del corpo e della
mente individuale. Strumenti di caccia e di lavoro, ad esempio,
vestiti e abitazioni, ma anche linguaggi, forme di
organizzazione collettiva, istituzioni sociali e così via. Tutto
questo viene chiamato “cultura”: e la disciplina che se ne
occupa diviene appunto l’ “antropologia culturale”. Il concetto
di cultura, così inteso, si contrappone a quello di razza come
base della spiegazione delle differenze tra gruppi umani. Il
contesto ottocentesco è largamente percorso da concezioni
razziste: le differenze (poniamo tra europei, africani, indios
amazzonici o aborigeni australiani) appaiono di tipo naturale,
biologicamente fondate; e si dispongono gerarchicamente,
distinguendo cioè le razze superiori da quelle inferiori. Il
maggior livello di civiltà degli europei sarebbe la prova
inconfutabile della loro superiore intelligenza. Gli antropologi
che lavorano con il concetto di cultura si contrappongono a
questa forma di razzismo. Affermano piuttosto il principio della
uniformità intellettuale del genere umano. Le differenze hanno
origine culturale, non naturale. Tutti i popoli umani hanno le
medesime facoltà: alcuni tuttavia si sono evoluti in modo più
rapido, altri sono “rimasti indietro”, e si presentano dunque
come un relitto del passato sopravvissuto nel tempo presente.
Sono “i primitivi di oggi”: vivono in un’altra fase del percorso
evolutivo (quella del pensiero magico, ad esempio, secondo la
tripartizione magia-religione-scienza formulata nel celebre

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Ramo d’oro di James G. Frazer16 ). Per quanto non usi il
linguaggio del razzismo, una simile concezione stabilisce
comunque una gerarchia, e si presta a giustificare il dominio
coloniale.

Il concetto di cultura cambia però radicalmente nel


Novecento. Da singolare, diciamo, diventa plurale. Si comincia
a pensare non più a un’unica cultura umana che sarebbe
dappertutto la stessa ma si muove a velocità differenziate, bensì
a un mondo suddiviso in una molteplicità di culture diverse,
specifiche e distintive, autonome e non gerarchizzabili. È la
visione che possiamo chiamare relativista. Ciascun individuo
include una componente di “natura umana”, che è universale, e
una componente di “cultura”, che è invece particolare, locale,
tradizionale. Beninteso, non è detto che non esistano tratti
comuni a tutte le culture, dunque a loro volta universali. Per
molti antropologi ad esempio alcune regole cruciali della
parentela (come il divieto dell’incesto), alcune strutture
linguistiche (poniamo, il modo in cui nominiamo i colori),
alcune forme dell’economia e dello scambio (come quello che
Marcel Mauss chiamava il “dono”) sono universali,
appartengono cioè a ogni cultura conosciuta (forse, si potrebbe
dire, a ogni cultura possibile). Altri sostengono che questa
universalità è di fatto una nostra illusione etnocentrica. Ma in
ogni caso, attorno a tali presunti tratti minimi comuni si

16 J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione, ed. abbreviata,
trad. it. L. De Bosis, Einaudi, Torino 1950.
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sviluppano forme culturali (sistemi di parentela, modi di
denominare i colori, modi di scambio e di reciprocità ecc.) le
più diverse: forme che possono essere comparate ma non in
modo valutativo, disponendole cioè su un’asse superiore/
inferiore, oppure progredito/arretrato. Anzi, un assunto della
posizione relativista è che le forme culturali possono esser
comprese solo dall’interno.

Il che cambia la natura e lo stile della conoscenza


antropologica. Nel Novecento, gli antropologi adottano la
metodologia della “ricerca sul campo”, consistente nel vivere
per un lungo periodo in società lontane e tradizionali
(“primitive”, come si è detto fino a metà secolo), condividendo
attività, usi e costumi degli indigeni; con l’obiettivo di
riportarne una descrizione appunto il più possibile interna ed
empatica. In questo modo, hanno cercato di comprendere
l’intima logica delle forme di vita locali, quella logica che
sfuggirebbe a uno sguardo esterno troppo superficiale.
Prendiamo il caso dei sistemi di credenze e di riti magici
largamente diffusi nelle culture tradizionali: mentre il senso
comune occidentale li valutava come forme di superstizione,
ignoranza o irrazionalità, gli antropologi ne hanno mostrato la
coerenza interna, la funzione sociale o esistenziale, e insomma
la fondamentale razionalità. Tutta questa stagione
dell’antropologia si è lasciata guidare dalla lotta
all’etnocentrismo: nel comprendere gli altri, dobbiamo cercare
di mettere da parte i pregiudizi che ci vengono dall’appartenere
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a nostra volta a una specifica cultura, che rischiamo di
assolutizzare. Soprattutto, dobbiamo imparare a riconoscere la
particolarità della cultura laddove ci pare di vedere
l’universalità della natura umana. È il principio che già Michel
de Montaigne affermava nel Cinquecento, quando scriveva che
«le idee comuni che vediamo aver credito intorno a noi e che ci
sono infuse nell’anima dal seme dei nostri padri, sembra siano
quelle generali e naturali. Per cui accade che quello che è fuori
dai cardini della consuetudine lo si giudica fuori dai cardini
della ragione. Dio sa quanto irragionevolmente, per lo più»17.

Ecco, è in questo quadro che prende corpo il concetto di


identità culturale o etnica. Ciascun essere umano appartiene a
uno di questi insiemi culturali diversi e ben distinti, che lo
definisce – nel senso che gli fornisce valori, credenze,
atteggiamenti, criteri morali ed estetici , “filtri” attraverso i
quali il mondo e la vita sono interpretati. Tutti questi elementi
particolaristici, che si concretizzano in linguaggi, religioni,
visioni del mondo, modalità di plasmare il proprio corpo e di
costruire le relazioni sociali ecc. – sono costitutivi della
soggettività umana. Quindi, io non posso capire un’altra
persona se non mi confronto con la sua identità culturale.
Saltare da una identità all’altra non è impossibile, ma è
operazione complessa che richiede un costante sforzo
antietnocentrico e tempi lunghi di adeguamento: per farlo

17M. de Montaigne, Saggi, 2 voll., trad. it. a cura di F. Garavini, Mondadori, Milano
1970, p. 58.
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dobbiamo invertire quel processo che ci fa apparire “naturale”
la nostra cultura, un po’ come gli antropologi che vanno a
vivere per un anno in un villaggio sperduto dall’altra parte del
mondo. O che andavano, sarebbe meglio dire: dal momento che
oggi il concetto di “villaggio sperduto”, e anche quello di “altra
parte del mondo” sono essi stessi relativizzati dalla
globalizzazione. Eppure, proprio quella preferenza degli
antropologi per la ricerca in piccole realtà isolate (le isole
melanesiane, le “tribù” africane, i piccoli gruppi di cacciatori e
raccoglitori dell’Amazzonia, le riserve indiane del Nord
America ecc.) ha accentuato la tendenza ad attribuire alle
identità culturali una natura autonoma e discreta – quasi fossero
monadi incomunicanti, mondi autosufficienti di significato,
sottratti a una storia comune di intrecci e contaminazioni. Su
questo punto dovremo ben presto tornare.

2.3 Il tortuoso percorso dell’identità culturale

Osserviamo però intanto che questa nozione di identità, per


buona parte del XX secolo, è stata usata come strumento per
combattere il razzismo biologico e per difendere i diritti dei
popoli coloniali o delle minoranze indigene. Se ogni gruppo
umano ha una propria identità, incommensurabile e non
gerarchizzabile rispetto alle altre, non è più possibile
giustificarne l’oppressione o la discriminazione sulla base di
una presunta inferiorità o arretratezza. Nella lunga fase
dell’imperialismo si era tentato di legittimarne le pretese
attraverso l’ideologia della “missione civilizzatrice”
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dell’Occidente nei confronti dei “selvaggi” irrazionali e
infantili. Il concetto di identità culturale fonda invece il
riconoscimento incondizionato di una diversità che non è né
migliore né peggiore, e chiede rispetto e tolleranza. Gli
antropologi americani, che nella prima metà del secolo sono i
più accesi sostenitori di una visione relativista18, tentano di
inserire il rispetto dell’identità culturale tra i diritti umani
fondamentali. Così, nel 1947, propongono alla Commissione
che sta stilando la Dichiarazione Universale dei diritti umani di
tener conto del fatto che ogni individuo realizza la propria
personalità all’interno della propria cultura e attraverso di essa.
E dal momento che «costumi e valori sono relativi alla cultura
da cui derivano», il rispetto per i diritti individuali implica il
rispetto per le differenze culturali. Si possono affermare
standard mondiali di libertà e giustizia, si sostiene, solo sulla
base del «principio che l’uomo è libero solo quando vive nel
modo in cui la sua società definisce la libertà, che i suoi diritti
sono quelli che egli riconosce in quanto membro della sua
società»19.

Tutto molto giusto, ma solo apparentemente. La


Commissione ONU rigetterà la proposta degli antropologi. Un

18 Per una recente ricostruzione di questo indirizzo di studio e del suo impegno
sociale e antirazzista si veda Ch. King, La riscoperta dell’umanità, trad. it., Einaudi,
Torino 2020.

19 M. Herskovits, Statement on Human Rights, in «American Anthropologist», 4,


1947, pp. 327-333; trad. it. Dichiarazione sui diritti umani, in Diritti umani.
Riflessioni e prospettive antropologiche, a cura di A. Santiemma, EuRoma, Roma,
pp. 327-333.
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rifiuto quasi ovvio, vista la direzione decisamente illuminista e
universalista che essa aveva intrapreso. A fronte dei disastri
provocati dai nazionalismi trionfanti, dalle ideologie e dalle
pratiche razziste, dal radicale antiumanesimo del nazismo e
dalla sua svalutazione del valore della vita degli esseri umani
“inferiori”, si sentiva il bisogno di aggrapparsi a un’etica
egalitaria e razionalista, basata su imperativi categorici che
devono essere gli stessi per tutto il genere umano, per
qualunque individuo indipendentemente dalle sue
caratteristiche di appartenenza. Non c’era spazio per il
relativismo in questa visione. Il “diritto di vivere secondo le
proprie tradizioni” avrebbe incrinato dall’interno l’intero
impianto della Dichiarazione. E se una tradizione ammette o
addirittura favorisce trattamenti crudeli, inumani e degradanti?
Oppure ammette il razzismo e lo sterminio di particolari etnie?
Dopo tutto, i criminali di guerra nazisti potrebbero sostenere di
aver seguito i valori e i criteri largamente affermati nella loro
particolare cultura; il che smonterebbe i principi di
responsabilità morale e giuridica affermati nei processi di
Norimberga. La Commissione aveva in mente soprattutto
questi problemi, mentre gli antropologi pensavano alla
applicabilità della Dichiarazione ai popoli indigeni e coloniali;
e temevano che essa potesse trasformarsi, più che in una loro
difesa, in una ulteriore imposizione di carattere etnocentrico.
Per questo, la strada da loro intrapresa era quella del
riconoscimento della diversità. Nell’ottica relativista, la
battaglia contro il razzismo e la discriminazione non può esser
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condotta in nome di una visione universale del soggetto umano
– poiché la pretesa universalità finirebbe per nascondere
l’assolutizzazione di assunti e pregiudizi occidentali (a partire
da un certo concetto di “individuo”).

Chi aveva ragione? Lo scetticismo antropologico verso


l’universalità normativa dei diritti poneva problemi importanti:
problemi che ancora oggi si intravedono dietro certe pratiche
umanitarie calate dall’alto e per così dire in blocco all’interno
di contesti di cui non si capisce la specificità. Ma in
argomentazioni come quelle del relativismo antropologico
nordamericano c’è qualcosa che non va. Non si tratta tanto del
rifiuto di un universalismo “senza se e senza ma”: ma di quella
che potremmo chiamare una eccessiva reificazione o
essenzializzazione delle identità culturali. Le identità tendono a
configurarsi quasi come gabbie in cui gli individui sono
rinchiusi; o come essenze eterne e immutabili, ben distinte
l’una dall’altra, che determinano ogni comportamento, ogni
valore e ogni scelta morale dei loro membri. È come se il
mondo fosse diviso in un numero preciso e finito di tali sfere
culturali totalmente autoreferenziali, e in esse dovesse
distribuirsi senza residui l’intera umanità. Come detto, è un
modello che deriva in parte dalla tendenza antropologica a
studiare piccoli gruppi isolati, che però è del tutto fuorviante.
Le identità infatti mutano storicamente, si intrecciano e si
contaminano reciprocamente, sono coinvolte e strumentalizzate
nelle lotte politiche, e gli individui non ne possiedono
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necessariamente una e solo una in modo esclusivo: possono per
così dire entrarne e uscirne, attraversarne molte, come
sostengono oggi i modelli dell’ibridazione o del nomadismo
culturale.

Ora, nella seconda metà del Novecento, il concetto di


identità culturale si afferma largamente sia nel discorso
scientifico sia nel linguaggio comune e nell’opinione pubblica:
portandosi però dietro una simile caratterizzazione
essenzialista, finisce per rovesciare radicalmente il proprio
significato etico-politico. Da strumento di difesa dei popoli
indigeni e coloniali si trasforma in supporto ideologico dei
nazionalismi e di alcune forme del cosiddetto neo-razzismo
differenzialista. Non ci si richiama più in chiave di tolleranza
alla identità degli altri, ma si insiste sull’esclusività della
“nostra” per supportare rivendicazioni economiche e politiche,
conflitti “etnici” o semplicemente la “difesa” rispetto alle
dinamiche della globalizzazione e in particolare alla minaccia
dei flussi migratori. È in nome dell’identità culturale, ad
esempio, che negli anni Novanta si combattono le guerre della
ex-Jugoslavia, o si consumano genocidi come quello dei Tutsi
in Ruanda. Ed è in nome dell’identità che prendono corpo
nuovi movimenti xenofobi e di estrema destra, che perseguono
un progetto di separazione “razziale” che si disfa tuttavia del
vecchio apparato del razzismo biologico (la superiorità ariana,
le basi “naturali” della disuguaglianza”) e utilizza argomenti
integralmente culturalisti. Questo filone di pensiero, detto
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“differenzialista”, affonda le radici nella Francia degli anni
Settanta e nelle tesi del grande etnologo Claude Lévi-Strauss,
che difendeva con forza il diritto a esistere delle identità
tradizionali di fronte al rischio della omologazione culturale
prodotta dal colonialismo prima e dalla globalizzazione poi
(senza per questo essere responsabile delle derive xenofobe di
questa posizione). La cosiddetta “nuova destra francese”, che
ha il suo capofila intellettuale in Alain De Benoist, volge questi
argomenti contro i flussi migratori e contro l’idea stessa di
multiculturalismo. Se l’identità culturale, con i suoi
particolarismi e le sue differenze, è il bene più prezioso che
abbiamo, essa va difesa dalla minaccia della contaminazione.
Gli “altri”, ad esempio i migranti, non sono inferiori, ma
semplicemente diversi perché immersi in una cultura
incommensurabile rispetto alla nostra: per il bene “nostro”
come “loro”, dunque, dobbiamo preservare tali culture
tenendole separate. Un argomento tanto lontano dal vecchio
razzismo, quanto potenzialmente prossimo, tuttavia, alle sue
stesse conclusioni: l’orrore per la mescolanza, l’idea di una
civiltà, come la “nostra”, minacciata da barbari che premono
alle sue frontiere. Questo spiega perché in Francia i movimenti
xenofobi di estrema destra e talvolta neonazisti si siano definiti,
a partire dagli anni Novanta, “identitari”. È una vicenda, quella
della “nuova destra” francese, che inizia con la costituzione nel
1968 del GRECE (Gruppo di Ricerca e di Studi per la civiltà
europea) a opera di Alain de Benoist, per proseguire con la
nascita negli anni Novanta di Unité radicale (gruppo che
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coniuga posizioni apertamente neofasciste con un
anticapitalismo radicale). Negli anni Duemila si forma il Bloc
Identitaire (2003, poi confluito in Les identitaires), e nel 2012
prende corpo Génération identitaire (Defend Europe), che si
articola in una rete di movimenti europei accomunati dal
coniugare idee sociali ultraconservatrici e talvolta apertamente
neonaziste con la difesa della patria dall’invasione dei migranti
e dalla strategia della Grande Sostituzione (la teoria
complottista secondo cui alcune élites internazionali, con a
capo il finanziere George Soros, progetterebbero
consapevolmente di rimpiazzare in Europa la popolazione
indigena con gruppi di altre origini etniche)20 . Una rete legata
anche da notevoli convergenze con la cosiddetta Alt-Right
americana, composito movimento che mette insieme
suprematismo bianco, antisemitismo e negazionismo, lotta agli
immigrati, nonché un nazionalismo protezionistico che si è
pienamente riconosciuto nelle politiche del presidente Trump e
che è venuto allo scoperto con le recenti proteste contro
l'elezione di Biden e l'assalto a Capitol Hill a inizio di gennaio
2021.

20Se ne veda un manifesto nel pamphlet di un giovanissimo militante di estrema


destra austriaco, Markus Willinger, Generazione identitaria. Una dichiarazione di
guerra ai sessantottini, trad. it. Arktos, Torino 2014.
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Capitolo terzo

“Multiculturalismo ingenuo”

3.1 Identità come concetto normativo

Strano destino, dunque, quello dell’identità culturale:


concetto nato contro il razzismo e in difesa della tolleranza, che
diviene poi strumento privilegiato delle concezioni neorazziste
e della xenofobia contemporanea. Questa sua recente
metamorfosi ha spinto l’antropologia, che in qualche modo lo
aveva partorito, a ripudiarlo radicalmente. Il dibattito degli
ultimi trent’anni è infatti denso di (auto)critiche che in sostanza
puntano a espungere il concetto stesso di identità, e qualche
volta persino quello di cultura, dal discorso antropologico: con
libri intitolati ad esempio Contro l’identità, L’ossessione
identitaria, Eccessi di culture, Contro le radici, L’identità
culturale non esiste e così via21. È una critica certamente
corretta, che mette in evidenza come gli antropologi abbiano
esagerato nel presupporre l’autonomia e la separatezza delle
identità, quasi fossero riferite a forme di vita autosufficienti e
astratte da una storia comune. Una esagerazione forse dovuta,
come già notato, alla tendenza a studiare piccole realtà chiuse e

21 F. Remotti, Contro l’identità, Bari, Laterza, 2001; Id., L’ossessione identitaria,


Laterza, Bari 2010; M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004; M. Bettini,
Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna 2012; F. Jullien,
L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino 2016.
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isolate, e a farlo in contesti coloniali che già di per sé avevano
accentuato tale isolamento.

Ma queste identità pure o monadiche non sono mai esistite.


C’è un passo molto famoso proprio di un antropologo, Ralph
Linton, scritto già negli anni Trenta del Novecento, che viene
spesso citato per dimostrarlo. Guardando alla nostra stessa
cultura occidentale, dice Linton, abbiamo la tendenza a
considerarla autosufficiente e per così dire autocreata: ma
l’effetto di “familiarità” ci nasconde il fatto che (come peraltro
per ogni cultura al mondo), essa contiene non più del dieci per
cento di elementi creati esclusivamente al proprio interno. Per
tutti gli altri, sono decisivi i processi di diffusione culturale che
agiscono fin dagli inizi della storia22. Per dimostrarlo, si diverte
a descrivere in questo modo una serie di azioni quotidiane del
“cittadino americano medio”:

…si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe


origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che
possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino,
pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale
originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui
uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e
tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i
mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e
va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e
americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento
inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche
popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che
sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani […].

22 R. Linton, The Study of Man, New York, Appleton-Century-Crofts, 1936, p. 325


(trad. it. Lo studio dell’uomo, Il Mulino, Bologna 1973).
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Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale,
pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della
Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di
elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di
terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per
la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali
italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il
caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare
mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente,
mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la
frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica
scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. Quando il
nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera delle
sedie e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America,
consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa,
derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal
Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille,
attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno,
stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un
materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in
Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano
all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio
indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al
cento per cento americano…23 ‑

È un passo indubbiamente divertente, che mostra come


l’interconnessione globale delle culture umane sia esistita ben
prima che parlassimo del mondo come di un “villaggio
globale”. Anche se, a ben pensarci, una lontana e antica origine
di tutte queste cose e pratiche del quotidiano non dice nulla
sulla misura in cui esse siano state recepite, modificate e
integrate all’interno di un modello di vita che può apparire
come peculiare e distintivo – dunque, come una identità. Ci
rendiamo allora conto che l’identità (e lo stesso potremmo dire

23 Ibid., p. 326.
!44
di un concetto analogo come quello di tradizione24 ) non è un
concetto descrittivo, che fotografa una realtà delle cose, una
essenza oggettiva di certi esseri umani che li accomuna e al
tempo stesso li distingue nettamente da altri, che essi lo
vogliano o no. È piuttosto un concetto normativo: ha a che fare
cioè con la decisione più o meno consapevole di un gruppo
umano di mettere in evidenza alcuni tratti del proprio modo di
vita (o del proprio passato, in riferimento alla “tradizione”), che
vedono come caratterizzanti e in cui decidono di riconoscersi
come comunità.

Rendersi conto di questo punto fondamentale ci aiuta a


sottrarci alle pretese assolutiste del discorso identitario: il quale
tende sempre a presentarsi come fondato su basi “naturali”, su
modi di essere eterni e immutabili («noi siamo così e basta»,
«loro non saranno mai come noi» ecc.), o su tradizioni che
affondano le radici nella notte dei tempi («da che mondo è
mondo»…). Se vogliamo ragionare sulle identità e le differenze
culturali, nella società come nella scuola, dobbiamo resistere a
questo processo di naturalizzazione: anzi, dobbiamo imparare
ad analizzarlo, a ripercorrerlo a ritroso. È lo stesso
atteggiamento critico che Pierre Bourdieu, ad esempio, ci invita
ad usare nei confronti di altri tipi di differenze che pretendono
di porsi come pre-storiche e pre-politiche, come quelle di classe

24 Hobsbawm, E. – Ranger, a cura di, L’invenzione della tradizione, trad. it. Torino,
Einaudi, 1983; G. Lenclud, La tradizione non è più quella di una volta, in P.
Clemente, F. Mugnaini, Oltre il folklore, Roma, Carocci; H. Shoham, Ripensare la
tradizione, in «Lares», LXXXVI (1), in corso di stampa.
!45
o quelle di genere. Non sono, nell’ottica di Bourdieu, le
differenze naturali tra uomo e donna che fondano il dominio
maschile, ma al contrario quest’ultimo che fonda le
differenze25 . Nel caso del genere, questa affermazione può
sembrare eccessiva o magari puramente ideologica: dopo tutto
le differenze naturali fra uomo e donna, date prima di ogni
possibile storia, ci sono eccome. Ma non si tratta certo di
negare questo dato ovvio: il punto riguarda invece i significati
che le differenze “date” assumono in diversi contesti storico-
culturali. La diversità dei corpi e dei rispettivi organi genitali, e
che le donne partoriscono e gli uomini no, sono fatti
generalissimi della natura umana dai quali non si può in alcun
modo prescindere. Sarebbe stupido pretendere di costruire una
teoria dei generi senza tenerne conto. Questi fatti generalissimi
sono per così dire i limiti di ogni interpretazione delle
differenze sessuali e di genere: ma attorno ad essi si costruisce
una grande varietà di interpretazioni, di forme culturali, di
attribuzione di significati. Significati che a loro volta si
inscrivono profondamente nei corpi, costituendo una vera e
propria “seconda natura”. Bourdieu ha cercato di rendere
questo aspetto, che potremmo chiamare la fisicità delle
distinzioni sociali e culturali, attraverso il concetto di habitus.
L’habitus, qualcosa che acquisiamo fin dalla nascita, è un
insieme di disposizioni che strutturano il nostro atteggiamento
sociale, i nostri modi di parlare e di usare il corpo, i nostri gusti

25 P. Bourdieu, Il dominio maschile, trad. it, Feltrinelli, Milano 2014.


!46
e disgusti, gli stessi desideri ed emozioni. Disposizioni tanto
profondamente incorporate da apparirci “naturali”: ma questa
“naturalezza”, che possiamo dare per scontata nella
quotidianità, diventa fuorviante quando ci poniamo di fronte
alla comprensione della diversità.

3.2 Le “nostre” fiabe e le “loro”

Quanto detto per il genere vale a maggior ragione per


l’identità – che non ha neppure a che fare con quei “fatti
generalissimi” che ne limitano le variazioni e le rivendicazioni.
Denaturalizzarla, comprenderne il carattere normativo e non
descrittivo, di processo sempre in fieri e non di essenza eterna è
dunque cruciale per rappresentarci correttamente anche il
problema delle relazioni multi- o interculturali. In questo modo
si può evitare il rischio di buttar via il bambino insieme
all’acqua sporca – il bambino del concetto di cultura con
l’acqua sporca dell’identitarismo essenzialista. Partiamo
dall’acqua sporca, poi torneremo al “bambino”. L’errore
classico di quello che possiamo chiamare il multiculturalismo
ingenuo è immaginarsi gli altri, gli “stranieri”, come soggetti
incapsulati in una forma di vita totalmente aliena, in qualche
modo esotica e primordiale. Se per il neorazzismo identitario
tale incapsulamento sta alla base del rifiuto e dell’esclusione,
per il multiculturalismo progressista suscita attestazioni di
tolleranza, rispetto e apprezzamento. Ma è una tolleranza per
così dire caritatevole, innestata su un’assunzione di
distanziamento morale e su una visione classificatoria delle
!47
differenze. Noi siamo bianchi e loro neri, noi cattolici e loro
musulmani, noi mangiamo i tortellini e loro il cuscus, noi
abbiamo il Natale e loro il ramadan, e così via. È una
prospettiva che nel migliore dei casi porta all’atteggiamento
politicamente corretto: quello che mi impone di essere
empatico e di esentarmi da giudizi negativi sull’altro, perché
proprio questa è la prova della mia superiore civiltà. È una
tolleranza, o persino una romantica ammirazione, che implica
una visione primordialista dello “straniero”. E che in certi casi
sfocia in esiti caricaturali e grotteschi: come nel caso di quel
giudice tedesco che nel 2007 concesse le attenuanti “etniche e
culturali” a uno stupratore di origine sarda, perché nella sua
“cultura” un certo grado di violenza di genere sarebbe un
valore positivo e condiviso. Si leggeva nella sentenza: «Si deve
tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche
dell'imputato. È un sardo. Il quadro del ruolo dell'uomo e della
donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come
scusante ma deve essere tenuto in considerazione come
attenuante»26. Il magistrato sembra qui voler evidenziare la sua
propria civiltà, che gli consente di comprendere
relativisticamente una cultura “selvaggia” come quella sarda. In
Sardegna si sono ovviamente indignati, chiedendo pubbliche
scuse alle autorità tedesche. Ed è chiaro che questa forma di
relativismo paternalistico ci appare particolarmente
inaccettabile perché entra in conflitto con un altro valore

26 In «La Repubblica», 11 Ottobre 2007.


!48
progressista, quello che condanna incondizionatamente la
violenza di genere. Ma c’è da chiedersi quanto spesso, sia pure
in circostanze meno drammatiche, incorriamo in simili
atteggiamenti e modi di pensare.

Propongo un altro esempio, questa volta molto più sottile.


Camilla, una mia ex-studentessa (racconto questa storia con il
suo consenso), mi ha scritto di recente per chiedermi
indicazioni sulle fiabe originali della Guinea: spiegandomi che
il suo compagno è originario di quel paese, che hanno avuto da
poco una bambina e hanno deciso di crescerla – cito le sue
parole – secondo una duplice identità, italiana e guineana. Per
questo lei ha chiesto al compagno e ai suoi amici e parenti di
raccontarle fiabe originali della Guinea: scoprendo però che
non le conoscono. Le raccontano magari di Kirikù, di Alì Baba
e i quaranta ladroni, non rendendosi conto che si tratta di storie
esterne a un “bagaglio culturale originariamente loro”: ma non
sanno nulla di fiabe africane “tribali” e “caratteristiche”, come
quelle, ad esempio, raccolte in un famoso libro di Paul Radin, o
in uno più recente di Nelson Mandela27. Da qui la sua ricerca di
qualcosa di più autentico, che possa restituire alla bambina il
senso di una vera identità guineana da affiancare a quella
italiana. Fino a spingersi verso un progetto di interviste agli
anziani del villaggio di origine del compagno, per farsi narrare
(via Internet, ça va sans dire) le storie tradizionali. È

27 P. Radin, a cura di, Fiabe africane, Torino, Einaudi, 1994; N. Mandela, Le mie
fiabe africane, Roma, Donzelli, 2016.
!49
certamente un ottimo progetto, che vuol portare il
multiculturalismo nel cuore stesso della famiglia. Ma che dire
delle fiabe? Apparentemente è qui in gioco la logica
classificatoria di cui sopra: noi abbiamo Cenerentola,
Biancaneve, La bella addormentata nel bosco ecc., loro hanno
I doni del Re Leone, La lepre e la iena ecc. Solo che magari i
migranti hanno perso il rapporto con l’antica tradizione, hanno
conoscenze “contaminate” dai media occidentali, e
l’educazione multiculturale della bambina ha bisogno di
tornare alle fonti originali dell’identità africana. Ma le cose non
sono così semplici. E le fiabe sono un ottimo caso per discutere
di autenticità e contaminazione. Cominciamo dalle nostre.

È vero che per molti di noi certe fiabe hanno un forte valore
identitario: a ripensarle da adulti suscitano spesso nostalgia,
rappresentano un riferimento comune per un’intera
generazione, e se le raccontiamo ai nostri figli danno
l‘impressione della trasmissione di una continuità culturale. Ma
quali fiabe? Prendiamo ad esempio Cenerentola: una storia che
indubbiamente attiva un senso profondo di intimità culturale
per più generazioni di italiani, di europei, di “occidentali”. Ma
in che senso fa parte “del nostro patrimonio”? Si tratta di una
fiaba diffusa in tutto il mondo28 , composta da un intreccio
variabile di “temi” e “motivi” che si intrecciano in
innumerevoli versioni diverse ma somiglianti (non manca

28A. Dundes, ed., Cinderella. A Casebook, University of Wisconsin Press, Madison


(Wisc.) 1988.
!50
qualcosa di simile neppure nelle tradizioni africane). La
fanciulla povera e umiliata che ottiene alla fine successo
sociale, la matrigna malvagia, la metamorfosi, la scarpetta
perduta, e così via. Sappiamo che i fratelli Grimm ne avevano
ascoltate versioni orali nella Germania rurale del primo
Ottocento, trascrivendo nella loro celebre raccolta quella che
sarebbe diventata poi la lezione standard. Ma ancora prima se
ne ha una versione nei Racconti di mamma oca di Charles
Perrault, alla fine del Seicento; e ancora prima una in lingua
napoletana di Gianbattista Basile, nel Cunto de li cunti (1630),
col titolo La gatta Cenerentola. Se la versione dei Grimm è
quella che si è imposta con maggior forza, è anche in virtù
della filosofia romantica che sta dietro il loro lavoro. L’idea
cioè che le fiabe siano una emanazione diretta dello “spirito del
popolo”, che le crea collettivamente con una freschezza
espressiva che la letteratura accademica ha ormai perduto; uno
spirito che è per di più legato a uno specifico popolo-nazione, a
un territorio e a una lingua specifica, insomma a un’identità
culturale. Da qui anche la convinzione nell’origine
primariamente orale della fiaba, di cui la trascrizione è solo una
pallida copia. I folkloristi che per tutto l’Ottocento (e una
buona parte del Novecento) raccolgono e trascrivono fiabe
popolari si pongono in definitiva in quest’ottica (anche dopo
l’esaurimento del movimento romantico vero e proprio).
Tuttavia oggi siamo consapevoli di una maggiore complessità
del rapporto oralità-scrittura. Basile e Perrault conoscevano
certamente versioni orali della storia: ma in che modo i loro
!51
testi modificano a loro volta la diffusione popolare del
racconto, incorporandosi in quella oralità che ai Grimm
apparirà assolutamente originaria? E in che misura i Grimm
stessi sono stati assunti dal folklore otto e novecentesco, che i
suoi raccoglitori immaginavano invece come autentico e
incontaminato? Ad esempio, da dove veniva Gràttula
Beddàttula (“Dattero, bel dattero”), una versione siciliana di
Cenerentola raccolta a fine Ottocento da Giuseppe Pitré dalla
voce della tessitrice Agatuzza Messia, e inserita poi da Italo
Calvino nella sua fortunatissima raccolta Fiabe italiane? E poi,
naturalmente, nel 1950 esce il film a cartoni animati Cinderella
di Walt Disney, che con la forza dell’industria culturale
americana arriva in tutto il mondo e plasma indelebilmente
l’immaginario di intere generazioni. Che relazione c’è tra
questo prodotto della cultura di massa e la fiaba tradizionale?
Nessuno, risponderanno i difensori della tradizione. Eppure il
film disneyano non è una pura contraffazione della storia
autentica e originale, non più di quanto lo fossero le trascrizioni
di Pitré (e di Calvino), dei Grimm, di Perrault o di Basile, che
passano dall’oralità (ma una oralità forse già influenzata dalla
scrittura) alla scrittura (una scrittura che finge di imitare
l’oralità); tutti loro, non meno di Disney, seguono stili e
immaginari legati alla propria epoca, al proprio contesto
culturale, alla propria classe sociale. La grandezza narrativa di
Cenerentola, se si vuole, sta proprio nella sua capacità di
attraversare i contesti storico-culturali più diversi, venendo

!52
ogni volta riplasmata senza nulla perdere del suo potere di
suggestione.

Dunque, quale Cenerentola fa parte del nostro “bagaglio


identitario”? Quella dei Grimm, quella di Pitrè-Calvino, quella
hollywoodiana, o che altro? Beh, inevitabilmente, un mix di
tutte queste versioni; con una prevalenza – se proprio non
siamo cultori di folklore e filologia – dell’immaginario
audiovisuale legato alla cultura di massa. Sappiamo benissimo
che il repertorio fiabistico degli adulti di oggi (potenziali
genitori o nonni, diciamo) poggia principalmente sulle fonti dei
cartoni animati, ibridate da reminiscenze di letture o racconti
ascoltati nell’infanzia. Se qualcuno immaginasse i nonni, oggi,
come portatori di una “tradizione autentica”, starebbe
semplicemente proiettando sul presente un mito romantico che
non era vero neppure ai tempi di Agatuzza Messia, nemmeno a
quelli delle incursioni dei Grimm nella Foresta Nera. Ma allora,
perché aspettarsi che gli amici e parenti guineani di Camilla
conoscano le storie “tradizionali”, piuttosto che Kirikù o Alì
Babà (due prodotti molto diversi, peraltro: frutto di una recente
cultura cinematografica il primo, dell’influenza araba de Le
mille e una notte il secondo, difficile dire in che misura diretta
oppure filtrata dal colonialismo europeo o forse anche questa
dall'Aladdin disneyano?) Non c’è forse una sottile assunzione
primordialista in tutto questo? Cioè, nella ricerca di autenticità
nei nonni italiani o negli abitanti del villaggio guineano, che
sarebbero soggetti in qualche modo arcaici e non del tutto
!53
conquistati alla modernità? E del resto, le fiabe africane
“originali” che conosciamo attraverso raccolte come quelle di
Radin e Mandela sono a loro volta prodotti di compromesso.
Sono per lo più frutto della ricerca, della trascrizione e della
traduzione di folkloristi: i quali hanno fra l’altro riportato allo
status di racconto fiabistico una serie di narrazioni orali che
non si collocano con chiarezza nel genere che l’Occidente ha
chiamato fiaba, appartenendo piuttosto a cicli mitologici o
leggendari, non particolarmente dedicati all’infanzia (come del
resto non erano “per bambini” neppure le fiabe dei Grimm: la
cui struttura, secondo le note tesi di Vladimir Propp,
rimanderebbe piuttosto ai riti di iniziazione cui i bambini erano
sottoposti nelle società arcaiche29). Sia chiaro: è una splendida
idea per Camilla e il suo compagno mettersi sulla traccia delle
fiabe tradizionali. Con la consapevolezza però che la loro
bimba sarà esposta non a due culture chiaramente distinte e
separate, quella “italiana” e quella “guineana”, ma semmai a
due o più declinazioni locali di un flusso culturale globale
pieno di ibridi vecchi e nuovi.

3.3 L’irriducibilità delle differenze

Questo breve excursus sulle fiabe, genere ibrido per


eccellenza (con costanti mescolamenti tra aree geografiche e

29 Propp, Le radici storiche dei racconti di magia; v. anche B. Malinowski, Il mito


nella psicologia primitiva, trad. it., Newton Compton, Roma 1976, per una
classificazione delle forme narrative orali nelle società “primitive” della Melanesia.
Si veda anche, per una recente sintesi degli studi antropologici sulla fiaba, G. Sanga,
La fiaba. Morfologia, antropologia e storia, Padova, CLEUP, 2020.
!54
linguistiche, passato e presente, oralità e scrittura, cultura alta e
popolare), ci aiuta a capire meglio il senso del richiamo alla
tradizione e all’identità nel mondo di oggi. La tradizione non è
un tratto “tipico” che resiste, come una rupe primordiale, al
cambiamento e alla modernizzazione: è piuttosto un processo
attraverso il quale ritagliamo alcuni aspetti (e non altri) del
nostro passato (vero o più o meno inventato), attribuendo loro
un significato particolare nel contesto del presente. Ciò è
coerente con quanto detto sopra sul carattere “normativo”
dell’identità – cioè un obiettivo cui si ritiene di dover mirare ed
adeguarsi, piuttosto che come una gabbia all’interno della quale
siamo rinchiusi. Per chiudere con questo argomento, si può del
resto ricordare quanto siano arbitrari e per nulla “naturali” i
tentativi di definire la nostra stessa identità culturale. Quando il
discorso identitario contrappone “noi” agli “altri”, in nome di
cosa lo fa? Intanto, quale scala di unità identitaria assumere?
Le rivendicazioni oscillano costantemente fra più livelli. Da un
lato quello nazionalista classico, tornato in auge nei movimenti
cosiddetti sovranisti degli ultimi dieci-venti anni: dunque si
tratta di italiani, francesi, russi ecc. Dall’altro, però, hanno
ripreso forza rivendicazioni di tipo regionalista e autonomista
(il leghismo italiano è un’ottima esemplificazione di
movimento che si è legato con forza a una retorica identitaria,
transitando tuttavia dall’affermazione regionalista e
antinazionalista di una essenza “padana” alla forma di
nazionalismo classico del “prima gli italiani”), e talvolta
persino localista e campanilista. Ha invece scarsamente
!55
attecchito l’identificazione europea, malgrado gli sforzi
compiuti dalle istituzioni dell’EU per costruire elementi di
storia, memoria e cultura comuni. Accanto a queste
declinazioni geografiche, nel discorso pubblico hanno assunto
risalto altri grandi criteri di contrapposizione fra noi e gli altri:
ad esempio quello religioso, che contrappone cristianesimo e
Islam; oppure varie versioni di uno “scontro di civiltà” che
contrappone un occidente secolarizzato, democratico,
umanitario a un “resto del mondo” fondamentalista, totalitario,
violento (ma di questa contrapposizione esiste anche una
versione critica seppur ugualmente essenzialista, che condanna
l’occidente in quanto consumistico e edonistico,
eccessivamente opulento, dissacrato e privo di valori e di
“umanità”). Troppe cose diverse: la nostra identità sta nella
tradizione cristiana, oppure nei valori dell’Illuminismo, o
ancora nella razionalità scientifica, o nella democrazia,
nell’umanesimo artistico e letterario, nell’industria e nel
mercato, o che altro? È chiaro che si può dire tutto e il contrario
di tutto a un simile livello di generalizzazione: così come si
possono sempre trovare simboli nei quali riconoscersi, o eventi
nel passato da eleggere a miti di fondazione.

Una volta smascherati i tentativi più goffi di


strumentalizzare politicamente il discorso identitario, non
abbiamo però detto tutto. Ci resta quel bambino che dobbiamo
cercare di non gettare con l’acqua sporca. Talvolta le critiche
all’essenzialismo si spingono fino a considerarne responsabile
!56
il concetto di cultura tout court. L’idea di tratti culturali che
differenziano i gruppi umani è vista talvolta come pericolosa e
equivoca in sé – dal momento che, si argomenta, maschera
come mere differenze quelle che sono in realtà disuguaglianze,
vale a dire sperequazioni nella distribuzione della ricchezza e
del potere. Gli indirizzi che si usa generalmente definire
“critici” tendono a sostituire il concetto di potere (inteso in
senso marxista oppure foucaultiano) a quello di cultura: e
lanciano accuse di “culturalismo” verso qualunque tentativo di
spiegare le pratiche sociali come legate a valori, cornici morali,
visioni del mondo e non semplicemente come mosse dalla
eterna lotta per il potere. I valori, le visioni del mondo e così
via sarebbero in questa chiave elementi ideologici o di falsa
coscienza che mascherano e dissimulano i rapporti reali di
potere, che devono essere individuati sul piano delle relazioni
materiali o economico-politiche. Per quanto abbia buon gioco
contro l’essenzialismo culturale, un tale approccio ha a mio
avviso la debolezza di tornare a una visione pre-antropologica
del soggetto umano: inteso come una sorta di homo
oeconomicus universale, costantemente impegnato in lotte
utilitariste contro i suoi simili, e guidato da una astratta
razionalità strumentale che è per tutti sempre la stessa.
L’intelligenza antropologica si fonda su due assunti molto
diversi. Il primo è che le differenze sono costitutive della
soggettività umana. Ciò significa che per comprendere il
comportamento sociale dobbiamo tener conto del modo in cui
il soggetto agente è plasmato (nei suoi desideri, nei suoi
!57
bisogni, nei suoi saperi, concezioni e valori) dallo specifico
contesto storico-sociale in cui vive – insomma, da una cultura
particolare. Il secondo assunto è che tale soggetto non è sempre
ed esclusivamente mosso da una pulsione utilitaristica, volta in
ogni momento ad ottenere il massimo profitto per sé, ma da
altre spinte che possiamo chiamare sociali, volte alla
costruzione di vincoli relazionali e che si esprimono in pratiche
come quelle del “dono”, della condivisione e della solidarietà.

Non vorrei intraprendere qui una critica filosofica di quelle


dottrine che pretendono di scartare completamente i concetti di
cultura e di differenza culturale dalla comprensione delle
pratiche umane e sociali30. Mi basta richiamare all’esperienza
del ruolo delle differenze, in quanto distinte dalle mere
disuguaglianze di potere, di cui chiunque di noi è testimone.
L’amico e collega Marco Aime, in un libro che ha avuto un
ruolo importante nella critica del “multiculturalismo ingenuo”,
ha scritto: «A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma
persone. Se pensate come un dato assoluto, le culture
divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di
razzismo». Una affermazione talmente importante che l’editore

30 Rimando in proposito a F. Dei, Chi ha paura del relativismo?, in B. Barba, a cura


di, Tutto è relativo, SEID, Firenze 2008, pp. 35-56; Id., La cultura può sciogliersi
nel potere?, in «Psiche», II (n.s.), 1, 2015, pp. 15-28; Id., Di Stato si muore. Per una
critica dell’antropologia critica, in F. Dei, C. Di Pasquale, a cura di, Stato, violenza,
libertà. La “critica del potere” e l’antropologia contemporanea, Donzelli, Roma
2017, pp. 9-49.
!58
del libro l’ha posta in copertina31 . Verissimo, e non bisogna mai
dimenticare questo punto di fronte alle tendenze a categorizzare
le persone, a ridurle a stereotipi, a ritenere che si comportino in
un certo modo perché sono così e così (italiane o tedesche,
albanesi o marocchine, milanesi o napoletane, islamiche o
cattoliche ecc.). Eppure, quelle persone che si incontrano e si
scontrano sono concrete, hanno una storia precisa alle spalle,
sono cresciute all’interno di certi rapporti familiari e di una
certa forma di Stato (o di assenza dello Stato), all’interno di un
linguaggio, di una religione e di certi sistemi di valori morali e
così via. Questi elementi di contesto non sono “recinti
invalicabili”, ma hanno una influenza nel decidere che tipo di
persone siamo, e come possiamo relazionarci reciprocamente.
Si potrebbe dire che tali differenze sono di due tipi. Da un lato,
quelle profondamente incorporate e incastonate nella vita
sociale, di cui non siamo di solito neppure consapevoli, un po’
come per gli aspetti di habitus di cui parla Bourdieu; dall’altro,
quelle che vengono invece esplicitamente elaborate e poste al
centro di strategie di riconoscimento e di distinzione. Cercherò
nel prossimo capitolo di discutere questi due aspetti della
differenza culturale, che è importante distinguere
analiticamente anche se nella realtà talvolta si intrecciano.

31 M. Aime, Eccessi di culture, cit.


!59
Capitolo quarto

Il ritorno delle identità, ovvero multiculturalismo
al contrario

4.1 Identità incorporate

Nei due capitoli precedenti abbiamo considerato i limiti e le


ambiguità del concetto di identità culturale. Ho cercato di
mettere in guardia dalla “essenzializzazione” dell’identità, e dal
“multiculturalismo ingenuo” che ne deriva. Come abbiamo
visto, identità è una nozione più normativa che descrittiva.
Quando viene mobilitata nel discorso e nella pratica sociale (ad
esempio in sostegno a rivendicazioni nazionaliste, o a chiusure
xenofobe, ma anche in riferimento a più innocenti processi di
riconoscimento e patrimonializzazione della tradizione), mentre
pretende di essere naturale, o almeno di affondare radici nella
“notte dei tempi”, si rivela in realtà quasi sempre come una
costruzione in qualche modo arbitraria: il frutto di una accurata
selezione di tratti, di usi, di memorie assemblati per servire
finalità specifiche di inclusione/esclusione, di sostegno
simbolico a qualche forma di potere, o magari anche soltanto di
attrattiva turistica. Tuttavia “decostruire” le formazioni
identitarie, e imparare a guardarle criticamente, non è
sufficiente. Non basta limitarsi a dire che “l’identità non
esiste”: anzi, dietro questa affermazione può nascondersi una
più generale incomprensione del ruolo delle differenze culturali
!60
nella costituzione della soggettività umana. Così come può
nascondervisi l’idea che le differenze culturali altro non siano
che sottoprodotti e mascheramenti ideologici di disuguaglianze
economico-politiche. Certo, un’analisi dei rapporti di potere
che si instaurano fra gruppi umani è indispensabile: ma non
possiamo pensare che essi esercitino un radicale determinismo
sul piano culturale (per inciso, è proprio questo il punto che
Gramsci cercava di affermare contro il marxismo classico ed
economicista attraverso il concetto di egemonia). Si tratta
allora di capire meglio le basi culturali dei processi di
identificazione. Partendo, come detto, dalla distinzione fra gli
aspetti incorporati nella vita quotidiana, tanto più profondi
quanto più impliciti o inconsapevoli, e quelli che invece sono
esplicitamente sostenuti e rivendicati come base di strategie di
riconoscimento.

Per capire le differenze del primo tipo, dobbiamo ragionare


sulla dipendenza della persona dalla società e dalla cultura in
cui vive: è un aspetto che dobbiamo ammettere, senza per
questo giungere a teorie ultrarelativistiche su una totale
determinazione sociale degli individui. La lingua madre, ad
esempio, funziona in questo modo: è un tratto distintivo che ci
costituisce, e dal quale non ci si libera mai interamente
(neppure divenendo perfetti cosmopoliti, ammesso che una
cosa del genere sia possibile). Lo si capisce dalla commozione
che ci coglie quando sentiamo parlare la nostra lingua, e
specialmente il nostro dialetto o la nostra varietà locale, con le
!61
sue peculiarità di lessico e di pronuncia, in un contesto lontano
e straniero. Lo stesso può valere per la religione (o per certi
aspetti delle norme morali, nei contesti secolarizzati), per le
relazioni di parentela e altre componenti delle basilari forme di
vita. Prendiamo un paio di esempi letterari, peraltro molto noti.
Erodoto è considerato talvolta come “il primo antropologo”,
perché nelle sue Storie (V secolo a.C.), oltre a una
ricostruzione dell’ascesa dell’impero persiano, propone un
modello di conoscenza dell’umanità basato sul viaggio e sul
confronto fra i costumi. In un famoso passo del terzo libro,
Erodoto deplora i comportamenti del re persiano Cambise,
irrispettosi e derisori nei confronti degli usi e della religione di
altri popoli, suoi nemici come suoi alleati; e li pone in contrasto
con la saggezza del suo successore Dario, al quale attribuisce il
seguente “esperimento antropologico”:

… se si proponesse a tutti gli uomini di scegliere, tra tutte, le


usanze migliori, ciascuno dopo un’attenta riflessione indicherebbe
le proprie: a tal punto ognuno è convinto che i propri costumi siano
di gran lunga i migliori. Perciò non è naturale, tranne che per un
pazzo [il riferimento è a Cambise], prendersi gioco di cose simili.
Che tutti gli uomini la pensino così riguardo alle tradizioni lo si
può ricavare da molte prove e in particolare dalla seguente. Dario,
durante il suo regno, mandò a chiamare i Greci che vivevano alla
sua corte e domandò loro a che prezzo sarebbero stati disposti a
cibarsi dei loro padri morti: ed essi risposero che non lo avrebbero
fatto a nessun prezzo. In seguito Dario convocò quegli Indiani che
vengono chiamati Callati, i quali mangiano i propri genitori, e in
presenza dei Greci (che grazie a un interprete potevano capire
quanto si diceva) chiese loro a che prezzo avrebbero accettato di
bruciare i loro padri morti: ed essi con alte grida lo esortarono a
non proferire empietà. Tanto potenti sono le usanze: e a me sembra

!62
che Pindaro avesse ragione quando affermava che «la consuetudine
è regina di tutte le cose» 32.

Si tratta di un passo complesso. Chi sono questi indiani


Callati? Sembra si possano identificare con «una tribù indiana
di carnagione scura, lontana e a sud dell’impero persiano, mai
sottomessa da Dario»33. Erodoto ne parla in altri passi
attribuendo loro caratteristiche “barbare”, come cibarsi di carni
crude o uccidere gli ammalati, e tratti per certi versi disumani
(«il liquido seminale che emettono quando si uniscono alle
donne non è bianco come quello degli altri uomini, ma nero
come la loro pelle; uno sperma dello stesso tipo lo hanno anche
gli Etiopi»34). Ma dal punto di vista di Dario, che Erodoto
assume, c’è una perfetta simmetria fra loro e i Greci, entrambi
popolazioni diverse che vivono ai due estremi geografici del
suo impero. C’è una chiara impronta che oggi chiameremmo
relativistica nel racconto, che per certi aspetti prende la forma
di quelle antilogie (contrapposizione di due tesi che in sostanza
si neutralizzano a vicenda) tipiche della sofistica greca.
Occorre esser molto cauti nell’accomunare la sensibilità di
Erodoto a quella che abbiamo visto proporsi in Montaigne, o
persino a quella dell’antropologia moderna. Ci interessa qui
rilevare non solo il rifiuto di giudicare un’usanza migliore
dell’altra, ma la constatazione di una differenza negli usi che

32 Erodoto, Storie, a cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, Utet, Torino 1996, p. 479.

D. Asheri, Commento, in Erodoto, Storie, vol. 3 libro 3, a cura di D. Asheri e S. M.


33

Medaglia, Fondazione Lorenzo Valle, Mondadori, Milano 1990, p. 255.

34 Erodoto, Storie, cit., p. 502.


!63
non è riconducibile a una comune e universale razionalità, non
appare intaccabile da giudizi esterni e, cosa ancor più
importante, è legata ad aspetti profondi e drammatici della vita
umana. Greci e Callati non fanno una bandiera dei loro usi
funebri: ma posti di fronte alla provocazione della diversità, la
trovano empia e scandalosa. Le consuetudini rituali sono
talmente radicate in loro – “naturalizzate”, diremmo oggi – che
non portano neppure argomenti per difenderle, ma manifestano
semmai solo sdegno morale. Al tempo stesso, si potrebbe dire,
sono accomunati da questo sdegno e dunque dal considerare
come una cosa estremamente seria – sacra – il trattamento dei
corpi degli antenati.

Facciamo un salto radicale di scenario e leggiamo un passo


dantesco. Nel sesto canto del Purgatorio Dante e Virgilio
incontrano Sordello da Goito:

Ma vedi là un’anima che, posta


sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ‘nsegnerà la via più tosta.
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
«Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
!64
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

Qui non ci sono usi e costumi. Dante mette invece in scena


un semplice riconoscimento territoriale: una comune origine,
evidenziata dal solo accennare al nome di Mantova, patria
comune di Sordello e Virgilio, che fa scattare una commozione
tutta umana, in netto contrasto con il contesto per così dire
universalista del luogo in cui avviene l’incontro, e della più
generale visione del mondo dantesca. Ma proprio il contrasto
dà forza all’immagine, e ci convince di trovarci di fronte a
qualcosa di elementarmente umano – qualcosa che ci tocca
ancora oggi al di là delle distanze e dell’alterità del severo
mondo medievale della Commedia. Si può dire che il
riconoscimento identitario di Virgilio e Sordello è prepolitico?
Certamente no: tanto che, come si ricorderà, Dante ne fa il
punto di partenza per una feroce invettiva contro l’Italia,
colpevole di esser divisa da guerre interne di tutti contro tutti,
priva di pace e di stabilità. D’altra parte non si può certo
parlare di “nazionalismo” nel senso moderno del termine: è
banale notarlo, se non fosse che certe critiche dell’identità
pretendono di ricondurre questo senso di comune appartenenza
a mero sottoprodotto delle ideologie nazionaliste o delle
strategie del moderno Stato-nazione. C’è evidentemente
qualcosa di più profondo, forse un’idea di “patria culturale”,
come la chiamava Ernesto De Martino, che semmai i
movimenti politici (e in specie quelli nazionalisti) sfruttano e
cercano di plasmare, ma che non si esaurisce in essi.

!65
Dunque, quando sopra scrivevo che l’identità andrebbe
concepita normativamente come il frutto di una scelta
consapevole motivata politicamente (sia pur nel senso più
ampio del termine), lasciavo fuori questa dimensione che è per
lo più inconscia e collettiva. I due esempi proposti vogliono
semplicemente mostrare come sia possibile rintracciarla
trasversalmente ai contesti storici e culturali. Si tratta di una
base di roccia che non scegliamo, e che rappresenta semmai
l’assunto di tutte le altre nostre scelte. Come la roccia, può
essere erosa, scalfita e persino plasmata, ma in tempi lunghi.
D’altra parte, proprio per la loro collocazione nello spazio del
corpo e nella lunga durata, questi tratti identitari sono poco
adatti ad esser mobilitati e strumentalizzati in senso politico.
Restano per lo più sullo sfondo della nostra vita sociale, poco
adatti a dividere o a escludere, e raramente tirati in ballo nei
conflitti legati al multiculturalismo.

4.2 Identità nel mondo globalizzato

Quando invece il discorso identitario emerge in primo piano


e in modo esplicito nel discorso pubblico, lo fa di solito in
relazione a obiettivi in senso lato “politici”. Tutta una serie di
rivendicazioni collettive del presente tendono a cercare
supporto nella costruzione identitaria di un “Noi” radicato in un
certo modo di essere, in specifiche tradizioni, in tratti culturali
simbolicamente demarcanti. Abbiamo già visto come questo
meccanismo agisca nei “movimenti identitari” più radicali,
fornendo supporto ideologico a posizioni xenofobe e
!66
neorazziste e talvolta ad aggressive forme di nazionalismo o
regionalismo. Ripeto ancora una volta, se ce ne fosse bisogno,
che uno degli scopi di questo libro è indirizzare l’attenzione
critica verso tali ideologie, smascherando le loro pretese di
“naturalizzare” l’appartenenza come se si trattasse di un fattore
neutrale e prepolitico. Al tempo stesso, però, credo che sarebbe
un errore generalizzare una tale critica, e considerare ogni
anelito identitario un mero e illegittimo inganno oppure un
sottoprodotto dei movimenti nazionalisti, tutti volti alla
separazione dei gruppi umani e alla conservazione di strutture
di privilegio o di un ordine coloniale del mondo. Questa
prospettiva si fonda su un assunto non meno ideologico e
dogmatico di quello del fondamentalismo identitario: cioè su
un’idea di soggetto umano come “cittadino del mondo”. Una
sorta di uguaglianza o indistinzione originaria, nella quale
sarebbe stato poi il perfido potere a introdurre separazioni, a
classificare gli esseri umani in gruppi distinti allo scopo di
governarli meglio, per mantenere privilegi e discriminazioni.
Una simile tesi progressista e rousseauviana non ha più senso,
in linea generale, di quanto ne abbia quella – simmetricamente
inversa – dell’essenzialismo identitario, che postula una sorta
di odio etnico originario. Entrambe ci impediscono di capire
non solo la complessità della storia, ma anche la natura più
profonda delle tensioni identitarie nel mondo di oggi.

Perché l’odierno “villaggio globale” è percorso a ogni


livello da quelli che potremmo chiamare sentimenti identitari.
!67
Si potrebbe forse dire che, più il processo di globalizzazione
cancella o indebolisce le antiche forme di appartenenza
“strutturale”, quelle più profonde e implicite di cui abbiamo
parlato sopra, più nascono nuove forme di identificazione
simbolica (non importa quanto “inventate”) che si manifestano
attraverso l’uso di simboli culturali. Cerco di spiegarmi meglio.
Si consideri la condizione di vita del mondo contadino, che è
stata dominante ad esempio in molte regioni italiane fino al
secondo dopoguerra. Al di là delle differenze tra le aziende
agricole del Nord, la conduzione mezzadrile del Centro e il
bracciantato del Sud, la vita contadina si svolgeva per lo più in
spazi molto delimitati (il podere, il villaggio), in contatto con
un numero ridotto di persone, sempre le stesse (ad esempio il
gruppo familiare allargato nella mezzadria), senza o con scarso
accesso all’istruzione e a mezzi di comunicazione di massa. Era
una vita caratterizzata da una totale identificazione con un
ristretto gruppo sociale, demarcato da certe attività lavorative,
da condizioni abitative e alimentari, da codici culturali appresi
oralmente di generazione in generazione, da uno status sociale
che si imprimeva nei corpi, nell’aspetto, nel modo di parlare e
dal quale era pressoché impossibile uscire. Non potrebbe darsi
una più stretta appartenenza identitaria (legata al luogo, alla
classe, alla famiglia, al dialetto ecc. e fortemente incorporata).
Ma non c’era alcun bisogno di tematizzare culturalmente
questa identità – cioè rappresentarla attraverso discorsi, simboli
o esplicite rivendicazioni. La tematizzazione culturale
dell’identità contadina avverrà semmai più tardi, dopo la
!68
“grande trasformazione” del dopoguerra che (con
l’industrializzazione e l’inurbamento) frammenta se non
cancella quel mondo. Solo quando la vita contadina vera sarà
ormai abbastanza lontana (dopo un paio di generazioni),
diviene possibile trasformarla in “tradizione”, proporne forme
di revival, oppure musealizzarla, e magari organizzare attorno
ad essa un discorso identitario.

Meccanismi analoghi agiscono sul piano mondiale. Molti


popoli ex-coloniali hanno “scoperto” la loro identità alcuni
decenni dopo la decolonizzazione: passata una fase di
occidentalizzazione nella quale si voleva soltanto dimenticare
la “tradizione”, quest’ultima è stata “riscoperta” e valorizzata
in un contesto in cui l’isolamento di un tempo è caduto. Ne è
seguito un processo di “patrimonializzazione” delle identità
locali (“indigene”), legato in parte alla valorizzazione turistica
dei territori, in parte a usi politici e autonomisti, in parte,
semplicemente, a processi di coesione comunitaria.

Un esempio, che riprendo dal magnifico studio etnografico


su Tahiti e la Polinesia francese di Matteo Aria35 . Chi viaggia
oggi in quelle isole dei Mari del Sud si troverà di fronte, oltre
che le bellezze naturali, anche la messa in scena di una
“tradizione culturale” delle popolazioni indigene, che si
manifesta ad esempio nelle danze, nelle marce sul fuoco, e
soprattutto nell’arte del tatuaggio. Tutti sanno che questa

35 M. Aria, Cercando nel vuoto, Pacini, Pisa 2007.


!69
pratica di decorazione del corpo, oggi globalmente diffusa, ha
per certi versi in Polinesia la sua patria, dal momento che il
termine stesso viene da un’espressione indigena locale –
riportata dal capitano James Cook a seguito del suo viaggio del
1769. Ci aspetteremmo dunque una continuità nel tempo di
questi elementi culturali che, resistendo ai cambiamenti storici,
hanno tramandato e tenuto viva una identità specifica del
popolo ma’ohi. Invece non è così. Danze, tatuaggi e altri aspetti
della cultura indigena sono andati progressivamente perduti nel
corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, durante
il periodo coloniale e per effetto della volontà di amministratori
e missionari. Questi ultimi erano preoccupati di “civilizzare”
gli indigeni e vietavano le manifestazioni culturali che
apparivano agli occhi europei più selvagge o diaboliche.
All’inizio del Novecento Victor Segalen, viaggiatore e scrittore
francese, potrà descrivere Tahiti come le “isole dei senza
memoria” – un popolo la cui cultura è stata sradicata una volta
per tutte e in profondità dal colonialismo e dall’influenza
europea. La “rinascita” ma’hoi inizia nel secondo dopoguerra,
quando la Polinesia francese si trova per una serie di motivi al
centro di rotte e interessi occidentali. De Gaulle vi compie i
primi esperimenti nucleari, Marlon Brando e una troupe
hollywoodiana arrivano per girare Gli ammutinati del Bounty,
il turismo comincia insieme a investimenti occidentali. Le isole
si arricchiscono, e le generazioni più giovani iniziano a
viaggiare con continuità, studiando in Francia o negli Stati
Uniti e tornando con nuove idee sia culturali sia politiche.
!70
Torna con loro anche il tatuaggio, portato da Tavana Salmon,
tahitiano ma con padre norvegese e una formazione alle Hawaii
e negli Stati Uniti, danzatore di professione, che riporta nella
sua terra di nascita un certo immaginario esotico che su di essa
era stato forgiato altrove. Si ristabiliscono così i disegni
corporei “sacri” che contraddistinguono i diversi gruppi di
discendenza, ricostruiti sulla base di vecchi disegni di
viaggiatori o forse del tutto reinventati – ma, si dice, suggeriti o
approvati in sogno dagli antenati. Sono figure come questa che,
dalla fine degli anni Settanta, svolgono la funzione di passeur
culturali, come li chiama Aria. I passeur sono coloro che
aiutano ad attraversare un confine. In questo caso attraversano
confini di “culture” diverse, e la costruzione dell’autenticità
culturale nativa è paradossalmente proprio il frutto di questo
intreccio o mescolamento. Il fatto che non esista un’autenticità
documentata non rende queste tradizioni meno importanti. Non
sono solo dei “falsi” da vendere ai turisti: sono avvertite da
molti tahitiani (anche se non a tutti interessano nello stesso
modo) come un importante patrimonio culturale, producono un
“sentimento etnico” e dunque un “effetto di identità” che è ben
reale. Ci imbattiamo allora qui in una diversa accezione di
multiculturalismo, quasi opposto a quello di senso comune: non
unità culturali compatte e autentiche che si incontrano e si
mischiano, ma un contesto di eterogenee differenze e di confini
mobili all’interno del quale si ritagliano insiemi culturali che si
pretendono compatti e autentici. Finzioni, forse, come del resto
“finzioni” sono le appartenenze nazionali e statali (lo dimostra
!71
l’ampia letteratura storica sulla costruzione degli stati nazione
europei come forme di “comunità immaginata” 36); ma la
finzione si consolida col tempo in salde motivazioni politiche e
culturali, in forme di sentimento etnico che, come detto,
possono rappresentare nel bene e nel male una forza storica del
tutto concreta.

Il caso di Tahiti rappresenta forse un esempio estremo, per la


netta discontinuità prodotta dal colonialismo e da un lungo
periodo di deculturazione. Ma anche in Occidente molte
costruzioni identitarie su base patrimoniale mettono in gioco
meccanismi analoghi: finzioni o “riscoperte”, a metà fra il serio
e il giocoso, che accompagnano la sempre più accentuata
dissoluzione dei confini delle comunità di vita locali. Più i
vecchi confini (le “identità strutturali”) perdono significato sul
piano economico, comunicativo, sociale, più si configurano
tentativi appassionati di ridisegnarli sul piano memoriale,
celebrativo, commemorativo. Non è un processo nuovo. Il
grande e un po’ trascurato etnologo tedesco Hermann
Bausinger, ad esempio, lo ha mostrato in azione già almeno a
partire dal Romanticismo, parallelamente alla progressiva
“espansione di orizzonti” (spaziali, temporali, sociali) che
caratterizza l’età contemporanea37. Con la globalizzazione

36 B. Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 2009; E. Hobsbawm,


T. Ranger, a cura di, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1983.

37H. Bausinger, Cultura popolare e mondo tecnologico, trad. it., Guida, Napoli 2005
(ed. orig. 1961).
!72
tuttavia questa tendenza raggiunge dimensioni nuove, da un
lato planetarie, come dimostra la fortuna in tutto il mondo della
nozione di heritage o patrimonio culturale38 , dall’altro
capillari, diffuse a ogni livello della vita sociale e tra ogni ceto,
incluse quelle classi popolari che in passato erano semmai
spettatrici passive. E sono proprio le risorse economiche e gli
strumenti comunicativi messi a disposizione dalla
globalizzazione a consentire questa diffusa ricostruzione di
identità. Basterebbe pensare alla pratica sempre più diffusa di
commissionare ad apposite imprese l’analisi del DNA, per
scoprire (per il valore che può avere) la propria genealogia e
persino le proprie origini etniche; oppure, su un altro piano,
all’uso di Internet e dei social media per costruire “comunità di
memoria” disperse nel tempo e nello spazio (ad esempio la
comunità diasporica degli emigrati da un certo paese, o quella
degli ex-compagni di scuola e così via). Personalmente, ho
studiato negli ultimi anni il fenomeno delle rievocazioni
storiche, che a partire dalla fine del secolo scorso si sono
capillarmente sviluppate in Italia (come in molte altre parti
d’Europa), interessando in alcune regioni praticamente ogni sia
pur piccola città o paese. Partendo dalla struttura delle feste
storiche urbane, sul modello del Palio di Siena (suddivisione in
contrade, gare a premio, sfilate in costume medioevale o

38 D. Lowenthal, The Heritage Crusade and the Spoils of History, Cambridge


University Press, Cambridge 1998. Su questi sviluppi più recenti lo stesso Bausinger
ha riflettuto in alcuni dei saggi che compongono il volume Vicinanza estranea
(Pacini, Pisa 2009).
!73
rinascimentale), vi hanno innestato elementi del reenactment di
tipo anglosassone (simulazione di battaglie, ricostruzione di
elementi di cultura materiale, come abiti, armi, botteghe
artigianali o mercati). Perché le nostre cittadine hanno bisogno
di rappresentarsi come radicate in questa identità storica –
appunto, di solito medioevale o rinascimentale? Perché
centinaia e migliaia di persone investono tempo, energie e
risorse economiche per mettere in scena un loro presunto
passato storico? Molte di queste feste sono inventate di sana
pianta (anche se si va in cerca di antecedenti antichi di qualche
tipo), e la “fedeltà” filologica degli aspetti materiali (abiti,
armi, cibi) e delle azioni sceniche è quasi sempre molto dubbia.
Ma questo non conta rispetto al significato socio-antropologico
che rivestono: un significato molto diverso da quello delle feste
tradizionali, e che riguarda, io credo, la creazione di “comunità
patrimoniali” in contesti nei quali le basi materiali della vita
comunitaria si vanno estinguendo39 .

4.3 Le guerre dei simboli

Gli esempi del paragrafo precedente – da Tahiti alle


rievocazioni storiche – sono scelti fra i tanti possibili per
suggerire l’idea di un concetto “inverso” di multiculturalismo:

39 F. Dei, C. Di Pasquale, a cura di, Rievocare il passato. Memoria culturale e


identità territoriali, Pisa University Press, Pisa 2018; F. Dei, M.C. Carratù, Passato
vivente. Giochi e rievocazioni storiche in Toscana, Pacini, Pisa 2019; F. Dei, Usi del
passato e democratizzazione della memoria. Il caso delle rievocazioni storiche, in A.
Iuso, a cura di, Il senso della storia. Saperi diffusi e patrimonializzazione del
passato, CISU, Roma 2018, pp. 15-36.
!74
non culture autentiche e preformate che si incontrano e si
contaminano, ma una eterogenea realtà globale nella quale si
manifestano processi identitari basati sulla
patrimonializzazione del passato e sulla costruzione di
tradizioni. In questa prospettiva, perdono di importanza alcune
classiche categorie che definiscono diverse modalità di multi- o
interculturalismo: ad esempio quelle di melting pot e salad
bowl. Com’è noto, queste nozioni sono state usate per
descrivere due diversi processi di integrazione delle differenze
nella società nordamericana. Il melting pot è la pentola o
crogiuolo in cui tutti i diversi ingredienti originari si mischiano
e si fondono, tanto da non risultare più riconoscibili; la salad
bowl è l’insalatiera nella quale gli ingredienti si accostano, ma
resta sempre possibile riconoscere e separare le carote, i
cetrioli, la lattuga ecc. Fuor di metafora, il primo modello
allude a un’integrazione che accoglie tutti ma cancella le
peculiarità di provenienza, plasmando un’identità nuova e
uguale per tutti i cittadini. Il secondo modello, pur sulla base di
un’eguaglianza giuridica e formale, consente invece di
mantenere e valorizzare anche nello spazio pubblico le
peculiarità identitarie di provenienza. A questa distinzione
corrisponde, anche se non esattamente, quella a lungo usata in
Europa che contrappone il modello di integrazione francese, o
assimilazionista, a quello britannico, talvolta definito come
multiculturale. Il primo è tradizionalmente basato sul ruolo
forte dello Stato, che sostiene l’integrazione degli immigrati a
condizione che essi accettino in modo totale e incondizionato la
!75
cultura nazionale: non solo la Costituzione e le leggi,
ovviamente, ma anche i valori fondamentali, la lingua e la
memoria storica, il sistema educativo, e così via. Nel modello
inglese, basato sull’esperienza dell’Impero e del
Commonwealth, si riconoscono invece le specifiche comunità
di immigrati come soggetti pubblici, depositari di peculiarità
culturali da difendere, lasciando loro persino alcuni margini di
autonomia giuridica e autoamministrazione.

Maturate nella riflessione degli ultimi decenni del


Novecento, queste nozioni sembrano mantenere poco senso
nella situazione attuale. Prima di tutto, sul piano concettuale,
perché presuppongono la preesistenza di “culture” integre e
compatte di provenienza degli immigrati: una condizione che
non è possibile oggi assumere (ammesso che lo fosse un
tempo). Come abbiamo visto, i migranti arrivano oggi per lo
più come soggetti già globalizzati, spesso inseriti in reti di
relazioni e comunicazioni transnazionali. Il che non significa
“omologati”: sono certamente portatori di differenze, che
hanno però natura caleidoscopica, e che semmai tendono dopo
a cristallizzarsi in identità “comunitarie” (la “comunità
marocchina”, quella senegalese, quella peruviana etc.) come
risposta alla situazione migratoria. Questo spiega ad esempio il
fenomeno delle subculture etniche che attraggono i giovani
immigrati di seconda o terza generazione: cioè l’apparente
paradosso per cui la prima generazione di immigrati tende di
solito all’assimilazione, mentre i loro figli o nipoti praticano il
!76
gioco dell’identità originaria, inserendosi in gruppi
“tradizionalisti” o che comunque cercano distinzione sociale
attraverso l’ostensione di uno stile etnico (nella presentazione
del corpo, nel modo di vestire e di mangiare, nelle pratiche
sociali). Paradosso solo apparente: dal momento che queste
generazioni, perfettamente assimilate sul piano culturale
(linguistico, educativo etc.), si sentono al tempo stesso rifiutate,
o almeno non soddisfatte nelle loro aspirazioni, dalla società di
arrivo.

Il che ci porta al secondo fondamentale motivo che rende


obsolete le categorie di melting pot/salad bowl e simili.
L’integrazione dei migranti non è influenzata solo (se non in
minima parte) dalle filosofie (assimilazioniste o multiculturali)
dei governi: dipende piuttosto da ragioni economiche e di vita
materiale. La Francia, ad esempio, può ben essere
assimilazionista e fedele ai principi di uno Stato illuminista: ma
sono le condizioni sociali, la disuguaglianza economica,
l’accorpamento abitativo nelle banlieue urbane e così via a
spingere contro l’assimilazione, verso l’isolamento e la
chiusura i diversi gruppi – poniamo – di immigrati maghrebini:
e da tali condizioni scaturisce una ripresa identitaria e talvolta
fondamentalista, simmetrica e parallela rispetto a quelle dei
movimenti xenofobi. In altre parole: non possiamo considerare
le identità migranti, al pari di quelle occidentali, come essenze
primordiali (non importa se per proteggerle o per combatterle).
Si tratta piuttosto di costrutti normativi che si formano in
!77
risposta all’incontro migratorio, nelle sue peculiari condizioni
materiali e politiche. Questa prospettiva ci può aiutare a
comprendere con maggior chiarezza i cosiddetti paradossi del
multiculturalismo, nonché le cosiddette “guerre dei simboli”40
che periodicamente si scatenano nell’opinione pubblica. È
giusto rinunciare ai “nostri” valori per rispetto dei “loro”? È
giusto seguire le “nostre” tradizioni se ciò può offendere le
“loro”? E così via. Spesso è proprio in relazione alla scuola che
queste forme di conflitto culturale sono sollevate. È lecito per
le ragazze indossare il velo islamico in classe? È corretto
festeggiare il Natale in classi che comprendono bambini di
famiglie islamiche? È giusto inserire la carne di maiale nelle
mense scolastiche, o appendere il crocifisso sulle pareti delle
classi? C’è un intero repertorio di problemi simili che negli
ultimi vent’anni sono stati sollevati e hanno avuto ampia
visibilità pubblica, vedendo fieramente contrapporsi gli
“identitari” e i “multiculturalisti”, o più spesso i movimenti
fondamentalisti di opposte fazioni. Apparentemente, tali
questioni implicano profondi dilemmi etici e portano alla
necessità di “schierarsi”. Dobbiamo accettare il velo per
rispetto della “loro cultura”, malgrado esso sembri implicare
una subordinazione della donna che contrasta con le nostre più
sacre convinzioni in termini di diritti umani? Oppure dobbiamo
restare fedeli alle “nostre” eredità illuministe e femministe, ma
in tal modo offendere etnocentricamente la “loro” sensibilità

40A. M. Rivera, La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche dell’alterità,


Dedalo, Bari 2005.
!78
religiosa? (O possiamo magari giustificare l’uso del velo, come
per certi gruppi femministi, come una strategia di resistenza
delle donne musulmane contro l’edonismo e la mercificazione
del corpo femminile nella società consumistica
dell’Occidente?). In realtà, questi drammatici dilemmi vengono
meno nella prospettiva finora suggerita – quella di una identità
normativa, prodotto e non presupposto dell’incontro
interculturale. Il problema diventa semmai capire chi ha
interesse a sollevare una “guerra” sul velo, sul crocifisso, sul
presepe o sulle canzoni natalizie. Notiamo infatti prima di tutto
che qui non è in gioco la molteplicità delle culture umane, ma
simboli caratterizzanti le due grandi religioni mondiali, il
Cristianesimo e l’Islam, usati come arieti dai gruppi di
propaganda fondamentalista di entrambe le parti. Sul velo si è
scritto molto – sulla sua storia in ambito islamico e non, e sul
fatto che le donne musulmane che vivono in Europa lo
considerino simbolo di oppressione oppure di libertà41 . Una
cosa è certa, però: non si tratta di una “tradizione” che si perde
nella notte dei tempi e che ha resistito alla modernità,
giungendo fino a noi. Piuttosto, guardando anche solo agli
ultimi decenni, l’uso di indossare il velo ha subito grandi
oscillazioni, in connessione con la storia economica e politica

41 Rimando in particolare a R. Pepicelli, Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica,


Carocci, Roma 2012. Per una prospettiva storica, che mostra come la sua “moda” in
ambito islamico si sia sviluppata in un ambiguo intreccio con lo sguardo
orientalizzante dell’Occidente, v. B. Nassim Aboudran, Come il velo è diventato
musulmano, Cortina, Milano 2015. Si veda anche il recentissimo G. Butera, T.
Ciavardini, Hijab. Il velo e la libertà, Castelvecchi, Roma 2020.

!79
dei paesi islamici, con il fallimento dell’occidentalizzazione
post-coloniale, con le vicende delle guerre e del terrorismo, con
la rinascita dei movimenti islamisti. L’antropologo Clifford
Geertz ha osservato una volta che quando le generazioni più
giovani di donne islamiche – dall’Indonesia all’Iran, dal
Marocco alle metropoli europee – hanno deciso di indossare il
velo nei luoghi pubblici, non lo hanno fatto perché così
facevano le loro nonne, ma proprio perché le loro nonne non lo
facevano42 , dunque per differenziarsi dalle generazioni
precedenti e mostrare così la propria modernità. Da un lato, ciò
deve spingerci a tentare di comprendere le complesse
motivazioni politico-culturali di chi sceglie il velo (che possono
esser diverse caso per caso, certo, non escludendo la possibilità
dell’imposizione violenta da parte di padri-fratelli-mariti
padroni). Dall’altro, per quanto riguarda la scuola, la
consapevolezza di tali processi dovrebbe renderci molto cauti
verso i tentativi di strumentalizzazione di questioni del genere
nell’ottica del cosiddetto “scontro di civiltà”. Solo i movimenti
fondamentalisti, su entrambi i fronti, possono aver interesse a
promuovere il velo, o il presepe o le canzoni natalizie dei
bambini, a occasione di conflitto e creazione di odio. Al di
fuori di un simile piano di furore ideologico, queste piccole
“frizioni interculturali” si possono di solito risolvere facilmente
sul piano pratico, diventando magari occasioni di dialogo e
confronto. Includerei nel piano ideologico del quale diffidare

42 C. Geertz, Mondo globale mondi locali. Cultura e politica alla fine del XX secolo,
Il Mulino, Bologna 1999.
!80
anche una certa rigida concezione del “politicamente corretto”,
che a me pare nemica degli obiettivi di integrazione e che tende
a reificare le appartenenze quanto i movimenti identitari più
radicali. Su questo tornerò oltre: non prima di aver discusso
una questione che abbiamo fin qui sfiorato senza approfondirla,
quella del razzismo.

!81

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