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GORDON

''SCOLPITELO NEI CUORI''

1. La fisionomia dell'Olocausto in Italia;


Questo libro affronta l'ambito delle risposte culturali a ciò che definiamo Olocausto o
Shoah, manifestatesi in Italia nell'arco temporale che va dal dopoguerra a oggi. In anni
recenti numerose ricerche sono state dedicate all'eredità, alla memoria e alla cultura
dell'Olocausto in contesti nazionali chiave quali Germania, Israele, Francia e Stati Uniti,
mentre relativamente poco è stato prodotto sull'Italia.
Nella prima metà degli anni quaranta a seguito della liberazione dei campi di
concentramento, nel 1945, si assiste ad una diffusa reazione di ripugnanza verso i crimini
nazisti, ulteriormente elaborata con i processi di Norimberga del 1945-46.
Dai tardi anni quaranti ai tardi anni cinquanta ci fu una diffusa indifferenza, se non
addirittura un totale silenzio, per quanto riguardava i crimini nazisti commessi contro gli
ebrei. Un'eccezione, durante gli anni cinquanta, è la più vasta eco internazionale del diario
di Anna Frank, sotto forma di libro, di spettacolo teatrale allestito a Broasway.
Negli anni sessanta, la Soluzione finale inizia ad emergere come fenomeno storico
fondamentale nel processo della memoria collettiva e della comprensione della storia. La
maggior parte dei resoconto vedono nel processo di Eichmann a Gerusalemme, nel 1961, un
punto di svolta cruciale e il conflitto arabo-israeliano del 1967, la guerra dei Sei giorni, che,
prima della drastica vittoria di Israele, riporta alla ribalta la questione stessa della
sopravvivenza degli ebrei.
Durante gli anni settanta-ottanta, si manifesta su larga scala la consapevolezza
dell'Olocausto quale elemento nodale nelle storie e nelle memorie nazionali. Fra il 1978 e il
1979, America, Germania e gran parte d'Europa apprendono il termine ''Olocausto'' grazie
alla miniserie televisiva statunitense di grandissimo successo che porta quel titolo.
Negli anni novanta e il primo decennio del 2000, la consapevolezza di massa raggiunge il
suo picco, a Guerra fredda conclusa, e si traduce in una americanizzazione dell'Olocausto,
attraverso il successo internazionale del film di Steven Spielberg Schindler's List e l'apertura
dell'Holocaust Memorial Museum a Washington.
Questa storia della memoria si declina in maniera coerente in contesti nazionali differenti,
soprattutto nella sfera occidentale (Stati Uniti, Europa occidentale, Israele). Nell'Europa
dell'Est e nell'Unione Sovietica le cose sono andate in maniera diversa, dato che fino alle
rivoluzioni del 1989 la vulgata sovietica della guerra come eroica battaglia del comunismo
contro il fascismo lasciava poco spazio per gli aspetti razziali del nazismo. Ciò nonostante,
una delle caratteristiche singolari del campo di studi sulla memoria dell'Olocausto sembra
risiedere nella sua dinamica transnazionale, deterritorializzata, spesso disgiunta dalla storia
locale.
La relativa non curanza dell'Italia in questo campo è sorprendente. L'Italia fascista costituì il
modello e l'origine dello stato totalitario su basi razziali di Hitler, e dalla fine degli anni
trenta in avanti adottò molte delle leggi razziste di quest'ultimo. L'Italia fascista era anche la
principale alleata europea della Germania nazista nel momento in cui fu intrapreso il
genocidio degli ebrei e si rese responsabile di politiche antisemitiche in parecchie regioni
occupate, applicate con feroce violenza, così come era stata responsabile di atroci crimini
coloniali in Africa, e così come, prima della guerra, aveva messo in atto forme di politica
razziale e di pulizia etnica in proprie aree di confine, quali l'Alto Adige; tuttavia, importanti
lavori storiografici hanno evidenziato che funzionari italiani si spesero per contrastare
deportazioni e massacri di ebrei nella prima fase della guerra. L'Iralia ebbe dunque, da una
parte, un ruolo di collaborazione nel genocidio e, dall'altra, fu un compagno di viaggio
incerto, a tratti persino ostacolante. Dopo il 1943, questo già complesso statuto divenne
ancora più complesso con la caduta di Mussolini e la firma di un armistizio con gli Alleati,
così che l'Italia si ritrovò spaccata in due, invasa da sud dagli Alleati e occupata al centro e
al nord dalla Germania, e vide divampare una guerra civile. A quel punto i nazisti iniziarono
a deportare ebrei dall'Italia verso Auschwitz, anche se si trattò di numero relativamente
bassi, inoltre all'incirca 30000 prigionieri politici furono deportati a Mauthausen, Gusen e
altri campi e moltissimi soldati italiani furono imprigionati in campi di internamento in
condizioni brutali. Ora gli italiani erano passati a essere vittime di tutte le espressioni della
violenza nazista, benchè la Repubblica di Salò svolgesse un ruolo attivo nel perpetrare
deportazioni e massacri. Ancora una volta, accanto a questa cornice di complicità si dipana
una narrativa di segno diverso, con numerosi atti di solidarietà nei confronti della
popolazione ebrea. Questa storia intricata lasciò l'Italia con un enorme bagaglio di questioni
irrisolte in merito alle proprie responsabilità storiche e al proprio futuro dopo la guerra. Si
sostiene che in l'Italia l'intera fase postbellica sia stata spesa nel tentativo di elaborare
risposte a tali questioni. In risposta a questa storia, la cultura italiana del dopoguerra ha
prodotto gruppi straordinari di scrittori e registi, storici e intellettuali, mossi dall'intento di
affrontare il fenomeno dell'Olocausto. Molti di essi hanno assunto posizioni di primo piano
nel vasto panorama internazionale delle risposte al genocidio: autori come Primo Levi,
Giorgio Bassani e registi come Vittorio De Sica, Francesco Rosi e Roberto Benigni. Lo
scopo di questo libro è quello di passare in rassegna questi lavori e inserirli nel più vasto
ambito di risposte che li ha generati e in tal modo tracciare il progresso del lento incontro fra
la cultura italiano e l'Olocausto. L'ambito in questione comprende artefatti culturali, lavori
di testimonianza, eventi, collettività e dibattiti. Il libro descrive i cicli di produzione e
ricezione dell'Olocausto in Italia, che hanno attinto al lavoro e all'impegno attivo di
sopravvissuti ai campi di concentramento. E delinea il modo in cui, sul finire del Novecento,
una larga fetta di italiani siano giunti ad acquisire conoscenze su ciò che veniva definito con
i termini Olocausto o Shoah, ad afferrare qualcosa dell'evento mostruoso della storia umana.
L'Olocausto non può mai essere interamente contenuto a un livello nazionale, né per quanto
concerne la sua storia di vittime e spettatori, né per quanto concerne le sue rappresentazioni
culturali a posteriori. È ed è sempre stato un fenomeno plurilinguistico, transnazionale. In
Italia come altrove, due fili conduttori, l'Olocausto nella sua dimensione più ampia e il caso
italiano nella sua peculiarità locale, coesistono e costituiscono stratificazioni dipendenti
nella storia e nella produzione di discorso sul fenomeno stesso. Questa dipendenza nel caso
italiano pare essere connotata da dinamiche particolarmente interessanti, per via della strana
interazione di centralità e marginalità nell'incontro di questo paese con l'Olocausto. L'Italia
occupò un posto apparentemente marginale nella storia generale dell'Olocausto e
analogamente l'Olocausto occupò un posto apparentemente marginale nella cultura italiana
generale, eppure le voci e le narrazioni di alcuni ebrei italiani hanno talvolta avuto un'eco
sorprendentemente vasta nella cultura nazionale dominante. L'accento che questo libro pone
sulla cultura punta a mettere in discussione certi assunti sui meccanismi della memoria
collettiva, proponendo invece di vedere la forma culturale come un mezzo per condividere
conoscenze su determinati aspetti del passato, che diventano parte di un discorso culturale
condiviso. Occorre definire la portata dei significati che gravitano intorno al termine stesso
''Olocausto'', in generale e per quanto concerne l'Italia in particolare. Dobbiamo sapere a che
cosa ci si riferisce, e che cosa c'è in gioco, quando, in Italia e in italiano, si nomina
l'Olocausto, e i termini affini che ne sono derivati. Nel porci questa domanda, diventa chiaro
che stiamo anche interrogandoci in merito a questioni connesse all'identità e
all'appartenenza (''di chi è l'Olocasto?''), dal momento che può essere letto come un evento
della storia ebraica, della storia tedesca, persino della preistoria israeliana, ma anche della
storia italiana, della storia europea, della storia mondiale, e così via. Vi sono quattro
possibili parametri di definizione per l'Olocausto, ciascuno dei quali connesso a eventi
dell'Olocausto in relazione all'Italia. Il primo parametro attiene al termine Olocausto in
senso stretto, esso è stato usato in riferimento al progetto genocida nazista di sterminare gli
ebrei d'Europa. L'Italia era un'alleata di primo piano della Germania nazista e già nel 1938
era diventata uno stato razziale con la promulgazione di drastiche leggi antisemitiche.
Ciascuna fase, dai primi anni di guerra agli anni di Salò, produsse delle contronarrative di
un'opposizione italiana al genocidio, di eroismo morale e di resistenza. Ragione per cui,
anche sotto l'ombrello di una diretta implicazione dell'Italia nella più rigorosa definizione
della Soluzione finale, troviamo in circolazione narrative e storiografie in competizione fra
loro. Il secondo parametro fa riferimento al termine Olocausto in senso lato, esso ha assunto
definizioni più allargate, così, in gran parte del discorso postbellico, il toponimo Auschwitz
è venuto a significare l'intera rete dell'operazione nazista, campi di concentramento e di
sterminio. In base a questa definizione, Olocausto equivale ai campi; uno slittamento
semantico che suggerisce come le vittime italiane possano comprendere non solo ebrei, ma
anche partigiani deportati, lavoratori forzati e internati militari. Una terza variante nella
definizione di Olocausto va verso una chiave correttiva alla tendenza di identificare
concettualmente l'Olocausto con il luogo del campo di concentramento, il Lager, attraverso
il ricordare l'uccisione di massa, condotta con metodi non industriali, di più di un milione di
persone, ebrei e altri, mediante fucilazioni e massacri. Queste operazioni costituiscono un
elemento centrale della storia dell'Olocausto di cui la categoria del campo non tiene conto.
Allargare il termine così da farvi rientrare questo importante aspetto mette in discussione
certe idee stereotipate dell'Olocausto come sterminio modernizzato e condotto su scala
industriale, e va verso una caratterizzazione di tutta l'estrema brutalità e di tutti gli omicidi
di massa compiuti dai nazisti. Una quarta definizione dell'Olocausto va di pari passo con
l'emergere dell'idea di Olocausto come fenomeno universale, come qualcosa che è l'essenza
del nazismo, del moderno totalitarismo. Secondo questa concezione, nuovamente, l'Italia
risulta in una posizione ambigua, poiché il fascismo italiano si trova a essere il principale
precursore e modello per il nazismo e per tutti i moderni totalitarismi. Queste mutevoli
definizioni dell'etichetta Olocausto sono poi condizionate da questioni tipicamente italiane,
connesse alla memoria e alla storia: l'Italia complice e vittima. E all'elenco vanno aggiunte
altre questioni chiave che modulano il discorso sull'Olocausto in Italia, come il ruolo della
Chiesa cattolica, con i suoi rapporti controversi sia con la Germania nazista che con lo stato
italiano; e l'idea di una vocazione europea dell'Italia, nel contesto di una lettura della guerra
e dell'Olocausto come eventi fondanti per la vita civica e le istituzioni dell'Europa
postbellica. Eppura ciascuna di queste definizioni è radicata nelle atroci specificità della
violenza nazista contro gli ebrei e contro altre etnie vanutesi a qualificare come il fenomeno
storico più significativo della modernità.

2. Villa Torlonia;
La via Nomentana, una via della Roma antica, si dirige a nord-est. Nel 1870 l'esercito del
giovane stato italiano, costituitosi da meno di un decennio, nel 1861, prese d'assalto la cinta
muraria, penetrò nella città e sconfisse le forze dello Stato pontificio, limitandone il potere
all'interno dei confini dell'attuale Vaticano e portando poi alla dichiarazione di Roma quale
legittima capitale dell'Italia moderna. Porta Pia è uno dei luoghi più altamente simbolici del
riscatto patriottico compiutosi nel Risorgimento italiano. Lungo la Nomentana si trova
un'elegante costruzione ottocentesca, Villa Torlonia. Nel 1918 gli archeologi vi scoprirono
rari resti di antiche catacombe ebraiche risalenti al II e III secolo d.C. Dal 1925 al 1943 il
palazzo nobiliare di Villa Torlonia fu la residenza romana del dittatore fascista Benito
Mussolini e della sua famiglia. Se Palazzo Venezia, insieme al Campidoglio, nel centro
cittadini, era il luogo del potere ufficiale di Mussolini, Villa Torlonia rappresentava
l'immagine domestica e familiare di Mussolini. Quando Mussolini fu deposto, nel luglio
1943, la villa fu abbandonata. Dal settembre 1943 fino al giugno 1944 Roma divenne una
''città aperta'', in teoria, cioè, protetta ed esonerata dai combattimenti, ma in realtà in mano a
un comando nazista che non si comportò in modo meno feroce di quelli occupanti altri
territori nel resto d'Europa. A meno di due chilometri a sud di Villa Torlonia è situato il
quartiere operaio e antifascista di San Lorenzo: nel luglio 1943 l'area fu pesantemente
bombardata dagli Alleati, con la morte di alcune migliaia di civili. Dopo che Roma fu
liberata, all'inizio del giugno 1944, a Villa Torlonia fu insediato l'Alto comando alleato di
Roma, un ruolo che la villa mantenne fino al 1947, quando fu abbandonata ed entrò in un
lungo periodo di silenziosa decadenza. Fu aperta al pubblico come museo negli anni
settanta. Nel 2005 una porzione di terreni di Villa Torlonia fu scelta per diventare lo spazio
che avrebbe ospitato il primo ufficiale Museo nazionale dell'Olocausto, o Museo della
Shoah. Nelle linee che convergono su Villa Torlonia si rinviene la lunga storia di come, a
partire dalla seconda guerra mondiale fino al presente, l'Italia ha affrontato e declinato in
forme culturali ciò che oggi chiamiamo Olocausto o Shoah. Possiamo utilizzare la storia del
progetto di Villa Torlonia come punto chiave per capire come le linee culturali si intersecano
e si plasmano a vicenda. Il primo punto importante è la scelta di collocare il museo in quella
che era la casa di Mussolini, in questo modo ponendo la Shoah proprio al cuore dell'eredità
di Mussolini e della dittatura fascista. L'antisemitismo fascista e la complicità del regime
con la Soluzione finale nazista hanno costituito una questione centrale nel dibattito storico
sul fascismo. Per decenni dopo la fine della guerra, l'antisemitismo fu in massima parte visto
come un elemento alieno, un'imposizione della Germania nel 1938 (data delle leggi per la
difesa della razza di Mussolini). Tanto che, per il più influente fra gli storici del fascismo,
Renzo De Felice, l'antisemitismo e l'ideologia razziale furono ciò che distinse il regime di
Hitler da quello di Mussolini. Il primo era uno stato razziale, il secondo no. Il primo uccise
milioni di ebrei, laddove il secondo fino al 1943 quando fu smantellato, non deportò nessun
ebreo nei campi. In effetti, per molti, gli italiani parevano essere immuni da questa malattia
del razzismo e in possesso di un'innata norma del vivere civile e di un'innata diffidenza nei
confronti dell'ideologia: quella che Hannah Arendt definì la generale, spontanea umanità di
un popolo di antica civiltà. Una delle storie che questo libro ha la necessità di raccontare è
quella della supposta distanza del fascismo e degli italiani dall'Olocausto. Il sito di Villa
Torlonia rimanda a una specifica caratteristica della storia e del ruolo del giudaismo in
Italia, che ha condizionato nel paese la ricezione dell'Olocausto. Come ricordano e
catacombe situate nella villa, gli ebrei sono una piccola ma antica comunità, presente
all'ombra dell'impero romano e poi della Chiesa per più di due millenni prima dell'era
fascista. Questa comunità ebraica di Roma si è tenuta per secoli vicina al cuore della Chiesa,
secoli durante i quali fu messa in atto la millenaria tradizione dell'antisemitismo cristiano,
tradizione alle origini del genocidio nazista. La scelta di insediare a Roma il Museo della
Shoah fa emergere una serie di questioni nazionali. Molti dibattiti accompagnarono la
costruzione dello United States Holocaust Memorial Museum di Washngton, distante
migliaia di chilometri dal luogo in cui si svolsero gli eventi commemorati dal museo, una
scelta sintomatica del fluido glabalismo della storia, del potente ruolo nella cultura e nella
vita pubblica americana della sua comunità ebraica. A Roma, la specifica ubicazione urbana
del museo non è certo l'equivalente del Mall di Washington. Ciò nonostante, è significativo
che, nell'Europa del XXI secolo, sia presente un imperativo di creare un canale ufficiale di
memoria dell'Olocausto, come se essere una democrazia europea legittima implichi oggi
anche il riconoscimento e la commemorazione di questo evento. Un altro punto importante
che si palesa nella pianificazione del Museo della Shoah a Villa Torlonia sta nella questione
densa di significato della nominazione e dell'uso del linguaggio. È totalmente in linea con il
discorso pubblico sulla Soluzione finale nazista attestatosi in Italia dall'inizio di questo
secolo, che il museo sia stato chiamato Museo della Shoah e non, per esempio, Museo
dell'Olocausto. La storia della denominazione del genocidio è lunga: la gran varietà di nomi
va da Endlosung, il nome scelto dai nazisti stessi, da Auschwitz a Lager, da Olocausto a
Shoah. L'Italia è un caso raro in cui un avvicendamento semantico sembra essersi
concretamente compiuto: sul finire del Novecento, Shoah ha preso il sopravvento su
Olocausto quale termine più diffuso nei mezzi di comunicazione e nella sfera pubblica in
generale, come denota apòpunto il nome stesso del museo. Questa mutazione è
ulteriormente indicativa di una specificità della risposta italiana all'Olocausto. I progettisti
del museo sono gli architetti Luca Zevi e Giorgio Tamburini. Per parecchi anni Zevi è stato
coinvolto in un precedente progetto collettivo per la costruzione a Roma di un Museo
dell'intolleranza e dello sterminio, pensato per comprendere l'Olocausto, ma con l'ambizioso
intento di partire dal nazismo per trattare anche le violenze e i rischi più gravi nel presente e
nel futuro del genere umano. Zevi presumeva che la comunità ebraica romana fosse
idealmente favorevole a sostenere una concezione così estesa di un museo della memoria;
invece il progetto di Zevi fu ridimensionato e incanalato verso un'idea più incentrata
sull'Olocausto, da cui è disceso l'attuale progetto di Villa Torlonia. Ciò nonostante, è chiaro
che una certa ansia rispetto al bisogno di ricordare e ribadire la terribile specificità storica
della Shoah, insieme al bisogno di gettare ponti dalla Shoah verso il nostro mondo
contemporaneo, verso altri genocidi, verso la lezione morale, sia un tratto costante della
commemorazione e della pedagogia museale contemporanee. Nel progetto di Zevi-
Tamburini, numerosi elementi si rifanno a tendenze fissate a Washington, in particolare,
esso mostra una concezione sculturale dell'architettura che colloca lo spettatore/visitatore in
un rapporto emotivo con lo spazio museale. La caratteristica più evidente è la collocazione
dei principali spazi museali e pedagogici in due piano sotterranei, quale consapevole
rimando alle vicine catacombe ebraiche, sormontati da una struttura alta dieci metri,
rivestita da grandi blocchi su cui saranno scritti i nomi di tutti gli ebrei italiani uccisi dai
nazisti e dai fascisti. Zevi e Tamburini hanno inoltre incluso nel loro progetto un percorso
che conduce verso l'alto, denominato ''Percorso dei Giusti'', che richiama i Giusti fra le
nazioni del museo Yad Vashem di Gerusalemme, cioè il titolo onorifico conferito a tutti
coloro che rischiarono la vita per salvare degli ebrei durante la Shoah. Il Percorso dei Giusti
riprende anche il mito del senso civico italiano, dell'impulso istintivo ad aiutare il vicino di
casa ebraico, che per molti anni è stato rivendicato come il tratto fondante della risposta
concreta data all'Olocausto in Italia. Per quanto concerne spazi e contenuti, Zevi e
Tamburini hanno concepito un museo che determina un sottile equilibrio fra la Shoah degli
ebrei europei, le campagne genocide contro altri gruppi (rom, omosessuali, disabili),
l'antisemitismo fascista dell'Italia e una storia specificamente romana di persecuzione e
complicità. Come cornice e introduzione per tali contenuti, hanno progettato un corridoio di
accesso dedicato a Primo Levi, a conferma del suo ruolo centrale e iconico quale principale
mediatore della consapevolezza dell'Olocausto in Italia e quale solenne figura di
sopravvissuto capace di cucire insieme tutti i fili. C'è, infine, dietro al museo di Villa
Torlonia, una vicenda che concerne il pubblico, la comunità e i partiti politici. Pur essendo
già a quel punto il prodotto di intense discussioni fra la comunità ebraica, gli architetti e vari
gruppi di intellettuali e politici, il progetto per il museo non fu affatto definito nel 1005. Ciò
che è seguito fra il 2005 e il 2010 consente di aggiungere altre due dimensioni cruciali a
questo caso, che fornisce delle coordinate chiave per la nostra esplorazione del modo di
raffigurare l'Olocausto in Italia dalla fine della guerra. La prima di queste dimensioni attiene
ai partiti politici. Quando, nel 2005, fu approvato dal Consiglio comunale di Roma, il
Museo della Shoah era un progetto sostenuto dal partito allora alla guida della città, quello
del suo sindaco e leader nazionale Valter Veltroni: i Democratici di sinistra. I Ds
costituivano una delle svariate reinvenzioni post-Guerra fredda dello storico Partito
comunista italiano, che era stato uno dei grandi partiti di massa nella politica italiana del
dopoguerra. I valori del Pci avevano profonde radici nella Resistenza antifascista del 1943-
45 e nella Costituzione democratica del 1947-48, nata dalla Resistenza stessa. Sembrava
naturale e del tutto coerente per i Ds associare se stessi a un museo che commemorasse gli
orrori fascisti e nazifascisti dell'Olocausto. Nel 2005 il voto del Consiglio comunale di
Roma per il progetto del museo a Villa Torlonia era stato unanime, ma complicazioni
burocratiche e proteste proveniente da residenti locali in merito alle dimensioni dell'edificio
e alla conseguente perdita di spazio verde ritardarono il progetto protraendosi fino allo
scadere del mandato di Veltroni, che nel 2008 perse la carica. Il nuovo sindaco, Gianni
Alemanno, apparteneva al Popolo della Libertà, partito di destra di Silvio Berlusconi,
all'epoca al governo, ma proveniva da uno dei partiti confluiti del PdL, quell'Alleanza
nazionale che a sua volta discendeva dal Movimento sociale italiano, il principale partito di
estrema destra, neofascista, del dopoguerra italiano. Alemanno era un fascista. Non
considerà il museo una priorità e alcuni dei suoi colleghi iniziarono a militare contro di esso.
Alemanno commentava che, se le leggi razziali furono una forma di male assoluto, non si
dovrebbe far rientrare il fascismo nel suo insieme in questa categoria. Ciò nonostante, la
votazione unanime del 2005, pur se solo a patto che nel progetto del museo venisse anche
fatta menzione delle vittime innocenti delle brutali uccisioni perpetrate durante la guerra dai
comunisti lungo il confine italo-jugoslavo, nelle cosiddette foibe istriane. Secondo la destra,
una commemorazione delle vittime del nazismo rendeva opportuno un riconoscimento delle
vittime del comunismo per pareggiare le atrocità dei totalitarismi del XX secolo. Questo
principio era stato espresso a livello nazionale con l'istituzione di un Giorno della Memoria
per l'Olocausto, iniziato a celebrarsi il 27 gennaio 2001, presto seguita dall'istituzione di un
parellelo Giorno del Ricordo per le vittime delle foibe a partire dal 10 febbraio 2005.
Alemanno aderì a questa linea, ed è stato sotto il suo mandato che il Consiglio comunale ha
approvato il progetto definitivo e l'avvio dei lavori. Che un sindaco fascista come Alemanno
mandi avanti e approvi il Museo della Shoah, la dice lunga sulla politica postmoderna; la
destra, e specialmente quella ex fascista guidata dal suo leader nazionale Gianfranco Fini, si
è strategicamente mossa verso una posizione nettamente pro-Israele, insieme a una
moderata osservanza della commemorazione della Shoah, per legittimare se stessa come
partito al governo e per prendere le distanze dai propri ascendenti nazisti, fascisti e
antidemocratici. Ma c'è da considerare anche un'altra, tipicamente italiana, linea divisoria
fra culture, identità e storie regionali fortemente diverse. Anche sotto questo aspetto, la
vicenda della Villa Torlonia offre un chiaro esempio. Il progetto di Roma ha dovuto
affrontare un altro problema, rappresentato da una legge già in vigore nel 2003 denominata
Istituzione del Museo nazionale della Shoah. La direttiva nominava come collaboratori
ufficiali di questo museo il Ministero per i Beni e le attività culturali, un archivio milanese
di storia ebraica e, infine, la Regione e alcune amministrazioni dell'Emilia Romagna. Perchè
l'Emilia Romagna? Perchè questa iniziale ratifica legislativa per un museo nazionale della
Shoah, nel 2003, non lo prevedeva a Roma, ma nel sito di un ex carcere nei pressi di
Ferrara. Ferrara ha una storia ebraica ricca che risale almeno al XIII secolo. In particolare
per quanto concerne la cultura italiana relativa all'Olocausto, Ferrara ha poi avuto una
grande risonanza grazie allo straordinario ciclo di romanzi di Giorgio Bassani pubblicati
dagli anni cinquanta agli anni sessanta, ambientati a Ferrara, raccolti sotto il titolo Il
romanzo di Ferrara. Cuore di questo ciclo di sei volumi è Il giardino dei Finzi-Contini, di
cui sono protagonisti gli adolescenti della comunità ebraica ferrarese degli anni tenta,
predestinati a una tragica fine. La scelta di ubicare il museo a Ferrara era forse dovuta a
quello spazio letterario semimmaginario e alla posizione geografica centrale della città. A
conti fatti, però, questa si rivelò una debolezza nel momento in cui si fece strada l'idea di
associare alla Shoah la capitale culturale, nazionale e internazionale. Quando comparve il
progetto romano rivale, il governo nazionale, allora di centrosinistra, nella persona del
ministro della Cultura Francesco Rutelli, cercò e alla fine trovò un compromesso. Roma
avrebbe avuto il Museo della Shoah, da annoverarsi accanto ai musei di capitali come
Berlino, Washington e Gerusalemme, ma anche Ferrare avrebbe avuto un proprio museo,
ridenominato ''Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah''. Il museo ferrarese
avrebbe fatto parte di un progetto sull'intero territorio nazionale dedicato alla memoria e alla
narrazione ufficiale della storia della Shoah. Il Centro di documentazione ebraica
contemporanea di Milano ha messo e continua a mettere le proprie competenze a
disposizione dei progetti sia di Roma che di Ferrara. Peraltro, in un recente lavoto ha
presentato una concezione interessante per un'unica complementare rete nazionale di musei
della Shoah costituita da quattro distinti elementi, che rappresentano le pluralità geografiche
di una cultura relativa alla storia e memoria dell'Olocausto nell'Italia del XXI secolo. I
quattro spazi, da concepirsi come un unico spazio, saranno il Museo della Shoah di Roma, il
museo di Ferrara, un centro per lo studio e la memoria costruito alla Stazione centrale di
Milano e, infine, una mostra digitale permanente, uno spazio museale online sulla
persecuzione degli ebrei in Italia.

3. Il campo culturale;
In che maniera questa consapevolezza, queste conoscenze, storie, immagini di un
determinato evento storico si diffondono nella cultura di una nazione, e in che maniera
queste forme culturali maturano o si rimodellano lungo i decenni e le generazioni? Una
delle tesi che questo libro intende sostenere è l'idea che questo processo sia radicato in un
complesso campo di produzione e trasmissione culturale che ruota intorno a quel certo
evento storico. Il campo della cultura dell'Olocausto è eclettico e intersecato con numerosi
altri campi di produzione culturale presenti in Italia: ragione per cui un romanzo
sull'Olocausto appartiene, necessariamente, sia alla cultura dell'Olocausto sia alla storia
della narrativa italiana. Quindi il libro di Primo Levi del 1947 dedicato alla memoria
dell'Olocausto, Se questo è un uomo, si accorda con la tendenza verso il reportage e la
scrittura della letteratura neorealista degli anni quaranta. Così che il libro di memorie di
Levi ha la forma di un'opera letteraria e costituisce un contributo alla storia del romanzo
anche perchè è stato costretto ad affrontare dei problemi specifici in riferimento
all'Olocausto, generando soluzioni formali e stilistiche originali. Nel formulare le sue
demarcazioni in Se questo è un uomo, Levi ha spinto il neorealismo a un punto di rottura,
per via degli estremi di orrore dei quali era stato testimone e che ora cercava di trasmettere.
Un certo tipo di narrativa, certe modalità del raccontare contribuiscono a fare emergere
determinati modelli nel modo in cui l'Olocausto viene discusso e interpretato in un
determinato momento. Nella realtà, ci sono sempre molti altri fili di connessione e di
definizione, ciascuno interagente con gli altri. Per cui l'autore di un romanzo sull'Olocausto
può essere un sopravvissuto, il libro può essere stato pubblicato in un anno o momento
particolare in contemporanea con altri eventi, può essere pubblicato da un editore con una
collocazione geografica definita con un progetto culturale o politico altrettanto definito, e il
libro può mantenere o riacquistare l'attenzione del pubblico anni dopo grazie a nuove
edizioni o adattamenti per uno sceneggiato televisivo. In altre parole, vi sono in gioco anche
micro e macrocampi sovrapposti correlati alla biografia individuale, al clima di un certo
anno o momento della produzione culturale, alla storia e alla specificità di una città
nell'ambito della più ampia storia nazionale; tutti i campi con proprie complesse dinamiche
interne che si intersecano. Il discorso nazionale sull'Olocausto, la conoscenza e
consapevolezza dell'Olocausto, la memoria dell'Olocausto o i suoi effetti sono tutti prodotti
attraverso un mormorio diffuso di attività culturali molto varie spesso non coordinate fra
loro, da cui emergono singole fasi, opere e individui, così come formule, stereotipi e
categorie. Il campo culturale dell'Olocausto nell'Italia del dopoguerra. Sono quattro le sfere
principali di attività culturale che popolano il campo determinandone la forma e gli agenti
operanti al suo interno. La prima è quella che possiamo chiamare la sfera associazionistica o
istituzionale. I primi canali di attività ed espressione per quegli italiani che in prima persona
esperirono l'Olocausto si sono creati grazie a gruppi e associazioni istituiti allo scopo di
rivelare quegli eventi e offrire sostegno alle vittime. Serge Barcellini e Annette Wieviorka
chiamano questi gruppi di familiari di vittime, attori o agenti della memoria. L'unica
categoria di agenti culturali che abbia preceduto questa iniziale attività collettiva era il
singolo, solitario sopravvissuto che dopo il ritorno scriveva o raccontava la propria storia di
sopravvivenza, per ragioni connesse al trauma o per esprimere lutto o onorare coloro che
non avevano fatto ritorno. Per darsi reciproco sostegno i sopravvissuti e i familiari delle
vittime si riunirono a formare associazioni, ancora prima che la guerra finisse e lungo gli
anni del dopoguerra, altre iniziative collettive continuarono a prendere forma in nuove
associazioni. Tre associazioni meritano di essere citate in quanto risultano attive in diverse
fasi dell'epica postbellica: l'ANED, l'UCII e il CDEC. L'ANED (Associazione nazionale
degli ex deportati politici) tenne il suo primo congresso nazionale nel 1957 e fu riconosciuta
dallo stato come ente morale, cioè organizzazione non lucrativa, attiva in più di una città, al
servizio dei superstiti e delle famiglie di coloro che non erano tornati. Esiste a Torino lo
statuto della sua fondazione datato 6 settembre 1945. Per tutto il dopoguerra, l'ANED
avrebbe sostenuto un'ampia gamma di iniziative, finanziando monumenti e memoriali in
tutta Italia, costituendo archivi e organizzando mostre, convegni, visite ai luoghi dello
sterminio, interventi nelle scuole, raccolte di testimonianze orali. Si dà il caso che l'ANED
fosse in origine focalizzata non sul genocidio ebraico, bensì sulla figura del deportato
politico, cioè il partigiano, l'antifascista. Malgrado questa scarsa focalizzazione sul
genocidio ebraico, molti membri ebrei dell'ANED abbracciarono il suo tenore nel
commemorare e discutere. Ciò nonostante, via via che l'idea del genocidio ebraico assumeva
forza, emerse un certo riconoscimento formale della sua importanza distinta. L'UCEI
(Unione delle comunità ebraiche italiane) è l'ente ufficiale della comunità ebraica italiana,
fondato nel 1930 dal regime fascista. L'UCEI ha svolto un ruolo decisamente di minor
profilo nella costruzione della consapevolezza dell'Olocausto in Italia se confrontato al
progetto pubblico, didattivo dell'ANED. Ciò nonostante, è sempre stata al centro della
discussione e ha collaborato all'organizzazione di eventi e commemorazioni, rivendicando
una voce per le vittime ebraiche della violenza nazista. Anche l'UCEI ha sostenuto e
finanziato attività di influenza fondamentale: molto importante è la vicenda del
finanziamento e della committenza da parte dell'UCEI della ricerca che portò alla
pubblicazione presso Einaudi, nel 1961, di uno dei primi e tuttora più autorevoli resoconti
storici dell'antisemitismo fascista, la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De
Felice. Sempre internamente all'ambito delle organizzazione ufficiali degli ebrei italiani, si
ebbe a metà degli anni cinquanta l'istituzione del CDEC (Centro di documentazione ebraica
contemporanea). Il CDEC fu inizialmente sistemato in una stanza a Venezia. Il CDEC fu
creato allo scopo di indagare sulla sorte degli ebrei italiani deportati e offrire aiuto ai
superstiti. L'archivio storico costituito dal CDEC, insieme al lavoro storiografico che dagli
anni sessanta in poi ne derivò, lo rese la principale istituzione accademica italiana per la
memoria dell'Olocausto ebraico. Forse ciò che meglio incarna l'attività del CDEC è Il libro
della memoria, un'opera straordinaria, analoga ad altri esempi radicati nella tradizione
ebraica dei libri della memoria, in cui sono citate e documentate tutte le vittime italiane del
genocidio. Associazioni e organizzazioni non sono necessariamente gli attori di maggior
profilo nel vasto campo culturale che ruota intorno all'Olocausto in Italia, ma sono
comunque presenze fondamentali, e spesso determinanti, nel sostenere e diffondere con il
loro attivismo tutta una serie di eventi pubblici culturali nel campo in questione. Inoltre,
esse costituiscono il centro di attività della fase inizale, sono i primi agenti nel campo, che
fissano parametri e schemi sin dai primi mesi e anni, molto tempo prima che altri settori
della cultura diventassero consapevoli della loro esistenza.
La seconda sfera è relativamente celata all'osservatore esterno ma è essenziale nel plasmare
il campo della cultura dell'Olocausto e ha promosso letture del fenomeno che sono state
dominanti. Possiamo chiamarla sfera accademica, e comprende l'ambito della ricerca
accademica, degli studi sui vari aspetti dell'Olocausto, pubblicati in volumi, riviste e
recentemente online. In maniera sempre crescente, questa sfera include anche un elemento
trasversale, in cui il patrimonio delle conoscenze acquisite viene utilizzato come terreno di
semina per il lavoro di altri. In tal modo la sfera accademica, che a volte coincide con la
sfera associazionistica, assume una sorta di ruolo di consulenza verso l'ambito culturale nel
suo insieme, fornendo una marchio di autorevolezza e una garanzia di validità storica. La
storiografia accademica è anche la sfera nella quale tendono a essere verificati per la prima
volta documenti scoperti da poco e interpretazioni controverse o revisioni. È sintomatico sia
della difficile eredità fascista che pesa sull'Italia, sia del clima di sospetto diffuso nello stato
postbellico, il fatto che spesso si scatenino delle controversie intorno a scoperte o riscoperte
di una nascosta o rimosssa complicità con il fascismo. L'esempio più importante a tal
proposito è la ricordata Storia degli ebrei italiani che sotto il fascismo di De Felice causò il
collasso di un partito politico, il Partito radicale, per aver citato il suo segretario, Leopoldo
Piccardi, quale partecipante alle campagne razziste del fascismo durante gli anni trenta; fino
ancora all'inizio di questo secolo, quando l'ex comunista e faro morale dell'antifascismo
Ignazio Silone fu accusato di essere stato a lungo una spia e un informatore della polizia
fascista. Per quanto possa sembrare appartato, il dibattito accademico, sull'Olocausto come
su molti altri temi, ha trovato canali per penetrare in una sfera pubblica più ampia e per
plasmare e riplasmare assunti pubblici e filoni di conoscenza. Occorre sottolineare
un'ulteriore caratteristica della sfera accademica correlata a queste forme di impegno
politico-intellettuale pertinente al lavoro sull'Olocausto. Si tratta della marcata tendenza da
parte di questi storici ad avere un intenso investimento in prima persona negli eventi di cui
scrivevano. Il fenoomeno del sopravvissuto-testimone-storico fu infatti un tratto cruciale
della prima storiografia internazionale sull'Olocausto. Ed è questo un aspetto che lega la
sfera accademica a quella associazionistica: molto spesso furono i superstiti stessi ad
avviare la ricerca storiografica, in parallelo all'opera di testimonianza, e in effetti queste due
attività si mescolavano e confondevano.
La terza sfera della produzione culturale intorno all'Olocausto costituisce forse il centro
focale poiché è da qui che l'attivismo delle associazioni, la ricerca e i dibattiti fra accademici
e intellettuali, e anche le storie e le voci dei singoli individui si diffondono nella cultura in
generale. Si tratta della sfera culturale, nel senso stretto del termine. È qui che troviamo tutti
quei lavori, siti, artefatti ed eventi in cui rappresentazioni, vicende e immagini danno forma
culturale all'Olocausto. Una significativa porzione di questa sfera è data dai materiali scritti.
Come nel caso delle associazioni, la storia delle storie sui campi di concentramento inizia in
maniera non prefissata, con le testimonianze di prima mano di sopravvissuti e vittime, per
poi svilupparsi in altre scritture ibride che vanno sotto il nome di letteratura dell'Olocausto.
Ai generi scritti corrono parallele altre forme di arte narrativa: esiste una distinta storia
cinematografica dell'Olocausto che emerge in Italia sin dai primi anni del dopoguerra; così
come esiste una sempre più importante fase di produzione televisiva sull'Olocausto. E anche
altre arti audiovisive entrano in questo scenario, dalla pittura al disegno alla musica. La
sfera culturale trova la sua natura nell'essere un canale di trasmissione rivolto al pubblico in
luoghi e spazi aperti al pubblico stesso, che siano permanenti o temporanei. Nella
concezione, progettazione di tali siti storici e commemorativi, e nella forma culturale che
viene loro conferita, possiamo individuare la più densa confluenza dell'insieme di fattori e
agenti che alimentano la rappresentazione dell'Olocausto. Infine, occorre includere nella
sfera culturale, insieme a luoghi e spazi, anche gli eventi pubblici e culturali. Mostre e
performance, e le stessi presentazioni di libri, costituiscono eventi locali che suscitano la
partecipazione pubblica, con riflessioni e dibattiti. Più strutturate e pianificate sono le
manifestazioni pubbliche formali di commemorazione, anniversari nazionali o locali.
Possono essere ricorrenze annuali di origine nazionale o transnazionale, per esempio il 25
aprile come giornata in cui si celebra la liberazione, il 27 gennaio per la liberazione di
Auschwitz e in seguito come commemorazione internazionale dell'Olocausto, o possono
essere anniversari decennali che portano a una concentrazioni di eventi nelle rispettive
ricorrenze.
La quarta e ultima sfera è di natura trasversale, più sfuggente, una sorta di cornice. Si tratta
della sfera dell'industria della cultura e dell'informazione, nonché dei mass media.
Quotidiani e riviste di grande diffusione, televisione, radio e internet hanno tutti svolto ruoli
cruciali nella trasmissione di conoscenze, consapevolezze a un pubblico esteso, non esperto
e nel fornire a quest'ultimo degli strumenti per interpretare e comprendere il fenomeno. La
mediatizzazione dell'Olocausto può assumere molteplici forme, dal rendere noti eventi o
pubblicazioni e relative recensioni a interviste e dibattiti intorno a eventi o iniziative. Se la
sfera associazionistica ha svolto un ruolo di particolare importanza nelle prime fasi della
storia della conoscenza dell'Olocausto, quest'ultima sfera, l'intensa mediatizzazione
dell'Olocausto, e quindi la sua diffusione attraverso la cultura in immagini canalizzate in
forme culturali di massa appare più evidente in fasi successive, quando comincia a
espandersi la stampa popolare e la crescita del mezzo televisivo fino ai media
ipertecnologici e multimediali. Meritevole di attenzione e situata entro questa quarta sfera è
l'area dell'editoria. La Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di De Felice può ancora
una volta fungere da esempio, in questo caso per il ruolo svolto dal suo editore, Einaudi. Il
contributo della Einaudi a un nuovo modo di guardare all'Olocausto e agli eventi correlati è
estremamente rivelatorio di una fase in cui la prospettiva intellettuale sia pervenuta a
considerare come qualcosa di imprescindibile il fatto di rivolgere la propria attenzione al
genocidio nazista. La diffusione della cultura dell'Olocausto è avvenuta dal privato al
pubblico, da gruppi con esperienze di prima mano a comunità più estese, dalle generazioni
più vecchie alle più giovani. Ma il quadro è più complesso: l'Olocausto è stato sede di
conoscenze marginali, di narrative nascoste che lottavano per essere ascoltate; è a volte
circolato in reti capillari di basso profilo.

4. Una nuova consapevolezza;

- Commemorazione e ritorno
Il Cimitero monumentale di Milano è una vasta aerea dominata da imponenti mausolei e
monumenti in pietra dedicati ai personaggi in vista, alle famiglie abbienti di un paese da
poco modernizzato e prosperoso. Nella grande cappella all'entrata vengono commemorati i
più onorevoli e illustri cittadini milanesi e dietro di essa si apre il parco cimiteriale. Qui, nel
1946, fu eretto un nuovo monumento, dedicato ai Caduti nei campi di sterminio nazisti. Era
uno dei primissimi monumenti pubblici italiani speficicamente destinati alle vittime dei
campi. Il monumento fu concepito e finanziato nel 1945 da una delle numerose associazioni
di sopravvissuti ai campi costituitesi nell'immediato dopoguerra, l'ANPPIA (Associazione
nazionale perseguitati politici italiani antifascisti), e progettato dallo studio di architettura da
uno dei suoi soci, Enrico Peressuti. In seguito a questa realizzazione, lo studio divenne il più
influente creatore di memoriali italiani sull'Olocausto. Lo studio firmò un memoriale
italiano collocato nel campo di concentramento di Gusen, nei pressi di Mauthausen, un
padiglione commemorativo italiano ad Auschwitz. A Carpi, lo studio ideò uno spazio che
sintetizzava storia e commemorazione, fatto di sale con le volte e le pareti che recano incisi
nomi e frasi dei deportati. La principale ragione di questo intenso e del tutto particolare
impegno era personale: uno dei quattro soci, Gian Luigi Banfi, era morto a Gusen-
Mauthausen dopo aver combattuto nella Resistenza; Lodovico Belgiojoso aveva seguito lo
stesso percorso ma era sopravvissuto; ed Ernesto Rogers era fuggito in Svizzera per sottrarsi
alle persecuzioni razziali. Il progetto di Peressuti per il monumento seguiva un intento di
commemorazione storica e antifascista: un po' di terra proveniente da Mauthausen era
racchiusa in un cubo di vetro, il tutto circondato da filo spinato. L'opera è astratta e in ugual
misura universale, e nella sua concezione rigetta le tradizionali targhe commemorative con i
nomi, evocando invece la terra e l'aria di una realtà totalizzante, in uno spazio segnato da
una recinzione simbolo dell'imprigionamento. Il lavoro esprimeva un forte impulso alla
riflessione universale come risposta alla guerra, alla perdita e alla brutalità estrema della
violenza nazista, predominante nel momento postbellico. Come ha notato Bruno Zevi,
l'opera si teneva in equilibrio tra architettura e scultura, tra l'evocazione di uno spazio
interiore e di un'esperienza intima, e lo spazio pubblico esterno. Nella storia del monumento
le tensioni affiorarono dopo il 1946. i familiari delle vittime erano insoddisfatti per l'assenza
dei nomi e quindi per la mancata possibilità di un lutto privato e per questo iniziarono ad
apporvi improvvisate targhe formali con i nomi, finchè una terza versione tornò a
semplificarne l'aspetto. Eppure il monumento costituiva per altri versi un grande successo. Il
suo scopo era quello commemorare uan non specificata categoria di ''caduti'', senza
distinzioni tra i vari tipi di Lager né fra i motivi della deportazione. Guardando a ritrovo è
difficile rintracciare le prime consapevolezze del genocidio nazista e inserire informazioni e
risposte all'interno del panorama vasto e rapidamente cangiante delle notizie riguardanti la
possibile fine del conflitto mondiale nel 1944-45. già nei primi anni della guerra era filtrati
in Italia frammenti di informazione. Primo Levi, nel suo libro autobiografico Il sistema
periodico, rileva come lui stesso e i suoi amici cercassero di afferrare e al tempo stesso
scegliessero di ignorare i segnali di ciò che stava accadendo agli ebrei d'Europa, vivendo in
uno stato di cecità volontaria. Quando nel 1971 scrisse una deposizione, per il processo di
Friedrich Bosshammer (il rappresentante di Eichmann in Italia), Levi elencò cinque fonti
per le informazioni circolanti nel Nord-Italia prima della propria deportazione. La
testimonianza di Levi di una eterogenea e lacunosa raccolta di informazioni può applicarsi
non solo agli anni precedenti ma anche a quelli immediatamente successi alla conclusione
del conflitto. Nel caso italiano, in cui l'intero periodo che va dal 1943 al 1948 costituì
un'unica fase di transizione dal fascismo alla guerra civile, all'occupazione e a Salò, fino alla
democrazia e ad una nuova repubblica. La nazione, lo stato e l'idea stessa di Italia erano nel
caos, e la stampa nazionale non faceva eccezione: alla fine del conflitto era a stento rimasta
in piedi, il Corriere della sera per esempio era stato chiuso dalle forze di liberazione nel
1945, e là dove ancora esisteva era totalmente concentrata sulla lotta per la sopravvivenza
della nazione. Nell'aprile 1945, mentre la stampa e la radio europei restavano pietrificati da
strazianti immagini proveniente da Bergen-Belsen, Buchenwald, l'Italia stava attraversando
le forche caudine della propria guerra, con la liberazione di Milano e del Nord proclamata il
25 aprile, nonché l'esecuzione di Mussolini il 28 aprile, fatti che distoglievano ogni
attenzione da quei remotissimi campi e dai loro resti agghiaccianti. Ci furono certo delle
eccezioni, in particolare negli organi dell'antifascismo militante che erano stati attivi durante
la lotta di Resistenza. Il giornale socialista Avanti pubblicò nel 1945 svariati articoli sui
campi italini di raccolta e pre-deportazione di Bolzano e Fossoli, e su Mauthausen, la
principale destinazione per i deportati della Resistenza italiana. Ma la maggior parte delle
testate italiane avrebbe atteso sino alla fine del 1945, con l'avvio dei processi di
Norimberga, per prendere atto in maniera concertata di ciò che stava iniziando a essere
chiamato genocidio, crimini di guerra o crimini contro l'umanità. Il 14 dicembre 1945,
L'Unità pubblicò articoli e fotografie intitolando ''Si parla di campi di morte''. Si ebbero
anche riflessioni sulla questione ebraica negli ambiti intellettuali. Benedetto Croce, una
sorta di eroe liberale per il suo distaccato antifascismo, si lasciò influenzare da una serie di
saggi antisemitici scritti da Cesare Merzagora. Croce, nella sua prefazione al libro, se da una
parte come Merzagora rifiutava l'idea in sé della persecuzione, dall'altra faceva delle
osservazioni contro l'ostentazione di una peculiarità o di una differenza ebraica, insistendo
sul fatto che gli ebrei reduci non dovevano aspettarsi privilegi o preferenze per le sofferenze
subite, ma che era loro dovere fare il possibile per integrarsi con gli altri italiani. Croce e
Merzagora erano preoccupati per il grosso problema del ritorno. C'erano quasi due milioni
di prigionieri di guerra italiani che nei mesi del dopoguerra si univano alla massi di profughi
e superstiti di tutte le nazionalità che vagavano attraverso paesi e continenti in viaggi di
ritorno e di difficile reintegrazione. Queste maree di reduci affamati, deboli e traumatizzati,
non erano facili da scindere in distinti gruppi o categorie (ebrei, prigionieri politici,
lavoratori forzati), ognuno con le proprie particolari esperienza da raccontare. I prigionieri
italiani di ogni tipo impiegarono più tempo di tutti gli altri per far ritorno a casa, in parte per
motivi politici: l'Italia era presa in mezzo tra la sua precedente partecipazione all'Asse e le
sue fragili alleanze post-armistizio. Nel 1945-46, raggiungere la propria casa, rintracciare i
parenti o trovare notizie della loro scomparsa, partecipare per offrire un aiuto pratico per la
reintegrazione erano compiti tutt'altro che facili e privi di problemi. Ed era questo lo scopo
che stava dietro alla copertura mediatica; gli elenchi di Mauthausen dell'Avanti scaturivano
dall'intento di identificare, trovare e riportare a casa i sopravvissuti. E questo stesso
obiettivo fu anche ciò che portò al formarsi delle prime associazioni, come l'ANED. In tutto
questo flusso di attività e movimenti di persone, che caratterizzò i mesi seguiti alla fine del
conflitto, erano già presenti i contorni di ciò che in seguito sarebbe andato sotto l'etichetta di
Olocausto. Come in parecchi altri paesi dell'Europa occidentale, la metà degli anni quaranta
vide sorgere in Italiaq una consapevolezza del genocidio che aveva manifestazioni e forme
di rappresentazione pubblica ricche e varie, a tratti con momenti che rivelavano una più
generale, benchè sempre frammentaria, presa d'atto delle vere e proprie vette di orrore
raggiunte da nazismo. Memoriali come quello del Cimitero monumentale di Milano
mostrano come le prime forme culturali di commemorazione e cordoglio, ma anche di
riflessione sui significati della guerra e delle atrocità naziste, andassero di pari passo con le
questioni pratiche e i processi del ritorno.

- Letteratura, storia, testimonianze


La varietà e la complessità del momento postbellico si riflettono nel ventaglio dei primi
racconti scritti dei campi di concentramento al di là delle cronache giornalistiche, un
ventaglio molto ricco che va dalla letteratura allo storiografia e alla testimonianza di prima
mano. I primi tentativi rilevanti di dare forma scritta, in italiano, al genocidio non
provennero da scrittori sopravvissuti, bensì dalle penne in contrasto fra loro di due
intellettuali dotati di un notevole talento letterario, Giacomo Debenedetti e Curzio
Malaparte. 16 ottobre 1943 di Debenedetti risale alla fine del 1944, è una cronaca breve, ma
vividamente umana e a tratti affilata nei toni, quasi fosse ripresa dal vivo nell'area del ghetto
di Roma, quando più di mille ebrei furono rastrellati dai nazisti e caricati sui convogli
ferroviari diretti ad Auschwitz. Brevemente, la narrazione giunge sino all'eccidio delle Fosse
Ardeatine del marzo successivo; e gli strascichi di questo evento sono ripresi nel testo
gemello di Debenedetti, Otto ebrei del 1944. Lo scritto inizia con la testimonianza in
tribunale del commissario, il quale invoca clemenza per aver cancellato i nomi di otto ebrei
dalle liste preliminari di coloro che sarebbero stati trucidati alle Fosse. Debenedetti indirizza
le sue riflessioni, come faranno Croce e Merzagora, al problema della differenza ebraica, sia
nel fascismo che nella nuova democrazia. Anche Debenedetti chiede che si metta fine al
privilegio ebraico. Otto ebrei si pone così in relazione con le esortazioni di Croce ad abolire
la differenza, al di là del lutto privato, e rivendicando anche un'identità nazionale italiana.
Otto ebrei e 16 ottobre 1943 costituiscono una sorta di primi testi italiani sia per la
letteratura sia per la testimonìanza dell'Olocausto. In particolare 16 ottobre 1943 fu un
modello fondamentale per i primi decenni del dopoguerra, nel suo essere cronaca e
reportage, al momento neorealista, nel suo impegno rispetto alla giustizia, all'identità
nazionale e alla resposabilità collettiva. In termini letterari, il testo di Debenedetti ha
costituito un modello influente per la scrittura sull'Olocausto si una tipologia di autore, non
sopravvissuto ma nemmeno osservatore disinteressato: una cronaca sobria con elementi di
invenzione narrativa, di ascolto e trasmissione di seconda mano, e con il tentativo di
indagare complesse problematiche psicologiche e morali. 16 ottobre 1943 somiglia a Kaputt
di Curzio Malaparte, corposo lavoro basato sulle proprie esperienze come corrispondente di
guerra attraverso l'Europa dell'Asse e occupata dall'Asse. Malaparte si sofferma sulla
questione ebraica e sulla sua Soluzione finale. Assiste in diretta al massacro di Iasi in
Romania e si aggira, accompagnato da una guardia, attraverso scene orribili del ghetto di
Varsavia. Il suo è un tono di profonda stanchezza e sofferenza. Malaparte dispiega notevoli
risorse letterarie nel cogliere il degrado fisico, lo scenario dell'Europa nazista così come gli
orrori della guerra e del genocidio nel momento stesso in cui accadevano. Debenedetti e
Malaparte, che scrissero prima della fine del conflitto, prima della fase del ritorno e prima
del consolidarsi in Italia di un qualsiasi precedente di scrittura testimoniale sul tema dei
campi di sterminio, costituiscono modelli contrastanti per il campo della letteratura
dell'Olocausto in Italia: cronaca semidistaccata il primo, rappresentazione melodrammatica
il secondo; uno dall'interno della comunità ebraica e incentrato su di essa, l'altro dall'interno
dell'elite nazifascista. Accanto a queste rispeste letterarie ci furono anche delle serie di
testimonianze in prima persona scritte da reduci, sempre più numerose nei mesi successivi
alla fine del conflitto. Alcuni dei superstiti erano troppo traumatizzati o semplicemente
incapaci di trasmettere l'orrore di ciò che avevano visto, mentre altri sentivano l'urgenza di
mettere sulla carta le proprie esperienze, anche se spesso trovarono un pubblico non in
grado ad ascoltare. Primo Levi fu rifiutato da Einaudi come da altri editori italiani e anche
americani, prima di sottoporre il proprio manoscritto a Franco Antonicelli, un intellettuale
piemontese già impegnato nella Resistenza, la cui casa editrice De Silvia accettò di
pubblicarlo. Molti sopravvissuti, incontrando un così scarso interesse da parte degli editori,
lasciarono i loro lavori a impolverarsi nei cassetti. Questi inizi in sordina, il corpus non letto
dei primi memoriali, stavano gettando le basi per un importante schema ricorrente nel
campo della cultura dell'Olocausto sull'arco lungo del dopoguerra: la ripresa periodica di
documentazione sull'Olocausto, in particolare di testimonianze di prima mano, attraverso la
riscoperta e la ripubblicazione, talvolte postume, di manoscritti risalenti al primo periodo
postbellico. Pur con tutti i problemi di pubblicazione e di pubblico, tuttavia, la metà degli
anni quaranta vide la produzione di un significativo corpus di scritture testimoniali e
resoconti dei campi di concentramento che offrivano un primo potente impatto come
rappresentazione della deportazione e dell'Olocausto. Tra queste opere di storia narrata in
diretta troviamo Un popolo piange di Giancarlo Ottani. Egli era un giornalista e attraverso la
sua opera cita, da fonti di prima e seconda mano, storie di ebrei e altre cronache. È
un'antologia scritta in stile giornalistico: rapido e sintetico, benchè non manchi di
appassionata retorica. Un altro genere di reportage basato sui fatti relativi ai campi di
concentramento apparve sotto forma di rapporto medico sulle condizioni igieniche e
sanitarie del campi di Monowitz-Auschiwitz. Il rapporto, uno dei cui coautori era un medico
ebrei torinese sopravvissuto, Leonardo De Benedetti, fu pubblicato sulla rivista specialistica
Minerva medica nel 1946. Con scrupoli dettagli tecnici, il testo descrive le comuni
condizioni mediche in cui vivevano i prigionieri, la loro dieta e la loro situazione sanitaria.
In tutto il corpus si trova un precario parallelismo tra la Resistenza armata e la deportazione.
Per molti autori la deportazione è vissuta come resistenza e i detenuti nei campi plasmano la
propria identità e strategia di sopravvivenza, e la loro dignità nel ritorno, aderendoa
un'identità come partigiani o come soldati, entrambe figure patriottiche, così che il discorso
diventa anche la rivendicazione di un'identità nazionale. Le modalità di scrittura della
deportazioni rispecchiano certe modalità di scrittura della Resistenza, che è poi la principale
fonte dell'esplosione culturale avvenuta in Italia nel dopoguerra, nota come neorealismo.
L'impulso narrativo primordiale e collettivo del neorealismo trova eco nella narrazione
episodica di Levi. I testi mostrano anche le caratteristiche dell'oralità, sottrazioni e
troncature, centralità dei dialoghi, tipiche del neorealismo. Al di là dei toni neorealistici, i
primi testi della deportazione hanno anche fatto ricorso a una lunga tradizione di scrittura e
di rituali di morte, lutto e sofferenza. Per molti italiani l'Inferno di Dante costituisce un
punto di riferimento familiare e ricorrente: in Levi è presente in maniera diffusa e sottile, ma
anche molti altri evocano Porte dell'Inferno, i tedeschi come demoni infernali e via dicendo.
A volte, tuttavia, questi riferimenti vengono tesi fino al punto di rottura, come a intuire la
dimensione di un'esperienza del tutto nuova. Ne è un esempio il costante timore che nei
campi si produca l'annientamento delle virtù del tempo di guerra, l'azione, l'onore, l'eroismo,
come pure dei valori cristiani e socialisti dell'altruismo e della solidarietà, dato che in quei
luoghi solo l'egoista sopravvive. Questa ansia implica un interrogativo sulla vera natura
dell'essere umano, come categoria, come specie, come portatore di valori, lo stesso essere
umano con tanta eloquenza evocato dal titolo di Levi Se questo è un uomo. Interrogare
questo topos di uomo umanitario nel quadro di una risposta all'Olocausto è una caratteristica
pregnante di questo momento postbellico in generale. L'evocazione delle virtù militari e del
loro fallimento, e l'impiego del termine uomo portano anche a riflettere sui lavori di questo
corpus iniziale scritti da donne. Spesso queste ultime nei loro resoconti sull'internamento si
concentrano su aspetti diversi, l'amicizia, le comunità e i legami intimi che si creano nei
campi, e forniscono un ricco contrappunto rispetto ad alcuni dei più duri, realistici punti
focali. Di questi lavori due in particolare, quelli di Millu e Tedeschi, diventeranno, in
successive riedizioni e rielaborazioni, testi cruciali nel canone della letteratura italiana
dell'Olocausto. Anche sotto il profilo della forma e del linguaggio, alcuni dei primi resoconti
sono tormentati e complessi, per l'impossibilità di tradurre in chiari termini realistici il peso
traumatico delle esperienze narrate. Un quaderno di Buchenwald di Charles Cohen si avvale
del vecchio artificio letterario del manoscritto ritrovato, in quanto esso è un diario
dell'internamento lasciato nel campo da un sopravvissuto dopo la guerra, ponendo problemi
nuovi connessi all'identità e alla sua dissoluzione, alla memoria, alla testimonianza di prima
e seconda mano e alla conoscenza di sé. In opere come questa, il corpus giunge a far
presagire le concezioni dell'Olocausto come profonda frattura o perdita ontologica. La
perdita si riflette nelle crisi del sé, del linguaggio e dell'essere. In Un quaderno di
Buchenwald il senso di perdita del sé è trasmesso dall'assenza di specchi nei campi, e
dunque dall'impossibilità letterale e metaforica dell'autoriconoscimento. Molti dei
sopravvissuti constatano una crisi del linguaggio. Levi si sofferma sul danno prodotto al
linguaggio dai campi affermando che il modo di aver freddo, fame, stanchezza, paura e
dolore esigerebbe un nome particolare. Bizzarri elabora una varietà di soluzioni ibride per
forma e per genere al problema già allora emergentge di come poter scrivere sull'Olocausto.
Il suo testo finzionale del 1947, Proibito vivere, colloca al centro della sua rappresentazione
dei campi l'atto stesso del narrare: otto prigionieri tutte le domeniche si riuniscono per
raccontarsi storie e recitare poesie (con echi del Boccaccio). Le storie che narrano trattano in
apparenza del mondo esterno, ma non possono fare a meno di riverberare e interrogare il
significato della loro situazione disperata nel campo nazista. Ogni incontro è precario e
toccante, poiché via via che il romanzo procede i presenti sono sempre di meno, trasferiti in
altri campi o uccisi. Gli slittamenti o anche i giochi di forma evocano problematiche
connesse a come trasporre in scrittura l'esperienza della deportazione e del ritorno. La
confusione dei primi anni del dopoguerra si riflette nella complessa varietà delle prime
formulazioni scritte di risposta e rappresentazione dell'Olocausto, nei modi di esprimersi,
così come si era riflessa nei problemi di presenza o meno dei nomi per il monumento del
Cimitero di Milano.

- 1958/63: il nuovo campo culturale


Gli anni dalla fine dei quaranta alla fine dei cinquanta sono spesso visti come un periodo di
silenzio e oblio del genocidio, in Italia e più in generale anche in Europa, un periodo di
restrizioni generate dalla Guerra fredda nel quale le voci degli ebrei sopravvissuti perlopiù
tacevano e scarso era l'interesse ad ascoltare i racconti dei superstiti, là dove ve ne fossero.
All'interno della comunità ebreaica c'era il desiderio di superare il trauma della guerra, di
ricostruire le comunità, di guardare al nuovo stato di Israele anziché richiamare alla mente il
dramma della persecuzione. Non era tuttavia un silenzio totale; la metà degli anni cinquanta
aveva assistito a un complesso di importanti eventi, interventi e iniziative sui campi di
concentramento, sulla deportazione e sulla memoria. Fra i tardi anni cinquanta e i primi
sessanta si ebbe invece una sorta di cambio di passo nell'attenzione rivolta all'Olocausto. Fra
il 1958 e il 1963 apparve una varia e ricca serie di rilevanti materiali testimoniali e
storiografici sulla deportazione e sui campi di concentramento. Forse la più significativa
opera prima di testimonianza fu Chi ti ama così, del 1959, di Edith Bruck, libro di memorie
intenso sulla deportazione ad Auschwitz dall'Ungheria dell'autrice quand'era ragazza, sulla
sua sopravvivenza, l'emigrazione a Israele e la fuga in Italia. I numerosi lavori di Bruck in
qualità di scrittrice-sopravvissuta, ancora attiva nel 2012, avrebbero costituito il più ricco
contributo in italiano dopo quello di Primo Levi. Due altri filoni di pubblicazioni erano
sintomatici di un crescente interesse verso i materiali correlati all'Olocausto: le riedizioni di
opere di testimonianza uscite in precedenza e le traduzioni. Il primo filone è illustrato al
meglio dall'edizione Einaudi del 1958 di Se questo è un uomo di Levi. Fra il 1958 e il 1963
uscirono poi molte traduzioni del Diario di Anna Frank e La specie umana del deportato
politico francese Robert Antelme. Due diari dell'Olocausto recuperati dalle macerie del
ghetto di Varsavia. Infine, cominciò a prodursi anche una storiografia sull'Olocausto in
italiano. Di gran lunga il più significativo lavoro di ricerca in italiano fu la Storia degli ebrei
italiano di De Felice, perchè segnava la prima incursione di questo storico nel campo della
storiografia del fascismo, un campo nel quale nei decenni a seguire sarebbe divenuto la voce
preminente. Nella narrativa di finzione, questo periodo segnò il passaggio verso un registro
letterario maggiormente inventivo nel modo di trattare l'Olocausto, come illustrato da Levi
ne La tregua, quest'ultimo testo più una tragicommedia picaresca che non un sobrio lavoro
di testimonianza; ma anche da una parallela evoluzione di Edith Bruck che si tradusse nella
raccolta di racconti Andremo in città, in uno dei quali, per esempio, si fantasticava sulla
salvezza attraverso gli occhi di un bambino. Le opere offrono nel loro insieme la
dimostrazione di come la letteratura mainstream stesse aprendosi alla rappresentazione
dell'Olocausto. Passando a esaminare la narrativa in traduzione, si trova nel biennio 1959-60
due opere di straordinario successo internazionale. Nel 1953 lo scrittore-sopravvissutto
israeliano noto come Ka-Tzetnik aveva pubblicato il suo bestseller mondiale La casa delle
bambole; tradotto da Mondadori, il libro ebbe sette edizioni in nove mesi. Ambientato nelle
baracche femminili dei campi di concentramento in cui le donne erano costrette a
prostituirsi, La casa delle bambole fu uno dei primi grandi romanzi sul tema, iniziatore di un
filone che avrebbe raggiunto il suo picco negli anni settanta, la sessualizzazione
dell'Olocausto. Nel cinema, questo stesso periodo vide il primo importante blocco di
produzione filmica italiana sull'Olocausto. Anche i film denotano un'attenzione
all'Olocausto sia come fenomeno internazionale sia per specifici aspetti locali. Nel 1959, il
film di Roberto Rossellini Il generale della Rovere, protagonista Vittorio De Sica, narrava
una drammatica storia di partigiani in carcere, che al suo apice conclusivo toccava il tema
della persecuzione verso gli ebrei. Nel 1961 Carlo Lizzano girò L'oro di Roma, una
ricostruzione della persecuzione della comunità ebreica romana da parte dei fascisti e dei
nazisti del 1943, in cui il giovane protagonista sceglie di affermare se stesso sia come ebreo
sia come italiano, avviandosi nelle campagne romane per unirsi alle fila della Resistenza. Ci
sono in questo periodo ulteriori canali di diffusione su larga scala della consapevolezza
dell'Olocausto, sotto forma di eventi mediatizzati e di nuove tribune pubbliche di
discussione. Un epocale evento mediatico dei primi anni sessanta è predominante in tutte le
analisi relative al crearsi di una consapevolezza mondiale dell'Olocausto: la cattura, il
processo e l'esecuzione di Adolf Eichmann fra il 1960 e il 1962. l'Italia non fece eccezione;
benchè un solo testimone italiano fosse stato chiamato a deporre in aula a una sola udienza
fosse stata dedicata all'Italia, quotidiani italiani come il Corriere della Sera, La Stampa e il
Giorno pubblicavano regolarmente i servizi dei loro inviati presso il tribunale israeliano.
Agli eventi mediatici si accompagnavano altri eventi pubblici, di genere più locale,
partecipativo: commemorazioni, dibattiti pubblici, mostre, conferenze. Svariate furone le
iniziative mirate a far riflettere su come l'Italia vedeva il proprio passato. Cicli di conferenze
pubbliche tenute nelle maggiori città – Torino, Milano, Roma, Bologna – attirarono un
ampio uditorio, rappresentativo di diverse generazioni. Anche le mostre iniziarono a farsi
più numerose. Quella di Carpi venne fatta girare in dieci grandi città, occasione in cui si
ebbe il primo intervento pubblico di Levi. L'ANED avrebbe preso spunto da questa
esposizione per creare una propria raccolta permanente di materiali. Intorno agli anni 1958-
63 si ebbe dunque in Italia un'eterogenea ondata di produzione e attività culturale in
rapporto all'Olocausto. Con la guerra ormai finita da quindici anni, i tempi erano maturi per
una generale, distaccata rivalutazione dei vari aspetti della sua storia, genocidio compreso.
Questo cambiamento coincise con una fase di espansione e diversificazione dell'industria
editoriale, così che i materiali di studio, quelli educativi e quelli di più ampia diffusione,
trovarono tutti un loro spazio per illuminare da questa nuova angolazione prospettica il
recente passato, mentre andavano rafforzandosi anche i circuiti internazionali di diffusione e
traduzione. La distanza temporale implicava anche che, per la prima volta, emergesse
fortemente una cultura, in senso stretto, della memoria, in parallelo a una storiografia
documentata; e complementare a questo sviluppo era la tendenza a spostare l'interesse dalla
malvagità dei leader nazisti all'esperienza delle vittime. Le nuove elaborazioni culturali di
questo periodo costituiscono non tanto la prima fase in cui l'Olocausto sia stato oggetto di
interesse in Italia, quanto piuttosto la prima volta che l'Olocausto entrava a pieno titolo nella
sfera pubblica e nel discorso pubblico generali, la prima volta in cui i media lo hanno visto
come un evento a sé stante in grado di attrarre audience, e la prima volta in cui gli scrittori
hanno utilizzato il lessi del genocidio quale elemento di un sapere culturale pubblico e
condiviso.

5. Primo Levi

Le modalità che plasmano le forme culturali conferite all'Olocausto in un determinato


contesto nazionale, i giudizi recepiti e le conoscenze comuni che circolano intorno a esso, i
simboli che giungono a esprimerlo si manifestano attraverso elaborati processi di
mediazione. La mediazione può avvenire in tanti modi: uno stato d'animo collettivo o una
dimensione emotiva possono permeare la risposta all'Olocausto, ad esempio un senso di
colpa, come nel caso della Germania o un clima di lutto e di sfida patriottica, nel caso di
Israele. Le declinazioni locali del più vasto discorso culturale e memorialistico possono
anche essere determinate dalla capacità di operare attivamente e dall'influenza di singole
voci in un determinato campo culturale. Peter Novick pone l'accento sulla figura di Elie
Wiesel e sulla straordinaria autorevolezza morale da lui esercitata sulle elite di Washington e
sul pubblico americano in generale, influenzando il modo in cui l'Olocausto è stato
memorializzato in quel paese. Ciò non era facilmente prevedibile per un sopravvissuto di
origini transilvane, la cui prima opera fu pubblicata in yiddish a Buenos Aires. Eppure,
evidentemente, qualcosa nella sua voce e nel suo ruolo entrò in risonanza, riuscendo ad
adattarvisi, con le correnti culturali e i modi di pensare americani del tempo: Novick
individua le radici di questa capacità di adattamento in un'affinità tra il giudaismo mistico di
Wiesel e la forte presenza cristiana nella vita pubblica americana, con l'Olocausto visto
come una forma di mistero sacro. In Italia, nel corso del dopoguerra, il profilo di Levi ha
raggiunto un notevolo picco di apprezzamento e di autorevolezza, che continua oltre la sua
morte e che dall'Italia si è diffuso in tutto il mondo. Questo capitolo tenterà di sondare le
complessità del ruolo e dell'influenza particolari esercitati da Levi nell'ambito locale della
cultura dell'Olocausto maturata in Italia nei decenni del dopoguerra.

- Il profilo culturale di Levi


A un certo punto della storia, in Italia la figura del sopravvissuto all'Olocausto, e quella
dello scrittore-sopravvissutto, è andata identificandosi con Levi. Il profilo culturale di Levi
aveva una propria peculiare storia all'interno della sfera culturale italiana. L'ingresso di Levi
nella sfera culturale pubblica può farsi risalire tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli
anni sessanta. Benchè il suo primo libro, Se questo è un uomo, nella prima edizione del
1947 fosse stato recensito e apprezzato nella ristretta cerchia intellettuale torinese, fu solo
con la sua seconda edizione del 1958, seguita a un contratto firmato con Einaudi, che ebbe
inizio la seconda carriera di Levi come testimone pubblico e scrittore. Nel 1959 egli
partecipò per la prima volta a un evento pubblico, una conferenza legata a una mostra sui
campi di concentramento allestita a Torino. Nel 1961 rilasciò la sua prima intervista su
Eichmann e scrisse un articolo sullo stesso tema. Iniziò a lavorare al suo secondo libro, La
tregua, che gli aprì le porte di una carriera letteraria di una certa rilevanza, accanto alla
carriera di sopravvissuto dell'Olocausto. Levi iniziò a intraprendere molte delle tipiche
attività di un intellettuale italiano dell'epoca. Scriveva articoli, recensioni, saggi e racconti
per quotidiani. Rilasciò interviste per giornali, radio e televisione, tenne conferenze e
interventi pubblici, in veste di sopravvissuto dell'Olocausto, per promuovere un determinato
libro o evento. Tradusse lui stesso opere letterarie sull'Olocausto, e all'Einaudi, dietro le
quinte, fu consulente occasionale, scrivendo un certo numero di pareri editoriali. Alla metà
degli anni ottanta, il profilo di Levi ebbe un ulteriore scarto in avanti quando il suo lavoro
ottenne il plauso internazionale, soprattutto americano, e successivamente la sua reputazione
fu reimportata in Italia accresciuta da un simile riconoscimento mondiale. In questo periodo
la sua attività fu intensa, infatti pubblicò ben sette volumi di storia, saggistica, poesia e
narrativa. Se possibile, tuttavia, dopo il suicidio, nel 1987, la sua reputazione postuma
raggiunse un picco ancora più elevato, in Italia e all'estero, in concomitanza con il
diffondersi di una forte attrazione per tutto ciò che fosse connesso con l'Olocausto. Per farci
un'idea della particolare configurazione dell'Olocausto tracciata da Levi, così come veniva
trasmessa nelle scuole e in altri contesti pubblici, bisogna concentrarsi sui suoi scritti
occasoniali e padagogici. È qui che Levi più consapevolmente si impegna nel campo della
risposta all'Olocausto, fa scelte e raccomandazioni, rifiuta determinate posizioni e ne
promuove determinate altre.

- La biblioteca dell'Olocausto di Levi


La sezione della biblioteca di Levi sul nazismo e sull'Olocausto rappresentava una sorta di
eccezione per i suoi normali schemi di lettura governati dalla sua curiosità eterogenea,
poiché pare sia stata vicina all'essere onnicomprensiva, coprendo numerose aree
linguistiche, e scrupolosamente alimentata. Su cosa si basava principalmente Levi per il
proprio lavoro sull'Olocausto? Che cosa questo dato può dirci della sua interpretazione
dell'evento, via via che la sua voce diveniva sempre più influente nel discorso sull'Olocausto
in Italia? Si può iniziare a sondare questo aspetto guardando a un'edizione del 1973 di Se
questo è un uomo. Si tratta del primo volume di Levi uscito nella collana di Einaudi ''Letture
per la scuola media'', uno strumento cruciale per la diffusione della sua voce sull'Olocausto
presso un vasto pubblico di lettori. La creazione di questa collana, e la presenza al suo
interno dell'opera di Levi, riflettono significativi cambiamenti nei processi educativi degli
anni sessanta, in particolare l'aggiornamento del programma di storia così che potesse
comprendere il Novecento. In generale, il periodo vide un incremento, nella didattica sia
dell'italiano che della storia, della sensibilità verso i temi del contemporaneo e della
propensione ad affrontarli nella scuola, per una generazione di giovani in aumento e in
possesso di una nuova consapevolezza sociale. Cruciale fu, nel trasmettere questa
conoscenza ai giovani studenti, il ruolo svolto dalla generazione che aveva vissuto la guerra
ed era stata testimone dell'Olocausto, un ruolo spesso organizzato da associazioni come
l'ANED, e che si era concretato in una vasta campagna di interventi nelle scuole e nella
partecipazione a eventi in tutto il paese. Levi si impegnò a fondo in questo progetto. La sua
appendice a Se questo è un uomo riassumeva le domande che gli erano state ripetutamente
poste nel corso degli anni. Grazie all'edizione del 1973 di Se questo è un uomo, Levi entrò
in centinaia di scuole nelle quali non avrebbe materialmente potuto recarsi di persona. Cosa
insolita per la collana, diventò il curatore di se stesso: scrisse una nuova introduzione e,
soprattutto, incluse anche una breve bibliografia di approfondimento. Per quanto riguarda la
bibliografia, sorprende il fatto che tra i materiali c'è una netta prevalenza di libri Einaudi
dovuta in parte a un senso di fedeltà verso l'editore, che però riflette anche un particolare
impegno di Einaudi nel pubblicare opere sull'Olocausto. Nell'elenco di libri, Levi tenta di
trovare il giusto mezzo fra storiografia e racconti di prima mano dei protagonisti, fra
documentazione storica e testimonianza. Ma si resta colpiti da come l'immediatezza
dell'evento sia di importanza centrale, da come la storia sia radicata nell'esperienza in prima
persona, che sia scritta da protagonisti o basata su documenti di prima mano. Ciò conferma
la tesi secondo cui Levi non era uno storico accademico ma si muoveva in sintonia con una
forma di storia di livello culturale medio, concepita per un pubblico di lettori più vasto ma
rimanda anche all'affinità di Levi rispetto alla figura del testimone, di prima o seconda
mano, come modello fondamentale di inquadramento storico dell'Olocausto. Alcuni
resoconti della comparsa di questa figura vedono nel processo di Eichmann il momento in
cui la figura stessa e il paradigma del testimone si sono consolidati, attraverso la strategia di
Hausner di impostare il processo come una sfilata di deposizioni strazianti dei sopravvissuti.
Ciò nonostante, Levi bilancia questo orientamento storico incentrato sul testimone con un
certo tipo di storiografia, caratterizzata da fonti documentarie, basate sui processi, che
coprono una gamma di sfere d'interesse, compreso il nazismo in generale, la deportazione di
ebrei italiano da Roma, la Resistenza italiana, le vittime e i perpetratori della Soluzione
finale. Sul fronte delle testimonianze, c'è nell'elenco un importante nucleo di lavori:
Antelme, Caleffi, Frank. Ciascuno rappresenta un'opera pionieristica nelle varie forme
europee di scrittura testimoniale (italiana, francese, olandese). Antelme, Caleffi, Frank e
Levi sono legati da un filo comune, tipico delle riflessioni sulla guerra e sull'Olocausto degli
anni quaranta: il discorso umanista sull'Olocausto del periodo postbellico, nel senso di una
mediazione morale sui valori e sui limiti dell'essere umano. Esso si rende evidente nei titoli
dei libri di Levi e di Antelme (La specie umana) e anceh dietro la risonanza universale del
Diario di Anna Frank. Il genere di libri di storia presenti nella bibliografia di Levi portano a
considerare un'ultima, fondamentale questione: la questioni di quale Olocausto Levi stia
presentando. Anzitutto, occorre notare che Levi è interessato all'Olocausto come fenomeno
nazista o tedesco. Lo mostra dalla parte delle vittime, attraverso le loro testimonianze, ma
anche dalla parte dei perpetratori e del regime che sta dietro di essi. Hausner, Poliakov,
Russell, tutti offrono indagini sulla Germania nazista e sui nazisti, tanto quanto sulle
vittime. Levi è anche, coerente ad allineare la propria esperienza a quella dei combattenti
della Resistenza e dei deportati politici, oltre che delle vittime ebree (lui stesso apparteneva
ad entrambe le categorie). A questo proposito, Levi si richiama alle modalità ufficiali di
Israele per la commemorazione dell'Olocausto; vale a dire, ponendo l'accento non solo sulla
condizione di vittime ma anche su immagini forti, di riscatto, degli ebrei come resistenti. La
cattura e il processo di Eichmann diventarono un segnale mitico della forza dello Stato di
Israele nel riscattare e ribaltare l'immagine degli ebrei visti come vittime.
Quest'orientamento di Levi era senza dubbio legato al momento, il 1973, in una fase in cui
vi è la guerra dei Sei giorni, nella quale la maggioranza della diaspora ebraica si infervorava
per la sopravvivenza di Israele a dispetto di tutto. Questa bibliografia è utile e sintomatica in
quanto fotografa la particolare visione e interpretazione dell'Olocausto incarnata da Levi ed
espressa nel suo ruolo pubblico: indica la sua preferenza per i documenti di prima mano e le
voci di testimoni di entrambi i fronti, integrata dalla prima storiografia sul campo; per
un'indagine morale o umanista sull'Olocausto; e per una visione ecumenica, nel senso di ciò
che l'Olocausto comprende in sé, nazismo e Resistenza, insieme a una dovuta enfasi sulla
dimensione ebraica della persecuzione.

- Nominazione e retorica
La biblioteca concettuale di Levi sull'Olocausto rappresenta solo uno dei molti possibili
modi di testare il terreno della sua visione culturale e storiografica dell'Olocausto. Per
completare la mappa di quel terreno, si può toccare tre filoni di indagine complementari.
Una prima area utile è l'impegno di Levi in discorsi contigui o intrecciati al tema
dell'Olocausto, quali il razzismo, la bomba e il Gulag. Elemento centrale nelle discussioni di
Levi sul razzismo era la sua propensione verso un'interpretazione etologica del termine,
come un istinto animale, prima ancora che come fenomeno storico. Una tale concezione è
già presente nella prefazione a Se questo è un uomo, là dove parla dell'impulso umano
universale a ritenere che ogni straniero è nemico. Il discorso di Levi sul rischio di
distruzione nucleare, che permeava il clima generale di ansietà della Guerra fredda negli
anni cinquanta-settanta, fu molto marcato. Le sue conoscenze scientifiche gli davano modo
di individuare degli aspetti nelle due minacce della modernità, Auschwitz e Hiroshima, e in
ciò che hanno da dirci sulla tecnologia; sulla moralità pubblica della scienza, con il suo
difficile equilibrio di rischio e responsabilità. Infine, Levi era sempre più incline a tracciare
dei paragoni tra i campi nazisti e i Gulag sovietici come mezzo per distinguere le specifiche
caratteristiche dei primi. Vi sono anche analogie e lessici dell'Olocausto che Levi omette o
rifiuta. La sua ostilità si ritorce verso le letture psicoanalitiche del nazismo e dei campi,
evidente in una serie di risposte ostili al lavoro di Bruno Bettelheim. Ciò si colloca in un
interessante rapporto con la sua analisi dell'Olocausto orientata alla singolarità
dell'individuo; per Levi essa può portare a letture sociologiche, etologiche o antropologiche,
più che non agli strati nascosti della psiche. Il suo interesse è per i meccanismi della mente
che consentono determinate azioni e omissioni. Si trovano omissioni importanti anche nella
storiografia di Levi, a tal proposito è stupefacente notare l'assenza del libro di Raul Hilberg,
La distruzione degli ebrei d'Europa, la più importante storia dell'Olocausto. Hilberg ha
suscitato varie critiche per il suo rifiuto di basarsi su testimonianze o in generale su prove
derivanti dalle vittime, e questo era in contrasto con la dimensione morale, testimoniale e
centrata sull'individuo di Levi. Un'ulteriore linea di indagine concerne le strategie di Levi
per nominare l'Olocausto. L'importanza di quest'area non riguarda solamente Levi: questioni
linguistiche e di nominazione sono state al centro di svariati ambiti della ricerca
sull'Olocausto, dagli studi sulle distorsioni della lingua tedesca operate dai nazisti, all'uso
del termine ''genocidio'' durante i processi di Norimberga, agli intensi dibattiti sorti intorno
al termine stesso ''Olocausto''. Di tutti gli scrittore-sopravvissuti, Levi fu quello che mostrò
il più acuto interesse per il linguaggio. I termini che utilizzava per l'evento oggi noto come
Olocausto sono significativi. Il suo primissimo lavoro pubblicato già parla di annientamento
degli ebrei d'Europa, un'espressione sorprendente per il 1946, quando la specificità della
violenza contro gli ebrei stava ancora lottando per emergere da un'idea più generalizzata
della barbarie nazista. Facendo un salto in avanti, ai suoi ultimissimi scritti sull'Olocausto di
inizio 1987, si vede che la lotta per la nominazione non si è ancora spenta: in un articolo
sulla controversia fra gli storici tedeschi, Levi utilizza espressioni come ''strage hitleriana
del popolo ebreo'', ''Auschwitz'', ''inferno'', ''Lager''. Levi sembrava rifuggire da termini
standardizzato e saturi, anche se in altre occasioni si era rassegnato al prevalente Olocausto,
per indirizzare l'attenzione verso accurate distinzioni storiche che richiedono un'articolata
elaborazione. In un altro scritto dell'ultima fase, si trovano espressioni che alludono alla
comunità dei deportati-sopravvissuti, ebrei e politici, con ricordi di sofferenza condivisi:
''deportazione politica di massa'', ''questo moderno ritorno alla barbarie''. La voce più
significativa e contraddistintiva del lessico di Levi per l'Olocausto fu tuttavia il termine
Lager, che utilizzò più di qualunque altro scrittore e che in Italia è entrato nell'uso corrente.
È un termine che punta alla neutralità. Innanzitutto, riporta ai primi inquadramenti
concettuali del dopoguerra per comprendere il nazismo e l'Olocausto e suggerisce una
nozione del campo come specifico luogo o spazio chiuso, con le proprie leggi e una propria
storia. Evita di privilegiare un singolo luogo o nome, e quindi la tentazione di sacralizzare
dei siti specifici, tentazione che è stata una spinta forte nell'uso retorico di toponimi quali
''Auschwitz''. Racchiude in un unico termine l'intera gamma dei diversi tipi di campo (di
lavoro, di concentramento, di sterminio) senza possedere alcuna specifica connotazione
ebraica. Se una connotazione forte ce l'ha, è rispetto ai perpetratori, poiché evoca le qualità
di straniero e di tedesco proprie dell'Olocausto, sia per lingua che per cultura, tutti elementi
coerenti con la lettura compiuta da Levi. Il linguaggio per una retorica pubblica
dell'Olocausto impiegato da Levi raggiunge il massimo livello di elaborazione nel breve
testo, Al visitatore, che scrisse per un monumento alle vittime italiane di Auschwitz. Il
monumento era promosso dall'ANED, e Levi adotta la voce collettiva degli ex deportati
politici rappresentati da quell'associazione. Si sforza di commentare anche la dimensione
italiana di questa storia, ma è attento a rivolgersi a un visitatore indifferenziato,
sottolineando così il messaggio universale e il monito che Auschwitrz rappresenta. Il
fenomeno generalizzato della deportazione è posto accanto ai campi di sterminio; entrambi
sono incarnati in questo campo, Auschwitz. L'atto di bilanciamento è chiaro: Levi usa il
campo per presentare un'Italia buona e un'Italia cattiva, fornendo un'immagine del fascismo
come parentesi nella storia di un paese che è stato civile e che civile è ritornato dopo la notte
del fascismo. Il testo rivolge poi l'attenzione sulla vastità della drammatica sorte degli ebrei.
Qui Levi ancora una volta pone l'accento sulla comprensività, notando che le vittime ebree
erano italiani e stranieri, ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti destinati a
morire. Nel sottolineare la terribile arbitrarietà e indifferenza delle uccisioni e la dimensione
numerica, Levi giunge ad esserire una sorta di unicità, affermando che non era mai successo
che si sterminassero essere umani a milioni, come insetti dannosi. E nel suo rifiuto di
equiparare il Gulag e il Lager, Levi individua un particolare tipo di eccesso della violenza
nazista (l'uccisione dei bambini e degli anziani), quella che definirà violenza inutile. Non si
tratta di un'unicità basata sul genocidio in quanto tale, ma piuttosto una forma unica di
cecità morale e di eccesso totalizzante. Primo Levi non è stato solamente un grande scrittore
e un cronista storico dell'Olocausto. È stato anche il principale mediatore della
consapevolezza dell'Olocausto. L'Olocausto di Levi è radicato in concezioni
universalizzanti, tuttavia il suo lavoro mantiene sempre affinità con gli approcci
caratteristici dei tardi anni quaranta; vale a dire, con la dissezione umanista, morale e
sociale. Questa dimensione umanista, universalista induce Levi a muoversi in direzioni di
carattere politico, come quando parla di un possibile ritorno del fascismo, o si lancia nelle
sue campagna politico-morali sulle armi nucleari e sulla scienza. Levi presenta l'Olocausto
attraverso narrative di individui non psicoanaliticamente intesi come soggetti mossi da
pulsioni inconsce, quanto invece come archetipi di realtà storiche, come vittime, testimoni,
perpetratori, spettatori. A livello nazionale, l'Olocausto di Levi è profondamente radicato
nella politica italiana dell'antifascismo del dopoguerra. Il suo antifascismo, il suo interesse
per la resistenza di singoli individui o gruppi, riflette un paradigma italiano della Resistenza
e in particolare una visione morale, azionista della resistenza. Il confronto di Levi con la
dimensione ebraica dell'Olocausto è senza dubbio costante. Levi ha sempre posto l'accento
sulla specificità ebraica della Soluzione finale e sulla resistenza ebraica e molto fece per
apprendere e trasmettere la cultura ebraica delle vittime andata perduta. Per via di tutti
questi aspetti Levi fu tanto il sintomo quanto la causa della forma assunta dal discorso
nazionale sull'Olocausto nell'Italia postbellica.

6. Roma

La storia dell'Italia come nazione è sempre stata variegata e frammentaria, e la sua cultura
nazionale riccamente diversificata e decentrata. A differenza della Francia o della Gran
Bretagna, con le loro capitali metropolitane in grado di controllare tutto il territorio, l'Italia è
stata caratterizzata da divisioni regionali, da numerose piccole città stato e principati, con
guerre, rivalità e un forte senso di indipendenza locale. L'unificazione nel 1861 e
l'annessione di Roma capitale nel 1870 non furono sufficienti a mitigare queste continue
tensioni. Il nazionalismo del fascismo fu un tentativo di ribaltare questa coscienza nazionale
debole, tentativo che si basò su un rinnovato mito di Roma. È un'ironia della storia il fatto
che, durante la guerra, il destino dell'Italia pareva decidersi ovunque tranne che a Roma. Gli
Alleati avanzavano dal Sud, mentre i tedeschi occupavano il Centro-Nord. Ci fu certamente
anche a Roma una Resistenza urbana, ma di un genere nettamente diverso rispetto alle
bande, alle incursioni del Centro-Nord. Inoltre, il re e il successore di Mussolini, il
maresciallo Badoglio, abbandonarono Roma per fuggire in Puglia nel 1943. Tra il 1943 e il
1945 vi è l'attuazione anche sul suolo italiano della Soluzione finale, con massacri,
deportazioni e fughe disperate, internamenti e campi di concentramento, camere a gas e
convogli ferroviari. La geografia di questo Olocausto sembra principalmente concentrata su
un reticolo di città del Centro-Nord, dalle colline intorno a Torino, dal carcere milanese di
San Vittore alla Risiera di San Sabba nella periferia della Trieste occupata dai nazisti, al
campo di prigionia e transito di Fossoli in Emilia Romagna. Tutte queste località hanno
storie molto particolari e di cruciale importanza nel campo della cultura dell'Olocausto in
epoca postbellica, con la costruzione di un impegno civile e le conseguenze sulla memoria
che ne derivano. In senso tanto storico quanto simbolico, nell'Italia del dopoguerra a più
riprese Roma è tornata ad essere uno dei principali luoghi testimone delle vicende e delle
immagini dell'Olocausto. Alcune delle ragioni di questa prospettiva romacentrica non sono
difficili da intuire. La posizione strategica della città, insieme alla sua millenaria forza di
attrazione sul piano immaginario quale centro della civiltà italiana, sono tutti elementi che
hanno avuto un loro ruolo. Così come lo ha avuto la maggiore visibilità di cui fruiscono le
città capitali, anche in una nazione decentralizzata qual è l'Italia, tanto più che nel
dopoguerra i settori prioritari dell'industria culturale, stampa, cinema, televisione, avevano
sede a Roma e usavano la città come centro di produzione e fonte di storie da raccontare.
Ma c'è dell'altro: qualcosa, nelle complesse vicende di Roma tra il 1943 e il 1944, emana
uno strano fascino, qualcosa che ha la forma e la risonanza del mito, in grado di plasmare le
grandi esperienze collettive di quell'intera epoca e le loro eredità. Lo strano legame esistente
tra Roma e l'Olocausto, alla base di ciò che si può chiamare la questione romana nella
cultura italiano dell'Olocausto, trova le sue origini in una serie di eventi accaduti nella città
tra l'estate del 1943 e la primavera del 1944. Questi eventi hanno portato alla congiuntura di
almeno quattro degli assi dominanti della moderna storia e identità italiane, e ciascuno in
intersezione con la popolazione ebrea della città e con l'Olocausto: l'Italia come nazione, il
fascismo, la Resistenza e la Chiesa. Attraverso questa congiuntura, la questione romana
diventa un indicatore fondamentale di dove si collochi l'Olocausto all'interno della cultura
italiana.

- Roma 1943-44. Una cronaca


Gli eventi accaduti tra il luglio 1943 e il giugno 1944 trasformarono Roma da fiera capitale
di un regime imperialista e totalitario in una città esausta, bombardata, divisa e piombata in
uno stato confusionale. Il 19 luglio le forze aeree americane sganciano su Roma più di 4000
bombe, colpendo depositi ferroviari e aeroportuali, uccidendo 951 civili nel quartiere
operaio di San Lorenzo. L'attacco diretto a Roma è un fatto chiave che contribuisce alla
drammatica rimozione di Mussolini dal potere decisa dal Gran consiglio del fascismo il 25
luglio.
Dopo una fase di euforia seguita alla caduta e all'arresto di Mussolini, l'8 settembre viene
fatto l'annuncio di un prepianificato armistizia fra l'Italia e gli Alleati. Il 9 settembre il capo
di governo Badoglio e il re lasciano Roma. Il 10 settembre arriva l'esercito tedesco e occupa
la città aperta di Roma, dopo una breve resistenza a Porta San Paolo. Il 26 settembre 1943 i
dirigenti della comunità ebraica romana vengono convocati dal comandante della Gestapo a
Roma, Herbert Kappler, il quale esige un tributo di 50 chilogrammi d'oro, da pagarsi entro
36 ore, minacciando in caso contrario di deportare 200 ebrei. Dopo una raccolta di
donazioni promossa dalla comunità, con l'aiuto di non ebrei e con una promessa di appoggio
da parte del Vaticano, l'oro viene consegnato alle autorità naziste. Nei giorni a seguire, le
collezioni di libri rari e di rotoli della sinagoga di Roma vengono saccheggiate, distrutte o
trasferite in Germania.
Il 16 ottobre 1943, 1259 ebrei vengono prelevati. L'operazione è condotta da una divisione
delle SS aiutata dalla polizia italiana; è il rastrellamento più vasto compiuto in Italia durante
la guerra. Dopo due giorni di detenzione, 1023 vittim sono caricate su un convoglio
ferroviario che parte dalla Stazione Tiburtina e arriverà ad Auschwitz. Soltanto 17 persone
faranno ritorno.
Il 23 marzo un reparto nord-italiano delle truppe di occupazione tedesche viene attaccato
con pistole e bombe a mano mentre percorre una strada del centro di Roma, via Rasella, da
un gruppo di partigiani dei GAP, che uccidono 32 militari. Dopo aver ricevuto ordini da
Berlino nel giro di ventiquattr'ore viene decisa una rappresaglia, nella quale sarebbero stati
fucilati dieci ostaggi per ogni tedesco ucciso. Viene stilata una lista di 334 persone. Le
vittime sono arrestate sul momento o prelevate fra coloro che erano già detenuti nel carcere
di Regina Coeli e tra di esse vi sono giovani e anziani, civili, antifascisti e 75 ebrei.
Vengono caricate su camion e portate alle Fosse Ardeatine, un sito di antiche cave e
catacombe situato nei pressi della via Appia ai margini della città, e fucilate a gruppi di
cinque. L'operazione è condotta dall'ufficiale delle SS Erich Priebke. Dopo l'esecuzione i
tedeschi fanno esplodere delle mine per far crollare le cave e occultare il massacro, e solo
più tardi la rappresaglia viene resa pubblica. Il sito verrà individuato e portato alla luce poco
dopo la Liberazione, il 4 giugno 1944.
Gli eventi del 1943-44 trovano riscontro nella millenaria storia di Roma in una densa rete
semiotica di simboli e risonanze. Così, per esempio, dietro la perversa richiesta del tributo in
oto di Kappler si sentono echi di una lunga storia di tributi e tasse, dagli antichi imperatori
alla Chiesa. I nazisti stavano giocando a fare Cesare. Il senso di una riproposizione e
riconfigurazione di una storia antica si riscontra anche nell'uso della geografia e di
determinati luoghi della città di Roma, per esempio nella scelta da parte dei nazisti per la
loro rappresaglia di un sito delle prime sepolture cristiane, evocativo della persecuzione
romana verso i cristiani, ora ribaltato e trasformato in sito della persecizione nazista verso
gli ebrei. Le linee di controversia intorno al ruolo della Chiesa nell'Olocausto sono palesi
nel ruolo diplomaticamente silenzioso del Vaticano di fronte all'occupazione della città da
parte dei nazisti. Questa ambivalenza vale non solo per la mezza promessa del papa di farsi
garante per il tributo in oro, ma anche per il grande numero di preti che durante quei mesi
offrirono rifugio agli ebrei. Oltre alle politiche della Chiesa e alle relazioni cristiani-ebrei, in
questa vicenda è anche racchiusa la pesante questione morale che contrappone la
responsabilità individuale (aiutare gli ebrei) ai più elevati ordini o doveri istituzionali (di
partito, di Chiesa). Fra gli anni sessanta e gli anni settanta, la questione della Chiesa sarebbe
dilagata in dibattiti accademici, ma anche in controversie di più ampia portata, attraverso
opere di teatro, a partire da Il Vicario fino a pellicole hollywoodiane come Rappresaglia che
contrapponeva l'ufficiale nazista al prete che tentava di scongiurare il masssacro delle Fosse
Ardeatine. Sia Il Vicario sia Rappresagli incontrarono a Roma gravi difficoltà giudiziarie,
tramite l'intervento diretto della Chiesa o di una censura alimentata da una deferenza politica
verso la Chiesa stessa. La prima messa in scena italiana del Vicario veniva interrotta da un
pesante intervento della polizia, che circondò il piccolo teatro privato dove si teneva la
rappresentazione, ed eseguì alcuni arresti, basati inizialmente su un pretesto tecnico, poi
sulla violazione del Concordato con la Chiesa firmato durante il fascismo, contenente alcuni
articoli che tutelano l'immagine della Chiesa nella città di Roma. Per il solo fatto di
inscenare questa storia in questi luoghi, i nazisti si richiamavano a storie di antica data
dell'impero romano, della Chiesa. In parallelo a questi echi e a queste ironie si tagliano una
serie di dilemmi nazionali, riportati alla ribalta dagli eventi romani del 1943-44. in primo
luogo, c'è la questione diretta che essi sollevano rispetto al crollo e alla sopravvivenza dello
stato e della nazione italiani, a seguito delle dimissioni di Mussolini, dell'armistizio e della
fuga da Roma del re e del governo. Alla fine degli anni novanta, esplose un dibattito
storiografico precisamente su tali questioni, scatenato dal libro La morte della patria di
Ernesto Galli della Loggia, secondo il quale l'8 settembre 1943 aveva segnato l'abbandono
del popolo da parte dello stato, nel momento in cui il re e Badoglio avevano abbandonato
Roma. Galli della Loggia subì pesanti critiche perchè così dicendo legittimava il regime
fascista, poiché la patria che era morta era lo stato totalitario fascista. La questione
nazionale posta dagli eventi di Roma è anche una questione inerente il fascismo e il suo
rapporto con la storia del paese, con lo stato e con il suo popolo, e si colloca in quello che è
stato forse il più pregnante dibattito nella storiografia del fascismo, innescato da Renzo De
Felice, il cosiddetto dibattito sul consenso, cioè fino a che punto e perchè la maggioranza
degli italiani sotto il fascismo abbia accettato il regime totalitario con passivo assenso.
Infine, anche il papato ha la sua rilevanza in tutto questo, con i suoi travagliati rapporti,
perlopiù all'insegna dell'ostilità, a cui poi è seguita la riconcilazione con l'Italia fascista
grazie al Concordato del 1929. innumerevoli questioni furono poi innescate dall'armistizio,
a Roma e in Italia e in tutta l'Europa dell'Asse, dove un milione di italiani erano sotto le
armi: chi combatteva ora per l'Italia? D'altro canto, per chi combattevano o avrebbero
dovuto ora combattere: per il re, per gli Alleati, per l'Asse, per la Resistenza? Che cosa
avrebbe dovuto fare un patriota, un bravo italiano? Si trattava di questioni politiche e
giuridiche, ma anche profondamente personali e morali; e la connotazione politica si
sarebbe ulteriormente intensificata sul finire del Novecento, quando si presentarono le
possibili scelte del 1943: unirsi alla Resistenza, unirsi all'esercito di Salò, restarsene a casa.
Era questo un modo di rivendicare una giustificazione morale per coloro a cui era
semplicemente accaduto di ritrovarsi dalla parte sbagliata dello spartiacque (i ragazzi di
Salò, come sarebbero stati etichettati, con un termine che rimanda all'adolescenza allo scopo
di sottolineare il loro non essere responsabili). A Roma, le questioni di Porta San Paolo
avevano fatto affiorare un'immagine di fragilità della nazione, in cui tutto ciò che era
rimasto della sua difesa militare era un esercito decimato che combatteva a fianco di
un'improvvisata Resistenza. La stessa Resistenza che avrebbe compiuto l'attentato di via
Rasella come un legittimo atto di guerra e di liberazione nazionale, nel volersi affermare
come l'esercito di una nuova Italia. Nei mesi seguenti, i nazisti ebbero l'aiuto della polizia
italiana fascista, che collaborò ai rastrellamenti del 16 ottobre 1943 e del 23 marzo 1944. In
altre parole, le forze ufficiali dello stato fascista non erano affatto semplicemente
scomparse; una delle più violente esplosioni della rabbia popolare contro i fascisti si sarebbe
verificata nel settembre 1944 a Roma, in occasione del processo al questore fascista Pietro
Caruso per il ruolo avuto nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Per converso, la scelta di
combattere con la Resistenza era in realtà ben lontana dall'essere universalmente ammirata.
Voci di popolo, dicerie, spesso false, fecero sì che certi settori della popolazione romana
attribuissero la responsabilità degli orrori delle Fosse Ardeatine non ai nazisti bensì ai
partigiani di via Rasella. Se questi ultimi si fossero consegnati, la rappresaglia non ci
sarebbe mai stata. La controversia sulla responsabilità dei partigiani per l'eccidio delle Fosse
Ardeatine è una delle vicende travagliate attraverso cui quell'evento è divenuto un simbolo
dei profondi dilemmi dell'Italia del dopoguerra. L'entità, presenza ebraica e i metodi
utilizzati (fucilare centinaia di persone e seppellire pile di cadaveri in fosse comuni) negli
omicidi compiuti alle Fosse Ardeatine evocano i massacri compiuti dalle Einsatzgruppen
nell'Europa dell'Est o le prime fasi dell'Olocausto ebraico e di altri programmi nazisti di
sterminio razziale di massa. La dimensione ebraica dell'eccidio delle Fosse Ardeatine ha
assunto un peso sempre maggiore nel collegare la storia italiana all'Olocausto. La
tassonomia delle vittime è giunta a sembrare sempre più simile a uno spaccato dell'Italia
stessa: per via del modo quasi casuale, affrettato, in cui fu stilata la lista delle vittime, nella
quale futono inseriti dei civili, giovani e anziani, così come persone sospettate di
antifascismo, o per il semplice fatto di essere ebree. Ragione per cui, come nel sito stesso in
cui avvennero i fatti le vittimi ebree sono parte integrante di questo luogo della memoria,
così gli ebrei sono parte integrante delle sofferenze storiche condivise di Roma e dell'Italia.
L'eccidio delle Fosse Ardeatine fu allo stesso tempo il più nazionale e il più ebraico dei
massacri nazisti in Italia. Le complesse questioni relative alla nazione, alla Chiesa, al
fascismo e all'antifascismo sollevate dagli eventi di Roma furono rese ancora più pregnanti
dalla presenza e dal ruolo degli ebrei di Roma al loro interno. Si fece strada non solo una
serie di argomenti sull'identità nazionale italiana, gli ebrei in quanto vittime o vicini di casa
da nascondare e proteggere, ma anche una serie parallela di argomenti morali, cristiani o
universali, come ad esempre il dovere di proteggere i deboli e i perseguitati. Tutto ciò si
giocò come una sfida sia per la coscienza individuale sia per la responsabilità collettiva
istituzionale o della comunità. Nello scandaglio culturale di questi eventi romani, cruciale è
questa linea di confine: l'individuo e il suo civismo o la sua colpevole noncuranza nei
confronti del vicino di casa, posti in parallello alle azioni di stati, autorità, istituzioni,
eserciti volti a salvare o danneggiare gli ebrei. La questione del vicino di casa ritorna con
insistenza nelle narrative postbelliche dell'Olocausto di Roma. Vale la pena di soffermarsi
anche sul ruolo di Roma in uno scenario internazionale di cultura postbellica dell'Olocausto.
Il caso di Roma sembrava mostrare molte delle tipiche ambivalenze delle storie dell'Europa
occidentale, ma anche determinate caratteristiche che lo collegavano alla storia dell'Est. In
particolare, il sito dell'antico ghetto insieme al rastrellamento, alle deportazioni, agli eccidi
di Roma riverbavano le atroci e nascoste storie dei ghetti orientali, con i massacri e le
uccisioni di massa perpetrate dai nazisti. Alcuni dei dilemmi attinenti alle risposte e alle
responsabilità sollevati da questi casi orientali si manifestarono anche a Roma. L'esempio
più netto fu la questioni della collaborazione, che, per il caso di Roma, fu trascinata nel
dibattito pubblico dal lavoro di uno scrittore e storico americano di sinistra, Robert Katz.
Con il suo Morte a Roma che narrava gli eventi che portarono alle Fosse Ardeartine,
fomentò le discussioni sulla Chiesa, sostenendo di aver scoperto prove documentali del fatto
che Pio XII fosse a conoscenza del massacro imminente svariate ore prima che avesse
luogo. Nel suo libro successivo, Sabaro nero, Katz dimostrò pari accanimento nel biasimare
i dirigenti della comunità ebraica romana per la loro decisione di accettare la richiesta del
tributo in oro nel settembre 1943, sperando in quel modo di poter comprare dai nazisti la
salvezza. Katz delineò la storia dell'Olocausto di Roma rendendola simile a quella dei
Consigli ebraici o Judenrate, i corpi amministrativi che la Germania nazista impose agli
ebrei rinchiusi nei ghetti dell'Europa orientale, e che in molti casi accettarono di agire come
mandatari e organizzatori per conto dei nazisti che torturavano e assassinavano la loro gente
nella vana speranza di mitigarne il trattamento o di salvare delle vite. Il resoconto di Katz è
influenzato dall'accesissima controversia innescata su tale questione da La banalità del male
di Hannah Arendt, che deplorava le umiliazioni e gli inutili compromessi accettati dagli
Judenrate, facendo della questione un motivo di imbarazzo nelle risposte morali e politiche
all'Olocausto. Al di là delle effettive similitudini fra le decisioni e i dilemmi dei dirigenti
della comunità di Roma e quelli degli Judenrate è soprattutto il peso simbolico del tributo in
oro a rendere fondati i paralleli di Katz.

- Eventi, monumenti, vicende


La rete di questioni complesse sollevata dagli eventi di Roma si alimenta con persistenza, in
svariate forme e aspetti, negli spazi pubblici, negli eventi collettivi e nelle vicende di tutta
l'epoca postbellica. Vale la pena segnalare non tanto un evento quanto un non evento. Nei
tardi anni novanta il giornalista Furio Colombo e altri iniziarono a proporre l'istituzione in
Italia di una giornata in ricordo dell'Olocausto. La scelta della data era gravida di problemi.
Chi mirava ad allineare l'Italia con una commemorazione mondiale o europea dell'Olocausto
pensava che fosse preferibile una data uguale per tutti e significativa a livello internazionale.
Tuttavia, i contorni e le definizioni mutevoli dell'Olocausto corsi lungo tutta l'epoca
postbellica implicavano che la scelta di una data non fosse cosa facile. Alla fine, fu accolta
la soluzione. Il giorno scelto fu il 27 gennaio, la data della liberaizione da parte dei sovietici
di Auschwitz, il campo che era giunto a incarnare nel suo stesso nome gli orrori della
Soluzione finale. Colombo sostenne invece che la giornata di commemorazione nazionale
dovesse sottolineare il fatto che l'Olocausto era stato, anche, un evento nella storia italiana
proponendo quindi il 16 ottobre. Il rastrellamento di Roma di quel giorno del 1943,
sosteneva Colombo, aveva portato la Soluzione finale al centro della città e della nazione,
sotto forma sia della persecuzione nazista sia della collaborazione di istituzioni e di singoli
fascisti. Negli anni quaranta, dopo la Liberazione, le commemorazioni che avevano luogo
alle Fosse Ardeatine mostravano un quadro del tutto diverso. Il sito era divenuto meta di
pellegrinaggi e di manifestazioni di lutto collettivo. Si era deciso di erigere un monumento
commemorativo, con un concorso di progetti finanziato dal governo e presto il luogo
diventò uno dei principali siti di cordoglio nazionale per tutti i caduti della Liberazione
italiana, non solo per le vittime di quel singolo eccidio. Il progetto vincitore fu inaugurato
nel 1949, si trattava di un progetto collettivo. Il nucleo del progetto è costituito da un grande
spazione dove sono raccolte 335 bare, a cui se ne aggiunge una, una sorta di milite ignoto
per tutti i caduti nella Resistenza, e l'insieme è sovrastato da un grande masso rettangolare,
un'unica pietra tombale che riunisce tutte le vittime. Il fatto che le vittime avessero differenti
identità ha contribuiti a suggellare questo status nazionale. La retorica unificante del
monumento non riserva attenzione specifica per le vittime ebree, e questo è confermato
dall'iscrizione che accoglie visitatori e pellegrini, in cui è presente la parola Olocausto ma
senza alcun riferimento separato alle vittime ebree. Durante il periodo 1944-47, numerosi
ufficiali e funzionari nazisti e fascisti vennero processati in Italia per la rappresaglia delle
Fosse Ardeatine. I tribunali militari britannici perseguirono i tre più alti comandanti nazisti
responsabili delle forze tedesche in Italia, concentrandosi soprattutto sulla ritorsione delle
Ardeatine: i generali Eberhard von Mackensen e Kurt Maelzer e il feldmaresciallo Albert
Kesselring. Gli Alleati consentirono al nuovo governo italiano di processare alcuni fascisti.
Uno dei primi fu il questore fascista di Roma Pietro Caruso, processato per il ruolo svolto
nel reperire e selezionare le vittime delle Ardeatine. Fu sempre un tribunale italiano a
processare e mandare in carcere l'ufficiale delle SS direttamente responsabile dell'eccidio,
Herbert Kappler, che aveva in precedenza tentato di fuggire dall'Italia. Verso gli anni
novanta andava profilandosi in misura sempre maggiore la connessione del massacro delle
Ardeatine con l'Olocausto, attinenza che sarebbe stata confermata, negli anni 1996-98, dalla
significativa sequenza di tre processi a Erik Priebke, il capitano delle SS che aveva avuto il
comando effettivo nelle fucilazioni. Il caso Priebke richiamava il caso Eichmann, ma a
differenza del processo di Gerusalemme, esso fallì sotto svariati aspetti come strumento per
elaborare l'eredità italiana o romana dell'Olocausto, né riuscì a dare voce alle vittime.
L'interesse della stampa e dell'opinione pubblica fu inteso, ma il processo non riuscì
tecnicamente a dimostrare appieno le accuse e si concluse con un verdetto sì di
colpevolezza, ma con la dichiarazione di reato estinto per prescrizione, così che il tribunale
ordinò la scarcerazione dell'imputato. Immediatamente nell'aula giudiziaria scoppiò un
tumulto. Il governo intervenne e trovò il modo di far disporre un nuovo processo: Priebke fu
nuovamente riconosciuto colpevole, condannato a quindici anni, poi all'ergastolo; tuttavia fu
sottoposto a un regime carcerario leggero e in seguito gli fu concessa la detenzione
domiciliare. Da questo confuso insieme di processi giudiziari emerge ben poca chiarezza sul
piano giuridico e morale. Ma da essi si evince un'eleborazione culturale che mostra come gli
eventi e i luoghi della Roma del 1943-44 continuino a riecheggiare nell'opinione pubblica,
con una presenza dell'Olocausto e di tutte le sue relative connessioni. Uno schema simile si
ritrova nelle risposte narrative date alla questione romana. Esiste un ricco filone di libri e
film sulla Roma del 1943-44, che esplorano la storia e l'eredità dell'intricata matassa di
connessioni con le vicendo poc'anzi descritte, un corpus di lavori che si dipana dai
primissimi mesi dopo la Liberazione di Roma sino agli inizi del XXI secolo, toccando i
vertici letterari dell'epoca. Per sondare questa gamma fluida di argomenti, si possono
scegliere tre rappresentativi abbinamenti di testi. La prima accoppiata ha un punto di origine
in due lavori del 1944: il dittico di reportage letterario e riflessione di Giacomo Debenedetti,
16 ottobre 1943 e Otto ebrei. Questi testi non hanno fatto che crescere d'importanza per il
fatto di concatenare per la prima volta gli eventi del tributo in oro, del rastrellamento del
ghetto, delle Fosse Ardeatine, e anche i processi giudiziari del dopoguerra. Il collage di
Debenedetti tocca molti temi che permeano le riflessioni su Roma sviluppate lungo tutta
l'epoca postbellica: la questione del vicino di casa, vale a dire dei romani non ebrei che
aiutarono o meno gli ebrei a salvarsi, la questione nazionale dell'identità, del patriottismo e
della misura in cui le vittime dell'Olocausto o dei massacri nazisti di civili siano per certi
versi morte anche per la nazione; e persino il complicato ruolo di resistenza e indifferenza
svolto dalla Chiesa. Un secondo abbinamento, tra un libro e un film, si colloca sul finire
degli anni novanta, la fase di più intenso fermento culturale intorno all'Olocausto. Porta
anche al cuore di una spinta nel modo dell'Italia di recepire l'Olocausto in questo periodo.
Dagli anni ottanta in poi, l'Olocausto dell'Italia è percepito come un evento che è iniziato
non nel 1943 ma con le leggi razziali fasciste del 1938. Si comincia a ritrarre l'Olocausto
come qualcosa di ''vicino a noi'', le sue vittime persone come tutti, le loro vite distrutte
proprio come le nostre. Si tratta della forma più intensa assunta da ciò che potremmo
chiamare il paradigma ''del vicino di casa''. Infine, si può esaminare una coppia di film
entrambi incentrati sui drammatici eventi verificatisi nelle strade e nella comunità del ghetto
romano nel settembre-ottobre 1943. Vale la pena soffermarsi su queste due ultime opere,
realizzate a più di due generazioni e più di quarant'anni di distanza, in quanto illustrano
come la medesima ambientazione degli eventi romani possa essere ripresa con significative
differenze. Carlo Lizzani fu regista di L'oro di roma, il quale pare una sorta di ingresso nel
canone documentaristico del neorealismo, per il suo essere una cronaca fedele e dal basso di
una serie di eventi realmente accaduti: la discussione durata trentasei ore nella comunità
ebraica e i contrasti scatenati dalla richiesta di Kappler di consegnare i 50 chilogrammi
d'oro. Lo stile di ripressa è collettivo, corale, con un'enfasi sulle scene che ritraggono folle,
congregazioni, gruppi e famiglie. A distinguersi fra tutti questi elementi c'è una forte
connotazione all'insegna dell'osservazione antropologica, nel modo in cui Lizzani dichiara il
carattere pienamente ebraico di questa storia, di questo luogo e di questa comunità. Il film si
assume dei rischi, nell'entrare in quello che è un mondo alieno per la gran parte del suo
pubblico, allo scopo di penetrarvi attraverso la narrazione e di viverne la tragedia dal di
dentro. Niente di simile era mai stato tentato in Italia prima del 1961, un film che racconta
questo drammatico episodio ebraico come una vicenda di appartenenza civica nazionale,
una vicenda di tragedia e redenzione tanto per gli ebrei quanto per gli italiani. Il progetto
dinamico di trasformare la storia ebraico-italiana in storia italiana trova qui uno dei suoi
primi e più efficaci esempi. Se si compie un salto temporale di quattro decenni sino al film
del 2003 di Ozpetek La finestra di fronte, e a un linguaggio filmico sintonizzato con il
multiculturalismo, con le politiche e le estetiche della contemporaneità postmoderna, è
sorprendente trovare degli elementi della vicenda romana del 1943 ripresi in maniera non
così lontana dalla loro narrazione nell'Oro di Roma. La finestra di fronte, come L'oro di
Roma, mescola vite private e storie d'amore con la tragedia storico dell'Olocausto, e nella
fattispecie con i fatidici eventi del 16 ottobre 1943 abbattutisi sulle case e sulle strade del
ghetto di Roma. I due film sono entrambi mirati a insegnare agli spettatori una storia che
potrebbero non conoscere e a impartire lezioni di vita da essa derivanti. Le modalità
narrative e stilistiche dei due film sono diverse: laddove quello di Lizzani era
documentaristico, con una venatura di antropologia, quello di Ozpetek è costruito su fluidi
avvicendamenti di presente e passato. La memoria è una sua dimensione essenziale, assente
nell'Oro di Roma. Nella Finestra di fronte gli eventi del 16 ottobre aprono il film e ne
costellano la trama in flashback, la gran parte del film è invece ambientata nella Roma di
oggi, dove i lontani echi dell'Olocausto sono ignorati nel caos del vivere quotidiano seguito
dalla narrazione. Il cruciale dilemma sottostante, in questo caso, non è se agire, se resistere;
qui si tratta piuttosto di come rapportarsi al passato, a storie che sono le nostre o che
abbiamo ereditato ma mai davvero conosciuto. Resta qualcosa nell'utilizzo e nella forza
evocativa dell'ambientazione romana della Finestra di fronte che conferma la persistente
risonanza del ritorno a queste strade e agli aventi dell'Olocausto di Roma. Lo si può vedere
nell'uso delle pietre e delle mura del ghetto, mostrate come nell'Oro di Roma quale
inquadframento del film nelle primissime riprese d'apertura. Il messaggio non potrebbe
essere più chiaro: la storia degli ebrei di Roma, dell'Olocausto di Roma, rimane scritta in
flebili tracce di sangue sulle sue stesse pietre enelle sue stesse strade. Il trasudamento del
passato, della trama di eventi storici e della difficile eredità dell'Olocausto di Roma in un
presente immemore, inconsapevole, è radicato nelle millenarie pietre della città e nei fragili
corpi di chi è sopravvissuto.

7. Una consapevolezza condivisa

Una delle traiettorie a lunga gittata delineate da questo libro è la diffusione, irregolare e
discontinua, della consapevolezza dell'Olocausto in Italia, partita dalle vittime, dai familiari
e dalle loro associazioni per poi estendersi verso la cultura e la società. Questo passaggio da
una conoscenza di prima mano a una di seconda mano, da coloro che videro a coloro che
potevano solamente immaginare, è una delle dinamiche fondamentali all'interno del campo
della cultura dell'Olocausto nel corso di numerose generazioni del dopoguerra. E lungo i
percorsi di questa storia di trasferimento dinamico, i significati sull'Olocausto passano
attraverso profondi cambiamenti. Già alcuni dei primissimi monumenti e testimonianze
avevano l'intento di costringere l'opinione pubblica a dirigere l'attenzione sulla violenza
nazista, sulle deportazioni e sui campi di concentramento. Le spinte didattiche e di
diffusione si rafforzarono intorno alla metà degli anni cinquanta. C'erano anche, sin dalle
primissime settimane e msi del dopoguerra, materiali, discorsi e immagini connessi ai campi
che circolavano senza filtri nella cultura in generale. La divulgazione delle immagini e
reportage fotografici sulla liberazione dei campi da parte degli Alleati, seguita mesi dopo dai
resoconti dei processi di Norimberga, nel 1945 aveva consolidato una serie di potenti tropi
visivi, i quali, anche se all'epoca non erano ancora strettamente connessi al genocidio degli
ebrei ma erano visti piuttosto come emblematici della depravazione nazista, perdurarono
nell'immaginario culturale glovale, diventando ampiamento riconosciuti. Pile di scheletrici
corpi senza vita, file di altrettanto scheletrici sopravvissuti con le uniformi a strisce, mucchi
di capelli rasati, di scarpe, recinzioni di filo spinato. Sia attraverso gli sforzi concertati dei
sopravvissuti, delle loro comunità e dei loro gruppi, sia attraverso la circolazione autonoma
di immagini o più verosimilmente per una combinazione fluida di entrambi questi fattori a
un certo punto, dagli anni sessanta e settanta in avanti, si ebbe un cambio di passo nella
qualità ma anche nella quantità del discorso sull'Olocausto. In parole povere, tutti iniziarono
ad avere almeno una vaga idea di ciò di cui si stava parlando quando venivano citati
l'Olocausto o i campi. La consapevolezza dell'Olocausto diviene un dato di fatti nella sfera
culturale italiana, qualcosa che fa parte del comune bagaglio culturale di chiunque, dagli
intellettuali ai ragazzi delle scuole. Questa nuova portata della consapevolezza recò con sé
nuovi utilizzi culturali. Un vocabolario apposito per parlare dell'Olocausto entrò nel
mainstream del discorso intellettuale e nel campo della cultura in generale, termini che
erano indicatori diretti di quegli eventi e siti storici. Lo stesso periodo vide pure la nascita
della cosiddetta fiction sull'Olocausto, in cui narrative di finzione utilizzavano l'aura
dell'Olocausto come sfondo, come ambientazione per storie edificanti. Per molti dei custodi
della conoscenza dell'Olocausto, coloro che erano legati agli eventi stessi, quella che
all'inizio era stata l'ardente speranza di veder nascere una consapevolezza diffusa, di fronte
all'attenzione pressochè dilagante degli anni ottanta e novanta si tramutò in amarezza,
nell'assistere a un cinico od ottuso sfruttamento dei loro traumi e a una distorsione della
storia americanizzata. Una conoscenza diffusa ma sovente superficiale o deformata di
alcune semplici date, nomi di luoghi o immagini di quella storia tendeva a sostituirsi a una
consapevolezza profonda della realtà storica che stava dietro a quei singoli particolari. È ciò
che si definisce la ''saturazione'' dell'Olocausto nella nostra cultura, un dovuto rispetto
meramente formale che prende il posto della vera comprensione. Il fastidio è inevitabile, e
lo si è visto ed espresso in dibattiti di massa per raccontare vicende dell'Olocausto, quando
coloro che più sono vicini a quelle esperienze e a quegli eventi hanno gridato allo scandalo
per tutte le semplificazioni, le lacrime facili e le redenzioni scontate. Ciò nonostante, la
storia di questo cambio è essenziale se si vuole tentare di comprendere l'emergere del ruolo
culturale dell'Olocausto, in Italia come altrove. Non si tratta soltanto di una storia di uso
eccessivo e distorto, ma anche della storia di come l'Olocausto si sia venuto integrando in
qualcosa di simile a una visione del mondo, a partire dal dopoguerra.

- Uomo, deportato, ebreo


Nell'immediato dopoguerra il genocidio degli ebrei europei era, nella consapevolezza
generale, un qualcosa dai contorni sfocati. Per quanto concerne gli ebrei italiani, i
sopravvissuti e le famiglie sia di costore sia di coloro che erano morti, i loro racconti sulla
deportazione nei campi, o su come si fossero nascosti o avessero combattuto, si
confondevano e mescolavano fra migliaia di altre storie italiane in apparenza analoghe,
storie di partigiani deportati dai nazisti nei campi di lavoro e di concentramento. La portata
davvero immensa di questa guerra totale implicava che tutte le vicissitudini e le storie di
guerra sembrassero per un certo tempo far parte di una massa pressochè indifferenziata di
esperienze estreme, di volta in volta individuali, collettive, nazionali, internazionali,
universali. Primo Levi descrisse il panorama dell'Europa orientale nei primi mesi dopo la
fine della guerra come un ''Caos primogenio'', una qualità che fu replicata in ambito
culturale e concorre a spiegare la confusione di categorie e di lessici dell'immediato
dopoguerra, confusione che lasciò degli strascichi dietro di sé per molti anni a venire.
L'esperienza della guerra aveva sollevato grandi questioni, e si rendevano necessarie grandi
risposte e il linguaggio per parlarne fu spesso costituito da archetipi. Essi sono importanti
quali indicatori del modo in cui il genocidio fu inizialmente elaborato, ma anche in quanto
rappresentano il primo stadio di un processo più lungo, di una sorta di metabolizzazione del
fenomeno in termini culturali. Tre parole chiave o archetipi tipici della prima fase
postbellica assumono una maggiore evidenza: ''uomo'', ''deportato'' ed ''ebreo''. L'Europa del
dopoguerra era immersa nella contemplazione di ciò che il conflitto mondiale aveva causato
alla nozione stessa di genere umano. La specie umana di Antelme fu la più penetrante fra le
molte esposizioni del problema: secondo Antelme, la categoria dell'umano era sopravvissuta
ai campi di concentramento, ma soltanto come qualcosa di residuale. Due contributi italiani
a questo filone ''umanista'' provengono da scrittori di origini ebraiche e di orientamento
antifascista, entrambi vittime delle discriminazioni e delle violenze fasciste: Alberto
Moravia e Natalia Ginzburg. Entrambi scrissero degli articoli in cui si faceva ricorso alla
figura archetipica dell'uomo come codice per la lettura della guerra, della storia e del
genocidio ed entrambi i testi esprimono un senso di frattura assoluta. Il fascismo e la guerra
hanno trasformato la generazione dell'autrice in una generazione di uomini, per i quali non
c'è ritorno: Ginzburg utilizza l'immagine della casa, della famiglia, e dell'impossibilità di
farvi ritorno, come ricorrente metafora per la rottura che ha avuto luogo. L'intervento di
Alberto Moravia, L'uomo come fine, fu composto nel fervore dei mesi del dopoguerra a
Roma e fu la sua più esauriente riflessione morale sulla guerra e insieme sulla propria
maturità. L'uomo come fine costituisce uno dei primi e più efficaci esempi dell'uso diretto
del campi di concentramento e dello sterminio nazista quale figura chiave e incarnazione
della soglia che il nazismo aveva superato. L'argomentazione centrale è che l'uomo deve
essere un fine, non un mezzo per quegli stati che intendano imporre dall'alto un modello
razionalista. Gli stati razionalisti sono violenti e vedono gli uomini quali mezzi e in quanto
tali li trasformano in mattoni o cenere. Moravia trova l'essenza dell'umano in ciò che
rimane, il residuo e la sofferenza, quando l'uomo viene usato come pure mezzo anziché
come fine. I campi erano l'illustrazione perfetta: un fine razionale e inumano, perseguito
attraverso il mezzo di milioni di uomini con violenza estrema. Quando utilizzata in senso
generale, la figura universale dell'uomo o del genere umano non può anche essere una figura
atta a rappresentare in maniera specifica il genocidio ebraico, l'ebreo. Il paradigma
universalizzante è stato letto da alcuni come un modo per occultare la specificità ebraica
dell'Olocausto in questo stadio iniziale. Quando, nell'aprile del 1948, la rivista Rassegna
mensile di Israele riprese le pubblicazioni dopo un'interruzione di quasi dieci anni, il suo
editoriale d'apertura aveva un tono difensivo rispetto alla necessità di tornare a coltivare
l'educazione ebraica dopo l'età dolorosa delle persecuzioni, delle stragi e della guerra
orribile. L'enfasi non viene posta sul genocidio, bensì sulla ricostruzione. Una sorta di
reticenza simile si riscontra nei primi monumenti speficamente dedicati alle vittime ebree.
Nel monumeto ai caduti realizzato nel 1945-46, il Cimitero monumentale di Milano, in un
angolo circondato da mura si trova il settore che ospita la comunità ebraica. Fu inaugurato
un altro monumento, il Monumento al sacrificio ebraico. Al suo centro si trova una grande
scultura in pietra, affiancata da dodici lapidi tombali collocate nel marmo. La casistica è
molto eloquente: tutte e dodici morirono sul suolo italiano, a suggerire una profonda spinta a
presentare il loro sacrificio in una cornice nazionale, patriottica. Le dodici vittime del
Monumento al sacrificio ebraico indicano la forma memorialistica conferita alla figura
dell'ebreo e al sacrificio ebraico, ma anche ai suoi legami con il terco termine archetipico, il
''deportato''. Fu la Resistenza a fornire la principale narrativa nazionale per la nuova Italia
del dopoguerra; e, nell'ambito di quel modello, questo termine comunemento usato per quei
partigiani che finirono nei campi di concentramento risultò adeguato anche come
definizione flessibile e onnicomprensiva. Il nesso Resistenza-deportati-Lager costituì una
categoria contenitore usata per definire il fenomeno per i primi dieci-quindici anni di
discorso sui campi. Tuttavia, addirittura già negli anni quaranta, si stavano gettando le basi
per un nuovo lessico specifico dell'Olocausto come fenomeno a sé stante.

- Auschwitz nella poesia: Salvatore Quasimodo


Nell'agosto 1948 il poeta siciliano Salvatore Quasimodo partecipò al Congresso mondiale
degli intellettuali per la pace tenutosi a Wroclaw, in Polonia. I delegati visitarono il
complesso dei campi di Auschwitz e furono segnati da quell'esperienza. La poesia che
Quasimodo scrisse dopo la visita, intitolata semplicemente Auschwitz costituisce una sorta
di spartiacque: è forse il primo grande esempio di un'opera in italiano di rappresentazione
distaccata, non testimoniale, di alta qualità letteraria dell'Olocausto, con il sito di Auschwitz
come suo emblema e gli ebrei come sue vittime principali. Il testo colpisce per la sua
utentica forza lirica che fa scaturire una letteratura dell'Olocausto come fenomeno a sé
stante, che nei successivi due decenni avrebbe preso forma nella cultura generale. La poesia
si tiene in equilibrio tra una serie di topoi ed echi letterari comunemente noti, ad esempio il
rivolgersi a una persona amata, e la consapevolezza della loro inadeguatezza di fronte a
questo luogo: Auschwitz. Vi sono poi nuovi tropi e nuove espressioni per un nuovo campo
immaginario-letterario. Parecchi di essi si accordano con i tropi visivi presenti nelle
immagini emerse dopo il 1945: il filo spinato, il cancello di Auschwitz, le vittime
scheletriche e le camere a gas con le loro docce, il fumo, e le pile di oggetti appartenuti ai
morti, le scarpe, le sciarpe. Anche l'espressione ''campo di morte'' fu uno dei primi epiteti
applicati ai Lager nazisti. L'elenco è straordinario, amplissimo che colloca inoltre il poeta
stesso, l'occhio dello spettatore molto vicino al centro. La sintassi è semplice e lucida, il
lessico perlopiù generico. L'unica eccezione sembra essere il nome proprio, Auschwitz.
Questa elevazione del toponimo a metonimia per un'intera catastrofe della storia ha una
valenza anticipatrice da parte di Quasimodo. E la sensazione di indeterminatezza indotta
dalla terminologia utilizzata nei versi diventa essa stessa uno strumento nel nuovo
linguaggio della scrittura sull'Olocausto. Auschwitz di Quasimodo anticipa alcuni dei più
potenti canali per la trasmissione nella cultura letteraria sia dell'Olocausto come fatto in sé
sia del linguaggio con cui parlarne. È eccezionale, per l'epoca, il riconoscere Auschwitz
come un tassello di storia preminentemente ebraica, le reliquie dei morti come reliquie
ebraiche. Fatto, questo, che rende interessante notare come Quasimodo non si sia affatto
sempre schierato dalla parte degli ebrei. Ciò che appare interessante rilevare è come
Quasimodo potesse macchiarsi di antisemitismo conformistga ed essere al tempo stesso
l'autore di una poesia così fortemente in sintonia con il configurarsi dell'Olocausto, e della
sua dimensione ebraica, quale evento nodale della storia, quale passaggio obbligato nello
sviluppo di una moderna consapevolezza civile; e, infine, anche di una coscienza nazionale
italiana, antifascista.

- Auschwitz nella canzone popolare. Francesco Guccini


A metà degli anni sessanta un'ancora più schematica e più potente versione di Auschwitz in
quanto metafora veniva espressa dalla nuova poesia alternativa della canzone popolare. Nel
1965 Francesco Guccini, prossimo a intraprendere la sua lunga carriera di cantautore,
termine coniato in Italia sul finire degli anni cinquanta per quei cantanti-scrittori di canzoni
che narrano in parole e musica i valori e i sentimenti di una determinata regione o
generazione. Per Guccini la modalità musicale predominante era il folk moderno, con voce e
chitarra a sottolineare l'intensa forza di versi semplici che narravano storia di povertà e di
protesta. Guccini ebbe modo di leggere una delle più efficaci opere di testimonianza su
Mauthausen e aveva anche letto Levi. La combinazione di queste memoria e nuove
conoscenze lo indusse a scrivere una canzone che sarebbe diventata una delle più note opere
cantautoriali degli anni sessanta, un emblema della canzone di protesta. Come la poesia di
Quasimodo, si intitolava semplicemente Auschwitz. A parlare in primi persona, nel testo, è
la voce di un bambino morto, trasformato in cenere in un forno crematorio, che ora si trova
''qui nel vento''. È nell'ambito di questo linguaggio universalizzante che l'evocazione diretta
di Auschwitz e della voce del bambino morto fatta da Guccini trova posto e risonanza nella
storia dell'assimilazione dell'Olocausto nella cultura italiana. La canzone di Guccini si
scinde in due blocchi, il primo incentrato direttamente su Auschwitz, il secondo proiettato al
di là, negli scenari presenti e futuri del genere umano. Lo slittamento nel fantastico, la voce
immaginaria di un bambino morto, una presenza che fluttua nel vento, costituisce anche un
netto distacco dalle istanze di cronaca storica e testimonianza. L'Olocausto è ora un atto
dell'immaginazione. Nella seconda parte della canzone si rivolge al genere umano come un
tutt'uno, per domandare come un uomo possa ancora uccidere, come possa uccidere un suo
fratello, per deplorare come ovunque vi siano ancora guerre. L'Olocausto si trova ora nel
calderone della cultura popola giovanile, un simbolo di ciò che nel mondo è sbagliato e di
come i giovani lo cambieranno.

- Auschwitz e Hiroshima. Due Olocausti


Nell'album di Guccini, la canzone che veniva subito prima di Auschwitz si intitolava
L'atomica cinese, e descriveva il devastante diffondersi nei cieli della Cina di una nuvola di
morte, un'esplosione nucleare che annientava ogni elemento della natura. Per lunghe fasi dei
decenni seguiti ai bombardamenti del 1945 su Hiroshima e Nagasaki, la minaccia di un
Olocausto nucleare, le forti tensioni per una distruzione mutua assicurata planetaria e
l'immaginario apocalittico determinato dalla catastrofica possibilità di annientare il mondo
di recente acquisita dall'uomo, correvano in consonanza con la nuova consapevolezza
dell'Olocausto e del genocidio nazista. Per la maggior parte dell'epoca postbellica, i picchi
di questa moderna ansia di distruzione apocalittica e i luoghi simbolo della crisi erano senza
dubbio Auschwitz e Hiroshima. Essi divennero metafore diminanti per alludere a una nuova
forma di violenza moderna, civilizzata, tecnologica, totale. La Bomba e il Campo erano
reciprocamente intrecciati a un livello tale che è del tutto impossibile tracciare la forma e la
rilevanza culturale dell'Olocausto lungo i decenni del dopoguerra senza prendere in
considerazione schemi di simbiosi con le coeve culture della guerra nucleare. Il principale
campo metaforico nel quale l'Olocausto genocida e quello nucleare si intersecavano era
quello della scienza. Entrambi questi eventi storici dimostravano alle generazioni del
dopoguerra i terribili rischi potenziali di un uso perverso e di una violenza spropositata
insite nella mera applicazione della ragione e del metodo scientifico. La critica alla scienza
formulata attraverso questi due singolari casi storici giunse ad avere in Italia particolare
risonanza nell'ambito culturale della consapevolezza dell'Olocausto per la semplice ragione
che il più eminente testimone e scrittore italiano dell'Olocausto, Primo Levi, era anche uno
scienziato di professione. Per tutti gli anni sessanta e settanta, e fino agli anni ottanta, l'opera
di Levi fu permeata dalla volontà di indagare la coscienza e la moralità dello scienziato così
come le conseguenze sociali e politiche della modernità scientifica. Nei suoi saggi sulla
responsabilità degli scienziati lo scrittore raccomanda una vigilanza pragmatica e una
consapevolezza sociale da parte degli scienziati stessi. Il punto in cui, nell'opera di Levi, il
nesso Auschwitz-Hiroshima emerge con maggiore forza si trova in una poesia intitolata La
bambina di Pompei. Nella poesia sono accostate tre figura infantili vittime di catastrofi sia
naturali che prodotte dall'uomo: l'eponima bambina di Pompei, una fanciulla d'Olanda,
ovvero Anna Frank, e una scolara di Hiroshima. Tutte e tre rappresentano l'innocenza
distrutta, ma sono soprattutto Anna Frank e la piccola vittima di Hiroshima a essere
collegate fra loro, poiché prive di una tomba o di un luogo in cui riposare in eterno, poiché
entrambe sono vittime di ingegnosissime tecnologie di assassinio concepite dalla mente
umana. Levi chiude il componimento con un'accorata richiesta ai politici affinchè si fermino
prima di annientare il mondo in un Olocausto nucleare. È un appello alla consapevolezza
della storia e a un riconoscimento dell'umanità dell'individuo e dell'individualità dell'essere
umano. E la forza di questo appello è costruita sul legame metaforico che unisce Auschwitz-
Hiroshima. Accanto a Levi, si può guardare ad Elsa Morante, il cui lavoro saggistico che
ebbe maggior successo fu la sua conferenza dal titolo Pro o contro la bomba atomica. In
questa invettiva di vasta portata, la bomba è per Morante come l'immagine ultima del
processo di falsificazione e inautenticità prodotto dalla società capitalistica avanzata.

- Auschiwitz e l'ideologia. Leger, genocidio, fascismo, ebreo


Via via che l'Olocausto andò diffondendosi al di là della sfera dei sopravvissuti, acquisì una
forza metaforica, un'aura, ancora più potente e ancora più macroscopica. Dagli anni sessanta
in poi ci furono radicali cambiamenti generazionali. Questi ultimi furono anni nei quali i
figli e figlie di padri e madri vissuti durante il fascismo e la Resistenza raggiungevano la
maturità e compivano la loro istruzione in scuola e università, in parte affrontando e
sfidando con violenza l'ideologia del fascismo. Questo fatto portò a una contestazione,
spesso aggressiva, di una generazione e delle sue istituzioni da parte della generazione
successiva e in molte nazioni europee, compresa l'Italia, spesso il terreno e il lessico di
questa contestazione si basavano sulla storia e sul vocabolario metaforico degli anni trenta e
quaranta, del fascismo, del nazismo e del Lager. L'Olocausto divenne una metafora del
potere, dell'ideologia e della violenza, dell'oppressione e del fascismo; e con ciò emerse una
nuova versione dell'archetipo dell'ebreo quale vittima e allo stesso tempo quale figura
emblematica della modernità. Nella cultura intellettuale italiana di quel periodo, nessuno
abbracciò questo nuovo ruolo assunto dall'ebreo e dall'immagine del Lager con maggiore
intensità di Pier Paolo Pasolini. Egli dissemina i suoi versi, testi teatrali e film di immagini
di Israele, del Lager e della figura dell'ebreo. La prima significativa occasione fu una poesia
del 1962, Monologo sugli ebrei, costruita intorno a una diffusa meditazione su fotografie di
ebrei sopravvissuti. Questo impegno fu stimolato dal viaggio di Pasolini in Israele, il quale
soggiorno portò a una serie di riflessioni sugli ebrei di Israele. L'identificazione di Pasolini
con la figura dell'ebreo (giunse a descrivere se stesso come ebreo) si trova nei suoi numerosi
assalti lirici a Pio XII, uno dei quali è un immaginario monologo interiore del papa datato
1944, nel quale Pasolini postula profonde affinità del pontefice con Hitler, per una condivisa
visione dello stato come entità trascendente e una comune ostilità verso gli ebrei come
qualcosa che è alla base di ogni razionalismo. Ma l'autonomia e la forza di questo filone
creativo e lessicale giunsero al loro picco negli ultimi due anni di lavoro di Pasolini, in
forme che avrebbero enormemente influenzato la cultura italiana, in ambito sia giornalistico
che cinematografico. Gran parte della retorica presente nei frenetici attacchi lanciati in
questi anni dall'intellettuale contro le devastazioni culturali della nuova società consumistica
fu espressa in termini derivati dal fascismo e dai campi di concentramento: il consumismo
era il nuovo fascismo e l'effetto prodotto sulle culture era genocida. Questo crescendo di
riferimento nell'opera di Pasolini rappresenta la più eleborata, ma anche potentissima,
esibizione di elementi dell'Olocausto trasformati in metafore. Ma Pasolini non fu certo il
solo: c'è una vasta gamma di utilizzi del lessico dell'Olocausto nella cultura intellettuale e
letteraria di quel periodo, e anche nella cultura popolare. Di particolare importanza per la
cultura dell'Olocausto nei tardi anni sessanta e nei settanta fu un'ondata europea di cinema
d'autore, che si servì del clima di permissività sessuale che produsse un filone di allegorie
filmiche del fascismo e del genocidio sessualizzate o erotizzate. Il Salò di Pasolini fu
l'esempio estremo di questa tendenza, in quanto ritrae un mondo di dominazione e violenza
sessuale sadomasochistica e fascistica che doveva rappresentare l'essenza del fascismo e
anche l'essenza del consumismo neocapitalista fascistico. La tendenza raggiunse il suo
picco, imboccando una svolta diretta verso il luogo emblematico del campo di
concentramento e dell'Olocausto, nel 1974-75, con Salò, ma anche con Il portiere di notte di
Liliana Cavani. Quest'ultima si attirò il disprezzo di molti fra coloro che direttamente o
indirettamente avevano vissuto l'esperienza dell'Olocausto con la sua messa in scena di una
complicità erotica fra un ev ufficiale di un campo di concentramento e un'ex internata. In
realtà, le lettura psicosessuali del Lager erano solo uno degli innumerevoli utilizzi
metaforici delle figure del campo di concentramento e delle sue vittime. Istituzioni
carcerarie come le carceri stesse, le fabbriche, i manicomi, gli ospedali venivano tutte
spesso paragonate ai campi di concentramento. Lo stesso termine ''Lager'' divenne una
definizione onnicomprensiva valida per tutta questa vasta serie di istituzioni coercitive. Un
altro esempio è la raccolta di interviste3 di donne internate in manicomio curata da Giuliana
Morandini; nell'introduzione al libro l'analoga è espressa in modo palese, il manicomio è la
metamorfosi del Lager. Morandini è interessata anche ad una genealogia dell'oppressione
della donna: la sua reclusione attraverso istituzioni quali la famiglia, attraverso politiche
antidivorziste, attraverso la società patriarcale e il pregiudizio. Per cui rileva il nesso che
corre dall'oppressione delle donne in manicomio a quella del Lager. E questa analogia
istituisce un filo conduttore che fa combaciare il Lager con certe genealogie della cultura
intellettuale italiana dell'epoca, che lo vedono connesso all'interesse per quesioni di legge,
giustizia e oppressione. Nell'arco di tempo che va dagli anni cinquanta agli anni sessanta,
entra nel mainstream del discorso intellettuale un particolare lessico per parlare
dell'Olocausto, comprendente termini di ''genocidio'', ''Lager'', ''Auschiwitz'', termini che
fungono allo stesso tempo da indicatori letterali di un evento storico e da analogie o
metafore flessibili e prontamente riconoscibili. Tali metafore emergono dall'osservazione sia
dei perpetratori (i nazisti, il loro sistema di genocidio e le loro istituzioni di violenza come
figure simboliche di una sorta di violenza di specie) sia delle vittime (con i morti o l'ebreo
come figure simboliche di coloro che sono oppressi, schiacciati, soggetti al potere). Tutto
questo vocabolario ha trovato le sue origini in un processo che va dai testimoni di prima
mano alle rielaborazioni e riproposizioni di seconda mano. Questo nuovo livello di presenza
dell'Olocausto nel dialogo e nella creazione culturale porta con sé anche una propensione
distorcente a piegarne la specificità storica per ogni uso e consumo del momento. Le
analogie e le metafore sono proseguite ben oltre gli anni settanta, sia negli ambiti
intellettuali che nella cultura di massa. Si può concludere con due esempi indicativi, tratti da
poli opposti: la televisione e la filosofia politica. Nel 2000, quando fu lanciata la versione
italiana del reality televisivo internazionale Il grande fratello, parecchi dei più cinici fra i
commentatori videro nella formula del programma delle analogie non solo con lo stato
totalitario evocato dal titolo orwelliano, ma anche, estendendo il ragionamento al limite, con
il Lager e gli esperimenti medici nazisti. Passando alla filosofia, il filosofi politico attivo in
Italia nel XXI secolo è Giorgio Agamben. Egli ha scritto molto sull'Olocausto, ma la sua
opera di più ampia portata, sulla crisi contemporanea dello stato, si incentra sulla figura o
metafora del campo di concentramento come norma della modernità, come uno spazio per
l'esclusione nel quale la soggettività e la cittadinanza delle vittime, il loro status di soggetti
titolari di diritti giuridici vengono meno lasciando a costoro una nuda vita. Il tema della
globalizzazione e il suo lato oscuro rappresentato dallo spostamento di masse disperate di
migranti per motivi economici e politici, sono un problema che caratterizza il nuovo secolo.
Il libro di Rovello, intitolato Lager italiani, ricollega questo problema sotto molti aspetti
all'Olocausto e alla storia più buia del secolo passato.

8. Zone grigie e bravi italiani

Anche questo capitolo concerne forme di conoscenza plasmate dal linguaggio, ma in un


modo diverso, affrontando cioè il movimento del linguaggio stesso, la circolazione di frasi
fatte e di parole chiave. Il capitolo intende mettere a fuoco questioni nazionali, i processi
italiani di elaborazione, nel linguaggio e nella cultura largamente condivisi, inerenti alla
storia, all'ideologia e alla morale, al fascismo, alla guerra e alla Resistenza antifascista. E se
accade che molto spesso sia la storia nazionale dominante a modellare il discorso relativo
alla storia apparentemente marginale dell'Olocausto, vi sono anche dei momenti in cui è
avvenuto l'opposto, momenti in cui è stato il discorso dell'Olocausto a filtrare dai margini
verso il centro, plasmando il modo di affrontare questioni legate alla storia e alla memoria
nazionale. Uno dei principali meccanismi attraverso cui questo singolare ribaltamento si è
verificato è stato la trasmissione di determinate espressioni o parole chiave dal discorso
dell'Olocausto al discorso nazionale. Il lavoro di Silvana Patriarca ''Italianità'', affronta la
questione del carattere nazionale. Patriarca sottolinea una persistente tendenza italiana ad
autodenigrare, anziché autocelebrare, il proprio carattere nazionale, una forma di
patriottismo alla rovescia, rinvenibile in tutti quei vizi percepiti come tipicamente italiani
quali pigrizia, mollezza, scaltrezza, corruzione, che dimostra l'ingresso difficile dell'Italia
nella modernità e nell'esistere come nazione. Non c'è dunque da sorprendersi che, in quei
momento di fragilità e di quasi dissoluzione dello stato nazione, in cui vacilla l'idea
collettiva di ciò che significhi essere italiano, tanto il linguaggio che il sentimento del
carattere nazionale ritornino con considerevole forza. E poiché quel momento coincideva
con l'Olocausto, sul finire del Novecento, si può iniziare a capire perchè la terminologia
relativa al carattere nazionale abbia potuto traslarsi dall'una sfera all'altra. Questo capitolo si
incentra in particolare su due parole chiave o frasi fatte che hanno mostrato una capacità di
sollevare complesse questioni storiche generali attraverso figure retoriche del carattere
nazionale. Entrambi contengono in sé potenti stereotipi per fare i conti con il passato
collettivo; ed entrambi pongono una serie di difficili questioni concernenti sia l'Olocausto
sia il fascismo, questioni di complicità, colpa, responsabilità individuali e collettive.
Entrambi trovano le loro origini e i loro principali utilizzi nell'ambito del discorso
sull'Olocausto. Il primo è il problema della ''zone grigia''; il secondo, il mito degli ''italiani
brava gente''.

- Zone grigie
Il transito dell'espressione ''zona grigia'', in origine prese le mosse da un capitolo dell'ultima
serie di riflessioni sull'Olocausto di Primo Levi, I sommersi e i salvati: un capitolo cruciale,
intitolato ''La zona grigia''. Qui Levi articola il suo discorso su sfumature morali,
riconoscendo che la profonda difficoltà insita nella comprensione dell'Olocausto ha alla sua
radice un limite posto a quell'istinto verso il bianco-o-nero che tutti abbiamo in comune in
quanto esseri umani. Come già nella prefazione a Se questo è un uomo, Levi riscontra
questa tendenza universale, in quello che definisce ''l'animale-uomo'', a separare il bene dal
male, l'amico dal nemico. La zona grigia spiega che la realtà del Lager era costruita sulla
creazione di aree confuse, di indecifrabili territori di ambiguità a mezza strada fra le vittime
innocenti e i perpetratori colpevoli. Le vittime venivano degradate dal sistema e i
perpetratori colpevoli. Le vittime venivano degradate dal sistema, e i perpetratori venivano
protetti dagli effetti delle loro azioni grazie alla creazione di una vasta area grigia di
complicità, di compromesso morale e di alleviamento della sofferenza. Come Levi
sottolinea, i privilegiati erano una risibile minoranza di prigionieri, ma furono la grande
maggioranza fra i sopravvissuti. Levi passa in rassegna la miriade di ruoli assunti da quella
minoranza, ciascuno dei quali arrecava una piccola dose di potere, di sollievo dalla
sofferenza, ma anche di responsabilità. Il capitolo è costellato da digressioni finalizzate a
collegare i terribili compromessi morali, forzatamente imposti a prigionieri e guardiani dal
sistema e dai meccanismi schiaccianti di un potere totalitario. La categoria della zona grigia
è messa a nudo come un prodotto del Lager, ma offerta anche come uno strumento per
l'analisi morale di tutto l'agire umano. Levi sviluppa un'argomentazione nella quale, da una
parte, di fronte all'esistenza della zona grigia rifiuta un banale relativismo (tutti erano
colpevoli di compromessi), ma, dall'altra, riconosce che, data la natura del sistema del
genocidio nei campi, si rende essenziale un'umiltà nei nostri giudizi morali, tale da portare
forse a una sospensione del giudizio stesso: ''la condizione di offeso non esclude la colpa''.
In concomitanza con l'uscita di I sommersi e i salvati nel 1986, era appena esploso uno
scandalo politico e diplomatico internazionale: l'Austria era in procinto di eleggere un
nuovo presidente, Kurt Waldheim. Durante la campagna elettorale, emersero
nell'autobiografia di Waldheim delle lacune e delle contraddizioni concernenti la sua attività
in tempo di guerra nelle fila dell'esercito nazista, fatto che provocò controversie a livello
internazionale e nazionale. L'Austria si era costruita un mito di innocenza nazionale intorno
al presupposto di essere stata la prima vittima del nazismo, anziché un suo volonteroso
collaboratore. Più di una commissioni di storici esaminarono il caso Waldheim e giunsero
alla conclusione che non aveva preso parte ad alcuna atrocità, ma che doveva aver saputo
della loro esistenza; e che comunque i suoi silenzi erano colpevoli. Di colpo Waldheim era
giurno ad incarnare il gravoso problema storico, politico e morale di come giudicare a
quarant'anni di distanza coloro che si erano ritrovati nel sistema nazista o fascista dalla parte
dei perpetratori. La categoria leviana della zona grigia pareva ben adattarsi al caso in
questione; Waldheim era colpevole di codardia, di essere cresciuto e di essere stato
risucchiato nella generalizzata complicità dell'Austria con il nazismo, ma non era un
criminale di guerra. L'autorevole giornalista italiano Giorgio Bocca collocò Waldheim nella
zona grigia di Levi, concludendo che a nessuno dovrebbe essere negato il perdono o la
comprensione per un errore di gioventù. La migrazione nella storia italiana del concetto di
zona grigia è semicelata nella vicenda personale dello stesso Bocca. Prima di prendere
attivamente parte alla Resistenza, Bocca aveva aderito al regime fascista e aveva addirittura
accolto con entusiasmo l'antisemitismo delle leggi razziali. La richiesta di perdono per
Waldheim, per un giudizio erroneo di gioventù, era forse la richiestra di una personale
riabilitazione e un appropriarsi dell'idea della zona grigia di un modo per alleggerire le
coscienze di un'intera generazione di italiani presi in mezzo tra fascismo e anti- o non-
fascismo, in quella fase di impossibile caos storico e morale. Nel suo saggio Levi si era
concentrato sul complesso universo dei prigionieri, delle vittime, i loro privilegi e le loro
complicità. Altrove si era interessato ai loro margini di resistenza e di rifiuto del sistema; era
contrario al perdono, preferendo invece riconoscere l'umana complessità ma anche giudicare
i perpetratori come pienamente responsabili delle loro azioni. Nel contestro locale della
storiografia italiana sulla Restistenza che si estese lungo tutto l'arco postbellico, gli
equivalenti del bianco e nero di Levi, le categorie di storicamente giusto e storicamente
sbagliato, erano rinvenibili nella scissione tra fascismo e antifascismo, tra destra e sinistra.
Dopo il 1989 e il crollo della Prima Repubblica, quella polarità da Guerra fredda si
sarebbero sfilacciata e dissolte, ma anche prima di quello spartiacque, la terra di mezzo tra i
poli di fascismo e antifascismo era andata espandendosi. Il lavoro di Renzo De Felice, che
postulava una accettazione della popolazione italiana verso il regime fascista, produsse un
intenso dibattito negli anni settanta grazie al successo di vendite della sua Intervista sul
fascismo. Nella sua intervista De Felice sottolineava numerose fondamentali distinzioni,
nell'intento di definire il fenoomeno e la specificità del fascismo. Tracciava una linea netta
tra il fascismo italiano e il nazismo tedesco, inclusa l'affermazione che il razzismo fascista
fosse un elemento estrinseco importato dalla Germania nazista. Cercò di separare il
movimento fascista dal regime fascista e delineò un passaggio dal consenso dei primi anni
trenta alla frattura avvenuta alla fine di quel decennio, con le leggi razziali del 1938 a
segnare un momento cruciale di divorzio fra il regime e il popolo. Il passaggio dal consenso
al distacco era qualcosa di simile a una transizione tra sfumature di grigio. De Felice stava
operando in senso revisionista allo scopo di recuperare un quadro più sfumato e per certi
aspetti anche meno negativo del fenomeno fascista. De Felice sarebbe tornato con vigore
sulla questione della Resistenza con un altro libro intervista, pubblicato nel 1995, il cui
titolo era Rosso e nero. Accanto alle decine di migliaia di resistenti attivi e alle centinaia di
migliaia di militari di Salò o anche prigionieri di guerra, De Felice prendeva in
considerazione i milioni di italiani comuni i quali si limitarono ad aspettare che la guerra
finisse, aspettare che gli Alleati avanzassero verso la vittoria, senza schierarsi né da una
parte né dall'altra, cercando di attraversare in un modo o nell'altro il dramma in corso e di
proteggere le proprie famiglie. Era questo il fenomeno dell'attendismo, dello stare a vedere
cosa succede. Il capitolo nel quale De Felice espone la sua tesi sull'attendismo è intitolato
Una lunga zona grigia. Nel capitolo De Felice parla di una sostanziale estraneità della
maggioranza degli italiani sia nei confronti della Repubblica di Salò sia della Resistenza.
Questo portò ad elaborare una vera e propria strategia di sopravvivenza che consisteva
nell'essere amico di tutti senza aiutare nessuno, con un atteggiamento favorevole a un esito
antifascista ma timoroso di provocare delle reazioni violente. Questa ampia fascia di
popolazione era la zona grigia dell'attesismo civile in cui le scelte venivano evitate il più
possibile. Al mito della scelta etica e politica, De Felice oppone il trauma di quelle
pochissime scelte che la massa non potè evitare, in particolare le chiamate delle classi di
leva. Diversamente, la scelta predominante della maggior parte della gente fu quella di non
scegliere. In Levi, come in De Felice, il successo della zona grigia come formulazione
rifletteva uno slittamento dall'ideologia verso la moralità; e in concomitanza con quello
slittamento si affacciava un'attenzione sull'individuo o sulla famiglia e le loro scelte, o non
scelte, di fronte alla storia. Benchè nella sua formulazione originale, in I sommersi e i
salvati, Levi avesse rifiutato questo conteggio di buone e cattive azioni e benchè avesse
posto ancora molta enfasi sulla complessità morale di un individuo, la nozione di zona
grigia fu utilizzata perlopiù come un modo per guardare con apertura a scelte locali, di
determinate persone, a preoccupazioni intime, agli istinti di autoconservasione, di sottrarsi
ai pericoli. L'Olocausto era ora meno fortemente risonante come sistema, come politica
totalitaria estrema, ma molto di più come verifica ultima della moralità di un individuo. In
questa formulazione, la zona grigia è diventata una categoria pressochè ubiqua.

- Bravi italiani
I vizi nazionali, le idee stereotipate di pecche e debolezze del carattere nazionale che
necessitano di essere corrette, sono stati utilizzati come leve per la creazione e l'imposizione
di un'identità nazionale buona, alimentata da patriottiche recriminazioni per i difetti della
nazione. È un processo intrinseco al moderno nazionalismo. Il distaccato, egoistico
familismo amorale pare riflettersi alla perfezione nell'attesismo del periodo della guerra
civile. Allo stesso tempo, un altro stereotipo, questa volta positivo, uno stereotipo di virtù
nazionale, si pone in maniera competitiva e complementare rispetto al vizio nazionale della
zona grigia. Visto attraverso le lenti ottimistiche della virtù, il naturale scetticismo degli
italiano verso l'autorità, verso la tirannia dello stato e verso il sistema giuridico, unito a
un'empatia umana verso i propri simili portò a una spontanea resistenza alle peggiori
persecuzioni fasciste, razzismo incluso, a un istintivo impulso a opporsi al dogma o a
ignorarlo, semplicemente andando avanti e riuscendo a farcela senza lasciarsi contaminare.
In quest'ottica, il consenso diventa una forma di mantenimento dell'autonomia, segno di
un'innata capacità del vivere civile in grado di resistere al fascismo. È questa la radice del
mito del bravo italiano, della nozione di italiani brava gente. Una recente importante ricerca
di Filippo Focardi e altri ha mostrato come la moderna espressione di quest'idea del bravo
italiano abbia le sue radici in una strategia diplomatica degli anni quaranta nell'ambito della
nascente repubblica italiana. Mosso dal desiderio che l'Italia venisse accolta come alleata
delle democrazie occidentali, come membro delle Nazioni Unite, il governo italiano
intraprese una strategia diplomatica per distanziare il fascismo italiano dal nazismo tedesco,
per far emergere atti individuali di coraggio italiano, tra cui l'aver aiutato e soccorso ebrei e
altre persone, anche prima della caduta del regime di Mussolini. In altre parole, il popolo
italiano onesto e rispettabile, era presentato come se fosse stato diffamato dal male incarnato
dal regime che lo aveva governato e oppresso. Posta in contrasto con l'immagine del bravo
italiano era la controimmagine, attinente sempre al carattere nazionale, dell'irredimibile
cattivo tedesco; come spiega Focardi, le due erano una coppia di immagini stereotipe che si
definivano a vicenda, l'una basandosi sull'altra allo scopo di operare una distinzione storica,
morale e dunque politica. La linea di interpretazione di De Felice: il popolo, le persone,
devono essere trattati come entità agenti in modo separato dallo stato, e di conseguenza
anche giudicati in modo separato. Quando negli anni ottanta la pubblica attenzione per
l'Olocausto andava prosperando, la forza narrativa e consolatoria dei racconti sui bravi
italiani fece sì che il mito diventasse una caratteristica preminente nel campo culturale che
andava espandendosi in molteplici direzioni. Un prodotto che risultò cruciale nel
promuovere questa narrative in parte storica in parte mitica del bravo italiano, utilizzandola
come la spiegazione del ruolo dell'Italia e degli italiani nell'Olocausto, fu il documentario
televisivo Il coraggio e la pietà, realizzato da Nicola Caracciolo. Egli dichiarò che il suo era
un lavoro mirato a dimostrare un'ipotesi secondo la quale gli italiani negli anni della guerra
sono rimasti immuni da quella spaventosa ''epidemia psicologica'' che è stato
l'antisemitismo, perlomeno nella sua variante nazista e omicida. Il resto dell'introduzoone di
Caracciolo è una lettura positiva del ruolo svolto dagli italiani nel salvataggio di ebrei: il
governo fascista fu il protettore degli ebrei; nessun reparto dell'esercito italiano prese parte
agli orrori del genocidio. Non è forse una coincidenza, tuttavia, che il periodo che produsse
l'apologia di Caracciolo e l'imporsi dell'idea defeliciana di fascismo produsse anche l'inizio
di una forte reazione contro il semplicismo dello stereotipo del bravo italiano. In termini
storiografici, il contraccolpo iniziò dopo il 1988 con un nuovo filone di studi
sull'antisemitismo fascista, in cui l'interrogarsi sul mito del bravo italiano assunse un ruolo
centrale. Tornando nello specifico all'Olocausto, per coloro che negli anni ottanta e in
seguito si sentivano più investiti del ruolo di custodi della memoria, l'imperativo era ora
quello di considerare la specificità storica e morale delle colpe e delle persecuzioni italiane,
per evitare che la natura realmente orribile della persecuzione razziale fascista venisse
occultata dal confronto con il debordante equivalente nazista. Sintomatico di ciò è stato lo
storico michele Sarfatti in contrasto con i distinguo e le fratture operate da De Felice.
Intersecandosi con la questione della zona grigia, i due modelli interpretativi di De Felice e
di Sarfatti guardano in maniera radicalmente diversa alla scelta di soccorrere o aiutare gli
ebrei. Per il primo, questa scelta denota un certo grado di civiltà sociale come aspetto del
carattere, ma anche una distanza dall'ideologia fascista e un istinto di stringersi l'un l'altro e
resistere alla violenza della guerra; per il secondo, invece, quella di aiutare gli ebrei è una
scelta altrettanto forte e attiva della scelta del vecchio mito della Resistenza, la scelta di
combattere i nazifascisti, tanto nella lotta armata quanto nella lotta civile. Il contrastato
terreno di bravi italiani e zone grigie tornò alla ribalta con la riscoperta di un'altra storia di
aiuto prestato agli ebrei, quella di Giorgio Perlasca. Egli era sia bravo che grigio, e nel suo
eroismo, nella sua ambiguità, nella sua incertezza incarnava molte delle istanze di moralità,
identità e carattere nazionale che negli anni ottanta e novanta circolavano intorno agli
stereotipi della zona grigia e del bravo italiano. Era stato un fascista convinto, ma non un
antisemita, anzi fu ostile all'antisemitismo nazista e fascista, fu un patriota. All fin fine
Perlasca è italiano proprio per via del suo confuso, ma umano, senso di ciò che è giusto. Gli
stereotipi gemelli della zona grigia e del bravo italiano si uniscono in un sorprendente
amalgama culturale. Pavone suggerisce un nesso diretto tra i due luoghi comuni: dalla zona
grigia escono sicuramente i più convinti assertori del mito della bontà degli italiani. Per
quanto in apparenza opposti, i due stereotipi sono strettamente legati l'uno all'altro. Questi
due clichè diventano emblematici del fatto che la storia sia spesso vista come un qualcosa
che si determina a livello dell'esperienza individuale e di personali qualità del carattere. Gli
individui comuni hanno agito spinti dalle proprie multiformi motivazioni, ben distinte da
sistemi e strutture. E l'Olocausto costituisce la vicenda più moralmente impegnativa rispetto
alla quale narrare questa storia, il miglior terreno di prova per il carattere nazionale.

9. Linee transnazionali

Questo libro studia le singole storie nazionali di risposta all'Olocausto. Considerato nel suo
insieme, questo campo di ricerca fornisce un panorama composito della ricezione
dell'Olocausto quale fenomeno sovranazionale, dell'impatto che ha avuto in una vasta
gamma di scenari nazionali, e di come sia giunto in tutto il mondo attraverso varianti fino ad
arrivare a trasformarsi in consapevolezza culturale. Da questo raggio d'azione globale deriva
anche la capacità di eventi come l'Olocausto di agire non solo a livello sovranazionale, in
termini storici e culturali, ma anche come fenomeni universali, con lezioni da impartire sulla
natura del genere umano, sulla mente e sul corpo umani, sul funzionamento della violenza,
della colpa, della moralità, della responsabilità. Esiste, tuttavia, uno spazio intermedio tra il
nazionale e il sovranazionale, il quale potrebbe spiegare in che modo quegli altri due
entrano in contatto e interagiscono. Si può chiamare questo spazio ''transnazionale'', un
termine che allude ai modi fluidi in cui l'Olocausto, nonché il linguaggio e l'immaginario
che lo circondano, hanno valicato i confini culturali nazionali, sono stati declinati e assorbiti
in maniere peculiari in ciascun contesto locale, hanno plasmato nuove rappresentazioni e
risposte che sono poi a loro volta migrate all'esterno in altre culture.

- Geopolitica culturale. Israele, America, Europa


- Israele;
Sono tre le culture che rappresentano le principali arene della storia e memoria
dell'Olocausto, Israele, America ed Europa. In quanto evento della storia ebraica,
l'Olocausto è sempre corso in parallelo con la storia dello Stato di Israele. Nell'ambito della
cultura commemorativa ufficiale di Israele, è stata celebrata una figura eroica e militarizzata
del combattente dell'Olocausto, in particolare attraverso la memorializzazione della
resistenza del ghetto di Varsavia come mezzo per controbattere il diffuso mito e stereotipo
degli ebrei passivi, condotti a morire come agnelli al massacro. Nell'ambito della comunità
ebraica italiana, vi sono riviste quali la Rassegna mensile di Israel, in cui vi è un'ottimistica
attenzione verso il nuovo Stato di Israele e di una tendenza a non indugiare sugli orrori del
genocidio. Nella rivista, il cordoglio per le vittime della persecuzione è controbilanciato da
una celebrazione dell'alba nuova della nazione israeliana, il momento in cui si attua il sogno
dei secoli e sulle coste orientali del Mediterraneo risorge lo Stato ebraico. Un simile schema
di minimizzazione della persecuzione e di costruzione di prospettive ottimistiche
sull'identità ebraica, nei primi anni del dopoguerra, spiega il diffuso insistere da parte di
alcuni ebrei italiani sopravvissuti sull'altruismo umanitario dei loro vicini di casa, i bravi
italiani, nel loro eroico sacrificarsi e correre dei rischi per salvare delle vittime ebree. Gli
avvenimenti che portarono alla guerra, con un crescendo di ansietà nella comunità ebraica
per la possibile distruzione dello Stato di Israele, seguito dalla straordinaria vittoria militare
dello stato ebraico e dall'occupazione di larghe porzioni di territorio dei paesi confinanti,
polarizzarono le tensioni politiche determinate dagli schieramenti della Guerra fredda. Dopo
il 1967 l'America si confermò come alleato chiave di Israele, mentre l'Unione Sovietica, e
con essa i partiti comunisti di tutto il mondo, come filopalestinesi. Si aprì così una profonda
spaccatura fra una comunità ebraica largamente ed emotivamente in sintonia con l'eroica
vittoria e sopravvivenza di Israele, e il mainstream del Pci. Gli effetti di questa
polarizzazione furono complessi, causando durante gli anni settanta fratture interne nel Pci e
creando strane zone di ambilvalenza nell'ambito della cultura intellettuale italiana di matrice
comunista. Il caso più clamoroso di tutti fu forse quello dell'intellettuale socialista Franco
Fortini. All'anagrafe Franco Lattes, nato da padre ebreo, negli anni trenta Fortini rinnega la
sua origine ebraica, subisce comunque il pregiudizio antisemita e nel 1944-45 è costretto
all'esilio in Svizzera per ragioni politico-razziali. Il suo aspro attacco contro i vincitori della
guerra (israeliani) del 1967 rappresentò una delle più rilevanti offensive espresse da sinistra
contro la causa israeliana, una presa di posizione connessa all'ambivalente rapporta del
poeta con le proprie origini ebraiche disconosciute. Con lo spostarsi a destra dei governi
israeliani alcuni intellettuali di ebrei di sinistra iniziarono a prendere le distanze da Israele,
se non a mostrare aperta ostilità verso lo stato. Dopo la fine della Guerra fredda, la nuova
destra dell'Italia degli anni novanta intuì un possibile vantaggio strategico in un
avvicinamento a Israele. Fini intraprese una serie di missioni diplomatiche volte a legare il
suo partito postfascista e la sua politica a Israele, alla comunità ebraica italiana e
all'Olocausto. Visitò la sinagoga di Roma, il sito di Auschiwitz e si recò a Gerusalemme.
Allo Yad Vashem (Ente Nazionale per la memoria della Shoah) operò il più deciso strappo
definendo l'antisemitismo fascista e il genocidio nazista esempi di male assoluto e
recriminando contro ignavia, indifferenza, complicità e viltà che fecero sì che tantissimi
italiani nel 1938 nulla facessero per reagire alle infami leggi razziali volute dal fascismo.
Nello stesso discorso Fini difese il leader israeliano Ariel Sharon e accusò gli antisionisti di
una forma di antisemitismo. Una significativa manifestazione cultura è stata rappresentata
da una fase di importazione e di idoleggiamento, cominciata nei tardi anni ottanta da parte
di un'elite intellettuale nei confronti di una generazione di scrittori israeliani faovrevoli alla
pace, e di alto profilo letterario, il cui lavoro era spesso impegnato di retaggi dell'Olocausto.
Il romanzo di Grossman Vedi alla voce: amore, tradotto in italiano ebbe cinque edizioni con
Mondadori. La letteratura italiana si poneva come un modello per nuove forme di scrittura
di resistenza con riferimenti diretti al momento più buio della storia europea. Gli scrittori
israeliani, nel loro affrontare l'eredità storica e morale dell'Olocausto e le lotte politiche
contemporanee, venivano sentiti in Italia come un nostalgico ritorno al passato con certezze
sulla Resistenza e sull'antifascismo, e delle battaglie anticapitalistiche da combattere nella
nuova repubblica.

- America
Le linee transnazionali di connessione fra la cultura italiana e le connessioni americane è di
natura più espressamente culturale. Vi è una consolidata analisi dell'esplosione di un
interesse verso l'Olocausto e di una sua memorializzazione che vede non solo un netto
incremento di attenzione in termini quantitativi, ma anche, sotto il profilo qualitativo, un
rimaneggiamento dell'Olocausto in tinta americana. Eventi mediatici globali in stile
hollywoodiano come Olocausto e Shindler's List; l'istituzione di un gran numero di
memoriali e musei americani sull'Olocausto; gli sforzi condotti a partire dagli anni novanta
da vari enti americani per appoggiare le richieste di risarcimento delle vittime
dell'Olocausto: questi e altri fattori hanno portato a una critica dell'americanizzazione della
cultura dell'Olocausto. E sebbene la più forte evidenza dei questa americanizzazione si
ritrovi in un periodo che inizia con gli anni novanta, è chiaro che alcuni segnali di
appropriazione e mediazione culturale americana si erano manifestati già molto tempo
prima: per esempio, la notorietà del Diario di Anna Frank entrò per la prima volta nella
consapevolezza di un pubblico di massa attraverso la riduzione teatrale di Broadway e poi
con l'adattamento cinematografico di Hollywood, rispettivamente nel 1955 e nel 1959.
Possiamo prendere in esame tre esempi di lavori italiani sull'Olocausto che sono penetrati
nella cultura globale dell'Olocausto grazie a un incontro iniziale con l'America, in un
processo a tre fasi: Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmuller; l'opera di Primo Levi negli
anni ottanta; e i due principali film italiani sull'Olocausto degli anni novanta, La tregua di
Francesco Rosi e La vita è bella di Roberto Benigni. Pasqualino Settebellezze occupa nella
cultura intellettuale americana un'importante nicchia nello sviluppo del dibattito sulla
rappresentazione dell'Olocausto, sulla cultura di massa e sull'istinto umano per la crudeltà e
per la sopravvivenza. Giunse a ciò anche grazie alla fascinazione suscitata negli Stati Uniti.
Quest'atmosfera di grande favore, e il fatto che fosse un film sull'Olocausto, tema che stava
in quel momento ponendosi al centro della sfera culturale e intellettuale americana, furono i
due elementi che portarono all'eccezionle nominationa quattro Oscar, comprese la prima
nomination di una dona come migliore regista per Wertmuller. Il film di Benigni alla fine
degli anni novanta suscitò un polemico dibattito intorno all'accettabilità del suo registro
comico-grottesco nel rappresentare i campi di concentramento. Bruno Bettelheim espresse il
proprio disagio nei confronti del film per come descriveva i meccanismi psicologici di
adattamento e sopravvivenza. In contrasto con Bettelheim, Terence Des Pres difese la
funzione di commedia e il grottesco del film, aprendo un dibattito fra modalità di sobrio
realismo e testimonianza, da un lato, e distorsione formale e reimmaginazione comica,
dall'altro. Un'ambivalenza si rende evidente nel caso di Primo Levi in America. A partire
dalla metà degli anni ottanta, la considerazione di Levi negli Stati Uniti subì una notevole
trasformazione. A seguito della traduzione inglese del Sistema periodico, la sua fama
americana salì alle stelle e di conseguenze divenne internazionale. Levi si sentiva a disagio
verso taluni aspetto della sua ricezione americana. Si sentiva travisato nell'essere connotato
quale scrittore ebreo. Fu dunque significativo e irritante il fatto che, quando uscì in
traduzione inglese Se non ora, quando?, Levi venisse attaccato da voci dell'elite intellettuale
ebreo-americana di stampo conservatore per non sottoscrivere appieno l'unicità ebraica
dell'Olocausto, e per mostrare scarsa sensibilità. In un deliberato travisamento, Levi era
stato americanizzato come un determinato tipo di figura ideale del sopravvissuto, solo per
venire poi biasimato per non essere all'altezza dell'ideale. Il Levi universalista si è scontrato
negli Stati Uniti con una concezione connotata in senso ebraico dell'Olocausto e della sua
unicità. Levi, malgrado tutto ciò, fu idolatrato in America e rimane una delle figure più
influenti e un costante punto di riferimento nel discorso intellettuale sull'Olocausto, oltre
che un'importante personalità in campo letterario. I casi di Wertmuller e Levi possono essere
utilizzati per situare e spiegare la vicenda dello scambio transnazionale fra Italia e America
rappresentato da La vita è bella di Benigni. Quest'ultimo si conquistò un successo
straordinario: uscito in Italia nel dicembre 1997, vinse numerosi premi, sospinto sia dalla
notevole fama di Benigni quale attore comico di culto sia dalla grande popolarità goduta
negli anni novanta dalle vicende sull'Olocausto. Diventò il film sottotitolato che riscosse il
maggiore successo fra tutti quelli usciti in America. Nell'ottobre di quell'anno, La vita è
bella era divenuto il film italiano di maggior successo di tutti i tempi. Tanto il successo del
film quanto la bufera di critiche che scatenò procedettero in parallelo con quanto accaduto
nel caso di Pasqualino Settebellezze. Molti si schierarono contro il film. Ci si domandò se
fosse proprio necessario ambientare il racconto in un campo di concentramento, trattandosi
più che altro di un film generico sull'amore familiare in una situazione estrema, una
parabola universale sull'umanità. Come avvenuto a Levi e Wertmuller, Benigni fu coinvolto
in una complessa operazione culturale transnazionale: idoleggiato e stigmatizzato nella sua
ricezione americana; ammirato per il suo essere europeo, e poi criticato da un'elite
intellettuale per questa sua trasformazione della conoscenza seria dell'Olocausto.
- Europa
Nel parlare di Pasqualino Settebellezze e della sua ricezione negli Stati Uniti come
fenomeno culturale, uno dei fattori citati per spiegarne il successo e la capacità di porsi
come lavoro sperimentale in grado di spezzare dei tabù era la sua appartenenza a un certo
tipo di cinema d'autore europeo, in particolare per i temi affrontati e i riferimenti espliciti
alla sessualità. La maniera in cui la cultura italiana dell'Olocausto attinge da una cultura
europea d'insieme dell'Olocausto è un'altra cruciale interazione transnazionale che merita di
essere presa in considerazione. Un quadro europeo dell'Olocausto è lungi dall'essere la mera
somma di una serie di relazioni binarie fra l'Italia e altri singoli paesi europei. A un livello
inferiore, esiste un elemento europeo transnazionale identificabile in certe traiettorie
autoriali personali, in certe condizioni di produzione e collaborazione culturale. Un esempio
di ciò potrebbe essere la carriera cinematografica di Gillo Pontecorvo, il cui primo lavoro,
Kapò, contrassegnò una soglia fondamentale in quanto fu uno dei primi di una serie di film
prodotti nell'Europa occidentale che direttamente presentavano e narratizzavano il genocidio
ebraico. Il film fece ricorso a un cast internazionale, largamente europeo, con una star
americana, Susan Strasberg. L'attrice era già una figura molto nota nell'ambito della cultura
internazionale dell'Olocausto, ave ndo interpretato Anna Frank nell'adattamento teatrale di
Broadway del diario. Pontecorvo girò pochi film nei successivi vent'anni, ma è significativo
che i suoi principali quattro lungometraggi di quel periodo si basassero sulla stessa
dimensione europea e transnazionale di Kapò, facendo rientrare il film e l'Olocausto che
ritrae in quello che si può chiamare un gruppo multidirezionale di argomenti, in cui vengono
indagate e spiegate storie europee di politica, potere, persecuzione e resistenza violenta nelle
loro più svariate forme. Altre dimensioni dell'europeità sono presenti nella cultura del XXI
secolo. Una dimensione europea è presente nel film documentario del 2006 La strada di
Levi, diretto da Davide Ferrario. Ad interessare, qui, non è tanto un'ulteriore dimostrazione
dell'influenza filtrante di Levi, quanto piuttosto l'ottica geografica e storica creata da questa
operazione filmica. Il documentario ripercorre il viaggio di ritorno a casa di Levi, da
Auschiwitz a Torino, nel 1945. Ma, nell'Europa del 2005, questo significa attraversare i
paesaggi totalmente trasformati, in parte tragici, in parte grotteschi, dei paesi dell'Est
europeo post-sovietico. In altre parole, lo scenario postbellico di Levi, di caos primigenio e
di ritorno diventa struttura portante per leggere cinque decenni e più di storia europea. Su un
piano istituzionale, qualcosa della dinamica presente nella Strada di Levi si rispecchia negli
sforzi collettivi europei di costruire una struttura sovranazionale ufficiale per la
commemorazione dell'Olocausto. Il più importante esempio di ciò che fu la Task Force per
la cooperazione internazionale in materia di istruzione, memoria e ricerca sull'Olocausto che
sfociò nella Dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull'Olocausto del
gennaio 2000, un'iniziativa svolta per promuovere forme appropriate di memoria. Questa
serie di iniziative incentrare sull'Europa cementarono a livello istituzionale la funzione
dell'Olocausto quale mito fondante negativo dell'identità e dell'assetto civile dell'Europa
postbellica.

- Traduzione
La traduzoone, la trasposizione letterale e metaforica di parole, idee e immagini tra
differenti paesi, è un fenomeno pervasivo nella rete di trasmissione transnazionale della
conoscenza dell'Olocausto nel mondo uscito dal conflitto mondiale. Tre esempi di
importazione in Italia di linguaggi e testi stranieri che hanno costituito dei passaggi chiave
nella formazione del campo della cultura dell'Olocausto.
- La traduzione di Meneghello
Il periodo che va dall'inizio alla metà degli anni cinquanta, benchè da molti descritto come
una fase di silenzio dell'Olocausto, registrò parecchie importanti eccezioni a questa regola.
Nel 1953 si verificò un caso alquanto insolito nel campo della storiografia, con formidabile
risonanza per la questione della traduzione: tre lunghi articoli di Luigi Meneghello usciti
sulla rivista di Olivetti ''Comunità'', che esponevano, per la prima volta in italiano, un sintesi
della storia della Soluzione finale. Meneghello lavorava nel Regno Unito e questi suoi
contributi a Comunità firmati con lo pseudonimo Ugo Varnai, giunsero sotto forma di
recensioni a opere di politica, storia e letteratura uscite in inglese. Gli articoli di Meneghello
erano un inconsueto mix di recensione, riassunto, selezione, traduzione riorganizzazione, a
cui si può anche aggiungere elaborazione visiva, dato che lo stesso Meneghello rintracciò
nella stampa e nelle biblioteche britanniche una serie di mappe e di impressionanti immagini
fotografiche da pubblicare accanto ai suoi articoli. La trasmissione linguistica dall'inglese
all'italiano è essa stessa un primo importante esempio di traduzione storiografica e di
diffusione della consapevolezza dell'Olocausto. Per Meneghello, questo rappresentava
anche un consapevole atto di seria divulgazione didattica. Il ruolo italiano nella Soluzione
finale, a cui Meneghello dedica particolare attenzione, si basa sull'eccezionale lavoro di
raccolta di materiali e prove nell'ambito della comunità ebraica e di gruppi sopravvissuti. Un
lavoro che alimenterà la conoscenza archivistica italiana sull'Olocausto. La rete di
trasmissione e traduzione culturale è dunque ampia e multilingue, si muove tra italiano,
francese e inglese, a diverse fasi di genesi, pubblicazione e traduzione/sintesi.

- Autotraduzione. Seconde lingue


Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, uno dei topoi principali nel quale
campeggiava l'immagine smarrita del sopravvissuto all'Olocausto, è la figura del DP, la
displaced persone, ovvero reduci, profughi e sfollati che per mesi o anni vagarono senza
casa o senza meta in un'Europa devastata. In alcuni casi rari fu un peregrinare verso casa,
ma per molti la sopravvivenza portò con sé un senso parmanente di sradicamento, esilio e
alienazione, un senso dell'impossibilità di ritornare a un prima. Emigrazione, esilio o fuga
costrinsero molti sopravvissuti, e fra loro alcuni dei grandi scrittori-sopravvissuti, a
reinventare se stessi e a scrivere in terre e lingue straniere. La scrittura italiana
sull'Olocausto aveva avuto una dimensione fortemente legata alle origini personali. Un
tipico schema di spiegazione e narrazione dell'esperienza dell'arresto e della deportazione
vissuta da ebrei italiani vede radicate identità locali e storie di famiglia venire distrutte dalle
subitanee persecuzioni delle leggi razziali fasciste e poi dell'occupazione nazista. Ma è
presente un affascinante filone alternativo di letteratura italiano dell'Olocausto scritta da
persone non nate in Italia che parlano però italiano, da scrittori costretti all'esilio dalla
Soluzione finale o da altri eventi, che hanno adottato l'italiano e trovato una voce entro
questa nuova lingua per narrare l'Olocausto o le loro patrie perdute. Queste testimonianze in
seconda lingua ricestono un ruolo particolare nell'ambito del campo nazionale della scrittura
sull'Olocausto, in quanto consentono al campo italiano di attingere a terreni culturali
dell'Europa centrale dove l'Olocausto si concentrò, e così facendo di miscelare filoni
narrativi locali e di altri luoghi. Quattro casi di scrittori dell'Olocausto in una seconda lingua
acquisita, operanti in Italia, danno il senso della portata delle storie di vita. Il caso di uno
storico-sopravvissuto naturalizzato italiano: Alberto Nirenstein, fu uno dei primi a
descrivere con minuzia, e in italiano, gli orrori e gli eroismi di quel momento leggendario
entro la storia complessiva dell'Olocausto, e uno dei primi a utilizzare dei diari rinvenuti nei
ghetti. Il libro fu pubblicato da Einaudi nel 1958 con il titolo Ricorda cosa ti ha fatto
Amalek. Fatto sintomatico del momento in cui scriveva, Nirenstein non fu tuttavia mai
davvero integrato nel campo storiografico né intellettuale italiano, rimanendo una figura
ammirata ma marginale. Anche una seconda figura translinguistica, Edith Bruck, a
differenza di Nirenstein, per svariati decenni è stata in Italia un'importantissima figura
pubblica di scrittrice-sopravvissuta, forse seconda solo a Primo Levi. Iniziò a scrivere un
primo lavoro di testimonianza con il titolo Chi ti ama così. Nei successivi cinquant'anni e
più, Bruck ha creato un cospicuo corpus di narrativa, poesia e scrittura testimoniale, sempre
tormentata dal trauma della deportazione, ma pure dalla condizione alienante di essere
anche linguisticamente un'esule. Il suo italiano mantenne la capacità di raccontare con
cruda, aspra franchezza: come l'Italia, anch'esso è una sorta di rifugio. Un altro scrittore
ebreo-ungherese, emigrato in Italia è Giorgio Pressburger. Parecchie fra le opere di
Pressburger hanno affrontato tematiche connesse all'Olocausto, al multilinguismo, alla
migrazione e alle confusioni identitarie che ne derivano; l'esempio più recente è la sua
straordinaria rilettura di Danta, Nel regno oscuro, in cui l'autore è guidato da Freud in un
viaggio attraverso gli orrori del Novecento, con la Shoah al suo centro. A una o più
generazioni di distanza da Nirenstein, Bruck o Pressburger, il fenomeno dell'immigrazione
in Italia ha portato verso il multiculturalismo, con la comparsa di una letteratura
translinguistica; vale a dire, a un insieme di testi di immigranti che scrivono in italiano
sull'immigrazione e sull'essere italiani. Questa nuova ondata ha dato risalto a precedenti casi
di scrittura translinguistica sull'Olocausto; e ha talvolta prodotto nuovi esempi di un
translinguismo del presente, di seconda generazione. Uno di questi esempi negli sessanta
che abbia affrontato in italiano le profonde fratture che gravano sui figli dei sopravvissuti, si
può guardare a Helena Janeczek. Il suo romanzo, Lezioni di tenebra, punta verso Auschiwitz
e verso il cuore oscuro, dell'esperienza del campo di concentramento vissuta dalla madre; la
costruzione narrativa tocca i temi delle lingue, il polacco (una lingua che la scrittrice non ha
mai parlato), il tedesco (la lingua materna) e l'italiano (il mezzo scelto per esprimersi).

- Non-traduzione. ''Shoah''
Le questioni linguistiche plasmano in maniera diretta certe concenzioni dell'Olocausto
semplicemente grazie al passaggio attraverso confini culturali e linguistici di singole parole
atte a nominare ciò che accadde agli ebrei europei e ad altri gruppi etnici sotto il nazismo. A
cogliere l'evento, nuovi termini sembrano più adatti a svolgere quel compito: nomi di luogo
e sostantivi generici, in molti casi tradotti o traslitterati da lingue straniere. La storia della
nominazione del genocidio è complessa e importante. Uno dei principale storici del
fenomeno, Anna-Vera Sullam Calimani, ha tracciato la comparsa e le tensioni esistenti in
una variegata rosa di termini possibili, Shoah, catastrofe o disastro, deportazione, Lager,
genocidio, Soluzione finale, Auschiwitz. Il caso più particolare per il suo impatto avuto in
Italia a partire dagli anni novanta, e per prestarsi a illustrare un processo, che si può definire
di non-traduzione, ovvero l'importazione e l'assimilazione di terini stranieri tali e quali, è
quello della parola ebraica Shoah. Vocabolo comune per indicare catastrofe o disastro,
derivato dall'ebraico biblico, Shoah era in uso in Israele nei documenti ufficiali e nel
discorso pubblico già alla metò degli anni quaranta. La parola assunse un nuove vigore in
quanto nome prescelto da coloro che erano più vicini agli eventi dell'Olocausto, i suoi
custodi. Eppure, in inglese come in molte altre lingue, il termine Olocausto rimane di gran
lunga quello dominante. Il caso italiano è una sorprendente eccezione. In Italia, a
cominciare dalla fine degli anni novanta, Shoah ha uguagliato e superato Olocausto,
divenendo adottato nella stampa nazionale, riconosciuto e persino ufficiale per indicare il
genocidio nazista degli ebrei. Shoah fu la denominazione utilizzata nella legge del 2000 che
istituiva il Giorno della Memoria, la cui finalità essenziale è quella di ricordare la Shoah. Il
prestito lessicale di Shoah rivendica e riafferma il carattere e il contenuto ebraico
dell'Olocausto. La scelta del termine ebraico Shoah, per contro, rischia di escludere dal
quadro altri genocidi: è arduo sostenere che rom, omosessuali, slavi e altre vittime
dell'epuraziona nazista siano adeguatamente rappresentati dal termine ebraico. Accanto alla
connotazione ebraica c'è anche la questione generale del suo essere una parola straniera, che
in quanto tale indica un qualcosa di estraneo, che richiede traduzione e spiegazione. Inoltre,
una parola ebraica è anche una parola non italiana, a sottintendere che il genocidio non
faceva parte della storia italiana e poteva serenamente essere rispettato in quanto catastrofe
che non era stata nostra. L'aumentato utilizzo del termine Shoah finiva per coincidere anche
con una tendenza, quella di collocare per la prima volta la complicità italiana al centro
dell'Olocausto e l'Olocausto al centro delle narrative nazionali del fascismo e della guerra.
Queste associazioni, la Shoah come un evento specificamente ebraico, ma insieme a questo
anche un evento italiano, furono colte al meglio da un'emblematica affermazione di Furio
Colombo: ''la Shoah è anche un delitto italiano''. La tesi di Colombo era che vi fossero state
delle specifiche vittime italiane e degli specifici perpetratori italiani di questo delitto, che la
storia ebraica e la storia italiano si fossero intersecate. Un analogo modello di associazione è
rinvenibile nella giustapposizione di Shoah a termini indicanti altri genocidi e altre storie di
catastrofi. In una fase di meticciato linguistico come quella che ha caratterizzato la fine del
Novecento, Shoah va a collocarsi accanto a tutta una serie di altri termini in uno spettro
lessicale translinguistico che designa eventi storici estremi, in cui si intrecciano massacri
tribali, pulizie etniche, campi della morte. C'è nell'utilizzo di Shoah una nuova modulazione
che tende alla dimensione universale dell'Olocausto, rimandando a forme di pietà o di
liturgia. Un'influenza cruciale dell'adozione del termine Shoah, in Italia come altrove, è stato
il suo impiego in una serie di pronunciamenti papali. Giovanni Paolo II dichiarava che la
Shoah rimana un'indelebile macchia nella storia del secolo che si sta concludendo.

- L'Italia ad Auschiwitz. Due memoriali


Il filone conclusivo nell'elaborata rete di trasmissione transnazionale della cultura
dell'Olocausto conduce dall'Italia a quello che è diventato il luogo per eccellenza della
storia, della conoscenza collettiva e dell'immaginario dell'Olocausto: Auschiwitz. L'apertura
e la ristrutturazione del campo dopo il 1989 portarono a una rinnovata elaborazione in loco
della storia di ciò che vi accadde, con una maggiore attenzione alla sua dimensione ebraica,
ma portarono anchce alla problematica crescita del turismo dell'Olocausto, qui come in altri
ex campi e ghetti. La presenza dell'Italia nel sito di Auschiwitz ha avuto la sua particolare
storia. Si possono cogliere alcune di queste complessità esaminando due specifici progetti
memorialistici che sono stati realizzati nel luogo, entrambi con forti connessioni italiane: il
monumento internazionale alle vittime di Auschiwitz e il padiglione italiano ad Auschiwitz.

- Il monumento internazionale
Il Comitato internazionale di Auschiwitz fu costituito nel 1952 da un gruppo
internazionalista composto da ebrei sopravvissuti. Il Comitato indisse un concorso per
progettare un monumento ufficiale da erigersi ad Auschiwitz, dove la ferrovia arrivava
all'interno del campo trasportando vittime proveniente da tutti i paesi dell'Europa occupata.
In merito a tale concorso vi è il singolare fatto che, dei setti progetti selezionati, tre erano di
gruppi italiano, insieme a tre polacchi e uno della Germania Ovest; e dei tre finalisti, due
erano italiani. I sei architetti e artisti italiani coinvolti in questa fase finale del concorso
erano giovani sconosciuto, e questo è già di per sé un segnali indicativo del crescente
interesse non solo nei testimoni diretti verso la memorializzazione dell'Olocausto, oltre che
della grande vitalità e del prestigio internazionale dell'architettura. Il nucleo del loro
progetto era costituito da 23 blocchi a forma di vagoni ferroviari, i quali rappresentavano le
23 nazionalità dei deportati, condotti ad Auschiwitz da tutta Europa. L'altro gruppo romano
aveva elaborato un progetto che prevedeva un lungo percorso tagliato nel terreno del campo,
il quale conduceva a una grande piattaforma su cui sarebbero state poste delle sculture, e da
cui erano visibili i forni crematori. L'incontro della giuria avvenne a Roma, al quale fece
seguito una mostra dei progetti vincitori. Tale giuria fu presieduta dal critico e storico
dell'arte italiano, già esule antifascista, Lionello Venturi. La mostra esponeva le piante dei
progetti vincitori con la dichiarazione originale del progetto per il monumento. Il gran
numero e la varietà degli organismi sostenenti la causa dell'Olocausto dimostrano un
riconoscimento quanto meno superficiale dell'Olocausto quale evento della massima
importanza, e di Auschiwitz quale suo simbolo fondamentale. A riunirsi intorno
all'Olocausto rivendicandone la proprietà, a promuovere questo progetto architettonico
internazionale con una così forte predominanza italiana, è una coalizione antifascista di
intellettuali, politici e gruppi di ex partigiani. Inizialmente non si riuscirono a raccogliere
fondi sufficienti a finanziare la costruzione del monumento. In altre parole, questo rispetto
per l'Olocausto manifestato dall'associazionismo e da certe elite in realtà non era ancora
penetrato così in profondità. La risposta contenuta, da parte del pubblico e della stampa alla
mostra su Auschiwitz, si pone in contrasto con le reazioni suscitate da un'altra esposizione
allestita a Roma quasi in concomitanza. Si trattava della tappa romana della mostra
itinerante sui campi di concenteamento che aveva esordito a Carpi nel 1955. Le più di
ottocento fotografie esposte, tra cui molte immagini della liberazione dei campi che erano
abbastanza inedite e la ricostruzione narrativa delle deportazioni italiani, dalle leggi razziali
fasciste ai processi di Norimberga, generarono una risposta molto più imponente e viscerale.
Si venne quindi a creare un nuovo processo di consapevolezza culturale, nazionale,
popolare.

- Il padiglione nazionale
Il padiglione italiano ad Auschiwitz fu aperti il 13 aprile 1980, con il titolo ufficiale di
Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazista. Come nel caso del
monumento internazionale, la rete associazionistica e l'attività diplomatico-burocratica
disegnano una mappa dei componenti coinvolti tale da fornire un'immagine delle
intersezioni dell'Italia con l'Olocausto. Anche sotto questo aspetto, nel caso del monumento
internazionale, vi furono continui problemi sia con le autorità polacche sia all'interno degli
organismi organizzativi. Ma il risultato fu un eccezionale, benchè poco visitato e presto
ridotto in stato di abbandono, prodotto corale della raffigurazione italiana dell'Olocausto. La
negligente manutenzione del memoriale avrebbe contribuito a far nascere una controversia
pubblica. Il dibattito verteva su un interrogativo: se cioè una concezione e raffigurazione
nazionale dell'Olocausto maturata negli anni settanta potesse davvero rappresentare la forma
collettiva dell'idea contemporanea di Olocausto. Di fronte alle condizioni di degrado del
monumento, De Luna definiva il padiglione come un vecchio prodotto del paradigma
storico e morialistico derivante dall'antifascismo del dopoguerra, così vecchio da essere oggi
quasi incomprensibile per i visitatori, specialmente i giovani, poco attento alla specificità
ebraica della Shoah, e invocava una completa e radicale ristrutturazione del blocco. Fece
seguito, un gruppo di giovani storici dell'arte e restauratori per la storia della Resistenza
predisposero, in collaborazione con l'ANED, un progetto per la salvaguardia del memoriale,
da essi ritenuto un'opera di importanza storica e culturale. I giovani a favore della
conservazione obiettarono all'appello di De Luna. Si opponevano inoltre all'idea che era
stata vagheggiata di trasportare in blocco il memoriale da Auschiwitz per ricostruirlo a
Milano.

10. Dopo la consapevolezza

Nel capitolo conclusivo, si tratta del notevole manifestarsi di interesse e di impegno


culturale nei riguardi dell'Olocausto, in Italia come altrove. Si fa riferimento ad una fase di
trasformazione pstideologica, del ruolo e dei valori dell'Olocausto nella cultura italiana, una
fase di percezioni dell'essere in un dopo, nella quale i testimoni invecchiavano e i ricordi di
prima mano sbiadivano, e l'Olocausto veniva a essere visto come l'evento centrale di quella
guerra e del secolo al declino.

- 1986/89
Tre eventi hanno segnato la fine degli anni ottanta come punto di svolta nelle risposte
all'Olocausto nella lunga epoca postbellica. L'aprile del 1986 vede la pubblicazione del libro
di Primo Levi I sommersi e i salvati, sorta di summa delle riflessioni di una vita sulla Shoah
destinata a diventare un'opera che avrebbe influenzato i successivi studi sul genocidio,
cementando la reputazione di Levi come uno dei testimoni dell'Olocausto più ammirati di
tutto il mondo. Un anno più tardi, Levi muore e le reazioni alla sua morte sono estese e
intense, e negli anni seguenti, in Italia, il suo profilo e la sua fama sia di testimone sia di
scrittore crescono ulteriormente. La cultura della memoria fu in grado di attingere all'aura di
una figura come Levi per il resto del secolo e oltre. L'anno dopo la morte di Levi, il 1988,
vide una serie di iniziative accademiche, pubbliche e finanziate dallo stato organizzate in
occasione del 50esimo anniversario delle leggi razziali antisemitiche promulgato dal
fascismo nel 1938. Dal 1988, l'attenzione della storiografia e del pubblico in generale verso
un razzismo specificamente italiano si fece più marcata e diffusa. Questo portò a una serie di
ribaltamenti negli assunti di fondo inerenti alla politica razziale del fascismo sostenuti sino a
quel momento: in particolare i vari tentativi volti a retrodatare le origine dell'antisemitismo
italiano a periodi o circostanze anteriori al 1938, individuandole nelle imprese coloniali
degli anni venti e trenta, o nelle antiche tradizioni cattoliche antisemitiche. Un'ulteriore
novità fu la prima accurata ricerca sulla rete dei campi di internamento fascisti per ebrei
situati nel Sud Italia, che erano stati quasi del tutto dimenticati. Si trattò di un momento
cardinale in un processo che avrebbe rovesciato l'ottica dominante nella storiografia del
dopoguerra così come la percezione comunementi condivisa del passato fascista: anziché
vedervi un regime totalitario a cui nel 1938 era capitato di dover aderire a un antisemitismo
che non gli apparteneva, dal quale, secondo De Felice, il popolo italiano aveva preso le
distanze, in molti iniziarono a cogliere la vera essenza del fascismo nella sua fase
antisemitica, nelle leggi razziali. Infine, il 1989 registrò un momento di cesura nella storia
europea e mondiale, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, eventi
che determinarono il tramonto dell grandi ideologie e un periodo di ottimismo e incertezza
al tempo stesso. Di tutte le conseguenze dilaganti di questo momento di rottura, almeno due
ebbero ricadute dirette sulla consapevolezza dell'Olocausto. In primo luogo, il 1989 mostrò
le immagini atroci e le realtà di un nuovo sterminio di massa, proveniente dai conflitti in
atto nella ex Jugoslavia. Quest'ultima manifestava un ritorno a un'era di genocidio che
richiedeva di guardare indietro all'Olocausto per decifrare il presente. Il 1989 e la fine della
Guerra fredda determinarono in Italia conseguenze politiche rapide e profonde. La
Democrazia cristiana, il Pci, il Psi, il partito neofascista, nei primi anni novanta tutti si
dissolsero, lasciando spazio a nuove formazioni partitiche, come la Lega Nord e il fenomeno
politico-mediatico di Forza Italia di Silvio Berlusconi, inaugurando così una fase che si può
denominare ''postantifascismo''. Apparvero resoconti e interventi sulle uccisioni per
rappresaglia compiute dai partigiani nei primi mesi del dopoguerra, e che esprimebano i
risentimenti locali repressi contro i partigiani per aver causato i massacri e le rappresaglie
dei nazisti e per aver resistito contro di essi. In questo contesto, l'Olocausto assunse un ruolo
sorprendentemente nuovo, visto come uno dei pochi ambiti rimasti di chiarezza morale che
legassero la storia al presente, un punto di riferimento saldo. Dopo il 1989, parlare di
Olocausto in Italia ed essere considerati sensibili all'argomento, anzi orientare su di esso i
propri valori fondanti, tanto per i postantifascisti che per i postfascisti, era pressochè di
rigore.

- 1997
Gli anni che seguirono il 1989 videro una profusione di materiali culturali di ogni genere
sull'Olocausto, e in particolare sulla storia italiano dell'Olocausto dalle leggi razziali fasciste
alla Repubblica di Salò. Era presente una diffusa tendenza: l'attenzione ai singoli casi, alle
narrazioni di esperienze locali, tipica di questa fase della cultura dell'Olocausto. In questo
senso, un caso di successo fu il libro del giornalista italo-americano Alexander Stille Uno su
mille, del 1991, che narra le vicissitudini di cinque famiglia ebraiche, molto diverse fra loro,
durante il fascismo. La tendenza giunse all'apice alla fine degli anni novanta, quando una
serie di film, libri, eventi pubblici legati all'Olocausto portarono il genocidio nazistra, il
razzismo e l'antisemitismo al centro del discorso pubblico, culturale e politico. Però come
Levi nei suoi ultimi anni, anche altri scrittori-testimoni attivi da lungo tempo mostravano
segni di fatica: Edith Bruck pubblicò una nuova riflessione sul proprio ruolo di pubblico
servizio in quanto sopravvissuta all'Olocausto. Signora Auschiwitz evoca le lacerazioni
psicologiche implicate dal ruolo di testimone, un ruolo che la costringeva a rivivere
quotidianamente il proprio trauma di fronte all'impossibilità di essere compresa da una
scolaresca, eppure ben consapevole che la scelta di non prestare testimonianza, la scelta di
dimenticare, non fosse una scelta praticabile. Tracce di questa problematicità erano presenti
nella difficoltà di trovare un linguaggio adeguato, ma ora Bruck si sente inceppata in un
altro mondo, davanti a un uditorio che non ha la minima idea di cosa sia quello che lei deve
dire, e che tortura rappresenti per lei ogni volta che lo dice. La diffusione pervasiva del
discorso sull'Olocausto rischia dunque di diventare inversamente proporzionale alla sua
effettiva comprensione. Questo fu un cruciale momento di scambio generaato dalla
traduzione in italiano di libri pubblicati all'estero. In campo storiografico, furono tradotti in
questo periodo tre essenziali studi scritti in lingua inglese. Il primo era La distruzione degli
ebrei d'Europa di Raul Hilberg, il secondo Uomini comuni di Christopher Browning, che
esaminava la questione di come un reparto di poliziotti tedeschi fosse stato indotto a
compiere le atroci violenze e uccisioni richieste dallo stato nazista. Un'altra significativa
traduzione di Einaudi fu Auschiwitz spiegato a mia figlia di Annette Wieviorka, che
segnalava l'emergere di una nuova retorica pedagogica incentrata su sintesi, spiegazione e
riflessione, esso era pensato come libro rivolto ai bambini, ma non era affatto solo per
bambini. Nel 1997, si trova una notevole concentrazione di romanzi dedicati alla Shoah,
come ad esempio Canone inverso di Maurensig con accenni all'Olocausto, oppure la saga di
Lia Levi sulle vicende di una famiglia ebraica sotto il fascismo, Tutti i giorni di tua vita,
oppure ancora Campo del sangue di Eraldo Affinati, il resoconnto di un viaggio, compiuto
dall'autore per gran parte a piedi, da Venezia ad Auschiwitz sulle orme della deportazione.

- 2001
Fra la miriade di attività degli ultimi anni novanta si ebbe anche l'esordio della campagna
portata avanti dall'ANED e da altre associazioni di deportati, per istituire in Italia una data
di commemorazione ufficiale dell'Olocausto. L'istituzione di questo evento ha segnato il
culmine dell'ingresso dell'Olocausto nella vita pubblica italiana, inserito a pieno titolo nel
calendario ufficiale del rituale nazionale condiviso. La legge 211 fu promulgata il 20 luglio
2000. Almeno due altre proposte di legge erano in circolazione, proveniente sia da sinistra
che da destra, a indicazione dell'ampio consenso politico maturato intorno al progetto di
istituire una ricorrenza memoriale così come della competizione politica per assumerne la
paternità. Il testo definitivo che è stato approvato è noto anche come ''leggo Colombo-De
Luca''. L'unico segna di dissenso formale furono quattro astensioni. Innanzitutto c'è la
questione della responsabilità italiana. Malgrado le responsabilità siano dichiarate
all'articolo 1, numerosi elementi della legge agiscono nel senso di deitalianizzare gli eventi
commemorati, a iniziare dal nome scelto per la ricorrenza stessa: ''Giorno della Memoria'' è
neutro e universalista. Anche la data, il 27 gennaio, è distintamente internazionalista,
radicata nel simbolismo universale di Auschiwitz, con poco di specifico italiano. Inoltre
nella legge si identifica il luogo di sofferenza delle vittime dell'Olocausto con i campi
nazisti, senza alcun riferimento né alla collaborazione italiana né ai campi situati sul
territorio italiano. Infine, la legge pone enfasi sul ricordo delle vittime anziché delle
responsabilità, aggiungengo uno scarto che alleggerisce la colpevolezza italiana. In secondo
luogo, c'è una questione di bilanciamento. Nel dibattito, gli obiettori volevano a tutti i costi
collocare il ricordo dell'Olocausto in parallelo al ricordo delle vittime del comunismo
novecentesco; vittime di tutte le ideologie oppressive prima. Questa spinta verso una
memoria pareggiata avrebbe portato nel 2005 a sancira una commemorazione rivale, per le
vittime della violenza della Jugoslavia comunista nelle foibe sul confine nordorientale. I
sostenitori della legge Colombo-De Luca risposero presentando la Shoah come
rappresentativa di tutte le violenze motivate dall'ideologia, rifiutando un'idea di memoria in
cui il ricordo di un evento cancella il ricordo di un altro. Infine, il testo della legge solleva
questioni concernenti l'intento pedagogico e morale del Giorno della Memoria. Il decreto
leggo esplicita il carattere pedagogico della ricorrenza, ponendo l'enfasi su eventi da
organizzarsi nelle scuole, ma gli eventi e i rituali da organizzarsi nella ricorrenza aspirano se
non altro a essere non prescrittivi, informali e dal basso: cerimonie, iniziative, incontri e
momento comuni di narrazione dei fatti e di riflessione. L'elenco sembra quindi
incoraggiare forme organiche di attenzione collettiva. La più grande iniziativa nazionale fu
una manifestazione organizzata a Milano: il corteo, partito da piazzale Loreto (il luogo dove
era stato esposto il corpo di Mussolini) per attraversare tutto il centro di Milano fino a
piazza Duomo, vide la partecipazione di 20000 persone, che sfilarono con decine di
semplici cartelli neri, ciascuno con il nome di un campo di concentramento. La copertura
mediatica rifletteva la natura e l'entità della partecipazione pubblica attiva alla giornata, che
fu diffusa su tutto il territorio nazionale, fatta di un gran numero di iniziative locali. Ci fu
una significativa attenzione verso gli italiani gentili che soccorsero e si opposero, mentre
altrettanta enfasi fu posta sulla complicità italiana, sulla visione di Colombo dell'Olocausto
come un delitto italiano. Si tratta di una formulazione risoluta e puntuale, concepita per
rivendicare una naziona antifascista. L'Italia e gli italiani visti in quanto perpetratori furono
controbilanciati da commenti sull'Italia e sugli italiani in quanto vittime. Il primo Giorno
della Memoria è coinciso con un significativo periodo di transizione nella storia culturale e
politica dell'Italia, nella sua percezione del senso di nazionalità e del proprio recente
passato. La ricorrenza si trasformò in un contenitore nel quale l'uso pubblico della storia e i
postumi della memoria erano in evidenza.

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