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Francesco Leoncini

Tomáš G. Masaryk, H. Wickham Steed, Woodrow Wilson e l’Italia “incatenata”

Nel suo intervento alla Camera del 20 dicembre 1919 Gaetano Salvemini, riprendendo il tema del
confine orientale, richiamava con forza l’attenzione sul fatto che: «l’Adriatico non è il mondo.
L’Adriatico è nel mondo un piccolo laghetto, in cui abbiamo avuto il torto, per errore di visione,
d’incatenare per questi anni l’Italia. C’è da risolvere il problema della nostra posizione nella politica
internazionale» 1.
Era un’osservazione pertinente e calzante che riassumeva e stigmatizzava tutta la logica e la
strategia che aveva presieduto negli anni precedenti all’azione del governo e in particolare del suo
ministro degli Esteri. Questi, con cocciuta e contadinesca miopia 2, era stato fermissimo nell’esigere
il pagamento della «cambiale di Londra» nonostante il quadro a livello mondiale fosse andato
radicalmente mutando rispetto al momento in cui il Patto stesso era stato concluso.
Eppure il primo ministro serbo Nikola Pašić, dopo gli infruttuosi colloqui che aveva avuto
nell’estate del ‘17 con Sforza, aveva voluto incontrare Sonnino e con lui aveva spontaneamente
ammesso che «nel caso italo-jugoslavo non si poteva pensare ad una frontiera nettamente
demografica, ma bisognava inchinarsi davanti a fattori geografici e strategici». Pašić aveva
soprattutto insistito sul fatto che l’Italia dopo la scomparsa della Monarchia austro-ungarica non si
sarebbe più trovata in Adriatico di fronte a una grande potenza per cui, avendo ottenuto Trieste,
Pola, Valona e alcune isole minori e data la ricca tradizione marittima, ne sarebbe stata ampiamente
accresciuta la sua sicurezza 3.
Era esattamente quanto aveva affermato Tomáš Garrigue Masaryk, divenuto ben presto il più
prestigioso esponente dei movimenti di liberazione antiasburgici 4, nel memorandum Independent

1
Il resoconto del dibattito in: M. Cattaruzza (a cura di), L’Italia e la questione adriatica. Dibattiti parlamentari e
panorama internazionale (1918-1926), il Mulino, Bologna, 2014, pp. 349-367, qui p. 358.

2
Rispondendo a Carlo Sforza che chiedeva di essere rimosso dalla sua carica di plenipotenziario presso il governo serbo
dopo aver constatato l’impossibilità di raggiungere un compromesso sulla base delle richieste italiane, Sonnino
rispondeva:«io sono come i contadini, è sulla piazza del mercato, all’ultimo momento, che abbasso i miei prezzi». Cfr.
R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, I, il Mulino, Bologna,
1991, p. 195. In realtà i suoi prezzi non li abbassò mai e l’autore chiosa:«riecheggia in Sonnino la tradizione
campagnola del conservatorismo toscano e della politica della chiocciola, in cui si compendiava il suo ostinato
attaccamento al Patto di Londra». Ibidem.
3
Cfr. C. Sforza, Jugoslavia. Storia e ricordi, Rizzoli, Milano, 1948, p.113.

4
Egli aveva abbandonato Praga nel dicembre 1914, dove dal 1882 ricopriva la cattedra di Filosofia all’Università
Carlo.La prima tappa fu Roma e l’Italia fu il primo Paese che gli concesse il permesso di soggiorno, poi passò a
Ginevra, Parigi e Londra, dove ottenne un incarico di insegnamento al King’s College. Seguì la Legione cecoslovacca
in Russia e in Siberia, giunse infine negli Stati Uniti nelle primavera del ’18. Di assoluto rilievo per la comprensione
dei contenuti ideali e strategici della sua azione politica in ambito internazionale è la sua opera programmatica La
Nuova Europa. Il punto di vista slavo, presentazione di Koloman Gajan, traduzione, introduzione e postfazione di
Francesco Leoncini; in Appendice: la commemorazione di Benedetto Croce a Palazzo Venezia il 7 marzo 1945, Echi di
stampa, T. G. M. e l’Italia, Castelvecchi, Roma, 2021.

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2

Bohemia al ministro degli Esteri britannico Edward Grey dell’aprile 1915, laddove si era
domandato:
«Does Italy, who has a very long coast of her own, and number of islands (one of them is large),
need the long coast of Dalmatia as well, if she gets Trieste, Pola and Valona?». Opportunamente
aveva subito dopo indicato da dove fossero venuti nel passato i reali pericoli per la sicurezza della
Penisola italiana e quali potessero essere ancora per il futuro: «Italy should remember that the old
German Empire occupied Italian territory; the new German Empire will not hesitate to do the same,
having already acquired a good deal of the industry in Northern Italy. The way to Bagdad goes from
Berlin not only through Constantinople, but through Trieste and Venetia.
Italy is the natural ally of the Southern and Northern Slavs against the ‘Drang nach Osten’» 5.
Questa sua convinzione Masaryk la esplicita ulteriormente nel suo già citato volume, che raccoglie
e amplia tutta un serie di articoli che egli aveva scritto nella primavera del 1918 per Československý
deník [Il Giornale cecoslovacco], organo dei legionari cecoslovacchi in Russia. Nelle sue
considerazioni conclusive egli ribadisce: «L’Italia a ragione fa notare che la sua costa orientale,
soprattutto dell’Adriatico, al contrario dei numerosi buoni porti dell’Istria e della Dalmazia, ha il
grande svantaggio di essere priva di insenature. La Dalmazia in mano a un’Austria sotto la guida
della Germania sarebbe pericolosa per l’Italia, ma non lo sarà in mano alla Serbia e agli jugoslavi
perché non hanno flotta, perché non avranno il denaro per costruirne una pericolosa e perché non
hanno piani aggressivi. Trieste e Pola sono sufficienti all’Italia per la supremazia nell’Adriatico,
riconosciuta del resto anche dalla Serbia» 6.
In quel torno di tempo un altro esponente ceco di primo piano, il “Segretario generale del Consiglio
Nazionale dei paesi Czechi a Parigi” Edvard Beneš 7, aveva sottolineato la necessità di un’alleanza
strategica tra l’Italia e le future formazioni statali dei ceco-slovacchi e degli jugoslavi al fine di
impedire una rinnovata penetrazione austro-tedesca nell’Adriatico. Era questo il fulcro del suo
pamphlet La Boemia contro l’Austria-Ungheria. La libertà degli zceco-slovacchi e l’Italia,
pubblicato nel 1917 dalla casa editrice “Ausonia,, di Roma 8, con prefazione di Andrea Torre 9. Non

5
Il testo completo in R W. Seton - Watson, Masaryk in England, Cambridge at the University Press, 1943, qui p. 131.
La traduzione italiana in P. Fornaro (a cura di), Costruire uno stato. Scritti di Tomáš G. Masaryk sull’identità nazionale
ceca e la creazione della Cecoslovacchia,Le Lettere, Firenze, 2011, pp. 173-187.
6
Masaryk, La Nuova Europa, cit., p. 216.

7
Egli sarà poi ininterrottamente ministro degli Esteri della Cecoslovacchia dal 1918 al 1935, quando succederà al suo
maestro e mentore T. G. Masaryk nel ruolo di presidente della Repubblica. Beneš, tra i protagonisti della politica
internazionale nel periodo interbellico, si troverà al centro e vittima di crisi epocali quali quella del ’38, che dette avvio
alla Seconda guerra mondiale, e quella del ’48, quando la presa del potere dei comunisti a Praga segnò la definitiva
rottura dell’alleanza antifascista tra le democrazie occidentali e l’Unione Sovietica. Cfr. infra la mia postfazione.

8
Esso è stato ora ristampato, con revisione del testo e postfazione di Francesco Leoncini, da Editrice Storica, marchio
dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Comitato di Treviso, 2020.

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solo, ma egli prefigurava per il nostro Paese la possibilità che esso si sostituisse alla Germania nella
riorganizzazione dei mercati inserendosi in quelli slavi e romeni.
La questione dalmata appariva però sempre più divisiva nei rapporti che si andavano sviluppando
tra l’Italia e i fuoriusciti jugoslavi.
Restava completamente estraneo da parte di larghi settori della politica e dell’opinione pubblica
italiana l’idea che si potesse costituire sull’altra sponda dell’Adriatico uno stato unitario tra i popoli
che abitavano la penisola balcanica, anzi vi era una sostanziale ostilità nei confronti di questa
prospettiva.
Frano Supilo, di Ragusa/Dubrovnik, tra i più ferventi sostenitori della causa jugoslava e
dell’opportunità di una stretta relazione con l’Italia, per l’interesse di entrambe le parti di far fronte
comune contro l’imperialismo austro-tedesco, aveva dovuto constatare in un memorandum
indirizzato a Edward Grey che:«questa nostra necessità comune [di contrapporsi cioè alla
penetrazione germanica] in Italia pochi la vedono e disgraziatamente ancora quasi nessuno la
sente». Aveva sottolineato con amarezza:«Ci considerano generalmente come ‘barbari’ non degni di
trattare con loro …» 10
La classe dirigente del Paese aveva da lungo tempo dimenticato gli insegnamenti di Mazzini e i suoi
scritti assai eloquenti riguardanti i rapporti che si sarebbero dovuti instaurare con le nazionalità che
stavano emergendo nell’Europa centrale 11.
A proposito degli slavi meridionali, nel suo primo dei quattro articoli pubblicati nel giugno 1857 su
«Italia del popolo» e che nell’insieme costituiscono le Lettere slave, egli rileva come in breve tempo
si sia manifestata tra essi una forte vitalità al punto che:«non è più possibile dubitare della realtà del
ridestarsi dello spirito slavo tra le popolazioni serbo-illiriche. E questo ridestarsi è connesso con
quello dei Cechi di Boemia e di Moravia» 12. Anche se questi ultimi li vede «pensosamente
aggruppati intorno alle tombe dei padri loro» e quindi rivolti a rimeditare il loro passato piuttosto
che protesi verso una prospettiva di indipendenza 13, intuisce che il loro è un comune destino e che
entrambi saranno coinvolti in una lotta di liberazione. E’ ciò che avverrà durante il Primo conflitto

9
Giornalista, studioso di problemi internazionali, deputato dal 1909 di orientamento liberal-radicale. Appartenne al
gruppo mazziniano che intendeva portare avanti una linea politica opposta a quella di Sonnino. Fu l’artefice, assieme a
Henry Wickham Steed, dell’accordo raggiunto a Londra tra italiani e jugoslavi il 7 marzo del ’18 che aprì la strada alla
convocazione a Roma della «Conferenza delle nazionalità soggette all’Austria-Ungheria» dell’8-10 aprile. Su questa
iniziativa e sul suo significato al fine di una diversa conduzione della guerra e delle trattative di pace cfr. il mio
Alternativa mazziniana, Castelvecchi, Roma, 2018.

10
Cfr. L. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 179.

11
Con questa espressione intendo indicare tutta l’area che va dal Baltico all’Egeo e che sta tra Germania e Russia,
comprensiva quindi anche dei Balcani, secondo l’accezione masarykiana di Střední Evropa. Essa si differenzia
nettamente dalla Mitteleuropa di stampo austro-tedesco che esclude le regioni slavo meridionali.

Cfr. G. Mazzini, Lettere slave e altri scritti. Saggio introduttivo e cura di Giovanni Brancaccio, Biblion Edizioni,
12

Milano, 2007, p. 73.

13
Ivi, p. 77.

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mondiale quando i due movimenti formatisi all’estero agiranno in stretto contatto e in piena
condivisione delle loro rispettive aspirazioni. Su questo punto Edvard Beneš nel corso della guerra
sarà assai chiaro nel criticare il comportamento del governo italiano che intendeva diversificare i
rapporti con i due gruppi slavi, alleanza con i ceco-slovacchi 14, indifferenza e avversione verso gli
jugoslavi 15.
Questa politica rappresentava il tradimento del messaggio di Mazzini.
Nella parte finale delle sue Lettere, egli si domandava con quale progetto l’Italia dovesse risorgere e
non poteva che indicare un principio, quello di essere «sorella di quanti popoli oppressi hanno,
come essa, diritto di esser Nazioni». In precedenza aveva messo sull’avviso:«Comunque, il moto
Slavo verso la formazione di quattro nuove Nazioni 16 che sorgeranno quando che sia sulle rovine
del despotismo turco, russo ed austriaco, è da oggi innanzi elemento inevitabile dell’avvenire.
L’Italia deve studiarlo profondamente» 17.
Specificava queste sue idee in uno dei suoi ultimi saggi, Politica internazionale del 1871, laddove
indicava lui stesso quello che sarebbe dovuto essere «il vero obbiettivo della vita internazionale
d’Italia, la via più diretta alla futura grandezza», esso sarebbe stato «nell’alleanza col vasto potente
elemento chiamato a infondere nuovi spiriti nella comunione delle Nazioni o a perturbarle, se
lasciato da una improvvida diffidenza a sviarsi, di lunghe guerre e di gravi pericoli: nell’alleanza
colla famiglia Slava» 18.
Potremmo qui sottolineare che quanto meno una “improvvida diffidenza” connotò gran parte della
società italiana nei confronti dell’altra sponda dell’Adriatico, mentre Mazzini aveva perfettamente
intuito le potenzialità di un’apertura di credito: «Aiutatrice del sorgere degli Slavi illirici e di quelli

14
Cfr. in proposito F. Leoncini (a cura di), Il Patto di Roma e la Legione ceco-slovacca. Tra Grande Guerra e Nuova
Europa, Kellermann, Vittorio Veneto (Treviso), 2014.

15
Cfr. Leoncini, Alternativa mazziniana, cit., pp. 156-157;188-189. Ivi anche il testo della sua dichiarazione alla
«Conferenza delle nazionalità» a Roma, pp. 248-250.

16
Diversamente da quanto afferma Hobsbawm secondo il quale Mazzini «preconizzava “uno Stato per ogni nazione”
[anzi] “un unico Stato per l’intera nazione”» (Cfr. E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito
e realtà, Einaudi, Torino, 2002, p. 119), egli pensava in termini di aggregati nazionali per quanto riguarda cechi -
slovacchi e jugoslavi (serbi, montenegrini, bulgari, dalmati, slavoni, croati), oltre ai polacchi e ai russi. Vi era
soprattutto in lui, diversamente da quanto pensasse lo studioso inglese, un concetto etico della nazione come ebbero a
precisare, tra gli altri, Arcangelo Ghisleri e Luigi Salvatorelli, quindi ben distinto da una logica politico-territoriale. Cfr.
F. Leoncini, Alternativa mazziniana, cit., pp. 157-159 e postfazione a T. G. Masaryk, La Nuova Europa, cit., pp. 229-
230.

17
Mazzini, Lettere slave, cit., pp. 131-132. Sforza osserva in proposito:«Non possiamo non riconoscere che chi guidò
la politica estera italiana nel 1915 e negli anni seguenti non pensò neppure un momento a seguire il consiglio di
Mazzini: “Conoscere intimamente gli slavi”. Era forse difficile; ma bisognava almeno tentare; e non si tentò neppure;
chi, come Leonida Bissolati, volle almeno tentare fu obbligato a ritirarsi». C. Sforza, Jugoslavia, cit., p. 9.
18
Mazzini, Lettere slave, cit.,p. 154.

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che costituiscono gran parte della Turchia europea, l’Italia acquisterebbe, prima fra tutte le Nazioni,
diritto d’affetto, d’ispirazione, di stipulazioni economiche coll’intera famiglia Slava» 19.
Chi stava dietro al movimento di unificazione degli slavi meridionali, chi ne era l’ispiratore, tra fine
Ottocento e primi del Novecento, così come lo era per l’avvio di un progressivo avvicinamento tra
cechi e slovacchi (divisi tra le due parti dell’Impero asburgico),chi sosteneva la necessità di
un’Europa centrale autonoma e svincolata dalla morsa tedesca e russa (la Střední Evropa), nello
stesso tempo ancorata alle idealità dell’Occidente? Si trattava di un intellettuale, di uno studioso
che aveva ampia conoscenza della cultura francese e anglosassone e che era al contempo profondo
interprete del mondo russo 20, di un sociologo attento ai fenomeni del suo tempo 21.
Masaryk è innanzitutto un uomo di cultura provocatore e anticonformista 22, è anticlericale 23, ma
certamente non è un nazionalista, altrimenti non gli sarebbe stata assegnata la cattedra
all’Università 24, mentre i nazionalisti lo avevano soprannominato “il filosofo del suicidio
nazionale” 25. Nel 1907 diventa membro del Reichsrat, dopo aver fondato un piccolo partito 26, ma

19
Ivi, p. 160.

20
Ettore lo Gatto,che già nel 1925 aveva tradotto La Russia e l’Europa. Studi sulle correnti spirituali in Russia, nel
ripresentare la nuova edizione completamente riveduta, con aggiornamento storico e bibliografico, Boni, Bologna,
1971, scrive «Vi sono – ed è cosa nota – libri che col passar degli anni non solo non invecchiano, ma al contrario per il
loro carattere, proprio col passar degli anni ricchi di avvenimenti non preveduti espressamente, ma prevedibili
attraverso le pagine dei libri stessi, acquistano una nuova attualità. Uno di questi libri è certamente la grande opera di T.
G. Masaryk». Nel 1950 lo ricordò all’Università di Roma nel centenario della nascita. Il testo della commemorazione in
«La fiera letteraria», V, 11, 1-2.

21
Fu tra i primi a studiare il suicidio come fenomeno di massa con la sua tesi di abilitazione all’insegnamento
universitario dal titolo Das Selbstmord als sociale Massenerscheinung der modernen Civilisation, poi edita a Vienna
nel 1881.

Cfr. H. Gordon Skilling, T. G. Masaryk: Against the Current, 1882-1914, Macmillan in association with St Antony’s
22

College Oxford, London, 1994.

23
Nel 1908 egli era intervenuto in Parlamento in difesa di Ludwig Wahrmund, professore di diritto canonico, che era
stato allontanato dalla sua cattedra per aver affermato che si era venuta a creare una dicotomia insanabile tra
l’ortodossia cattolica e il mondo moderno. Masaryk difende la libertà di pensiero e di insegnamento. Questo episodio
viene positivamente sottolineato da Ernesto Buonaiuti nel commentare la rievocazione di Benedetto Croce,
stigmatizzando il fatto che l’oratore non ne avesse fatto cenno. Cfr. Echi di stampa in T. G. Masaryk, La Nuova Europa,
cit. p. 263.

24
Nel proporre il suo nome all’imperatore per ricoprire la cattedra, il ministro dell’Educazione aveva scritto:«Masaryk,
a giudicare dalla sua disposizione, eserciterà un’influenza moderatrice sui professori cechi». Cfr. G. Bolton, La
Repubblica dei Masaryk, Milano, Longanesi, 1968, p. 47.

25
Egli era intervenuto alla fine degli anni ‘80 sulla questione dei “Manoscritti”. Si sarebbe trattato di alcuni poemi
epici in ceco antico scoperti in due località della Boemia, che avrebbero dovuto attestare la maturità culturale degli
antenati. Alcuni filologi avevano contestato la loro autenticità e Masaryk aveva ulteriormente contribuito a
smascherarli. In effetti erano stati opera del bibliotecario del Museo nazionale. L’espressione che gli era stata affibbiata
derivava da questa polemica unitamente al carattere dei suoi studi sociologici.

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viene eletto con il concorso dei socialdemocratici. Era piuttosto un austroslavista nella tradizione di
František Palacký 27. Questi aspetti della sua vita sono specificatamente ricordati nella Cronologia
premessa al testo de La Nuova Europa 28.
Alle élite intellettuali degli slavi meridionali che frequentavano i suoi corsi a Praga Masaryk andava
trasmettendo l’ideale di una progressiva integrazione tra le varie nazionalità 29 non disgiunto da un
progetto di riscatto sociale.
Nel 1909 allorché Hermann Bahr, uno dei più brillanti protagonisti della vita culturale viennese tra
Otto e Novecento, compie un viaggio in Dalmazia, al fine di avere il polso della situazione nei
Balcani, deve constatare nel suo diario che tra le diverse componenti etniche e religiose della
regione sembra non esserci antagonismo bensì osmosi. «Dei discepoli di Masaryk, scriveva, hanno
unito serbi e croati e ora indirizzano il paese smembrato alla fede verso il futuro. Così potente è
l’influsso del solitario slovacco 30a Praga sul mondo intero: come un misto di Tolstoj e Walt
Whitman, ad alcuni pare un eretico, ad altri un asceta, e a tutti un entusiasta» 31.
Allo scoppio del conflitto mondiale prende subito e nettamente posizione per l’abbattimento della
Monarchia, che ormai, a suo avviso, era diventata subalterna agli interessi del Reich guglielmino e
di conseguenza aveva tradito quella funzione di coesione sopranazionale che aveva costituito la sua
stessa ragion d’essere. Al contrario, essa ormai da tempo andava praticando la politica del divide et
impera, il governo di Vienna giocava sulle contrapposizioni etniche 32. A Trieste per es. nel 1910 tra
i 4.600 addetti agli uffici pubblici ben 3.600 erano slavi, 700 tedeschi mentre soltanto 300 erano
italiani 33. Come scrisse Angelo Vivante, con la soluzione dualistica «il centralismo tedesco dà in

26
Nel 1900 egli aveva fondato il partito popolare ceco (Česká strana lidová ), che cinque anni dopo prende il nome di
“progressista” (pokroková).

27
[1798-1876].Egli è il padre della rinascita nazionale ceca, autore della fondamentale “Storia del popolo ceco in
Boemia e Moravia”, ma vede questo processo di emancipazione all’interno della Monarchia stessa.
28
Ivi, pp. 46-60.

29
Nonostante l’evidente oltraggio alla sua memoria avvenuto con la distruzione della Jugoslavia, ancora oggi al suo
nome è intitolata una ulica (via) a Lubiana, Zagabria e Belgrado.
30
Di umili origini, era figlio di un cocchiere slovacco e di una cuoca ceca germanizzata.

31
Viaggio in Dalmazia di Hermann Bahr. Prefazione di Predrag Matvejević, Mgs Press, Trieste, 1996, p. 55.

32
In Dalmazia il governo di Vienna dopo il 1870, con la modifica delle circoscrizioni elettorali, la creazione di nuovi
comuni, l’istituzione di numerose scuole di lingua croata e in seguito all’estensione del diritto di voto, aveva
progressivamente emarginato la componente italiana. Nel 1909, con un’ordinanza che entrò in vigore nel ’12, aveva
soppresso la lingua italiana nei pubblici uffici e già dall’autunno 1866 aveva reso obbligatoria la conoscenza della
lingua croata per i dipendenti pubblici. Cfr. G. Rumici, Mosaico dalmata. Storie di dalmati italiani, Associazione
Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato provinciale di Gorizia, 2011, pp. 13-25, qui pp. 23 e 25.

33
Cfr. A. Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare italiano nella Venezia Giulia 1918-1919, Libreria
Editrice Goriziana, Gorizia, 2000, p. 29.

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balìa degli oligarchi magiari una parte degli slavi dell’impero e concentra tutte le forze a mantenere
il suo predominio politico in Austria sul rimanente degli slavi e sulle nazionalità minori» 34.
L’impero asburgico non riesce a trasformarsi da Zwangsmaschine a Völkerstaat.
Masaryk prende atto di questa involuzione e si adopera nel corso della guerra, assieme a Edvard
Beneš e allo slovacco Milan Rastislav Štefánik, in una vasta azione di carattere diplomatico e
nell’organizzazione di formazioni militari indipendenti ceco-slovacche, reclutate tra prigionieri e
disertori in Francia, in Italia e soprattutto in Russia dove si uniscono anche i connazionali già colà
emigrati.
Come in Mazzini, al centro del suo pensiero, c’è in Masaryk l’interpretazione democratica
dell’autocoscienza nazionale, un’autocoscienza ancorata agli ideali di umanità, di democrazia e
tolleranza. Tutto il suo discorso ruota attorno a questo nucleo centrale.
Nella sua citata opera programmatica il sottotitolo Il punto di vista slavo costituiva l’espressione
della consapevolezza di essere portatore di una novità, di qualcosa di genuino e di originario da
contrapporre a strutture e società che ormai si trovavano in una fase conclusiva del loro ciclo
storico. E qui avviene la saldatura con il pensiero di Mazzini quando questi mette in rilievo con
forza che «l’Italia è un fatto nuovo, un Popolo nuovo, una vita che ieri non era: non ha legami
fuorché i voluti dalla Legge Morale, sovrana su tutte le Nazioni, giovani e antiche». Proprio per
questo essa deve porsi «a capo delle Nazioni che sorgono, non alla coda delle Nazioni che da lungo
sono e accennano a declinare» 35.
In questo quadro appare chiaro quale sia il pensiero di Mazzini riguardo al confine orientale.
Nel suo scritto del 1871, dopo aver richiamato la ben nota terzina di Dante nel IX canto
dell’Inferno: sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna, egli precisa:
«L’Istria è nostra. Ma da Fiume, lungo la costa orientale dell’Adriatico, fino al fiume Bojano sui
confini dell’Albania, scende una zona sulla quale, tra le reliquie delle nostre colonie, predomina
l’elemento slavo» 36.
Già nel maggio 1861, all’indomani della proclamazione dell’Unità d’Italia, Pacifico Valussi, che
con il suo gruppo del quotidiano «La Perseveranza» di Milano aveva prefigurato soluzioni di
ispirazione mazziniana per il confine orientale, presenta a nome del Comitato Veneto Centrale la
memoria Trieste e l’Istria e loro ragioni nella questione italiana. Vi si individua una «Istria veneta
spettante all’Italia» e la linea del Monte Maggiore come il migliore elemento di divisione tra italiani
e popolazioni slave nella Venezia Giulia. Tale linea lasciava da una parte e dall’altra il minor

34
A. Vivante, Irredentismo adriatico. Con uno studio di Elio Apih La genesi di «Irredentismo adriatico», Edizioni
«Italo Svevo», Trieste, 1984, p. 100.

35
Mazzini, Lettere slave, cit., p. 151.

36
Ivi, p. 154.

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numero di minoranze e soprattutto rispettava il carattere fondamentalmente italiano dell’Istria


occidentale e quello prevalentemente slavo della parte interna, orientale 37.
E’ quella stessa linea che verrà ripresa, come vedremo, da Wilson quasi sessant’anni dopo, tra tante
polemiche.
Accadde invece che nel 1915 la richiesta della Dalmazia divenisse la chiave di volta di tutta la
strategia italiana. Cosa della quale inizialmente nemmeno Sonnino era convinto, anzi possiamo
addirittura ricordare con Sforza che egli «era stato il solo uomo politico italiano il quale dichiarò,
allo scoppio della guerra, che l’Italia doveva parteciparvi al lato degli Imperi Centrali» 38. Sembra
che poi si sia arreso alle argomentazioni della Marina 39 e «con la sua ben nota testardaggine, ne fece
una questione di principio» 40.
Il Patto di Londra, che fu pubblicato tre settimane dopo dai francesi e divenne di dominio comune
in tutto il mondo 41,dette subito un’impronta antislava all’entrata in guerra dell’Italia.
Ancora oggi nella storiografia e nelle narrazioni correnti ci si riferisce al conflitto come “guerra
italo-austriaca” 42 o “guerra contro l’Austria”. Sono espressioni del tutto errate e fuorvianti. In realtà
l’Italia entrò in guerra contro un duplice nemico, l’Austria-Ungheria, senza peraltro volerne la
dissoluzione, e soprattutto contro le popolazioni slave che gravitavano sull’Adriatico. L’accordo
con l’Intesa era viziato ab initio non tanto dalla contraddizione tra la richiesta di confini naturali e
confini storici, cosa comune ad altri movimenti che si battevano per la loro causa nazionale, quanto
piuttosto dal fatto che ignorava l’eterogeneità dello Stato danubiano e non prendeva in nessuna
considerazione il peso e il ruolo delle componenti slave, trascurate per scarsa o nulla conoscenza
della loro storia e cultura 43, né mancava un’idea razzista, come Supilo aveva dovuto constatare. Vi
37
«E’ uno scritto esemplare, osserva Angelo Tamborra, per intimo calore e validità di argomenti […] la manifestazione
più alta, di maggiore maturità politica che la generazione del Risorgimento poteva lasciare alle successive generazioni
italiane». Tamborra, Cavour e i Balcani, Ilte, Torino, 1958, pp. 241-242.
38
C. Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, A. Mondadori, Roma, 1945, p. 41.

39
L. Albertini, Epistolario 1911-1926, a cura di Ottavio Barié, vol. III, Mondadori, Milano, 1968. Albertini al suo
corrispondente a Londra Guglielmo Emanuel, 23 aprile 1919, p. 1225. Albertini ricorda poi come, anche in caso di
guerra con la Jugoslavia, la testa di ponte in Dalmazia non sarebbe stata di pratica utilità. Cfr. Ivi, pp. 1225-26.
40
Valiani, La dissoluzione, cit., p. 427, nota 93.

41
Wilson cercò di far intendere che gli era rimasto ignoto, ma in effetti la notizia gli arrivò con il dispaccio che lo
informava dell’affondamento del transatlantico britannico Lusitania da parte di un sottomarino tedesco nel maggio del
’15, oltre che da fonti inglesi che lo valutarono in maniera critica. Cfr. D. Rossini, Il mito americano nell’Italia della
Grande Guerra, Laterza, Roma, 2000, pp. 159-160.

Significativo il titolo La guerra italo-austriaca (1915-1918), (a cura di Nicola Labanca, Oswald Überegger), il
42

Mulino, Bologna, 2014.


43
Aveva scritto Giovanni Papini su «La Voce» nel dicembre 1910: «Qualunque sia l’opinione che possiamo avere
sull’Austria (amica o nemica, alleanza perpetua o guerra vicina?) è necessario sapere con precisione – con tutta la
precisione possibile – cos’è, cosa vale, com’è costituita e organizzata. Mi sono accorto, parlando con molti, che non
sappiamo nulla. Al di fuori delle magrissime statistiche (invecchiate), dei trattatelli scolastici di geografia e degli
almanacchi per le famiglie e di quelle poche notizia che si posson raccattare e indovinare leggendo i giornali non

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9

era il sentimento di essere portatori di una civiltà superiore (romano-imperiale, veneziana 44), che
aprì poi le porte al dannunzianesimo e al fascismo.
A ragione l’eminente geografo Arcangelo Ghisleri, parlando al Congresso per la «Lega delle
Nazioni» tenutosi a Milano nella seconda metà di dicembre del 1918, richiama e ribadisce la
validità di un’impostazione alternativa nell’affrontare lo scontro bellico rispetto a quella ufficiale
del governo: « Permettetemi di dire, egli afferma, che, se la diplomazia del nostro paese invece che
fossilizzata nelle viete consuetudini mentali del passato,si fosse mostrata, sino dai primi mesi di
guerra, compresa e guidata dai chiaroveggenti presagi di Mazzini, l’Italia avrebbe guadagnato d’un
subito le simpatie della Nazioni balcaniche e danubiane insorgenti contro l’Austria e avrebbe
conseguito, tra le Potenze di Europa tale alta posizione di prestigio morale e politico da essere eletta
ed invocata quasi arbitra e paciera fra le inevitabili contestazioni che sarebbero sorte dopo fra le
nazioni liberate» 45.
Già nell’aprile del ’15 gli esuli croati erano stati informati in via confidenziale delle trattative che
l’Italia stava intavolando a Londra con l’Intesa e le rivendicazioni italiane avevano destato «un
profondo senso di dolore, di indignazione e di irritazione […] I postulati dell’Italia sono un attentato
contro l’esistenza di tutto il nostro popolo, il quale dovrebbe divenire oggetto di un mercanteggio
internazionale» 46. Con queste premesse appare del tutto comprensibile l’ostilità e l’irrigidimento
che subito si manifestarono da parte del movimento jugoslavista nei confronti degli italiani e quindi
il loro comportamento va considerato piuttosto come reazione anziché come una preconcetta
chiusura, di qui tutta la difficoltà che ci fu per giungere al ricordato accordo Torre - Trumbić del
marzo del ’18 che comunque rimase senza concrete conseguenze, così come la successiva
Conferenza delle nazionalità.
A sostenere tenacemente la necessità per l’Italia di guardare all’altra sponda dell’Adriatico in
termini di alleanza e non come terra di conquista erano stati due autorevoli e influenti esponenti del
giornalismo britannico, sensibili alla causa degli slavi del sud ma nello stesso tempo attenti alla più
vantaggiosa conduzione della guerra e alle potenzialità della pace, vale a dire Henry Wickham
Steed e Robert William Seton – Watson.
Entrambi erano stati lunghi anni corrispondenti del Times da Vienna, il primo anche da Berlino e da
Roma, poi redattore di politica estera e direttore. Steed, austrofilo fino allo scoppio della guerra

conosciamo altro». G. Papini, Un libro sull’Austria, in «La Voce», 15 dicembre 1910. Cfr. F. Senardi, «L’incancellabile
diritto ad essere quello che siamo». La saggistica politico-civile di Giani Stuparich, Edizioni Università di Trieste,
2016, p. 93n.

44
Va comunque ricordato l’approccio accortamente mercantile e pragmatico che era stato alla base della presenza
veneziana in Adriatico.

45
Il concetto etico della Nazione e l’autodecisione nelle zone contestate. – Relazione del professore Arcangelo Ghisleri,
in «La Voce dei Popoli», n. 10-11, I, gennaio – febbraio 1919, pp. 76-91, qui p. 87. Cfr. pure Leoncini, Alternativa
mazziniana, cit., p. 157.

46
Così si era espresso Ante Trumbić, il leader croato del Comitato jugoslavo in esilio, in un colloquio con Seton-
Watson il 7 aprile. Cfr, L. Monzali, Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Marsilio,
Venezia, 2015, p. 101, nota 56.

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10

aveva pubblicato nel 1912 il volume The Habsburg Monarchy, era poi divenuto favorevole alla
dissoluzione della stessa. Il secondo aveva approfondito durante la sua permanenza nella capitale
danubiana lo studio dei problemi delle nazionalità e nel 1911 era uscito il suo lavoro The Southern
Slav Question and the Habsburg Monarchy. Successivamente si era dedicato espressamente al
problema e nell’agosto del ’15 aveva pubblicato The Balkans, Italy and the Adriatic.
A parte la percentuale minima della presenza italiana che l’autore rilevava in Dalmazia 47, egli si
domandava con una certa ironia che cosa avesse in comune l’hinterland con l’Italia di Pellico e
Bandiera, di Garibaldi e Mazzini, di Cavour e Manin, di Mameli e Carducci 48.
Con pragmatismo tipicamente inglese indicava piuttosto in cinque località le chiavi per la sicurezza
dell’Italia in Adriatico: Trieste e Pola, ovviamente, l’isola di Lussinpiccolo, mediante il possesso
della quale si poteva coprire alle spalle Pola e controllare il Quarnaro e Fiume, l’isola di Lissa, che
godeva di un ottimo porto e sarebbe potuta diventare un ideale point d’appui e, quinto, Valona, che
era già occupata dall’Italia, la cui presenza nessuna potenza intendeva mettere in discussione e che
costituiva uno dei migliori porti del Mediterraneo 49.
In precedenza Seton-Watson nel suo studio aveva sostenuto che una stretta alleanza tra l’Italia e la
nuova Jugoslavia sarebbe stata «For Britain the ideal». Se invece uno dei due Stati fosse divenuto
strumento della Germania: «the route to the East will be in German hands; and a vital British
interest will be affected» 50.
Da parte sua Wickham Steed, in un colloquio con l’ambasciatore italiano Imperiali, avvenuto a fine
agosto del 1914, gli ricorda che: «a cinque chilometri da Trieste la popolazione non è più italiana
ma slovena» e fa intendere quale sarebbe stata la politica più opportuna nell’area balcanica:«Se
l’Italia si muove ora ad intervenire come liberatrice degli slavi del sud acquisterà enorme prestigio
che le eviterà grossi fastidi nel caso della realizzazione delle aspirazioni nazionali per Trieste» 51.
Sembrano riemergere intuizioni mazziniane.
Saranno gli inglesi, dopo la disastrosa conduzione della guerra e dopo Caporetto, a ristabilire una
rete di relazioni internazionali nella quale l’Italia potesse riacquistare una sua centralità.
L’iniziativa partì proprio da Steed, che nel frattempo aveva assunto la direzione della Serbian
Society of Great Britain, e la cui abitazione era sede di frequenti riunioni e incontri. L’autorevole
giornalista e già noto critico letterario Emilio Cecchi, corrispondente de “La Tribuna” da Londra, la

47
Le statistiche austriache del 1910 davano al 3% la consistenza della componente italiana contro il 94% di quella
serbo-croata. Dal 1865 vi era stato un calo ragguardevole degli italiani in seguito alle condizioni sempre più difficili
nelle quali si erano trovati tanto da poter parlare di un «primo esodo dalla Dalmazia», in questo caso all’interno
dell’Impero. Alcuni si assimilarono alla maggioranza croata. D’altra parte diminuiva l’interesse del governo di Roma
data l’alleanza instaurata con gli Imperi centrali. Cfr. Rumici, Mosaico, cit., pp. 24-25.

48
Seton-Watson, The Balkans, cit., p. 72.

49
Idem, pp. 71-72.

50
Idem, p. 54.

51
Documenti Diplomatici Italiani (DDI), V, I, Doc. 537, Imperiali a Di Sangiuliano, 1° settembre 1914.

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11

descrive come «casa politica, ambiente complesso […] una casa di prima importanza» dove dice,
tra l’altro,di avere incontrato «Masaryk, il famoso Mazzini slavo» 52.
«Se l’Italia è schiacciata, lo siamo anche noi» aveva confessato Trumbić a Steed 53 ed in effetti,
secondo quest’ultimo: «Furono gli eventi di Caporetto ad aprire veramente gli occhi sia agli slavi
che agli italiani, dimostrando l’interdipendenza dei loro interessi» 54.
I colloqui avvennero il 14 e il 18 dicembre alla presenza di autorevoli rappresentanti del mondo
politico, diplomatico e culturale. Da parte italiana, tra gli altri, vi erano l’attaché militare a Londra,
generale Armando Mola, e il corrispondente del «Corriere» Guglielmo Emanuel, mentre da parte
jugoslava oltre a Tumbić erano stati invitati alcuni esponenti più intransigenti. Vi partecipavano
anche due inglesi slavofili, Sir Arthur Evans, il grande studioso della civiltà cretese-micenea, e
Seton-Watson.
Mola fu molto abile, innanzitutto col dire che parlava a titolo privato e poi nel precisare che il Patto
di Londra era stato concluso in un periodo in cui sembrava che la Russia potesse ottenere un
controllo sul mondo slavo, ma ora le condizioni erano cambiate: si assisteva al crollo di quella
potenza e all’apparizione invece sulla scena internazionale degli Stati Uniti. Va qui sottolineato che
questa radicale trasformazione del quadro politico internazionale restò del tutto estranea
all’orizzonte di Sonnino, mentre lo stesso Mola concordava in questa occasione con Evans sul fatto
della scarsa praticabilità del possesso della costa dalmata senza poter disporre dell’hinterland.
Dopo vivaci discussioni, che erano divenute anche tempestose, uscirono sagge considerazioni che
confermavano sostanzialmente quello che da tempo rappresentava la soluzione equanime vale a dire
il sacrificio reciproco, per gli italiani della Dalmazia e per gli jugoslavi del Carso e dell’Istria.
Questi ultimi erano comunque disposti a riconoscere il rilievo della lingua e della cultura italiana, a
dare ampie garanzie per le minoranze e a dichiarare Zara, Sebenico e Cattaro città libere.
Steed in quell’occasione disse: «che non si trattava di spartire certi territori tra l’Italia e le
popolazioni slave dell’Adriatico, ma di gettare le fondamenta di una stretta alleanza economica,
politica e militare tra i due popoli, rafforzando tra l’altro l’influenza dell’Italia e della sua civiltà
sulla costa orientale dell’Adriatico e nel retroterra» 55.

52
Egli così si esprime in una lettera del 7 dicembre 1918 alla moglie Leonetta. L’informazione mi è stata data da mio
fratello Paolo, il maggiore studioso dell’Autore, che ne ha consultato l’Archivio depositato al Gabinetto Vieusseux. La
pubblicazione della citazione è stata autorizzata da Masolino D’Amico, a nome degli eredi. Il fondo è di proprietà della
Regione Toscana.

53
Albertini, Venti anni di vita politica, parte II, L’Italia nella guerra mondiale,vol. III, Da Caporetto a Vittorio Veneto,
Zanichelli, Bologna,1953, p.253.
54
H. W. Steed, Trent’anni di storia europea 1892-1922, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, p. 478.

55
Steed, Trent’anni di storia europea, cit., p. 481. Qui l’autore espone tutto il corso del dibattito, cfr. pp. 479-487.

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All’inizio di una lunga missiva ad Albertini, Emanuel scriveva che il raggiungimento di un accordo
sarebbe stata l’arma migliore per la vittoria e che la sua mancanza: «ha fatto tanto danno all’estero,
quanto nemmeno un altro Caporetto» 56.
Quali fossero le posizioni degli jugoslavi erano del resto apparse chiare dall’indagine conoscitiva
che il giornalista e scrittore siciliano Giuseppe Antonio Borgese, collaboratore del «Corriere»,
aveva condotto nell’estate precedente su incarico dello Stato maggiore dell’Esercito tra gli esiliati
politici e cospiratori. Lo scopo era di sapere se questa idea di “Jugoslavia” che era emersa del tutto
nuova non fosse un trucco, una minaccia, del governo di Vienna per indurre gli Alleati a trovare un
accordo con esso escludendo l’Italia. Ne era uscito un rapporto molto dettagliato 57 da dove
innanzitutto si evinceva: «La volontà d’unificazione dei popoli jugoslavi è fortissima: così forte che,
se vi fossero le adatte condizioni esterne, se, in altri termini, tutti i jugoslavi si trovassero in istato di
effettiva indipendenza politica, essa volontà si realizzerebbe immediatamente » 58. D’altra parte si
constatava che «La concordia è assoluta sui punti intorno ai quali non sono disposti a cedere. Questi
punti si riferiscono: 1°) al problema politico dell’unità; 2°) al problema territoriale della Dalmazia e
di Fiume» 59. A proposito della regione adriatica le valutazioni erano univoche:«Chi paragona
l’eventuale sacrificio della Dalmazia al nostro sacrificio di Nizza e Savoia non li persuade
minimamente. La Dalmazia non è per essi quel che per noi era Nizza e Savoia; è la loro Toscana, è
la loro Liguria. Di lì vengono, oltre tutto, i loro uomini migliori. Per motivi morali e per motivi
economici non si può nemmeno concepire uno stato jugoslavo senza la Dalmazia» 60.
Proprio sulla base della sua esperienza diretta è lo stesso Borgese, all’indomani della proclamazione
dei Quattordici punti, a lanciare l’idea di coinvolgere i movimenti di indipendenza nazionale in
modo che l’Italia ne diventasse l’alleata di riferimento. Il X punto infatti non metteva in discussione
la Monarchia asburgica 61, Wilson parlava di “sviluppo autonomo” per le nazioni al suo interno.

56
Albertini, Epistolario, cit., II, pp, 865-870, Guglielmo Emanuel a Luigi Albertini, Londra, 21 gennaio 1918. In una
successiva lettera egli accludeva il testo della relazione delle sedute. Cfr. ivi, pp. 1054-1061.

57
Esso venne pubblicato in Il Patto di Roma, scritti di Giovanni Amendola, Gius. A. Borgese, Ugo Ojetti, Andrea
Torre, con prefazione di Roberto Ruffini, “Quaderni della” Voce”» del 15 settembre 1919, n. 38. Ampi estratti sono in
Appendice 2 del citato Alternativa mazziniana.

58
Ivi, p. 274

59
Ivi, p. 284.

60
Ivi, p. 285.

61
Giovanni Amendola dirà poi in un discorso del maggio ’19, nel suo collegio elettorale di Mercato San Severino
(Salerno):«La politica delle nazionalità nacque da questo concetto: che per convincere l’Intesa ad uccidere la propria
austrofilia, e per costringerla alla crociata antiaustriaca ad oltranza, occorreva la voce concorde di tutte le nazionalità
oppresse dagli Absburgo, finalmente riconciliate nella rivolta contro il comune oppressore […] Il concetto di questa
politica nacque in Italia, ed assegnò all’Italia l’arduo compito di formare il blocco delle nazionalità oppresse». Cfr. Il
Patto di Roma, cit., pp. 12-13.

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Nel memoriale che allega alla sua lettera ad Albertini del 10 gennaio 62 Borgese esprime l‘urgente
necessità di riprendere gli insegnamenti di Mazzini e in effetti a febbraio si costituisce un comitato
con lo scopo di organizzare a Roma un’assise che desse voce ai rappresentanti dei popoli che
combattevano per la loro libertà. Lo scoglio era evidentemente il rapporto con gli jugoslavi e
Andrea Torre si prestò subito all’incarico di intavolare delle trattative con Trumbić a Londra al fine
di far fronte a quella che appariva stesse affermandosi come la sola strategia degli Alleati.
«Non ho bisogno di dire, scriverà poi nella sua polemica con il direttore del “Giornale d’Italia” che
aveva pesantemente criticato quell’operazione, che cosa sarebbe avvenuto se questa politica avesse
potuto avere tutto il suo sviluppo e avesse raggiunto i risultati che Washington e Londra si
ripromettevano, e Parigi non avrebbe certo respinto. L’austrofilia europea ed americana era in quel
momento per noi il pericolo maggiore» 63.
L’accordo raggiunto il 7 marzo, dopo lunghe e talvolta drammatiche contrapposizioni 64, spianò la
strada alla convocazione in Campidoglio della “Conferenza delle nazionalità soggette all’Austria-
Ungheria”. Il “Patto di Roma” che ne uscì conteneva una specifica Dichiarazione italo-jugoslava
che recepiva quanto era stato convenuto nella capitale britannica. In particolare le parti si
impegnavano «a risolvere amichevolmente, anche nell’interesse dei futuri buoni e sinceri rapporti
fra i due popoli, le singole controversie territoriali sulla base dei principi di nazionalità e del diritto
dei popoli di decidere della propria sorte, e in modo da non ledere interessi vitali delle due nazioni,
che saranno definiti al momento della pace». Inoltre «Ai nuclei di un popolo che dovessero essere
inclusi nei confini dell’altro sarà riconosciuto e garantito il diritto al rispetto della loro lingua, della
loro coltura e dei loro interessi morali ed economici» 65.
Nella valutazione complessiva del Patto di Roma non si può non concordare con Francesco Ruffini,
che presiedette l’Assise romana e scrisse poi la prefazione al citato Quaderno, laddove con una certa
amarezza ritiene di poter constatare, verso la fine del ’19, alla luce di quanto era accaduto in
quell’anno, «che se un uomo politico fosse stato allora in Italia di tanto ingegno, di tanto animo e di
tanta autorità da assumere risolutamente e proseguire l’opera allora iniziata, la nostra Italia avrebbe
ora, da più mesi, la pace e fuori e dentro i suoi confini, e acquisti più vasti e più sicuri che non avrà,
e vantaggi economici e soprattutto un prestigio nel mondo, quale non ebbe mai e quale difficilmente
potrà più conquistare» 66

62
Cfr. Albertini, Epistolario, II, cit., pp. 849-851. Vi si legge tra l’altro: «Solo con le idee di Mazzini, che non erano
poi molto lontane da quelle di Cavour, l’Italia potrà essere grande»

63
Cfr. A. Torre, La storia del Patto di Londra, in Leoncini, Alternativa mazziniana, Appendice 2, pp. 305-316, qui p.
315.

64
Steed ricorda che: «Ciascuna frase, e quasi ciascuna parola […] erano state argomento di interminabili discussioni».
Cfr. Id, Trent’anni di storia europea, cit., pp. 490-491.
65
Il testo completo dell’accordo in Leoncini, Alternativa mazziniana, pp. 149-150.

66
Cfr. Ivi, p. 253.

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Paradossalmente sarà Wilson a interpretare nel modo più aderente lo spirito del Patto di Roma e a
far proprie le indicazioni e le aspirazioni che vi si erano manifestate. Per l’Italia ci sarebbe stata
l’occasione di diventare il partner privilegiato del presidente statunitense. Prima di recarsi a Parigi,
alla Conferenza della pace, egli dimostra in maniera tangibile la sua vicinanza alle idealità e ai
progetti politici propugnati da Mazzini. Il 5 gennaio 1919 si reca a Genova a rendere omaggio alla
sua tomba e a porre una corona di fiori ai piedi della statua di colui al quale, egli affermò, si era
sempre ispirato, aggiungendo che neppure Lincoln e Gladstone avevano avuto una tale capacità di
penetrare l’essenza del liberalismo 67.
Il grande studioso francese di storia boema e attivo sostenitore della causa cecoslovacca Ernest
Denis [1849-1921] fu il primo a riconoscere che la Conferenza di Roma rappresentava un colpo
mortale per l’Austria-Ungheria e ciò fu poi riconfermato dalla maggior parte dei memorialisti e
degli storici 68.
Masaryk, nelle sue memorie di guerra, la definisce «importante e utile» e da essa fa scaturire la
presa di posizione ufficiale degli Stati Uniti del 29 maggio, con cui si accettava le risoluzioni
espresse in quell’occasione, e l’adozione delle stesse da parte della Conferenza interalleata con la
dichiarazione del 3 giugno 69, nella quale però, per la netta opposizione di Sonnino, non si era
adottata una formula unica che riconoscesse, accanto all’indipendenza della Polonia, anche quella
della Boemia e della Jugoslavia 70.
Quando,dopo la fine del conflitto, i nazionalisti attaccarono gli artefici del Patto di Roma
accusandoli di essere stati “rinunciatari” Umberto Zanotti-Bianco sulla sua rivista «La Voce dei
Popoli», che in quei mesi aveva pubblicato significativi contributi dei protagonisti della lotta di
liberazione dagli imperi 71, scriverà che il Congresso «rimarrà certamente nella storia di questa
guerra come la più alta e la più nobile pagina della politica italiana» 72.
Né Amendola andava lontano dal vero quando nel ricordato discorso nel suo collegio elettorale
sosterrà: «Gli echi del Congresso di Roma furono immediati, innumerevoli e potenti. Dentro e fuori
la Monarchia, al di qua come al di là dell’Oceano, il patto di concordia stretto tra gli oppressi dagli
Absburgo suscitò un tumulto di speranze e di propositi» 73.

67
Cfr. D. Mack Smith, Mazzini. L’uomo, il pensatore, il rivoluzionario, BUR Rizzoli saggi, Milano, 2017, pp. 311-312.
[ed. inglese: Id. Mazzini, Yale University Press, New Haven and London, 1994, p. 221].
68
Cfr. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 395-396.

69
T. G. Masaryk, La Résurrection d’un État. Souvenirs et réflexions 1914-1918, Plon, Paris, 1930, pp. 249-250.

70
DDI, V, XI, Doc. 7. Consiglio supremo di guerra, Sesta sessione – Terza seduta, 3 giugno 1918. Cfr. pure Leoncini,
Alternativa mazziniana, cit., Appendice 2, pp. 260-261.

71
Sulla personalità e sul ruolo di Zanotti-Bianco cfr. il sopracitato volume, passim e in particolare il capitolo Da «La
Giovine Europa»a «La Voce dei Popoli», pp. 87-102
72
U. Zanotti-Bianco, Dichiarazione, in «La Voce dei Popoli», n. 9, I, 1918, p. 5.

73
Cfr. Leoncini, Alternativa mazziniana, cit., Appendice 2, p. 254.

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15

Il messaggio che proveniva dalla capitale italiana aveva trovato certamente terreno fertile e viva
sensibilità proprio nel presidente americano. Qui entriamo in un capitolo amplissimo che riguarda
il pensiero e l’azione di Wilson in relazione al diritto di autodeterminazione. Ho trattato la tematica
nei miei lavori sulla questione dei Sudeti 74, che costituisce un caso paradigmatico dei conflitti etnici
e le soluzioni alle quali lui dette la sua approvazione con la creazione della Cecoslovacchia nei
confini storici della Boemia, quindi inserendovi la più che ragguardevole minoranza tedesca (oltre
tre milioni di abitanti), non potevano che avere ricadute in tutto il complesso dell’area danubiano-
balcanica.
Come ebbi a scrivere in quelle occasioni, da tutta una serie di dichiarazioni di Wilson emerge in
piena evidenza che i contenuti ideologici della sua politica non sono affatto riconducibili a un solo
principio, cioè quello di autodeterminazione 75. Essi hanno una portata più vasta e radici profonde
nello spirito della democrazia americana.
Vi è innanzitutto l’idea di autogoverno (self government) 76, vale a dire che i popoli sono chiamati
all’interno del loro Stato a un ruolo decisivo nelle scelte politiche e, per la pacifica convivenza della
comunità umana, è presupposta un’assoluta equiparazione di tutte le sue componenti. Nessuna
nazione può estendere il suo dominio su un’altra. Derivano da questo riconoscimento del valore
dell’integrità nazionale e della necessità di un suo autonomo sviluppo il principio di nazionalità e il
diritto di autodeterminazione 77.

74
Cfr. tra l’altro I Sudeti e l’autodeterminazione 1918-1919 (Aspetti internazionali), Centro Studi Europa Orientale –
Liviana, Padova, 1973; La questione dei Sudeti 1918-1938, Liviana, Padova, 1976 [ristampa della Libreria Editrice
Cafoscarina, Venezia, 2005], finalista al IX Premio Acqui-Storia; Die Sudetenfrage in der europäischen Politik. Von
den Anfängen bis 1938. Mit einem Nachwort von Koloman Gajan, Reimar Hobbing Verlag, Essen, 1988.
A proposito del primo lavoro sento il dovere di ricordare la viva condivisione della mia linea interpretativa espressa da
Victor-Lucien Tapié, forse il maggiore boemista e accademico di Francia, in una lettera del 10 febbraio 1974, nella
quale, sulla base delle mie argomentazioni e della documentazione annessa, confermava la giustezza della soluzione
del diritto storico, rammaricandosi nel contempo di quanto fosse avvenuto nel 1938 e nel 1945, con l’espulsione dei
tedeschi. E concludeva: «Tout cela est bien loin maintenant et sans remède, mais les historiens peuvent projeter
beaucoup de lumière, ce que vous faites, Monsieur et cher collègue, et ce dont je vous félicite, en vous priant de croire à
mes sentiments les plus dévoués».
75
Va qui precisato che prima del 1918-19 Wilson aveva usato di rado il termine vero e proprio di
«autodeterminazione» self-determination, mentre piuttosto apparivano nei suoi discorsi altre espressioni più imprecise e
sfumate, quale per es. «sviluppo autonomo» autonomous development, che d’altronde si trova anche al punto 10 del suo
programma di pace. Cfr. G. E. Schmid, Selbstbestimmung 1919. Anmerkungen zur historischen Dimension und
Relevanz eines politischen Schlagwortes, in K. Bosl (a cura di), Versailles – St Germain – Trianon.. Umbruch in
Europa vor fünfzig Jahren, R. Oldenbourg, München –Wien, 1971, pp. 137-140. Cfr. pure Ch. Zorgbibe, Wilson. Un
croisé à la Maison-Blanche, Presses de Sciences Po, Paris, 1998, pp. 238-239.

76
In una famosa lettera del 12 luglio 1816 dal titolo I principi di una società libera Thomas Jefferson sosteneva che il
potere deve essere il più possibile frammentato al fine di « assicurare l’autogoverno grazie al repubblicanesimo della
Costituzione, oltre che allo spirito del popolo, e di alimentare e perpetuare tale spirito». Sottolineava:«Io non sono di
quelli che temono il popolo. È dal popolo, e non dai ricchi, che dipendiamo per la preservazione della nostra libertà».
Cfr. A. Aquarone (a cura di), Antologia degli scritti di Thomas Jefferson, il Mulino, Bologna, 1961, p. 99.

77
Cfr. G. Bottaro, Pace, libertà e leadership. Il pensiero politico di Woodrow Wilson, Rubbettino, Soveria Mannelli
(Catanzaro), 2007, pp. 151-158.

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In particolare gli sforzi delle piccole nazioni per liberarsi dal loro stato di oppressione, dalla loro
condizione di “nazionalità senza storia” costituiscono oggetto di specifica attenzione da parte del
presidente americano e la necessità che i nuovi fondamenti espressi nel suo programma di pace
trovino applicazione innanzitutto nei loro confronti rappresenta una costante ricorrente nei suoi
discorsi.
Per favorire le aspirazioni dei piccoli popoli, e come tali in questo momento storico venivano in
prima considerazione generalmente gli slavi della Monarchia asburgica, egli sembra disposto anche
a limitare gli effetti di quei capisaldi del nuovo ordine internazionale dei quali è sicuramente il più
tenace fautore.
Un chiaro esempio lo abbiamo subito nel caso dei polacchi: quando proprio nel penultimo dei suoi
Quattordici punti pone come obiettivo la formazione di uno Stato polacco indipendente con accesso
al mare egli viene infatti indirettamente a negare il diritto di autodeterminazione per le popolazioni
tedesche che abitavano lungo tutta la costa del Mar Baltico.
È evidente che in Wilson c’è un a priori, “una mappa mentale” e non una conoscenza diretta della
situazione dell’Europa centrale e orientale, cosa sottolineata di recente da Larry Wolff 78, ma
diversamente da quanto sostiene l’autore essa solo in parte è da far risalire ai suoi rapporti con Jan
Ignacy Paderewski e Tomáš G. Masaryk. Quanto a quest’ultimo egli venne ricevuto da Wilson la
prima volta il 19 giugno del’18, grazie all’intermediazione dell’imprenditore Charles Crane, mentre
il primo già nell’autunno del ’17 gli aveva inviato un memorandum prospettando per il nuovo Stato
una dimensione che ricordava l’Unione polacco-lituana dei secoli XV-XVI, ben diversa quindi da
quella che Wilson prese a difendere.
In realtà vi era l’a priori, ma ciò riguardava la sua visione della democrazia, come ha bene messo
in evidenza Davide Zaffi:
«Più che da motivi antibolscevichi o antiasburgici l’idea wilsoniana dell’autodeterminazione,
secondo le ripetute dichiarazioni del Presidente, era alimentata da un obiettivo assai vasto, che
riguardava in prospettiva tutti i popoli senza eccezione, la cui realizzazione era lontana nel tempo,
forse, ma non irraggiungibile e che, soprattutto, rivestiva un supremo valore normativo sul piano
morale, con dirette ricadute su quello politico» 79.
Vi era in Wilson un grande disegno, precorritore di quel programma che anche dopo la Seconda
guerra mondiale si sarebbe riproposto, e da qui nasce la evidente saldatura con il pensiero
masarykiano. Anzi proprio grazie alla concezione universalistica ed umanistica di Wilson80,

78
L. Wolff, Woodrow Wilson and the Reimaging of Eastern Europe, Stanford University Press, 2020. Proprio per
questo non va sopravvalutata la sintonia che solo nella seconda metà del ’18 si venne a stabilire con Masaryk

79
D. Zaffi, L’autodeterminazione wilsoniana, in F. Leoncini, S. Şipoş (a cura di), Nazionalità e autodeterminazione in
Europa centrale: il caso romeno, Bucureşti, 2013 [Quaderni della Casa Romena di Venezia IX, 2012], pp. 31-55. Qui p.
35.

80
In un discorso alla Independence Hall del 4 luglio 1914, giunto alla metà del suo primo mandato, Wilson ebbe a
sostenere:«Se un’impresa americana in Paesi esteri, specie in quelli troppo deboli per resistere alla nostra influenza,
prende a sfruttare una parte del popolo, essa va bloccata e non favorita. Per un americano sono disposto ad ammettere
tutto quel che denaro e imprenditorialità possono conseguire, ad eccezione della soppressione dei diritti di altri esseri
umani». Ivi, p. 47 nota 63.

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Masaryk trova quel quadro strategico nel quale poteva opportunamente innestare il suo progetto di
rinascita nazionale ceco-slovacca.
La sintonia tra i due diventa talmente rilevante che verso la conclusione della sua vita il presidente
americano finisce per affermare «I shall always deem the title ‘friend of Czechoslovakia’ as one of
the most distinguished I could bear» 81.
È stato comunque accertato che il suo atteggiamento alla Conferenza della pace fu molto più
determinato e meno sprovveduto di quanto voglia fare apparire una certa narrazione 82.
Sicuramente la preoccupazione di vedere realizzato il suo sistema di sicurezza con la creazione
della Società delle Nazioni ebbe un posto di primo piano al momento delle trattative, ma egli fu
estremamente duro nei confronti delle pretese della Francia sulla Saar e sulla Renania, mentre a
proposito della Polonia, come s’è visto, era intervenuto a favore di motivi storici ed economici che
incidevano notevolmente sui rapporti etnici.
D’altra parte, già prima della Conferenza, egli aveva accettato le frontiere del Brennero ritenendo
che in questo modo l’Italia avrebbe assunto un atteggiamento più conciliante nei confronti degli
jugoslavi 83. Così non fu e viene troppo spesso dimenticato dalla nostra storiografia che nel Sud
Tirolo gli italiani erano pressoché totalmente assenti.
Sullo scacchiere adriatico, rispondendo a Lloyd George nel dibattito al Consiglio dei Quattro,
Wilson espresse delle valutazioni assai puntuali:
«What makes the Slav less formidable than the German is that he has not attained the same degree
of organization ... Germany has a more complete system of education than any other country; if
Russia was capable of doing as much, she would be irresistible. But in many respects she is
backward … In my opinion, of the dangers which threaten Italy, the most serious would be the
discontent of the Slavs» 84.
Il rifiuto della linea di confine proposta dall’esponente d’oltreoceano, che, come ricordato,
coincideva sostanzialmente con quella indicata nel 1861, ma che soprattutto era riemersa con vigore
nel Patto di Roma e che contemperava le esigenze italiane con quelle delle popolazioni slave,
instaurò infatti una situazione di perenne ostilità con l’altra sponda dell’Adriatico, gravemente
pregiudizievole in termini economici e sociali.
Diversamente l’Italia sarebbe potuta diventare il pivot della Nuova Europa che proprio in quel torno
di tempo Wilson e Masaryk andavano prefigurando.

81
Cfr. Wolff, Woodrow Wilson, cit., p. 233.

82
«Whatever the merits of Inquiry reports and recommendations, President Wilson was better prepared and better
informed than his critics give him credit. According to recent appraisals, Wilson was both “well-advised and skillful”
at the Council table, and was “exactly what a statesman should be: unyielding as to principles but amenable to
compromise and advice on details”». Cfr. A. L. Molin, The Paris Peace Conference, Wilson, and the German Problem,
in Deutschland und die USA/Germany and the USA 1918-1933, Limbach, Braunschweig, 1968, p. 25.
83
Cfr. M. Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Laterza, Bari, 1967, pp. 18-26.

84
Cfr. Wolff, Woodrow Wilson, cit., 156. Mio il corsivo.

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In questa luce va ampiamente rivisto il giudizio sul tanto vituperato messaggio di Wilson agli
italiani del 23 aprile 1919 85. Vi erano in quella Dichiarazione considerazioni e valutazioni che è
opportuno ripercorrere.
Innanzitutto c’è la constatazione, che evidentemente “sfuggiva” agli esponenti politici italiani, ma
in realtà era avversata da loro: «L’Impero austro-ungarico, allora il nemico dell’Europa, a spese del
quale doveva eseguirsi il Patto di Londra, nell’eventualità della vittoria, è crollato e non esiste più».
Di conseguenza: «l’Italia e tutti i suoi associati convengono che le varie parti di quell’impero
dovranno essere costituite in stati indipendenti e associate in una Lega delle Nazioni […].
Dobbiamo garantire la loro libertà al pari della nostra. Esse dovranno annoverarsi fra quei (sic) stati
minori i cui interessi da ora innanzi dovranno essere custoditi non meno gelosamente di quelli degli
stati più potenti». Posto che la linea di confine tracciata da quel Patto «comprendente molte delle
isole della costa orientale dell’Adriatico e quella parte del litorale dalmata che più si affaccia al
mare» era giustificata come garanzia contro possibili aggressioni navali da parte dell’Austria-
Ungheria, ora che questa potenza è scomparsa e che le fortezze ivi costruite saranno «rasate al
suolo» non si pone più il problema della loro acquisizione. Veniva data assicurazione che ai gruppi
italiani ivi residenti [una percentuale molto ridotta] «saranno date garanzie soddisfacenti sotto
sanzione internazionale».
La Dichiarazione ricapitolava gli acquisti territoriali dell’Italia: «A nord e a nord est essa rientra
integralmente nelle sue frontiere naturali; lungo tutta la giogaia alpina dal nord-ovest al sud-est fino
all’estremo limite della penisola istriana, compreso tutto il grande spartiacque entro il quale stanno
Trieste e Pola, e tutte le belle regioni la cui faccia natura ha volta verso la grande penisola».
Infine Wilson sottolineava: «L’America è l’amica dell’Italia. Millioni (sic) dei suoi cittadini sono
oriundi delle belle campagne italiche. Essa ha legami non soltanto d’affetto ma di consanguineità
con il popolo italiano».
Date le polemiche, le resistenze e le complicazioni successive non fu facile per Carlo Sforza
negoziare un accordo definitivo con la controparte jugoslava, ma, a ragione, poteva aprire il
discorso con il quale presentava alla Camera il Trattato di Rapallo affermando che il nuovo confine
delle Alpi Giulie seguiva una linea «quale neppure sotto i Cesari avemmo sì perfetta» 86 e più avanti
domandava all’uditorio:«Sarebbe stato avveduto creare una muraglia della Cina, là dove vogliamo
libere e pacifiche vie di transito?» 87.
Di fatto esso non riuscì a risanare i rapporti ormai deterioratisi tra i due Paesi, suscitò invece
violente rimostranze in Jugoslavia e soprattutto in Slovenia. È significativo il caso del pittore Tone

85
Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Affari Politici
(1919-1930), b. 1048.
86
Si riferiva alla X Regio Venetia et Histria.

87
Il resoconto del dibattito in Cattaruzza (a cura di), L’Italia e la questione adriatica, cit., pp.439-476, qui pp. 474-
475..

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Kralj che interpretò visivamente in affreschi in diverse chiese del Carso il vulnus inferto alle
popolazioni locali con l’annessione di oltre trecentomila connazionali entro i confini italiani 88.
L’Italia mazziniana non era prevalsa e la profezia di Wilson allungò la sua ombra per molti decenni
a venire.

88
Cfr. il dipinto a olio intitolato “Rapallo” conservato al museo di Capodistria/Koper e riprodotto in “il manifesto” del
17/12/2021, p. 16, in occasione della presentazione del volume di Egon Pelikan, Tone Kralj e il territorio di confine,
pubblicato dall’Istituto regionale di Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea della Venezia Giulia. Esso
rappresenta la Slovenia nelle sembianze di una donna legata e trafitta, assalita da lupe (capitoline),circondata dalle
maschere dei vincitori e addentata a una gamba da Mussolini.

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