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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

Corso di Laurea Magistrale in Scienze storiche e orientalistiche

Storia dell’Europa contemporanea


Patrizia Dogliani
Anno accademico: 2021-2022

L’ESODO DEGLI ITALIANI DALL’ISTRIA E DALLA


DALMAZIA

Cristina Perlotti
Matricola: 0000986271

1
INDICE

INTRODUZIONE ......................................................................................................... 3

I. CONTESTO STORICO-GEOGRAFICO .......................................................... 4


II. LE PARTENZE DI MASSA .............................................................................. 6
III. LE MOTIVAZIONI DELL’ESODO .................................................................. 9
IV. LA DISTRIBUZIONE DEI PROFUGHI ......................................................... 10
V. ASSISTENZA PUBBLICA E PRIVATA ........................................................ 11

CONCLUSIONI .......................................................................................................... 12

BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................... 14

2
INTRODUZIONE

Prima del diciannovesimo secolo non era necessario essere in possesso di una documentazione
specifica per poter viaggiare. Tuttavia, nonostante le numerose ondate di rifugiati, non sorsero
problemi particolari fino alla nascita del concetto di Stato nazionale e delle frontiere di confine.
Nel ventesimo secolo la situazione cambiò: il numero dei profughi aumentò considerevolmente a
causa di politiche discriminatorie e di spostamenti forzati attuati dai singoli Stati al fine di ridefinire
i propri confini sulla base dell’omogeneità etnico-nazionale.
I flussi migratori subirono un’impennata con la Prima guerra mondiale, soprattutto a causa del crollo
dei tre grandi imperi storici: ottomano, zarista e austroungarico.
La dissoluzione dell’Impero ottomano arrivò dopo un lungo periodo di crisi dovuto alle gravi tensioni
interne, sia sociali che religiose, sfociate nella violenza contro la minoranza armena, considerata un
corpo estraneo della popolazione a maggioranza musulmana. Tra il 1915 e il 1923 più di un milione
di armeni lasciarono il territorio turco per fuggire alle persecuzioni e ai massacri.
Destino simile fu quello dell’arretrato sistema zarista che, nel pieno del conflitto mondiale, fu
rovesciato violentemente dando il via alla Rivoluzione russa e alla conseguente guerra civile
postrivoluzionaria (1917-1921). Questi avvenimenti causarono l’esodo di circa un milione e mezzo
di oppositori al comunismo.
Infine crollò anche l’Impero asburgico, smembrato al termine della guerra in tanti piccoli nuovi Stati,
all’interno dei quali si ritrovarono a convivere diversi gruppi etnici e linguistici che ben presto
entrarono in conflitto. Il rimescolamento delle nazionalità favorì l’esplodere di nazionalismi e
antisemitismi che portò all’ascesa dei nuovi regimi totalitari, tra cui quello nazista e quello sovietico.
Nel periodo tra l’ascesa al potere dei nazisti nel 1933 e la resa della Germania nazista nel 1945, più
di 340.000 ebrei emigrarono dalla Germania verso l’Austria. Tragicamente, circa 100.000 di loro
trovarono rifugio in Paesi successivamente occupati dalla Germania. Le autorità tedesche ne
deportarono e uccisero la maggioranza.
La fine della Seconda guerra mondiale non risolse subito il destino dei sopravvissuti: in un caos
generale in cui milioni di persone si spostavano da un Paese all’altro, gli ebrei superstiti, circa
duecentocinquantamila, restarono per mesi, se non per anni, nei campi di accoglienza destinati alle
displaced person (sfollati), a volte ex campi di concentramento come Bergen Belsen.
Nell’immediato dopoguerra gli accordi per la spartizione territoriale causarono ulteriori movimenti
di profughi. Sul territorio martoriato della Germania sconfitta vennero rimpatriati tra i 12 e i 16
milioni di persone appartenenti a minoranze tedesche, soprattutto provenienti dall’Europa orientale.

3
Nell’ampio contesto degli spostamenti di popolazioni avvenuti nel periodo che seguì la Seconda
guerra mondiale il tema analizzato dal seguente elaborato è l’esodo degli italiani dell’Adriatico
orientale costretti a fuggire dall’Istria e dalla Dalmazia.
Mettendo in relazione l’esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia con gli altri fenomeni
similari, nel più ampio contesto degli spostamenti di popolazioni avvenuti nella prima metà del
Novecento, e in particolare dopo le due guerre mondiali, si analizzano alcune particolarità dell’esodo
degli italiani dell’Adriatico orientale, inteso come uno spostamento indotto o semivolontario,
difficilmente distinguibile, vista la sua collocazione intermedia tra semi-volontarietà e coercizione,
dal contesto complessivo dei trasferimenti forzati.

I CONTESTO STORICO-GEOGRAFICO

“Amarissimo mare” è un’espressione utilizzata da Gabriele d’Annunzio per riferirsi alla dominazione
austriaca sulle coste orientali. Lo storico triestino Raoul Pupo la riprende nel suo ultimo libro
“Adriatico amarissimo” per indicare le «dinamiche di un territorio plurale come quello dell’Adriatico
orientale, caratterizzato a lungo da forme di ibridismo culturale1», ma soprattutto per esprimere le
sofferenze subite dalle genti dell’Adriatico orientale nel corso del Novecento.
L’esodo dei giuliani-dalmati va infatti inserito in un contesto più ampio e complesso, sia dal punto di
vista temporale che geografico.
Il carattere plurietnico della Venezia Giulia è frutto dell’insediamento e dei contatti avvenuti tra le
diverse popolazioni che nel corso dei secoli vi hanno posato lo sguardo favorendo la convivenza di
tre grandi mondi: romanzo (italiano), germanico (tedesco) e slavo (sloveno e croato).
Per cogliere i tratti peculiari e le caratteristiche storiche del popolamento della regione la storiografia
italiana spesso si avvale della dicotomia città/campagna e fascia costiera/territori interni. Ciò
evidenzia la prevalenza italiana nei centri urbani dislocati lungo la costa occidentale della penisola
istriana (da Trieste a Pola) e la presenza slovena e croata nelle campagne dell’entroterra. Diversa è la
situazione che si viene a creare in Dalmazia dove l’elemento italiano, del tutto minoritario, costituisce
un pezzo di élite urbana nell’area costiera, concentrata soprattutto nella città di Zara2.
Dal punto di vista storico l’esodo istriano risulta un caso emblematico inserito all’interno di un
processo articolato che può essere compreso solo se inquadrato nell’ambito delle complesse
trasformazioni che interessano l’intero confine orientale lungo l’arco del Novecento. Le terre

1
Pupo Raoul, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Bari-Roma, Laterza, 2021, Introduzione, Edizione
Digitale.
2
Miletto Enrico, Novecento di confine. L’Istria, le foibe, l’esodo, Milano, Franco Angeli, 2020, pp. 21-24.
4
adriatiche, come del resto l’Europa intera, si trovano di fronte a un piano rovente sul quale si
intersecano in rapida successione diverse brutali forme di potere totalitario: fascismo, nazismo e
comunismo. L’intensificarsi di rivalità nazionali, sociali e ideologiche nelle zone di confine
sfoceranno nel secondo dopoguerra in un’intensa e pervasiva ondata di violenza che si tradurrà nella
duplice tragedia delle foibe e dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia.
Trattandosi questa di una zona di confine, prima di addentrarsi nella vicenda è necessario introdurre
una serie di trattati. Fondamentale è quanto accade il 9 giugno del 1945 a Belgrado. A guerra finita
le diplomazie di Stati Uniti, Gran Bretagna e Jugoslavia siglano l’Accordo di Belgrado, volto a
dividere l’intera area del litorale adriatico in due zone di occupazione, tracciate lungo una linea di
demarcazione denominata Linea Morgan3: la parte ad ovest della linea, comprendente Trieste,
Gorizia, l’area del Tarvisio e Pola, viene denominata zona A ed è retta dall’amministrazione militare
alleata; mentre quella ad est, costituita da Istria, Fiume, Zara e le isole del Quarnaro, è chiamata zona
B e viene affidata in amministrazione al governo militare jugoslavo.
Questo accordo rappresenta il punto di partenza intorno al quale discutere per raggiungere future e
definitive intese. Tali intese trovano un punto di svolta a Parigi quando il 29 luglio 1946, nelle
prestigiose sale del Palais de Luxemburg, si apre la Conferenza di Pace, alla quale partecipano circa
1500 delegati in rappresentanza dei Paesi vincitori. L’Italia è rappresentata da Alcide De Gasperi,
Presidente del Consiglio con delega agli Esteri, chiamato a portare a termine un’impresa ai limiti
dell’impossibile in quanto stretto tra le richieste di annessione avanzate dalla Jugoslavia di Tito
sull’intera Venezia Giulia, dai progetti sovietici d’influenza sull’Adriatico e dalla necessità anglo-
americana di mantenere il controllo di Trieste per farne un baluardo da anteporre all’avanzata
comunista. La diplomazia italiana si trova di fronte a una condizione di estrema debolezza, tale da
non poter opporsi con argomenti convincenti a decisioni che, in linea di massima, erano già state
prese dalle potenze vincitrici. Il 10 febbraio del 1947 viene firmato così il Trattato di pace di Parigi
che prevedeva per l’Italia una serie di clausole, nonché una significativa mutilazione territoriale.
Quest’ultima interessa in modo particolare il confine orientale italiano che vede passare la maggior
parte della Venezia Giulia sotto la giurisdizione Jugoslava, mentre l’area comprendente Trieste e una
striscia dell’Istria nord-occidentale viene internazionalizzata attraverso l’istituzione del cosiddetto
Territorio libero di Trieste, a sua volta diviso in due parti più piccole: la zona A, occupata dagli alleati
e quella B amministrata dagli jugoslavi.
Sostanzialmente a Parigi la diplomazia italiana non può far altro che raccogliere quanto seminato dal
fascismo non riuscendo a far valere nemmeno la carta della Resistenza.

3
La linea Morgan deve il suo nome al generale inglese William Duthie Morgan, capo dello stato maggiore del comando
supremo alleato nel Mediterraneo, guidato all’epoca dal maresciallo Harold Alexander.
5
Il Trattato di Parigi entra in vigore il 15 settembre1947, ma viene superato il 5 ottobre 1954 dal
Memorandum di Londra che pone fine al governo militare del Territorio libero di Trieste e stabilisce
una nuova linea divisoria che assegna la zona A e la zona B rispettivamente all’Italia e alla Jugoslavia.
Il cerchio si chiuderà il 10 novembre 1975 a Osimo quando il governo italiano e quello jugoslavo
siglano l’ultimo accordo che riconosce fondamentalmente l’appartenenza della ex zona A all’Italia e
della ex zona B alla Jugoslavia4.

II LE PARTENZE DI MASSA

Da un punto di vista cronologico, l’esodo dei giuliano-dalmati può essere definito come una parabola
di lungo periodo, la cui spinta inizia nel 1944 e si esaurisce più di dieci anni dopo, nel 1956.
La durata non deve però oscurare due elementi fondamentali, ossia la similarità degli impulsi che
spingono alle partenze di massa e la loro concentrazione intorno a due momenti ben precisi: il Trattato
di pace di Parigi (1947) e il Memorandum di Londra (1954).
Questi due trattati, oltre a offrire l’opportunità di avvalersi del diritto di opzione e cioè della possibilità
di scegliere di abbandonare la Jugoslavia e trasferirsi in Italia, suscitano un grande impatto emotivo
nella popolazione italiana che prende coscienza della definitiva dominazione jugoslava.
In questo senso è pertanto fondamentale non limitarsi ad un’interpretazione riduttiva e semplicistica
dell’esodo secondo cui la repressione è l’unica causa scatenante. La ridefinizione dei confini al
termine della guerra genera un profondo sentimento di delusione che spinge molti italiani a partire.
Tuttavia è errato definire l’esodo in questione come una migrazione volontaria in quanto, anche se
non espressamente formalizzato, alla base della spinta è evidente un forte carattere costrittivo: se è
vero che da parte del governo jugoslavo non verranno mai emanate leggi o disposizioni che
obblighino gli italiani a partire, lo è altrettanto il fatto che esso si renderà responsabile di pressioni
fisiche, morali e ambientali tali da determinare per la componente italiana una situazione di vera e
propria invivibilità di fronte alla quale la strada dell’abbandono rappresenta una sorta di percorso
obbligato.
Da un punto di vista formale quindi non esiste un piano di espulsione preordinato, ma l’emanazione
da parte dell’amministrazione jugoslava di una serie di provvedimenti in campo politico, economico
e sociale che mutano l’impianto istituzionale precedentemente in vigore e provocano effetti diretti
sulla popolazione italiana. Nell’immediato dopoguerra le autorità jugoslave danno avvio ad un
processo di epurazione finalizzato a colpire quanti si opponevano al nuovo Stato comunista jugoslavo

4
Ivi, pp. 103-104.
6
e al nuovo disegno annessionistico. Sono proprio queste le motivazioni, unite al presunto legame con
il fascismo e alla percezione slovena e croata della comunità italiana come egemone sul territorio a
contribuire ad annoverare quest’ultima tra i “nemici del popolo”.
In proposito è importante ricordare come nelle aree a forte concentrazione operaia, tra cui Fiume e in
parte minore anche Pola e Rovigno, esistesse una parte di popolazione pronta a recepire il messaggio
politico e ideologico dei poteri popolari. Per integrare quanti ritenevano di concorrere alla costruzione
dello Stato comunista jugoslavo viene formulata la politica della “fratellanza italo-slava” fondata in
nome dell’internazionalismo socialista.
Questa linea politica verrà abbandonata nel 1948 con la rottura del Cominform5 che vedrà i comunisti
istriani schierarsi compattamente a favore di Stalin e dell’Unione Sovietica facendo così svanire in
maniera concreta la possibilità che una parte consistente del nucleo comunista italiano possa
appoggiare il regime jugoslavo6.
La natura dell’esodo è dunque molto complessa e le ragioni scatenanti sono molteplici e spesso
aggrovigliate. Come già accennato si possono chiaramente distinguere due ondate principali:

1. la prima si snoda tra il 1946 e il 1951e vede come principali protagoniste le città di Fiume, di
Pola e quelle degli altri territori istriani annessi nel frattempo alla Jugoslavia;

2. la seconda si registra tra il 1953 e il 1956, a cavallo della fine del Memorandum di Londra e
coinvolge soprattutto la popolazione italiana della zona B.

Zara

La città dalmata di Zara rappresenta un’eccezione rispetto a quanto accade negli altri territori in
quanto la partenza dei primi profughi avviene a guerra ancora in corso. In questo caso la spinta ad
abbandonare la propria terra non è data dalla consapevolezza del carattere definitivo
dell’amministrazione jugoslava, bensì dai 54 bombardamenti alleati che dal 2 novembre 1943 al 28
ottobre 1944 devastano la città provocando la morte di almeno 2.000 persone.
Nel 1944, quando il peso delle bombe diventa sempre più gravoso, la gran parte degli zaratini dà vita
a uno sfollamento senza ritorno che di fatto si trasforma in esilio. Le direzioni prese dai profughi sono
differenti: alcuni si muovono verso le campagne circostanti; altri, la maggior parte, decidono di
salpare a bordo di un piroscafo verso Trieste, Venezia e altre città costiere italiane. Solo una minima
parte di italiani resta in città, molti dei quali sceglieranno la strada dell’abbandono già nell’autunno

5
Il Cominform è l’oganismo internazionale dei partiti comunisti attivo dal 1947al 1956.
6
Raoul Pupo, Gli esodi nell’Adriatico orientale: problemi interpretativi, in “Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e
le memorie divise d’Europa” (a cura di Guido Crainz, Raoul Pupo, Silvia Salvatici), Roma, Donzelli editore, 2008, pp.
13-17.
7
del 1944, subito dopo l’instaurazione del potere titino. A Zara nel 1939 risiedevano 25.300 persone.
Ebbene nel maggio del 1945 ne restano circa 10.0007.

Fiume

A Fiume la componente italiana costituisce circa i tre quarti della popolazione complessiva. In seguito
all’atteggiamento tenuto dalle grandi potenze ai tavoli delle trattative matura tra gli italiani fiumani
la percezione che l’inserimento della città nel nuovo piano politico-istituzionale della Jugoslavia sia
scontato. Si fa così strada un sentimento di disperazione collettiva che dà l’avvio, a partire dalla fine
dell’estate del 1945, all’esodo degli italiani da Fiume che assumerà proporzioni consistenti già
nell’anno successivo.
Tra il marzo 1946 e il settembre 1947 il numero degli esuli partiti dalla provincia di Fiume ammonta
a circa 20.000 persone, a cui se ne aggiungono altre 9.300 alla fine del 1948 quando molti si essi
decidono di optare per la cittadinanza italiana e trasferirsi in Italia. Questo avviene nonostante le
limitazioni imposte dalle autorità jugoslave che, oltre a rallentare le operazioni di concessione del
lasciapassare, pongono come condizione essenziale per il rimpatrio in Italia la consegna senza
rimborso di tutti i beni al governo di Tito. Solo dopo qualche anno i vertici jugoslavi si rendono conto
dell’enorme portata che le partenze stavano assumendo, soprattutto per la fuga delle numerose
competenze indispensabili per la ricostruzione del Paese, e cercano di fronteggiarle limitando la
concessione del foglio di esodo solo a un componente familiare. Complessivamente l’esodo fiumano
coinvolse circa 32.000 individui8.

Pola

L’altra tappa cruciale della prima fase dell’esodo è costituita dalle vicende di Pola.
Città occupata dagli alleati, Pola costituisce una vera e propria enclave in quanto appartenente
politicamente alla zona A, pur trovandosi geograficamente in piena zona B. La decisione presa al
tavolo delle trattative di cedere la città alla Jugoslavia viene accolta dalla comunità italiana come un
trauma collettivo, tanto da spingerla in massa verso la via dell’esilio.
Da un punto di vista cronologico quello dei polesani è un esodo preventivo in quanto si registra prima
dell’entrata in vigore del Trattato di pace di Parigi e del passaggio della città alla Jugoslavia che
sarebbe dovuto avvenire il 15 settembre 1947. Tra il dicembre 1946 e il marzo 1947, dopo un clima
di proteste e scioperi mosso da un totale rifiuto per la possibile soluzione jugoslava, abbandonano la
città indicativamente 28.137 abitanti su 32.000. I polesani che decidono di partire si muovono con
mezzi propri o in treno, ma la maggioranza lascia la città a bordo della motonave Toscana, messa a

7
E. Miletto, Novecento di confine, cit., pp. 131-132.
8
Ivi, pp. 140-141.
8
disposizione dal governo italiano. Tra il 3 febbraio e il 20 marzo 1947 la motonave compie dieci
viaggi, dei quali sette con scalo a Venezia e tre ad Ancona, trasportando complessivamente 11.916
persone9.

Il secondo massiccio flusso di esodi si manifesta nei territori della zona B tra il 1953 e il 1956. Anche
in questo caso siamo di fronte a un fenomeno che trova nella relazione instaurata tra le partenze di
massa e la certezza del dominio jugoslavo un tratto di continuità con quello precedente. Ciò che
cambia rispetto alla prima ondata non sono le dinamiche, ma i tempi che, in questo caso, si presentano
molto più dilatati: la popolazione italiana cerca di resistere, fiduciosa di veder cessare la dominazione
jugoslava. Tuttavia, di fronte a una situazione che non lascia più il benché minimo margine di
speranza, anche gli italiani della zona B, che avevano resistito quasi un decennio, si apprestano ad
andarsene. La quantificazione numerica del secondo grande esodo è più complicata. Tra le 41.500
persone complessive circa 17.000 abbandonano i territori intorno al 1948, mentre le altre tra il 1953
e il 195610.

III LE MOTIVAZIONI DELL’ESODO

Le partenze sono il risultato di un procedimento decisionale intricato che troppo spesso viene ridotto
a un paradigma superficiale rappresentato dalla simmetria tra le foibe e l’esodo. In realtà, l’esodo è
una scelta multi-causale alla base della quale si intrecciano tra loro elementi di varia natura:
economici, politici, culturali e sociali. È lampante come la dimensione della paura e il ricordo delle
violenze subite scateni un’importante influsso mobilitante su larghi strati della popolazione italiana,
ma lo fa esattamente come la profonda crisi identitaria maturata dallo scorrere della quotidianità nella
Jugoslavia di Tito. Per quotidianità s’intende una vita segnata dall’«incertezza per l’avvenire riservato
ai propri figli, destinati a essere assorbiti dagli ingranaggi di un sistema che sostituiva le scuole
italiane con quelle croate, le gite domenicali con il lavoro volontario11», le cui prospettive sono quelle
di un futuro di miseria e povertà. Ovviamente i vertici jugoslavi si preoccupavano di mantenere
un’ottima immagine del nuovo Stato socialista e per questo motivo lanciavano campagne a fini
propagandistici per dimostrare alle potenze straniere che i diritti delle minoranze nazionali venivano
garantiti. Non vi era accenno né alle disastrose condizioni economiche, né tantomeno alle dure
imposizioni messe in atto dal potere titino per ottenere il pieno controllo della popolazione. L’esodo

9
Ivi, pp. 145-151.
10
Ivi, pp. 163-164.
11
Ivi, p. 128.
9
può quindi essere inteso come una precisa presa di posizione politica da parte della comunità italiana
configurandosi come un atto di contrarietà al nuovo regime imposto dalla Jugoslavia di Tito.
Oltre a quelle politiche, altre spinte vanno ricercate nella mutata situazione economica che si viene a
creare dopo il passaggio dell’Istria alla Jugoslavia e al successivo affermarsi di provvedimenti
legislativi, tra cui l’introduzione di un sistema cooperativistico in ambito agricolo e l’abolizione di
ogni forma di proprietà privata (anche in ambito commerciale). Si tratta di misure che indeboliscono
economicamente, socialmente e culturalmente la comunità italiana, sempre più convinta di andare
incontro a un progressivo declassamento dallo status di popolazione dominante a quello di minoranza
nazionale12.
Infine, altre cause sono da ricercarsi nell’introduzione, spesso forzata, di nuove norme
comportamentali che fanno scattare particolari meccanismi psicologici in grado di avviare una sorta
di psicosi collettiva secondo la quale ogni partenza sembra richiamarne un’altra.

IV LA DISTRIBUZIONE DEI PROFUGHI

La diaspora istriana dà origine a un’ondata di esuli su larga scala i cui percorsi d’uscita sono
caratterizzati da diversi punti d’arrivo. Una minima parte dei giuliano-dalmati costituisce «un
serbatoio per l’emigrazione transoceanica verso l’Australia e il continente americano13», mentre la
quasi totalità di essi sceglie l’Italia come destinazione finale. Secondo un censimento del 1958
riguardante la distribuzione degli esuli in Italia risulta che l’82% si trova al nord, il 10 % al centro e
l’8% al sud14. Tra le regioni del nord Italia, per ovvi motivi geografici, Veneto e Friuli sono quelle
che ne accolgono il maggior numero, seguite da Lombardia, Piemonte e Liguria.
Abbandonando le proprie case e portando con sé il minimo indispensabile, i giuliano-dalmati si
trovano a vivere nella condizione di profughi che rende necessario, da parte delle autorità governative
mettere a loro disposizione dei centri di accoglienza. Si tratta quasi sempre di strutture ricavate da
complessi in disuso quali caserme, fabbricati militari, scuole, conventi, ospedali, stabilimenti
industriali dismessi, ma anche ex campi di concentramento e di prigionia. La Risiera di San Sabba,
ad esempio, diventa un campo per profughi giuliani nella prima metà degli anni Cinquanta15.
La gestione dei campi, affidata al Ministero dell’Interno cooperante con altri enti pubblici e privati,
presuppone una trafila di meccanismi piuttosto collaudati che regolano l’entrata e l’uscita degli ospiti.

12
Mila Orlić, Poteri popolari e migrazioni forzate in Istria, in “Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie
divise d’Europa” (a cura di Guido Crainz, Raoul Pupo, Silvia Salvatici), Roma, Donzelli editore, 2008, pp. 38-39.
13
E. Miletto, Novecento di confine, cit., p. 173.
14
Ivi, p. 172.
15
Ivi, pp. 172-174.
10
Inizialmente i profughi vengono radunati nei centri di smistamento, all’interno dei quali ricevono le
prime cure assistenziali, per poi essere spostati nei campi di destinazione. Nei centri di raccolta la vita
si snoda all’interno di grandi camerate in cui interi nuclei familiari vivono in box di pochi metri
quadrati, separati gli uni dagli altri da coperte, lenzuola o, nei casi più fortunati, da barriere di
compensato. Ciò che ne consegue sono gravissimi disagi legati ad ambienti malsani, a condizioni
igieniche precarie e alla mancanza di spazi intimi e personali16.

V ASSISTENZA PUBBLICA E PRIVATA

Una volta arrivati in Italia, gli esuli istriani si trovano di fronte a un Paese lacerato dalla guerra e
segnato da incertezza, disorganizzazione e disoccupazione. Ciò nonostante i giuliano-dalmati
possono godere dell’appoggio di gran parte della popolazione italiana e delle sue istituzioni, la cui
azione si manifesta in concrete iniziative. In molte città l’arrivo dei profughi è accompagnato da
manifestazioni di grande solidarietà, cui seguono sottoscrizioni per raccogliere fondi, donazioni di
indumenti, vestiario e generi alimentari. Tuttavia, accanto ai numerosi episodi di vicinanza, ve ne
sono altrettanti di esclusione e pregiudizio. Innanzitutto, i giuliano-dalmati sono vittime di
discriminazioni di tipo politico, erroneamente considerati dei fascisti in fuga. Si tratta di una vera e
propria caratterizzazione diffusa a chiare lettere soprattutto negli ambienti vicini al Partito comunista
italiano. Infatti, nell’immaginario collettivo di molti militanti la Jugoslavia di Tito appare come una
sorta di paradiso della classe operaia e la fuga da esso ne costituisce una colpa facilmente imputabile
a nemici politici.
Inoltre, i profughi appaiono per molti italiani i depositari di una storia che apre ferite non ancora
pienamente rimarginate: la guerra, la perdita delle colonie e di buona parte del territorio nazionale.
Infine, essi rappresentano anche nuove bocche da sfamare, oltre che essere scomodi concorrenti ai
pochi posti di lavoro che poteva offrire la disgregata Italia del dopoguerra.
Quindi, prendendo in considerazione questo contesto, non è difficile rendersi conto di come il
processo di inserimento sia stato piuttosto lungo e difficoltoso17.
Nel campo dell’assistenza un accenno è dovuto a quello che Enrico Miletto definisce «lo sguardo di
Roma». Tra gli organi governativi maggiormente impegnati nella complessa gestione delle aree
giuliane, durante l’intera transizione postbellica, vi è certamente l’Ufficio per la Venezia Giulia,
istituito nel 1946. Il suo compito è quello di promuovere, coordinare e vigilare sulle iniziative a favore

16
Ivi, pp. 193-195.
17
Ivi, pp. 187-192.
11
dei profughi connazionali della Venezia Giulia e della Dalmazia. Tre mesi dopo la sua istituzione
però De Gasperi decide di trasferire le competenze dell’Ufficio per la Venezia Giulia alla Presidenza
del Consiglio. La scelta avviene per due motivazioni: la prima è quella ufficiale che mira a
raggiungere un livello di coordinamento più funzionale tra l’Ufficio e il Governo; la seconda è
ufficiosa, ma altrettanto significativa, in quanto intende ottenere il pieno controlla della questione del
confine orientale, destinata a diventare uno dei passaggi cruciali dell’intera politica estera italiana.
Il risultato che ne deriva è la firma nel 1947 di un decreto volto a sancire l’accentramento di tutte le
competenze dell’Ufficio per la Venezia Giulia sotto un unico ente, l’Ufficio per le zone di confine,
affidato a Silvio Innocenti sotto la responsabilità politica di Giulio Andreotti.
L’Ufficio per le zone di confine, importante per la gestione delle risorse relative alla sistemazione dei
profughi, cesserà la sua attività nel 1954, subito prima della firma del Memorandum di Londra.
Un altro elemento importante sul piano assistenziale è quello concernente all’iniziativa privata
Nel 1947 si registra la nascita del Comitato nazionale per i rifugiati italiani fondato da De Gasperi
assieme a Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi, Ferruccio Pari e Vittorio Emanuele Orlando. Il
compito di questo organismo, che nel 1949 muta il suo nome in Opera per l’assistenza ai profughi
giuliani e dalmati, è quello di organizzare iniziative volte ad offrire sistemazione, lavoro e assistenza
ai profughi. Tra il 1947 e il 1964 vengono costruiti oltre 7.000 alloggi, vengono avviate al lavoro più
di 60.000 persone e viene realizzata tutta una serie di provvedimenti a tutela della salute dei bambini
giuliani, come la nascita di colonie destinate ad ospitare i figli dei profughi durante le vacanze estive.
Importante è anche l’operato svolto dalla Pontificia Commissione di Assistenza, nata nel 1944 per
volontà di Pio XII. Oltre a predisporre posti di ristoro finalizzati ad assistere i profughi in transito
nelle varie stazioni d’Italia, essa concentra la propria attività su tre tipologie di intervento:
concessione del vitto di generi alimentari, distribuzione di capi di vestiario e l’assegnazione di sussidi
in denaro. Secondo un prospetto elaborato alla fine del 1948 l’ente distribuisce circa 79.500 quintali
di viveri, 71.400 tra capi di vestiario e paia di scarpe e ben 27 milioni di sussidi in denaro18.

CONCLUSIONI

L’esodo degli italiani dai territori passati alla Jugoslavia alla fine della Seconda guerra mondiale
coinvolse, tra il 1945 e il 1956, quasi l’intera comunità residente in Istria, a Fiume e in Dalmazia.
Analizzando le cause alla base di questo fenomeno, si può sostenere che le partenze degli italiani
erano prevalentemente collegate ad un unico evento, ovvero il passaggio dei territori sotto

18
Ivi, pp. 176-183.
12
l’amministrazione jugoslava e la successiva instaurazione del potere popolare. Questo spiega inoltre
il motivo per cui l’esodo si era protratto per un periodo molto lungo, durato più di dieci anni, a causa
anche delle lunghe trattative diplomatiche in corso tra l’Italia e la Jugoslavia. In linea generale, si può
affermare che la comunità italiana si allontanava dai propri luoghi d’origine nel momento in cui
diventava chiaro, ai loro occhi, che il nuovo assetto politico e territoriale era oramai diventato
irrimediabile.
Al momento dell’arrivo in Italia si evidenzia una grande difficoltà nell’inserimento del tessuto civile,
unito a un forte senso di estraneità che, in molti casi, finiva con un totale isolamento. L’integrazione
nella società delle città d’arrivo per la maggior parte degli esuli è stato un processo molto lungo e
doloroso, che in alcuni casi non si è ancora concluso del tutto. È piuttosto visibile, e per certi versi
pure comprensibile, come i profughi giuliani, venuti via dai territori passati alla Jugoslavia, abbiano
maturato l’opinione di aver pagato un prezzo assai più elevato rispetto ai loro connazionali, sia per le
vessazioni che il regime fascista ha inflitto alla popolazione jugoslava, sia per la sconfitta dell’Italia
nel Secondo conflitto mondiale. Un prezzo che i profughi hanno continuato a pagare anche una volta
giunti in Italia, dove hanno dovuto subire l’ennesima ingiustizia, e stavolta compiuta dagli stessi
connazionali, magari motivati da un’ideologia politica, o per scelte di politica internazionale dei
governi. Questo non ha fatto altro che aumentare un’amarezza e una delusione già ben presenti negli
esuli istriani, contribuendo ad isolarne la memoria all’interno delle loro comunità e rendendo più
difficile il trasferimento di questa memoria “privata” e dolente ad una collettività nazionale a lungo
sorda o almeno disattenta.

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BIBLIOGRAFIA

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