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1. Introduzione: Europa/Europe
Milan Kundera apriva una discussione sul peso della vicenda politica nel deformare la memoria e
l’immagine stessa dell’Europa: una discussione cui parteciparono intellettuali del dissenso cecoslovacco,
polacco, ungherese, e di altri paesi ancora. Il titolo del suo articolo era Un Occidente sequestrato ovvero la
tragedia dell’Europa centrale, e aveva un’immediata valenza civile: la protesta contro quell’inclusione
dell’Europa centrale nell’impero sovietico che l’Occidente aveva accettato. L’Europa stava perdendo il senso
della propria identità culturale, essa non vedeva nell’Europa centrale altro che il suo regime politico, in altre
parole nell’Europa centrale vedeva solo l’Europa dell’Est.
Di qui la riflessione sulle culture dell’Europa, sulle «frontiere culturali e mentali che sembrano più durevoli
dei confini degli stati». Essere mitteleuropeo è una visione del mondo, non un certificato di cittadinanza.
Scriveva ancora Kundera: «un’altra cosa mi rende la nazione ebraica così cara: è nel suo destino che la sorte
del centro-Europa sembra concentrarsi, riflettersi, trovare la propria immagine simbolica». Miłosz ha
aggiunto: «bisogna riconoscere che la mia Europa è la terra dei nazionalismi accaniti, indirizzati sia contro il
controllo esterno sia l’uno contro l’altro». A questi nodi si riferiva esplicitamente nel 1947 un grande storico
di origine istriana, Ernesto Sestan, nelle pagine conclusive di un saggio volto a delineare i «lineamenti di una
storia etnica e culturale» della Venezia Giulia. In esse Sestan si riferiva al dramma vissuto da quest’area nei
decenni precedenti e scriveva: «si sono scontrati qui nazionalismi feroci ed esasperati, che tendevano non a
comporsi in conciliante simbiosi delle due nazionalità, come si sarebbe ancora potuto sperare nel liberale
Ottocento, ma a schiacciarsi a vicenda in una lotta senza quartiere in cui, abbandonati i tramontati ideali
dell’equità e della tolleranza, gli uni finivano con il pareggiare, anche moralmente, gli altri.
IV. L’esodo
Iniziano così gli anni che portano all’esodo di 250-300.000 persone dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia
(fra l’80% e il 90% della popolazione italiana storicamente insediata in quelle zone). Sono anni scanditi dal
trattato di pace del 1947, che sancisce divisioni destinate a diventare muri: il nuovo confine, ad esempio,
attraversava la parte orientale di Gorizia, preoccupandosi soprattutto di separare dalla città italiana i
sobborghi sloveni.
Il trattato di pace del 1947 prevede anche il Territorio Libero di Trieste, provvisoriamente diviso in una zona
ad amministrazione jugoslava. È del 1954, poi, il «Memorandum di intesa» che pone fine alla questione con
l’attribuzione della zona A – e quindi di Trieste – all’Italia e della zona B alla Jugoslavia: avrà sanzione
definitiva solo nel 1975, con il Trattato di Osimo. Si assiste allo sradicamento di una comunità dalla sua terra
d’origine, una vicenda che il paese non aveva mai vissuto prima, e con la quale è stato incapace di convivere.
Sullo sfondo emergono le grandi ondate di violenza del 1943 e del 1945 e il loro sotterraneo protrarsi nella
politica di pressione e di oppressione dello Stato jugoslavo nei confronti della popolazione italiana. Una
società sconvolta dalle strutture, un’identità minacciata da presso.
L’esodo dall’Istria verso l’Italia inizia a profilarsi e si delineano spostamenti in direzione opposta perché
sono mossi da molte ragioni: ad esempio, dall’idea che il socialismo jugoslavo offra prospettive e futuro.
Questo abbaglio non alimenta solo la subalternità nei confronti della politica di Tito, alimenta anche dolorosi
percorsi personali. Il romanzo di Pasolini Il sogno di una cosa racconta il tumultuoso affollarsi e lo sconfitto
ripiegare di radicali speranze di trasformazione del Friuli del dopoguerra.
Le umiliazioni, le persecuzioni e i drammi sono corposi e lasciano segni profondi nella storia reale: ad
esempio nella vicenda dei duemila operai dei cantieri navali di Monfalcone che nei primi mesi del 1947
partono per Fiume a cercare lavoro nella Jugoslavia socialista. Fra chi parte vi è anche chi lascia un lavoro
sicuro. Molti hanno alle spalle le persecuzioni del fascismo e la partecipazione alla Resistenza. la storia che
oggi ci raccontano è la storia di una sconfitta cocente: umana, prima ancora che politica. È intessuta di nuove
umiliazioni e nuove persecuzioni, soprattutto dopo la rottura fra Tito e il Cominform (è stata
un’organizzazione internazionale che ha riunito i partiti comunisti di vari Paesi europei dal 1947 al 1956.
Ebbe un ruolo chiave nel delineare la linea del movimento comunista nella fase nascente della guerra fredda
e dal 1948 fu protagonista su posizioni filosovietiche dello scontro tra Unione Sovietica e Jugoslavia) nel
1948 e la cacciata ai Cominformisti che ne seguì. I comunisti italiani restarono fedeli a Stalin: i più attivi, i
più coerenti e intransigenti furono arrestati e rinchiusi per anni nei gulag di Tito.
Sono facilmente identificabili le misure e le forme di pressione e di discriminazione messe in atto dalla
Jugoslavia di Tito, ma è meno facile fare i conti con un altro aspetto: con un’altra «straniazione», questa
volta in Italia. In realtà come spiega Miglia l’Italia non sapeva quasi nulla dell’Istria vera, né storicamente,
né politicamente, né socialmente. Spesso l’antico male italiano era confondere l’Istria con la Dalmazia, Pola
con Fiume o con Zara, si tendeva a parlare di un’Istria «italianissima» e non si conosceva che quasi tutto
l’interno della piccola penisola era croato o sloveno.
Nell’ottobre del 1954 venne firmato a Londra il «memorandum di intesa» che restituisce Trieste all’Italia ma
al Silos le cose non cambiarono, i profughi venivano ancora visti con sospetto. Successivamente il Silos
iniziò a svuotarsi e ai profughi venivano assegnati molti alloggi popolari, i meno fortunati erano smistati
altrove. Nel 1960 ci sono ancora dodicimila persone nei campi profughi. È immediato l’effetto del
«memorandum d’intesa» nelle zone assegnate alla Jugoslavia: il suo stesso profilarsi provoca un’ultima
ondata dell’esodo che coinvolge anche i contadini istriani, sin lì restii ad abbandonare la loro terra.
V. Postfazione: Europa/Europe
Sin dai primi giorni dopo la resa delle forze armate tedesche, le autorità polacche avevano avviato una
feroce, sistematica campagna d’odio contro le minoranze tedesche residenti in Polonia. La milizia polacca
razziava le case dei tedeschi, gli uomini giovani furono deportati in campi da lavoro, i vecchi sbattuti in
prigione. Si scatenò in tutto il paese una vera e propria caccia al tedesco.
Il cuore di questo panorama di devastazioni è quella stessa Polonia che nel conflitto bellico ha avuto la
percentuale più alta di vittime: il 22% della popolazione, sei milioni di persone. Con la fine della guerra la
Polonia vede spostarsi drasticamente verso ovest i suoi confini: perde infatti a favore dell’Urss una superficie
di quasi 180.000 km, mentre ottiene a spese della Germania poco più di 100.000 km. Con la fissazione dei
confini matura progressivamente la convinzione che le espulsioni dei tedeschi dall’Europa centro-orientale
fossero il metodo più duraturo per porre fine a miscugli di popoli, causa di guai interminabili secondo
Winston Churchill. Le espulsioni furono sancite dunque a Potsdam con l’auspicio che esse avvenissero in
modo umano e organizzato. Si accelerò il flusso di milioni di tedeschi d’Europa centro-orientale verso le
quattro zone diverse della Germania. Il 1° aprile 1947 la zona britannica registrava un incremento di
popolazione di circa 3.700.000 persone.
I cechi sentivano che l’Europa li aveva abbandonati. Alcune testimonianze evocano esplosioni selvagge di
collera e una partecipazione attiva della popolazione agli atti di violenza.
Vi è poi l’avanzata sovietica e l’accordo segreto con cui Stalin impone lo spostamento verso ovest dei confini
polacchi. Di qui la fuga di gran parte dei polacchi della Galizia orientale e della Volinia, per le convergenti
paure del nazionalismo ucraino e del dominio totalitario sovietico. Di qui anche la cacciata degli ucraini dalla
Polonia sud-orientale prima con la negazione del diritto alle terre e la chiusura delle scuole, e poi con
l’impiego dell’esercito contro i loro villaggi.
Tutto questo ci fa capire che la rimozione del dramma del nostro confine orientale è stato il nostro modo di
rimuovere la più generale storia di cui essa fa parte, collocata com’è fra tensioni e conflitti di lungo periodo,
l’incubo del nazismo, le macerie materiali e ideali della guerra, e i processi traumatici di costruzione di
un’Europa divisa.