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Antonio M. Morone, Gli italo-somali


e l'eredità del colonialismo,
“Contemporanea”, 2, 2018, pp. 195-
222.
Antonio M. Morone

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Il Mulino - Rivisteweb

Antonio M. Morone
Gli italo-somali e l’eredità del colonialismo
(doi: 10.1409/89750)

Contemporanea (ISSN 1127-3070)


Fascicolo 2, aprile-giugno 2018

Ente di afferenza:
Università degli Studi di Pavia (Unipv)

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A R G O M E N T I

Gli italo-somali
e l’eredità
del colonialismo
Antonio M. Morone

The Italian Somalis and the legacy of colonialism. In the vocabulary of Italian colonialism,
the «meticcio» (pl. «meticci») or «halfcastes» was a child born of intimate relationships
that were usually between a white man and a black woman. The Italian-Somalis were
educated according to the Italian culture as well as language and were baptized by Roman
Catholic priests. In close continuity with the colonial past, the Italian Trust Administra-
tion of Somalia deliberately conducted ed during the 1960s a policy of assimilation and
Italianization of many Italian-Somalis thanks to the precious collaboration of the apostolic
Vicariate in Mogadishu. When Somalia became independent on July 1, 1960, the new leg- 195
islation didn’t easily acknowledge the Somali citizenship to the Italian-Somalis. Many of
them decided to left the country and other, very young, were brought to Italy as stateless-
ness people. The Italian-Somalis were associated by the Somalis with the former white
colonizers for being Christian, culturally Italian and too lightskinned, while once in Italy
they were considered by Italians as no different from other Africans, for being too dark
and not quite culturally Italian in contradiction with their history of forced Italianization.
Keywords: Somalia – meticcio – colonialism.

Nel vocabolario del colonialismo italiano, i «meticci» erano i figli nati da relazioni
intime che, in una società coloniale per gran parte al maschile1, coinvolgevano soli-
tamente un uomo bianco e una donna nera. Tra i due estremi opposti di un rapporto
occasionale e una relazione stabile vi era «una vasta zona grigia nella quale trova-
vano posto coabitazioni estemporanee, rapporti sessuali combinati con l’offerta di
vitto e alloggio e in generale l’offerta di vari livelli di domesticità [che davano adito]
a storie di sfruttamento e soprusi, ma in parte anche emancipazione e autonomia»2.
Il termine «meticcio» incapsulava il portato della subalternità dei colonizzati verso

1
Cfr. G. Stefani, Una colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Verona, Ombre
corte, 2007.
2
M. Salvadore, Le dinamiche a più facce della discriminazione di razza, genere e stato, in G.P. Calchi No-
vati, L’Africa d’Italia. Una Storia coloniale e postcoloniale, Roma, Carocci, 2011, p. 259.

ISSN 1127-3070
Contemporanea / a. XXI, n. 2, aprile-giugno 2018 © Società editrice il Mulino
i colonizzatori, lungo una linea del colore che differenziava la società coloniale in
termini sociali ed economici, oltre che fenotipici. Il colonizzato, il suddito, il nero era
ritenuto inferiore rispetto al colonizzatore europeo e perciò finiva per sperimentare
situazioni di marginalità sociale e sfruttamento economico. Il dominio coloniale con
il suo apparato razzista operò un cambio di prospettiva significativa rispetto all’epoca
precedente, quando in Africa i figli nati da alleanze matrimoniali erano utili per ge-
stire i rapporti di potere tra europei e donne africane, tanto che «gli antenati europei
venivano rivendicati anche con una buona dose di orgoglio»3.
Dal periodo liberale a quello fascista, la parabola del razzismo coloniale italiano
si mosse accentuando «il principio della discendenza [che] corrispondeva [a] un pro-
gressivo arretramento del concetto di “grado di civiltà”»4: la razza era così sempre più
importante, a scapito della missione civilizzatrice. L’antropologia fisica, specialmente
negli anni Trenta, era intesa a provare «la separazione [degli italiani] da camiti e
semiti e la loro appartenenza al ceppo ariano-nordico, contemporaneamente riven-
dicando l’esistenza di una razza italiana con caratteristiche a sé e distinta da quella
germanica», superando così definitivamente quella teoria per la quale almeno una
parte degli italiani era stata in precedenza messa in relazione a un ceppo mediterra-
neo nel quale rientravano anche i popoli dell’Africa settentrionale5. Il razzismo colo-
niale, che oggi sappiamo essere senza alcun fondamento scientifico, presupponeva
196
infatti che l’Homo sapiens fosse diviso in gruppi razziali con differenti caratteristiche
fenotipiche, che le razze a loro volta si trovassero in una relazione mutualmente ge-
rarchica, per intrinseca costituzione o quale prodotto dell’evoluzione umana, e che
i bianchi costituissero la prima e più evoluta tra le razze: da qui il razzismo inteso
come strumento di dominio e sottomissione di un gruppo ritenuto inferiore sulla base
dell’apparenza fisica, o di altre presunte differenze «naturali», a un gruppo razziale
ritenuto superiore6.
Il razzismo coloniale fu dunque all’origine di importanti processi di razzializza-
zione, ossia quell’insieme di pratiche e politiche intese a connotare e costruire le
popolazioni colonizzate in termini di razze diverse e inferiori. Le popolazioni colo-
nizzate furono «razzializzate in maniere specifiche che segnarono e riprodussero in
forme variabili nel tempo le relazioni ineguali» attraverso le quali gli europei im-
posero l’ordine coloniale7. Tali processi furono storicamente «una risposta a crisi

3
A. Brivio, Italiani in Ghana. Storia e antropologia di una migrazione (1900-1946), Roma, Viella, 2013, p.
91.
4
S. Falconieri, La legge della razza. Strategie e luoghi del discorso giuridico fascista, Bologna, Il Mulino,
2011, p. 54.
5
B. Sorgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali nella colonia
Eritrea (1890-1941), Napoli, Liguori Editore, 1998, p. 167.
6
J.F. Hutchinson, The Coexistence of Race and Racism. Can They Become Extinct Together?, Lanham,
University Press of America, 2005, p. 159.
7
P. Wolfe, Race and the Trace of History: For Henry Reynolds, in F. Bateman, L. Pilkington (eds.) Studies in
occorse quando i colonizzatori erano minacciati dalla necessità di condividere lo
spazio sociale con i colonizzati»8: la razza preservava e nel caso riaffermava quella
separatezza differenziale tra colonizzatori e colonizzati, tra cittadini e sudditi, che
altri processi di mobilità sociale tendevano a ridurre, come nel caso dei rapporti di
lavoro, delle relazioni miste, dell’istruzione ed, eventualmente, dell’acquisto della cit-
tadinanza. Le relazioni intime tra europei ed africani e i figli nati nel loro ambito fu-
rono perciò oggetto costante di provvedimenti politici, amministrativi e poi legislativi
che avevano l’intento di realizzare un «controllo sessuale» inteso a garantire l’ordine
gerarchico della società coloniale9.
Facendo un salto temporale in avanti, nella società postcoloniale, tanto in Somalia,
quanto in Italia, il portato dei processi di razzializzazione coloniale è alla base delle
odierne identità razziali, che sono oggi concetti fluidi emersi dalla rielaborazione
dell’idea di razza e dalla sua intersezione con le categorie di nazione, classe e genere,
spesso in relazione alle dinamiche del potere politico10. L’eredità del razzismo colo-
niale ha contribuito a ricreare categorie subordinate e identità separate che, nelle re-
lazioni tra i discendenti dei colonizzatori e quelli dei colonizzati, sono rilevanti anche
per i discendenti italo-africani delle unioni miste. Dopo la fine del colonialismo, la pa-
rola «meticcio» andò sostituendosi via via con quella di euro-africano o italo-africano,
termine generale che comprende quelli più specifici di italo-eritreo, italo-etiopico e
197
italo-somalo. Queste definizioni celano tuttavia un’ambiguità di fondo perché pos-
sono fare riferimento sia a un concetto di identità razziale, che discende dalla storia
coloniale e riproduce l’idea dell’incrocio tra qualcosa di irriducibilmente diverso, sia,
al contrario, possono presupporre il superamento del portato coloniale, rimandando
ad appartenenze multiple e all’idea di sintesi tra culture e lingue differenti.
Fino agli inizi degli anni Duemila, le vicende degli italo-somali erano per lo più
sconosciute sia al grande pubblico, sia agli specialisti della storia del colonialismo
italiano o dei Somali Studies: solo in anni recentissimi si è iniziato a indagare la
loro storia nei termini di un’eredità penosa e problematica del colonialismo11. Nel
portare l’attenzione sulle vicende degli italo-somali ha giocato un ruolo importan-
tissimo l’Associazione nazionale della comunità italo-somala (Ancis), costituitasi nel
1996 proprio per volontà di alcuni dei protagonisti di questa storia. L’attenzione della
stampa per quei 600 italo-somali che, secondo le stesse stime dell’Ancis12, vivevano

Settler Colonialism. Politics, Identity and Culture, New York, Palgrave Macmillan, 2011, p. 274.
8
Ibidem, p. 275.
9
A. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power: Gender, Race, and Morality in colonial Asia, in M. Di
Leonardo (ed.) Gender at the Crossroads of Knowledge. Feminist Anthropology in the Postmodern Era,
Berkeley, University of California Press, 1991, p. 52.
10
J.F. Hutchinson, The Coexistence of Race and Racism, cit., p. 151.
11
L’unico studio dedicato specificatamente agli italo-somali è quello di E. Sartore, Quando la storia degli
altri racconta di noi, Roma, CISU, 2014.
12
Fax dal ministero dell’Interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, a Gianni Mari, presi-
ai margini della società italiana, arrivò nel 2006, quando venne sollevato il caso degli
«abusi subiti da quei bambini, figli di unioni non ufficiali e guardate come «diverse»»
durante il periodo coloniale e poi dal 1950 al 1960 quando l’Italia tornò nell’ex colonia
per guidare l’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (Afis)13. A seguito di
una crescente pressione esercitata dall’Ancis sulle istituzioni italiane14, nel giugno
del 2008 la stampa nazionale diffuse la notizia di un disegno di legge, predisposto
nell’ambito del Comitato interministeriale contro la discriminazione e l’antisemiti-
smo15, che «per la prima volta dava ragione [agli italo-somali], riconoscendo le di-
scriminazioni subite e stabilendo un assegno vitalizio di indennizzo» per tutti coloro
che erano nati negli anni dell’Afis16. Tuttavia il provvedimento si arenò in parlamento
per la mancanza della necessaria copertura finanziaria. Non sortirono alcun effetto
negli anni successivi altre denuncie promosse dall’Ancis, né alcune interrogazioni
parlamentari promosse dall’Unione di centro17.
Le pagine che seguono sono dedicate all’analisi critica della storia degli italo-
somali con particolare riferimento all’intreccio con la più generale storia dell’Afis
e dell’accesso all’indipendenza della Somalia tra gli anni Cinquanta e i primi anni
Sessanta, quando molti italo-somali lasciarono il loro paese di nascita partendo per
l’Italia. L’attenzione verso il caso degli italo-somali è stato negli ultimi anni il risul-
tato di un processo di selezione e ricostruzione da parte dell’Ancis di una storia che
198
in realtà fu molto più complessa della narrazione proposta dall’Associazione, tutta
incentrata sullo sradicamento degli italo-somali dalla Somalia per effetto della loro
italianizzazione forzata. Nonostante sia indubbio che le discriminazioni subite dagli
italo-somali furono molteplici e riferibili tanto al rapporto con gli italiani quanto con i
somali, la guerra civile e la disgregazione delle istituzioni statuali in corso in Somalia
dal 1991 portò l’Ancis a concentrare le sue rivendicazioni sul versante italiano della
storia. L’obiettivo di questo saggio è allora quello di ricostruire la vicenda degli italo-
somali al di là della narrazione veicolata dall’Ancis, considerando il versante italiano
e quello somalo come parte di una stessa storia, studiando l’interazione sociale non

dente Ancis, 14 dicembre 2006. Per cortese concessione del ricevente.


13
F. Caferri, Noi figli di coppie miste ora chiediamo giustizia, «La Repubblica», 27 settembre 2006.
14
Furono in tutto tre le interrogazioni parlamentari rivolte dal deputato di Alleanza nazionale Gian Paolo
Landi di Chiavenna che, d’accordo con l’Ancis, domandavano il riconoscimento e l’indennizzo dei torti
subiti dagli italo-somali. Atti parlamentari [d’ora in poi: Ap], Camera dei deputati, interrogazione dell’on.
Landi Di Chiavenna, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, 20 novembre 2001; idem, 26 febbraio 2002;
idem 19 settembre 2005.
15
Il comitato fu istituito il 30 gennaio 2004 presso il ministero dell’Interno con «il compito di esercitare un
costante monitoraggio sui pericoli di regressione verso forme di intolleranza, razzismo, xenofobia e anti-
semitismo», www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/ministero/dipartimenti.html.
16
F. Caferri, I bimbi italiani strappati alla Somalia, cit.
17
Ap, Camera dei Deputati, interrogazione dell’on. Luca Volonté, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, 23
settembre 2008 e idem, interrogazione dell’on. Gianpiero D’Alia, 6 novembre 2008. Alla vicenda degli italo-
somali venne dedicato infine un servizio della trasmissione radiotelevisiva Chi l’ha visto?, 22 aprile 2009.
solo tra italo-somali, italiani di Somalia e italiani d’Italia, ma anche quella tra italo-
somali e somali. In questa stessa prospettiva è poi evidente come il piano della storia
sociale si intersechi e sia direttamente correlato con quello della storia delle relazioni
internazionali tra Italia e Somalia che ebbero un decisivo impatto sulla parabola di
mobilità umana, non semplicemente migratoria, che portò molti italo-somali dalla
Somalia all’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Lo sforzo non è dunque solo
di tenere insieme i due versanti italiano e somalo della storia, ma anche di guardare
alla sua dimensione interna e internazionale come due facce della stessa medaglia.
Le fonti di questa storia sono una serie di documenti scritti reperiti negli archivi
pubblici italiani, altri documenti ufficiali e privati che derivano dall’attività svolta
dall’Ancis, oltre a una serie di fonti orali che hanno per protagonisti alcuni italo-
somali oggi residenti in Italia e portatori di una memoria autonoma rispetto a quella
veicolata dall’Ancis. A titolo di doverosa avvertenza, aggiungo infine che ho potuto
avere accesso ad alcuni dei documenti riportati nel testo a seguito di un rapporto
professionale di consulenza storica che ho prestato a titolo gratuito all’Ancis a partire
dal gennaio 2007, quando, mentre ero in attesa di discutere la mia tesi di dottorato sul
mandato fiduciario italiano in Somalia18, l’allora presidente dell’Associazione, Gianni
Mari, mi contattò domandandomi informazioni sulla storia dell’Afis19.

199
Nuova amministrazione, vecchie pratiche

A partire dalla seconda metà degli anni Trenta del Novecento, «la colonia [fu] un
luogo di sperimentazione nel quale vennero forgiate e applicate alcune soluzioni giu-
ridiche che, in un secondo momento, dopo una fase di rodaggio e dopo esser state
adeguatamente modellate e rivisitate, agevolarono l’avvio di una politica razziale in
metropoli» questa volta non più intesa a segregare i sudditi, ma i cittadini italiani di
origine ebraica20. Il Regio decreto legge 19 aprile 1937, n. 880, metteva al bando le
relazioni miste «di indole coniugale» e le sanzionava con una pena fino a 5 anni di
reclusione, vietando inoltre agli italiani di vivere nei quartieri «indigeni» e viceversa
ai sudditi in quelli per i cittadini bianchi. Dopo che la legge 29 giugno 1939, n. 1004,
introdusse nuove ed ulteriori sanzioni penali «per la difesa del prestigio della razza di
fronte ai nativi dell’Africa Italiana», fu infine la legge 13 maggio 1940, n. 822, ad affron-
tare la questione dei «meticci», negando al padre italiano la possibilità di riconoscere
il figlio «meticcio» che «assume lo statuto del genitore nativo ed è considerato nativo

18
A.M. Morone, Governo nella Somalia sotto amministrazione fiduciaria italiana. Dal trapianto istituzio-
nale all’indipendenza, tesi di dottorato in Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea,
XVIII ciclo, Università degli Studi di Pavia, a.a. 2005-2006. La tesi di dottorato è poi confluita nel volume Id.,
L’ultima colonia. Come l’Italia è tornata in Africa, 1950-1960, Roma-Bari, Laterza, 2011.
19
E-mail da Gianni Mari all’autore, 17 gennaio 2007.
20
S. Falconieri, La legge della razza, cit., p. 66.
a tutti gli effetti». Venne così ribaltata la prassi di epoca liberale in favore dell’assimi-
lazione dei «meticci» che, facendone dei cittadini meticci, li poteva qualificare come
utili intermediari nel rapporto tra colonizzatori e colonizzati o, quantomeno, li collo-
cava sul versante italiano della società coloniale preservando tanto l’ordine coloniale
quanto l’idea di un privilegio legato a quella parte di sangue italiano che i «meticci»
avevano ricevuto dai loro padri.
Le misure legislative adottate non riuscirono nell’intento di impedire le unioni
miste e le conseguenti nascite dei «meticci», tanto che se non vi sono dati precisi per
il caso somalo, sono sicuramente significativi e rilevanti quelli a disposizione per il
caso eritreo: sulla base delle statistiche redatte nel 1949 da un’istituzione assisten-
ziale di Asmara, i nati nella capitale coloniale e nel suo hinterland dal momento di
entrata in vigore della legislazione contro il meticciato nel 1940 fino al 1942 furono
139, addirittura di più dei 110 nati nel periodo tra il 1936 e il 194021. Tuttavia quegli
italiani che disapplicarono le leggi segregazioniste non necessariamente si opposero
alle politiche razziali, ma più semplicemente, «ader[endo] alla subordinazione raz-
ziale dei colonizzati, […] misero in questione la forma che questa subordinazione
doveva avere»22. Infatti, le misure legislative adottate furono molto efficaci nell’im-
pedire il riconoscimento dei «meticci» da parte dei padri e nel produrre uno stato di
discriminazione multipla che fu poi alla base delle rivendicazioni postcoloniali per
200
un indennizzo dei torti subiti come nel caso degli iscritti all’Ancis.
La perdita delle colonie durante la Seconda guerra mondiale e poi la firma del
trattato di pace di Parigi nel 1947, con il quale l’Italia rinunciava almeno formalmente
ai possedimenti d’oltremare, costituirono le premesse per l’emanazione del Decreto
legislativo del capo provvisorio dello Stato del 3 agosto 1947, n. 1096, con il quale
l’Italia abrogava la legislazione contro il «meticciato» del 1940. Tuttavia questa legge
non ebbe un’efficacia automatica in Somalia, che restava sotto la potestà militare
dell’amministrazione britannica: il provvedimento italiano avrebbe infatti necessi-
tato di un esplicito atto legislativo di recepimento da parte delle autorità inglesi che
però non arrivò mai, così come fu anche nel caso dell’Eritrea23. Gli inglesi aspiravano
a sostituirsi all’influenza italiana piuttosto che assecondare la liberazione politica e
il cambiamento sociale in Somalia24: l’abolizione della legislazione razzista rischiava
infatti di fare più il gioco degli italiani che non quello degli inglesi nella logica della
competizione per il dominio sulle ex colonie.

21
Archivio storico-diplomatico del ministero degli Affari esteri [d’ora in poi: Asdmae], Archivio Storico del
Ministero dell’Africa italiana, Direzione generale Africa orientale, b. 6, elenchi dei bambini meticci biso-
gnosi assistiti dall’Istituzione Culturale Assistenziale Ricreativa «Alessandri» (Icara), s.d.
22
G. Barrera, Mussolini’s Colonial Race Laws and State-Settler Relations in Africa Orientale Italiana (1935-
41), «Journal of Modern Italian Studies», 2003, 3, p. 426.
23
Sull’Eritrea rimando a V. Deplano, La madrepatria è una terra straniera. Libici, eritrei e somali nell’Italia
del dopoguerra (1945-1960), Firenze, Le Monnier, 2017, pp. 115-7.
24
M. Ottaway, Soviet and American Influence in the Horn of Africa, New York, Praeger, 1982, p. 19.
Il 1° aprile 1950, con il ritorno dell’amministrazione italiana in Somalia, il Decreto
legislativo del 1947 divenne finalmente applicabile e con esso venne abrogata la legi-
slazione segregazionista del 1940, sostituendola con una disciplina intesa a garantire
la cittadinanza agli italo-somali:

Il nato nei territori dell’Africa italiana o nel territorio metropolitano dello Stato da genitori o
genitore ignoti quando per qualsiasi motivo si possa fondatamente ritenere che uno dei geni-
tori sia cittadino italiano e l’altro nativo dell’Africa italiana o assimilato è dichiarato cittadino
italiano purché non sia poligamo.

Il testo dell’articolo 3 segnava tuttavia un diretto ritorno alla disciplina del 1933 e
dunque, pur con qualche aggiornamento ineludibile, non rappresentava affatto una
presa di distanza dalle politiche razziali tipiche del colonialismo, ma più limitata-
mente era un ritorno alla politica assimilazionista ante-impero che attribuiva agli
italo-africani un titolo di privilegio nell’accesso alla cittadinanza italiana. L’ordina-
mento organico per l’Eritrea e la Somalia, emanato con la legge 6 luglio 1933, n. 999,
riconosceva infatti nella presunta paternità italiana un titolo di privilegio per l’otte-
nimento della cittadinanza italiana del figlio «meticcio» non riconosciuto, una volta
raggiunta la maggiore età, ma legava questa possibilità a un requisito esplicitamente
razziale, prescrivendo che per la naturalizzazione, oltre a «un’educazione perfetta- 201
mente italiana», fosse necessario superare la cosiddetta «prova della razza»: ossia il
ricorso a un’indagine basata su una serie di criteri morfologico-antropometrici con
l’intento di scovare le tracce della supposta paternità italiana25. Nella nuova disciplina
dell’Italia repubblicana si prevedeva che, invece della razza italiana del genitore,
fosse la cittadinanza italiana di uno dei genitori a costituire il titolo di preferenza per
la naturalizzazione. Tuttavia, quando si trattò di determinare in concreto quali do-
vessero essere gli strumenti per accertare, come previsto dalla legge, la cittadinanza
italiana del genitore, non si fece altro che ritornare alla prassi coloniale del certificato
bio-tipologico redatto dalle autorità medico-legali: l’obiettivo era pur sempre quello
di contenere e limitare le richieste di naturalizzazione da parte degli italo-somali veri
o presunti, ripristinando surrettiziamente quello che in altri tempi era stata la prova
della razza. Tale prassi perdurò oltre la fine dell’Afis, come dimostra un certificato re-
datto nel 1963 dall’allora medico fiduciario del Consolato generale d’Italia che «dopo
aver sottoposto a visita bio-tipologica» un italosomalo lo dichiarava «appartenente
alla razza euro-africana ai fini consentiti di legge»26.

25
O. De Napoli, La prova della razza. Cultura giuridica e razzismo in Italia negli anni Trenta, Firenze, Le
Monnier, 2009, p. 15.
26
Consolato generale d’Italia, certificato bio-tipologico a firma del Dott. Giuseppe Passaniti, Mogadiscio,
26 dicembre 1963. Per cortese concessione del direttivo dell’Ancis.
Le ragioni del ritorno a una tensione assimilatrice verso i meticci da parte dell’I-
talia repubblicana e postfascista erano esposte nella relazione preparatoria del prov-
vedimento del 1947: l’intento era quello di «emanare in materia di meticciato disposi-
zioni più consone alle tradizioni e all’etica italiane». Nel campo delle relazioni miste,
così come sotto tanti altri profili politici, istituzionali e sociali, la politica della nuova
Italia verso le ex colonie non passò per una netta rottura rispetto al passato coloniale:
nel ritornare in Somalia si condannarono gli eccessi e i crimini del colonialismo
fascista, ma niente affatto il colonialismo tout court. L’Afis venne inteso come una
prova di recupero per il passato, ma, contraddittoriamente, attraverso una messa in
valore dell’esperienza coloniale di epoca liberale che fu rappresentata come missione
positiva di civilizzazione. In definitiva tutte le colpe del colonialismo finirono per
essere ricondotte al fascismo e così l’Italia si poté ripresentare in Africa con l’intento
di riprendere le file del progetto coloniale di epoca liberale, aggiornato alla disciplina
del mandato fiduciario delle Nazioni Unite27. Si trattava di una prospettiva diame-
tralmente opposta e inconciliabile rispetto a quella del principale partito nazionalista
somalo, la Somali youth league (Syl), che rivendicava l’indipendenza immediata del
paese e non mancò di denunciare alle Nazioni Unite le vecchie pratiche coloniali
dell’Afis28. In questo quadro si capisce bene perché il provvedimento legislativo del
1947, pur abrogando la disciplina segregazionista del 1940, non segnava certo un
202
completo superamento del razzismo coloniale.
Il ritorno a una legislazione assimilazionista si accompagnò a un incremento delle
nascite degli italo-somali nei primissimi anni Cinquanta. La ragione principale di tale
aumento fu il ritorno in Somalia di circa 7 mila italiani, spesso giovani, molti dei quali
carabinieri e soldati oltre ai funzionari civili che presero servizio nei ranghi dell’Afis.
Per molti di questi uomini, che spesso avevano già alle spalle un periodo di servizio
in Africa ai tempi delle colonie, il ritorno in Somalia fu anche un ritorno alle vecchie
pratiche sessuali che avevano costituito un tratto così determinante della società co-
loniale. Le fattispecie delle relazioni miste potevano variare da quelle occasionali ad
altre più stabili che rinviavano a una relazione di concubinato, la cui temporaneità
era spesso legata al periodo del servizio in Somalia. In cambio di un compenso che
aveva natura molto varia, la moglie temporanea, che in Somalia poteva essere chia-
mata «boyessa» o, come in Eritrea, «madama», non diversamente dal passato colo-
niale «forniva tutti i comforts della vita domestica al colono maschio italiano senza i
vantaggi del matrimonio»29.

27
A.M. Morone, La fine del colonialismo italiano tra storia e memoria, «Storicamente», 12, 2016.
28
A. Sheikh-Abdi, Somali Nationalism: Its Origins and Future, «The Journal of Modern African Studies»,
1977, 4.
29
R. Iyob, Madamismo and Beyond: the Construction of Eritrean Women, «Nineteenth-Century Context»,
2000, 2, p. 218.
Di fronte a un incremento delle nascite italo-somale, furono molto pochi gli italiani
che riconobbero i propri figli per una serie di ragioni anche in questo caso ricondu-
cibili alle fattispecie della società coloniale. Un primo elemento era il carattere occa-
sionale delle unioni, ma anche quando si trattava di relazioni più durature nel tempo,
erano sufficienti a trattenere molti italiani dal dare il proprio cognome ai figli avuti in
Somalia l’onere economico legato al riconoscimento o l’esistenza di un’altra famiglia
in Italia: infatti, «fino al 1975, il Codice civile proibì sia le indagini sulla paternità, sia
il riconoscimento legale dei figli nati al di fuori del vincolo matrimoniale»30. A questo
si aggiungeva il colore della pelle dei nuovi nati che continuava a essere percepito
come un segnale di quella diversità razziale per nulla accantonata nei rapporti inter-
personali nella Somalia ai tempi dell’Afis.
Nell’estate del 1951 si occupò direttamente della questione degli italo-somali Ma-
rio Martino Moreno, direttore generale agli Affari politici del ministero dell’Africa
italiana (Mai), illustre arabista ed etiopista, che era stato alto funzionario fascista in
colonia e rappresentava un caso paradigmatico «di un’intellettualità organica alla
colonizzazione […] nel nuovo contesto democratico»31. Secondo Moreno il «problema
del madamato» ai tempi dell’Afis aveva un carattere di maggiore provvisorietà ri-
spetto al passato, poiché non si trattava tanto di «donne somale tenute dai bianchi con
sé sotto il proprio tetto in un regime di convivenza more uxorio, quanto di native che,
203
pur seguitando a vivere nella propria abitazione, fanno le mantenute di italiani che
se ne accaparrano (o s’illudono di accaparrarsi) le prestazioni sessuali»; la ragione di
tutto era rintracciabile nella tipologia dei loro «assuntori [che] sono per lo più soldati
e sottufficiali non raggiunti dalle loro famiglie» in Somalia32. Se questo era il caso dei
funzionari e dei militari, al contrario gli italiani residenti nel paese da lungo tempo,
per una scelta d’interesse o perché rimasti bloccati dalla guerra, si erano «formati una
famiglia che, salvo il suggello del matrimonio, impedito dalla religione della donna,
funziona come tale, con figli riconosciuti e regolarmente educati»33.
Le disposizioni di Moreno erano nel senso di fare di tutto per spingere verso una
legalizzazione delle diverse fattispecie affinché «diventino anche di diritto gli even-
tuali riconoscimenti soltanto di fatto», mentre nei casi più complessi dove «accanto
a questa famiglia locale ve ne sia un’altra in Italia, spesso dimenticata», non restava
che «regolarsi caso per caso […] per indurre questi insabbiati ad adempire ai loro vari
confliggenti doveri», considerando che la moglie «abbandonata possa a sua volta aver

30
P. Ballinger, Borders of the Nation, Borders of Citizenship: Italian Repatriation and the Redefinition of
National Identity after World War II, «Comparative Studies in Society and History», 2007, 3, p. 734.
31
C. Giorgi, L’Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano, Roma, Carocci, 2012, p. 188.
32
Archivio storico del comune di Casale Monferrato [d’ora in poi: Ascm], fondo Giuseppe Brusasca [d’ora
in poi: GB], b. 33, f. 30, lettera da Moreno a Brusasca, 6 luglio 1951.
33
Ibidem.
contratto altri rapporti in Italia e sia riluttante ad accettare i figli di letto somalo»34.
Gli italo-somali erano dunque considerati come qualcosa di diverso e ibrido che an-
dava assimilato, mentre su un piano diverso ma altrettanto problematico vi erano
gli italiani che si erano fatti somali, gli insabbiati, colpevoli di avere una relazione
di vero amore con la propria compagna. I «meticci» rimanevano dunque potenziali
italiani e per questo dovevano essere «recuperati» all’Italia: essi, concludeva Moreno,
«non possono naturalmente essere abbandonati a sé stessi» tra i somali, che erano
pur sempre neri e non avevano ancora conseguito quel grado di civilizzazione che
proprio l’Afis si faceva carico di realizzare35. Il compito di trasformare il diverso in
simile, ossia di assimilare questi «mezzi italiani», venne affidato alle istituzioni sociali
e scolastiche gestite dal Vicariato apostolico di Mogadiscio.

Essere meticci ai tempi dell’Afis

Il Vicariato apostolico di Mogadiscio fu il principale centro di cure e assistenza per


tutti quegli italo-somali che non erano stati riconosciuti dal genitore italiano e si tro-
varono in una situazione di bisogno. In realtà l’assistenza della Missione rispondeva
a un più complesso processo di italianizzazione che passava per l’obliterazione del
rapporto con la cultura, la lingua e la religione materna. Questo processo rispondeva
204 a precise direttive politiche delle autorità italiane: mettere i bambini italo-somali nelle
strutture della Missione fu una politica di assistenza, ma fu anche un mezzo per te-
nere sotto controllo un fenomeno che veniva percepito nei termini di pericolo sociale
e razziale. Il coinvolgimento diretto del governo italiano nelle vicende dell’assistenza
agli italo-somali è testimoniato già nel 1948, ancora prima dell’inizio dell’Afis, quando,
attingendo ai «fondi politici segreti», il Mai deliberò affinché il brefotrofio e le scuole
della Missione cattolica in Somalia fossero «opportunamente» finanziate36. Subito dopo
la risoluzione delle Nazione Unite del 21 novembre 1949, n. 289, che affidava la Somalia
in amministrazione fiduciaria all’Italia, il Mai trasferì 10 milioni di lire a monsignor
Venanzio Filippini, vicario apostolico di Mogadiscio, che così poté «continuare la sua
opera di elevazione morale e sociale fra le popolazioni native in particolare e fra i
connazionali»37. Infine, il 1° agosto 1950, a quattro mesi esatti dall’inizio del mandato,
i finanziamenti alla Missione vennero confermati nel quadro di una convenzione fra
l’Afis e il Vicariato, rinnovata di anno in anno fino all’indipendenza della Somalia il
1° luglio 1960. L’accordo aveva il fine di «regolare gli obblighi rispettivi in relazione

34
Ascm, GB, b. 33, f. 30, lettera da Moreno a Brusasca, 6 luglio 1951.
35
Ibidem.
36
Archivio centrale dello Stato [d’ora in poi: Acs], Ministero dell’Africa italiana [d’ora in poi: Mai], b. 2037,
da Allamprese a Costa, 15 novembre 1948.
37
Acs, Mai, b. 2037, da Moreno a Filippini, 16 dicembre 1949.
al funzionamento dei collegi per l’assistenza e l’educazione dei meticci»38. Il Vicariato
si rendeva disponibile «ad ammettere nei propri collegi a richiesta dell’Afis bambini e
bambine euroafricani anche non riconosciuti, purché risulti comunque che uno dei
genitori sia cittadino italiano» (art. 1.). Per contro l’Afis si impegnava a corrispondere
un sussidio giornaliero per ogni bambino accolto, fino a un massimo di 200 persone
(art. 2), e tanti erano ancora gli italo-somali presso la Missione nel 1959, alcuni dei quali
di seconda o terza generazione39. In aggiunta ai 27 milioni di lire trasferiti dal governo
italiano alla Missione per finanziare le scuole e le opere di culto, furono altri 24 i milioni
destinati fino a tutto il 1959 al pagamento delle rette degli italo-somali accolti presso le
scuole della Missione a Mogadiscio e nel Benadir40 per un totale di 12 scuole elementari
e 8 materne41.
A spingere i vertici dell’Afis a negoziare la convenzione con il Vicariato erano
state, come scrisse il segretario generale, Piero Franca, «ragioni di opportunità e di
convenienza»42. L’opportunità rimandava alle direttive impartite da Moreno, che,
come si è visto, erano state improntate a un atteggiamento paternalistico, fortemente
debitore di quell’idea di missione civilizzatrice coloniale, che non era affatto estranea
al concetto di razza e di gerarchia. La convenienza faceva invece riferimento al dato
strutturale per il quale il sistema scolastico nella colonia somala era stato sempre in
larghissima parte affidato a ordini religiosi: prima i missionari Trinitari, poi l’Isti-
205
tuto della Consolata e infine, a partire dal 1930, i Frati minori francescani43. È dun-
que evidente la responsabilità delle autorità fiduciarie italiane nell’aver predisposto,
indirizzato e facilitato l’italianizzazione degli italo-somali grazie al concorso fattivo
del Vicariato apostolico: la convergenza d’interessi tra l’Afis e la Missione finiva per
realizzare i rispettivi intenti di «civilizzazione» e di proselitismo in Somalia.
Se il progetto assimilazionista era un dato di fatto, le ragioni che portarono molti
italo-somali a frequentare le strutture dei francescani facevano riferimento tanto al
mancato riconoscimento del genitore italiano e al conseguente intervento delle au-
torità fiduciarie, quanto a una serie di circostanze legate al genitore somalo, come si
evince dal racconto di un italo-somalo, il signor Mario:

38
Asdmae, Direzione Generale dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia [d’ora in poi: Dga-
fis], b. 2, f. 3, lettera dal segretario generale dell’Afis alla ragioneria, 31 dicembre 1956. La convenzione del
1950 viene citata nel documento dove si disponeva il rinnovo annuale.
39
Asdmae, Affari Politici [d’ora in poi: Ap], serie 1948-1960, Somalia, b. 247, f. 840, lettera da Filippini a
Folchi, 21 ottobre 1959. Alberto Folchi era sottosegretario di Stato agli Esteri.
40
Asdmae, Ap, 1948-1960, Somalia, b. 247, f. 840, nota di Di Stefano allegata al telespr.so n. 13583 dalla
Dgafis al Mae, 26 settembre 1959.
41
Asdmae, Ap, 1948-1960, Somalia, b. 247, f. 840, lettera da Filippini a Folchi, 21 ottobre 1959.
42
Asdmae, Dgafis, b. 2, f. 3, lettera da Franca agli uff. affari finanziari, ragioneria, del magistrato dei conti,
31 dicembre 1956.
43
L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-1924), Roma,
Carocci, 2006, p. 244.
Era quasi una prassi per gli italo-somali andare in collegio per avere un’istruzione perché
il governo somalo – che era stato costituito nel 1956 in seguito all’elezione del primo parla-
mento nazionale – non garantiva i nostri interessi: vi era una forte discriminazione da parte
somala che è difficile dire se fosse dovuta alla fede cristiana o al fatto di essere il frutto di unioni
miste. Per quelle madri somale che non avevano un lavoro e non sapevano come mantenere i
loro figli, era la scelta migliore anche perché vi era la consapevolezza che in Italia le prospet-
tive di inserimento avrebbero potuto essere migliori44.

La decisione di avviare i figli alle scuole della Missione era dunque riferibile a un
quadro complesso nel quale le madri si muovevano tra un grado variabile di impo-
sizione e volontarietà: sullo sfondo vi erano le consuetudini della società somala per
le quali può essere vero, mutatis mutandis, quanto scritto per la colonia Eritrea, dove
le madri dei «meticci» finivano per essere «due volte vittime del sistema patriarcale a
casa e del regime di sfruttamento imposto dal colonialismo straniero»45. Anche nella
Somalia degli anni Cinquanta vi era il rischio di incorrere in un doppio meccanismo
di marginalizzazione e sfruttamento, istituzionale e familiare. Nella concezione pa-
triarcale della famiglia, secondo la quale il matrimonio per la legge musulmana era
suggellato dal pagamento di un prezzo alla promessa sposa, la definizione dello sta-
tus sociale della prole era strettamente legato alla discendenza paterna e al prestigio
206 della genealogia46. La relazione di una donna somala con un italiano era chiaramente
estranea a un tale contesto. La donna poteva così trovarsi facilmente in una posizione
di marginalità, se non proprio isolamento, rispetto ai legami con la sua famiglia per
la quale il matrimonio era lo strumento attraverso il quale riprodurre le regole di
una società fondata sul legame parentale47. D’altra parte nella società urbana della
Mogadiscio di quegli anni le dinamiche di forte cambiamento sociale in atto stavano
trasformando i matrimoni da alleanze tra gruppi in «relazioni tra due individui e i
loro nuclei familiari»48. Secondo questa logica, le donne somale sperimentarono spazi
di libertà individuale che sicuramente favorirono le unioni miste, seppure la nascita
di una eventuale prole poteva essere problematica. Crescere un figlio da sole poteva
costituire per le madri un insopportabile peso economico, oltre che contravvenire

44
Intervista dell’autore a Mario, Torino, 19 agosto 2010. Mario, nome di fantasia, nacque a Mogadiscio nel
1945. Cresciuto presso il collegio della Missione, dopo aver lavorato in Somalia fino all’inizio degli anni
Sessanta, si trasferì nel 1965 a Firenze e poi a Torino dove si sposò con un’altra italo-somala e qui vive
ancora oggi.
45
S. Ponzanesi, The Color of Love: Madamismo and Interracial Relationship in the Italian Colonies, «Rese-
arch in African Literatures», 2012, 2, p. 156.
46
V. Luling, A.S. Adam, Continuities and Change: Marriage in Southern Somalia and the Diaspora, «Nor-
theast African Studies», 2015, 1, p. 148.
47
L. Kapteijns, Women and the Somali Pastoral Tradition: Corporate Kinship and Capitalist Transfor-
mation in Northern Somalia, Working Papers in African Studies, N. 153, African Studies Center, Boston
University, 1991, p. 8.
48
Ivi, p. 11.
a una serie di pratiche sociali generalmente riconosciute e rispettate. Proprio per il
fatto che «era una questione di orgoglio familiare insegnare ai bambini la genealogia
del padre»49, non era affatto strano per le donne somale che i figli avuti con uomini
italiani seguissero la cultura e la religione del padre, così come è stato documentato
per il caso dell’Eritrea: secondo la consuetudine della società tigrina sulle terre alte
del Corno d’Africa, «essere bambini di un padre italiano [significava essere italiani],
nello stesso modo in cui i bambini di un uomo amhara e una donna tigrinya erano
amhara»50. In questo caso prevaleva allora nelle madri la speranza che diventare
italiani potesse offrire per il futuro dei loro figli maggiori opportunità di benessere e
ricchezza rispetto all’essere somali.
La situazione era simile anche nel caso di unioni occasionali, con l’aggravante che
la prostituzione, per di più con il colonizzatore straniero e cristiano, contravveniva
ai precetti dell’Islam. Nel giugno 1951 venne infatti promossa al Consiglio territoriale
(l’assemblea consultiva nominata dai vertici dell’Afis che nel 1956 si trasformò nel
primo parlamento somalo eletto) una discussione in favore della regolamentazione
della prostituzione. La proposta arrivava da Haji Salah Sheikh Omar (Xaaji Salah
Sheekh Cumar), rappresentate della Conferenza di Somalia che era il partito politico
espressione degli ambienti più conservatori della società somala e legato all’Italia51.
Haji Salah era un esponente dei rer hamar (reer xamar), ossia quel gruppo che, riven-
207
dicando una discendenza diretta dagli antichi coloni arabi e musulmani installatisi a
Mogadiscio nei primi secoli dopo l’hegira, godeva di un ruolo di particolare prestigio
nella pratica e nell’interpretazione dell’Islam. La discussione al Consiglio territoriale
si concluse con una delibera a favore di un «rigoroso controllo sulla prostituzione
al fine di proteggere il senso morale e religioso della popolazione e di impedire il
diffondersi di gravissime malattie»:52 se il provvedimento non aveva alcun valore vin-
colante per le autorità fiduciarie italiane, era tuttavia una presa di posizione incon-
testabile a favore dei valori veicolati dall’Islam e contro le pratiche di sfruttamento
sessuale messe in atto dagli italiani allora come nel precedente periodo coloniale.
Una tale visione dei rapporti sociali non era peraltro patrimonio solo della Confe-
renza di Somalia, ma venne condivisa anche dal principale partito somalo, la Syl, che
nel 1958 si fece promotore di una legge in tema di moralità pubblica che «vietava ogni

49
I.M. Lewis, A Pastoral Democracy. A Study of Pastoralism and Politics Among the Northern Somali of the
Horn of Africa, New York, Africana Publishing Company, 1982 [London, Oxford University Press, 1961],
p. 128.
50
G. Barrera, Colonial Affairs: Italian Men, Eritrean Women, and the Construction of Racial Hierarchies in
Colonial Eritrea (1885-1941), Ph.D. Thesis, Northwestern University, Evanston (IL), 2002, p. 198.
51
A.M. Morone, L’ultima colonia, cit., p. 23.
52
Bollettino mensile del Consiglio territoriale, Mogadiscio, Tip. dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana
della Somalia, 4 giugno 1951.
forma manifesta di prostituzione» accanto all’omosessualità (art. 3), pena l’arresto,
sulla base del fatto che si trattava di pratiche contrarie all’Islam53.
D’altra parte, per molte donne somale poteva essere molto difficile sfuggire a una
vita segnata dalla prostituzione. Fin dal tardo periodo coloniale e poi, ancora di più,
negli anni Cinquanta, si registrò un crescente flusso migratorio di somali dalle zone
rurali verso la capitale che può essere messo in relazione con una contrazione delle
attività dei concessionari italiani nell’entroterra del Benadir e con la tendenza dei «col-
tivatori somali a competere con quelli europei nell’assoldare i lavoratori stagionali»54.
Uno degli effetti dell’inurbamento delle popolazioni rurali fu un eccesso di offerta di
manodopera che finì per produrre marginalità sociale. Furono ancor prima le donne
degli uomini a farne le spese e la prostituzione finì per rappresentare una delle rare
opportunità di intraprendere un lavoro salariato. In particolare e un po’ paradossal-
mente, erano proprio le donne somale o italo-somale ad essere entrate in contatto
con le istituzioni educative della Missione a perpetuare un destino di sfruttamento
collegato alla prostituzione, come testimonia, la storia di vita di Faduma, che somala
per nascita divenne italiana per cultura e poi cittadinanza.
Dopo la morte del padre ascaro, un soldato delle truppe coloniali italiane, Faduma
fu abbandonata dalla madre che si era trovata in gravi ristrettezze economiche. Ancora
bambina, Faduma si ritrovò affidata alle cure del brefotrofio di Baidoa (Baydhabo)
208
dove venne battezzata ed educata all’italiana. Una volta raggiunta la maggiore età,
Faduma venne presa a servizio da una famiglia di concessionari di Genale, proprio
perché la sua conoscenza dell’italiano e, al contempo, un’istruzione di livello ele-
mentare ne facevano una perfetta donna di servizio. La moglie del concessionario,
racconta Faduma, avrebbe voluto adottarla, ma il marito si oppose e così la giovane
donna, poco più che maggiorenne, decise di trasferirsi a Mogadiscio su consiglio di
un’amica che le diceva come «avrebbe visto quanto in città gli uomini sono gentili!»55.
Nella capitale il lavoro di sarta che aveva imparato alla scuola della Missione non
era sufficiente per darle da vivere e allora iniziò a prostituirsi, rimanendo incinta
due volte e ritrovandosi così con due figli «uno sardo e uno fiorentino»56. Il padre del
primo nato era un carabiniere che «venne rimpatriato appena si seppe che io ero
incinta, per interessamento diretto di monsignor Filippini che quando andavamo a
confessarci ci diceva: “Figlia mia non farlo più”. Ma noi eravamo obbligate a rifarlo

53
Asdmae, Dgafis, verbale della riunione n. 86 dell’Assemblea legislativa della Somalia, 16 gennaio 1958.
54
L.V. Cassanelli, The End of Slavery and the «Problem» of Farm Labor in Colonial Somalia, in A. Puglielli
(ed.), Proceedings of the Third International Congress of Somali Studies, Roma, Il pensiero scientifico edi-
tore, 1988, p. 280.
55
Intervista dell’autore a Faduma, Torino, 14 settembre 2010. Faduma, nome di fantasia, nacque a Baidoa
nel 1930 da genitori entrambi somali che la abbandonarono. Dopo aver frequentato le scuole della Mis-
sione cattolica, lavorò prima come domestica a Genale e poi, trasferitarsi a Mogadiscio, iniziò a prostituirsi.
All’inizio degli anni Sessanta emigrò in Italia, a Torino, con i suoi due figli dove ancora oggi vive.
56
Ibidem.
per poter vivere»57. Il padre della seconda nata, un italiano di Somalia, residente nella
colonia da tempo, aiutò invece Faduma a mantenere entrambi i figli, pagando la
retta della scuola presso la Missione. La storia di Faduma non fu certo un’eccezione
a leggere quanto monsignor Filippini scriveva al sottosegretario di Stato agli Esteri,
Giuseppe Brusasca, che al governo si occupava direttamente dell’Afis: «Molte donne
somale che frequentano le scuole dirette dalle suore sono di mala vita»58.
La scelta di lasciare i propri figli alle «cure» della Missione era tuttavia solo una tra
quelle possibili e, per quanto penosa, era motivata da un insieme di fattori culturali
e sociali che combinavano le ristrettezze economiche delle madri e lo stigma sociale
delle relazioni miste con la speranza che, senza dover crescere un figlio da sole, po-
tesse essere più facile rifarsi una vita, magari trovando un nuovo marito somalo:
infatti se «era raro nella Somalia meridionale per un uomo avere più di una moglie
per volta e veramente raro averne più di due, per un uomo era decisamente comune
avere più mogli in successione»59. In altri casi, l’entrata alla Missione dei bambini fu
compatibile con il mantenimento di un rapporto con le madri che poterono conti-
nuare a visitare i figli e contribuire, per quanto potevano, ai loro bisogni, senza per
questo intraprendere loro stesse un processo di italianizzazione. Questo fu il caso di
Mario, che per tutto il periodo della sua permanenza presso la Missione rimase in
contatto con la madre che poi lo aiutò a continuare gli studi in ragioneria presso le
209
scuole italiane in Somalia60.
Nelle strutture della Missione i bambini ricevevano nomi italiani, che spesso stor-
piavano i cognomi dei padri naturali, venivano battezzati secondo il rito cristiano
cattolico e imparavano la lingua italiana: si trattava di una «prassi sistematica di
nascondimento e cancellazione […] che affievoliva ogni legame con la Somalia»61.
Come ricorda ancora Mario, i missionari «vietavano di parlare in somalo perché ci
vedevano già proiettati nel mondo italiano» e nel medesimo senso andava anche la
pratica del cristianesimo: nei casi più fortunati si finiva così per condividere «una
duplice fede: mia madre pregava, faceva digiuno, mentre io – concludeva Mario –
andavo in chiesa con un ottimo rapporto di reciproco rispetto e tolleranza»62. A ulte-
riore conferma di un simile quadro, va la testimonianza di un sacerdote torinese che,
come spiegherò meglio più avanti, all’inizio degli anni Sessanta visitò le strutture
dalla Missione cattolica poiché era stato coinvolto nell’accoglienza in Italia di alcuni
italo-somali:

57
Ibidem.
58
Ascm, GB, b. 33, f. 20, lettera da Filippini a Brusasca, 4 novembre 1951.
59
V. Luling, A.S. Adam, Continuities and Change, cit., p. 142.
60
Intervista a Mario, cit.
61
E. Sartore, Quando la storia degli altri racconta di noi, cit., p. 207.
62
Intervista a Mario, cit.
Era un problema l’educazione improntata un po’ al clima fascista, molto autoritaria con
punizioni fisiche e morali molto pesanti, la proibizione di parlare in lingua somala e il tentativo
di rendere difficili i contatti con le madri, mentre monsignor Filippini aveva una posizione pa-
ternalistica e assistenziale che però mancava di sensibilità sociale e politica: questo è un po’ il
difetto della Chiesa e non solo in questo caso, ossia il fatto di essere un ente assistenziale spesso
gli impedisce di prendere posizioni politiche e sociali63.

L’istruzione che gli italo-somali normalmente ricevevano era di livello elemen-


tare, improntata al modello italiano, e indirizzata a una formazione pratica: si trattava
di un vero e proprio percorso di acculturazione in continuità con le politiche scola-
stiche di epoca coloniale64. Un po’ paradossalmente le scuole del Vicariato apostolico
rimasero estranee a quell’importante processo di innovazione e riforma del sistema
di istruzione rivolto ai somali65, che rappresentò una delle poche politiche promosse
dall’Afis in discontinuità con il passato coloniale e fascista al punto da essere ricono-
sciuta tra «i risultati più notevoli» dell’intero mandato italiano66.
Con il compimento del diciottesimo anno di età, a norma dell’articolo 4 della con-
venzione tra Afis e Vicariato, gli italo-somali dovevano lasciare la Missione e trovarsi
un’autonoma collocazione sociale e lavorativa. Posto che l’obiettivo dell’istruzione
impartita agli italo-somali era quello di farne degli italiani cattolici, il fatto però di
210 precludere loro un’istruzione superiore e conseguentemente la possibilità di candi-
darsi a ricoprire posti di lavoro specializzato prefigurava un loro ruolo subalterno
all’interno della comunità italiana di Somalia e in prospettiva in Italia o nella Soma-
lia indipendente. L’uscita dal collegio fu dunque molto problematica, come racconta
ancora Faduma, che prima di mandare i suoi figli alla Missione era stata lei stessa
presso un collegio religioso:

Una volta fuori dalla Missione si finiva per essere come randagi, senza una casa dove stare
e un lavoro di cui vivere con i somali che ci guardavano con disprezzo prima di tutto per la
nostra religione cristiana. Noi sapevamo solo ricamare e allora l’unica era prostituirsi per più
di una ragazza67.

63
Intervista dell’autore a don Dario, Torino, 19 agosto 2010. Dario, nome di fantasia, iniziò a interessarsi
degli italo-somali nel 1963 e per anni fu protagonista di diversi programmi di accoglienza e assistenza a
italo-somali nel capoluogo piemontese.
64
S. Palma, Educare alla subalternità. Prassi e politiche scolastiche nella colonia Eritrea, in B.M. Carcangiu,
Tekeste Negash (a cura di), L’Africa orientale italiana nel dibattito storico contemporaneo, Roma, Carocci,
2007, p. 235.
65
Sulla base delle fonti statistiche delle Nazioni Unite erano infatti solo 179 gli italo-somali a frequentare
le scuole somale nell’anno scolastico 1953-4, ulteriormente scesi a 12 nell’anno scolastico 1956-7. United
Nations Official Record [d’ora in poi: Unor], 4th Committee report, A/2933, 1954-5; 4th Committee report,
A/3595, 1957-8.
66
A.A. Castagno, Somalia, New York, Carnegie endowment for international peace, 1959, p. 364.
67
Intervista a Faduma, cit.
Istruzione elementare, marginalità sociale ed economica, mancanza o debolezza
di reti familiari erano tutti elementi che finivano per alimentare un ciclo vizioso nel
quale giovani italo-somale o italo-somali replicavano la storia di dipendenza e di
sfruttamento che aveva indotto le loro madri ad affidarli alle cure della Missione.
L’assimilazione rimaneva per molti un processo incompleto poiché per gli italiani di
Somalia gli italo-somali restavano «meticci», italiani di status inferiore: la promessa di
un futuro migliore da conseguire attraverso l’italianizzazione finiva per essere spesso
disattesa, anzi proprio l’istruzione, per come era impartita, serviva più a creare su-
bordinazione che mobilità sociale verso l’alto.

L’indipendenza della Somalia e la partenza degli italo-somali

L’indipendenza della Repubblica somala venne ufficialmente proclamata il 1° luglio


1960 contestualmente all’unione dell’ex Somalia italiana con il protettorato del British
Somaliland. Se per i somali il raggiungimento dell’indipendenza rappresentava il con-
seguimento delle aspirazioni politiche e sociali in corso di elaborazione da almeno due
decenni, per gli italiani residenti in Somalia quello stesso momento rappresentò la fine
di un’epoca fatta di dominio e privilegi personali. Molti italiani di Somalia di fronte alle
politiche di nazionalizzazione dell’economia e di somalizzazione dell’amministrazione
e del mercato del lavoro decisero di partire per l’Italia. Per essere impiegati nelle di- 211
verse amministrazioni statali o per svolgere una serie di lavori professionali occorreva
avere la cittadinanza somala. Dopo l’acquisto dell’indipendenza politica, l’impegno
della nuova classe dirigente fu infatti la revisione, se non proprio la rivoluzione, dell’or-
dine sociale, promuovendo in nome della somalizzazione dello Stato una migliore di-
stribuzione della ricchezza che però spesso si tradusse nella semplice sostituzione delle
nuove élites emergenti somale a quelle dei vecchi italiani di Somalia. Gli italo-somali,
proprio per essere di cultura italiana, religione cristiana cattolica e cittadini o potenziali
cittadini italiani, finirono per condividere un percorso di emigrazione simile a quello
degli italiani di Somalia, anche se il loro essere italiani di seconda classe in Somalia non
fece altro che riprodursi nella loro esperienza migratoria in Italia.
Il caso di Mario ancora una volta è interessante: dopo aver studiato da ragioniere
e aver trovato impiego presso il ministero degli Esteri somalo, venne licenziato nel
1964 a seguito dei provvedimenti di somalizzazione perché aveva acquisito la cit-
tadinanza italiana sulla base della legislazione del 1947, pur non essendo mai stato
riconosciuto dal padre. Mario allora decise di «partire per l’Italia a causa della preca-
ria situazione lavorativa», ma sapeva bene che «in fondo la situazione del paese nel
lungo periodo non avrebbe permesso in ogni modo di avere una famiglia a causa
delle discriminazioni rivolte ai meticci»68. Altri italo-somali, con il passaporto ita-

68
Intervista a Mario, cit.
liano, sfruttarono l’obbligo del servizio militare per lasciare la Somalia, acquisire
un’istruzione superiore e fermarsi in Italia una volta concluso il periodo di ferma con
una professionalità da rivendere sul mercato del lavoro69. Per alcuni italo-somali che
avevano raggiunto la maggiore età e possedevano la cittadinanza italiana, la scelta di
emigrare in Italia fu dunque presa in relativa autonomia, magari contando su amici
e vecchi compagni di scuola che avevano già intrapreso in precedenza il viaggio e si
trovavano in Italia.
L’alternativa di optare per la cittadinanza somala avrebbe potuto permettere agli
italo-somali di rimanere in Somalia aggirando i provvedimenti di somalizzazione,
anche se le discriminazioni subite per essere educati all’italiana e battezzati nel cri-
stianesimo avrebbero continuato a perseguitarli. In ogni caso questa alternativa di-
venne nei fatti impraticabile a partire dal 1963. La legge somala sulla cittadinanza del
12 febbraio 1960, n. 9, si fondava sul principio dello ius sanguinis, secondo il quale
era cittadino somalo il figlio di padre somalo, realizzando, come nel caso eritreo, una
«convergenza patrilineare tra colonizzatori e colonizzati per i quali la discendenza
paterna definiva l’identità individuale»70. Tale principio ammetteva però l’eccezione
che «i figli di padre sconosciuto e di madre somala e i figli di genitori sconosciuti
nati sul territorio della Repubblica somala sono somali» (art. 14): si riconosceva così
a tutti gli italo-somali l’accesso alla cittadinanza somala. Dopo l’indipendenza, con
212
l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza del 22 dicembre 1962, n. 28, e in
particolare del successivo regolamento attuativo promulgato con il Decreto del presi-
dente della Repubblica del 19 febbraio 1963, n. 129, si stabiliva al contrario che solo «il
figlio di cittadino acquista di diritto la cittadinanza somala al momento della nascita»:
così agli italo-somali venne di fatto precluso l’accesso automatico alla cittadinanza
somala a partire dal 1963.
Dopo la fine dell’Afis e col venir meno del relativo status di soggetti sotto tutela
internazionale, per molti italo-somali, specie i minorenni non riconosciuti dal padre
italiano, l’impraticabilità di diventare cittadini somali equivalse a cadere in uno sta-
tus di apolidia. Infatti, nonostante gli italo-somali potessero aspirare alla naturalizza-
zione italiana, questa poteva avvenire solo al compimento della maggiore età e dopo
aver assolto una procedura burocratica impegnativa dal punto di vista dei requisiti
giuridici e spesso economicamente onerosa. La cittadinanza italiana costituiva pur

69
La circostanza è confermata indirettamente nella relazione alla proposta di legge che, senza successo,
fu presentata dall’on. Giuseppe Vedovato il 20 febbraio 1964 a favore delle «missioni cattoliche italiane in
Etiopia, Libia e Somalia per l’assistenza e l’educazione dei minorenni, presumibilmente figli di cittadini
italiani già residenti in uno degli Stati sopraindicati e che non siano stati legalmente riconosciuti dal ge-
nitore italiano». Nel testo si cita il caso di molti italo-africani che una volta «compiuto il diciottesimo anno
di età, si arruolano volontari» per raggiungere l’Italia. Ap, Camera dei deputati, IV Legislatura, documenti,
disegni di legge e relazioni, n. 1000.
70
G. Barrera, Patrilinearità, razza e identità: l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano
(1885-1934), «Quaderni storici», 2002, 1, p. 22.
sempre un premio che doveva coronare l’italianizzazione dei «meticci», non la sua
premessa. Lo status di apolidia fu aggravato in molti casi dalla decisione del governo
italiano di interrompere i sussidi destinati alle scuole del Vicariato apostolico dopo il
1960, tanto che a sua volta il Vicariato si trovò costretto «ad allontanare gradualmente
gli euro-africani dai collegi per far posto ai somali» che potevano pagare la retta71. Per
molti minori italo-somali all’indeterminatezza del loro status giuridico si aggiunse
dunque l’incertezza della loro condizione economica e sociale.
In questo frangente prese il via una controversa operazione «umanitaria» con
l’intento di trasferire dalla Somalia all’Italia gli italo-somali ritenuti più bisognosi. Il
piano venne coordinato da un comitato informale promosso a titolo privato da alcuni
italiani allora residenti in Somalia di comune accordo con il Vicariato apostolico e con
il tacito assenso delle autorità diplomatiche italiane e di quelle governative somale. Il
comitato di «aiuto» agli italo-somali venne messo in piedi soprattutto grazie agli sforzi
della moglie di un alto funzionario italiano che lavorava allora a Mogadiscio come
consigliere giuridico presso il governo somalo, del quale non rendo volutamente noto
il nome, e poi grazie a quelli della moglie di un alto diplomatico italiano, del quale
ugualmente preservo l’anonimato. Le intenzioni del comitato emergono bene da una
lettera che la prima delle due donne inviò nel 1963 a un sacerdote torinese, suo ex
compagno di scuola, al quale, come accennato in precedenza, venne chiesto aiuto
213
nell’organizzazione dell’accoglienza degli italo-somali in partenza per l’Italia.

Gli euro-africani vengono allevati sin dall’infanzia come un piccolo gruppo appartato sia
dalla comunità somala che da quella italiana. […] I metodi di istruzione sono inadatti alla vita
che li attende e soprattutto non al passo con l’enorme processo di modernizzazione di questo
paese, basti pensare al numero sempre crescente di giovani somali laureati. Soprattutto le
giovani che in collegio hanno imparato solamente il ricamo all’uscita dall’orfanatrofio si tro-
vano assolutamente sprovvedute e prive di mezzi, senza titolo di studio, incapaci di affrontare
e comprendere il problema della vita: di fronte alla miseria, unica via, anche toppo facile qui
è la prostituzione. Abbiamo assistito all’assurdo verificarsi di questo fatto: la maggior parte
delle giovani provenienti dai collegi delle suore sono finite male! Gli euro-africani non hanno
nazionalità a causa del razzismo del popolo somalo e sono quindi apolidi, fatto che rende la
loro situazione ben diversa da quella degli euro-africani delle altre ex colonie italiane, dove essi
possono divenire cittadini del paese in cui sono nati e avere quindi tutti i diritti politici e civili.
In virtù però della legge italiana gli euro-africani possono facilmente divenire cittadini italiani
con semplice domanda sommariamente documentata al Tribunale di Roma: sono quindi po-
tenzialmente tutti italiani72.

71
Asdmae, AP, 1948-1960, Somalia 1959, b. 247, f. 840, lettera da Filippini a Folchi, 21 ottobre 1959.
72
Corrispondenza da Mogadiscio a Torino, 1° aprile 1963. La corrispondenza è stata resa anonima dall’au-
tore. Per gentile concessione del direttivo Ancis.
Nella prospettiva di questa donna, traspare in modo chiaro quel paternalismo che
passò senza soluzione di continuità dal colonialismo all’Afis, connotando gli italo-
somali non solo per il loro supposto slancio verso l’Italia, «che considerano la loro
unica patria», ma soprattutto per le «caratteristiche razziali degli italo-somali che
sono nettamente più europee che africane: sono di bell’aspetto, di buona salute e
di vivace intelligenza»73. Per coloro che venivano definitivi nei termini di una razza
meticcia, la scrivente concludeva che «l’unica soluzione era il loro rientro in Italia
come cittadini italiani, come orfani, come illegittimi o meglio come “minori italiani
abbandonati in terra straniera”» attraverso un’evidente logica di appropriazione e
assimilazione, senza considerare i loro legami con la Somalia e l’estraneità a un’Italia
dove non conoscevano nessuno e non si erano mai recati74.
Nella pratica il comitato svolse «un’assistenza sul posto alle mamme generalmente
poverissime di quei bambini allontanati dai collegi, [pagando] le rette per gli studi di
alcuni italo-somali oltre ad aiutarli nella ricerca del lavoro e nell’ottenimento della
cittadinanza italiana», ma gli sforzi maggiori furono destinati a predisporre la par-
tenza dalla Somalia dei casi ritenuti più urgenti e meritevoli di «aiuto»75:

Abbiamo un certo numero di euro-africani e di euro-africane di quattordici, quindici anni,


che sono in possesso soltanto della licenza elementare, che potrebbero frequentare con pro-
214 fitto una scuola di economia domestica. I ragazzi poi, ne abbiamo di sedici, diciotto anni,
che lavorano nelle industrie della Missione con uno stipendio di 15 o 16 mila lire al mese,
vedendosi così preclusa ogni possibilità di vita dignitosa al di fuori del Collegio, potrebbero
frequentare qualche scuola per divenire operai specializzati. Abbiamo anche tre ragazze
e due ragazzi che hanno fatto la terza commerciale e che potrebbero frequentare scuole
professionali più qualificate. Naturalmente abbiamo anche alcuni elementi particolarmente
portati per lo studio, ma so quanto è difficile il poter far proseguire gli studi. Abbiamo anche
una ragazza che è stata allontanata dal collegio della Missione all’età di undici anni. È com-
pletamente orfana, cittadina italiana, e, abbandonata a sé stessa, si è data alla prostituzione:
ha quattordici anni! La ragazza non è cattiva e meriterebbe di essere recuperata. Una donna
euro-africana, cittadina italiana, impiegata al ministero dell’Istruzione, conduce pubblica-
mente una vita immorale. Purtroppo ha presso di sé una bambina di undici anni, allontanata
anch’essa dal collegio all’età di otto anni «perché troppo vivace». La bambina è molto, troppo
interessata alla professione materna… La mamma e la madrina, congiuntamente, sarebbero
disposte a pagare una retta di 18 mila Lire al mese in Italia: quello però che si deve tener
presente è che la bambina non può stare in un collegio normale con bambine normali … ci
vuole un collegio per bambini difficili.76

73
Ibidem.
74
Ibidem.
75
Ibidem.
76
Ibidem.
Le modalità con le quali il comitato portò in Italia gli italo-somali, molti dei quali
minori, facevano riferimento a una rete di conoscenze altolocate, interessando sin-
gole personalità politiche o delle istituzioni della Repubblica al caso dell’uno o dell’al-
tro italo-somalo. Nella lettera si ammette infatti di essere «riusciti a mandare già al-
cuni elementi in Italia», senza tuttavia dare un numero esatto77.
Dalla testimonianza resa ai giorni nostri dal sacerdote torinese, destinatario della
lettera, arriva la conferma che la presa in carico degli italo-somali nel capoluogo
piemontese avvenne sulla base di un semplice «affidamento verbale» e in alcuni casi,
proprio perché gli italo-somali arrivarono «un po’ allo sbaraglio senza sapere bene
le destinazioni e le persone a cui affidarli», alcuni giovani o giovanissimi «finirono in
case di rieducazione semplicemente perché c’era un posto libero»78. La testimonianza
del religioso torinese termina sottolineando il contrasto tra una situazione sempre
più scomoda per gli italo-somali a Mogadiscio e tutti i limiti dell’operazione messa in
piedi dal comitato di «aiuto»:

Gli italo-somali erano visti come italiani nati in terra straniera da parte di chi organizzò la
loro partenza e riteneva che quelle persone dovessero considerarsi più figli dell’Italia che della
Somalia. Di fronte a un’oggettiva situazione di emarginazione sociale e sofferenza economica
di molti giovani o giovanissimi italo-somali si pensò di mandarne alcuni in Italia a titolo speri-
mentale perché, dato che avevano un’istruzione italiana, la loro strada sembrava essere quella 215
di inserirsi in un ambiente italiano, allora tanto valeva farli arrivare in Italia. E d’altra parte
nonostante le difficoltà incontrate in questo percorso che li portò in Italia credo sia stata per
loro una provvidenza venire in Italia dove hanno potuto studiare, viceversa cosa avrebbero
fatto in Somalia79?

A influire negativamente sul progetto migratorio degli italo-somali non furono solo
le difficoltà nell’individuare le strutture di accoglienza adatte, ma anche le difficoltà
dell’inserimento scolastico o lavorativo, a seconda dell’età dei giovani, e infine lo sta-
tus giuridico delle singole persone: tutti fatti che mettono fortemente in discussione
la conclusione deterministica di don Dario circa il fatto che il trasferimento in Italia
fosse necessariamente una scelta migliore rispetto a restare in Somalia. Infatti la si-
tuazione di apolidia, che era quella di molti minori, poteva essere risolta solo per via
giudiziaria e dipendeva ancora una volta dall’interessamento delle varie istituzioni
o persone che si erano fatte carico dell’accoglienza dei minori. Il coinvolgimento ita-
liano fu dunque diretto anche se le decisioni non discesero da una precisa direttiva
di governo, quanto piuttosto da una prassi informale portata avanti grazie all’inte-
ressamento di singole persone influenti sulla scena politica italiana all’inizio degli

77
Ibidem.
78
Intervista a don Dario, cit.
79
Ibidem.
anni Sessanta con la conseguenza che tutte le azioni intraprese furono improntate
alla provvisorietà a scapito di ogni garanzia di un’assistenza continuativa e organica.
Una testimonianza che dimostra l’improvvisazione delle azioni intraprese dal co-
mitato e al contempo le sofferenze causate è quella di un’altra donna italo-somala, che
sbarcò a Genova a metà degli anni Sessanta quando aveva nove anni e che chiamo,
con un nome di fantasia, Miriam:

Una volta arrivata, ricordo la mia delusione nell’apprendere che sarei stata affidata ad un
istituto di suore; speravo nell’affidamento a una famiglia e invece mi ritrovavo nuovamente
in collegio. Ne usci nel giugno 1970 per decisione del mio tutore legale e mi trasferì a Torino.
Avevo sedici anni e nessuna autonomia: l’educazione ricevuta in collegio mi aveva resa inerme
e a disagio in ogni situazione. Il collegio era in realtà un riformatorio per giovani ragazze se-
gnate da esperienze devianti. La mia fanciullezza non mi consentì per anni di rendermi conto
delle tragedie familiari che avevano segnato molte delle mie compagne di collegio. Ero la più
giovane tra loro, e le altre avevano verso di me un atteggiamento materno. […] Le suore si
resero conto dei miei problemi, mi videro dimagrire e intristirmi ed ero sempre influenzata
e mi aiutarono molto. […] Le difficoltà maggiori le trovai nell’inserimento scolastico: parlavo
italiano in maniera scorretta e nonostante sapessi leggere e scrivere, il mio bagaglio scolastico
era inadeguato alla scolarizzazione che i giovani avevano a quell’età80.

216 La giovane dovette così ricominciare il suo percorso scolastico dalla prima ele-
mentare, anche se con determinazione e intelligenza recuperò le lacune pregresse
riuscendo a laurearsi.
Altra storia che dimostra ancora una volta la complessità e la pluralità delle vi-
cende degli italo-somali è ancora quella di Faduma che fece di tutto per far partire i
propri figli attraverso la rete del comitato: «Ero contenta che mio figlio fosse riuscito
ad andare in Italia perché i rapporti con i somali erano a sassate e quante bottiglie
abbiamo schivato salendo i gradini della chiesa, mentre ci urlavano cufar [infedeli].
Così dopo aver mandato il primo figlio in Italia, sono partita anch’io con mia figlia»81.
Arrivata come altri italo-somali a Torino, Faduma entrò a servizio di una ricca fa-
miglia della borghesia del capoluogo piemontese alle dipendenze della quale rimase
per il resto della sua vita lavorativa. Il rapporto con i figli continuò però a essere
contrastato, specie con la figlia, circa la scelta di trasferirsi in Italia e di riniziare qui
una nuova vita.
Ormai residenti in Italia, gli italo-somali si trovarono a dover affrontare il rapporto
con gli italiani d’Italia: «Non mancarono testimonianze di rapporti di amicizia con
giovani italiani», ma era pur sempre vero che «molti italiani avevano meno cono-

80
E-mail da Mariam all’autore, 26 luglio 2010. Miriam è un nome di fantasia.
81
Intervista a Faduma, cit.
scenze rispetto agli italosomali in ordine alla differenza culturale»82. Non stupisce
allora che in molti si trovarono ad affrontare nuovi fenomeni di marginalizzazione,
discriminazione e razzismo che rimandavano al loro essere percepiti come diversi,
come italiani di seconda classe, a partire dal colore della loro pelle. Ricorda ancora
Mario che quando si trovò a sostenere un colloquio per un lavoro in banca a Torino,
nel 1965, «non si era visti di buon occhio: la preparazione c’era, l’obbligo del servizio
militare era assolto, l’unico aspetto che rimaneva era quello del colore»83. Per molti
altri, meno fortunati di Mario, che non erano riusciti ad acquisire un’istruzione su-
periore in Somalia e magari parlavano un italiano un po’ stentato, allo stigma della
pelle si sommò una scarsa preparazione professionale. Discriminazione e margina-
lizzazione aggravavano spesso la solitudine di moltissimi italo-somali che con la par-
tenza per l’Italia avevano definitivamente rotto i rapporti con le madri, quando questi
erano esistiti, e senza che, una volta in Italia, potessero ragionevolmente sperare di
ritrovare un legame con la famiglia paterna. Non fu allora certo un caso che a creare
nuove e differenti dinamiche familiari contribuirono i rapporti tra italo-somali che
in più di un caso si sposarono tra loro: la ragione poteva essere sicuramente la vici-
nanza delle loro storie di vita e un idem sentire, ma si può anche pensare che in Italia
si stesse riproducendo quello stigma sociale tipico dei tempi del colonialismo verso le
unioni miste, tra bianchi e neri. Dalle fonti non emerge un dato utile a stabilire quanti
217
furono effettivamente gli italo-somali a trasferirsi in Italia in autonomia o attraverso
la rete del comitato; sicuramente per molti che partirono, altri rimasero in Somalia
per scelta o perché non ebbero la possibilità di lasciare il paese.

Conclusioni

La storia degli italo-somali che emerge dalle fonti analizzate conferma la narra-
zione proposta dall’Ancis, ma sicuramente quelle stesse fonti aprono a un quadro
interpretativo più complesso e sfaccettato: la storia degli italo-somali non fu solo il
prodotto di politiche riferibili a soggetti altri, l’Afis, la Missione, il governo somalo e
quello italiano, ma fu anche determinata dalla volontà e dalle decisioni degli italo-
somali stessi. È incontestabile la denuncia dell’Ancis, ripresa anche nel progetto di
legge del 200884, secondo la quale «molti bambini italosomali […] furono presi alle

82
E. Sartore, Quando la storia degli altri racconta di noi, cit., p. 208.
83
Intervista a Mario, cit.
84
L’articolo 1 del progetto di legge disponeva «un indennizzo agli appartenenti alla comunità italo-somala
come riconoscimento delle discriminazioni subite a seguito dell’Afis e del loro trasferimento in Italia»;
la relazioni illustrativa faceva inoltre riferimento al «grave sradicamento dalla madre somala [vissuto
dagli italo-somali] e, in genere, all’inserimento in istituto dove patirono una vita segregata e di stenti».
Relazione illustrativa al Dll «Provvidenze a favore della Comunità italo-somala proveniente dall’epoca
dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia», allegata alla lettera dalla segreteria del Comitato
loro madri e messi in scuole speciali dove vennero educati all’italiana»85. Le fonti di-
mostrano però come fu determinante anche la volontà delle madri nell’entrata dei fi-
gli nelle strutture della Missione e soprattutto come quelle stesse madri riuscirono in
più di un caso a mantenere un rapporto con i figli, cosicché l’ingresso nelle strutture
della Missione non rappresentò sempre e per forza la rescissione di ogni rapporto tra
genitori e figli. Le storie di vita di Mario e Faduma testimoniano percorsi migratori
nei quali le spinte a lasciare la Somalia furono multiple: gli effetti del progetto assi-
milazionista italiano si intersecarono così con altri fattori riconducibili alle discrimi-
nazioni sociali legate al rapporto con i somali e alle problematiche derivanti dalle
politiche di somalizzazione del governo di Mogadiscio. La complessità della storia
degli italo-somali rispetto alla narrazione dell’Ancis testimonia in definitiva un dato
che è vero tanto per il caso italiano quanto per quello di altri contesti (post)coloniali
europei: storicamente «i meticci non furono un gruppo organizzato con una comune
identità, ma piuttosto una categoria imposta dall’alto da attori coloniali – soprattutto
filantropi, amministratori e giuristi»86. Le diverse storie degli italo-somali rimandano
così a quelle «memorie diversificate» del colonialismo italiano che fino ad oggi si sono
riflesse in modo contrastato sui discorsi, sugli studi e sulla politica italiana87, tanto da
avere a lungo condizionato un costruttivo dibattito sul passato coloniale, relegando
all’oblio vicende come quelle degli italo-somali.
218
Lungo la parabola di questa storia iniziata in Somalia e per molti italo-somali
approdata in Italia, il dato caratterizzante fu quello delle discriminazioni subite: una
causa profonda va rintracciata nel portato delle identità razziali, ossia nel riproporsi
in epoca postcoloniale di categorie prettamente razziali in combinazione ad altre
determinanti quali il genere, la classe e la nazione. Sotto questo punto di vista la
storia degli italo-somali in Italia rimanda a quella recentemente indagata da Silvana
Patriarca dei «figli della guerra», i figli nati da unioni tra donne italiane e soldati
alleati non bianchi durante la Seconda guerra mondiale, che «soffrirono la stigma
di essere “illegittimi” e associati con la guerra persa, ma inoltre furono percepiti e
fortemente identificati come differenti per il colore della loro pelle»88. Un minimo
comune denominatore tra tutte queste storie è che, nonostante la Costituzione ita-
liana avesse solennemente statuito nel 1948 l’uguaglianza di tutti i cittadini senza

interministeriale contro la discriminazione e l’antisemitismo a Mari, 19 maggio 2008. Per cortese conces-
sione del ricevente.
85
P. Ballinger, Borders of the Nation, cit., p. 735. Tesi simile fu ripresa qualche anno dopo affermando che
l’Afis «decise di rimuovere [i figli] dalle loro madri, famiglie e comunità, mettendoli nelle scuole missio-
narie cattoliche». B. Faedda, Stolen Generation and a Missing Reconciliation, «Anthropology News», 2010,
4, p. 36.
86
E. Saada, Empire’s Children. Race, Filiation, and Citizenship in the French Colonies, Chicago, The Uni-
versity of Chicago Press, 2012, p. 3.
87
N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 458.
88
S. Patriarca, Fear of Small Numbers:«Brown Babies» in Postwar Italy, «Contemporanea», 2015, 4, p. 539.
distinzioni di sesso razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni sociali o
personali, gli italiani «tracciarono la linea del colore nello stesso modo che fecero
americani ed europei durante quel periodo storico [:] coloro che erano oltre questa
linea del colore non furono realmente considerati italiani»89. Altro punto simile fu
senza dubbio il razzismo paternalista delle istituzioni religiose cristiane cattoliche
e il loro ruolo nel processo di acculturazione rivolto ai figli delle unioni miste. La
differenza principale fu invece che mentre nel secondo dopoguerra la politica ita-
liana verso i non bianchi era intesa per quanto possibile a espellerli dal territorio
nazionale, negli anni Sessanta gli italo-somali poterono raggiungere l’Italia e ri-
siedervi seppure in uno status di subordinazione e discriminazione razziale. Nel
primo caso prevalse l’aspetto dell’estraneità e della diversità, mentre nel secondo
l’intento assimilatorio in un quadro che però in tutti i casi rimane improntato al più
generale paradigma del razzismo postcoloniale.
Quando ormai anche l’ultima amministrazione diretta paracoloniale dell’Italia
in Somalia ebbe termine con l’indipendenza della Repubblica somala nel 1960, il
«meticcio» era ancora visto come un diverso per «razza» anche a prescindere dalla
formulazione di un esplicito discorso razzista poiché nozioni e categorie fortemente
razziste continuavano a essere presenti nella società italiana. Gli italo-somali conti-
nuavano a evocare quell’idea di minaccia per l’ordine costituito attraverso la quale
219
erano stati non solo rappresentati, ma anche «costruiti» al tempo delle colonie. Il
caso dell’Italia coloniale e postcoloniale non è allora così diverso da quello dell’In-
docina francese e delle Indie olandesi dove il «meticciamento rappresentò non tanto
quel pericolo proveniente dai nemici stranieri ai confini nazionali, quanto una più
pressante minaccia per gli Stati-nazioni europei, per le loro frontiere interne: […]
a livello di individui, la frontiera determina i presupposti morali attraverso i quali
un soggetto conserva la propria identità nazionale nonostante la posizione al di
fuori della frontiera nazionale e nonostante l’eterogeneità all’interno dello Stato-
nazione»90. Anche per quegli italo-somali che erano diventati cittadini e dunque
giuridicamente uguali a tutti gli altri italiani, una costruzione del loro essere di-
versamente italiani presupponeva la discriminazione attraverso processi di razzia-
lizzazione intesi appunto a definirne un’identità razziale differente da quella degli
italiani.
Riflettendo sul tema delle identità razziali, più fluide rispetto al concetto di razza,
gli italo-somali costituirono un elemento disorganico non solo dalla parte degli ita-
liani, ma anche da quella dei somali, in un paese dove il nazionalismo militante della
Syl si sposò con un’idea di nazione fondata sulla storia della lotta contro il colonia-

89
Ibidem, p. 541.
90
A.L. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power. Race and the Intimate in Colonial Rule, Berkeley,
University of California Press, 2002, p. 80.
lismo europeo e un non facile connubio tra l’Islam e i valori del socialismo e della
modernità europea91. Gli italo-somali finirono così per essere non solo marginalizzati
dal punto di vista di quelle che erano le consuetudini familiari e matrimoniali della
società somala, ma anche dal punto di vista dei canoni della nuova nazione in corso
di costruzione per i quali essi erano sostanzialmente degli stranieri per nascita, lin-
gua, cultura e religione. Gli italo-somali erano dunque considerati una minoranza
alloctona e come tale, con l’etichetta di euro-africani, venivano contabilizzati a fianco
di italiani, indiani e pakistani nelle statistiche ufficiali predisposte prima dalle auto-
rità fiduciarie italiane92 e poi dal governo somalo per conto delle Nazioni Unite93. In
una nazione che fondava la sua identità sulla lingua e sulla cultura somala oltre che
sull’Islam, non vi era posto per gli italo-somali.
Analizzando infine le diverse tipologie di marginalità sperimentate dagli italo-
somali è evidente come la questione del colore si intersecò con quella dello status
sociale, che contribuiva significativamente a determinare il loro posizionamento al
margine della società di residenza. Gli italo-somali nel passaggio dalla Somalia all’I-
talia negoziarono la loro appartenenza nell’intento più che comprensibile di superare
la subalternità, ma senza riuscirvi o riuscendovi solo in parte. Il paradosso fu che gli
italo-somali in Somalia furono associati dai somali agli ex colonizzatori bianchi per
essere cristiani, di cultura italiana e di pelle troppo chiara, mentre una volta in Italia
220
furono considerati dagli italiani alla stregua di tanti altri africani, per essere troppo
scuri, diversi e stranieri, nonostante la loro storia di acculturazione all’italiana e in
alcuni casi la loro cittadinanza italiana. Proprio l’accomunare gli italo-somali ai di-
scendenti dei colonizzati neri africani e per questo discriminarli nel rapporto con gli
altri italiani è la prova di come nell’Italia postcoloniale per molti l’essere italo-somalo
rimandava ancora a quell’idea coloniale di una mescolanza di identità razziali diffe-
renti: in questo senso gli italo-somali «rappresentano un antecedente storico ai nuovi
italiani di origine straniera che interrogano i nostri tradizionali modelli di identità»94.
Al contrario, l’interesse per la cultura e la lingua materna e l’impegno di molti italo-
somali, e dell’Ancis in primis, a favore del processo di pace in Somalia95 testimonia la

91
I.M. Lewis, Modern Political Movements in Somaliland, I, «Africa. Journal of the International African
Institute», 1958, 3, p. 252.
92
Unor, 4th Committee report, A/2933, 1954-5.
93
Unor, 4th Committee report, A/3595, 1957-8.
94
E. Sartore, Quando la storia degli altri racconta di noi, cit., p. 212.
95
Nel testo dell’interrogazione parlamentare del 2001, la richiesta principale era infatti proprio quella di
riconoscere l’Ancis quale «organizzazione non governativa» affinché l’associazione potesse partecipare
ai fondi per la cooperazione internazionale destinati alla Somalia. Nella seconda interrogazione del 2002
si insisteva parimenti sul ruolo dell’Ancis per la «ricomposizione dei rapporti italo-somali», anche se si
iniziava a dare maggior risalto al tema della richiesta di compensazioni per «le conseguenze della politica
estera italiana» in Somalia, anticipando la richiesta inserita nella terza interrogazione del 2005 per «un’in-
dagine conoscitiva dei danni morali e patrimoniali derivanti dall’Afis». Ap, Camera dei deputati, interroga-
zione, cit., 20 novembre 2001; idem, 26 febbraio 2002 e idem 19 settembre 2005.
loro volontà di presentarsi come un ponte tra culture e appartenenze differenti e per-
ciò di autodefinirsi attraverso un concetto plurale di italianità, capace di abbracciare
entrambi i versanti – italiano e somalo – di quella loro storia, che aspetta ancora di
essere (ri)conosciuta.

Antonio M. Morone, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università degli Studi


di Pavia, Strada Nuova 65, 27100 Pavia
antmorone@hotmail.com

221

[Presentato il 13 febbraio 2017]


[Accettato il 19 giugno 2017]

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