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2. Villa Torlonia;
La via Nomentana, una via della Roma antica, si dirige a nord-est. Nel 1870 l'esercito del
giovane stato italiano, costituitosi da meno di un decennio, nel 1861, prese d'assalto la cinta
muraria, penetrò nella città e sconfisse le forze dello Stato pontificio, limitandone il potere
all'interno dei confini dell'attuale Vaticano e portando poi alla dichiarazione di Roma quale
legittima capitale dell'Italia moderna. Porta Pia è uno dei luoghi più altamente simbolici del
riscatto patriottico compiutosi nel Risorgimento italiano. Lungo la Nomentana si trova
un'elegante costruzione ottocentesca, Villa Torlonia. Nel 1918 gli archeologi vi scoprirono
rari resti di antiche catacombe ebraiche risalenti al II e III secolo d.C. Dal 1925 al 1943 il
palazzo nobiliare di Villa Torlonia fu la residenza romana del dittatore fascista Benito
Mussolini e della sua famiglia. Se Palazzo Venezia, insieme al Campidoglio, nel centro
cittadini, era il luogo del potere ufficiale di Mussolini, Villa Torlonia rappresentava
l'immagine domestica e familiare di Mussolini. Quando Mussolini fu deposto, nel luglio
1943, la villa fu abbandonata. Dal settembre 1943 fino al giugno 1944 Roma divenne una
''città aperta'', in teoria, cioè, protetta ed esonerata dai combattimenti, ma in realtà in mano a
un comando nazista che non si comportò in modo meno feroce di quelli occupanti altri
territori nel resto d'Europa. A meno di due chilometri a sud di Villa Torlonia è situato il
quartiere operaio e antifascista di San Lorenzo: nel luglio 1943 l'area fu pesantemente
bombardata dagli Alleati, con la morte di alcune migliaia di civili. Dopo che Roma fu
liberata, all'inizio del giugno 1944, a Villa Torlonia fu insediato l'Alto comando alleato di
Roma, un ruolo che la villa mantenne fino al 1947, quando fu abbandonata ed entrò in un
lungo periodo di silenziosa decadenza. Fu aperta al pubblico come museo negli anni
settanta. Nel 2005 una porzione di terreni di Villa Torlonia fu scelta per diventare lo spazio
che avrebbe ospitato il primo ufficiale Museo nazionale dell'Olocausto, o Museo della
Shoah. Nelle linee che convergono su Villa Torlonia si rinviene la lunga storia di come, a
partire dalla seconda guerra mondiale fino al presente, l'Italia ha affrontato e declinato in
forme culturali ciò che oggi chiamiamo Olocausto o Shoah. Possiamo utilizzare la storia del
progetto di Villa Torlonia come punto chiave per capire come le linee culturali si intersecano
e si plasmano a vicenda. Il primo punto importante è la scelta di collocare il museo in quella
che era la casa di Mussolini, in questo modo ponendo la Shoah proprio al cuore dell'eredità
di Mussolini e della dittatura fascista. L'antisemitismo fascista e la complicità del regime
con la Soluzione finale nazista hanno costituito una questione centrale nel dibattito storico
sul fascismo. Per decenni dopo la fine della guerra, l'antisemitismo fu in massima parte visto
come un elemento alieno, un'imposizione della Germania nel 1938 (data delle leggi per la
difesa della razza di Mussolini). Tanto che, per il più influente fra gli storici del fascismo,
Renzo De Felice, l'antisemitismo e l'ideologia razziale furono ciò che distinse il regime di
Hitler da quello di Mussolini. Il primo era uno stato razziale, il secondo no. Il primo uccise
milioni di ebrei, laddove il secondo fino al 1943 quando fu smantellato, non deportò nessun
ebreo nei campi. In effetti, per molti, gli italiani parevano essere immuni da questa malattia
del razzismo e in possesso di un'innata norma del vivere civile e di un'innata diffidenza nei
confronti dell'ideologia: quella che Hannah Arendt definì la generale, spontanea umanità di
un popolo di antica civiltà. Una delle storie che questo libro ha la necessità di raccontare è
quella della supposta distanza del fascismo e degli italiani dall'Olocausto. Il sito di Villa
Torlonia rimanda a una specifica caratteristica della storia e del ruolo del giudaismo in
Italia, che ha condizionato nel paese la ricezione dell'Olocausto. Come ricordano e
catacombe situate nella villa, gli ebrei sono una piccola ma antica comunità, presente
all'ombra dell'impero romano e poi della Chiesa per più di due millenni prima dell'era
fascista. Questa comunità ebraica di Roma si è tenuta per secoli vicina al cuore della Chiesa,
secoli durante i quali fu messa in atto la millenaria tradizione dell'antisemitismo cristiano,
tradizione alle origini del genocidio nazista. La scelta di insediare a Roma il Museo della
Shoah fa emergere una serie di questioni nazionali. Molti dibattiti accompagnarono la
costruzione dello United States Holocaust Memorial Museum di Washngton, distante
migliaia di chilometri dal luogo in cui si svolsero gli eventi commemorati dal museo, una
scelta sintomatica del fluido glabalismo della storia, del potente ruolo nella cultura e nella
vita pubblica americana della sua comunità ebraica. A Roma, la specifica ubicazione urbana
del museo non è certo l'equivalente del Mall di Washington. Ciò nonostante, è significativo
che, nell'Europa del XXI secolo, sia presente un imperativo di creare un canale ufficiale di
memoria dell'Olocausto, come se essere una democrazia europea legittima implichi oggi
anche il riconoscimento e la commemorazione di questo evento. Un altro punto importante
che si palesa nella pianificazione del Museo della Shoah a Villa Torlonia sta nella questione
densa di significato della nominazione e dell'uso del linguaggio. È totalmente in linea con il
discorso pubblico sulla Soluzione finale nazista attestatosi in Italia dall'inizio di questo
secolo, che il museo sia stato chiamato Museo della Shoah e non, per esempio, Museo
dell'Olocausto. La storia della denominazione del genocidio è lunga: la gran varietà di nomi
va da Endlosung, il nome scelto dai nazisti stessi, da Auschwitz a Lager, da Olocausto a
Shoah. L'Italia è un caso raro in cui un avvicendamento semantico sembra essersi
concretamente compiuto: sul finire del Novecento, Shoah ha preso il sopravvento su
Olocausto quale termine più diffuso nei mezzi di comunicazione e nella sfera pubblica in
generale, come denota apòpunto il nome stesso del museo. Questa mutazione è
ulteriormente indicativa di una specificità della risposta italiana all'Olocausto. I progettisti
del museo sono gli architetti Luca Zevi e Giorgio Tamburini. Per parecchi anni Zevi è stato
coinvolto in un precedente progetto collettivo per la costruzione a Roma di un Museo
dell'intolleranza e dello sterminio, pensato per comprendere l'Olocausto, ma con l'ambizioso
intento di partire dal nazismo per trattare anche le violenze e i rischi più gravi nel presente e
nel futuro del genere umano. Zevi presumeva che la comunità ebraica romana fosse
idealmente favorevole a sostenere una concezione così estesa di un museo della memoria;
invece il progetto di Zevi fu ridimensionato e incanalato verso un'idea più incentrata
sull'Olocausto, da cui è disceso l'attuale progetto di Villa Torlonia. Ciò nonostante, è chiaro
che una certa ansia rispetto al bisogno di ricordare e ribadire la terribile specificità storica
della Shoah, insieme al bisogno di gettare ponti dalla Shoah verso il nostro mondo
contemporaneo, verso altri genocidi, verso la lezione morale, sia un tratto costante della
commemorazione e della pedagogia museale contemporanee. Nel progetto di Zevi-
Tamburini, numerosi elementi si rifanno a tendenze fissate a Washington, in particolare,
esso mostra una concezione sculturale dell'architettura che colloca lo spettatore/visitatore in
un rapporto emotivo con lo spazio museale. La caratteristica più evidente è la collocazione
dei principali spazi museali e pedagogici in due piano sotterranei, quale consapevole
rimando alle vicine catacombe ebraiche, sormontati da una struttura alta dieci metri,
rivestita da grandi blocchi su cui saranno scritti i nomi di tutti gli ebrei italiani uccisi dai
nazisti e dai fascisti. Zevi e Tamburini hanno inoltre incluso nel loro progetto un percorso
che conduce verso l'alto, denominato ''Percorso dei Giusti'', che richiama i Giusti fra le
nazioni del museo Yad Vashem di Gerusalemme, cioè il titolo onorifico conferito a tutti
coloro che rischiarono la vita per salvare degli ebrei durante la Shoah. Il Percorso dei Giusti
riprende anche il mito del senso civico italiano, dell'impulso istintivo ad aiutare il vicino di
casa ebraico, che per molti anni è stato rivendicato come il tratto fondante della risposta
concreta data all'Olocausto in Italia. Per quanto concerne spazi e contenuti, Zevi e
Tamburini hanno concepito un museo che determina un sottile equilibrio fra la Shoah degli
ebrei europei, le campagne genocide contro altri gruppi (rom, omosessuali, disabili),
l'antisemitismo fascista dell'Italia e una storia specificamente romana di persecuzione e
complicità. Come cornice e introduzione per tali contenuti, hanno progettato un corridoio di
accesso dedicato a Primo Levi, a conferma del suo ruolo centrale e iconico quale principale
mediatore della consapevolezza dell'Olocausto in Italia e quale solenne figura di
sopravvissuto capace di cucire insieme tutti i fili. C'è, infine, dietro al museo di Villa
Torlonia, una vicenda che concerne il pubblico, la comunità e i partiti politici. Pur essendo
già a quel punto il prodotto di intense discussioni fra la comunità ebraica, gli architetti e vari
gruppi di intellettuali e politici, il progetto per il museo non fu affatto definito nel 1005. Ciò
che è seguito fra il 2005 e il 2010 consente di aggiungere altre due dimensioni cruciali a
questo caso, che fornisce delle coordinate chiave per la nostra esplorazione del modo di
raffigurare l'Olocausto in Italia dalla fine della guerra. La prima di queste dimensioni attiene
ai partiti politici. Quando, nel 2005, fu approvato dal Consiglio comunale di Roma, il
Museo della Shoah era un progetto sostenuto dal partito allora alla guida della città, quello
del suo sindaco e leader nazionale Valter Veltroni: i Democratici di sinistra. I Ds
costituivano una delle svariate reinvenzioni post-Guerra fredda dello storico Partito
comunista italiano, che era stato uno dei grandi partiti di massa nella politica italiana del
dopoguerra. I valori del Pci avevano profonde radici nella Resistenza antifascista del 1943-
45 e nella Costituzione democratica del 1947-48, nata dalla Resistenza stessa. Sembrava
naturale e del tutto coerente per i Ds associare se stessi a un museo che commemorasse gli
orrori fascisti e nazifascisti dell'Olocausto. Nel 2005 il voto del Consiglio comunale di
Roma per il progetto del museo a Villa Torlonia era stato unanime, ma complicazioni
burocratiche e proteste proveniente da residenti locali in merito alle dimensioni dell'edificio
e alla conseguente perdita di spazio verde ritardarono il progetto protraendosi fino allo
scadere del mandato di Veltroni, che nel 2008 perse la carica. Il nuovo sindaco, Gianni
Alemanno, apparteneva al Popolo della Libertà, partito di destra di Silvio Berlusconi,
all'epoca al governo, ma proveniva da uno dei partiti confluiti del PdL, quell'Alleanza
nazionale che a sua volta discendeva dal Movimento sociale italiano, il principale partito di
estrema destra, neofascista, del dopoguerra italiano. Alemanno era un fascista. Non
considerà il museo una priorità e alcuni dei suoi colleghi iniziarono a militare contro di esso.
Alemanno commentava che, se le leggi razziali furono una forma di male assoluto, non si
dovrebbe far rientrare il fascismo nel suo insieme in questa categoria. Ciò nonostante, la
votazione unanime del 2005, pur se solo a patto che nel progetto del museo venisse anche
fatta menzione delle vittime innocenti delle brutali uccisioni perpetrate durante la guerra dai
comunisti lungo il confine italo-jugoslavo, nelle cosiddette foibe istriane. Secondo la destra,
una commemorazione delle vittime del nazismo rendeva opportuno un riconoscimento delle
vittime del comunismo per pareggiare le atrocità dei totalitarismi del XX secolo. Questo
principio era stato espresso a livello nazionale con l'istituzione di un Giorno della Memoria
per l'Olocausto, iniziato a celebrarsi il 27 gennaio 2001, presto seguita dall'istituzione di un
parellelo Giorno del Ricordo per le vittime delle foibe a partire dal 10 febbraio 2005.
Alemanno aderì a questa linea, ed è stato sotto il suo mandato che il Consiglio comunale ha
approvato il progetto definitivo e l'avvio dei lavori. Che un sindaco fascista come Alemanno
mandi avanti e approvi il Museo della Shoah, la dice lunga sulla politica postmoderna; la
destra, e specialmente quella ex fascista guidata dal suo leader nazionale Gianfranco Fini, si
è strategicamente mossa verso una posizione nettamente pro-Israele, insieme a una
moderata osservanza della commemorazione della Shoah, per legittimare se stessa come
partito al governo e per prendere le distanze dai propri ascendenti nazisti, fascisti e
antidemocratici. Ma c'è da considerare anche un'altra, tipicamente italiana, linea divisoria
fra culture, identità e storie regionali fortemente diverse. Anche sotto questo aspetto, la
vicenda della Villa Torlonia offre un chiaro esempio. Il progetto di Roma ha dovuto
affrontare un altro problema, rappresentato da una legge già in vigore nel 2003 denominata
Istituzione del Museo nazionale della Shoah. La direttiva nominava come collaboratori
ufficiali di questo museo il Ministero per i Beni e le attività culturali, un archivio milanese
di storia ebraica e, infine, la Regione e alcune amministrazioni dell'Emilia Romagna. Perchè
l'Emilia Romagna? Perchè questa iniziale ratifica legislativa per un museo nazionale della
Shoah, nel 2003, non lo prevedeva a Roma, ma nel sito di un ex carcere nei pressi di
Ferrara. Ferrara ha una storia ebraica ricca che risale almeno al XIII secolo. In particolare
per quanto concerne la cultura italiana relativa all'Olocausto, Ferrara ha poi avuto una
grande risonanza grazie allo straordinario ciclo di romanzi di Giorgio Bassani pubblicati
dagli anni cinquanta agli anni sessanta, ambientati a Ferrara, raccolti sotto il titolo Il
romanzo di Ferrara. Cuore di questo ciclo di sei volumi è Il giardino dei Finzi-Contini, di
cui sono protagonisti gli adolescenti della comunità ebraica ferrarese degli anni tenta,
predestinati a una tragica fine. La scelta di ubicare il museo a Ferrara era forse dovuta a
quello spazio letterario semimmaginario e alla posizione geografica centrale della città. A
conti fatti, però, questa si rivelò una debolezza nel momento in cui si fece strada l'idea di
associare alla Shoah la capitale culturale, nazionale e internazionale. Quando comparve il
progetto romano rivale, il governo nazionale, allora di centrosinistra, nella persona del
ministro della Cultura Francesco Rutelli, cercò e alla fine trovò un compromesso. Roma
avrebbe avuto il Museo della Shoah, da annoverarsi accanto ai musei di capitali come
Berlino, Washington e Gerusalemme, ma anche Ferrare avrebbe avuto un proprio museo,
ridenominato ''Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah''. Il museo ferrarese
avrebbe fatto parte di un progetto sull'intero territorio nazionale dedicato alla memoria e alla
narrazione ufficiale della storia della Shoah. Il Centro di documentazione ebraica
contemporanea di Milano ha messo e continua a mettere le proprie competenze a
disposizione dei progetti sia di Roma che di Ferrara. Peraltro, in un recente lavoto ha
presentato una concezione interessante per un'unica complementare rete nazionale di musei
della Shoah costituita da quattro distinti elementi, che rappresentano le pluralità geografiche
di una cultura relativa alla storia e memoria dell'Olocausto nell'Italia del XXI secolo. I
quattro spazi, da concepirsi come un unico spazio, saranno il Museo della Shoah di Roma, il
museo di Ferrara, un centro per lo studio e la memoria costruito alla Stazione centrale di
Milano e, infine, una mostra digitale permanente, uno spazio museale online sulla
persecuzione degli ebrei in Italia.
3. Il campo culturale;
In che maniera questa consapevolezza, queste conoscenze, storie, immagini di un
determinato evento storico si diffondono nella cultura di una nazione, e in che maniera
queste forme culturali maturano o si rimodellano lungo i decenni e le generazioni? Una
delle tesi che questo libro intende sostenere è l'idea che questo processo sia radicato in un
complesso campo di produzione e trasmissione culturale che ruota intorno a quel certo
evento storico. Il campo della cultura dell'Olocausto è eclettico e intersecato con numerosi
altri campi di produzione culturale presenti in Italia: ragione per cui un romanzo
sull'Olocausto appartiene, necessariamente, sia alla cultura dell'Olocausto sia alla storia
della narrativa italiana. Quindi il libro di Primo Levi del 1947 dedicato alla memoria
dell'Olocausto, Se questo è un uomo, si accorda con la tendenza verso il reportage e la
scrittura della letteratura neorealista degli anni quaranta. Così che il libro di memorie di
Levi ha la forma di un'opera letteraria e costituisce un contributo alla storia del romanzo
anche perchè è stato costretto ad affrontare dei problemi specifici in riferimento
all'Olocausto, generando soluzioni formali e stilistiche originali. Nel formulare le sue
demarcazioni in Se questo è un uomo, Levi ha spinto il neorealismo a un punto di rottura,
per via degli estremi di orrore dei quali era stato testimone e che ora cercava di trasmettere.
Un certo tipo di narrativa, certe modalità del raccontare contribuiscono a fare emergere
determinati modelli nel modo in cui l'Olocausto viene discusso e interpretato in un
determinato momento. Nella realtà, ci sono sempre molti altri fili di connessione e di
definizione, ciascuno interagente con gli altri. Per cui l'autore di un romanzo sull'Olocausto
può essere un sopravvissuto, il libro può essere stato pubblicato in un anno o momento
particolare in contemporanea con altri eventi, può essere pubblicato da un editore con una
collocazione geografica definita con un progetto culturale o politico altrettanto definito, e il
libro può mantenere o riacquistare l'attenzione del pubblico anni dopo grazie a nuove
edizioni o adattamenti per uno sceneggiato televisivo. In altre parole, vi sono in gioco anche
micro e macrocampi sovrapposti correlati alla biografia individuale, al clima di un certo
anno o momento della produzione culturale, alla storia e alla specificità di una città
nell'ambito della più ampia storia nazionale; tutti i campi con proprie complesse dinamiche
interne che si intersecano. Il discorso nazionale sull'Olocausto, la conoscenza e
consapevolezza dell'Olocausto, la memoria dell'Olocausto o i suoi effetti sono tutti prodotti
attraverso un mormorio diffuso di attività culturali molto varie spesso non coordinate fra
loro, da cui emergono singole fasi, opere e individui, così come formule, stereotipi e
categorie. Il campo culturale dell'Olocausto nell'Italia del dopoguerra. Sono quattro le sfere
principali di attività culturale che popolano il campo determinandone la forma e gli agenti
operanti al suo interno. La prima è quella che possiamo chiamare la sfera associazionistica o
istituzionale. I primi canali di attività ed espressione per quegli italiani che in prima persona
esperirono l'Olocausto si sono creati grazie a gruppi e associazioni istituiti allo scopo di
rivelare quegli eventi e offrire sostegno alle vittime. Serge Barcellini e Annette Wieviorka
chiamano questi gruppi di familiari di vittime, attori o agenti della memoria. L'unica
categoria di agenti culturali che abbia preceduto questa iniziale attività collettiva era il
singolo, solitario sopravvissuto che dopo il ritorno scriveva o raccontava la propria storia di
sopravvivenza, per ragioni connesse al trauma o per esprimere lutto o onorare coloro che
non avevano fatto ritorno. Per darsi reciproco sostegno i sopravvissuti e i familiari delle
vittime si riunirono a formare associazioni, ancora prima che la guerra finisse e lungo gli
anni del dopoguerra, altre iniziative collettive continuarono a prendere forma in nuove
associazioni. Tre associazioni meritano di essere citate in quanto risultano attive in diverse
fasi dell'epica postbellica: l'ANED, l'UCII e il CDEC. L'ANED (Associazione nazionale
degli ex deportati politici) tenne il suo primo congresso nazionale nel 1957 e fu riconosciuta
dallo stato come ente morale, cioè organizzazione non lucrativa, attiva in più di una città, al
servizio dei superstiti e delle famiglie di coloro che non erano tornati. Esiste a Torino lo
statuto della sua fondazione datato 6 settembre 1945. Per tutto il dopoguerra, l'ANED
avrebbe sostenuto un'ampia gamma di iniziative, finanziando monumenti e memoriali in
tutta Italia, costituendo archivi e organizzando mostre, convegni, visite ai luoghi dello
sterminio, interventi nelle scuole, raccolte di testimonianze orali. Si dà il caso che l'ANED
fosse in origine focalizzata non sul genocidio ebraico, bensì sulla figura del deportato
politico, cioè il partigiano, l'antifascista. Malgrado questa scarsa focalizzazione sul
genocidio ebraico, molti membri ebrei dell'ANED abbracciarono il suo tenore nel
commemorare e discutere. Ciò nonostante, via via che l'idea del genocidio ebraico assumeva
forza, emerse un certo riconoscimento formale della sua importanza distinta. L'UCEI
(Unione delle comunità ebraiche italiane) è l'ente ufficiale della comunità ebraica italiana,
fondato nel 1930 dal regime fascista. L'UCEI ha svolto un ruolo decisamente di minor
profilo nella costruzione della consapevolezza dell'Olocausto in Italia se confrontato al
progetto pubblico, didattivo dell'ANED. Ciò nonostante, è sempre stata al centro della
discussione e ha collaborato all'organizzazione di eventi e commemorazioni, rivendicando
una voce per le vittime ebraiche della violenza nazista. Anche l'UCEI ha sostenuto e
finanziato attività di influenza fondamentale: molto importante è la vicenda del
finanziamento e della committenza da parte dell'UCEI della ricerca che portò alla
pubblicazione presso Einaudi, nel 1961, di uno dei primi e tuttora più autorevoli resoconti
storici dell'antisemitismo fascista, la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De
Felice. Sempre internamente all'ambito delle organizzazione ufficiali degli ebrei italiani, si
ebbe a metà degli anni cinquanta l'istituzione del CDEC (Centro di documentazione ebraica
contemporanea). Il CDEC fu inizialmente sistemato in una stanza a Venezia. Il CDEC fu
creato allo scopo di indagare sulla sorte degli ebrei italiani deportati e offrire aiuto ai
superstiti. L'archivio storico costituito dal CDEC, insieme al lavoro storiografico che dagli
anni sessanta in poi ne derivò, lo rese la principale istituzione accademica italiana per la
memoria dell'Olocausto ebraico. Forse ciò che meglio incarna l'attività del CDEC è Il libro
della memoria, un'opera straordinaria, analoga ad altri esempi radicati nella tradizione
ebraica dei libri della memoria, in cui sono citate e documentate tutte le vittime italiane del
genocidio. Associazioni e organizzazioni non sono necessariamente gli attori di maggior
profilo nel vasto campo culturale che ruota intorno all'Olocausto in Italia, ma sono
comunque presenze fondamentali, e spesso determinanti, nel sostenere e diffondere con il
loro attivismo tutta una serie di eventi pubblici culturali nel campo in questione. Inoltre,
esse costituiscono il centro di attività della fase inizale, sono i primi agenti nel campo, che
fissano parametri e schemi sin dai primi mesi e anni, molto tempo prima che altri settori
della cultura diventassero consapevoli della loro esistenza.
La seconda sfera è relativamente celata all'osservatore esterno ma è essenziale nel plasmare
il campo della cultura dell'Olocausto e ha promosso letture del fenomeno che sono state
dominanti. Possiamo chiamarla sfera accademica, e comprende l'ambito della ricerca
accademica, degli studi sui vari aspetti dell'Olocausto, pubblicati in volumi, riviste e
recentemente online. In maniera sempre crescente, questa sfera include anche un elemento
trasversale, in cui il patrimonio delle conoscenze acquisite viene utilizzato come terreno di
semina per il lavoro di altri. In tal modo la sfera accademica, che a volte coincide con la
sfera associazionistica, assume una sorta di ruolo di consulenza verso l'ambito culturale nel
suo insieme, fornendo una marchio di autorevolezza e una garanzia di validità storica. La
storiografia accademica è anche la sfera nella quale tendono a essere verificati per la prima
volta documenti scoperti da poco e interpretazioni controverse o revisioni. È sintomatico sia
della difficile eredità fascista che pesa sull'Italia, sia del clima di sospetto diffuso nello stato
postbellico, il fatto che spesso si scatenino delle controversie intorno a scoperte o riscoperte
di una nascosta o rimosssa complicità con il fascismo. L'esempio più importante a tal
proposito è la ricordata Storia degli ebrei italiani che sotto il fascismo di De Felice causò il
collasso di un partito politico, il Partito radicale, per aver citato il suo segretario, Leopoldo
Piccardi, quale partecipante alle campagne razziste del fascismo durante gli anni trenta; fino
ancora all'inizio di questo secolo, quando l'ex comunista e faro morale dell'antifascismo
Ignazio Silone fu accusato di essere stato a lungo una spia e un informatore della polizia
fascista. Per quanto possa sembrare appartato, il dibattito accademico, sull'Olocausto come
su molti altri temi, ha trovato canali per penetrare in una sfera pubblica più ampia e per
plasmare e riplasmare assunti pubblici e filoni di conoscenza. Occorre sottolineare
un'ulteriore caratteristica della sfera accademica correlata a queste forme di impegno
politico-intellettuale pertinente al lavoro sull'Olocausto. Si tratta della marcata tendenza da
parte di questi storici ad avere un intenso investimento in prima persona negli eventi di cui
scrivevano. Il fenoomeno del sopravvissuto-testimone-storico fu infatti un tratto cruciale
della prima storiografia internazionale sull'Olocausto. Ed è questo un aspetto che lega la
sfera accademica a quella associazionistica: molto spesso furono i superstiti stessi ad
avviare la ricerca storiografica, in parallelo all'opera di testimonianza, e in effetti queste due
attività si mescolavano e confondevano.
La terza sfera della produzione culturale intorno all'Olocausto costituisce forse il centro
focale poiché è da qui che l'attivismo delle associazioni, la ricerca e i dibattiti fra accademici
e intellettuali, e anche le storie e le voci dei singoli individui si diffondono nella cultura in
generale. Si tratta della sfera culturale, nel senso stretto del termine. È qui che troviamo tutti
quei lavori, siti, artefatti ed eventi in cui rappresentazioni, vicende e immagini danno forma
culturale all'Olocausto. Una significativa porzione di questa sfera è data dai materiali scritti.
Come nel caso delle associazioni, la storia delle storie sui campi di concentramento inizia in
maniera non prefissata, con le testimonianze di prima mano di sopravvissuti e vittime, per
poi svilupparsi in altre scritture ibride che vanno sotto il nome di letteratura dell'Olocausto.
Ai generi scritti corrono parallele altre forme di arte narrativa: esiste una distinta storia
cinematografica dell'Olocausto che emerge in Italia sin dai primi anni del dopoguerra; così
come esiste una sempre più importante fase di produzione televisiva sull'Olocausto. E anche
altre arti audiovisive entrano in questo scenario, dalla pittura al disegno alla musica. La
sfera culturale trova la sua natura nell'essere un canale di trasmissione rivolto al pubblico in
luoghi e spazi aperti al pubblico stesso, che siano permanenti o temporanei. Nella
concezione, progettazione di tali siti storici e commemorativi, e nella forma culturale che
viene loro conferita, possiamo individuare la più densa confluenza dell'insieme di fattori e
agenti che alimentano la rappresentazione dell'Olocausto. Infine, occorre includere nella
sfera culturale, insieme a luoghi e spazi, anche gli eventi pubblici e culturali. Mostre e
performance, e le stessi presentazioni di libri, costituiscono eventi locali che suscitano la
partecipazione pubblica, con riflessioni e dibattiti. Più strutturate e pianificate sono le
manifestazioni pubbliche formali di commemorazione, anniversari nazionali o locali.
Possono essere ricorrenze annuali di origine nazionale o transnazionale, per esempio il 25
aprile come giornata in cui si celebra la liberazione, il 27 gennaio per la liberazione di
Auschwitz e in seguito come commemorazione internazionale dell'Olocausto, o possono
essere anniversari decennali che portano a una concentrazioni di eventi nelle rispettive
ricorrenze.
La quarta e ultima sfera è di natura trasversale, più sfuggente, una sorta di cornice. Si tratta
della sfera dell'industria della cultura e dell'informazione, nonché dei mass media.
Quotidiani e riviste di grande diffusione, televisione, radio e internet hanno tutti svolto ruoli
cruciali nella trasmissione di conoscenze, consapevolezze a un pubblico esteso, non esperto
e nel fornire a quest'ultimo degli strumenti per interpretare e comprendere il fenomeno. La
mediatizzazione dell'Olocausto può assumere molteplici forme, dal rendere noti eventi o
pubblicazioni e relative recensioni a interviste e dibattiti intorno a eventi o iniziative. Se la
sfera associazionistica ha svolto un ruolo di particolare importanza nelle prime fasi della
storia della conoscenza dell'Olocausto, quest'ultima sfera, l'intensa mediatizzazione
dell'Olocausto, e quindi la sua diffusione attraverso la cultura in immagini canalizzate in
forme culturali di massa appare più evidente in fasi successive, quando comincia a
espandersi la stampa popolare e la crescita del mezzo televisivo fino ai media
ipertecnologici e multimediali. Meritevole di attenzione e situata entro questa quarta sfera è
l'area dell'editoria. La Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di De Felice può ancora
una volta fungere da esempio, in questo caso per il ruolo svolto dal suo editore, Einaudi. Il
contributo della Einaudi a un nuovo modo di guardare all'Olocausto e agli eventi correlati è
estremamente rivelatorio di una fase in cui la prospettiva intellettuale sia pervenuta a
considerare come qualcosa di imprescindibile il fatto di rivolgere la propria attenzione al
genocidio nazista. La diffusione della cultura dell'Olocausto è avvenuta dal privato al
pubblico, da gruppi con esperienze di prima mano a comunità più estese, dalle generazioni
più vecchie alle più giovani. Ma il quadro è più complesso: l'Olocausto è stato sede di
conoscenze marginali, di narrative nascoste che lottavano per essere ascoltate; è a volte
circolato in reti capillari di basso profilo.
- Commemorazione e ritorno
Il Cimitero monumentale di Milano è una vasta aerea dominata da imponenti mausolei e
monumenti in pietra dedicati ai personaggi in vista, alle famiglie abbienti di un paese da
poco modernizzato e prosperoso. Nella grande cappella all'entrata vengono commemorati i
più onorevoli e illustri cittadini milanesi e dietro di essa si apre il parco cimiteriale. Qui, nel
1946, fu eretto un nuovo monumento, dedicato ai Caduti nei campi di sterminio nazisti. Era
uno dei primissimi monumenti pubblici italiani speficicamente destinati alle vittime dei
campi. Il monumento fu concepito e finanziato nel 1945 da una delle numerose associazioni
di sopravvissuti ai campi costituitesi nell'immediato dopoguerra, l'ANPPIA (Associazione
nazionale perseguitati politici italiani antifascisti), e progettato dallo studio di architettura da
uno dei suoi soci, Enrico Peressuti. In seguito a questa realizzazione, lo studio divenne il più
influente creatore di memoriali italiani sull'Olocausto. Lo studio firmò un memoriale
italiano collocato nel campo di concentramento di Gusen, nei pressi di Mauthausen, un
padiglione commemorativo italiano ad Auschwitz. A Carpi, lo studio ideò uno spazio che
sintetizzava storia e commemorazione, fatto di sale con le volte e le pareti che recano incisi
nomi e frasi dei deportati. La principale ragione di questo intenso e del tutto particolare
impegno era personale: uno dei quattro soci, Gian Luigi Banfi, era morto a Gusen-
Mauthausen dopo aver combattuto nella Resistenza; Lodovico Belgiojoso aveva seguito lo
stesso percorso ma era sopravvissuto; ed Ernesto Rogers era fuggito in Svizzera per sottrarsi
alle persecuzioni razziali. Il progetto di Peressuti per il monumento seguiva un intento di
commemorazione storica e antifascista: un po' di terra proveniente da Mauthausen era
racchiusa in un cubo di vetro, il tutto circondato da filo spinato. L'opera è astratta e in ugual
misura universale, e nella sua concezione rigetta le tradizionali targhe commemorative con i
nomi, evocando invece la terra e l'aria di una realtà totalizzante, in uno spazio segnato da
una recinzione simbolo dell'imprigionamento. Il lavoro esprimeva un forte impulso alla
riflessione universale come risposta alla guerra, alla perdita e alla brutalità estrema della
violenza nazista, predominante nel momento postbellico. Come ha notato Bruno Zevi,
l'opera si teneva in equilibrio tra architettura e scultura, tra l'evocazione di uno spazio
interiore e di un'esperienza intima, e lo spazio pubblico esterno. Nella storia del monumento
le tensioni affiorarono dopo il 1946. i familiari delle vittime erano insoddisfatti per l'assenza
dei nomi e quindi per la mancata possibilità di un lutto privato e per questo iniziarono ad
apporvi improvvisate targhe formali con i nomi, finchè una terza versione tornò a
semplificarne l'aspetto. Eppure il monumento costituiva per altri versi un grande successo. Il
suo scopo era quello commemorare uan non specificata categoria di ''caduti'', senza
distinzioni tra i vari tipi di Lager né fra i motivi della deportazione. Guardando a ritrovo è
difficile rintracciare le prime consapevolezze del genocidio nazista e inserire informazioni e
risposte all'interno del panorama vasto e rapidamente cangiante delle notizie riguardanti la
possibile fine del conflitto mondiale nel 1944-45. già nei primi anni della guerra era filtrati
in Italia frammenti di informazione. Primo Levi, nel suo libro autobiografico Il sistema
periodico, rileva come lui stesso e i suoi amici cercassero di afferrare e al tempo stesso
scegliessero di ignorare i segnali di ciò che stava accadendo agli ebrei d'Europa, vivendo in
uno stato di cecità volontaria. Quando nel 1971 scrisse una deposizione, per il processo di
Friedrich Bosshammer (il rappresentante di Eichmann in Italia), Levi elencò cinque fonti
per le informazioni circolanti nel Nord-Italia prima della propria deportazione. La
testimonianza di Levi di una eterogenea e lacunosa raccolta di informazioni può applicarsi
non solo agli anni precedenti ma anche a quelli immediatamente successi alla conclusione
del conflitto. Nel caso italiano, in cui l'intero periodo che va dal 1943 al 1948 costituì
un'unica fase di transizione dal fascismo alla guerra civile, all'occupazione e a Salò, fino alla
democrazia e ad una nuova repubblica. La nazione, lo stato e l'idea stessa di Italia erano nel
caos, e la stampa nazionale non faceva eccezione: alla fine del conflitto era a stento rimasta
in piedi, il Corriere della sera per esempio era stato chiuso dalle forze di liberazione nel
1945, e là dove ancora esisteva era totalmente concentrata sulla lotta per la sopravvivenza
della nazione. Nell'aprile 1945, mentre la stampa e la radio europei restavano pietrificati da
strazianti immagini proveniente da Bergen-Belsen, Buchenwald, l'Italia stava attraversando
le forche caudine della propria guerra, con la liberazione di Milano e del Nord proclamata il
25 aprile, nonché l'esecuzione di Mussolini il 28 aprile, fatti che distoglievano ogni
attenzione da quei remotissimi campi e dai loro resti agghiaccianti. Ci furono certo delle
eccezioni, in particolare negli organi dell'antifascismo militante che erano stati attivi durante
la lotta di Resistenza. Il giornale socialista Avanti pubblicò nel 1945 svariati articoli sui
campi italini di raccolta e pre-deportazione di Bolzano e Fossoli, e su Mauthausen, la
principale destinazione per i deportati della Resistenza italiana. Ma la maggior parte delle
testate italiane avrebbe atteso sino alla fine del 1945, con l'avvio dei processi di
Norimberga, per prendere atto in maniera concertata di ciò che stava iniziando a essere
chiamato genocidio, crimini di guerra o crimini contro l'umanità. Il 14 dicembre 1945,
L'Unità pubblicò articoli e fotografie intitolando ''Si parla di campi di morte''. Si ebbero
anche riflessioni sulla questione ebraica negli ambiti intellettuali. Benedetto Croce, una
sorta di eroe liberale per il suo distaccato antifascismo, si lasciò influenzare da una serie di
saggi antisemitici scritti da Cesare Merzagora. Croce, nella sua prefazione al libro, se da una
parte come Merzagora rifiutava l'idea in sé della persecuzione, dall'altra faceva delle
osservazioni contro l'ostentazione di una peculiarità o di una differenza ebraica, insistendo
sul fatto che gli ebrei reduci non dovevano aspettarsi privilegi o preferenze per le sofferenze
subite, ma che era loro dovere fare il possibile per integrarsi con gli altri italiani. Croce e
Merzagora erano preoccupati per il grosso problema del ritorno. C'erano quasi due milioni
di prigionieri di guerra italiani che nei mesi del dopoguerra si univano alla massi di profughi
e superstiti di tutte le nazionalità che vagavano attraverso paesi e continenti in viaggi di
ritorno e di difficile reintegrazione. Queste maree di reduci affamati, deboli e traumatizzati,
non erano facili da scindere in distinti gruppi o categorie (ebrei, prigionieri politici,
lavoratori forzati), ognuno con le proprie particolari esperienza da raccontare. I prigionieri
italiani di ogni tipo impiegarono più tempo di tutti gli altri per far ritorno a casa, in parte per
motivi politici: l'Italia era presa in mezzo tra la sua precedente partecipazione all'Asse e le
sue fragili alleanze post-armistizio. Nel 1945-46, raggiungere la propria casa, rintracciare i
parenti o trovare notizie della loro scomparsa, partecipare per offrire un aiuto pratico per la
reintegrazione erano compiti tutt'altro che facili e privi di problemi. Ed era questo lo scopo
che stava dietro alla copertura mediatica; gli elenchi di Mauthausen dell'Avanti scaturivano
dall'intento di identificare, trovare e riportare a casa i sopravvissuti. E questo stesso
obiettivo fu anche ciò che portò al formarsi delle prime associazioni, come l'ANED. In tutto
questo flusso di attività e movimenti di persone, che caratterizzò i mesi seguiti alla fine del
conflitto, erano già presenti i contorni di ciò che in seguito sarebbe andato sotto l'etichetta di
Olocausto. Come in parecchi altri paesi dell'Europa occidentale, la metà degli anni quaranta
vide sorgere in Italiaq una consapevolezza del genocidio che aveva manifestazioni e forme
di rappresentazione pubblica ricche e varie, a tratti con momenti che rivelavano una più
generale, benchè sempre frammentaria, presa d'atto delle vere e proprie vette di orrore
raggiunte da nazismo. Memoriali come quello del Cimitero monumentale di Milano
mostrano come le prime forme culturali di commemorazione e cordoglio, ma anche di
riflessione sui significati della guerra e delle atrocità naziste, andassero di pari passo con le
questioni pratiche e i processi del ritorno.
5. Primo Levi
- Nominazione e retorica
La biblioteca concettuale di Levi sull'Olocausto rappresenta solo uno dei molti possibili
modi di testare il terreno della sua visione culturale e storiografica dell'Olocausto. Per
completare la mappa di quel terreno, si può toccare tre filoni di indagine complementari.
Una prima area utile è l'impegno di Levi in discorsi contigui o intrecciati al tema
dell'Olocausto, quali il razzismo, la bomba e il Gulag. Elemento centrale nelle discussioni di
Levi sul razzismo era la sua propensione verso un'interpretazione etologica del termine,
come un istinto animale, prima ancora che come fenomeno storico. Una tale concezione è
già presente nella prefazione a Se questo è un uomo, là dove parla dell'impulso umano
universale a ritenere che ogni straniero è nemico. Il discorso di Levi sul rischio di
distruzione nucleare, che permeava il clima generale di ansietà della Guerra fredda negli
anni cinquanta-settanta, fu molto marcato. Le sue conoscenze scientifiche gli davano modo
di individuare degli aspetti nelle due minacce della modernità, Auschwitz e Hiroshima, e in
ciò che hanno da dirci sulla tecnologia; sulla moralità pubblica della scienza, con il suo
difficile equilibrio di rischio e responsabilità. Infine, Levi era sempre più incline a tracciare
dei paragoni tra i campi nazisti e i Gulag sovietici come mezzo per distinguere le specifiche
caratteristiche dei primi. Vi sono anche analogie e lessici dell'Olocausto che Levi omette o
rifiuta. La sua ostilità si ritorce verso le letture psicoanalitiche del nazismo e dei campi,
evidente in una serie di risposte ostili al lavoro di Bruno Bettelheim. Ciò si colloca in un
interessante rapporto con la sua analisi dell'Olocausto orientata alla singolarità
dell'individuo; per Levi essa può portare a letture sociologiche, etologiche o antropologiche,
più che non agli strati nascosti della psiche. Il suo interesse è per i meccanismi della mente
che consentono determinate azioni e omissioni. Si trovano omissioni importanti anche nella
storiografia di Levi, a tal proposito è stupefacente notare l'assenza del libro di Raul Hilberg,
La distruzione degli ebrei d'Europa, la più importante storia dell'Olocausto. Hilberg ha
suscitato varie critiche per il suo rifiuto di basarsi su testimonianze o in generale su prove
derivanti dalle vittime, e questo era in contrasto con la dimensione morale, testimoniale e
centrata sull'individuo di Levi. Un'ulteriore linea di indagine concerne le strategie di Levi
per nominare l'Olocausto. L'importanza di quest'area non riguarda solamente Levi: questioni
linguistiche e di nominazione sono state al centro di svariati ambiti della ricerca
sull'Olocausto, dagli studi sulle distorsioni della lingua tedesca operate dai nazisti, all'uso
del termine ''genocidio'' durante i processi di Norimberga, agli intensi dibattiti sorti intorno
al termine stesso ''Olocausto''. Di tutti gli scrittore-sopravvissuti, Levi fu quello che mostrò
il più acuto interesse per il linguaggio. I termini che utilizzava per l'evento oggi noto come
Olocausto sono significativi. Il suo primissimo lavoro pubblicato già parla di annientamento
degli ebrei d'Europa, un'espressione sorprendente per il 1946, quando la specificità della
violenza contro gli ebrei stava ancora lottando per emergere da un'idea più generalizzata
della barbarie nazista. Facendo un salto in avanti, ai suoi ultimissimi scritti sull'Olocausto di
inizio 1987, si vede che la lotta per la nominazione non si è ancora spenta: in un articolo
sulla controversia fra gli storici tedeschi, Levi utilizza espressioni come ''strage hitleriana
del popolo ebreo'', ''Auschwitz'', ''inferno'', ''Lager''. Levi sembrava rifuggire da termini
standardizzato e saturi, anche se in altre occasioni si era rassegnato al prevalente Olocausto,
per indirizzare l'attenzione verso accurate distinzioni storiche che richiedono un'articolata
elaborazione. In un altro scritto dell'ultima fase, si trovano espressioni che alludono alla
comunità dei deportati-sopravvissuti, ebrei e politici, con ricordi di sofferenza condivisi:
''deportazione politica di massa'', ''questo moderno ritorno alla barbarie''. La voce più
significativa e contraddistintiva del lessico di Levi per l'Olocausto fu tuttavia il termine
Lager, che utilizzò più di qualunque altro scrittore e che in Italia è entrato nell'uso corrente.
È un termine che punta alla neutralità. Innanzitutto, riporta ai primi inquadramenti
concettuali del dopoguerra per comprendere il nazismo e l'Olocausto e suggerisce una
nozione del campo come specifico luogo o spazio chiuso, con le proprie leggi e una propria
storia. Evita di privilegiare un singolo luogo o nome, e quindi la tentazione di sacralizzare
dei siti specifici, tentazione che è stata una spinta forte nell'uso retorico di toponimi quali
''Auschwitz''. Racchiude in un unico termine l'intera gamma dei diversi tipi di campo (di
lavoro, di concentramento, di sterminio) senza possedere alcuna specifica connotazione
ebraica. Se una connotazione forte ce l'ha, è rispetto ai perpetratori, poiché evoca le qualità
di straniero e di tedesco proprie dell'Olocausto, sia per lingua che per cultura, tutti elementi
coerenti con la lettura compiuta da Levi. Il linguaggio per una retorica pubblica
dell'Olocausto impiegato da Levi raggiunge il massimo livello di elaborazione nel breve
testo, Al visitatore, che scrisse per un monumento alle vittime italiane di Auschwitz. Il
monumento era promosso dall'ANED, e Levi adotta la voce collettiva degli ex deportati
politici rappresentati da quell'associazione. Si sforza di commentare anche la dimensione
italiana di questa storia, ma è attento a rivolgersi a un visitatore indifferenziato,
sottolineando così il messaggio universale e il monito che Auschwitrz rappresenta. Il
fenomeno generalizzato della deportazione è posto accanto ai campi di sterminio; entrambi
sono incarnati in questo campo, Auschwitz. L'atto di bilanciamento è chiaro: Levi usa il
campo per presentare un'Italia buona e un'Italia cattiva, fornendo un'immagine del fascismo
come parentesi nella storia di un paese che è stato civile e che civile è ritornato dopo la notte
del fascismo. Il testo rivolge poi l'attenzione sulla vastità della drammatica sorte degli ebrei.
Qui Levi ancora una volta pone l'accento sulla comprensività, notando che le vittime ebree
erano italiani e stranieri, ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti destinati a
morire. Nel sottolineare la terribile arbitrarietà e indifferenza delle uccisioni e la dimensione
numerica, Levi giunge ad esserire una sorta di unicità, affermando che non era mai successo
che si sterminassero essere umani a milioni, come insetti dannosi. E nel suo rifiuto di
equiparare il Gulag e il Lager, Levi individua un particolare tipo di eccesso della violenza
nazista (l'uccisione dei bambini e degli anziani), quella che definirà violenza inutile. Non si
tratta di un'unicità basata sul genocidio in quanto tale, ma piuttosto una forma unica di
cecità morale e di eccesso totalizzante. Primo Levi non è stato solamente un grande scrittore
e un cronista storico dell'Olocausto. È stato anche il principale mediatore della
consapevolezza dell'Olocausto. L'Olocausto di Levi è radicato in concezioni
universalizzanti, tuttavia il suo lavoro mantiene sempre affinità con gli approcci
caratteristici dei tardi anni quaranta; vale a dire, con la dissezione umanista, morale e
sociale. Questa dimensione umanista, universalista induce Levi a muoversi in direzioni di
carattere politico, come quando parla di un possibile ritorno del fascismo, o si lancia nelle
sue campagna politico-morali sulle armi nucleari e sulla scienza. Levi presenta l'Olocausto
attraverso narrative di individui non psicoanaliticamente intesi come soggetti mossi da
pulsioni inconsce, quanto invece come archetipi di realtà storiche, come vittime, testimoni,
perpetratori, spettatori. A livello nazionale, l'Olocausto di Levi è profondamente radicato
nella politica italiana dell'antifascismo del dopoguerra. Il suo antifascismo, il suo interesse
per la resistenza di singoli individui o gruppi, riflette un paradigma italiano della Resistenza
e in particolare una visione morale, azionista della resistenza. Il confronto di Levi con la
dimensione ebraica dell'Olocausto è senza dubbio costante. Levi ha sempre posto l'accento
sulla specificità ebraica della Soluzione finale e sulla resistenza ebraica e molto fece per
apprendere e trasmettere la cultura ebraica delle vittime andata perduta. Per via di tutti
questi aspetti Levi fu tanto il sintomo quanto la causa della forma assunta dal discorso
nazionale sull'Olocausto nell'Italia postbellica.
6. Roma
La storia dell'Italia come nazione è sempre stata variegata e frammentaria, e la sua cultura
nazionale riccamente diversificata e decentrata. A differenza della Francia o della Gran
Bretagna, con le loro capitali metropolitane in grado di controllare tutto il territorio, l'Italia è
stata caratterizzata da divisioni regionali, da numerose piccole città stato e principati, con
guerre, rivalità e un forte senso di indipendenza locale. L'unificazione nel 1861 e
l'annessione di Roma capitale nel 1870 non furono sufficienti a mitigare queste continue
tensioni. Il nazionalismo del fascismo fu un tentativo di ribaltare questa coscienza nazionale
debole, tentativo che si basò su un rinnovato mito di Roma. È un'ironia della storia il fatto
che, durante la guerra, il destino dell'Italia pareva decidersi ovunque tranne che a Roma. Gli
Alleati avanzavano dal Sud, mentre i tedeschi occupavano il Centro-Nord. Ci fu certamente
anche a Roma una Resistenza urbana, ma di un genere nettamente diverso rispetto alle
bande, alle incursioni del Centro-Nord. Inoltre, il re e il successore di Mussolini, il
maresciallo Badoglio, abbandonarono Roma per fuggire in Puglia nel 1943. Tra il 1943 e il
1945 vi è l'attuazione anche sul suolo italiano della Soluzione finale, con massacri,
deportazioni e fughe disperate, internamenti e campi di concentramento, camere a gas e
convogli ferroviari. La geografia di questo Olocausto sembra principalmente concentrata su
un reticolo di città del Centro-Nord, dalle colline intorno a Torino, dal carcere milanese di
San Vittore alla Risiera di San Sabba nella periferia della Trieste occupata dai nazisti, al
campo di prigionia e transito di Fossoli in Emilia Romagna. Tutte queste località hanno
storie molto particolari e di cruciale importanza nel campo della cultura dell'Olocausto in
epoca postbellica, con la costruzione di un impegno civile e le conseguenze sulla memoria
che ne derivano. In senso tanto storico quanto simbolico, nell'Italia del dopoguerra a più
riprese Roma è tornata ad essere uno dei principali luoghi testimone delle vicende e delle
immagini dell'Olocausto. Alcune delle ragioni di questa prospettiva romacentrica non sono
difficili da intuire. La posizione strategica della città, insieme alla sua millenaria forza di
attrazione sul piano immaginario quale centro della civiltà italiana, sono tutti elementi che
hanno avuto un loro ruolo. Così come lo ha avuto la maggiore visibilità di cui fruiscono le
città capitali, anche in una nazione decentralizzata qual è l'Italia, tanto più che nel
dopoguerra i settori prioritari dell'industria culturale, stampa, cinema, televisione, avevano
sede a Roma e usavano la città come centro di produzione e fonte di storie da raccontare.
Ma c'è dell'altro: qualcosa, nelle complesse vicende di Roma tra il 1943 e il 1944, emana
uno strano fascino, qualcosa che ha la forma e la risonanza del mito, in grado di plasmare le
grandi esperienze collettive di quell'intera epoca e le loro eredità. Lo strano legame esistente
tra Roma e l'Olocausto, alla base di ciò che si può chiamare la questione romana nella
cultura italiano dell'Olocausto, trova le sue origini in una serie di eventi accaduti nella città
tra l'estate del 1943 e la primavera del 1944. Questi eventi hanno portato alla congiuntura di
almeno quattro degli assi dominanti della moderna storia e identità italiane, e ciascuno in
intersezione con la popolazione ebrea della città e con l'Olocausto: l'Italia come nazione, il
fascismo, la Resistenza e la Chiesa. Attraverso questa congiuntura, la questione romana
diventa un indicatore fondamentale di dove si collochi l'Olocausto all'interno della cultura
italiana.
Una delle traiettorie a lunga gittata delineate da questo libro è la diffusione, irregolare e
discontinua, della consapevolezza dell'Olocausto in Italia, partita dalle vittime, dai familiari
e dalle loro associazioni per poi estendersi verso la cultura e la società. Questo passaggio da
una conoscenza di prima mano a una di seconda mano, da coloro che videro a coloro che
potevano solamente immaginare, è una delle dinamiche fondamentali all'interno del campo
della cultura dell'Olocausto nel corso di numerose generazioni del dopoguerra. E lungo i
percorsi di questa storia di trasferimento dinamico, i significati sull'Olocausto passano
attraverso profondi cambiamenti. Già alcuni dei primissimi monumenti e testimonianze
avevano l'intento di costringere l'opinione pubblica a dirigere l'attenzione sulla violenza
nazista, sulle deportazioni e sui campi di concentramento. Le spinte didattiche e di
diffusione si rafforzarono intorno alla metà degli anni cinquanta. C'erano anche, sin dalle
primissime settimane e msi del dopoguerra, materiali, discorsi e immagini connessi ai campi
che circolavano senza filtri nella cultura in generale. La divulgazione delle immagini e
reportage fotografici sulla liberazione dei campi da parte degli Alleati, seguita mesi dopo dai
resoconti dei processi di Norimberga, nel 1945 aveva consolidato una serie di potenti tropi
visivi, i quali, anche se all'epoca non erano ancora strettamente connessi al genocidio degli
ebrei ma erano visti piuttosto come emblematici della depravazione nazista, perdurarono
nell'immaginario culturale glovale, diventando ampiamento riconosciuti. Pile di scheletrici
corpi senza vita, file di altrettanto scheletrici sopravvissuti con le uniformi a strisce, mucchi
di capelli rasati, di scarpe, recinzioni di filo spinato. Sia attraverso gli sforzi concertati dei
sopravvissuti, delle loro comunità e dei loro gruppi, sia attraverso la circolazione autonoma
di immagini o più verosimilmente per una combinazione fluida di entrambi questi fattori a
un certo punto, dagli anni sessanta e settanta in avanti, si ebbe un cambio di passo nella
qualità ma anche nella quantità del discorso sull'Olocausto. In parole povere, tutti iniziarono
ad avere almeno una vaga idea di ciò di cui si stava parlando quando venivano citati
l'Olocausto o i campi. La consapevolezza dell'Olocausto diviene un dato di fatti nella sfera
culturale italiana, qualcosa che fa parte del comune bagaglio culturale di chiunque, dagli
intellettuali ai ragazzi delle scuole. Questa nuova portata della consapevolezza recò con sé
nuovi utilizzi culturali. Un vocabolario apposito per parlare dell'Olocausto entrò nel
mainstream del discorso intellettuale e nel campo della cultura in generale, termini che
erano indicatori diretti di quegli eventi e siti storici. Lo stesso periodo vide pure la nascita
della cosiddetta fiction sull'Olocausto, in cui narrative di finzione utilizzavano l'aura
dell'Olocausto come sfondo, come ambientazione per storie edificanti. Per molti dei custodi
della conoscenza dell'Olocausto, coloro che erano legati agli eventi stessi, quella che
all'inizio era stata l'ardente speranza di veder nascere una consapevolezza diffusa, di fronte
all'attenzione pressochè dilagante degli anni ottanta e novanta si tramutò in amarezza,
nell'assistere a un cinico od ottuso sfruttamento dei loro traumi e a una distorsione della
storia americanizzata. Una conoscenza diffusa ma sovente superficiale o deformata di
alcune semplici date, nomi di luoghi o immagini di quella storia tendeva a sostituirsi a una
consapevolezza profonda della realtà storica che stava dietro a quei singoli particolari. È ciò
che si definisce la ''saturazione'' dell'Olocausto nella nostra cultura, un dovuto rispetto
meramente formale che prende il posto della vera comprensione. Il fastidio è inevitabile, e
lo si è visto ed espresso in dibattiti di massa per raccontare vicende dell'Olocausto, quando
coloro che più sono vicini a quelle esperienze e a quegli eventi hanno gridato allo scandalo
per tutte le semplificazioni, le lacrime facili e le redenzioni scontate. Ciò nonostante, la
storia di questo cambio è essenziale se si vuole tentare di comprendere l'emergere del ruolo
culturale dell'Olocausto, in Italia come altrove. Non si tratta soltanto di una storia di uso
eccessivo e distorto, ma anche della storia di come l'Olocausto si sia venuto integrando in
qualcosa di simile a una visione del mondo, a partire dal dopoguerra.
- Zone grigie
Il transito dell'espressione ''zona grigia'', in origine prese le mosse da un capitolo dell'ultima
serie di riflessioni sull'Olocausto di Primo Levi, I sommersi e i salvati: un capitolo cruciale,
intitolato ''La zona grigia''. Qui Levi articola il suo discorso su sfumature morali,
riconoscendo che la profonda difficoltà insita nella comprensione dell'Olocausto ha alla sua
radice un limite posto a quell'istinto verso il bianco-o-nero che tutti abbiamo in comune in
quanto esseri umani. Come già nella prefazione a Se questo è un uomo, Levi riscontra
questa tendenza universale, in quello che definisce ''l'animale-uomo'', a separare il bene dal
male, l'amico dal nemico. La zona grigia spiega che la realtà del Lager era costruita sulla
creazione di aree confuse, di indecifrabili territori di ambiguità a mezza strada fra le vittime
innocenti e i perpetratori colpevoli. Le vittime venivano degradate dal sistema e i
perpetratori colpevoli. Le vittime venivano degradate dal sistema, e i perpetratori venivano
protetti dagli effetti delle loro azioni grazie alla creazione di una vasta area grigia di
complicità, di compromesso morale e di alleviamento della sofferenza. Come Levi
sottolinea, i privilegiati erano una risibile minoranza di prigionieri, ma furono la grande
maggioranza fra i sopravvissuti. Levi passa in rassegna la miriade di ruoli assunti da quella
minoranza, ciascuno dei quali arrecava una piccola dose di potere, di sollievo dalla
sofferenza, ma anche di responsabilità. Il capitolo è costellato da digressioni finalizzate a
collegare i terribili compromessi morali, forzatamente imposti a prigionieri e guardiani dal
sistema e dai meccanismi schiaccianti di un potere totalitario. La categoria della zona grigia
è messa a nudo come un prodotto del Lager, ma offerta anche come uno strumento per
l'analisi morale di tutto l'agire umano. Levi sviluppa un'argomentazione nella quale, da una
parte, di fronte all'esistenza della zona grigia rifiuta un banale relativismo (tutti erano
colpevoli di compromessi), ma, dall'altra, riconosce che, data la natura del sistema del
genocidio nei campi, si rende essenziale un'umiltà nei nostri giudizi morali, tale da portare
forse a una sospensione del giudizio stesso: ''la condizione di offeso non esclude la colpa''.
In concomitanza con l'uscita di I sommersi e i salvati nel 1986, era appena esploso uno
scandalo politico e diplomatico internazionale: l'Austria era in procinto di eleggere un
nuovo presidente, Kurt Waldheim. Durante la campagna elettorale, emersero
nell'autobiografia di Waldheim delle lacune e delle contraddizioni concernenti la sua attività
in tempo di guerra nelle fila dell'esercito nazista, fatto che provocò controversie a livello
internazionale e nazionale. L'Austria si era costruita un mito di innocenza nazionale intorno
al presupposto di essere stata la prima vittima del nazismo, anziché un suo volonteroso
collaboratore. Più di una commissioni di storici esaminarono il caso Waldheim e giunsero
alla conclusione che non aveva preso parte ad alcuna atrocità, ma che doveva aver saputo
della loro esistenza; e che comunque i suoi silenzi erano colpevoli. Di colpo Waldheim era
giurno ad incarnare il gravoso problema storico, politico e morale di come giudicare a
quarant'anni di distanza coloro che si erano ritrovati nel sistema nazista o fascista dalla parte
dei perpetratori. La categoria leviana della zona grigia pareva ben adattarsi al caso in
questione; Waldheim era colpevole di codardia, di essere cresciuto e di essere stato
risucchiato nella generalizzata complicità dell'Austria con il nazismo, ma non era un
criminale di guerra. L'autorevole giornalista italiano Giorgio Bocca collocò Waldheim nella
zona grigia di Levi, concludendo che a nessuno dovrebbe essere negato il perdono o la
comprensione per un errore di gioventù. La migrazione nella storia italiana del concetto di
zona grigia è semicelata nella vicenda personale dello stesso Bocca. Prima di prendere
attivamente parte alla Resistenza, Bocca aveva aderito al regime fascista e aveva addirittura
accolto con entusiasmo l'antisemitismo delle leggi razziali. La richiesta di perdono per
Waldheim, per un giudizio erroneo di gioventù, era forse la richiestra di una personale
riabilitazione e un appropriarsi dell'idea della zona grigia di un modo per alleggerire le
coscienze di un'intera generazione di italiani presi in mezzo tra fascismo e anti- o non-
fascismo, in quella fase di impossibile caos storico e morale. Nel suo saggio Levi si era
concentrato sul complesso universo dei prigionieri, delle vittime, i loro privilegi e le loro
complicità. Altrove si era interessato ai loro margini di resistenza e di rifiuto del sistema; era
contrario al perdono, preferendo invece riconoscere l'umana complessità ma anche giudicare
i perpetratori come pienamente responsabili delle loro azioni. Nel contestro locale della
storiografia italiana sulla Restistenza che si estese lungo tutto l'arco postbellico, gli
equivalenti del bianco e nero di Levi, le categorie di storicamente giusto e storicamente
sbagliato, erano rinvenibili nella scissione tra fascismo e antifascismo, tra destra e sinistra.
Dopo il 1989 e il crollo della Prima Repubblica, quella polarità da Guerra fredda si
sarebbero sfilacciata e dissolte, ma anche prima di quello spartiacque, la terra di mezzo tra i
poli di fascismo e antifascismo era andata espandendosi. Il lavoro di Renzo De Felice, che
postulava una accettazione della popolazione italiana verso il regime fascista, produsse un
intenso dibattito negli anni settanta grazie al successo di vendite della sua Intervista sul
fascismo. Nella sua intervista De Felice sottolineava numerose fondamentali distinzioni,
nell'intento di definire il fenoomeno e la specificità del fascismo. Tracciava una linea netta
tra il fascismo italiano e il nazismo tedesco, inclusa l'affermazione che il razzismo fascista
fosse un elemento estrinseco importato dalla Germania nazista. Cercò di separare il
movimento fascista dal regime fascista e delineò un passaggio dal consenso dei primi anni
trenta alla frattura avvenuta alla fine di quel decennio, con le leggi razziali del 1938 a
segnare un momento cruciale di divorzio fra il regime e il popolo. Il passaggio dal consenso
al distacco era qualcosa di simile a una transizione tra sfumature di grigio. De Felice stava
operando in senso revisionista allo scopo di recuperare un quadro più sfumato e per certi
aspetti anche meno negativo del fenomeno fascista. De Felice sarebbe tornato con vigore
sulla questione della Resistenza con un altro libro intervista, pubblicato nel 1995, il cui
titolo era Rosso e nero. Accanto alle decine di migliaia di resistenti attivi e alle centinaia di
migliaia di militari di Salò o anche prigionieri di guerra, De Felice prendeva in
considerazione i milioni di italiani comuni i quali si limitarono ad aspettare che la guerra
finisse, aspettare che gli Alleati avanzassero verso la vittoria, senza schierarsi né da una
parte né dall'altra, cercando di attraversare in un modo o nell'altro il dramma in corso e di
proteggere le proprie famiglie. Era questo il fenomeno dell'attendismo, dello stare a vedere
cosa succede. Il capitolo nel quale De Felice espone la sua tesi sull'attendismo è intitolato
Una lunga zona grigia. Nel capitolo De Felice parla di una sostanziale estraneità della
maggioranza degli italiani sia nei confronti della Repubblica di Salò sia della Resistenza.
Questo portò ad elaborare una vera e propria strategia di sopravvivenza che consisteva
nell'essere amico di tutti senza aiutare nessuno, con un atteggiamento favorevole a un esito
antifascista ma timoroso di provocare delle reazioni violente. Questa ampia fascia di
popolazione era la zona grigia dell'attesismo civile in cui le scelte venivano evitate il più
possibile. Al mito della scelta etica e politica, De Felice oppone il trauma di quelle
pochissime scelte che la massa non potè evitare, in particolare le chiamate delle classi di
leva. Diversamente, la scelta predominante della maggior parte della gente fu quella di non
scegliere. In Levi, come in De Felice, il successo della zona grigia come formulazione
rifletteva uno slittamento dall'ideologia verso la moralità; e in concomitanza con quello
slittamento si affacciava un'attenzione sull'individuo o sulla famiglia e le loro scelte, o non
scelte, di fronte alla storia. Benchè nella sua formulazione originale, in I sommersi e i
salvati, Levi avesse rifiutato questo conteggio di buone e cattive azioni e benchè avesse
posto ancora molta enfasi sulla complessità morale di un individuo, la nozione di zona
grigia fu utilizzata perlopiù come un modo per guardare con apertura a scelte locali, di
determinate persone, a preoccupazioni intime, agli istinti di autoconservasione, di sottrarsi
ai pericoli. L'Olocausto era ora meno fortemente risonante come sistema, come politica
totalitaria estrema, ma molto di più come verifica ultima della moralità di un individuo. In
questa formulazione, la zona grigia è diventata una categoria pressochè ubiqua.
- Bravi italiani
I vizi nazionali, le idee stereotipate di pecche e debolezze del carattere nazionale che
necessitano di essere corrette, sono stati utilizzati come leve per la creazione e l'imposizione
di un'identità nazionale buona, alimentata da patriottiche recriminazioni per i difetti della
nazione. È un processo intrinseco al moderno nazionalismo. Il distaccato, egoistico
familismo amorale pare riflettersi alla perfezione nell'attesismo del periodo della guerra
civile. Allo stesso tempo, un altro stereotipo, questa volta positivo, uno stereotipo di virtù
nazionale, si pone in maniera competitiva e complementare rispetto al vizio nazionale della
zona grigia. Visto attraverso le lenti ottimistiche della virtù, il naturale scetticismo degli
italiano verso l'autorità, verso la tirannia dello stato e verso il sistema giuridico, unito a
un'empatia umana verso i propri simili portò a una spontanea resistenza alle peggiori
persecuzioni fasciste, razzismo incluso, a un istintivo impulso a opporsi al dogma o a
ignorarlo, semplicemente andando avanti e riuscendo a farcela senza lasciarsi contaminare.
In quest'ottica, il consenso diventa una forma di mantenimento dell'autonomia, segno di
un'innata capacità del vivere civile in grado di resistere al fascismo. È questa la radice del
mito del bravo italiano, della nozione di italiani brava gente. Una recente importante ricerca
di Filippo Focardi e altri ha mostrato come la moderna espressione di quest'idea del bravo
italiano abbia le sue radici in una strategia diplomatica degli anni quaranta nell'ambito della
nascente repubblica italiana. Mosso dal desiderio che l'Italia venisse accolta come alleata
delle democrazie occidentali, come membro delle Nazioni Unite, il governo italiano
intraprese una strategia diplomatica per distanziare il fascismo italiano dal nazismo tedesco,
per far emergere atti individuali di coraggio italiano, tra cui l'aver aiutato e soccorso ebrei e
altre persone, anche prima della caduta del regime di Mussolini. In altre parole, il popolo
italiano onesto e rispettabile, era presentato come se fosse stato diffamato dal male incarnato
dal regime che lo aveva governato e oppresso. Posta in contrasto con l'immagine del bravo
italiano era la controimmagine, attinente sempre al carattere nazionale, dell'irredimibile
cattivo tedesco; come spiega Focardi, le due erano una coppia di immagini stereotipe che si
definivano a vicenda, l'una basandosi sull'altra allo scopo di operare una distinzione storica,
morale e dunque politica. La linea di interpretazione di De Felice: il popolo, le persone,
devono essere trattati come entità agenti in modo separato dallo stato, e di conseguenza
anche giudicati in modo separato. Quando negli anni ottanta la pubblica attenzione per
l'Olocausto andava prosperando, la forza narrativa e consolatoria dei racconti sui bravi
italiani fece sì che il mito diventasse una caratteristica preminente nel campo culturale che
andava espandendosi in molteplici direzioni. Un prodotto che risultò cruciale nel
promuovere questa narrative in parte storica in parte mitica del bravo italiano, utilizzandola
come la spiegazione del ruolo dell'Italia e degli italiani nell'Olocausto, fu il documentario
televisivo Il coraggio e la pietà, realizzato da Nicola Caracciolo. Egli dichiarò che il suo era
un lavoro mirato a dimostrare un'ipotesi secondo la quale gli italiani negli anni della guerra
sono rimasti immuni da quella spaventosa ''epidemia psicologica'' che è stato
l'antisemitismo, perlomeno nella sua variante nazista e omicida. Il resto dell'introduzoone di
Caracciolo è una lettura positiva del ruolo svolto dagli italiani nel salvataggio di ebrei: il
governo fascista fu il protettore degli ebrei; nessun reparto dell'esercito italiano prese parte
agli orrori del genocidio. Non è forse una coincidenza, tuttavia, che il periodo che produsse
l'apologia di Caracciolo e l'imporsi dell'idea defeliciana di fascismo produsse anche l'inizio
di una forte reazione contro il semplicismo dello stereotipo del bravo italiano. In termini
storiografici, il contraccolpo iniziò dopo il 1988 con un nuovo filone di studi
sull'antisemitismo fascista, in cui l'interrogarsi sul mito del bravo italiano assunse un ruolo
centrale. Tornando nello specifico all'Olocausto, per coloro che negli anni ottanta e in
seguito si sentivano più investiti del ruolo di custodi della memoria, l'imperativo era ora
quello di considerare la specificità storica e morale delle colpe e delle persecuzioni italiane,
per evitare che la natura realmente orribile della persecuzione razziale fascista venisse
occultata dal confronto con il debordante equivalente nazista. Sintomatico di ciò è stato lo
storico michele Sarfatti in contrasto con i distinguo e le fratture operate da De Felice.
Intersecandosi con la questione della zona grigia, i due modelli interpretativi di De Felice e
di Sarfatti guardano in maniera radicalmente diversa alla scelta di soccorrere o aiutare gli
ebrei. Per il primo, questa scelta denota un certo grado di civiltà sociale come aspetto del
carattere, ma anche una distanza dall'ideologia fascista e un istinto di stringersi l'un l'altro e
resistere alla violenza della guerra; per il secondo, invece, quella di aiutare gli ebrei è una
scelta altrettanto forte e attiva della scelta del vecchio mito della Resistenza, la scelta di
combattere i nazifascisti, tanto nella lotta armata quanto nella lotta civile. Il contrastato
terreno di bravi italiani e zone grigie tornò alla ribalta con la riscoperta di un'altra storia di
aiuto prestato agli ebrei, quella di Giorgio Perlasca. Egli era sia bravo che grigio, e nel suo
eroismo, nella sua ambiguità, nella sua incertezza incarnava molte delle istanze di moralità,
identità e carattere nazionale che negli anni ottanta e novanta circolavano intorno agli
stereotipi della zona grigia e del bravo italiano. Era stato un fascista convinto, ma non un
antisemita, anzi fu ostile all'antisemitismo nazista e fascista, fu un patriota. All fin fine
Perlasca è italiano proprio per via del suo confuso, ma umano, senso di ciò che è giusto. Gli
stereotipi gemelli della zona grigia e del bravo italiano si uniscono in un sorprendente
amalgama culturale. Pavone suggerisce un nesso diretto tra i due luoghi comuni: dalla zona
grigia escono sicuramente i più convinti assertori del mito della bontà degli italiani. Per
quanto in apparenza opposti, i due stereotipi sono strettamente legati l'uno all'altro. Questi
due clichè diventano emblematici del fatto che la storia sia spesso vista come un qualcosa
che si determina a livello dell'esperienza individuale e di personali qualità del carattere. Gli
individui comuni hanno agito spinti dalle proprie multiformi motivazioni, ben distinte da
sistemi e strutture. E l'Olocausto costituisce la vicenda più moralmente impegnativa rispetto
alla quale narrare questa storia, il miglior terreno di prova per il carattere nazionale.
9. Linee transnazionali
Questo libro studia le singole storie nazionali di risposta all'Olocausto. Considerato nel suo
insieme, questo campo di ricerca fornisce un panorama composito della ricezione
dell'Olocausto quale fenomeno sovranazionale, dell'impatto che ha avuto in una vasta
gamma di scenari nazionali, e di come sia giunto in tutto il mondo attraverso varianti fino ad
arrivare a trasformarsi in consapevolezza culturale. Da questo raggio d'azione globale deriva
anche la capacità di eventi come l'Olocausto di agire non solo a livello sovranazionale, in
termini storici e culturali, ma anche come fenomeni universali, con lezioni da impartire sulla
natura del genere umano, sulla mente e sul corpo umani, sul funzionamento della violenza,
della colpa, della moralità, della responsabilità. Esiste, tuttavia, uno spazio intermedio tra il
nazionale e il sovranazionale, il quale potrebbe spiegare in che modo quegli altri due
entrano in contatto e interagiscono. Si può chiamare questo spazio ''transnazionale'', un
termine che allude ai modi fluidi in cui l'Olocausto, nonché il linguaggio e l'immaginario
che lo circondano, hanno valicato i confini culturali nazionali, sono stati declinati e assorbiti
in maniere peculiari in ciascun contesto locale, hanno plasmato nuove rappresentazioni e
risposte che sono poi a loro volta migrate all'esterno in altre culture.
- America
Le linee transnazionali di connessione fra la cultura italiana e le connessioni americane è di
natura più espressamente culturale. Vi è una consolidata analisi dell'esplosione di un
interesse verso l'Olocausto e di una sua memorializzazione che vede non solo un netto
incremento di attenzione in termini quantitativi, ma anche, sotto il profilo qualitativo, un
rimaneggiamento dell'Olocausto in tinta americana. Eventi mediatici globali in stile
hollywoodiano come Olocausto e Shindler's List; l'istituzione di un gran numero di
memoriali e musei americani sull'Olocausto; gli sforzi condotti a partire dagli anni novanta
da vari enti americani per appoggiare le richieste di risarcimento delle vittime
dell'Olocausto: questi e altri fattori hanno portato a una critica dell'americanizzazione della
cultura dell'Olocausto. E sebbene la più forte evidenza dei questa americanizzazione si
ritrovi in un periodo che inizia con gli anni novanta, è chiaro che alcuni segnali di
appropriazione e mediazione culturale americana si erano manifestati già molto tempo
prima: per esempio, la notorietà del Diario di Anna Frank entrò per la prima volta nella
consapevolezza di un pubblico di massa attraverso la riduzione teatrale di Broadway e poi
con l'adattamento cinematografico di Hollywood, rispettivamente nel 1955 e nel 1959.
Possiamo prendere in esame tre esempi di lavori italiani sull'Olocausto che sono penetrati
nella cultura globale dell'Olocausto grazie a un incontro iniziale con l'America, in un
processo a tre fasi: Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmuller; l'opera di Primo Levi negli
anni ottanta; e i due principali film italiani sull'Olocausto degli anni novanta, La tregua di
Francesco Rosi e La vita è bella di Roberto Benigni. Pasqualino Settebellezze occupa nella
cultura intellettuale americana un'importante nicchia nello sviluppo del dibattito sulla
rappresentazione dell'Olocausto, sulla cultura di massa e sull'istinto umano per la crudeltà e
per la sopravvivenza. Giunse a ciò anche grazie alla fascinazione suscitata negli Stati Uniti.
Quest'atmosfera di grande favore, e il fatto che fosse un film sull'Olocausto, tema che stava
in quel momento ponendosi al centro della sfera culturale e intellettuale americana, furono i
due elementi che portarono all'eccezionle nominationa quattro Oscar, comprese la prima
nomination di una dona come migliore regista per Wertmuller. Il film di Benigni alla fine
degli anni novanta suscitò un polemico dibattito intorno all'accettabilità del suo registro
comico-grottesco nel rappresentare i campi di concentramento. Bruno Bettelheim espresse il
proprio disagio nei confronti del film per come descriveva i meccanismi psicologici di
adattamento e sopravvivenza. In contrasto con Bettelheim, Terence Des Pres difese la
funzione di commedia e il grottesco del film, aprendo un dibattito fra modalità di sobrio
realismo e testimonianza, da un lato, e distorsione formale e reimmaginazione comica,
dall'altro. Un'ambivalenza si rende evidente nel caso di Primo Levi in America. A partire
dalla metà degli anni ottanta, la considerazione di Levi negli Stati Uniti subì una notevole
trasformazione. A seguito della traduzione inglese del Sistema periodico, la sua fama
americana salì alle stelle e di conseguenze divenne internazionale. Levi si sentiva a disagio
verso taluni aspetto della sua ricezione americana. Si sentiva travisato nell'essere connotato
quale scrittore ebreo. Fu dunque significativo e irritante il fatto che, quando uscì in
traduzione inglese Se non ora, quando?, Levi venisse attaccato da voci dell'elite intellettuale
ebreo-americana di stampo conservatore per non sottoscrivere appieno l'unicità ebraica
dell'Olocausto, e per mostrare scarsa sensibilità. In un deliberato travisamento, Levi era
stato americanizzato come un determinato tipo di figura ideale del sopravvissuto, solo per
venire poi biasimato per non essere all'altezza dell'ideale. Il Levi universalista si è scontrato
negli Stati Uniti con una concezione connotata in senso ebraico dell'Olocausto e della sua
unicità. Levi, malgrado tutto ciò, fu idolatrato in America e rimane una delle figure più
influenti e un costante punto di riferimento nel discorso intellettuale sull'Olocausto, oltre
che un'importante personalità in campo letterario. I casi di Wertmuller e Levi possono essere
utilizzati per situare e spiegare la vicenda dello scambio transnazionale fra Italia e America
rappresentato da La vita è bella di Benigni. Quest'ultimo si conquistò un successo
straordinario: uscito in Italia nel dicembre 1997, vinse numerosi premi, sospinto sia dalla
notevole fama di Benigni quale attore comico di culto sia dalla grande popolarità goduta
negli anni novanta dalle vicende sull'Olocausto. Diventò il film sottotitolato che riscosse il
maggiore successo fra tutti quelli usciti in America. Nell'ottobre di quell'anno, La vita è
bella era divenuto il film italiano di maggior successo di tutti i tempi. Tanto il successo del
film quanto la bufera di critiche che scatenò procedettero in parallelo con quanto accaduto
nel caso di Pasqualino Settebellezze. Molti si schierarono contro il film. Ci si domandò se
fosse proprio necessario ambientare il racconto in un campo di concentramento, trattandosi
più che altro di un film generico sull'amore familiare in una situazione estrema, una
parabola universale sull'umanità. Come avvenuto a Levi e Wertmuller, Benigni fu coinvolto
in una complessa operazione culturale transnazionale: idoleggiato e stigmatizzato nella sua
ricezione americana; ammirato per il suo essere europeo, e poi criticato da un'elite
intellettuale per questa sua trasformazione della conoscenza seria dell'Olocausto.
- Europa
Nel parlare di Pasqualino Settebellezze e della sua ricezione negli Stati Uniti come
fenomeno culturale, uno dei fattori citati per spiegarne il successo e la capacità di porsi
come lavoro sperimentale in grado di spezzare dei tabù era la sua appartenenza a un certo
tipo di cinema d'autore europeo, in particolare per i temi affrontati e i riferimenti espliciti
alla sessualità. La maniera in cui la cultura italiana dell'Olocausto attinge da una cultura
europea d'insieme dell'Olocausto è un'altra cruciale interazione transnazionale che merita di
essere presa in considerazione. Un quadro europeo dell'Olocausto è lungi dall'essere la mera
somma di una serie di relazioni binarie fra l'Italia e altri singoli paesi europei. A un livello
inferiore, esiste un elemento europeo transnazionale identificabile in certe traiettorie
autoriali personali, in certe condizioni di produzione e collaborazione culturale. Un esempio
di ciò potrebbe essere la carriera cinematografica di Gillo Pontecorvo, il cui primo lavoro,
Kapò, contrassegnò una soglia fondamentale in quanto fu uno dei primi di una serie di film
prodotti nell'Europa occidentale che direttamente presentavano e narratizzavano il genocidio
ebraico. Il film fece ricorso a un cast internazionale, largamente europeo, con una star
americana, Susan Strasberg. L'attrice era già una figura molto nota nell'ambito della cultura
internazionale dell'Olocausto, ave ndo interpretato Anna Frank nell'adattamento teatrale di
Broadway del diario. Pontecorvo girò pochi film nei successivi vent'anni, ma è significativo
che i suoi principali quattro lungometraggi di quel periodo si basassero sulla stessa
dimensione europea e transnazionale di Kapò, facendo rientrare il film e l'Olocausto che
ritrae in quello che si può chiamare un gruppo multidirezionale di argomenti, in cui vengono
indagate e spiegate storie europee di politica, potere, persecuzione e resistenza violenta nelle
loro più svariate forme. Altre dimensioni dell'europeità sono presenti nella cultura del XXI
secolo. Una dimensione europea è presente nel film documentario del 2006 La strada di
Levi, diretto da Davide Ferrario. Ad interessare, qui, non è tanto un'ulteriore dimostrazione
dell'influenza filtrante di Levi, quanto piuttosto l'ottica geografica e storica creata da questa
operazione filmica. Il documentario ripercorre il viaggio di ritorno a casa di Levi, da
Auschiwitz a Torino, nel 1945. Ma, nell'Europa del 2005, questo significa attraversare i
paesaggi totalmente trasformati, in parte tragici, in parte grotteschi, dei paesi dell'Est
europeo post-sovietico. In altre parole, lo scenario postbellico di Levi, di caos primigenio e
di ritorno diventa struttura portante per leggere cinque decenni e più di storia europea. Su un
piano istituzionale, qualcosa della dinamica presente nella Strada di Levi si rispecchia negli
sforzi collettivi europei di costruire una struttura sovranazionale ufficiale per la
commemorazione dell'Olocausto. Il più importante esempio di ciò che fu la Task Force per
la cooperazione internazionale in materia di istruzione, memoria e ricerca sull'Olocausto che
sfociò nella Dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull'Olocausto del
gennaio 2000, un'iniziativa svolta per promuovere forme appropriate di memoria. Questa
serie di iniziative incentrare sull'Europa cementarono a livello istituzionale la funzione
dell'Olocausto quale mito fondante negativo dell'identità e dell'assetto civile dell'Europa
postbellica.
- Traduzione
La traduzoone, la trasposizione letterale e metaforica di parole, idee e immagini tra
differenti paesi, è un fenomeno pervasivo nella rete di trasmissione transnazionale della
conoscenza dell'Olocausto nel mondo uscito dal conflitto mondiale. Tre esempi di
importazione in Italia di linguaggi e testi stranieri che hanno costituito dei passaggi chiave
nella formazione del campo della cultura dell'Olocausto.
- La traduzione di Meneghello
Il periodo che va dall'inizio alla metà degli anni cinquanta, benchè da molti descritto come
una fase di silenzio dell'Olocausto, registrò parecchie importanti eccezioni a questa regola.
Nel 1953 si verificò un caso alquanto insolito nel campo della storiografia, con formidabile
risonanza per la questione della traduzione: tre lunghi articoli di Luigi Meneghello usciti
sulla rivista di Olivetti ''Comunità'', che esponevano, per la prima volta in italiano, un sintesi
della storia della Soluzione finale. Meneghello lavorava nel Regno Unito e questi suoi
contributi a Comunità firmati con lo pseudonimo Ugo Varnai, giunsero sotto forma di
recensioni a opere di politica, storia e letteratura uscite in inglese. Gli articoli di Meneghello
erano un inconsueto mix di recensione, riassunto, selezione, traduzione riorganizzazione, a
cui si può anche aggiungere elaborazione visiva, dato che lo stesso Meneghello rintracciò
nella stampa e nelle biblioteche britanniche una serie di mappe e di impressionanti immagini
fotografiche da pubblicare accanto ai suoi articoli. La trasmissione linguistica dall'inglese
all'italiano è essa stessa un primo importante esempio di traduzione storiografica e di
diffusione della consapevolezza dell'Olocausto. Per Meneghello, questo rappresentava
anche un consapevole atto di seria divulgazione didattica. Il ruolo italiano nella Soluzione
finale, a cui Meneghello dedica particolare attenzione, si basa sull'eccezionale lavoro di
raccolta di materiali e prove nell'ambito della comunità ebraica e di gruppi sopravvissuti. Un
lavoro che alimenterà la conoscenza archivistica italiana sull'Olocausto. La rete di
trasmissione e traduzione culturale è dunque ampia e multilingue, si muove tra italiano,
francese e inglese, a diverse fasi di genesi, pubblicazione e traduzione/sintesi.
- Non-traduzione. ''Shoah''
Le questioni linguistiche plasmano in maniera diretta certe concenzioni dell'Olocausto
semplicemente grazie al passaggio attraverso confini culturali e linguistici di singole parole
atte a nominare ciò che accadde agli ebrei europei e ad altri gruppi etnici sotto il nazismo. A
cogliere l'evento, nuovi termini sembrano più adatti a svolgere quel compito: nomi di luogo
e sostantivi generici, in molti casi tradotti o traslitterati da lingue straniere. La storia della
nominazione del genocidio è complessa e importante. Uno dei principale storici del
fenomeno, Anna-Vera Sullam Calimani, ha tracciato la comparsa e le tensioni esistenti in
una variegata rosa di termini possibili, Shoah, catastrofe o disastro, deportazione, Lager,
genocidio, Soluzione finale, Auschiwitz. Il caso più particolare per il suo impatto avuto in
Italia a partire dagli anni novanta, e per prestarsi a illustrare un processo, che si può definire
di non-traduzione, ovvero l'importazione e l'assimilazione di terini stranieri tali e quali, è
quello della parola ebraica Shoah. Vocabolo comune per indicare catastrofe o disastro,
derivato dall'ebraico biblico, Shoah era in uso in Israele nei documenti ufficiali e nel
discorso pubblico già alla metò degli anni quaranta. La parola assunse un nuove vigore in
quanto nome prescelto da coloro che erano più vicini agli eventi dell'Olocausto, i suoi
custodi. Eppure, in inglese come in molte altre lingue, il termine Olocausto rimane di gran
lunga quello dominante. Il caso italiano è una sorprendente eccezione. In Italia, a
cominciare dalla fine degli anni novanta, Shoah ha uguagliato e superato Olocausto,
divenendo adottato nella stampa nazionale, riconosciuto e persino ufficiale per indicare il
genocidio nazista degli ebrei. Shoah fu la denominazione utilizzata nella legge del 2000 che
istituiva il Giorno della Memoria, la cui finalità essenziale è quella di ricordare la Shoah. Il
prestito lessicale di Shoah rivendica e riafferma il carattere e il contenuto ebraico
dell'Olocausto. La scelta del termine ebraico Shoah, per contro, rischia di escludere dal
quadro altri genocidi: è arduo sostenere che rom, omosessuali, slavi e altre vittime
dell'epuraziona nazista siano adeguatamente rappresentati dal termine ebraico. Accanto alla
connotazione ebraica c'è anche la questione generale del suo essere una parola straniera, che
in quanto tale indica un qualcosa di estraneo, che richiede traduzione e spiegazione. Inoltre,
una parola ebraica è anche una parola non italiana, a sottintendere che il genocidio non
faceva parte della storia italiana e poteva serenamente essere rispettato in quanto catastrofe
che non era stata nostra. L'aumentato utilizzo del termine Shoah finiva per coincidere anche
con una tendenza, quella di collocare per la prima volta la complicità italiana al centro
dell'Olocausto e l'Olocausto al centro delle narrative nazionali del fascismo e della guerra.
Queste associazioni, la Shoah come un evento specificamente ebraico, ma insieme a questo
anche un evento italiano, furono colte al meglio da un'emblematica affermazione di Furio
Colombo: ''la Shoah è anche un delitto italiano''. La tesi di Colombo era che vi fossero state
delle specifiche vittime italiane e degli specifici perpetratori italiani di questo delitto, che la
storia ebraica e la storia italiano si fossero intersecate. Un analogo modello di associazione è
rinvenibile nella giustapposizione di Shoah a termini indicanti altri genocidi e altre storie di
catastrofi. In una fase di meticciato linguistico come quella che ha caratterizzato la fine del
Novecento, Shoah va a collocarsi accanto a tutta una serie di altri termini in uno spettro
lessicale translinguistico che designa eventi storici estremi, in cui si intrecciano massacri
tribali, pulizie etniche, campi della morte. C'è nell'utilizzo di Shoah una nuova modulazione
che tende alla dimensione universale dell'Olocausto, rimandando a forme di pietà o di
liturgia. Un'influenza cruciale dell'adozione del termine Shoah, in Italia come altrove, è stato
il suo impiego in una serie di pronunciamenti papali. Giovanni Paolo II dichiarava che la
Shoah rimana un'indelebile macchia nella storia del secolo che si sta concludendo.
- Il monumento internazionale
Il Comitato internazionale di Auschiwitz fu costituito nel 1952 da un gruppo
internazionalista composto da ebrei sopravvissuti. Il Comitato indisse un concorso per
progettare un monumento ufficiale da erigersi ad Auschiwitz, dove la ferrovia arrivava
all'interno del campo trasportando vittime proveniente da tutti i paesi dell'Europa occupata.
In merito a tale concorso vi è il singolare fatto che, dei setti progetti selezionati, tre erano di
gruppi italiano, insieme a tre polacchi e uno della Germania Ovest; e dei tre finalisti, due
erano italiani. I sei architetti e artisti italiani coinvolti in questa fase finale del concorso
erano giovani sconosciuto, e questo è già di per sé un segnali indicativo del crescente
interesse non solo nei testimoni diretti verso la memorializzazione dell'Olocausto, oltre che
della grande vitalità e del prestigio internazionale dell'architettura. Il nucleo del loro
progetto era costituito da 23 blocchi a forma di vagoni ferroviari, i quali rappresentavano le
23 nazionalità dei deportati, condotti ad Auschiwitz da tutta Europa. L'altro gruppo romano
aveva elaborato un progetto che prevedeva un lungo percorso tagliato nel terreno del campo,
il quale conduceva a una grande piattaforma su cui sarebbero state poste delle sculture, e da
cui erano visibili i forni crematori. L'incontro della giuria avvenne a Roma, al quale fece
seguito una mostra dei progetti vincitori. Tale giuria fu presieduta dal critico e storico
dell'arte italiano, già esule antifascista, Lionello Venturi. La mostra esponeva le piante dei
progetti vincitori con la dichiarazione originale del progetto per il monumento. Il gran
numero e la varietà degli organismi sostenenti la causa dell'Olocausto dimostrano un
riconoscimento quanto meno superficiale dell'Olocausto quale evento della massima
importanza, e di Auschiwitz quale suo simbolo fondamentale. A riunirsi intorno
all'Olocausto rivendicandone la proprietà, a promuovere questo progetto architettonico
internazionale con una così forte predominanza italiana, è una coalizione antifascista di
intellettuali, politici e gruppi di ex partigiani. Inizialmente non si riuscirono a raccogliere
fondi sufficienti a finanziare la costruzione del monumento. In altre parole, questo rispetto
per l'Olocausto manifestato dall'associazionismo e da certe elite in realtà non era ancora
penetrato così in profondità. La risposta contenuta, da parte del pubblico e della stampa alla
mostra su Auschiwitz, si pone in contrasto con le reazioni suscitate da un'altra esposizione
allestita a Roma quasi in concomitanza. Si trattava della tappa romana della mostra
itinerante sui campi di concenteamento che aveva esordito a Carpi nel 1955. Le più di
ottocento fotografie esposte, tra cui molte immagini della liberazione dei campi che erano
abbastanza inedite e la ricostruzione narrativa delle deportazioni italiani, dalle leggi razziali
fasciste ai processi di Norimberga, generarono una risposta molto più imponente e viscerale.
Si venne quindi a creare un nuovo processo di consapevolezza culturale, nazionale,
popolare.
- Il padiglione nazionale
Il padiglione italiano ad Auschiwitz fu aperti il 13 aprile 1980, con il titolo ufficiale di
Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazista. Come nel caso del
monumento internazionale, la rete associazionistica e l'attività diplomatico-burocratica
disegnano una mappa dei componenti coinvolti tale da fornire un'immagine delle
intersezioni dell'Italia con l'Olocausto. Anche sotto questo aspetto, nel caso del monumento
internazionale, vi furono continui problemi sia con le autorità polacche sia all'interno degli
organismi organizzativi. Ma il risultato fu un eccezionale, benchè poco visitato e presto
ridotto in stato di abbandono, prodotto corale della raffigurazione italiana dell'Olocausto. La
negligente manutenzione del memoriale avrebbe contribuito a far nascere una controversia
pubblica. Il dibattito verteva su un interrogativo: se cioè una concezione e raffigurazione
nazionale dell'Olocausto maturata negli anni settanta potesse davvero rappresentare la forma
collettiva dell'idea contemporanea di Olocausto. Di fronte alle condizioni di degrado del
monumento, De Luna definiva il padiglione come un vecchio prodotto del paradigma
storico e morialistico derivante dall'antifascismo del dopoguerra, così vecchio da essere oggi
quasi incomprensibile per i visitatori, specialmente i giovani, poco attento alla specificità
ebraica della Shoah, e invocava una completa e radicale ristrutturazione del blocco. Fece
seguito, un gruppo di giovani storici dell'arte e restauratori per la storia della Resistenza
predisposero, in collaborazione con l'ANED, un progetto per la salvaguardia del memoriale,
da essi ritenuto un'opera di importanza storica e culturale. I giovani a favore della
conservazione obiettarono all'appello di De Luna. Si opponevano inoltre all'idea che era
stata vagheggiata di trasportare in blocco il memoriale da Auschiwitz per ricostruirlo a
Milano.
- 1986/89
Tre eventi hanno segnato la fine degli anni ottanta come punto di svolta nelle risposte
all'Olocausto nella lunga epoca postbellica. L'aprile del 1986 vede la pubblicazione del libro
di Primo Levi I sommersi e i salvati, sorta di summa delle riflessioni di una vita sulla Shoah
destinata a diventare un'opera che avrebbe influenzato i successivi studi sul genocidio,
cementando la reputazione di Levi come uno dei testimoni dell'Olocausto più ammirati di
tutto il mondo. Un anno più tardi, Levi muore e le reazioni alla sua morte sono estese e
intense, e negli anni seguenti, in Italia, il suo profilo e la sua fama sia di testimone sia di
scrittore crescono ulteriormente. La cultura della memoria fu in grado di attingere all'aura di
una figura come Levi per il resto del secolo e oltre. L'anno dopo la morte di Levi, il 1988,
vide una serie di iniziative accademiche, pubbliche e finanziate dallo stato organizzate in
occasione del 50esimo anniversario delle leggi razziali antisemitiche promulgato dal
fascismo nel 1938. Dal 1988, l'attenzione della storiografia e del pubblico in generale verso
un razzismo specificamente italiano si fece più marcata e diffusa. Questo portò a una serie di
ribaltamenti negli assunti di fondo inerenti alla politica razziale del fascismo sostenuti sino a
quel momento: in particolare i vari tentativi volti a retrodatare le origine dell'antisemitismo
italiano a periodi o circostanze anteriori al 1938, individuandole nelle imprese coloniali
degli anni venti e trenta, o nelle antiche tradizioni cattoliche antisemitiche. Un'ulteriore
novità fu la prima accurata ricerca sulla rete dei campi di internamento fascisti per ebrei
situati nel Sud Italia, che erano stati quasi del tutto dimenticati. Si trattò di un momento
cardinale in un processo che avrebbe rovesciato l'ottica dominante nella storiografia del
dopoguerra così come la percezione comunementi condivisa del passato fascista: anziché
vedervi un regime totalitario a cui nel 1938 era capitato di dover aderire a un antisemitismo
che non gli apparteneva, dal quale, secondo De Felice, il popolo italiano aveva preso le
distanze, in molti iniziarono a cogliere la vera essenza del fascismo nella sua fase
antisemitica, nelle leggi razziali. Infine, il 1989 registrò un momento di cesura nella storia
europea e mondiale, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, eventi
che determinarono il tramonto dell grandi ideologie e un periodo di ottimismo e incertezza
al tempo stesso. Di tutte le conseguenze dilaganti di questo momento di rottura, almeno due
ebbero ricadute dirette sulla consapevolezza dell'Olocausto. In primo luogo, il 1989 mostrò
le immagini atroci e le realtà di un nuovo sterminio di massa, proveniente dai conflitti in
atto nella ex Jugoslavia. Quest'ultima manifestava un ritorno a un'era di genocidio che
richiedeva di guardare indietro all'Olocausto per decifrare il presente. Il 1989 e la fine della
Guerra fredda determinarono in Italia conseguenze politiche rapide e profonde. La
Democrazia cristiana, il Pci, il Psi, il partito neofascista, nei primi anni novanta tutti si
dissolsero, lasciando spazio a nuove formazioni partitiche, come la Lega Nord e il fenomeno
politico-mediatico di Forza Italia di Silvio Berlusconi, inaugurando così una fase che si può
denominare ''postantifascismo''. Apparvero resoconti e interventi sulle uccisioni per
rappresaglia compiute dai partigiani nei primi mesi del dopoguerra, e che esprimebano i
risentimenti locali repressi contro i partigiani per aver causato i massacri e le rappresaglie
dei nazisti e per aver resistito contro di essi. In questo contesto, l'Olocausto assunse un ruolo
sorprendentemente nuovo, visto come uno dei pochi ambiti rimasti di chiarezza morale che
legassero la storia al presente, un punto di riferimento saldo. Dopo il 1989, parlare di
Olocausto in Italia ed essere considerati sensibili all'argomento, anzi orientare su di esso i
propri valori fondanti, tanto per i postantifascisti che per i postfascisti, era pressochè di
rigore.
- 1997
Gli anni che seguirono il 1989 videro una profusione di materiali culturali di ogni genere
sull'Olocausto, e in particolare sulla storia italiano dell'Olocausto dalle leggi razziali fasciste
alla Repubblica di Salò. Era presente una diffusa tendenza: l'attenzione ai singoli casi, alle
narrazioni di esperienze locali, tipica di questa fase della cultura dell'Olocausto. In questo
senso, un caso di successo fu il libro del giornalista italo-americano Alexander Stille Uno su
mille, del 1991, che narra le vicissitudini di cinque famiglia ebraiche, molto diverse fra loro,
durante il fascismo. La tendenza giunse all'apice alla fine degli anni novanta, quando una
serie di film, libri, eventi pubblici legati all'Olocausto portarono il genocidio nazistra, il
razzismo e l'antisemitismo al centro del discorso pubblico, culturale e politico. Però come
Levi nei suoi ultimi anni, anche altri scrittori-testimoni attivi da lungo tempo mostravano
segni di fatica: Edith Bruck pubblicò una nuova riflessione sul proprio ruolo di pubblico
servizio in quanto sopravvissuta all'Olocausto. Signora Auschiwitz evoca le lacerazioni
psicologiche implicate dal ruolo di testimone, un ruolo che la costringeva a rivivere
quotidianamente il proprio trauma di fronte all'impossibilità di essere compresa da una
scolaresca, eppure ben consapevole che la scelta di non prestare testimonianza, la scelta di
dimenticare, non fosse una scelta praticabile. Tracce di questa problematicità erano presenti
nella difficoltà di trovare un linguaggio adeguato, ma ora Bruck si sente inceppata in un
altro mondo, davanti a un uditorio che non ha la minima idea di cosa sia quello che lei deve
dire, e che tortura rappresenti per lei ogni volta che lo dice. La diffusione pervasiva del
discorso sull'Olocausto rischia dunque di diventare inversamente proporzionale alla sua
effettiva comprensione. Questo fu un cruciale momento di scambio generaato dalla
traduzione in italiano di libri pubblicati all'estero. In campo storiografico, furono tradotti in
questo periodo tre essenziali studi scritti in lingua inglese. Il primo era La distruzione degli
ebrei d'Europa di Raul Hilberg, il secondo Uomini comuni di Christopher Browning, che
esaminava la questione di come un reparto di poliziotti tedeschi fosse stato indotto a
compiere le atroci violenze e uccisioni richieste dallo stato nazista. Un'altra significativa
traduzione di Einaudi fu Auschiwitz spiegato a mia figlia di Annette Wieviorka, che
segnalava l'emergere di una nuova retorica pedagogica incentrata su sintesi, spiegazione e
riflessione, esso era pensato come libro rivolto ai bambini, ma non era affatto solo per
bambini. Nel 1997, si trova una notevole concentrazione di romanzi dedicati alla Shoah,
come ad esempio Canone inverso di Maurensig con accenni all'Olocausto, oppure la saga di
Lia Levi sulle vicende di una famiglia ebraica sotto il fascismo, Tutti i giorni di tua vita,
oppure ancora Campo del sangue di Eraldo Affinati, il resoconnto di un viaggio, compiuto
dall'autore per gran parte a piedi, da Venezia ad Auschiwitz sulle orme della deportazione.
- 2001
Fra la miriade di attività degli ultimi anni novanta si ebbe anche l'esordio della campagna
portata avanti dall'ANED e da altre associazioni di deportati, per istituire in Italia una data
di commemorazione ufficiale dell'Olocausto. L'istituzione di questo evento ha segnato il
culmine dell'ingresso dell'Olocausto nella vita pubblica italiana, inserito a pieno titolo nel
calendario ufficiale del rituale nazionale condiviso. La legge 211 fu promulgata il 20 luglio
2000. Almeno due altre proposte di legge erano in circolazione, proveniente sia da sinistra
che da destra, a indicazione dell'ampio consenso politico maturato intorno al progetto di
istituire una ricorrenza memoriale così come della competizione politica per assumerne la
paternità. Il testo definitivo che è stato approvato è noto anche come ''leggo Colombo-De
Luca''. L'unico segna di dissenso formale furono quattro astensioni. Innanzitutto c'è la
questione della responsabilità italiana. Malgrado le responsabilità siano dichiarate
all'articolo 1, numerosi elementi della legge agiscono nel senso di deitalianizzare gli eventi
commemorati, a iniziare dal nome scelto per la ricorrenza stessa: ''Giorno della Memoria'' è
neutro e universalista. Anche la data, il 27 gennaio, è distintamente internazionalista,
radicata nel simbolismo universale di Auschiwitz, con poco di specifico italiano. Inoltre
nella legge si identifica il luogo di sofferenza delle vittime dell'Olocausto con i campi
nazisti, senza alcun riferimento né alla collaborazione italiana né ai campi situati sul
territorio italiano. Infine, la legge pone enfasi sul ricordo delle vittime anziché delle
responsabilità, aggiungengo uno scarto che alleggerisce la colpevolezza italiana. In secondo
luogo, c'è una questione di bilanciamento. Nel dibattito, gli obiettori volevano a tutti i costi
collocare il ricordo dell'Olocausto in parallelo al ricordo delle vittime del comunismo
novecentesco; vittime di tutte le ideologie oppressive prima. Questa spinta verso una
memoria pareggiata avrebbe portato nel 2005 a sancira una commemorazione rivale, per le
vittime della violenza della Jugoslavia comunista nelle foibe sul confine nordorientale. I
sostenitori della legge Colombo-De Luca risposero presentando la Shoah come
rappresentativa di tutte le violenze motivate dall'ideologia, rifiutando un'idea di memoria in
cui il ricordo di un evento cancella il ricordo di un altro. Infine, il testo della legge solleva
questioni concernenti l'intento pedagogico e morale del Giorno della Memoria. Il decreto
leggo esplicita il carattere pedagogico della ricorrenza, ponendo l'enfasi su eventi da
organizzarsi nelle scuole, ma gli eventi e i rituali da organizzarsi nella ricorrenza aspirano se
non altro a essere non prescrittivi, informali e dal basso: cerimonie, iniziative, incontri e
momento comuni di narrazione dei fatti e di riflessione. L'elenco sembra quindi
incoraggiare forme organiche di attenzione collettiva. La più grande iniziativa nazionale fu
una manifestazione organizzata a Milano: il corteo, partito da piazzale Loreto (il luogo dove
era stato esposto il corpo di Mussolini) per attraversare tutto il centro di Milano fino a
piazza Duomo, vide la partecipazione di 20000 persone, che sfilarono con decine di
semplici cartelli neri, ciascuno con il nome di un campo di concentramento. La copertura
mediatica rifletteva la natura e l'entità della partecipazione pubblica attiva alla giornata, che
fu diffusa su tutto il territorio nazionale, fatta di un gran numero di iniziative locali. Ci fu
una significativa attenzione verso gli italiani gentili che soccorsero e si opposero, mentre
altrettanta enfasi fu posta sulla complicità italiana, sulla visione di Colombo dell'Olocausto
come un delitto italiano. Si tratta di una formulazione risoluta e puntuale, concepita per
rivendicare una naziona antifascista. L'Italia e gli italiani visti in quanto perpetratori furono
controbilanciati da commenti sull'Italia e sugli italiani in quanto vittime. Il primo Giorno
della Memoria è coinciso con un significativo periodo di transizione nella storia culturale e
politica dell'Italia, nella sua percezione del senso di nazionalità e del proprio recente
passato. La ricorrenza si trasformò in un contenitore nel quale l'uso pubblico della storia e i
postumi della memoria erano in evidenza.