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Titolo originale: For thè Glory ofGod

Traduzione dall'inglese di Diana Mengo

In copertina: m iniatura raffigurante Jean Miélot, segretario, copista e traduttore del


duca Filippo di Burgundia (1396-1467). Fine XV secolo

© 2003 Princeton U niversity Press


All rights reserved

© 2011 Lindau s.r.l.


corso Re Umberto 37 10128 ‫ ־‬Torino

Prima edizione: aprile 2011


ISBN 978-88-7180-917-5
Rodney Stark

A GLORIA DI DIO
Come il cristianesimo ha prodotto
le eresie, la scienza, la caccia alle streghe
e la fin e della schiavitù

LilDAU
Ringraziamenti

Nel primo dei due volumi di cui si compone quest'opera, ho


ringraziato un lungo elenco di colleghi dei quali apprezzo molto
l'amicizia e i consigli. Qui mi limiterò alle molte persone che
hanno dato un importante contributo a questo volume.
John A. Auping, S. J., della Universidad IberoAmericana, in
Messico, ha destato il mio interesse sull'argomento dell'abolizio-
ne della schiavitù e sui legami con il cristianesimo mandandomi
gentilmente una copia del suo libro Religion and Social Justice.
Successivamente, ha condiviso con me un raro manoscritto del
XVII secolo, concernente il ruolo svolto dagli ordini cattolici nel
contrastare la schiavitù degli indios, e ha letto e criticato con at-
tenzione una bozza del capitolo 4.
Marion S. Goldman, della University of Oregon, mi ha con-
vinto a includere, fra le spiegazioni sbagliate della caccia alle
«streghe» di cui parlo nel capitolo 3, la «teoria» per cui la de-
vianza creerebbe solidarietà sociale.
David Martin, della London School of Economics, mi ha con-
cesso il beneficio della sua immensa conoscenza della storia reli-
giosa europea, oltre che della sua cultura sociologica.
Jeffrey Burton Russell, della University of California, Santa Bar-
bara, mi ha dato numerosi consigli utili, ma non solo: mi sono sen-
tito molto rassicurato quando il mio capitolo sulla caccia alle «stre-
ghe» ha passato il suo esame con commenti solamente positivi.
Arthur Wu, del Duvall Institute, ha fatto del suo meglio per
farmi diventare un passabile medioevalista.
6 A GLORIA DI DIO

E Brigitta van Rheinberg, editor di religione e storia presso la


Princeton University Press, quando fu avvisata da Martin e Rus-
sell del fatto che questo libro sarebbe stato controverso e avreb-
be provocato delle recensioni ostili, mi scrisse: «Bene, questa è
ima delle ragioni per cui non vedo l'ora di pubblicarlo! È ora che
alcune delle comuni supposizioni vengano messe in dubbio e ro-
vestiate». Nessun autore potrebbe chiedere di più.
Infine, questa è la terza volta che ho il privilegio di essere cor-
retto da Lauren Lepow, senior editor alla Princeton, e ormai ho
finito tutti i superlativi per descrivere il suo immenso talento e
l'infinita cura che dedica a ogni libro.
Corrales, New Mexico
15 aprile 2002
Introduzione

Le dimensioni del soprannaturale

Le cose poco comuni devono esse-


re dette con parole comuni.
Coventry Patmore

Proprio come molte religioni insegnano che la cultura è un


dono fatto agli uomini dagli Dei, così molti studiosi di scienze
sociali sostengono che la religione sia talmente essenziale per la
cultura che senza di essa «l'umanità non sarebbe potuta uscire
dalla sua condizione pre o proto-umana» (Rappaport 1999, p. 1).
Anche se dubitiamo del fatto che agli uomini sia stato effettiva-
mente insegnato dagli Dei come accendere un fuoco o far cresce-
re il grano, anche se assumiamo una prospettiva più limitata sul
ruolo della religione nell'evoluzione della cultura, è evidente che
le idee sul soprannaturale hanno profondamente influenzato la
vita, in società «avanzate» così come in società «meno sofistica-
te», e che il monoteismo può essere considerato l'innovazione
più significativa della storia.
Come, quando, e persino dove, si sia manifestata per la prima
volta la fede in un Unico Dio probabilmente è un qualcosa che
non sapremo mai, ma le sue sensazionali conseguenze si posso-
no osservare praticamente in ogni aspetto della cultura e della
storia dei grandi monoteismi. Se gli ebrei fossero stati politeisti
oggi sarebbero solamente uno dei tanti popoli a malapena ricor-
dati, meno importanti, ma altrettanto estinti, dei babilonesi. Se i
cristiani avessero presentato Gesù al mondo greco-romano come
8 A GLORIA DI DIO

un «altro» Dio, la loro fede avrebbe avuto lo stesso destino del


mitraismo. E di sicuro l'islàm non sarebbe nemmeno uscito dal
deserto se Maometto non avesse rimosso Allah dal contesto del
paganesimo arabo e non lo avesse proclamato l'Unico Dio. Aven-
do abbracciato il monoteismo, e il dovere a esso inerente del prò-
selitismo, queste tre fedi hanno cambiato il mondo.
Con questo, non voglio dire che i tre grandi monoteismi sia-
no essenzialmente la stessa cosa, né che abbiano avuto lo stesso
impatto sulla storia. Come vedremo, ebraismo, cristianesimo e
islam differiscono fra loro in molti aspetti importanti, i quali
hanno generato conseguenze storiche piuttosto diverse. In primo
luogo, raramente gli ebrei hanno avuto la facoltà di determinare
direttamente gli eventi. E per quanto riguarda i due monoteismi
che prevedono tale possibilità, va tenuto presente che il cristia-
nesimo è stato in grado di stimolare la nascita della scienza, a dif-
ferenza dell'islam. D'altra parte, l'islam non ha prodotto nessu-
na caccia alle «streghe». Comunque, anche queste diversità illu-
strano una verità più grande: la religione ha svolto un ruolo im-
portantissimo nel dirigere il corso della storia.
Purtroppo, nell'ambiente intellettuale di oggi, questa sempli-
ce e ovvia affermazione viene ampiamente considerata sia inop-
portuna sia falsa. I sostenitori di questa prospettiva revisionista
superano la sua inerente contraddizione im putando molti degli
aspetti più sfortunati della storia a cause religiose, e negando
nettamente anche le evidenze più chiare e schiaccianti del fatto
che la religione sia stata la base di tutte le cose «buone» aw en u -
te. Per esempio, si sostiene che il cristianesimo non svolse nessun
ruolo importante nel sostenere la causa abolizionista, ma che an-
zi, fu un grandissimo fattore di giustificazione della schiavitù.
Ovviamente, la gran parte di coloro che sostengono e ripeto-
no simili falsificazioni storiche non ha intenzione di indurre la
gente in errore - loro stessi sono stati fuorviati. Se non fosse co-
sì, sarebbe inutile scrivere questo libro. Ma io mi aggrappo alla
convinzione che molti lettori rispetteranno l'autorità delle prove
storiche e renderanno merito alla mia ricerca su quello che è dav-
vero accaduto, e sul perché sia accaduto.
LE DIMENSIONI DEL SOPRANNATURALE 9

Lo scopo generale di questo libro è dimostrare come le idee su


Dio abbiano plasmato la storia e la cultura dell'Occidente, e
quindi del mondo - con tutte le conseguenze, «buone» o «catti-
ve». Il metodo che ho scelto è quello di esaminare nel dettaglio
quattro grandi episodi storici, ognuno dei quali caratterizzato da
persone che credevano di agire per la gloria di Dio. Uso il termi-
ne «episodio» per sottolineare che questa non è una «storia delle
idee». In ognuno di questi episodi, le idee vengono trattate come
componenti dell'azione umana, delle organizzazioni umane, o
dei movimenti sociali.
Il primo episodio è quello che alla fine fu chiamato Riforma
protestante. Uso l'espressione «alla fine» per allertare i lettori in
merito al fatto che l'impulso riformatore è un aspetto presente in
tutte le organizzazioni religiose, e che le riforme del XVI secolo
avevano origini antiche, forse rintracciabili addirittura nel II se-
colo. Come viene spiegato nel capitolo 1, le dispute teologiche,
soprattutto quelle che presuppongono l'esistenza di un Unico Ve-
ro Dio, avvengono inevitabilmente all'intemo delle sette religiose
e durante le riforme. Il capitolo esamina questo processo in epo-
ca precristiana, nell'ebraismo, nei primi tempi della Chiesa, e nel-
l'islam. Poi, ripercorre i molti secoli di falliti tentativi di riforma
della Chiesa cattolica, e dimostra come ciò sia spesso sfociato nel-
la comparsa di movimenti popolari, «eretici». Infine, arrivando al
XVI secolo, formulerò e proverò una nuova spiegazione del mo-
tivo per cui il protestantesimo ebbe successo in alcuni luoghi e
non in altri. Questo capitolo ha poi l'ulteriore scopo di presenta-
re le linee generali della storia religiosa europea, che mi aiuteran-
no a collocare i tre capitoli successivi in un contesto coerente.
Il secondo episodio è la nascita della scienza. Il capitolo 2 di-
mostra che non c'è mai stata nessuna «rivoluzione scientifica»
che alla fine sia riuscita a infrangere le barriere superstiziose del-
la fede, e che il fiorire della scienza nel XVI secolo fu la normale
conseguenza, graduale e diretta, della Scolastica e delle univer-
sità medievali. Infatti, i presupposti teologici unici del cristiane-
simo spiegano il motivo per cui la scienza nacque solamente nel-
l'Europa cristiana. A differenza di quel che si crede, la religione
10 A GLORIA DI DIO

e la scienza non solo erano compatibili, ma addirittura insepara-


bili. Quindi, l'ultim a parte del capitolo dimostra che la battaglia
sull'evoluzione non è un conflitto fra scienza e religione, ma fra
Veri Credenti da entrambe le parti.
Il capitolo 3 mostra come quella dedizione dei teologi cristia-
ni nei confronti della ragione, che favorì e sostenne la nascita del-
la scienza, ebbe però delle conseguenze tragiche quando fu ap-
plicata alla domanda, «Perché la magia funziona?». Dunque, il
capitolo esamina come la risposta a questo interrogativo abbia
fatto sì che generazioni di europei assennati e rispettabili (fra i
quali alcuni celebrati per il loro contributo alla nascita della
scienza) abbiano partecipato alla caccia alle «streghe». Dopo aver
scartato otto popolari spiegazioni dei motivi per cui accadde una
cosa simile, proporrò ima nuova teoria, volta a spiegare le diver-
sità di luoghi e tempi di questa caccia alle «streghe».
Alcune delle persone che si erano dedicate attivamente alla
caccia alle «streghe» svolsero anche un ruolo fondamentale nel
diffondere l'idea che la schiavitù fosse un abominio agli occhi di
Dio. Fu questa conclusione, e solamente questa conclusione, a
permettere l'abolizione della pratica in Occidente. E nella gran
parte del mondo non occidentale, la schiavitù venne abolita in
seguito alle pressioni e all'interferenza dell'Occidente - ma esiste
ancora in alcune zone non cristiane. Il capitolo 4 illustra il moti-
vo per cui i cristiani giunsero a questa importantissima conclu-
sione mentre i m usulm ani non lo fecero, e spiega anche come la
possibilità di utilizzare le risorse delle chiese fu cruciale per il
successo dei movimenti abolizionisti.
Benché ognuno di questi episodi abbia avuto ima propria
specifica durata, tutti risultano fortemente associati al XVI seco-
lo. Fu nel 1517 che Lutero affisse le sue Novantacinque Tesi alla
porta della chiesa del castello di Wittenberg. Nel 1543, Copemi-
co pubblicò De revolutionibus orbium coelestium. Fu nella seconda
metà del XVI secolo che la caccia alle «streghe» raggiunse i mas-
simi livelli, e fu nel 1510 che re Ferdinando diede inizio alla trat-
ta atlantica degli schiavi, autorizzando l'importazione di schiavi
africani per le miniere d'oro del Nuovo Mondo spagnolo. Di con­
LE DIMENSIONI DEL SOPRANNATURALE 11

seguenza, i capitoli si espandono uno sull'altro, e molte persone


compaiono ripetutamente.
Infine, nel breve post scriptum, ricapitolerò quelli che sono i
miei tentativi di creare una sociologia degli Dei, dimostrando
che le immagini di Dio, e non le pratiche rituali, sono l'aspetto
fondamentale della religione.
Il resto di questa introduzione sarà dedicato alla definizione e
all'illustrazione di alcuni concetti chiave, basilari per i capitoli
successivi.

Religioni con e senza Dio

La religione consiste in spiegazioni dell'esistenza basate su pre-


supposti soprannaturali e comprendenti affermazioni sulla natura
del soprannaturale e sul significato ultimo.
Il significato ultim o concerne il senso fondamentale e lo sco-
po dell'esistenza. La vita ha un significato? Perché siamo qui? Co-
sa possiamo sperare? Perché soffriamo? Esiste la giustizia? La
morte è la fine di tutto?
Il soprannaturale si riferisce a forze o entità (consapevoli o
meno) che sono al di là 0 al di fuori della natura e che possono so-
spendere, alterare o ignorare le forze fisiche. Gli Dei sono una
forma particolare di soprannaturale, consistente in esseri sopran-
naturali dotati di consapevolezza.
Si noti che la definizione di religione lascia spazio anche alle
religioni «prive di Dei», come le forme elitarie di confucianesimo
e taoismo, dove il soprannaturale è concepito come un'essenza
soprannaturale - una forza mistica di base o un principio che go-
verna la vita, ma che è impersonale, remoto, privo di consape-
volezza e fondamentalmente un non essere. Come spiega Lao-
tzu, il Tao è un'essenza cosmica, l'eterna Via dell'universo che
produce armonia ed equilibrio. Benché si dica che il Tao sia sa-
piente al di là della comprensione umana e sia «la madre dell'u-
niverso», si afferma anche che è «sempre non esistente», eppure
«eternamente esistente», «innominabile» e «il nome che può es­
12 A GLORIA DI DIO

sere nominato». «Non ha né forma né suono», ed è «sempre pri-


vo di desideri». Infine, si consiglia al saggio di non cercare di ca-
pire il Tao, perché è così che si raggiunge la vera comprensione.
Non c'è da stupirsi del fatto che il Tao ispiri meditazione e mi-
sticismo, ma non devozione.
Le religioni basate sulle essenze non si trovano solamente in
Oriente. Molti intellettuali occidentali, compresi alcuni teologi e
addirittura vescovi, propongono un'immagine di «Dio» altret-
tanto impersonale e priva di consapevolezza. Le essenze sopran-
naturali possono essere l'oggetto ideale della meditazione e del-
la contemplazione mistica degli intellettuali, ma le religioni pri-
ve di divinità non riescono ad attrarre la gente, e quindi le forme
popolari di confucianesimo e taoismo includono un vasto
pantheon di divinità. Questa differenziazione esiste da millenni.
Il filosofo cinese Xun-zi (215 BCE ca.)1insegnava che le persone
veramente colte sanno che anche se i rituali religiosi possono es-
sere belli e ispiratori, sono solamente dei prodotti deU'immagi-
nazione umana: «Sono solo degli ornamenti». Tuttavia, «le per-
sone com uni credono che im plichino il soprannaturale»
(Overmyer 1993, p. 997).
Perché la maggioranza delle persone preferisce una religione
che abbia delle divinità? Perché gli Dei sono l'unica fonte plausi-
bile di tante cose che la gente desidera ardentemente. Va detto
che questi desideri non si limitano alle cose tangibili. Molto spes-
so sono le ricompense per lo spirito ciò che le persone chiedono
agli Dei: significato, dignità, speranza e ispirazione. Anche così,
l'aspetto più basilare dell'attività religiosa consiste nello scam-
bio, nell'interazione, fra uomini e Dei; le persone fanno delle ri-
chieste agli Dei e fanno loro delle offerte. Anzi, si crede che, di-
versamente dalle essenze inconsapevoli, siano gli Dei a stabilire
i termini di queste interazioni e a comunicarli agli esseri umani.
Dunque, mentre le religioni prive di Dei si fondano sui risultati
della meditazione e della speculazione umana - sul sapere - le
religioni con Dei si basano su rivelazioni, su comunicazioni rite-
nute di provenienza divina. Di conseguenza, gli intellettuali soste-
nitori delle religioni prive di Dei si dedicano alla ricerca dell'il­
LE DIMENSIONI DEL SOPRANNATURALE 13

luminazione tramite meditazione, mentre gli intellettuali che


aderiscono a religioni con Dei dedicano i loro sforzi al tentativo
di comprendere tutte le implicazioni della rivelazione: la teoio-
già consiste in spiegazioni che giustificano e specificano i termi-
ni dello scambio con gli Dei, basate sul ragionamento in merito
alle rivelazioni. Vale a dire, i teologi cercano di ampliare la com-
prensione delle preoccupazioni e dei desideri divini, e di esten-
dere la gamma delle applicazioni a cui quella comprensione può
essere riferita, cercando le implicazioni logiche delle rivelazioni.
E infatti, l'autorità della mishnah si basa sulla credenza ebraica
che le rivelazioni vengano trasmesse agli studiosi attraverso lo
studio approfondito della Torah. Un esempio classico di proce-
dimento teologico è l'evoluzione delle elaborate dottrine cristia-
ne concernenti Maria, sviluppatesi nonostante il fatto che su di
lei venga detto poco nel Nuovo Testamento. E altri risultati del-
l'indagine teologica avranno un ruolo importante nei nostri
prossimi capitoli.

La pratica religiosa

La religione non solo consiste in un certo tipo di credenze sul


significato della vita e sulla natura del soprannaturale; anche tut-
ti gli altri aspetti della religione derivano da tali credenze, soprat-
tutto da quelle che riguardano il soprannaturale: le forme e i mo-
tivi di riti, rituali, preghiere, sacrifici e addirittura esperienze mi-
stiche, sono determinati dalla natura deW oggetto al quale vengo-
no rivolti. Quindi, la pratica religiosa include tutte le attività svoi-
te per motivi religiosi, o scopi; solo quando sappiamo cos'è la reli-
gione, possiamo distinguere le azioni e i sentimenti religiosi da
quelli che non lo sono. Una Messa solenne e un raduno del Par-
tito nazista possono essere definiti entrambi dei riti, ed entrambi
possono ispirare profonde emozioni nei partecipanti. Solo osser-
vando quale è radicato in concezioni soprannaturali e quale non
lo è possiamo operare una distinzione efficace. In modo simile,
William James (1842-1910) rifiutò l'idea che «i sentimenti religio‫־‬
14 A GLORIA DI DIO

si» o «le emozioni religiose» avessero una psicologia distinta e


specifica. Piuttosto, ciò che può essere identificato come «timore
religioso, amore religioso, venerazione religiosa, gioia religiosa,
e così via» non è qualcosa di più (o di meno) delle emozioni na-
turali «rivolte a un oggetto religioso» - e gli oggetti sono religio-
si perché hanno a che fare con «il divino» (James [1902] 1958, pp.
39-42). Di conseguenza, quando faccio riferimento a riti religiosi,
per esempio, intendo dei riti che vengono celebrati per motivi o
scopi religiosi. L'applicazione della forma aggettivale del termi-
ne «religione» come elemento modificatore rende possibile l'in-
corporazione di tutti gli aspetti della religione e della vita reli-
giosa senza la necessità di ricorrere a definizioni più complesse.
Benché io definisca la religione un insieme di credenze, le re-
ligioni esistono al di fuori dei testi sacri solamente come fenome-
ni sociali 0 collettivi. Le fedi puram ente idiosincratiche si trovano
solamente, e anche in questo caso molto raramente, fra i pazzi o
(forse) in alcuni profeti - persino gli eremiti ascetici seguono ima
fede collettiva. Un motivo per cui le religioni sono sociali è il fat-
to che creare una cultura religiosa plausibile e soddisfacente è un
compito difficile, e quindi ogni religione (anche quelle attribuite
a un unico fondatore) di solito è il prodotto di numerosi e diver-
si contributi. Per questa stessa ragione, le religioni vengono so-
stenute nel modo più efficiente quando a farlo sono specialisti
che si dedicano solo a esse. Il secondo motivo per cui le religioni
sono sociali è che il problema universale della religione è la fidu-
eia - il bisogno di convincere le persone che gli insegnamenti so-
no veri e le pratiche efficaci. Dal momento che le prove ultime
delle affermazioni religiose di solito stanno al di fuori della por-
tata di una verifica diretta, è attraverso la testimonianza degli al-
tri che le persone acquistano fiducia in una religione. I gruppi re-
ligiosi organizzati massimizzano l'opportunità per le persone di
garantire le ime alle altre che la loro religione è vera. Nelle reli-
gioni con Dei, oltre a garantire la certezza personale sulle ricom-
pense ultraterrene, le persone di solito enumerano miracoli - co-
me sono guariti dal cancro, come hanno superato l'alcolismo o la
dipendenza dalle droghe, come sono divenuti sposi affidabili e
LE DIMENSIONI DEL SOPRANNATURALE 15

fedeli, come sono sopravvissuti a un incidente catastrofico, o co-


me le loro preghiere per un bambino morente abbiano ottenuto
risposta. Quindi, sono le persone a dimostrare che ima religione
«funziona», che le sue promesse si avverano.

La magia

Mentre tutte le religioni offrono risposte alle domande sul si-


gnificato ultimo della vita (anche soltanto dicendo che la vita
non ha significato), la magia non lo fa. Come osservò Émile
Durkheim (1858-1917), la magia non ha a che vedere con il si-
gnificato deiruniverso, ma con «fini tecnici e utilitari», e quindi
«non perde tempo in pure speculazioni» (Durkheim [1912] 2005,
p. 92). Oppure, con le parole di Middleton, «le credenze e le pra-
tiche magiche sono particolarmente significative nel loro essere
principalmente strumentali, con poco contenuto espressivo»
(Middleton 1967, p. ix). Per questo, la magia risulta esclusa dalla
definizione di religione, poiché non si interessa del significato ul-
timo e di solito non offre spiegazioni nemmeno dei suoi stessi
meccanismi, tanto meno di questioni più profonde. Inoltre, la
magia è essenzialmente priva di divinità.
La magia si riferisce a tutti i tentativi di manipolare o sotto-
mettere le forze naturali senza alcun riferimento a un Dio o a de-
gli Dei, né a questioni di significati ultimi. Per dirla diversamen-
te, la magia è limitata a concezioni impersonali del soprannatu-
rale, quelle che l'illustre Bronislaw Malinowski (1884-1942) de-
scriveva come ima «forza mistica, impersonale». E continuava
descrivendo la quasi «universale idea che si ritrova laddove fio-
risce la magia» che esista «una forza soprannaturale impersona-
le» (Malinowski [1948] 1992, pp. 19-20).
Riassumendo più di un secolo di studi antropologici sulla
magia, Middleton osserva:

Il regno della magia è quello in cui gli esseri umani credono di po-
ter condizionare in modo diretto la natura e gli altri, a fin di bene
16 A GLORIA DI DIO

o di male, tramite le sole proprie forze (anche se il meccanismo pre-


ciso può non essere compreso), senza fare appello al potere divino
tramite sacrifici o preghiere. (Middleton 1967, p. ix)

Ovviamente, M iddleton non intendeva collocare nel regno


della magia la possibilità effettiva di condizionare la natura o gli
altri con le sole proprie forze. Supponeva che i suoi lettori capis-
sero che, proprio come le danze della pioggia si differenziano da-
gli impianti d'irrigazione, solo i tentativi che implicano una ri-
chiesta a strumenti soprannaturali costituiscono magia. Ciò che
è importante qui, è che i tentativi non sono diretti verso un Dio,
benché siano comunque dei tentativi di manipolazione di forze
soprannaturali.
Dal momento che la distinzione fra religione e magia è di gran-
dissima importanza per questo libro, soprattutto per i capitoli 2 e
3, sarà utile approfondire tali questioni. Quando un cattolico in-
dossa una medaglia di san Cristoforo per fare un viaggio sicuro,
non si tratta di magia, perché il potere della medaglia è attribuito al
santo patrono, i cui poteri, a loro volta, sono garantiti da un Dio. La
medaglia è intrinseca all'interazione con un Dio. Ma quando i de-
voti della New Age collocano dei cristalli «mistici» sotto i propri
cuscini per curare un raffreddore, beh, questa è magia perché non
si rivolge nessuna richiesta a nessun Dio. Lo stesso vale per l'a-
strologia. La conclusione per cui domani non sarà un buon giorno
per viaggiare, per esempio, non è un messaggio degli Dei, ma un
calcolo concernente la posizione dei corpi celesti rispetto al giorno
di nascita di una persona. La magia ha a che vedere con forze so-
prannaturali impersonali, spesso con la convinzione che tali forze
siano proprietà inerenti a oggetti particolari, come pianeti o cristal-
li, o a parole, soprattutto a formule e incantesimi scritti o pronun-
ciati. Ruth Benedict (1887-1948) distinse la religione dalla magia so-
stenendo che la prima implicasse «relazioni personali con il so-
prannaturale», mentre la seconda avesse a che fare con «manipola-
zioni meccaniciste dell'impersonale» (Benedict 1938, p. 637).
Va riconosciuto che la forma più sofisticata di magia, nota co-
me stregoneria, a volte può includere delle creature soprannatura­
LE DIMENSIONI DEL SOPRANNATURALE 27

li con un certo grado di consapevolezza. In altre parole, a volte gli


stregoni tentano di obbligare alcune entità spirituali primitive,
come demoni o diavoli, a svolgere determinati servizi. Ma anche
in questo caso, rimane sempre possibile «distinguere fra magia e
religione sulla base del criterio della coercizione» (Levack 1995, p.
6; si veda anche Peters 1978). Come disse Benedict, «la magia è
ima procedura meccanica, la coercizione del soprannaturale» (Be-
nedict 1938, p. 637). La coercizione presuppone degli esseri so-
prannaturali con capacità estremamente limitate - è, infatti, piut-
tosto inconcepibile riuscire a dare degli ordini anche alle piccole
divinità dei sistemi politeistici, figurarsi agli esseri onnipotenti.
Dunque, la costrizione di entità spirituali rimane all'interno del
regno della magia, mentre gli scambi con gli Dei spostano l'atti-
vità all'interno del regno della religione. Max Weber (1864-1920)
sostenne questa stessa posizione quando osservò che «quegli es-
seri che sono venerati e supplicati religiosamente possono essere
definiti "dei", a differenza dei "demoni", coartati e colpiti dagli
incantesimi della magia» (Weber [1922] 1993, p. 28).

Monoteismo dualistico

Le religioni possono essere distinte non solo come prive o do-


tate di Dei; in quest'ultim a categoria, infatti, ci sono moltissime
variazioni: da religioni che credono in tantissimi piccoli Dei che
stanno ovunque, a religioni che credono in un Unico Dio, che è
ovunque. Tuttavia, benché il monoteismo significhi credere in un
solo Dio, in nessuno dei grandi monoteismi - ebraismo, cristia-
nesimo, islam - esiste solamente una sola entità soprannaturale.
In ognuno di essi, Dio è circondato da un «nugolo di esseri»
(Swanson 1960, p. 55). Come rilevò Herbert Spencer (1820-1903):

Un altro fatto da osservare in merito all'evoluzione dei monoteismi


a partire dai politeismi [...] è che essi non diventano completi, o
per lo meno non conservano la loro purezza. [Per esempio] la reli-
gione ebraica, monoteista di nome, mantiene una grande infusione
18 A GLORIA DI DIO

di politeismo. Gli arcangeli che esercitano il loro potere nelle ri-


spettive sfere, e che sono addirittura capaci di ribellione, sono pra-
ticamente dei semi-dei. La dottrina della trinità [cristiana] è par-
zialmente politeistica [...]. Anzi, anche il credere in un diavolo,
concepito come essere soprannaturale, implica la sopravvivenza di
un politeismo. (Spencer 1896, pp. 747-748)

Se ignoriamo le sue discutibili ipotesi evoluzionistiche, di cer-


to possiamo dire che Spencer aveva ragione, e il fatto che venga
menzionato un diavolo presuppone l'esistenza di una chiara se-
parazione, all'interno dei grandi monoteismi, fra esseri sopranna-
turali che vengono considerati buoni e quelli che si ritengono mal-
vagi. E proprio qui risiede il principio limitativo del monoteismo.
In pratica, il monoteismo assoluto è possibile solo se il sopran-
naturale non viene concepito come un essere, ma come un'essenza,
un principio impersonale, remoto e divino come il Tao. Se esi-
stesse solo un essere soprannaturale, dovrebbe necessariamente
essere irrazionale e iniquo; un Dio di portata infinita deve essere ri-
tenuto responsabile di tutto, del male come del bene, e di conse-
guenza dovrebbe essere considerato pericolosamente capriccioso,
di intenzioni mutevoli in modo imprevedibile e non giustificato.
All'interno dei confini del monoteismo assoluto, l'unica alternati-
va a un Dio così terrificante è quella di un'essenza divina che non
sia responsabile di nulla, essendo completamente estranea alle
preoccupazioni umane. Tuttavia, simili non-esseri hanno poco da
offrire alla maggioranza delle persone e non soppiantano mai gli
esseri soprannaturali, se non in piccole élite di credenti.
Ciò necessariamente limita il monoteismo, dal momento che,
affinché ima divinità possa essere razionale e benigna, bisogna
che il sistema religioso postuli l'esistenza di altri esseri, seppur
di molto inferiori. In altre parole, le forze soprannaturali malva-
gie (come Satana) sono essenziali per una concezione più razio-
naie della divinità. Di conseguenza, ebraismo, cristianesimo e
islam sono monoteismi dualistici - ognuno di essi insegna che,
oltre a un essere divino supremo, esiste almeno un essere soprannatu-
rale malvagio, pur meno potente. Come scrisse Jeffrey Burton Rus­
LE DIMENSIONI DEL SOPRANNATURALE 19

sell (1977, p. 32), «il dualismo presuppone due potenze opposte,


bene e male, e attribuisce il male alla volontà di uno spirito mal-
vagio». Il principio del dualismo riflette la necessità di concepire
una sola essenza divina - che sia al di sopra della questione del
bene e del male in virtù della caratteristica di essere lontana da
qualsiasi tipo di scambio con gli esseri umani (il Tao) - o di am-
mettere l'esistenza di più di un essere soprannaturale.
Dal momento che gli esseri soprannaturali malvagi non posso-
no essere degni di fiducia e in molti casi causano danno agli esse-
ri umani, le persone preferiranno delle concezioni di Dei nelle
quali i buoni sono molto più potenti dei malvagi. Quindi, il duali-
smo perfettamente simmetrico è raro, e tende a limitarsi a essenze
buone e cattive, anche se alcune fedi hanno sviluppato delle con-
cezioni di un essere malvagio potente quasi quanto quello buono
- i catari sono un esempio (capitolo 1). Di solito, comunque, al ma-
le non viene accordata una piena divinità - Yahweh, Jehovah e Al-
làh si limitano a tollerare questi esseri malvagi inferiori.
Come abbiamo dimostrato nel primo di questi due volum i2, e
come dimostreremo ancora in questo libro, il monoteismo ha
un'im mensa capacità di mobilitare l'azione umana - una capa-
cità che va ben al di là di quella che si ritrova nel politeismo o
nelle religioni prive di Dei. Tuttavia, proprio perché gli Dei del
monoteismo sono esigenti, alcune persone sono costantemente
tentate di ammorbidire e indebolire le loro concezioni di Dio fi-
no a farlo svanire in un'essenza non esigente e non consapevole.
Così, per esempio quando accolse con favore la proposta di Paul
Tillich di un Dio come semplice costrutto psicologico, «fonda-
mento del nostro essere» (Tillich 1951), il mondo accademico
protestante bandì la possibilità di miracoli e altre ricompense ul-
traterrene, e sostenne un'essenza non più simile a Dio di quanto
lo sia il Tao. Come il Tao, le invenzioni della psicologia umana
non chiedono nulla e non danno nulla. Così, la storia recente di-
mostra come anche airinterno della tradizione monoteistica, i
gruppi religiosi che soccombono alla tentazione di fare a meno di
Dei in forma di esseri dotati di consapevolezza scoprono presto
che i loro fedeli si restringono a pochi intellettuali, poiché la
20 A GLORIA DI DIO

maggioranza delle persone si indirizza a fedi che abbiano delle


divinità (Finke, Stark 1992; Stark 2009; Stark, Finke 2000).
Se l'aspetto più essenziale di qualsiasi religione è la sua con-
cezione del soprannaturale, allora quello degli studi di scienze
sociali sulla religione è una sociologia degli Dei. Eppure, questo
è l'argomento che ha ricevuto meno attenzione. Piuttosto, per
molte generazioni, quasi tutti gli studiosi di questo settore accet-
tavano l'affermazione di Durkheim per cui la religione non ha
per nulla a che fare con il soprannaturale, ma solamente con riti
e rituali. Come vedremo in questo libro, e più ampiamente nel
post scriptum, Durkheim si sbagliava. Le differenze e i contrasti
già delineati fra esseri soprannaturali ed essenze inconsapevoli,
impersonali e vagamente divine, rivelano che diverse concezio-
ni del soprannaturale hanno effetti drasticamente differenti sul-
l'esperienza umana. Anche all'interno delle religioni con Dei,
possiamo confrontare le implicazioni sociali del credere in un
pantheon di Dei inaffidabili e spesso immorali con quelle della
fede in un essere supremo che impone degli obblighi morali. Co-
me vedremo, le conseguenze di queste e altre differenze nel mo-
do di concepire il soprannaturale sono decisive.

Conclusione

Benché una gran parte di questo libro sia dedicata alla storia, i
miei fini non sono quelli dello storico, ma del sociologo - che è poi
quello che sono. Negli anni recenti mi sono dedicato ad assembla-
re e analizzare materiali storici diversi, per espandere le applica-
zioni delle mie teorie sociologiche originarie, le quali, a loro volta,
hanno lo scopo di illuminare la storia. Questo mio approccio im-
plica il dover sintetizzare il lavoro di molti storici, non per creare
una storia, ma per costruire dei «casi» adatti all'analisi. Di conse-
guenza, benché mi sia impegnato molto nel presentare un quadro
generale chiaro di ognuno dei quattro episodi, ho comunque omes-
so alcuni aspetti interessanti perché irrilevanti ai fini dell'analisi■
Com'è necessario per chiunque voglia scrivere uno studio
storico di portata rilevante, mi sono affidato a molte fonti «se-
LE DIMENSIONI DEL SOPRANNATURALE 21

conciarie»: sono in debito con centinaia di ottimi specialisti che


mi hanno istruito su molti argomenti specifici qui toccati. Un
vantaggio veramente importante di questo mio lavoro è stata la
possibilità di comprare e leggere una notevole quantità di libri e
saggi di storici, diversi dei quali scritti molto bene.
Dopo aver detto queste cose piacevoli in merito ai miei debiti
nei confronti degli storici, devo registrare anche alcuni elementi
di disappunto. Per prima cosa, ovviamente, i numerosi tentativi
di sminuire il ruolo della religione nella creazione di cose «buo-
ne», come la nascita della scienza o la fine della schiavitù, e i ten-
tativi paralleli di incolpare la religione di qualsiasi cosa «cattiva».
Naturalmente, ero preparato a questa cosa fin dall'inizio. Ma
quello a cui non ero preparato era scoprire quanti degli storici che
ho letto per preparare questo studio esprimono un anti-cattolice-
simo militante, e quanto pochi fra i loro colleghi abbiano obietta-
to a una litania di commenti dispregiativi di taglio anti-cattolico,
talora espressi senza neppure rendersene conto. Ovviamente,
nessuno storico rispettabile oggi userebbe termini così auto-incri-
minanti come «papisti», o «romanismo». Piuttosto, oggi si sosti-
tuiscono queste parole con equivalenti intellettualizzati come
«nemici della ragione», «scolastici mentalmente ottenebrati»,
«frati fanatici», o si attribuiscono aggettivi come «sinistro», «bru-
tale», «incomprensibile», «crudele», «represso» e «totalitaristico».
Molto più perniciosi, però, sono i numerosi silenzi e omissio-
ni che distorcono la comprensione di questioni importanti. Fra i
molti, lampanti, esempi ci sono i vigorosi sforzi dei papi del XVI
secolo di fermare la schiavitù, sforzi che sono andati assoluta-
mente «persi» nella documentazione storica fino al decennio
scorso, come vedremo nel capitolo 4.
Tuttavia, il danno forse più grave viene fatto non intenzional-
mente da rispettabili studiosi. Benché la maggioranza degli stori-
ci viventi probabilmente non abbia nessun pregiudizio contro la
religione cattolica romana, o almeno non più di quanti ne abbia
contro la religione in generale, moltissimi conservano delle con-
cezioni sbagliate che non sanno essere il prodotto deH'anti-catto-
licesimo di passate generazioni. Per esempio, al di là di pochi spe-
cialisti, la maggioranza degli storici sembra ancora dare per scon­
22 A GLORIA DI DIO

tato che l'Inquisizione spagnola abbia mandato al rogo un gran-


dissimo numero di eretici, «streghe», ebrei marrani e altri opposi-
tori in autodafé pubblici, e che il cadere nelle mani degli inquisì-
tori significasse una condanna a morte certa. Beh, è tutto falso!
Come vedremo, soprattutto nel capitolo 3, assai di rado gli inqui-
sitori spagnoli hanno mandato al rogo qualcuno, e la condanna
più comune era estremamente mite: a chi veniva accusato di stre-
goneria, di solito, in Spagna, bastava scusarsi e pentirsi.
Non sono, e non sono mai stato, un cattolico. Quando sottoli-
neo virtù travisate o ignorate dagli storici nei loro scritti sul cat-
tolicesimo, nego di scrivere da apologeta. Anzi, i cattolici sinceri
non si troveranno affatto a loro agio nel leggere alcuni dei capi-
toli che seguono; ho scritto alcune cose poco piacevoli anche su
protestanti, ebrei, musulmani, eretici, scettici e pagani. Certo, è
facile trovare i difetti altrui. Triste a dirsi, nel clima intellettuale
di oggi ci vuole molto più coraggio per lodare qualcuno. Spero
di esserne all'altezza.
Infine, dal momento che questo è un lavoro di scienze socia-
li, e non di filosofia, non mi sono dato pena di presupporre o ne-
gare l'esistenza di Dio. È una questione che va al di là della por-
tata della scienza. Le mie personali idee religiose riguardano,
dunque, solo me.

1Dal momento che il libro spazia in un arco di tempo di più di duemila an-
ni di storia, mi è sembrato appropriato alleggerire il compito dei lettori
fornendo dei riferimenti di datazione relativi a ogni persona rilevante
menzionata nel testo, che abbia vissuto, compiuto o scritto le proprie ope-
re principali prima del 1930.1 riferimenti verranno posti alla prima occor-
renza significativa, e non alla prima menzione se si tratta di un qualcosa
di incidentale. Come ho fatto in questo caso, utilizzo la formula conven-
zionale BCE («Before Common Era») piuttosto che a.C., avanti Cristo. Tut-
ti gli anni non indicati con BCE appartengono all'epoca un tempo defini-
ta d.C., dopo Cristo.
2Rodney Stark, Un unico vero Dio: le conseguenze storiche del monoteismo,
Lindau, Torino 2009.
A GLORIA DI DIO
Capitolo 1

La Verità di Dio: sette e riforme inevitabili

Eccomi qui. Non posso fare altri-


menti. Dio mi aiuti. Amen.
Martin Lutero

Ogni ottobre, le chiese luterane di tutto il mondo celebrano la


domenica della Riforma, in memoria della vicenda religiosa che
ha visto protagonisti M artin Lutero e i suoi oppositori in Germa-
nia, nel XVI secolo.
Molte persone usano ancora il termine «Riforma» in questo
modo, ma la definizione è divenuta troppo stretta. Anche lo sto-
rico luterano più partigiano ormai non ignora più la Riforma in-
glese, né sminuisce il calvinismo come una semplice conse-
guenza. Piuttosto, si riconosce la diversità della Riforma persi-
no in Germania. E le opere di consultazione più illustri rifletto-
no l'espansione dell'argomento: YOxford Dictionary of World Re-
ligions definisce la «Riforma» come «Movimenti di riforma del-
la Chiesa cristiana in Occidente all'inizio del XVI secolo»
(Bowker 1997, p. 805).
Anche questa definizione è però datata. Oggi molti studiosi
contemporanei si rifiutano di restringere la Riforma agli eventi
del XVI secolo, sottolineando come Jan Hus fu mandato al rogo
per aver promosso una Riforma boema molto prima della nasci-
ta di Lutero - e da qui, per esempio, il titolo del recente libro di
James Tracy, Europe's Reformations, 1450-1650 [Riforme d'Europa,
1450-1650, N.d.T.]. Tuttavia, anche la cornice temporale delineata
26 A GLORIA DI DIO

da Tracy ignora il fatto che fu John Wyclif a piantare i semi della


Riforma inglese, e che ciò avvenne nel XIV secolo. Per di più, gli
storici hanno iniziato ad ampliare il concetto fino a includere le
«eresie» del primo Medioevo e i tentativi di riforma sviluppatisi
in seno alla Chiesa fin dall'XI e XII secolo (Constable 1996; Lam-
bert 1992; Ozment 1980).
Resta il fatto che anche ima cornice così estesa è inadeguata.
In questo capitolo, definirò la riforma come i tentativi di restaura-
re 0 rinnovare degli standard di fede e pratica religiosa su un li-
vello più esigente all'interno di un'organizzazione religiosa. Ben-
ché le riforme nascano come tentativi interni a un'organizzazio-
ne religiosa, qualora soffocate, risultano spesso esternalizzate, e
danno vita a sette - gruppi che offrono alternative religiose ad eie-
vata intensità rispetto alle istituzioni religiose tradizionali. Defi-
nite in questo modo, le riforme hanno avuto luogo non sola-
mente all'interno del mondo cristiano, ma anche nell'ebraismo e
nell'islam, e, anche se con modalità meno drastiche, nei politei-
smi; i movimenti settari sono endemici in tutte le forme di reli-
gione. Inoltre, le riforme non sono un fenomeno del passato, ma
possono essere osservate anche oggi - benché su scala minore.
Resta il fatto, comunque, che la Chiesa cristiana degli inizi e del-
l'epoca medievale era così insolitamente incline alle riforme co-
me alla formazione di sette perché questi fenomeni sono cronici,
inevitabili ed estremamente aspri laddove ci siano dei tentativi di
mantenere un monopolio religioso.
Da questo punto di vista, può essere stato Marcione a tenta-
re la prim a riforma della Chiesa cristiana, nel II secolo e, aven-
do fallito, a formare la prim a setta importante. Per allargare
questa affermazione, può essere utile sintetizzarne le conse-
guenze. Sosterrò che la diversità religiosa è una caratteristica
fondamentale delle società, e che rispecchia il fatto che le perso-
ne differiscono fra loro in quanto a intensità ricercata nella reli‫־‬
gione. Laddove c'è libertà di farlo, la diversità di gusti si mani-
festerà in una diversità di opzioni religiose organizzate. Tutta-
via, se la diversità organizzativa viene soppressa, la dom anda di
religione ad alta intensità servirà da principale motivazione per
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 27

la riforma, poiché coloro che desiderano standard più elevati so-


no costretti ad agire dairinterno. Ma quando falliscono, i tenta-
tivi di riforma tendono a sfociare in sfide esterne al sistema co-
stituito prevalente.
Questa definizione risponde del fatto che le riforme possano
aver successo, o non averne - Hus fallì, e come lui Lutero. In al-
tre parole, in un certo senso Lutero può aver riformato il cristia-
nesimo, ma non la Chiesa cattolica romana - perché questo fu
fatto dalla Controriforma. I tentativi di riforma di Lutero venne-
ro soffocati, e lui in realtà fondò una setta. Si differenzia da Hus
solo perché il suo movimento è sopravvissuto, e lui con esso. Di
conseguenza, darò a Martin Lutero il merito di aver avviato la
«Riforma protestante», ricordando così ai lettori che Lutero non
riformò la Chiesa cattolica, ma istituì l'alternativa protestante al-
la Chiesa cattolica romana. Oltre a tentare di spiegare perché av-
vengono le riforme, questo capitolo esplora le condizioni in cui i
movimenti settari e i tentativi di riforme attraggono un diffuso
sostegno pubblico, dedicando un'analisi estesa alla nascita del
protestantesimo.
Tuttavia, il capitolo ha uno scopo molto più vasto del sempli-
ce ripercorrere l'insoddisfazione e le pressioni religiose che sfo-
ciarono nella «Riforma protestante». Uno degli obiettivi princi-
pali è quello di fornire una sintesi della storia religiosa dell'Eu-
ropa medievale, così da avere un contesto adeguato per i capito-
li successivi. Nel farlo, tenterò di dissipare un certo numero di
asserzioni scorrette, ma largamente diffuse, su quello che accad-
de e sui motivi per cui accadde. Tre esempi particolarmente im-
portanti di queste asserzioni scorrette sono:

1. Π periodo medievale fu un'Età della fede, durante la quale la per-


sona appartenente alla classe media era profondamente religiosa.
2 .1 grandi movimenti settari medievali erano espressione della sof-
ferenza e dell'antagonismo della classe più bassa.
3. La Chiesa cattolica romana, soprattutto a livello parrocchiale,
tendeva a essere dominata da fanatici religiosi che cercavano di
imporre una moralità repressiva e innaturale ai loro fedeli.
28 A GLORIA DI DIO

Oltre a ciò, il capitolo affronta almeno una dozzina di altre


convinzioni errate sulla religione nell'Europa medievale, ma
sarà meglio prenderle in considerazione al momento opportuno.
Inizierò spiegando alcuni principi di scienze sociali, semplici
ma fondamentali, che saranno applicati nelle successive sezioni
e che si dimostreranno utili anche per gli altri capitoli.

Diversità religiosa

In precedenti lavori, ho dimostrato come il pluralismo sia la


condizione naturale o norm ale1in tema di religione - come, in as-
senza di repressione, esisterebbero molteplici organizzazioni reli-
giose (Stark 1983; Stark, Bainbridge [1987] 1996; Stark, Finke
2000 e 2002; Stark, Iannacone 1994). Π pluralismo esiste perché,
in una popolazione normale, le persone differiscono a seconda
deirintensità dei propri desideri e gusti religiosi. Questo signifi-
ca che alcune persone si accontentano di una religione che, prò-
mettendo meno, richiede anche meno. Altri vogliono di più dal-
la propria religione e sono disposti a dare di più per ottenerlo.
Max Weber espresse quest'idea osservando che «in ogni religio-
ne [...] le persone differiscono enormemente nelle loro capacità
religiose»; dunque, in ogni società ci sono delle persone definibi-
li come «virtuosi religiosi» (Weber [1922] 1993, p. 162). A partire
da questa osservazione, ho ipotizzato che in tutte le società la di-
versità religiosa si radichi in nicchie sociali, gruppi di persone che
condividono delle particolari preferenze in merito all'intensità
religiosa, e sostengo che queste nicchie siano piuttosto stabili nel
tempo e piuttosto simili nella visione fondamentale attraverso le
società e la storia (Stark, Bainbridge [1987] 1996; Stark, Finke
2000 e 2002; Stark, Iannacone 1994).
Per dirla in un altro modo, in tutte le società le persone pos-
sono essere classificate a seconda dell'intensità del proprio inte-
ressamento alla religione e dei propri gusti, e dunque anche dei
livelli di richieste che sono disposte a soddisfare per trovare ri-
sposta ai propri bisogni. La maggior parte delle persone deside­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 29

ra una certa intensità religiosa e quindi è disposta ad accettare al-


cuni costi, ma non troppi. Altre persone hanno scarso interesse
nella religione e preferiscono essere coinvolte il meno possibile.
Ma in qualsiasi società, come ha osservato Weber, ci sono anche
coloro che aspirano a una fede ad alta intensità di partecipazio-
ne. Data la diversità della domanda religiosa, a parità di condi-
zioni ci saranno delle corrispondenti diversità nell'offerta: da qui
il pluralismo, l'esistenza di molteplici organizzazioni religiose.
Così, in ogni società in cui la diversità non viene soppressa con
la forza, lo spettro religioso includerà ima gamma completa di
organizzazioni: da quelle poco esigenti, che esistono in uno sta-
to di tensione molto basso con le vicine, a quelle che offrono una
fede ad altissima intensità devozionale. L'appartenenza a questi
gruppi tende ad assomigliare a una normale curva, con le fedi
moderate a ispirare i maggiori seguiti (Stark, Finke 2000).
Il pluralismo esiste anche nelle piccolissime società molto
«primitive», sotto forma di distinti culti totemici, ognuno con di-
verse iniziazioni e riti. In queste società, ovviamente, gli indivi-
dui non hanno la possibilità di scegliere, e quindi è probabile che
i gruppi di culto totemico tendano ad assomigliarsi nel livello di
intensità, benché a volte possano differire molto variando i livel-
li di religiosità individuali. Tuttavia, nelle culture in un certo sen-
so più complesse, il pluralismo religioso è piuttosto evidente
poiché le scelte religiose non sono «inevitabilmente prescritte
dall'aderenza tribale o famigliare», ma assumono un aspetto
«volontario, personale» (Burkert 1987, pp. 10-11). Infatti, nelle
società politeistiche, dove gli Dei sono concepiti con una portata
specializzata e limitata, il pluralismo prospera perché serve un
pantheon di divinità notevole per soddisfare la gamma di richie-
ste che gli esseri umani pongono agli esseri soprannaturali, e le
persone patrocinano divinità particolari a seconda del bisogno.
Quindi, qualsiasi città romana, greca o egiziana, aveva templi di-
stinti, dedicati singolarmente agli Dei maggiori, e ima prolifera-
zione di altri luoghi sacri per le divinità minori (Beard, North,
Price 1998; Burkert 1985 e 1987; Cumont 1967; James 1960; Mac-
Mullen 1981; Von Soden 1994). All'interno del monoteismo, però,
30 A GLORIA DI DIO

la diversità di desideri e gusti religiosi dà come risultato una di-


versità non di Dei, ma di gruppi, diversificati nel loro approccio
allo stesso Dio.
Esattamente come i consumatori religiosi si differenziano per
l'intensità che desiderano dalla religione, la base primaria per la
diversità delle organizzazioni religiose, in contesti sia politeistici
che monoteistici, è il livello di intensità e sacrificio imposto agli
appartenenti. Come osserva Benton Johnson nel suo rilevante
saggio, i corpi religiosi «spaziano in un continuum dal totale ri-
fiuto alla completa accettazione dell'ambiente [culturale e socia-
le] in cui esistono» (Johnson 1963, p. 542). Questo «continuum» è
divenuto noto come «dim ensione chiesa-setta», essendo le chiese
corpi religiosi con uno stato di tensione basso, e le sette corpi re-
ligiosi con imo stato di tensione elevato. Il livello di tensione esi-
stente fra un gruppo e il resto della società si traduce in maniera
diretta nei costi imposti agli appartenenti: le sette chiedono mol-
to di più ai loro membri in termini di sacrificio e di dedizione.
Ma perché le persone lo fanno? Perché scelgono di pagare dei
costi religiosi elevati? Per secoli, a partire dai primi fondatori del
campo di ricerca, gli studiosi di scienze sociali hanno risposto a
questi interrogativi invocando una psicologia anomala: ignoran-
za, paura, ansie, illusioni e, quando si tratta di livelli di fede an-
cora più intensi, patologie mentali. Il 6 aprile 1973, in una delle
sue famose Lettere di Catone, John Trenchard descrisse la pietas re-
ligiosa come una comune forma di pazzia, «senza dubbio [cau-
sata da] una febbre mentale [...]. Il fanatico surriscalda la propria
testa con fantasie stravaganti, poi rende [...] Dio l'autore della
sua sovraeccitazione [...] perché prende il suo stesso delirio per
ispirazione». Più di due secoli dopo, Gordon W. Allport, psicoio-
go di Harvard e uno dei fondatori della Society for thè Scientific
Study of Religion, concesse che degli adulti maturi potessero
condividere la sua assai blanda religiosità («intrinseca»), a patto
che continuassero ad avere dubbi costruttivi, ma respinse le af-
fermazioni di fede più forti come «credulità primitiva», definen-
dole «infantili, assolutiste e irrazionali» (Allport 1960, p. 122). Al-
l'epoca, questa era la visione convenzionale, ed è conservata tut-
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 32

torà da molti sociologi nonostante le schiaccianti prove del con-


trario. Quindi, fu uno shock, e addirittura un affronto, la pubbli-
cazione, nel 1972, da parte del compianto Dean Kelley, illustre re-
verendo protestante liberale, direttore per la Civil and Religious
Liberty presso il National Council of Churches, del suo libro Why
Conservative Churches Are Growing [«Perché le chiese conservata!-
ci sono in crescita», N.d.T.].
Kelley avrebbe voluto intitolarlo «Perché le chiese rigide sono
forti», ma l'editore scartò l'idea, preferendo un titolo più adatto
ad attrarre l'attenzione. Il compito che Kelley si era prefissato era
spiegare perché, in un'epoca in cui l'appartenenza alle Chiese
protestanti liberali (metodiste, episcopaliane), o alla Chiesa Uni-
ta di Cristo, stava calando rapidamente, quella a gruppi più «ri-
gidi» come i battisti meridionali, gli avventisti del settimo gior-
no, i mormoni, e le assemblee di Dio stavano crescendo veloce-
mente. La sua conclusione può essere espressa sotto forma di
semplice economia. Nel valutare ima transazione, o uno scam-
bio, il prezzo, o costo, è uno dei fattori presi in considerazione,
mentre l'altro è la qualità; assieme, queste due cose danno un'i-
dea del valore. E qui sta la chiave della capacità di attrazione dei
gruppi religiosi più esigenti: benché costosi, possono offrire un
valore maggiore. Anzi, sono capaci di farlo in parte proprio per-
ché costosi. In altre parole, le religioni che chiedono di più ai lo-
ro appartenenti sono proprio per questo in grado di dar loro di
più - in ricompense terrene così come spirituali.
All'inizio, il lavoro di Kelley fu rifiutato quasi universalmen-
te (Demerath 1974) e lui fu oggetto di insulti personali (Bangs
1972). Eppure, le chiese liberali hanno proseguito il loro declino
e quelle conservatrici la loro crescita, al punto che ormai i socio-
logi sono concordi sul fatto che Kelley avesse ragione. Una lette-
ratura empirica e teoretica convincente conferma che, entro certi
limiti, le fedi a tensione più elevata offrono ai propri membri
un'esperienza molto più appagante di quanto facciano le chiese
permissive, a basso costo (Finke, Stark 2001 e 1992; Iannacone
1992 e 1994; Olson, Perl 2001; Perrin, Mauss 1993; Stark 1987 e
2007; Stark, Finke 2000 e 2002). Questo non significa supporre
32 A GLORIA DI DIO

che un giorno la gran parte delle persone apparterrà a sette ad al-


ta tensione. La maggioranza della gente continuerà sempre a
preferire un livello di tensione in un certo senso più moderato.
Ma significa che le fedi a tensione molto bassa scompariranno (se
lo stato permette che ciò accada), e che le sette avranno sempre
una forza d'attrazione notevole e saranno in grado di generare i
più alti livelli di dedizione dei membri. Questo, combinato con
la tendenza dei gruppi a maggior tensione di spostarsi verso ima
tensione inferiore, rende inevitabile la formazione di nuove set-
te. Inoltre, laddove viene impedita la formazione di sette, ci si
devono aspettare alti livelli di insoddisfazione religiosa e richie-
ste irate di riforma.
Queste tendenze non sono un fenomeno specifico degli Stati
Uniti, o del cristianesimo, o dell'epoca moderna. Sono universa-
li. Le sette ad alta tensione abbondano nel monoteismo, ed è fa-
cile dimostrarlo. Non altrettanto ovvio è il fatto che ciò sia vero
anche all'interno di politeismi.

Le sette all'interno del politeismo

La nostra opinione sul politeismo greco-romano è stata di-


storta dalla rappresentazione degli Dei nell 'Iliade e nell'Odissea.
Qui, gli Dei dell'Olimpo vengono presentati come esseri supe-
riori agli uomini solamente per i loro poteri (Riley 1997), avendo
le stesse mancanze etiche e morali dei mortali, da cui i loro co-
stanti intrighi, il comportamento oltraggioso, l'egoismo. Questo
spinse Senofane (ca. 570-480 BCE) a lamentarsi del fatto che
«Tutto agli dei hanno attribuito Omero ed Esiodo, quanto presso
gli uomini sono vergogna e biasimo, rubare, fare adulterio e in-
gannarsi a vicenda» (Frammenti 11,15-16). Infatti, benché questi
racconti di vicende eroiche e di Dei fossero popolari nei tempi
antichi, non erano di certo testi religiosi. Di conseguenza, affi-
darsi a Omero per le nostre opinioni sulla religione greca equi-
vale a basare una descrizione del cristianesimo sul ciclo arturia-
no piuttosto che sul Nuovo Testamento. Questo non significa che
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 33

gli effettivi testi religiosi greci, come quelli delle Rapsodie orfi-
che, presentino un'im magine attraente degli Dei - si racconta che
Zeus violentò sua madre, la quale diede alla luce sua figlia Per-
sefone, che fu violentata dal padre, Zeus, il che portò alla nasci-
ta di Dioniso, e cose simili. Quello che differisce molto dai rac-
conti di Omero è il fatto che qui gli Dei non si preoccupano di co-
se triviali, ma i temi centrali sono: morte, vita dopo la morte, giù-
stizia, penitenza e sacrificio (Burkert 1985).
Contrariamente alle immagini a noi comuni della pratica reli-
giosa greca e romana, che consistono soprattutto in banchetti e
feste in onore di Dei donnaioli, e in offerte votive alla ricerca dei
favori di divinità volubili, il concetto di «peccato» era estrema-
mente sviluppato fra alcuni gruppi dell'epoca classica, così come
l'idea della penitenza. Dunque c'erano dei gruppi e delle orga-
nizzazioni religiose che offrivano delle fedi molto esigenti, ad al-
to costo e ad alta tensione. Fra le più esigenti e austere c'erano le
fedi associate a Orfeo e Pitagora. Walter Burkert ha osservato
che, diversamente da molte altre religioni greche le cui origini
sono sconosciute, nel caso di Orfeo e Pitagora abbiamo dei «fon-
datori di sette» (Burkert 1985, p. 296).
L'identità di Orfeo è sconosciuta, e il nome probabilmente è
uno pseudonimo. Viene presentato come un cantante e un poe-
ta, e le opere a lui attribuite risalgono alla metà del VI secolo
BCE. Diversamente, Pitagora fu senza dubbio alcuno una figu-
ra storica (580-500 BCE ca.). Nacque a Samos e reclutò seguaci
per le sue idee religiose nell'Italia meridionale. Entrambe le fe-
di sottolineano il dovere dell'individuo di perseguire la perfe-
zione morale, e Burkert collega quest'aspetto al fatto che fosse-
ro fra le prim e religioni nel m ondo greco ad affidarsi principal-
mente alla parola scritta, più che a quella parlata (e memorizza-
ta): «La nuova forma di trasmissione introduce una nuova for-
ma di autorità alla quale l'individuo, a patto che sappia leggere,
ha accesso diretto senza necessità di una mediazione collettiva»
(Burkert 1985, p. 297).
Edwin O. James ha sostenuto che gli orfici rappresentassero il
«primo tentativo serio in Grecia di fare sì che il destino umano
34 A GLORIA DI DIO

dipendesse dal carattere e dalla condotta nel presente stato d'e-


sistenza» (James I960, p. 287). La visione dei pitagorici era mol-
to simile, dal momento che costoro sostenevano che la vita sulla
terra fosse una punizione per i peccati commessi nelle vite pre-
cedenti. Quindi, entrambe le fedi imponevano degli obblighi
ascetici piuttosto rigidi ai propri membri, poiché insegnavano
che era necessario soffrire per espiare, in modo da potere entra-
re in «ima esistenza felice» dopo la morte e non «soffrire per le
cose terribili» che attendevano i «malfattori» (Burkert 1985, p.
299). Sia per gli orfici che per i pitagorici, dunque, «che uno si al-
zi dal letto o vi si corichi, che si infili una scarpa o si tagli un'un-
ghia, che attizzi il fuoco, che vi metta una pentola, o che mangi,
c'è sempre una regola da rispettare, qualcosa di sbagliato da evi-
tare» (Burkert 1985, p. 303). Gli orfici osservavano una serie di re-
strizioni alimentari complesse: non mangiavano carne, uova o
fagioli e non bevevano vino. Il suicidio era proibito, così come al-
cune forme di espressione sessuale - anzi, molti degli aderenti
abbracciavano il celibato. Alcuni degli orfici più devoti iniziaro-
no a vagabondare mendicando. L'ascetismo pitagorico era abba-
stanza simile. Anche questi fedeli osservavano vastissime regole
alimentari, indossavano vesti bianche, obbedivano a leggi elabo-
rate in merito alle normali attività quotidiane, e non parlavano
dopo il calar del sole. Sia ai mariti che alle mogli era proibito ave-
re rapporti extraconiugali.
Non dobbiamo pensare che si trattasse di due sette molto
oscure e strane, assai lontane dalle «normali» religioni greche. Si
trattava di due dei molti gruppi religiosi ad alta tensione che fio-
rirono nel mondo classico - e le somiglianze con l'ebraismo sono
davvero molte. Inoltre, molti altri grandi gruppi pagani del mon-
do greco-romano erano notevolmente esigenti con i propri ade-
renti, anche se meno rigidi. I devoti di Iside, per citarne uno, era-
no vincolati a una linea di condotta molto complessa. Per esem-
pio, Tran Tarn Tinh riferisce che le donne dovevano immergersi
in fiumi quasi ghiacciati e procedere «sulle ginocchia sanguinan-
ti intorno al tempio di Iside» (Tinh 1982, p. 112). Gli iniziati al
culto di Mitra dovevano «obbedire a regole di purezza rigide e
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 35

opporsi al male nel mondo» (Beard, North, Price 1998, p. 289). Il


fatto che la religione imponga degli obblighi è in perfetto accor-
do con un'osservazione spesso confermata nei mie studi empiri-
ci: le persone tendono a valutare una religione in termini di co-
sti, e se la gran parte delle persone trova troppo costose alcune
religioni, moltissime altre non danno nessun valore alle fedi che
costano poco, o nulla.

La formazione delle sette nel monoteismo

All'interno del politeismo, la diversità delle preferenze reli-


giose trova risposta attraverso la formulazione o l'importazione
di nuove religioni dedicate a nuovi Dei - fu in questo modo che
Iside giunse a Roma dall'Egitto. Ma all'interno del monoteismo,
i desideri religiosi che non trovano risposta vengono soddisfatti
attraverso la formazione di nuovi gruppi dedicati allo stesso Dio.
Di solito, i nuovi gruppi vengono formati da persone che cerca-
no ima fede ad alta intensità; ne consegue che la maggioranza di
questi nuovi gruppi sono sette.
Uno dei risultati più preziosi dello studio scientifico della re-
ligione è stato il riconoscimento e la spiegazione del motivo per
cui i corpi religiosi hanno la tendenza a spostarsi da elevati livelli
di tensione con l'ambiente socioculturale circostante a livelli più
bassi: in altre parole, le sette tendono a diventare chiese (Johnson
1963; Niebuhr 1929; Stark, Bainbridge 1979 e 1985; Stark, Finke
200; Troeltsch 1969). Quando accade ciò, i fedeli che presentano
una forte preferenza per una religione ad elevata tensione tende-
ranno ad andarsene, e alcuni di loro saranno adatti a formare
una nuova setta in sostituzione della precedente affiliazione -
spesso sostenendo che sia il loro il gruppo autentico, e non il cor-
po originario, «mondano».
Ci sono molte ragioni dietro alla trasformazione in chiese del-
le sette. Spesso è perché la seconda o terza generazione di ap-
partenenti in maggioranza non condivide lo stesso desiderio di
fede ad alta tensione che aveva caratterizzato la generazione fon­
36 A GLORIA DI DIO

datrice. Dunque, ci sarebbe una notevole tendenza a muoversi in


tale direzione semplicemente a causa di una regressione verso la
mediocrità - la generazione fondatrice è in un certo senso sele-
zionata, grazie alle sue preferenze religiose insolitamente esi-
genti e, dal momento che la socializzazione è sempre imperfetta,
alcuni dei loro figli nutriranno delle preferenze religiose molto
meno intense (Stark, Bainbridge 1985). Per di più, a meno che il
gruppo non sia altamente stigmatizzato e isolato, la società ester-
na presenta sempre dei livelli elevatissimi di tendenza all'assi-
milazione, come dimostra il caso degli ebrei dell'Europa occi-
dentale, dopo l'emancipazione di inizio XIX secolo (Stark 2009).
Un altro meccanismo in gioco ha a che vedere con la mobilità so-
ciale derivante dal fatto che le successive generazioni godono di
uno status sostanzialmente più elevato di quello dei fondatori. A
parità di condizioni, proprio per il loro essere molto esigenti, le
fedi ad alta intensità sono relativamente più costose per i privi-
legiati. Per esempio, una religione austera non è poi tanto una
questione di scelta per chi non si può permettere il lusso, mentre
i ricchi devono resistere alla tentazione di cedere alla vita corno-
da. Accettare questo punto non significa dire che i gruppi asceti-
ci facciano leva principalmente sui meno fortunati. Come vedre-
mo, molti (forse la gran parte) dei movimenti ascetici hanno so-
c‫׳‬ra-reclutato in numeri rilevanti persone privilegiate - lo stesso
Buddha era un principe prim a della fondazione del suo ordine
monastico e, dei suoi 60 membri, almeno 55 appartenevano a
«famiglie eminenti» (Lester 1993, p. 867). Per fare un altro esem-
pio, dei 483 santi asceti cattolici vissuti fra il 500 e il 1500, il 75%
proveniva dalla nobiltà (il 22% dalle famiglie reali) e un altro
14% da famiglie ricche (Stark 2003).
Un altro fattore di trasformazione delle sette è il fatto che ri-
ducendo in qualche modo il livello iniziale di intensità, i gruppi
religiosi possono crescere più rapidamente, potendo rivolgersi a
un segmento di popolazione più grande. Spesso ciò si dimostra
essere un forte incentivo, soprattutto per un clero ambizioso.
Inoltre, riducendo la propria intensità, i gruppi possono ridurre
anche il livello di tensione e conflitto con gli esterni, il che spes­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 37

so si dimostra altrettanto auspicabile (Stark, Bainbridge 1985 e


[1987] 1996; Stark, Finke 2000).
Purtroppo, per diverse generazioni gli studiosi di scienze so-
ciali hanno sostenuto che la formazione di sette non fosse moti-
vata da dispute dottrinali, e che queste fossero delle semplici ma-
schere dietro le quali si celavano motivazioni più basilari, «ma-
teriali». Per esempio, in The Social Sources of Denominationalism,
opera classica in cui appare per la prim a volta una teoria della
trasformazione delle sette in chiese, H. Richard Niebuhr (1894-
1962) inizia con un'aspra critica all'«interpretazione ortodossa
[che] guarda ai credi ufficiali delle chiese come spiegazione [...]
delle differenze prevalenti» (Niebuhr 1929, p. 12). Le diversità
dottrinali non sono mai fondamentali: «queste differenze hanno
le loro radici in più profonde divergenze sociali». Così, Niebuhr
rifiuta le rivendicazioni di diversità dottrinale di vari gruppi cri-
stiani, menzionando «l'universale tendenza umana a trovare ra-
gioni rispettabili per una pratica desiderata per motivi abbastan-
za indipendenti dalle ragioni addotte» (Niebuhr 1929, p. 13), dal
momento che le «opinioni teologiche hanno le loro radici nel
rapporto fra vita religiosa e condizioni culturali e politiche pre-
valenti in qualsiasi gruppo di cristiani» (Niebuhr 1929, p. 15).
Dunque, «la setta è sempre stata figlia di una minoranza emar-
ginata, traendo origine dalle rivolte religiose dei poveri» (Nie-
buhr 1929, p. 19).
Eppure, come vedremo, in maggioranza, i grandi movimenti
settari della storia europea non furono «rivolte di poveri». Al
contrario, questi movimenti trovarono il sostegno dei privilegia-
ti, e raramente i poveri vi hanno svolto un qualche ruolo signifi-
cativo. Benché sia assurdo negare che i fattori materiali influen-
zino le dispute dottrinali o anche la formulazione delle dottrine,
è altrettanto assurdo supporre che le persone non si preoccupino
«davvero» delle dottrine, e che tali dispute non siano reali. La
gran parte dei casi di dissenso religioso non ha nessun senso in
termini di cause puram ente materiali, ma diviene coerente sola-
mente se supponiamo che alle persone importi l'argomento prin-
cipale delle proprie dispute. Di conseguenza, dobbiamo ricono­
38 A GLORIA DI DIO

scere il ruolo della teologia e delle rivelazioni nel dare origine al-
le dispute dottrinali. Quando molti individui si immergono nel-
lo studio delle scritture alla ricerca di ima comprensione più
profonda o di interpretazioni più chiare, è inevitabile che alcuni
giungano a conclusioni diverse. Le dispute sull'interpretazione
della scrittura spesso hanno spaccato comunità religiose che non
avevano altri motivi sociali o materiali per volere uno scisma, e
le facoltà di teologia ne sono un chiaro esempio. Allo stesso mo-
do, benché la maggioranza delle rivelazioni confermi l'ortodos-
sia prevalente, alcune possono includere delle differenze di en-
fasi o interpretazione, e quindi produrre degli scismi - e questa
è stata l'origine di molti gruppi dei primi tempi del cristianesi-
mo, come i montanisti e i manichei (Stark 1965 e 1999).
La trasformazione delle sette in chiese e la formazione di nuo-
ve sette possono essere osservate in tutti gli esempi storici di mo-
noteismo.

Le prime sette ebraiche


Se mai ci fu un'unica fede ebraica, essa si frammentò in tem-
pi antichissimi, come attestano i libri di Esdra e Neemia. Il Tal-
m ud parla dell'esistenza di ventiquattro fazioni teologiche e di
sette ebraiche litigiose. Tuttavia, a partire dal II secolo circa
(BCE), la vita religiosa ebraica in Israele fu dominata da tre grup-
pi, ognuno dei quali si rifaceva a una delle tre nicchie primarie
di domanda religiosa. Passando dall'intensità più bassa a quella
più alta, si trattava dei sadducei, dei farisei e degli esseni (Baum-
garten 1997; Blenkinsopp 1981; Cohen 1987; Georgi 1995; Jospe
1981; Koester 1982a; Mor 1992; Neusner 1990).
La gran parte degli alti sacerdoti e una maggioranza del Si-
nedrio erano sadducei. Più avanti in questo capitolo spiegherò
che le istituzioni religiose tendono al lassismo, ed è chiaro che
era vero anche in questo caso. La fede dei sadducei era più una
filosofia che una religione. Essi rifiutavano molti dei dogmi so-
prannaturali basilari della tradizione ebraica. Negavano la risur-
rezione dei morti e sostenevano che l'anima non esistesse, per
cui «dopo la morte non c'è nulla, né di cattivo né di buono [...] e
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 39

l'uomo passa a una non-esistenza» (Ippolito, Refutatio omnium


haeresium 9,14). I sadducei sostenevano anche che non c'erano
«né angeli né spiriti» (Atti degli Apostoli 23,8) e questo è stato in-
terpretato come un rifiuto delle rivelazioni (Cohen 1987). Ci so-
no prove, poi, del fatto che i sadducei fossero negligenti anche
per quanto riguardava la Legge, soprattutto in tema di divorzio
e matrimonio fra consanguinei, e Helmut Koester ne conclude
che «erano stati assimilati nella cultura deH'ellenismo nel loro
stile di vita personale» (Koester 1982a, p. 230). Per quanto ri-
guarda il loro orientamento filosofico, Flavio Giuseppe (37-95) li
paragona alla scuola epicurea della filosofia greca (Cohen 1987).
Un paragone moderno appropriato potrebbe essere quello con la
branca liberale dell'episcopalismo americano.
I farisei erano i «leader delle masse» e gli esponenti dell'e-
braismo convenzionale (Cohen 1987, p. 147). Affermavano le
tradizionali credenze e pratiche ebraiche ed esprimevano forti
obiezioni contro il lassismo di molti appartenenti alle istituzio-
ni religiose. Tuttavia, benché fossero totalmente osservanti del-
la Legge ed esprimessero la loro fede nella rivelazione e nella ri-
surrezione, non patrocinavano l'ascetismo e conducevano una
vita normale.
In linea con il principio fondamentale che alimenta tutti i mo-
vimenti settari, gli esseni accusavano sia i farisei sia i sadducei
di non vivere secondo la Legge, essendo precipitati nella mon-
danità e nell'apostasia. Gli esseni perseguivano imo stile di vita
altamente ascetico, spesso comunitario, osservando fin nei mini-
mi particolari la Legge per come loro la interpretavano, ed erano
inclini a visioni apocalittiche in merito alla battaglia fra Bene e
Male - molte delle loro idee erano basate su rivelazioni così co-
me sulla teologia (Blenkinsopp 1981). Quindi, costituivano uno
sbocco adatto a coloro che preferivano una fede di tipo estrema-
mente intenso - i «virtuosi religiosi» (Cohen 1987, p. 147).
Gli esseni rappresentavano ima sfida esterna all'ebraismo
convenzionale, e in particolare alle istituzioni religiose. Tuttavia,
data la prevalente libertà di aperto dissenso, non furono costret-
ti a cercare di ottenere la riforma di un ebraismo monolitico la­
40 A GLORIA DI DIO

vorando dall'interno. Piuttosto, servivano come valvola di sicu-


rezza religiosa.
Molti studiosi hanno supposto che le differenze di classe ab-
biano svolto un ruolo importante nelle origini e nell'appartenen-
za a questi tre movimenti, sostenendo che i sadducei apparte-
nessero alla classe più elevata, i farisei alla forte classe media, o
forse medio alta, mentre gli esserti avrebbero incarnato la prote-
sta e l'alienazione proletarie (Cohen 1987; Niebuhr 1929; Saldari-
ni 2003). Ma non era così! Come ha dimostrato in maniera con-
vincente Albert Baumgarten, gli esseni «non erano dissidenti
della classe inferiore, emarginati dai poteri dominanti». I farisei
«non erano un'intellighenzia alienata e sottoccupata alla ricerca
di un posto in società». Piuttosto, tutti e tre i gruppi erano salda-
mente radicati nelle «élite economiche e sociali colte [...] che po-
tevano permettersi il "lusso" di indulgere nelle questioni dello
spirito» (Baumgarten 1997, pp. 47, 51). E infatti, dei tre gruppi,
furono gli esseni a produrre le scritture e i commentari più sofi-
sticati e complessi. Erano delle vere e proprie differenze di gusti
e convinzioni religiose; non si trattava di semplici maschere per
questioni mondane.

Le prime sette cristiane


Il cristianesimo iniziò a frammentarsi pochi anni dopo la Cro-
cifissione. Intorno all'anno 180 (epoca in cui secondo le mie sti-
me la popolazione cristiana annoverava non più di 100.000 fede-
li), Ireneo divulgò il suo Adversus haereses (Contro le eresie), un at-
tacco in cinque volumi contro quasi due dozzine di gruppi che
aderivano a dottrine «scorrette». Alcuni anni dopo, Ippolito
scrisse Refutatio omnium haeresium, un catalogo ampliato delle
eresie che elencava quasi cinquanta esempi di non conformità.
Ovviamente, alcuni di quelli elencati non erano dei veri e propri
gruppi, ma solamente degli scritti eretici di autori solitari (Wil-
liams 1996). Comunque, fra i gruppi effettivi, alcuni si basavano
principalmente su dispute teologiche, altri su nuove rivelazioni
e, naturalmente, su tutti avevano una qualche influenza anche
fattori sociali e materiali. Sarà utile esaminare una delle prime
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 41

sette cristiane fondatasi su disaccordi teologici corrteiSHtuzioni


religiose emergenti, e poi un'altra setta basata su nuove rivela-
zioni. Entrambe chiedevano un ritorno a una fede più ascetica.
M arcione (85-160 ca.) fondò una delle più importanti fra le
prime sette cristiane (May 1987-1988; Quispel 1987; Williams
1996). Pur avendo acquisito un'im mensa ricchezza prim a di ab-
bracciare la vita religiosa, Marcione sosteneva che la salvezza si
poteva guadagnare solamente attraverso un ascetismo rigoroso.
Gli aderenti al marcionismo non solo praticavano il celibato e ri-
nunciavano al matrimonio, ma provavano anche disprezzo per
la procreazione. Di conseguenza, secondo Tertulliano, battezza-
vano solamente le persone non sposate che dovevano rimanere
celibi, rim andando il battesimo per tutti gli altri al letto di morte
(Tertulliano, Adversus Marcionem 4,11). L'aver citato Tertulliano
serve a ricordarci che, come per quasi tutti i primi cristiani che
furono successivamente classificati come eretici, gli scritti di
Marcione non sopravvissero, e noi conosciamo le sue opinioni
solamente attraverso gli attacchi scritti mossi contro di lui dai
suoi nemici. Dunque, nonostante il fatto che Marcione fosse con-
trario ai rapporti sessuali anche a scopo procreativo, Ippolito so-
stenne che egli attirava le persone principalmente attraverso «un
modo di vivere sensuale, dal momento che egli stesso era un uo-
mo di inclinazioni lussuriose» (Tertulliano, Adversus Marcionem
7,17). Presto questa divenne la tattica standard della retorica po-
lemica cristiana (Rankin 1995). Come spiegò Paul Johnson, «le
sette che attraevano i seguiti più vasti erano, di norma, le più au-
stere e pie; tuttavia, essendo quelle con maggior successo, dove-
vano essere quelle più duramente attaccate sul piano morale»
(Johnson 1976, p. 51). Degli ariani fu successivamente scritto che
le loro «donne erano immorali», e sui manichei che fra di loro
«non si può trovare castità» (Johnson 1976, p. 51).
La verità, ovviamente, era abbastanza diversa. I veri «peccati»
di Marcione non erano legati all'immoralità; erano teologici, e co-
stituivano ima vera e propria sfida radicale al cristianesimo con-
venzionale. Nel contesto dei complessi tentativi da parte dei lea-
der della Chiesa del II secolo di rispondere alle critiche ebraiche
42 A GLORIA DI DIO

in merito al fatto che Gesù adempisse alle profezie sul Messia, un


attento studio delle Scritture convinse Marcione del fatto che il
Dio degli ebrei e il Padre di Cristo non fossero lo stesso Dio (Qui-
spel 1987). Di conseguenza il cristianesimo non era in alcun mo-
do legato all'ebraismo, e l'Antico Testamento non aveva nessuna
validità. Così, quando compilò e divulgò la sua versione di «Bib-
bia» cristiana, Marcione vi incluse solamente il Vangelo di Luca e
le dieci lettere di Paolo. Si trattava di una soluzione elegante al
vessante problema delle contraddizioni fra Antico Testamento e
dottrina cristiana, e si rivelò avere una grande capacità d'attra-
zione per molti cristiani lontani dal contesto ebraico - soprattut-
to in Oriente, dove alla fine il movimento si fuse al manicheismo.
All'inizio, Marcione indirizzò i suoi scritti ai padri della Chiesa a
Roma, nella speranza che potessero capire la saggezza delle rifor-
me teologiche e morali che Itti suggeriva. Al contrario, le visioni
di Marcione sollevarono la loro immediata e dura opposizione. E
anzi, con buona pace delle accuse di «materialismo», quando lo
bollarono come eretico, i padri della Chiesa restituirono un'enor-
me donazione che Marcione aveva fatto alla Chiesa. Da quel mo-
mento in poi, Marcione diede vita a un nuovo movimento setta-
rio cristiano, e la sua riforma venne estemalizzata.
M ontano (II secolo) era un contemporaneo di Marcione, ma
la base del suo influente movimento settario erano le rivelazioni,
non la teologia (Rankin 1995; Trevett 1996). Nei primissimi tem-
pi della Chiesa, i cristiani credevano che fosse vicina la Seconda
Venuta, la quale avrebbe sicuramente avuto luogo prima della
morte di molti di loro. Alla volta del II secolo, però, queste fer-
venti aspettative millenaristiche si erano in gran parte attutite,
sia perché era passato ormai molto tempo, sia perché erano in-
compatibili con le politiche di quella che era divenuta una Chie-
sa istituzionalizzata, insediatasi per un viaggio lungo e difficile.
A Montano tutto questo non importava. Egli sosteneva che in al-
cune rivelazioni lo Spirito Santo gli aveva detto che la Nuova Ge-
rusalemme sarebbe stata in Frigia, e che il suo momento era
prossimo! In preparazione, i cristiani dovevano tentare di con-
durre una vita irreprensibile, il che significava ima vita ascetica.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 43

I montanisti erano noti per i loro frequenti digiuni - Ippolito par-


la di «pasti di cibo suddiviso, e pasti di ravanelli» (Ippolito, Re-
futatio omnium haeresium 8,12). Proibivano anche di risposarsi, e
avevano ima visione assai entusiasta del martirio. Allo stesso
modo dei marcioniti, in un primo tempo anche i montanisti creb-
bero molto rapidamente, riuscendo addirittura a convertire Ter-
tulliano, il famoso padre della Chiesa spesso ritenuto il primo
teologo.
Come la maggior parte dei movimenti religiosi, comprese le
congregazioni convenzionali della prima Chiesa (Stark 2002 e
2007), i montanisti attrassero molte più donne che uomini, due
delle quali, Priscilla e Massimilla, avevano avuto delle rivelazio-
ni ed erano seconde solamente a Montano nella guida del movi-
mento (Trevett 1996). Ciò scatenò ire e molti attacchi, come quel-
lo per cui «avevano elevato quelle misere donne al di sopra degli
apostoli» (Ippolito, Refutatio omnium haeresium 8,12), oppure come
gli oltraggi rivolti alla «profetessa» che indossava «paramenti co-
stosi» e che era «falso» chiamare «vergine Priscilla» (Eusebio, Sto-
ria Ecclesiastica 5,18). Nonostante questo, i montanisti evitarono le
accuse, di prassi, d'immoralità sessuale, forse solamente perché la
conversione di Tertulliano le rendeva assai poco plausibili.
I movimenti marcionita e montanista nacquero entrambi co-
me tentativi di riportare il cristianesimo a precedenti livelli di
«santità», e servirono da sbocco per coloro che cercavano una re-
ligione ad alta intensità. Entrambi furono bollati come eretici e
divennero oggetto di un notevole antagonismo, ma nessuno dei
due fu soppresso, poiché i loro oppositori non avevano il potere
per farlo. Quindi, sopravvissero entrambi per secoli - alla fine il
montanismo cessò d'esistere a seguito delle persecuzioni del-
l'imperatore Giustiniano, alla fine del VI secolo.

Le prime sette islamiche


Ancora oggi, forse il fraintendimento prevalente in Occiden-
te in merito all'islam è che si tratti di un'unica, grande e unifica-
ta fede monolitica. La verità è che l'islam è una delle «grandi re-
ligioni del mondo più frammentata» (Henderson 1998, p. 10). In
44 A GLORIA DI DIO

realtà, la teologia islamica è, per citare una felice espressione di


Eric Ormsby, ima «scienza controversa» (Ormsby 1948, p. 92).
Per esempio, alla volta dell'XI secolo, la setta kharigita si era di-
visa per lo meno in altre venti sette aggiuntive (Dabashi 1989).
Ciò nonostante, come nei casi dell'ebraismo e del cristianesimo,
il settarismo non attrae la maggioranza dei fedeli, e fra i musul-
mani c'è la stessa quantità di lassismo che esiste nelle altre fedi.
La diversità islamica non è il risultato di un'insolita tolleran-
za teologica. Piuttosto, la visione prevalente in quasi tutte le fa-
zioni religiose è che tutte le altre sette siano nel peccato e nel tor-
to. Come spiegò Ibn Qudama (1154-1233), «non c'è nulla al di
fuori del paradiso se non il fuoco dell'infemo; non c'è nulla al di
fuori della verità se non l'errore; e non c'è nulla al di fuori delle
Sunna se non l'innovazione eretica» (Ibn Qudama 1962, p. 42).
Ironicamente, nonostante visioni così forti in merito all'eresia, il
pluralismo islamico è scaturito dai legami insolitamente stretti
fra religione e stato. In altre parole, il controllo dello stato non ha
dato a una fazione gli strumenti per sopprimere le altre; al con-
trario, le esigenze di governo hanno di solito imposto la neces-
sità di compromessi e coalizioni politiche, costruiti sulle fazioni
religiose. Benché a volte una fazione fosse in grado di sopprime-
re tutte le altre all'interno di uno specifico dominio politico, la
necessità di tolleranza venne imposta da un'inesorabile diversità
(come negli Stati Uniti, Stark 2009).
I primi tempi dell'islam furono segnati dalla nascita successi-
va di tre grandi sette: kharigismo, sciismo e sufismo. In seguito,
ognuna si divise e ridivise in moltissime altre sette, ma sarà co-
munque appropriato descrivere brevemente gli inizi dei movi-
menti originari (Farah 1994; Henderson 1998; Hodgson 1974;
Payne 1959; Rahman 1981; Waines 1998).
Una battaglia per la successione al califfato fu la causa im-
mediata dell'origine del movimento kharigita. Nel 680 morì il
califfo Mu'àwiya. Il nipote di Maometto, Husayn, si oppose alla
successione del figlio, Yazìd, e ottenne il sostegno delle antiche
famiglie di Medina. Q uando altri non mantennero le loro prò-
messe di supporto, H usayn e il suo piccolo gruppo furono rin­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 45

tracciati nel deserto, vicino a Karbalà, e uccisi. Molti devoti mu-


sulmani piansero la morte di Husayn e si sollevarono contro
quella che ritenevano la mondanità e l'empietà del califfato, ma
Yazìd morì, e non lasciò nessun erede. Ciò spinse i kharigiti (il
termine significa «ribelli») a prendere le armi contro il califfato.
Ma in ballo c'era molto di più di una guerra di successione. Il
motivo principale della ribellione, e l'aspetto più longevo del
movimento kharigita, era il «puritanesimo» (Hodgson 1974).
Contrariamente alla visione convenzionale per cui pronunciare
la professione di fede, «non esiste altro Dio all'infuori di Allah,
e Maometto è il suo Profeta», è sufficiente a qualificare una per-
sona come m usulm ana, i kharigiri chiedevano che la fede fosse
accompagnata da una vita giusta. Queste idee erano infuse di
imo spirito militante che considerava la spada lo strumento di
verità più appropriato; chiunque fosse in disaccordo con loro
veniva automaticamente condannato a morte. Eppure, alla fine,
furono proprio loro a morire di spada: il movimento venne
spazzato via in una serie di conflitti con le forze del califfato
(Rahman 1981). Tuttavia, l'impulso settario non morì con loro.
Anzi, come abbiamo già detto, i kharigiti furono l'origine di
molte altre sette.
Anche il movimento sciita nacque in risposta alla morte del
nipote di Maometto, Husayn, e proclamava il diritto divino del-
la «Sacra famiglia» (i parenti di sangue di Maometto) a governa-
re l'islam. Presto, gli sciiti svilupparono una forma esoterica di
millenarismo. Solo un vero imam (capo esemplare) poteva giun-
gere alla vera conoscenza dei significati nascosti del Corano. Lo-
ro credevano che gli imam fossero dodici. I primi undici erano
delle figure storiche conosciute, ma si diceva che alla morte del-
l'undicesimo, l'ultimo imam sarebbe rimasto nascosto fino al
Giorno del Giudizio. Le aspettative in merito all'identità e all'ar-
rivo dell'«imam nascosto» hanno prodotto spesso molta agita-
zione fra gli sciiti e sono servite a rafforzare fortemente la dedi-
zione a standard religiosi rigorosi. Gli sciiti hanno l'obbligo di
tentare di convertire gli altri musulmani ma, essendo sempre sta-
ti una fede minoritaria, ammettono anche la pratica di nascon­
46 A GLORIA DI DIO

dere la propria affiliazione in ambienti non ricettivi. Anche que-


sto movimento ha dato vita a una varietà di «sette estremiste»
(Rahman 1981, p. 917). Una delle prime fu quella degli ismailiti,
conosciuti anche come «settimani» poiché rifiutano l'idea di do-
dici imam, sostenendo che siano solamente sette, l'ultimo dei
quali nascosto. Rifiutano anche le moschee, ritenendole una for-
ma di ostentazione, e si riuniscono in case. Un'altra importante
setta originatasi dal movimento sciita è quella dei drusi.
Infine, i sufi. Nacquero alla fine del X secolo come reazione
«contro la generale mondanità che domina la comunità musul-
mana» e la sua enfasi su «legge e teologia», piuttosto che sull'a-
scetismo, la moralità e, soprattutto, le esperienze mistiche (Rah-
man 1981, p. 917). Il termine «sufi» significa indossatore di lana,
indice di ascetismo, e il movimento divenne famoso per le atti-
vità estatiche e mistiche. Molti dei prim i sufi vissero il celibato, è
alcuni divennero eremiti (forse ispirati dall'esempio cristiano).
Tuttavia, il movimento rifiutò presto l'isolamento dalla società,
favorendo gli sforzi di conversione, basati sul ricordare agli altri
l'urgenza della scelta fra paradiso e inferno. Come nel caso dei
kharigiti e degli sciiti, anche il sufismo generò ima vasta gamma
di sette, e continua a farlo anche oggi.

Monoteismo, monopolio e lassismo

Fino a quando la situazione religiosa è libera da repressione,


il processo di formazione delle sette fornisce uno sbocco ade-
guato per la domanda di religione ad alta intensità, come accad-
de fra gli ebrei, i primi cristiani e i musulmani, oltre che nelle so-
cietà politeistiche. Ma qualora questa valvola di sfogo fosse bloc-
cata al punto di impedire un'opzione soddisfacente per coloro
che cercano un'espressione religiosa intensa, la situazione diver-
rebbe pericolosamente instabile. La domanda religiosa repressa
avrà come risultato delle sfide esterne e dirette mosse all'istitu-
zione religiosa da parte di sette ribelli, oppure originerà delle sfi-
de dall'interno in forma di tentativi di riforma. Per preparare il
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 47

terreno all'esame di queste alternative, dobbiamo prendere in


considerazione il motivo per cui il monoteismo porta al mono-
polio, e il perché i monopoli poi tendono al lassismo.
Ho scritto molto sulla ragione per cui l'intolleranza religiosa
è inerente al monoteismo (Glock, Stark 1966, Stark 2009). Chi ere-
de esista un Unico Vero Dio rimane offeso dalla devozione diret-
ta ad altri Dei. Infatti, l'intolleranza nei confronti degli idoli e dei
falsi Dei viene specificamente prescritta dalle scritture ebraiche,
cristiane e islamiche. Ciò nonostante, il pluralismo organizzativo è
un fenomeno «normale» in ognuno di questi grandi monoteismi
- ma solo fino a quando nessun corpo ha sufficiente potere per
sopprimere gli altri.
Ci furono molte forme di ebraismo perché nemmeno i farisei
erano potenti abbastanza da mettere fuori legge le altre sette. Lo
stesso si può dire del cristianesimo degli inizi - l'élite romana pò-
teva dichiarare eresia il marcionismo, ma non era in grado di
sopprimerlo. Il fattore operativo, qui, è il potere. La maggioran-
za delle fazioni (se non tutte) interne a una fede sarebbero piut-
tosto felici di divenire l'unica organizzazione religiosa lecita, poi-
ché, essendo monoteisti, conoscono l'identità dell'Unico Vero
Dio, ma conoscono anche l'Unico Vero Modo nel quale la loro fe-
de dovrebbe essere praticata. Gli esseni consideravano i farisei e
i sadducei dei peccatori disgustosi, un affronto agli occhi di Dio
quasi quanto gli idolatri pagani e i non credenti. Per i sadducei,
i farisei erano dei pignoli petulanti e gli esseni degli strani fana-
tici - e sarebbe stato meglio metterli a tacere tutti. E per quanto
riguarda i farisei, condividevano la visione degli esseni sui sad-
ducei, e quella dei sadducei sugli esseni. Ogni qual volta un grup-
po all'interno del monoteismo guadagna sufficiente potere (a parità di
altre condizioni), metterà a tacere tutti i rivali.
Come vedremo, i leader dei monopoli religiosi spesso tollera-
no delle minori istanze di non conformità religiosa - individui e
piccoli gruppi che non rappresentano ima sfida al loro potere e
alla loro posizione. Ma le vere minacce provocano una vera pu-
nizione, e a quel punto «sparirà» anche la tolleranza per i com-
portamenti non conformi ai precetti religiosi. Per esempio, una
48 A GLORIA DI DIO

volta che il suo potere fu pienamente consolidato, la Chiesa ro-


m ana cattolica ignorò per molti secoli numerosi «eretici» cari-
smatici e movimenti di riforma interni, ma queste politiche tol-
leranti cessarono quando l'autorità della Chiesa venne sfidata in
modo serio, in seguito alla mobilitazione di massa di intensi sen-
timenti religiosi a sostegno delle Crociate.
Però, quest'argomento deve attendere. Al momento è suffi-
ciente capire che la spinta al monopolio sta in tutte, o quasi tut-
te, le fazioni monoteistiche. Se mai una fazione dovesse ottenere
un sostegno sufficiente dallo stato, imporrebbe il proprio mono-
polio religioso. Anzi, David Hume (1711-1776) sostenne che, dal
momento che prevenivano il conflitto fra sette in disaccordo, i
monopoli religiosi erano un beneficio per le società, e le élite re-
ligiose spesso erano state in grado di convincere i leader politici
della verità di questo fatto (Hume 1974, voi. 3). Il problema è, co-
me sottolineò presto l'amico di Hume, Adam Smith (1723-1790),
che i monopoli religiosi inevitabilmente diventano pigri e tolle-
ranti. E questa è ima delle ragioni per cui spesso tollerano i non
conformisti poco minacciosi. La motivazione dietro il lassismo
dei monopoli risiede semplicemente nella natura umana. Lad-
dove non c'è bisogno di duro lavoro, la gran parte della gente si
rilassa. Quindi, quando autorità e privilegi sono garantiti dallo
stato, il clero non si preoccuperà di «tener vivo il fervore della fe-
de e la devozione» e risulterà «abbandonato all'indolenza».
Spesso i religiosi tendono a «diventare uomini di conoscenza ed
eleganza», perdendo contemporaneamente il potere di rivolger-
si alle persone, soprattutto a coloro i quali sono più interessati al-
le questioni religiose. Di conseguenza, quando emerge una sfida,
la religione di monopolio «non ha generalmente altra risorsa che
rivolgersi al magistrato civile perché persegua, distrugga o scac-
ci i suoi avversari come disturbatori della pace pubblica» (Smith
[1776] 1981, p. 789). Dunque, secondo Smith, dovremmo atten-
derci che tutte le istituzioni religiose costituite assomiglino ai
sadducei in quanto a lassismo. E questo significa anche che, per
i poteri e il privilegio associati alle posizioni di grado più eleva-
to aU'interno di monopoli religiosi, tali posizioni sono desidera­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 49

te da persone ambiziose, motivate a raggiungere determinati sta-


tus anche se prive di ima vera devozione religiosa.
Ho parlato di questo in maniera diffusa in altri lavori, e dun-
que rimando chi sia interessato ad approfondire la questione a
quelle pubblicazioni (Stark 2009 e 1983; Stark, Bainbridge [1987]
1996; Stark, Finke 2000; Stark, Iannacone 1994). Qui, sarà più uti-
le allo scopo esaminare un caso specifico.

L'«anatema» di Costantino

Per troppo tempo gli storici hanno accettato l'idea che fu la


conversione dell'imperatore Costantino (285-337 ca.) a far trion-
fare il cristianesimo. Al contrario, fu Costantino a distruggerne
gli aspetti più attraenti e dinamici, trasformando un movimento
popolare a elevata intensità in un'istituzione arrogante, control-
lata da un'élite che spesso riusciva a essere sia brutale che pigra.
Costantino non fece del cristianesimo la religione ufficiale
dell'impero romano, né bandì il paganesimo. Tutto questo av-
venne in seguito. Il «favore» di Costantino fu la decisione di con-
vogliare sui cristiani i massicci finanziamenti statali dai quali
erano sempre dipesi i templi pagani. AH'improvviso, il cristiane-
simo divenne «il destinatario favorito delle risorse quasi infinite
del favore imperiale» (Fletcher 1997, p. 19). Una fede che fino a
quel momento si era riunita in strutture umili, improvvisamente
venne ospitata in edifici pubblici magnificenti - la nuova chiesa
di San Pietro fatta costruire da Costantino a Roma fu modellata
sulla basilica utilizzata per le riunioni imperiali. Un clero reclu-
tato fra il popolo e mantenuto in modo modesto dai contributi
dei membri aU'improvviso guadagnò un potere immenso, uno
status sociale elevatissimo e ricchezza, alla pari dei funzionari
imperiali. I vescovi «a quel punto divennero delle persone emi-
nenti alla pari dei più ricchi senatori [di Roma]» (Duffy 1997, p.
27). Di conseguenza, come disse Richard Fletcher, i «privilegi e le
esenzioni garantite al clero cristiano diedero il via alla corsa al
sacerdozio» (Fletcher 1997, p. 38).
50 A GLORIA DI DIO

Dal momento che le cariche cristiane erano diventate un'al-


tra forma di nom ina imperiale, erano solitamente i figli degli
aristocratici a ottenerle. Così, si diffuse la simonia - vale a di-
re, un traffico esteso e molto costoso di cariche religiose, che
implicava non solamente la vendita delle alte cariche come i
vescovati, ma anche quelle delle più umili parrocchie. Presto
sorsero anche grandi famiglie clericali, i cui figli seguivano le
orme di padri e nonni all'interno dei sacri uffici. Anche il pa-
pato era dominio di grandi famiglie. Per citare solo pochi esem-
pi: papa Innocenzo I (401-417) succedette al padre, papa Ana-
stasio I (399-401); papa Silverio (536-537), era il figlio di papa
Ormisda (514-523); papa Gregorio I (590-604) era il pronipote
di papa Felice III (526-530) e di papa Agapito I (535-536). E non
si può nemmeno dire che la pratica si limitò agli ultim i giorni
dell'impero. Papa Giovanni XI (931-935) era figlio di papa Ser-
gio III (904-911); papa Benedetto Vili (1012-1024) e papa Gio-
vanni XIX (1024-1032) erano fratelli; papa Benedetto IX (1032-
1044) era nipote di entram bi i suoi predecessori. E molti altri
p ap i erano figli, nipoti, fratelli di vescovi e cardinali
(Cheetham 1983; Duffy 1997). L'im portanza delle famiglie eie-
ricali emerge anche dalle biografie dei santi medievali, perché
fra loro quasi un 20% aveva un parente stretto annoverato fra
i santi (Stark 2003). Fin dal Concilio di Sardica, nel 343, i capi
della Chiesa prom ulgarono delle leggi per im pedire l'ordina-
zione al sacerdozio nel mom ento stesso della nom ina a vesco-
vo, richiedendo che i vescovi provenissero da precedenti cari-
che clericali inferiori. Queste regole, però, venivano frequente-
mente ignorate: verso la fine del IV secolo, Aussenzio divenne
vescovo di Milano senza nem meno essere stato battezzato. Al-
trimenti, le regole venivano raggirate con ordinazioni fulmi-
nee e altrettanto repentine scalate alle varie cariche, una setti-
mana o due prim a della nomina a vescovo (Johnson 1976). Co-
m unque, questo non sempre aveva come risultato l'ascesa di
em pi opportunisti - per esempio, sant'Ambrogio (340-397 ca.)
verme battezzato, ordinato e attraversò i vari livelli clericali fi-
no a essere consacrato vescovo in soli otto giorni! E, ovvia­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 51

mente, nonostante l'appartenenza a una famiglia papale, Gre-


gorio I meritò di passare alla storia come papa Gregorio Ma-
gno. Tuttavia, il risultato generale era una gerarchia ecclesia-
stica molto m ondana, politicizzata, am ante del lusso, e a volte
palesemente immorale.
Il ricco sostegno al cristianesimo da parte di Costantino andò
a scapito del paganesimo. A differenza del primo cristianesimo,
i templi pagani erano organizzazioni dall'alto verso il basso, co-
struiti e mantenuti da fondi di stato e dai doni di pochi benefat-
tori molto ricchi. Quindi, mentre il cristianesimo si diffondeva
bene anche senza il sostegno dello stato o dell'aristocrazia, quan-
do venne a mancare questo sostegno il paganesimo crollò rapi-
damente (Bagnali 1993; Dodds 1970; MacMullen 1984; Stark
2007). Ciò nonostante, per tutto il IV secolo, sopravvissero molti
templi e il cristianesimo coesistè con altre fedi. Se la Chiesa fos-
se stata più debole, e soprattutto se non avesse ottenuto un ruo-
lo così potente nelle politiche secolari, il risultato sarebbe potuto
essere un pluralismo relativamente stabile, ampliato periodica-
mente dalla formazione di nuove forme di cristianesimo (Drake
2000). Invece, tutte le altre religioni, comprese le nuove o meno
potenti forme di cristianesimo, e con l'eccezione dell'ebraismo,
vennero presto soppresse.
All'inizio, gli attacchi cristiani alle «false» religioni venivano
semplicemente giustificati dallo stato; erano gli attivisti cristiani
a fare il lavoro sporco. In particolare, la rapida crescita del mo-
nachesimo fornì al personale delle chiese locali dei gruppi mili-
tanti e ferventi nella fede da mandare contro i propri oppositori.
Così, nel 390, il poeta pagano Libano si lamenta con l'imperato-
re Teodosio:

Non hai ordinato che i templi venissero chiusi, ma gli uomini in


nero [monaci] attaccano i templi con pietre, pali e palanchini di fer-
ro, o addirittura con mani nude e piedi. Poi i tetti vengono abbat-
tuti e le mura rase al suolo, le statue rovesciate e gli altari demoli-
ti. I sacerdoti del tempio devono soffrire in silenzio o morire» (in
Johnson 1976, p. 97).
52 A GLORIA DI DIO

Ovviamente, anche i pagani spesso rispondevano con la vio-


lenza e la forza. C'erano risse e combattimenti per le strade di
Alessandria, e nel 356 vi rimase ucciso un vescovo, mentre in Si-
ria un altro vescovo venne linciato da ima folla pagana in segui-
to alla distruzione di un tempio (MacMullen 1984, p. 91). Man
mano che il loro numero andava diminuendo, i pagani divenne-
ro sempre più vittime del terrorismo cristiano. Poi, verso la fine
del IV secolo, anche le vuote politiche di stato di tolleranza reli-
giosa giunsero alla loro fine. Vennero stabilite molte norme con-
tro la non conformità religiosa, e lo stato si assunse ufficialmen-
te la responsabilità di farle rispettare. Infine, nel 407, venne de-
cretato che se fosse rimasta qualche immagine pagana «sarebbe
stata strappata dalle proprie fondamenta», e i templi e i santuari
rimanenti sarebbero stati confiscati «per uso pubblico» (in Mac-
Mullen 1984, p. 101). Questo editto altro non era che una misura
di «pulizia», poiché a quell'epoca il paganesimo era stato già
escluso dall'espressione pubblica - per lo meno nelle città del-
l'Impero.
Comunque, i pagani non erano l'unico nemico, e forse nem-
meno il principale. La minaccia più seria al potere monopolisti-
co veniva da altri cristiani, e soprattutto dai donatisti (Brown
1971; Frend 1984 e 1985; Johnson 1976; Tilley 1996).

La distruzione dei donatisti

Il 24 febbraio 303, l'imperatore Diocleziano lanciò un ultimo


tentativo da parte dell'impero romano di sopprimere il cristiane-
simo. Ordinò che in tutto l'impero venissero distrutte le chiese
cristiane, che tutti gli oggetti sacri come i tabernacoli fossero con-
fiscati, e che tutte le scritture cristiane fossero requisite o brucia-
te. Inoltre, rimosse tutti i cristiani dalle cariche pubbliche, e im-
pose severe limitazioni ai loro diritti legali. Quest'ultima perse-
cuzione, però, era destinata a fallire perché era basata sul pre-
supposto che il cristianesimo fosse un'organizzazione struttura-
ta dall'alto come i templi pagani, un'organizzazione che potesse
L4 VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 53

essere distrutta attraverso un attacco alla sua leadership o ai so-


stenitori appartenenti alle élite. Invece, per ogni capo religioso
imprigionato o giustiziato per aver rifiutato di adeguarsi, ce n'e-
rano moltissimi altri pronti a prenderne il posto, poiché il cri-
stianesimo, in quest'epoca pre-Costantino, era ancora un'orga-
nizzazione strutturata dal basso. Ciò nonostante, anche se un
certo numero di capi della Chiesa furono martirizzati, molti altri
non riuscirono a rimanere saldi.
Nel 305, con l'abdicazione di Diocleziano, la persecuzione eb-
be termine, e non sarebbe stata ripresa mai più. Tuttavia, le vi-
cende avevano lasciato un'eredità amara, soprattutto fra i cri-
stiani dell'Africa settentrionale. In questione era lo status di tra-
ditori2fra gli appartenenti al clero, uomini che non avevano man-
tenuto la fede ma avevano consegnato facilmente le proprie
scritture e gli oggetti sacri quando era stato chiesto loro. Per se-
coli, i racconti sul movimento donatista dipesero interamente da
fonti cattoliche, soprattutto da sant'Agostino (354-430), ma, nel-
la scorsa generazione, sono stati resi disponibili dei racconti do-
natisti a lungo tralasciati (si veda Tilley 1996). Questi documenti
hanno enormemente ampliato il significato del termine traditori.
Oltre a non riuscire a opporsi, parte del clero cristiano, compresi
alcuni vescovi, collaborò attivamente alla persecuzione degli al-
tri cristiani, evidentemente nel tentativo di guadagnarsi le prefe-
renze dello stato. Così, nel 304, Mensurio, vescovo romano cat-
tolico di Cartagine, mandò dei malviventi a picchiare e torturare
alcuni suoi fedeli che portavano cibo agli amici e parenti cristia-
ni imprigionati.
Dei cristiani più determinati denunciarono simili collabora-
zionisti come persone inadatte a mantenere le loro cariche, e di-
chiararono che tutti i sacramenti celebrati da questo clero erano
privi di validità. Ciò fece nascere due fazioni: coloro che voleva-
no sorvolare sulle «debolezze» commesse in epoca di persecu-
zione, e quelli che volevano assumere una visione più rigorosa
del dovere e della virtù cristiana; questi ultimi divennero noti col
termine di rigoristi. Quando a Cartagine venne nominato un al-
tro vescovo in sostituzione di Mensurio (che era morto), nel 311,
54 A GLORIA DI DIO

la protesta si accese per due motivi: il primo era che il successo-


re era stato eletto ancor prim a che i vescovi rigoristi potessero ar-
rivare per prendere parte all'elezione, e il secondo che, essendo
stato ordinato da un vescovo traditore, la nomina e la consacra-
zione del nuovo vescovo non erano valide. In seguito, sotto la
guida di Donato (?-355), che succeduto infine come vescovo di
Cartagine, il movimento di protesta si diffuse in tutto il Nord
Africa, guadagnando particolare forza nelle aree rurali e fra i po-
poli berberi degli altopiani.
I donatisti erano una setta classica. Sostenevano che il mar-
tirio, piuttosto che una minaccia da temere, fosse una benedi-
zione di Dio, poiché «la sofferenza era la via della salvezza»
(Frend 1984, p. 655). La loro era l'Unica Vera Chiesa, la cui es-
senza era la purezza, e non poteva esserci salvezza al di fuori
del marchio della purezza cristiana. L'appartenenza veniva
suggellata dal battesimo, ma il sacramento‫ ׳‬era valido solamen-
te se celebrato da una persona santa e pura, poiché nessuno
può ricevere la fede e la grazia da qualcuno che manca di fede,
e che è fuori dalla grazia. In breve, i battesimi, i matrimoni e i
riti funebri - tutti i sacramenti della Chiesa - non significavano
nulla se venivano celebrati da sacerdoti peccatori e dissoluti.
Come viene indicato nei documenti, gli standard di valutazio-
ne della virtù del clero si erano ampliati, andando ben al di là
della questione dei traditori. Quindi, affinché gli altri cristiani
potessero unirsi alla Vera Chiesa, dovevano essere ribattezzati
da un sacerdote degno. I cattolici a Roma non volevano nem-
meno sentirne parlare. Tutti i sacramenti celebrati da un sacer-
dote con un'ordinazione valida (vale a dire, concessa da un ve-
scovo) erano anch'essi validi, indipendentem ente dalla statura
morale di quel sacerdote o del vescovo che l'aveva ordinato.
Era irrilevante il fatto che sacerdote e vescovo potessero essere
condannati all'inferno. La validità stava nella carica, non nella
persona. Dunque, fu così che nacque un conflitto che fin d'allo-
ra continua a dividere i cristiani.
Alla fine, la disputa venne portata all'attenzione di Costanti-
no, il quale, nel 316, prese una decisione contraria ai donatisti e
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 55

favorevole alla Chiesa di Roma. A questo seguì un periodo di


blanda persecuzione, ma i donatisti resistettero e addirittura si
rafforzarono. Quindi, nel 347, l'imperatore Costante I si persua-
se a esiliare Donato e altri capi donatisti in Gallia, dove lo stesso
Donato morì. I leader sopravvissuti riuscirono a tornare nel 361,
durante il breve regno di Giuliano l'Apostata, al quale non im-
portava nulla delle dispute interne al cristianesimo dal momen-
to che s'impegnò, con vigore ma poco successo, a riportare in au-
ge il paganesimo. Una volta ristabilitesi in Nord Africa, i capi del
movimento donatista attrassero presto il sostegno delle masse, e
per i successivi trent'anni rappresentarono il gruppo cristiano di
maggioranza. Poi venne sant'Agostino (354-430).
Avendo rinunciato alla sua giovanile dedizione ai manichei,
divenuto romano cattolico, e nominato vescovo di Ippona, Ago-
stino divenne presto noto come il «martello dei donatisti» (John-
son 1976, p. 85). Dopo molti anni di dibattiti e polemiche, nel 412
iniziò questo «martellamento». Spinti da Agostino, alcuni fun-
zionari imperiali emanarono leggi severe che negavano i diritti
civili e religiosi ai donatisti e consentivano ai soldati di espeller-
li dalle città, non senza atrocità. Ciò nonostante, i donatisti non
si arresero mai; resistettero in molte città e aree rurali fino alla
conquista islamica del VII secolo.
È mia opinione che la particolare importanza del caso dei do-
natisti stia nel fatto che la situazione spinse stato e Chiesa, sotto
la guida di Agostino, a formulare una politica brutale in merito
al dissenso religioso. Agostino asseriva che tutti i concetti di li-
bertà di coscienza erano eresie, e che non c'era spazio alcuno per
le opinioni minoritarie. Dal momento che la Chiesa era la «vera
madre di tutti i cristiani», possedeva dei poteri disciplinatori, che
poteva usare per correggere la disobbedienza, da cui l'assoluto
diritto di rivolgersi all'autorità perché agisse contro tutte le for-
me di non conformità religiosa definite tali dalla Chiesa. «L'al-
lontanamento dall'ortodossia», quindi, era «un reato punibile
dallo stato», che aveva il dovere, conferitogli da Dio, di soppri-
mere gli eretici e gli scismatici alla pari dei criminali e dei ribelli
(in Frend 1984, p. 670).
56 A GLORIA DI DIO

Poco dopo l'applicazione di tali principi ai donatisti, Agostino


li diresse contro i pelagisti, un'altra setta cristiana nordafricana.
Ma poi, con la fine del V secolo sembrò finire anche la repressio-
ne delle eresie. Ufficialmente non vi fu alcun cambiamento nella
politica della Chiesa, ma vi furono secoli nei quali i tentativi d'im-
posizione di tali norme furono pochissimi, se non nessuno.

Debolezza e tolleranza

A partire dal VI secolo, e fino all'XI inoltrato, la Chiesa non in-


traprese alcuna azione nei confronti delle eresie. Molti storici
hanno visto in ciò una mancanza di eresie - vale a dire, secondo
costoro l'eresia «cessò d'esistere» praticamente per tutto quel
tempo (Lambert 1992, p. 25). Ma non fu così. Di eresie ce n'erano
tante, sia grandi che piccole. Per esempio, nel 325 il Concilio di
Nicea condannò come eresia l'arianesimo. Ciò nonostante, a par-
tire dall'inizio del V secolo e per i successivi cento anni, l'ariane-
simo prevalse in tutta la Spagna, in zone della Gallia meridiona-
le, e in gran parte dell'Italia. Molti papi decisero di inviare in
queste zone dei missionari. E nella stessa epoca, la Chiesa non fe-
ce quasi nulla in merito alla pratica manifesta del paganesimo in
vaste aree dell'Europa occidentale. Inoltre, alla volta del VI seco-
lo, il donatismo aveva riaffermato la propria presenza nel Nord
Africa, senza incontrare opposizione. A ciò si aggiungeva il fatto
che tutta la metà orientale dell'impero abbracciava diverse ere-
sie, fra le quali il monofisismo era ima delle principali. Eppure,
invece che muoversi per sopprimerle, Roma passò dei secoli in
futili tentativi di compromesso teologico. Infine, come documen-
teremo più avanti, in quest'epoca si formarono piccoli movi-
menti eretici intorno a figure carismatiche con nuove rivelazioni,
per non parlare dei potenziali scismi cronici che scuotevano la
Chiesa dall'interno.
Dunque, non fu la mancanza di eretici o scismatici a causare
l'evidente acquiescenza della Chiesa, ma la mancanza di potere.
Benché sembri che i tentativi di mantenere il monopolio religio­
LA VE IUTA DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 57

so si limitino ai monoteismi, questo fatto di per sé non è suffi-


dente, nemmeno quando una fazione religiosa detiene una mag-
gioranza schiacciante. Infatti, la capacità di un'organizzazione
religiosa di mantenere un monopolio dipende dal grado in cui lo
stato utilizza la forza coercitiva in suo nome. Quindi, la persecu-
zione delle non conformità religiose necessita sia di una motiva-
zione teologica, sia di sufficiente potere politico.
Raramente papi e vescovi ebbero un potere temporale prò-
prio, e più spesso si affidarono allo stato per mantenere il mono-
polio cattolico. Agostino non aveva avuto nessun soldato ai suoi
ordini; erano tutte forze imperiali. Ma in quest'epoca l'impero
era ormai scomparso, e con esso i poteri repressivi della Chiesa!
Non solo non c'era più uno stato dominante in grado di sradica-
re le eresie, ma Roma era diventata una città di provincia, lonta-
na dalla sede orientale del potere imperiale, e a una certa distan-
za dalla nuova capitale, Ravenna, governata da longobardi aria-
ni. Cosa ancora peggiore, la gran parte dei governanti che ave-
vano autorità sui numerosi frammenti dell'ex impero in Occi-
dente non erano nemmeno cristiani, figurarsi se potevano essere
sostenitori del papa. Erano i temutissimi «barbari». Ci sarebbero
voluti molti secoli per convertire la gran parte della nobiltà bar-
bara, e pare che la popolazione non sia mai stata effettivamente
cristianizzata. Infatti, per molto tempo i capi saggi della Chiesa
non pensarono neanche di opporsi in maniera forte alle pratiche
pagane. In una lettera datata 601 e conservata da Beda il Venera-
bile (Storia ecclesiastica I, 30), papa Gregorio Magno consigliava
così l'abate Mellito: «Sono giunto alla conclusione che i templi
degli idoli di quel popolo non devono essere assolutamente di-
strutti». Piuttosto, «devono essere distrutti soltanto gli idoli che
vi si trovano, ma i templi di per sé devono essere aspersi di ac-
qua benedetta» e utilizzati come luoghi sacri cristiani. Sovrap-
ponendo alle festività e ai luoghi sacri pagani un'interpretazione
cristiana, la Chiesa rese più facile il diventare cristiani - così fa-
cile che raramente si può parlare di vera conversione. In realtà,
secondo il comune uso pagano, la gente trattò il cristianesimo co-
me una «religione supplementare», e il cristianesimo popolare
58 A GLORIA DI DIO

che alla fine emerse nell'Europa settentrionale e occidentale era


imo strano amalgama che includeva moltissimi aspetti delle ce-
lebrazioni e delle credenze pagane, alcune delle quali cristianiz-
zate solo superficialmente, ma la gran parte non cristianizzata af-
fatto (Davies 1996; Jolly 1996; Milis 1998).
Oltre a non avere il sostegno dello stato, necessario per poter
imporre nuovamente il suo monopolio militante, in quest'epoca
la Chiesa non aveva nemmeno una sua unità interna. Profonda-
mente radicato nel monacheSimo in espansione, guadagnava
sempre più forza un movimento settario di riforma.

Le due «Chiese»

Fra i successi più impressionanti della Chiesa romana cattoli-


ca vi sono le numerose volte in cui è riuscita a incapsulare l'im-
pulso settario all'intem o della propria struttura istituzionale.
Chi era incline a una fede ad altissima intensità veniva di conti-
nuo incanalato all'interno degli ordini religiosi, e quindi messo
al servizio della Chiesa piuttosto che fatto diventare un suo op-
positore (Finke, Wittberg 2000; Stark, Bainbridge 1985). Nella sua
saggezza, la Chiesa ignorò le molte variazioni della dottrina e
dell'enfasi sostenute dai diversi ordini, variazioni che invece sa-
rebbero state aspramente rimproverate ai laici o anche al clero
normale. Eppure, benché inestimabile come mezzo per evitare la
nascita di sette, questa tattica fu anche una potente fonte di sfide
aU'unità interna della Chiesa. Infatti, la catena di eventi che vede
il suo culmine nelle riforme del XVI secolo iniziò più di un mil-
lennio prima, con i movimenti monastici che chiedevano la rifor-
ma della Chiesa.
Come conseguenza dell'intrusione di Costantino nell'ascesa
del cristianesimo, si svilupparono subito due «Chiese» abbastan-
za distinte. Le possiamo utilmente identificare come la Chiesa del
potere e la Chiesa della pietà. La prim a era il corpo centrale della
Chiesa, evolutosi in risposta all'immenso potere e all'enorme rie-
chezza concessa al clero da Costantino. La seconda, invece, per
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 59

molti aspetti sorse come reazione alla Chiesa del potere, essendo
formata da coloro i quali erano ancora dediti alla visione morale
del primo cristianesimo. La Chiesa della pietà avrebbe potuto es-
sere emarginata fino a diventare un'altra setta cristiana senza
successo, ma ciò non accadde a causa delle sue solide basi istitu-
zionali nel monacheSimo, il quale, a sua volta, era sostenuto
principalmente dalla nobiltà e dalle classi più elevate.
Il monacheSimo cristiano aveva le sue radici nell'ascetismo
ebraico e, probabilmente, nei sacerdoti pagani più ascetici. Ap-
parso inizialmente in Egitto, dove le comunità monastiche cri-
stiane esistevano già alla metà del III secolo, il monacheSimo si
espanse rapidamente dall'altra parte del Mediterraneo contem-
poraneamente alla «corsa» alle posizioni clericali da parte della
nobiltà (Fletcher 1997; H annah 1924; Hickey 1987; Johnson 1976;
King 1999; Knowles 1969; Mayr-Harting 1993; Smith 1892).
Giunti alla metà del IV secolo, i monaci e le monache cristiane
erano molte migliaia, e la maggioranza viveva in comunità orga-
nizzate. Naturalmente, coloro che vivevano ima vita ascetica si
sentivano spiritualmente superiori agli altri, così come ricono‫־‬
sceva la dottrina cattolica. Tuttavia, il loro antagonismo nei con-
fronti del normale clero e, soprattutto, della gerarchia ecclesiasti-
ca aveva una base diversa - non si trattava solamente del fatto
che quei religiosi non conducevano una vita ascetica, ma anche
che molti di loro avevano una vita assolutamente dissoluta. E
questa era una questione sulla quale non si poteva cedere. La
Chiesa della pietà tentò di continuo, nei successivi mille anni, di
riformare la Chiesa del potere.
Per certi aspetti, papa Gregorio Magno (540-604) fu una sorta
di primo protestante. Proveniente da una famiglia ecclesiastica,
fu comunque il primo monaco a sedere sul trono papale. E no-
nostante i molti problemi che dovette affrontare durante il suo
lungo papato, i suoi tentativi di riformare la Chiesa furono in-
cessanti. Le prime riforme si rivolsero alla vita monastica. All'i-
nizio del suo papato gli venne data una copia della Regola di san
Benedetto (480-547), e Gregorio Magno rimase talmente impres-
sionato dalle virtù e dal buon senso in essa contenuti da scrivere
60 A GLORIA DI DIO

ima biografia di Benedetto e impegnarsi duramente, e con note-


vole successo, per far sì che la sua Regola venisse adottata anche
dagli altri ordini, che proliferavano. Gregorio scrisse anche un
trattato sulla funzione del vescovo, Cura Pastorale, nel quale sot-
tolineava come i vescovi avrebbero dovuto essere uomini di ri-
flessione, immersi nello studio delle Scritture e governati dallo
spirito d'um iltà - «un ministro, non un padrone» (in Duffy 1997,
p. 52). L'opera era tanto virtuosa e sensibile quanto la Regola di
san Benedetto, ma quest'ultima era in totale conformità con lo
spirito della Chiesa della pietà, mentre le proposte di Gregorio
per i vescovi furono sminuite dalla Chiesa del potere, che le giù-
dico opinabili e irrealistiche (Duffy 1997; Southern 1970). Le stes-
se reazioni si sollevarono davanti ai tentativi da lui fatti di abolì-
re la simonia (la vendita delle cariche religiose), e la nomina di
monaci alle alte cariche religiose era accolta da un'ostilità soffo-
cata. Quindi, alla sua morte, «l'oltraggiato esprit de corps del eie-
ro romano e la sua preoccupazione per la carriera riaffermarono
se stessi», e il nuovo papa sostituì i monaci con il clero tradizio-
naie (Duffy 1997, p. 57).
A Gregorio seguirono alcuni papi che rafforzarono enorme-
mente la posizione politica del papato. Ma anche quei papi, che
a livello personale erano molto pii, prestarono poca attenzione
alle questioni da riformare, come la simonia e la moralità del eie-
ro. Di conseguenza, descrivere il clima morale della Chiesa del
potere, alla volta del IX secolo, con l'aggettivo «degenerato» sa-
rebbe una gentilezza. I papi erano nominati, corrotti e spesso uc-
cisi dalle grandi famiglie ecclesiastiche romane. N on esiste esem-
pio più famoso di «creazione di papi» di quello di Marozia, figlia
promiscua e dispotica del console Teofilatto. Sua madre era l'a-
mante di papa Giovanni X (914-928), che con la cospirazione di
Marozia venne strangolato e sostituito da papa Leone VI (928);
successivamente, la donna fece sostituire quest'ultimo con papa
Stefano VII (928-931). In gioventù, Marozia era stata l'am ante di
papa Sergio III (904-911) - che aveva assassinato papa Leone V
(903) per ottenere il trono papale -, dal quale ebbe un figlio ille-
gittimo che riuscì a far eleggere come papa Giovanni XI (931-
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 61

936). Ma anche dopo il lungo elenco di papi maroziani, le cose


non migliorarono affatto. Papa Giovanni XII (955-963) addirittu-
ra superò molti dei suoi predecessori in quanto a immoralità. Mi-
se insieme ima sorta di harem di giovani donne - e «alcuni lo ac-
cusarono di aver trasformato il Palazzo Laterano in un bordello»
(McBrien 2000, p. 157). Per di più, consacrò vescovo un bambino
di dieci anni, fece evirare un cardinale, e invocava a gran voce gli
Dei pagani quando giocava d'azzardo. Com'era appropriato,
morì o per mano di un marito furioso, o per un infarto mentre
giaceva con una donna sposata (Cheetham 1983; McBrien 2000).
Durante il «lungo» secolo intercorso fra Γ872 e il 1012, un terzo
dei papi morirono di morte violenta (Cheetham 1983; Duffy
1997). Nonostante gli incredibili eccessi di Giovanni XII, il clima
morale della Chiesa del potere raggiunse il suo nadir con l'asce-
sa al papato di Benedetto IX (1032-1044). Solamente ventenne, e
privo di ordinazione, succedette a due zii papi, venendo eletto in
seguito a ima generosissima campagna di corruzione, al che se-
guì lo «spettacolo del Papa che gozzovigliava e andava a prosti-
tute per Roma» mostrandosi «sfrontatamente e arrogantemente
dissoluto» (Cheetham 1983, p. 84). Alla fine, le cose peggioraro‫־‬
no a tal punto che persino l'aristocrazia romana non potè far fin‫־‬
ta di niente, e lo pagarono perché lasciasse la carica. Si noti bene
che la vita dissoluta non era peculiarità dei papi, e nemmeno del-
la gerarchia romana. A tutti i livelli, e ovunque, prosperava un
clero che aveva uno stile di vita di questo tipo. Molti parroci ave-
vano delle concubine, andavano in Chiesa ubriachi, oppure non
si presentavano nemmeno, e screditavano i loro incarichi in nu-
merosi altri modi. Certo, non tutti; ma forse la maggioranza (Pa-
stor 1898).
Dopo che Benedetto se ne andò dietro pagamento, fu eletto
papa Gregorio IV (1045-1046), che aveva una buona reputazione
in tema di devozione e sembrava determinato a portare avanti le
riforme. Il fatto di provenire da una famiglia ebraica non fu mai
un ostacolo per la sua carriera, e l'elezione venne accolta con
gioia dalle comunità monastiche (Cheetham 1983). Sfortunata-
mente, all'epoca non c'era altro modo per essere eletti, e quindi
62 A GLORIA DI DIO

anche lui pagò ricche tangenti. A quel punto, intervenne il re te-


desco Enrico III, e con lui si aprì un'era di turbolenti tentativi di
riformare la Chiesa.
Giunto in Italia, Enrico si rifiutò di farsi incoronare imperato-
re da un papa che aveva commesso il peccato di simonia. Con-
vocò un sinodo a Sutri, nel 1046, e papa Gregorio venne deposto.
Per condurre la sua campagna di riforma della Chiesa, nel 1049
Enrico nominò papa il cugino, Bruno, vescovo di Toul, e questi
con il nome di papa Leone IX (1049-1054), lottò contro i «mali»
della Chiesa. Dopo aver convocato un concilio a Rheims, chiese
che «vescovi e abati presenti dichiarassero singolarmente se ave-
vano pagato per ottenere la loro carica» (Cheetham 1983, p. 90).
Come conseguenza, alcuni fuggirono e furono scomunicati. Mol-
ti confessarono e vennero perdonati. Il punto successivo della
sua agenda riguardava la questione del celibato clericale: attaccò
senza sosta i sacerdoti dissoluti, in ogni occasione appropriata, e
riempì le più alte fila amministrative della Chiesa di monaci. Ma
l'innovazione forse ancora più radicale di questo papa fu la pre-
dicazione pubblica. Nei cinque anni del suo papato, viaggiò
sempre, predicando ovunque «con eloquenza a folle enormi»
(Cheetham 1983, p. 87). Così, durante il papato di Leone venne-
ro istituiti due importantissimi precedenti: il coinvolgimento del
potere secolare nella riforma della Chiesa e il rivolgersi alla gen-
te in merito a questioni spirituali.
La campagna di riforma di Leone venne proseguita dai papi
Vittore II (1055-1057) e Stefano IX (1057-1058), seguiti da papa
Nicola II (1058-1061), il quale intraprese una nuova, e pericolosa,
via di riforma. Riunito un sinodo a Palazzo Laterano nell'aprile
1059, Nicola ordinò ai fedeli di boicottare le Messe e gli altri sa-
cramenti celebrati da sacerdoti che avevano delle concubine e
che avevano comprato i loro incarichi. Il donatismo era rinato, e
non sarebbe mai più stato soppresso del tutto (Costen 1997;
Duffy 1997; McBrien 2000; Morris 1991).
A Nicola seguì Alessandro II (1061-1073), un altro potente
riformatore che continuò a combattere la simonia e a sostenere il
celibato dei sacerdoti; cercò anche di avviare ima «Crociata» per
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 63

cacciare i musulmani dalla Spagna. Questo suo tentativo, però,


ottenne poco sostegno dai cavalieri d'Europa, ma costituì co-
munque un importante precedente.
Poi venne Gregorio VII (1073-1085), nome scelto dal famoso
monaco attivista Ildebrando al momento dell'elezione al papa-
to. Egli ottenne un immenso trionfo imponendo l'autorità del
papato al di sopra di quella dello stato secolare, e poi gettò via
tutto osando troppo. Poco dopo essere diventato papa, Gregorio
iniziò a scontrarsi con il re Enrico IV sulla nomina dei vescovi
tedeschi. Essendo stato minacciato di scomunica, Enrico IV
riunì un sinodo di vescovi a Worms, dove si votò la deposizio-
ne di Gregorio, basata sull'accusa di rivolgersi «alle masse del
volgo», come Leone prim a di lui, affinché boicottassero i sacer-
doti non celibi o che avevano ottenuto il loro incarico tramite si-
monia. Enrico, poi, accusò il papa di aver «incitato i sottoposti
alla ribellione contro i propri prelati» e di aver dato «ai laici
un'autorità sui sacerdoti» - accuse essenzialmente fondate
(Duffy 1997, p. 96). Tuttavia, nonostante il timore nei confronti
di Gregorio, la gran parte dei vescovi non sostenne Enrico. Fu-
rono rinforzati nella loro lealtà a Roma quando la cattedrale di
Utrecht venne colpita da un fulmine, pochi istanti dopo che En-
rico, scomunicato, aveva partecipato alla Messa pasquale. In
più, molti dei principi tedeschi la vedevano come un'opportu-
nità per guadagnare una maggiore indipendenza, e così sosten-
nero il papa - proprio come molti dei loro discendenti avrebbe-
ro più avanti sostenuto Lutero in circostanze simili. A Enrico
non restava altro da fare che arrendersi, il che culminò con la fa-
mosa scena dell'imperatore scalzo nella neve al di fuori del ca-
stello sulle Alpi in cui risiedeva il papa, a supplicarne il perdo-
no. Nel concedere tale perdono, però, il papa fece infuriare i
principi tedeschi ribelli, che credettero di essere stati traditi.
Nella successiva guerra di potere, Gregorio scomunicò Enrico
un'altra volta. In questo caso, fu il papa a essere visto come col-
pevole: Enrico raccolse un forte sostegno e procedette a nomi-
nare un altro papa, che rivendicò per sé il trono papale. Alla fi-
ne, prevalse Roma, ma con un'im m ensa perdita di prestigio.
64 A GLORIA DI DIO

Nonostante tutto questo, i risultati più significativi del papato


di Gregorio non sono quelli che rientrano nella sfera politica o in
quella secolare, quanto piuttosto i suoi vigorosi tentativi di spo-
stare l'ago della bilancia dalla Chiesa del potere alla Chiesa della
pietà. Le sue lettere erano piene di implacabili richieste di riforma.
Di un vescovo scrisse che «aveva apertamente tollerato nel suo
clero delle cose oltremodo ripugnanti rispetto ai nostri ordini [...]
che coloro che avevano donne potevano tenerle e coloro che non
ne avevano potevano commettere l'illecito affronto di prenderne».
In altre lettere attaccò la simonia, decretando che «coloro che ot-
tengono delle chiese tramite il dono di denaro devono assoluta-
mente rinunciarvi». E, benché non si rifacesse in modo diretto al
concetto che i sacramenti amministrati da un clero dissoluto fos-
sero privi di validità, chiedeva che a questi sacerdoti venisse proi-
bito di celebrarli. In ima lettera scrisse che i sacerdoti «che persi-
stono nella fornicazione non devono celebrare la messa, ma van-
no cacciati dal coro». In un'altra tuonò: «Né i colpevoli del crimi-
ne della fornicazione possono celebrare messa od officiare presso
l'altare» (tutte citazioni tratte da Moore 1994, pp. 54-55).
Gregorio era un monaco, come il suo successore, papa Vitto-
re ΠΙ (1086-1087), che era stato abate di Montecassino. A Vittore
seguì un altro monaco, papa Urbano II (1088-1099), al quale sue-
cedette un altro monaco ancora, Pasquale II (1099-1118). Ovvia-
mente, in questo periodo, l'influenza monastica si estendeva ben
oltre Roma dal momento che un vasto numero di cardinali e ve-
scovi provenivano dalla vita monastica. E questi uomini zelanti
tentarono niente meno che ima riforma. Ironia della sorte, facen-
dolo, avviarono una nuova era di movimenti eretici di massa.
Ma prim a di esaminare questi sviluppi, dobbiamo fare un passo
indietro.

Lassismo e tolleranza

In precedenza ho osservato come la Chiesa si sia trattenuta,


per un lungo periodo, dall'intraprendere azioni significative
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 65

contro l'eresia, non per mancanza di target adatti, ma per insuf-


ficienza di potere. Qui è appropriato sottolineare che in gioco c'e-
ra anche un altro fattore: il lassismo. Per secoli, prim a dell'asce-
sa di Leone IX, la Chiesa fu piuttosto permissiva. Benché anche
la gerarchia più tollerante agisca per proteggere il proprio potè-
re ogni qual volta abbia gli strumenti per farlo, in questo caso, il
clero non si curava delle questioni religiose, come veniva rispec-
chiato dalla mancanza di rispetto per gli standard religiosi nel
comportamento personale. Dunque, possiamo dire che solita-
mente ima chiesa di monopolio tollera la non conformità religiosa
qualora essa non venga percepita come minaccia istituzionale. Una mi-
naccia istituzionale implica la potenziale riduzione 0 eliminazione
del potere di un gruppo religioso. In linea con questo principio,
per molti secoli la Chiesa ha tollerato non conformisti non mi-
nacciosi in tal senso, come gli ebrei e i cristiani eretici.
Molti storici hanno osservato che i rapporti fra cristiani ed
ebrei dal V secolo alla fine dell'XI furono, come disse l'illustre
Robert Chazan, «tranquilli». Egli spiegò che, nonostante la pre-
valenza di credenze e pratiche antisemite, «rimane il fatto es-
senziale [...] che agli ebrei veniva permesso di esistere all'inter-
no della società cristiana e di adempiere ai loro obblighi religio-
si di ebrei» (Chazan 1986, p. 29). Anche Léon Poliakov, uno dei
più illustri storici deH'antisemitismo, scrisse della «condizione
favorevole degli ebrei» durante quest'epoca: «Re, nobili e ve-
scovi garantirono agli ebrei ampia autonomia: così, loro ammi-
nistravano le proprie comunità e vivevano secondo le proprie
leggi» (Poliakov 1965, p. 35). Nella stessa epoca, la Chiesa fu
sorprendentemente tollerante anche con ovvi casi di eresia che
avrebbero potuto essere risolti con facilità. Per esempio, nell'-
Vili secolo, un certo Adalberto attirò a sé folle enormi viaggian-
do per la Francia settentrionale, proclamandosi santo e distri-
buendo capelli e pezzetti di unghie ai suoi seguaci. Era così po-
polare che, dopo che il vescovo di Soissons gli proibì di predi-
care nelle chiese, egli innalzò croci nelle campagne e predicò al-
la loro ombra davanti a grandi folle. Come riferisce Jeffrey Bur-
ton Russell (1965, p. 103), alla fine i suoi seguaci gli costruirono
66 Λ GLORIA DI DIO

delle chiese, «così che si può dire che il sostegno del popolo nei
suoi confronti doveva essere ampio ed entusiasta». Parte della
capacità di attrazione di Adalberto stava nelle sue idee e nei
comportamenti riformisti. Vestiva e viveva in modo umile, e at-
taccava l'autorità del papa. Dopo averlo ignorato per molto
tempo, la Chiesa condannò le sue attività in un sinodo condotto
da san Bonifacio nel 744. Ma Adalberto continuò il suo ministe-
ro. Quindi, l'anno successivo, si tenne un altro concilio nel qua-
le egli fu ufficialmente dichiarato eretico. Ma nemmeno questo
funzionò. Si riunì allora un altro sinodo, questa volta a Roma,
nel Palazzo Laterano, e san Bonifacio chiese che Adalberto fos-
se anatemizzato e scomunicato, e che i suoi scritti venissero con-
segnati alle fiamme. Il papa, però, assunse una posizione più in-
dulgente, e ordinò addirittura che i suoi scritti fossero posti ne-
gli archivi papali e non bruciati. Ciò nonostante, Adalberto
tornò dai suoi seguaci. Ancora, il papa consigliò moderazione e
suggerì un nuovo concilio. Non ci sono documentazioni in me-
rito a una effettiva riunione di tale concilio, né ulteriori menzio-
ni di Adalberto (Brooke 1971; Costen 1997; Lambert 1992; Moo-
re 1994; Russell 1965).
Date le dimensioni del seguito di Adalberto, le sue rivendica-
zioni estreme, e i suoi attacchi alla Chiesa, la cosa rilevante non
è il fatto che la Chiesa abbia risposto, ma che abbia rimandato la
sua reazione per così tanto tempo, per poi fare così poco. Il che
mi fa essere certo del fatto che molti altri dissidenti meno im-
portanti siano stati completamente ignorati, dalla Chiesa come
poi anche dagli storici.
Un secolo dopo Adalberto, gli storici trovano traccia di una
donna di nome Teuda, la quale attrasse molti seguaci sostenendo
di essere depositaria di rivelazioni speciali ricevute da Dio, fra le
quali la data della Seconda Venuta. La sua capacità di attrazione
non si limitò alla gente comune, al punto che «sembra che anche
alcuni uomini degli ordini sacri abbandonarono i loro posti per
seguirla» (Russell 1965, p. 108). Alla fine, anche lei provocò una
risposta ufficiale: le fu proibito di predicare e forse venne frusta-
ta. Alcuni secoli dopo, però, sarebbe stata destinata al rogo.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 67

La Chiesa prestò così poca attenzione ad Adalberto e Teuda


per così tanto tempo perché non erano percepiti come una mi-
naccia tale da meritare uno sforzo di soppressione. Come disse
Malcolm Lambert, durante questo periodo «le esplosioni di dis-
sidenza dottrinale venivano trattate con mitezza da parte della
autorità, presumibilmente perché non rappresentavano delle sfi-
de significative alla Chiesa» (Lambert 1992, p. 25).
Tuttavia, anche delle istituzioni ecclesiastiche estremamente
permissive possono essere scosse e spinte all'azione da serie mi-
nacce al loro monopolio. Se, 0 quando, nascono simili minacce, sarà
negata 0 tolta la tolleranza anche a gruppi religiosi non minacciosi
ma comunque non conformi. E questo è esattamente ciò che ac-
cadde alla fine dell'XI secolo, con il risultato che scoppiarono
violenti attacchi contro gli ebrei, principalmente nelle regioni
germaniche lungo il Reno, nello stesso momento in cui le forze
della «riforma» aH'interno della Chiesa sollevavano la gente con-
tro i non conformisti all'interno del clero. L'evento scatenante fu
il confronto con l'importantissima sfida religiosa intrinseca alle
Crociate.

Le Crociate e la riforma

Nel 1096, bande predatorie di soldati, che andavano riunen-


dosi per prendere parte alla Prima crociata, attaccarono gli ebrei
città dopo città, lungo la valle del Reno. A Spira (Speyer), il ve-
scovo locale salvò la gran parte degli ebrei accogliendoli nel suo
palazzo. Quando il vescovo di Worms tentò di fare lo stesso, i sol-
dati irruppero e assassinarono cinquecento ebrei. Lo stesso sche-
ma si ripetè la settimana dopo a Magonza. L'arcivescovo tentò di
proteggere gli ebrei, ma fu costretto a fuggire dalla città per met-
tersi in salvo, e così morì un altro migliaio di ebrei. Poi toccò a Co-
Ionia, dove gli antisemiti erano stati ostacolati poche settimane
prima, quando il vescovo aveva protetto gli ebrei. Questa volta, il
vescovo aveva nascosto gli ebrei locali nei villaggi vicini, ma fu-
rono traditi, e massacrati a centinaia. Avendo imparato da questa
68 A GLORIA DI DIO

esperienza, questi soldati predatori spostarono la loro attenzione


su comunità più piccole, senza un vescovo residente, e riuscirono
così a uccidere molte migliaia di ebrei senza incontrare nessuna
opposizione ecclesiastica. In tutto, nel corso di molti mesi, furono
uccisi forse cinquemila ebrei da uomini che si stavano preparan-
do a marciare verso la Terra Santa (Stark 2009).
Tutti gli storici che si occupano del Medioevo sanno che le
Crociate innescarono un'ondata di massacri antisemiti, ma non
si sono mai chiesti il motivo. Molti sembrano ritenere che si trat-
tasse solamente di un leggero incremento del normale livello di
violenza antisemita e lo attribuiscono alla «paura della guerra».
Gli storici che sanno che tali attacchi giunsero alla fine di «secoli
tranquilli» hanno mostrato un po' più di curiosità. Così, Robert
Chazan capì che la politica medievale del «tollerare gli ebrei era
forse possibile» in «momenti tranquilli», ma che tale tolleranza
«era pronta a disintegrarsi» durante «i periodi di agitazione e
tensione» (Chazan 1986, p. 29). Eppure, e sono certo lo capisse
anche Chazan, c'erano stati molti periodi di agitazione e stress
durante i precedenti cinque secoli, ma nessuno di questi aveva
spinto la gente a iniziare a massacrare gli ebrei. Perché?
Il motivo è che, essendo sorta una minaccia religiosa rilevan-
te al punto da far sì che l'Europa cristiana muovesse guerra all'i-
slam, venne negata la tolleranza anche alle non conformità poco
pericolose. Come disse un abate francese, «che senso ha andare
alla fine del mondo con grandi perdite di uomini e denari, a com-
battere i saraceni, quando poi permettiamo che stiano in mezzo
a noi altri infedeli, mille volte più colpevoli verso Cristo dei fe-
deli di Maometto?» (in Poliakov 1965, p. 48).
Durante i secoli successivi, grandi eserciti europei marciaro-
no ripetutam ente per andare a combattere per la Terra Santa,
oppure per difenderla, dai «nemici di Cristo». Inoltre, proprio
mentre questo immenso e lungo confronto armato si surriscal-
dava, anche i musulmani iniziarono a massacrare gli ebrei, sia in
Spagna che in Palestina. Gli storici occidentali, soprattutto gli
autori dei manuali, hanno am piam ente trattato le vicende del
1492, lo stesso anno del prim o viaggio di Colombo, quando
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 69

Ferdinando e Isabella costrinsero tutti gli ebrei a lasciare la Spa-


gna nell'arco di tre mesi a meno che non si convertissero al cri-
stianesimo. Quasi senza eccezione alcuna, questi stessi autori,
però, non riportano il fatto che ciò significava solo imporre
nuovam ente un editto musulm ano del 1148, volto a espellere
tutti gli ebrei dalla Spagna, pena la morte, a meno che non ab-
bracciassero l'islam. Infatti, in due occasioni, verso la fine del-
l'XI secolo, migliaia di ebrei vennero massacrati dai musulm a-
ni a Granada, e rapidam ente le stragi antisemite si verificarono
di frequente anche in Marocco.
In Un Unico Vero Dio, ho esaminato tutti i casi noti di attacchi
mortali contro gli ebrei nell'Europa occidentale (e nell'islam), co-
minciando da quelli che furono un'immediata risposta alla Prima
crociata, e terminando con gli episodi che furono collaterali alle
Guerre di religione. I tempi e i luoghi di questi episodi sono eoe-
renti con la mia teoria in merito alla cessazione della tolleranza.
Non fu solamente la tranquillità della vita ebraica ad andare
incontro a ima fine improvvisa nel 1096. Finì anche la tolleranza
nei confronti delle eresie. L'incredibile ironia della sorte è che la
campagna iniziale era contro gli eretici all'interno della Chiesa,
culmine logico dei vigorosi tentativi fatti da una serie successiva
di papi riformisti. E, in effetti, fu questa la prima grande «rifor-
ma» cristiana (Constable 1996).
Le Crociate vennero combattute da volontari. Il tutto ebbe ini-
zio quando papa Urbano II, monaco eloquente, si rivolse a una
folla immensa radunatasi in un terreno fuori dalla città francese
di Clermont il 27 novembre 1095. Arrabbiato per le recenti per-
secuzioni musulmane di pellegrini cristiani in terra Santa, il pa-
pa sfidò così i suoi turbolenti e litigiosi ascoltatori: «Se è il san-
gue che volete, bagnatevi nel sangue degli infedeli [...]. Soldati
dell'inferno, diventate soldati del Dio vivente!». In risposta, la
folla iniziò a gridare «Dieu li volt!» (Dio lo vuole!), al che il Papa
alzò il suo crocifisso e tuonò:

È Cristo stesso che esce dalla tomba e vi presenta questa croce [...].
Indossatela sulle vostre spalle e sui vostri petti. Fate che risplenda
70 A GLORIA DI DIO

sulle vostre armi e sui vostri vessilli. Sarà per voi certezza di vitto-
ria o trionfo del martirio. Vi ricorderà sempre più che Cristo è mor-
to per voi, e che è vostro dovere morire per lui! (In Payne, p. 35)

Così, la gente iniziò subito a tagliare i propri mantelli e altri


pezzi di stoffa per farne delle croci da cucire su spalle e petti. Tut-
ti concordarono che la primavera seguente avrebbero marciato
su Gerusalemme. E così fecero.
Tuttavia, anche se in migliaia sentirono parlare il Papa, furo-
no molti meno a sostenere la Prima crociata - non solo serviva-
no più uomini, ma l'impresa si sarebbe dimostrata anche estre-
mamente costosa. Quindi, il Papa iniziò una campagna di predi-
cazione. Migliaia di predicatori diffusero il suo messaggio
(Maier 1994). Recandosi in ogni piccolo villaggio, paese e città,
predicarono il dovere di servire la causa della liberazione della
Terra Santa, e di contribuire a finanziarla. E, proprio come aveva
fatto il Papa, fecero di più: sottolinearono il male del non credere -
«bagnatevi nel sangue degli infedeli», aveva tuonato il Papa da-
vanti alle migliaia di persone raccolte a Clermont. «Uccidete i
non credenti» e «Vendicate Cristo», gli fecero eco coloro che pre-
dicarono le Crociate in tutta l'Europa cristiana (Maier 1994).
Questi predicatori (e coloro che si dedicarono alla predicazio-
ne delle Crociate successive) non venivano reclutati fra il clero
lassista e mondano così tipico della Chiesa di quell'epoca, ma in
grandissima maggioranza erano devotissimi membri degli ordini
religiosi (King 1999; Lambert 1992; Maier 1994; Moore 1994 e
1995). E più tuonavano contro l'infedele, più iniziavano a indù-
dere fra gli infedeli tutti i devoti a Cristo in modo insufficiente -
compresi sacerdoti e vescovi indegni! Proprio come qualcuno
aveva osservato che non avesse molto senso marciare fino alla
Terra Santa per liberare il mondo dagli infedeli lasciando dietro
di sé intere comunità di ebrei, così anche i promotori di questo ri-
sveglio religioso e delle Crociate iniziarono a denunciare gli infe-
deli in seno alla Chiesa. All'inizio, non si trattava della predica-
zione di una sorta di setta dissidente, ma l'esortazione di uomini
profondamente devoti all'ortodossia cattolica. In effetti, i più in­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 71

fluenti fra loro erano stati scelti specificatamente da papa Urbano


II per predicare a favore delle Crociate. Roberto d'Abrissel, Vita-
le di Mortain e Bernardo di Tiron avevano lasciato delle carriere
ecclesiali di successo per vivere da asceti nella foresta di Craon.
All'invito del Papa, ognuno di loro uscì dall'isolamento per pre-
dicare la Prima crociata, ma presto tutti volsero la loro attenzione
alla denuncia dei peccati del clero. Questi tre uomini, presto rag-
giunti da molti altri, viaggiarono di luogo in luogo per anni, pre-
dicando contro i peccati del clero più che a sostegno delle Crocia-
te, e senza mai esitare nel denunciare i sacerdoti locali dissoluti.
In effetti, il Papa aveva dato loro specifiche istruzioni di «denun-
ciare i due grandi nemici, la simonia e la lussuria clericale. E loro
lo fecero con vigore, in maniera pubblica, e con le usuali ambiva-
lenti conseguenze» (Moore 1994, p. 85). Il clero locale, persino i
vescovi, tentarono ripetutamente di fermarli poiché, come so-
stenne Marbodo di Rennes, «la rivelazione dei peccati degli uo-
mini di chiesa alla gente comune significherebbe "non predicare
ma minare"» (Moore 1994, p. 85). Nonostante la rabbia che prò-
vocarono nel clero, non solo questi tre monaci sopravvissero, ma
ognuno di loro divenne il fondatore di un ordine monastico. Ep-
pure, devono essere giunti alla fine dei loro giorni sapendo bene
di non essere riusciti a sradicare nemmeno la maggior parte dei
peggiori peccatori all'intemo del clero. Ma ormai c'erano altre
centinaia, forse migliaia, di uomini che predicavano ima riforma
- anche se presto avrebbero perso la libertà di farlo.
In totale conformità con le precedenti proposte papali di boi-
cottare i sacerdoti dissoluti, i riformatori iniziarono a sostenere la
vecchia posizione donatista, secondo cui i sacramenti non hanno
alcun valore se ricevuti da sacerdoti indegni. Per esempio, aven-
do lanciato l'accusa per cui «molti appartenenti al clero sono ipo-
criti» e che persino molti monaci pregano a lungo e ad alta voce
per impressionare gli altri, Roberto d'Abrissel spiegò che «Dio
presta attenzione non alle parole, ma al cuore della persona che
prega» (Constable 1996, p. 34). Coloro che si impegnavano a se-
guire le orme di Cristo, e coloro che si riunivano per sentirli pre-
dicare, non erano affatto soddisfatti dai cavilli in merito alla va­
72 A GLORIA DI DIO

lidità dei sacramenti basati sulla carica e non sul carattere. Sem-
pre più, la gente iniziò a chiedere, come si può essere assolti dai
peccati da un libertino falso, venale e condannato aH'infemo? Ec-
co che «riforma ed eresia erano gemelle» (Lambert 1992, p. 390).
La trasformazione della riforma in eresia è ben illustrata dalla
carriera del Monaco Enrico, a volte noto come Petrobrusiano, e Ar-
naldo da Brescia (Brooke 1971; Cheetham 1983; Costen 1997; Lam-
bert 1992; Moore 1994; Russell 1965). Enrico, ordinato sacerdote e
monaco, fa la sua comparsa a Le Mans nel 1116, dove inizialmen-
te fu bene accolto dal vescovo locale. Predicava un messaggio
molto simile a quello di Roberto d'Abrissel, con attacchi al clero
dissoluto ed esortazioni a maggiori sforzi nei confronti dei pove-
ri. Però, la predicazione di Enrico fece molto più che incitare l'en-
tusiasmo locale: il suo messaggio spinse la gente a rivoltarsi con-
tro il clero. Le Gesta pontificum cenomannesium riferiscono che «il
suo discorso [...] fece rivoltare la gente contro il clero con una fu-
ria tale che le persone si rifiutavano di vendere loro qualsiasi cosa
volessero comprare, e li trattavano come gentili o pubblicani. Non
contenti di aver demolito le loro case e gettato via tutti i loro ave-
ri, li lapidarono e li misero alla berlina» (in Moore 1994, p. 88).
Essendo stato richiamato urgentemente in sede, il vescovo
espulse Enrico dalla regione, ma dovette ricorrere alla forza per
riguadagnare il controllo sulla sollevazione anticlericale. In se-
guito, Enrico predicò con grande effetto in una regione che an-
dava da Bordeaux a Losanna, e con il passare del tempo divenne
sempre più radicale. Presto iniziò a dire che la Chiesa non era ne-
cessarla, e che ogni individuo doveva forgiare da sé il proprio
rapporto con Dio - anticipando così Lutero di quattro secoli. Al-
la fine, si stabilì a Tolosa, dove pare avesse ricevuto protezione
da parte delle autorità civili locali. Nel 1145, papa Eugenio III
(1145-1153) mandò a Tolosa san Bernardo di Chiaravalle e altri
due vescovi per predicare contro il Monaco Enrico. Come risul-
tato, questi venne imprigionato dal vescovo di Tolosa, e nulla
più si conosce del suo destino.
Diversamente, il destino di Arnaldo di Brescia è ben noto. Na-
to in una famiglia della nobiltà minore, anche lui era un eccle­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 73

siastico che si era guadagnato ima certa fama per l'eloquenza e


la veemenza con cui attaccava la mondanità e invocava la rifor-
ma. Alla fine, venne cacciato da Roma da papa Innocenzo Π, il
che semplicemente lo rese più radicale e frustrato dal fatto che la
retorica della riforma sembrasse così inefficace. Al suo ritorno a
Roma, le sue richieste che il clero conducesse una vita di assolu-
ta castità e miseria e gli attacchi contro i peccati del papato di-
vennero così popolari che i cittadini riuscirono a cacciare dalla
città papa Eugenio III. Con il sostegno militare, il Papa riuscì a ri-
tornarvi nel 1150, ma venne cacciato nuovamente. L'elezione di
papa Adriano IV (1154-1159) fu la condanna di Arnaldo. Il nuo-
vo Papa utilizzò il suo potere di interdizione per negare tutti i sa-
cramenti alla gente di Roma. Il Senato si arrese e ritirò il sostegno
ad Arnaldo; nel 1155 egli fu «impiccato, arso al rogo e le sue ce-
neri gettate nel Tevere» (Cheetham 1983, p. 114).
Così si conclude l'era che Giles Constable definì «Riforma del
XII secolo». Nonostante il fallimento della riforma, vi furono due
conseguenze significative. La prim a fu che la precedente genera-
le tolleranza nei confronti della non conformità cristiana fu an-
nullata. Gli attacchi al clero «peccatore» generarono contrattac-
chi ai religiosi «eretici» poiché quest'ultimi ormai rappresenta-
vano ima grave minaccia istituzionale alla gerarchia ufficiale. Ma
fu la seconda conseguenza a cambiare la storia nel vero senso
della parola, poiché tutta questa agitazione pubblica in merito alla
riforma, e il fallimento di una vera riforma, generarono dei po-
tenti movimenti di massa dissenzienti.

Il settarismo prolifera

L'ottimismo che aveva sostenuto i primi riformatori, come


Roberto d'Abrissel, svanì rapidamente quando la Chiesa del po-
tere iniziò a perseguitare riformatori ed eretici. Ciò coincise con
la fine dell'era dei papi monaci, i quali, nonostante gli strenui e
consistenti tentativi di riforma durati più di un secolo, lasciaro-
no una Chiesa non molto dissimile da quella che precedette il pa­
74 A GLORIA DI DIO

pato di Leone IX. Magari per un po' di tempo il pessimo com-


portamento papale vide ima moderazione, ma la pratica della si-
monia rimaneva forte, così come le mancanze morali del clero lo-
cale e più visibile. Con l'ascesa al trono papale di Clemente ΠΙ
(1187-1191), ancora una volta la nobiltà romana riprese il con-
trollo; la Chiesa del potere era ancora intatta. E infatti, la famiglia
aristocratica di Clemente ebbe il controllo del papato anche nel-
le generazioni successive. Suo nipote divenne papa Innocenzo III
(1198-1216), e lanciò la brutale campagna di soppressione dei ca-
tari. Il nipote di Innocenzo, a sua volta, divenne papa Gregorio
IX (1227-1241), e il pronipote fu papa Alessandro IV (1254-1261).
Comunque, la domanda d'intensità religiosa e di concomi-
tante attenzione alla purezza non si dissipò davanti al fallimen-
to. Se questo tipo di forze non trovano uno sbocco appropriato
all'interno di una data organizzazione religiosa, danno vita a
nuove organizzazioni. Quando questo accade in un contesto di
tentativi d'imposizione di un monopolio religioso, nascono con-
flitti violenti. E fu esattamente ciò che avvenne.

I catari
I catari furono il primo grande movimento «eretico» di massa
a diffondersi quando i tentativi di riforma della Chiesa vennero
sconfitti, benché non fossero un risultato diretto del loro falli-
mento (Barber 2000; Brook 1971; Costen 1997; Lambert 1992 e
1998; Moore 1994; O'Shea 2000; Russell 1965). Infatti, nacquero
come movimento settario esterno e, fin dall'inizio, «costituirono
una sfida diretta e avventata alla Chiesa cattolica, che rifiutava-
no nettamente in quanto Chiesa di Satana» (Lambert 1998, p. 21).
Resta il fatto, comunque, che la rapida crescita dei catari può es-
sere ascritta allo stesso malcontento nei confronti della Chiesa,
generale e diffuso, che aveva avuto un così grande impatto nelle
missioni di Arnaldo ed Enrico.
I catari abbracciavano un dualismo quasi simmetrico. Esisto-
no due Dei, uno buono e uno cattivo. La prova dell'esperienza
umana dimostra per certo che il Dio del Bene non ha alcun coin-
volgimento con il mondo materiale, poiché esso è tragico, bruta­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 75

le e perverso. Dunque, è stato il Dio del Male a creare il mondo,


e lo governa, nonostante il fatto che sia un angelo caduto meno
potente del Dio del Bene. I catari insegnavano anche che il crea-
tore di questo mondo corrotto, il Dio del Male, è il Dio dell'An-
tico Testamento, e il mondo materiale, essendo stato creato dal
male tramite il male, non ha in sé assolutamente nulla di buono;
come spiegava Matteo (7,18), «un albero cattivo [non può prò-
durre] frutti buoni». Ciò significava anche che Cristo non era fat-
to di carne e sangue umani, poiché difficilmente il Dio del Bene
lo avrebbe immerso in una sostanza satanica. Piuttosto, Cristo
era un «angelo mandato da Dio con il messaggio della salvezza
che avrebbe liberato le anime intrappolate dai cicli del mondo.
La sua morte, quindi, non era stata una vera morte, né la Risur-
rezione era stata una vera risurrezione» (Costen 1997, p. 65). Per
giungere alla salvezza, si devono respingere i mali di questo
mondo e stabilire un giusto rapporto con il Dio del Bene.
Il catarismo prevedeva due gradi di appartenenza. I perfecti
si dedicavano a eroici tentativi di rinuncia del mondo, il che si-
gnificava nessun rapporto sessuale, niente carne, uova o prò-
dotti a base di latte, nessuna forma di giuramento, e l'assoluta
proibizione di combattere o uccidere, non solamente gli esseri
umani, ma anche gli animali. Diversamente, i cornimi apparte-
nenti al movimento «rimanevano nel mondo, si sposavano,
avevano figli e m angiavano carne», ed erano piuttosto prepa-
rati a combattere, uccidere e morire per la loro fede (Lambert
1998, p. 21). I perfecti non erano dei sacerdoti, ma semplice-
mente dei membri più progrediti nella loro ricerca di santità;
solo i perfecti, però, erano eleggibili alla carica di vescovo. Non
avendo sacerdoti, i catari non riconoscevano nemmeno i sacra-
menti, a eccezione del battesimo, che veniva celebrato senz'ac-
qua, tram ite la sola imposizione delle mani. Di grande impor-
tanza era la dottrina secondo cui stava a ogni credente costruì-
re il proprio rapporto con il Dio del Bene attraverso la preghie-
ra, una dottrina essenzialmente «luterana». Come vedremo,
un'altra similarità con il luteranesimo fu il sostegno dato ai ca-
tari dalla nobiltà locale.
76 A GLORIA DI DIO

Nessuno sa con esattezza quando il catarismo ebbe origine.


Le prime informazioni che abbiamo sul movimento vengono da
Colonia e sono datate 1143, epoca in cui avevano già un loro ve-
scovo locale e un significativo numero di aderenti, benché a noi
sconosciuto (Lambert 1992, p. 55). Queste informazioni erano
contenute in ima lettera scritta da un priore locale a san Bemar-
do di Chiaravalle intorno al 1144, in occasione della denuncia dei
catari all'arcivescovo di Colonia (il testo completo si può trovare
in Russell 1971, pp. 60-68). Durante la sua audizione, il vescovo
cataro e il suo assistente ammisero con franchezza d'insegnare
che la loro era l'unica vera Chiesa poiché solo loro seguivano l'e-
sempio di Cristo e degli apostoli che avevano abbracciato una
santa povertà. Prima che l'arcivescovo potesse intraprendere
una qualsiasi azione - e non è affatto chiaro ciò che avrebbe fat-
to - i due leader catari vennero presi dalla folla e mandati al ro-
go, e sopportarono «il tormento del fuoco, non solo con pazien-
za, ma con gioia e gratitudine», ci dice la lettera a san Bernardo.
Vent'anni dopo, altri cinque catari furono denunciati dai loro vi-
cini a Colonia, condannati per eresia e mandati al rogo, così co-
me un gruppo di catari scoperti a Metz, dove «avevano vissuto
tranquillamente per del tempo e dove avevano addirittura un
luogo di sepoltura solo per loro» (Lambert 1998, p. 20). Nel frat-
tempo, nel 1156, un gruppo di circa trenta catari era stato sco-
perto in Inghilterra; dopo essere stati giudicati eretici da un tri-
bunale di vescovi, furono condannati da Enrico II a «essere mar-
chiati, spogliati di tutto e cacciati dalla città» (Brooke e Brooke
1984, pp. 99-100).
Benché queste prime tracce storiche dei catari si concentrino
in Renania, il centro del movimento era nella regione della Lin-
guadoca, nella Francia meridionale, dove erano noti con il nome
di albigesi (poiché la loro sede principale era nella città di Albi).
Lì, diversamente da quanto accadeva in Renania e in Inghilterra,
non erano alla mercé delle folle o degli arcivescovi, perché il mo-
vimento era divenuto molto potente (addirittura dominante),
aveva un'influenza religiosa locale forte, e aveva attratto molti
religiosi cattolici e forse la maggioranza della nobiltà del luogo.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 77

Infatti, la nobiltà svolse un ruolo preminente non solo nella fon-


dazione di monasteri e conventi catari nella Linguadoca, ma an-
che nel numero di devoti perfecti.
C'è un dibattito accademico animato sull'origine dell'estremo
dualismo cataro, ci sono alcuni che sostengono sia un'invenzio-
ne di questa setta, e altri che affermano si tratti di un'importa-
zione orientale, con radici nel movimento dei bogomili, sorto in
Bulgaria nel X secolo. Pur ammirando l'erudizione mostrata da
entrambe le parti, confesso di essere meno interessato alla prò-
venienza delle loro idee rispetto al loro esito. E le idee catare si
diffusero in tutta la Linguadoca, attirando un seguito molto va-
sto e devoto. E impossibile stabilire le percentuali degli aderenti
nella regione, ma è chiaro che c'era «un forte sentimento mag-
gioritario a favore dei catari» (Lambert 1998, p. 154). Per di più,
i catari non si rivolgevano solamente a contadini e artigiani, ma
reclutarono fra le loro fila anche ricchi abitanti delle città, clero
cattolico e, come abbiamo detto, nobili.
Un fattore importante nel sostegno dato al movimento dalla
nobiltà fu il governo estremamente frammentato della regione.
Proprio come Lutero fu sostenuto da un insieme di principi te-
deschi, risentiti e ribelli, con piccoli domini, così anche i catari at-
trassero la nobiltà con piccoli possedimenti, che abbondava nel-
la Linguadoca. Questa proliferazione di nobili derivava dalla
pratica, ripresa dal modello di Carlo Magno, di dividere i posse-
dimenti fra gli eredi, invece che dare tutto al primogenito. Intor-
no all'anno 975, c'erano almeno 150 famiglie nobili indipendenti
in Linguadoca, una regione delle dimensioni del Vermont (Co-
sten 1997). Giunti al XII secolo il numero era enormemente au-
mentato, e molti castelli punteggiavano le campagne. La regione
aveva anche molte città indipendenti, o semi-indipendenti, qua-
si tutte fortificate. Sia le città sia i nobili non erano contenti di do-
ver pagare dei tributi alla Chiesa, considerata un'istituzione stra-
mera, e i catari condannavano il materialismo della Chiesa catto-
lica e non chiedevano nulla in loro sostegno.
Ma nell'adesione al catarismo della nobiltà c'era molto più
dell'occasione di sottrarsi alla tassazione. Furono molti i nobili
78 A GLORIA DI DIO

che rinunciarono ai loro privilegi e abbracciarono la vita austera


dei perfecti. Un elenco sopravvissuto fino a noi rivela che fra tut-
ti coloro che divennero perfecti in Linguadoca nei sessantanni
precedenti il 1250, il 15% era costituito da appartenenti alla no-
biltà (Costen 1997), almeno sette volte la percentuale dei nobili
neH'intera popolazione (Lenski 1966). La gran parte degli altri
perfecti probabilmente proveniva da famiglie ricche, dal mo-
mento che all'epoca esisteva «un vasto sostegno al catarismo [...]
fra le persone di autorità» (Costen 1997, p. 70), il che è coerente
con molti altri esempi di simile capacità d'attrazione dell'asceti-
smo nei confronti di persone nate fra i privilegi.
In ogni caso, il vasto supporto della nobiltà al catarismo si ri-
velò nel modo meno ambiguo possibile quando si trattò di com-
battere. Come si lamentò un principe settentrionale che parteci-
pava alla «Crociata» contro gli «albigesi», «quasi tutti i signori
della Linguadoca proteggono e danno rifugio agli eretici, dimo-
strando loro eccessivo amore e difendendoli contro Dio e la Chie-
sa» (Costen 1997, p. 70).
Davanti alla grande minaccia istituzionale posta dai catari, la
Chiesa rispose. Per prim a cosa vi furono i fallimentari tentativi
di indebolirli m andando dei frati a predicare contro le eresie. Dal
momento che questi tentativi non ebbero esito positivo, nel 1208
papa Innocenzo III cercò il sostegno del re di Francia e di altri no-
bili, chiedendo loro di «attaccare i seguaci dell'eresia con più te-
nacia che contro i saraceni poiché questi sono peggiori [...]. Su
dunque, soldati di Cristo!» (in Barber 2000, p. 107). In linea con
gli episodi precedenti, la Chiesa diffuse anche dei violenti libelli
sulle aberrazioni sessuali dei catari e dei loro sostenitori, e il pa-
pa li utilizzò per cercare alleati «per eliminare tale dannoso su-
diciume» (in Barber 2000, p. 109). Re Filippo II di Francia non ri-
spose all'appello del Papa, ma lo fecero molti conti e duchi, e vi
fu ima serie di battaglie violente. Nel luglio 1209, Béziers cadde,
e tutti i suoi abitanti furono massacrati dalle forze papali - che
fossero catari, cattolici o ebrei. Ma i catari non si fermarono, e so-
lamente nel 1229, o forse ancora dopo, l'intera regione venne tol-
ta al controllo cataro. Ovviamente, vi furono dei sopravvissuti
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 79

disseminati nella regione. Per dar loro la caccia, nel 1233 venne
fondata l'Inquisizione papale.

I valdesi
Nel frattempo, era nato un altro grande gruppo riformista, che
si dimostrò addirittura più popolare e longevo dei catari (Brooke
1971; Cameron 1984; Lambert 1992; Moore 1994; Russell 1965;
Toum 1989). Il movimento prese il nome da Valdo (o Valdesio),
un mercante molto ricco di Lione, città a nord della Linguadoca.
Nel 1176, ispirato dal racconto della vita di sant'Alessio (ricco ere-
de che scelse di vivere in povertà), Valdo regalò tutti i suoi beni -
per la precisione, gettò grandi somme di denaro per strada. Aven-
do commissionato la traduzione delle Scritture in francese in mo-
do da poter scoprire cosa insegnassero davvero i Vangeli, iniziò a
predicare un messaggio di povertà apostolica. Valdo attrasse ra-
pidamente un seguito, che prese il nome di Poveri di Lione, e del
quale si racconta che «davano via tutti i loro beni e li donavano ai
poveri, fatto che dimostra che avevano una certa ricchezza»
(Lambert 1992, p. 69). In effetti, in un imprecisato periodo succes-
sivo, fra i valdesi di Metz si annoverava un numero rilevante di
membri della nobiltà minore, e «i valdesi si guadagnarono il so-
stegno dei ricchi in Germania». Tuttavia, quando la persecuzione
s'intensificò, il gruppo fu sempre più composto da piccoli possi-
denti e artigiani (Lambert 1992, pp. 149,170).
All'inizio, i valdesi sembravano non avere alcuna intenzione
di formare una setta, e si allineavano al movimento di riforma
predicato un po' ovunque da persone che erano ancora dentro la
Chiesa. Nel 1179, dunque, una rappresentanza di valdesi si recò
a Roma, alla ricerca del sostegno papale. Ma la cosa destò note-
vole apprensione. Walter Map, cronista inglese, scrisse: «Vanno
in giro in coppia, a piedi nudi, avvolti in vesti di lana, senza pos-
sedere nulla, e mantenendo tutte le cose in comune come gli apo-
stoli [...]. Se li riconoscessimo, ne saremmo spazzati via» (in
Johnson 1976, p. 251). Il Papa benedisse il loro modo di vivere,
ma proibì loro di predicare. Ovviamente, i valdesi non obbedirò-
no e furono dichiarati eretici da papa Lucio III, nel 1184.
80 A GLORIA DI DIO

I tentativi iniziali di sopprimere i valdesi furono ostacolati dal


fatto che, anche se erano nati nella Francia meridionale e aveva-
no guadagnato molti seguaci in Linguadoca (soprattutto dopo la
soppressione dei catari), la zona di maggior successo del movi-
mento era la valle del Reno, regione immersa in un'epoca di col-
lasso politico e guerra aperta derivante da un conflitto fra il papa
e il Sacro Romano Imperatore. In questa situazione confusa, i vai-
desi prosperarono, poiché mancavano i mezzi per reprimere l'e-
resia. Alla fine, naturalmente, la Chiesa e i vari stati furono in gra-
do di organizzare delle campagne sanguinarie contro di loro. Ep-
pure, anche se molti furono uccisi in battaglia e molti altri giusti-
ziati, i tentativi di soppressione fallirono, e gli attacchi riuscirono
solamente a spingere i valdesi sulle montagne, soprattutto sulle
Alpi Cozie lungo quello che oggi è il confine franco-italiano.
Traendo vantaggio dal difficile terreno montuoso e mantenendo
un basso profilo, i valdesi furono in grado di evitare o resistere a
una serie di attacchi, fino a quando, alla fine, dopo molti secoli, in
Europa scoppiò la pace religiosa. Come ha osservato Malcolm
Lambert, contro ogni probabilità, i valdesi «sopravvissero a tutte
le persecuzioni [... e] diedero la mano alla Riforma protestante»
(Lambert 1992, p. 147). E la chiesa valdese vive tutt'oggi.

Le eresie del Libero Spirito


Dopo i catari e i valdesi giunsero ondate su ondate di movi-
menti eretici. Molti di questi vengono raggruppati sotto il nome
di «Libero Spirito», che identifica i movimenti che sottolineava-
no il misticismo e ritenevano possibile raggiungere la vera unio-
ne mistica con Dio. Li si accusava di utilizzare questa convinzio-
ne per giustificare il concetto eretico per cui, una volta ottenuto
lo stato dell'unione mistica con Dio, l'individuo potesse essere li-
bero di ignorare i limiti morali di comportamento, essendo al di
sopra del peccato. Fu questa accusa a far sì che i loro nemici li eti-
chettassero con il nome di «Libero Spirito».
I racconti sui grandi gruppi del «Libero Spirito», tutti scritti
dai loro accusatori, abbondano di violente accuse di indecenza
sessuale, e alcuni storici li ritengono veritieri - Gordon Leff so­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 81

stenne che ci dovesse essere «del vero» dietro le accuse perché


erano ripetute troppo spesso (Leff 1967, p. 376). Da una prospet-
tiva più estesa, però, capiamo come Leff commetta un errore ba-
naie. Le accuse di indecenza sessuale da molto tempo venivano
rivolte a gruppi e individui così diversi, e così palesemente incoi-
pevoli, da perdere ogni credibilità in assenza di prove schiaccian-
ti e di una fonte indipendente. Le accuse di orge, incesti, promi-
scuità, stupro, pedofilia, rapporti con animali e atti sessuali su al-
tari erano le argomentazioni standard usate dalla Chiesa nei suoi
attacchi ai nemici, a partire sin dalla lontana epoca degli attacchi
a Marcione, cioè nel II secolo. Certo, è probabile che qui e là, nel
corso di secoli, vi siano stati dei piccoli gruppi che si ritenessero
liberi da limiti morali e che fossero usi a orge, ma si tratta di casi
incidentali nella storia religiosa. Nel caso dei gruppi del «Libero
Spirito», la verità è praticamente opposta. Come ha sintetizzato
Robert Lemer nel suo importante studio, «i fedeli del libero spiri-
to credevano di poter ottenere l'unione con Dio in terra, ma pen-
savano di poter raggiungere questo stato tramite l'austerità del
corpo e l'abnegazione spirituale [...] la loro eresia non era un'a-
nomalia medievale, ma era strettamente collegata al movimento
mistico ortodosso del tardo Medioevo, ed era nata dalla preoccu-
pazione per una vita di perfezione spirituale» (Lemer 1972, p. 3).
La fine del XIII secolo e il XIV videro la nascita di molti grup-
pi del «Libero Spirito». Fra i più importanti, due movimenti
strettamente correlati fra loro, i begardi, maschile, e le beghine,
femminile. Questi due gruppi apparvero verso la fine del XIII se-
colo, assumendo la forma di ordini religiosi non ufficiali e senza
voti (Cohn 1961; Lambert 1992; Leff 1967; Lerner 1972).
I termini inglesi «beg» e «beggar», mendicare e mendicante,
derivano dai begardi, che erano dei viandanti che si proclama-
vano «mendicanti sacri» e che spesso entravano nelle città in
gruppi urlando «pane nel nome di Dio!». Si vestivano in modo
molto simile ai frati ufficiali, ma non avevano preso nessun voto
religioso e non erano soggetti all'autorità di nessuna Chiesa. In
realtà, guardavano con superiorità ai monaci e ai frati conven-
zionali, ritenendoli deboli e mondani, e a volte interrompevano i
82 A GLORIA DI DIO

servizi religiosi per dar voce alle loro lamentele. Come scrisse
Norman Cohn, «predicavano molto, senza autorizzazione ma
con un considerevole successo popolare» (Cohn 1961, p. 164).
La gran parte delle beghine pare provenisse da famiglie ab-
bienti (Lambert 1992). Non era insolito per le figlie dei ricchi o
dei nobili entrare negli ordini religiosi - la maggioranza degli or-
dini femminili esigevano una tariffa d'entrata rilevante, alla qua-
le spesso ci si riferiva come a una dote. Ma le donne che entra-
vano a far parte delle beghine optavano per mantenere ima mag-
gior indipendenza e libertà di scelta, intraprendendo una vita re-
ligiosa senza prendere davvero i voti, pur osservando molte del-
le regole delle suore, castità compresa. Alcune vivevano come
mendicanti e viandanti, come le loro controparti maschili. La
maggioranza indossava una tonaca e, benché alcune continuas-
sero a vivere con la famiglia, spesso formavano delle comunità
religiose non ufficiali - quasi duemila beghine si riunirono in co-
munità a Colonia e dintorni nel tardo XIII secolo. Probabilmente
non era una coincidenza che Colonia fosse proprio il luogo in cui
erano stati scoperti i catari, un secolo prima. Come vedremo in
seguito, in questo capitolo e di nuovo nel capitolo 3, fu a Colonia
e in altre città e paesi lungo il Reno che un governo debole faci-
litò ogni sorta di non conformità. Nel corso dei secoli, molte ere-
sie si raggrupparono qui, e tutto questo sfociò nel luteranesimo
e nel calvinismo. Fu sempre qui che si verificò la gran parte de-
gli attacchi mortali, vietati, contro gli ebrei, e qui si ebbero anche
alcuni degli episodi più sanguinari di caccia alle «streghe».
In ogni caso, alla fine la Chiesa condannò sia le beghine che i
begardi. In risposta, alcuni dei begardi passarono alla clandesti-
nità, mentre pare che molte beghine siano entrare negli ordini uf-
fidali, soprattutto francescano e domenicano (Cohn 1961). Ma
molti altri resistettero, ottenendo ulteriore seguito, fino al XVI se-
colo, quando si fusero nella «Riforma protestante».

!flagellanti
Nel 1347, in Sicilia e in molte città portuali italiane scoppiò la
peste bubbonica 3. Nel giro di un anno si era diffusa in tutta Eu­
LA VE RITA DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 83

ropa, raggiungendo l'Inghilterra nel 1349. Quando l'epidemia


ebbe termine, nel 1350, era morto circa un terzo della popolazio-
ne. Papa Clemente VI (1291-1352) riportò che erano morte
23.840.000 persone, e gli storici moderni stimano il totale intorno
ai 30 milioni (Cartwright e Biddiss 1972; Ziegler 1971).
È difficile concepire un simile disastro. Tutti persero parenti e
amici. Tutti si chiedevano se i prossimi sarebbero stati loro. Peg-
gio ancora, nessuno sapeva cosa stava accadendo. Certo, le varie
«spiegazioni» abbondavano. Una delle prime e fra le più ampia-
mente accettate era che Dio stava punendo l'um anità per i suoi
peccati. Forse la «cura» era da trovarsi nella penitenza, e così nel
1348 sorse velocemente un movimento di massa dedito alle fla-
gellazioni. Decine di migliaia di cristiani si organizzarono in
gruppi e iniziarono a viaggiare di città in città, flagellando se
stessi e gli vini gli altri per espiare i propri peccati. All'inizio la
Chiesa sostenne i flagellanti e, nella speranza di evitare la peste,
il Papa ordinò flagellazioni pubbliche ad Avignone (dov'era in
esilio da Roma). Anche se le flagellazioni non fermarono la pe-
ste, spesso ebbero dei pronunciati effetti sul morale delle comu-
nità interessate da questi gruppi itineranti, perché la gente si af-
fliggeva per 1 propri peccati: gli adulteri rendevano confessioni
pubbliche e i ladri restituivano le merci rubate (Ziegler 1971).
Presto, però, la preoccupazione per i peccati iniziò a include-
re anche quelli del clero e della gerarchia ecclesiastica. Capi del
movimento dei flagellanti non ordinati iniziarono ad ascoltare
confessioni, assolvere dai peccati e imporre penitenze, mentre al-
tri occupavano le chiese e lapidavano i sacerdoti che si oppone-
vano. Come spiega Barbara Tuchman (1979, p. 115), «crescendo
nella loro arroganza, si misero in aperto antagonismo alla Chie-
sa [...]e [presto] aspirarono a prenderne il controllo». Nel 1349,
il Papa rispose condannando i flagellanti come setta eretica, e
catturando e giustiziando molti dei suoi leader.
Questi sono solo alcuni esempi dei moltissimi movimenti na-
ti perché la Chiesa non riuscì a riformarsi e insistette sul suo mo-
nopolio religioso. A partire dalla predicazione delle Crociate,
l'Europa vide la proliferazione incessante di movimenti di mas­
84 A GLORIA DI DIO

sa ad alta intensità religiosa, non solamente fino alla riforma ten-


tata da Lutero, ma anche ben oltre.
Molti studiosi, forse in possesso di un'immaginazione socio-
logica troppo attiva, hanno sostenuto che questi grandi movi-
menti eretici non si fondassero su delle vere dottrine, né su delle
esigenze morali. Piuttosto, hanno detto, l'aspetto religioso di
questi movimenti mascherava la loro motivazione reale, che era,
ovviamente, la «lotta di classe». Fu Friedrich Engels a dare l'e-
sempio, seguito da molti altri, quando sminuì gli aspetti religio-
si di questi scontri come «le illusioni dell'epoca» e sostenne che
gli «interessi, i requisiti e le domande delle diverse classi erano
nascosti dietro a un paravento religioso» (Marx, Engels [1844]
1964, p. 98). Per tornare agli esempi concreti, Engels classificò gli
albigesi (catari) come rappresentanti gli interessi di classe della
borghesia cittadina contro le élite feudali di Chiesa e stato, e smi-
nuì i valdesi come un semplice «tentativo [...] reazionario di op-
porsi alla corrente della storia» da parte di «pastori alpini pa-
triarcali contro il feudalismo che avanzava su di loro» (in Marx,
Engels [1844] 1964, pp. 99-100). Seguendo l'esempio di Engels,
molti altri hanno «messo in luce» il «materialismo» esistente alla
base dei conflitti religiosi medievali. In precedenza, ho detto co-
me H. Richard Niebuhr abbia fatto di questo una sorta di artico-
lo di fede sociologico. In modo simile, l'importante storico italia-
no Antonino de Stefano sostenne che «in fondo, l'argomento eco-
nomico deve aver costituito, più delle discussioni dogmatiche o
religiose, il principale motivo della predicazione dell'eresia» (in
Russell 1965, p. 231). Persino l'illustre Norman Cohn ridusse le
eresie medievali al «desiderio dei poveri di migliorare le condi-
zioni materiali della loro esistenza», che «divenne trasfuso con le
fantasie di un nuovo Paradiso» (Cohn 1961, p. xiii). È giusto con-
fessare che anche io, quando conoscevo molta meno storia, qual-
che anno fa, ho espresso opinioni simili (Stark, Bainbridge 1985).
E il punto è proprio questo. Il trasformare la fede in materialismo
è un'operazione controfattuale.
Solo i male informati possono ritenere che il catarismo fosse
una reazione della gente di città contro le élite feudali della
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 85

Chiesa e dello stato, dal momento che erano proprio queste due
élite a costituire la spina dorsale del movimento. Ed è altrettan-
to assurdo ridurre i valdesi a dei pastori alpini, patriarchi o chis-
sà cos'altro. All'apice della loro fortuna furono un movimento
urbano, nel quale abbondavano in modo evidente le persone di
un certo livello sociale e privilegio. E anche dopo che furono
cacciati dalle città e spinti sulle montagne, i valdesi non furono
«montanari rozzi, ma artigiani, mercanti e locandieri» (Tourn
1989, p. 49).
Attribuire la maggioranza dei movimenti religiosi medievali a
poveri contadini o al proletariato delle città significa sfidare aper-
tamente la chiara evidenza del coinvolgimento massiccio dei ricchi
e dei privilegiati nella gran parte di questi movimenti, se non in
tutti. Inoltre, anche qualora potesse essere dimostrato che la mag-
gioranza dei seguaci dei diversi movimenti erano dei contadini
poveri, la cosa non avrebbe molto valore alla luce del fatto che qua-
si tutti nell'Europa del Medioevo erano contadini poveri. È anche
essenziale capire che l'enfasi posta da molti di questi gruppi sulle
virtù della povertà non era affatto una razionalizzazione dell'esse-
re poveri, ma un appello affinché i cristiani abbracciassero la «sa-
era povertà», come mezzo per superare la mondanità. L'accento
era posto sullo scegliere la povertà - un'opzione di certo non previ-
sta per i poveri - che corrisponde al particolare appello dell'asceti-
smo rivolto a coloro che sono nella posizione di poter scegliere.
Spesso si dice che la ricchezza non soddisfi molti di coloro che so-
no nati nel privilegio, e sembra che ciò sia stato particolarmente
vero in un'epoca in cui erano soprattutto i figli delle classi supe-
riori a ricevere ima grande quantità di educazione religiosa (come
di istruzione in generale), il cui interesse veniva così stimolato. I lo-
ro insegnanti e confessori privati di solito venivano scelti fra le fi-
la della cosiddetta Chiesa della pietà: solo loro erano in grado di
educare e istruire, dal momento che i parroci spesso erano addirit-
tura semianalfabeti, se non peggio4. Dunque, furono pii e colti mo-
naci a destare l'interesse per la salvezza in molti europei delle clas-
si superiori, com'è dimostrato dalle immense ricchezze accumula-
te dagli ordini grazie a ricchi benefattori che cercavano di evi­
86 A GLORIA DI DIO

tare l'inferno e ridurre gli anni di permanenza in purgatorio. Tut-


tavia, questo sforzo monacale di risvegliare le classi più elevate
produsse anche degli alleati ricettivi e potenti per la riforma.
I movimenti di massa non erano le uniche forze che in que-
st'epoca cercavano di riformare la Chiesa, né erano le uniche fon-
ti di sfide serie a Roma. Al riparo dagli scenari di effettivo con-
flitto religioso, sempre più persone in tutta Europa si dedicava-
no con grande devozione al riesame di ogni aspetto della teoio-
già cattolica. Erano state inventate le università, e nulla fu più lo
stesso nella vita intellettuale del mondo cristiano.

L'erudizione e l'eresia

L'università fu un'invenzione cristiana che si evolse dalle


scuole istituite per preparare monaci e sacerdoti (Cobban 1988;
Colish 1997; Daly 1961; Haskins 1923; Schachner 1938). Le prime
due università5apparvero a Parigi (dove insegnavano sia Alber-
to Magno che san Tommaso d'Aquino) e a Bologna, alla metà del
XII secolo. Oxford e Cambridge furono fondate intorno al 1200,
e poi seguirono una marea di nuove istituzioni, fondate sempre
nel XIII secolo: Tolosa, Orléans, Napoli, Salamanca, Siviglia, Li-
sbona, Grenoble, Padova, Roma, Perugia, Pisa, Modena, Firenze,
Praga, Cracovia, Vienna, Heidelberg, Colonia, Buda (Ofen), Er-
furt, Lipsia e Rostock. Molti credono erroneamente che si trat-
tasse di università solamente di nome, con tre o quattro inse-
gnanti e qualche dozzina di studenti, ma non era così. Fin dal
XIII secolo, Parigi, Bologna, Oxford e Tolosa probabilmente ave-
vano ognuna fra i 1000 e i 1500 studenti iscritti - e all'Università
di Parigi ogni anno s'iscrivevano circa 500 nuovi studenti (Grant
1996; Lindberg 1992). Si stima che durante i primi 150 anni della
loro esistenza, le università europee abbiano visto l'iscrizione di
750.000 studenti - in un'epoca in cui la popolazione di Londra
non superava i 35.000 abitanti (Grant 1996; Russell 1958).
L'università era un qualcosa di completamente nuovo - un'i-
stituzione dedicata esclusivamente al «sapere superiore». Non
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 87

era un monastero o un luogo di meditazione. Piuttosto, come


scrive Marcia Colish, «gli eruditi che crearono questo ambiente
educativo inebriante presto superarono gli studiosi monastici co-
me pensatori speculativi» (Colish 1997, p. 266). La parola chiave,
qui, è «speculativi». Le università medievali erano diverse dalle
accademie cinesi che dovevano preparare i mandarini o i maestri
delle scuole zen. Non si trattava di impartire una conoscenza ri-
cevuta. Al contrario, proprio come avviene oggi, gli insegnanti
ottenevano fama e inviti a unirsi ad altri studiosi attraverso l 'in-
novazione.
I risultati erano assolutamente prevedibili: fazioni diverse si
formavano e riformavano; abbondavano le nuove scuole di pen-
siero; la controversia divenne il fattore dominante della vita ac-
cademica (Collins 1998). In un mondo su cui l'Unica Vera Chiesa
rivendicava un'autorità dottrinale esclusiva, lo spirito della libe-
ra indagine coltivato nelle università rese la teologia una disci-
piina rivoluzionaria 6. Dal momento che un numero sempre mag-
giore di studiosi colti si immergeva nelle Scritture alla ricerca di
prospettive originali, fu inevitabile giungere a conclusioni con-
traddittorie, alcune delle quali generarono seri conflitti religiosi
e dissenso. In effetti, alcuni dei più importanti dissenzienti reli-
giosi d'Europa erano professori universitari: John Wyclif a
Oxford, Jan Hus a Praga, Martin Lutero a Wittenberg. E Giovan-
ni Calvino ebbe un incarico universitario all'Università di Parigi
quando fu interdetto per essersi convertito al protestantesimo.
In questa sezione, limiterò la mia discussione a Wyclif e Hus.

Wyclif e i lollardi
Seduto nelle sue stanze a Oxford, John Wyclif (1328-1384) die-
de vita ai lollardi, il primo grande movimento eretico inglese
(Aston 1984; Dickens 1991; Lambert 1992; McFarlane 1952; Me-
Sheffrey 1995; Plumb 1986). E lo fece senza possedere un «potè-
re di leadership personale» o qualche interesse nel «costruire un
nuovo gruppo religioso» (Lambert 1992, p. 228). Benché avesse
preso i voti e accettato un incarico parrocchiale, Wyclif non
adempì ai suoi doveri sacerdotali. Utilizzò parte degli introiti
88 A GLORIA DI DIO

della parrocchia per pagare un altro che svolgesse per lui i com-
piti parrocchiali, e usò il restante denaro per mantenersi come
studioso a Oxford (Fines 1995). Dunque, le sue idee teologiche
furono interamente il prodotto dello studio accademico, non
temprato da ima qualsiasi forma di esperienza pratica.
Per vari aspetti Wyclif anticipò sia Lutero sia Calvino. Come
Lutero, credeva in un rapporto non mediato tra Dio e l'indivi-
duo, e quindi la salvezza non richiedeva l'intercessione della
Chiesa. Come Calvino, credeva nella salvezza dei predestinati.
Ma poneva l'enfasi principale, che gli causò così tanti problemi e
alla fine altrettanti ne causò alla Chiesa, sul fatto che la Chiesa
dovesse dar via i propri averi e praticare la povertà apostolica.
Inoltre, dal momento che gli individui dovevano riappacificarsi
personalmente con Dio, era impellente che venisse consegnata
loro la verità della Bibbia, soprattutto ai poveri. Quindi, orga-
nizzò diverse traduzioni della Bibbia in inglese - la prim a molto
letterale e difficile da leggere, la seconda abbastanza idiomatica
e facilmente comprensibile. Così, la Bibbia fu messa a disposi-
zione anche di coloro che non conoscevano il latino. In quei tem-
pi, prim a dell'invenzione della stampa, le copie effettive della
traduzione di Wyclif non erano abbondanti, e non c'erano tutte
queste persone capaci di leggere, persino in inglese. Di conse-
guenza, molti lollardi memorizzavano lunghe sezioni della Bib-
bia e le trasmettevano oralmente.
Il termine «lollardi» veniva usato in senso denigratorio dagli
oppositori del gruppo e proveniva dal danese medio «lollaert»,
che significava brontolone, o una persona che borbotta - «bor-
bottatori di preghiere» era la designazione generalizzata per i
gruppi eretici europei come i begardi, ma finì per indicare in ma-
niera specifica i seguaci inglesi di Wyclif (Dickens 1991). Benché
non sia chiaro se Wyclif svolse mai un ruolo diretto nella fonda-
zione dei lollardi, costoro erano comunque il suo seguito, essen-
dosi formati verso il 1380 intorno ad alcuni suoi colleghi di
Oxford. Il gruppo si estese rapidamente, trovando particolare so-
stegno fra i mercanti e gli artigiani delle città, ma anche fra le fa-
miglie nobili di possidenti terrieri - fra cui diversi cavalieri del­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 89

la casa reale (Lambert 1992; Plumb 1986). Shannon McSheffrey


ha rilevato la forte presenza fra i primi lollardi di donne distinte,
e ha sottolineato come queste avessero posizioni importanti al-
l'interno del gruppo (McSheffrey 1995). A seguito del fallimento
della sollevazione lollarda guidata da sir John Oldcastle, nel
1414, forse la posizione sociale media dei membri del gruppo
scese, ma di certo possiamo definire più snob che storico l'atteg-
giamento di McFarlane quando sminuisce i lollardi definendoli
«zoticoni» (McFarlane 1952, p. 180).
I lollardi si opponevano al monopolio romano sulle ordina-
zioni, perché non era presente nelle Scritture, rifiutavano la dot-
trina della transustanziazione poiché secondo loro implicava
idolatria e negromanzia, erano contrari alla confessione davanti
al sacerdote perché non presente nelle Scritture, denunciavano e
sminuivano la pratica dei pellegrinaggi, delle indulgenze e delle
preghiere speciali per i morti come mezzi inutili ai fini della sai-
vezza. Denunciavano anche le regole del celibato come dannose,
poiché contrarie alla natura um ana e quindi foriere di fornica-
zione - era molto meglio che la gente si sposasse. Ma una delle
richieste più rivoluzionarie era che «la Bibbia in vernacolare fos-
se posta liberamente nelle mani dei laici, istruiti e non istruiti al-
lo stesso modo» (Dickens 1991, p. 48).
Le idee dei lollardi si dimostrarono estremamente popolari
fra la gente comune, ed estremamente terribili per la Chiesa.
Quando Enrico IV salì al trono, nel 1399, iniziarono le persecu-
zioni. Nel 1401 vi fu il primo statuto inglese che decretava il ro-
go per gli eretici, e così iniziò una lunga serie di martiri di lollar-
di. Eppure, il gruppo sopravvisse rimanendo in clandestinità,
per riemergere alla fine negli anni '20 del 1500, quando i lollardi
si fusero con il gruppo in rapida crescita dei sostenitori inglesi di
Lutero, preparando la strada alla «Riforma inglese».

Hus e la «riforma» boema


Nel frattempo, un altro professore universitario divenne il
centro del dissenso (Bartos 1986; Dickens 1991; Kaminsky 1967;
Lambert 1992; Ozment 1980). Nella lontana Praga, Jan Hus
90 A GLORIA DI DIO

(1372-1415) fu fortemente influenzato dal lavoro di Wyclif. Come


quest'ultimo, Hus aveva preso i voti e viveva dei suoi benefici di
pastore, continuando al contempo a insegnare aH'università. A
differenza di Wyclif, Hus non era un assenteista e servì la sua co-
munità fedelmente. In effetti, la sua era una comunità molto par-
ticolare, la Cappella di Betlemme, fondata nel 1391 per promuo-
vere la riforma della Chiesa. Hus presto divenne molto popola-
re, predicando in lingua ceca e istituendo il canto degli inni da
parte di tutta la comunità dei fedeli. Molti appartenenti alla no-
biltà boema frequentavano regolarmente la sua chiesa, e la regi-
na Sofia nominò Hus suo cappellano personale.
Nel 1401, lo stesso anno in cui Hus fu assegnato alla Cappel-
la di Betlemme, gli scritti teologici di Wyclif raggiunsero Praga.
Hus abbracciò subito le sue posizioni, soprattutto quelle concer-
nenti l'autorità della Scrittura e la convinzione che molti degli in-
segnamenti della Chiesa non fossero conformi a essa, se non ad-
dirittura contrari. Quando iniziò a esprimere queste idee dal pul-
pito, divenne ancora più popolare. Com'era inevitabile, un radi-
calismo di questo tipo lo mise nei guai con l'arcivescovo locale;
dopo essere stato scomunicato, Hus lasciò Praga e trovò rifugio
nella Boemia meridionale, presso la nobiltà del luogo. Qui scris-
se un gran numero di trattati contro diversi insegnamenti e pra-
tiche della Chiesa. Nel 1414 fu convocato davanti a un concilio
ecclesiale a Costanza. Hus era restio a presentarsi, ma si decise
quando re Sigismondo d'Ungheria gli diede un salvacondotto.
Accusandolo di essere un «eretico wycliffita», il concilio decise
di ignorare il salvacondotto; il 6 luglio 1415 Hus venne mandato
al rogo - e pregò con voce chiara e ferma fino a quando il fumo
non lo sopraffece.
Quando la notizia del martirio di Hus raggiunse Praga, si sca-
tenò una rivolta nazionale. La nobiltà di Boemia e Moravia si
riunì, e cinquecento nobili firmarono un documento, inviato al
concilio di Costanza, nel quale proclamavano che avrebbero
combattuto fino all'ultim o uomo in difesa del vero cristianesimo,
e che da quel momento in poi avrebbero obbedito solamente al-
le direttive della Chiesa conformi alle Scritture - e il giudizio su
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 91

tale conformità sarebbe spettato esclusivamente all'Università di


Praga. Il concilio intimò ai nobili di presentarsi e difendersi dal-
l'accusa di eresia. Non si presentò nessuno. Il concilio, allora, or-
dinò la chiusura deH'università. Non obbedì nessuno.
Presto, nobili e professori dell'università, guidati dalla regi-
na Sofia, istituirono una nuova forma di comunione, nella qua-
le i parrocchiani prendevano un sorso di vino dal calice, come
il sacerdote. Poi, nel 1420, il gruppo di hussiti ormai in rapida
crescita emanò i Quattro articoli di Praga, nei quali si condanna-
va la simonia, si asseriva che le Scritture erano l'unico riferi-
mento di verità e pratica, si chiedeva che le comunità di fedeli
ricevessero il vino al momento della Comunione, e si pretende-
va che tutti i sacerdoti, monaci e suore praticassero la povertà
apostolica. Inoltre, molti hussiti negarono la sacralità delle reli-
quie religiose, il concetto di purgatorio e il valore delle messe
in onore dei defunti. Quindi, gran parte degli elementi del lu-
teranesimo erano già presenti un secolo prim a nella «riforma»
boema, come lo stesso Lutero riconobbe. Nel prim o dei suoi fa-
mosi tre «Trattati di riforma» pubblicati nel 1520, Lutero affer-
mava di non aver «trovato ancora errori nei suoi scritti [di
Hus]» (Lutero [1520] 1915, p. 141).
Ovviamente, non era possibile effettuare questi cambiamenti
in modo semplice. Il papa Martino V (1417-1431) proclamò una
Crociata contro gli eretici di Praga, e re Sigismondo guidò ima
grande forza contro di loro nel 1420. Ma gli ardenti boemi li
sconfissero. Sigismondo radunò un altro esercito e tornò lì, ma le
truppe fuggirono in totale disordine quando giunse loro voce
che i boemi erano vicini.
Purtroppo, gli hussiti si trovavano nella morsa di un partico-
larismo monoteistico tanto quanto i loro oppositori. Vinta la prò-
pria libertà, rivolsero le armi contro tutti i cattolici tradizionali
che rimanevano, saccheggiarono e distrussero monasteri e con-
venti, massacrarono monaci, e costrinsero tutti ad accettare i
Quattro articoli. Presto la loro intolleranza si estese in un conflit-
to interno, e ne seguirono guerre civili feroci, così come una se-
rie di esperimenti religiosi utopistici, come l'episodio della co­
92 A GLORIA DI DIO

mune di Tabor. Alla fine le ostilità ebbero termine, e nel 1485 le


fazioni cattoliche e hussite firmarono il Trattato di Kutna Hora. Il
risultato fu che quando Lutero sfidò la Chiesa, esisteva già una
rilevante Chiesa «protestante» a Est, in Boemia. Questa però non
durò, poiché gli hussiti furono annientati durante la Guerra dei
Trent'Anni - sconfitti nel 1620 nei pressi della Montagna Bianca
dalle forze cattoliche degli Asburgo. Ma la loro tradizione so-
pravvisse, incarnandosi nei fratelli boemi e nei moravi.
Lollardi e hussiti esemplificano chiaramente i diversi aspetti
critici della situazione religiosa nell'Europa medievale. C'era una
diffusa domanda di una fede più intensa, soprattutto fra i laici col-
ti, e c'era la convinzione che la Chiesa fosse spesso un ostacolo al-
la salvezza. Come era accaduto con i catari, i valdesi e i vari grup-
pi del «Libero Spirito» prima di loro, le folle seguirono lollardi e
hussiti nella convinzione che Dio potesse essere conosciuto in mo-
do diretto, e che le Scritture fossero l'unica base per la fede e la
pratica religiosa. Stando così le cose, la Scrittura doveva essere ac-
cessibile a tutti. E tutti coloro che rivendicavano un'autorità reli-
giosa dovevano vivere secondo il modello stabilito dagli apostoli.
Per dirla brevemente, per chi era seriamente interessato a queste
cose, la Chiesa medievale era un fardello spirituale e politico. In
effetti, la Chiesa aveva riconosciuto da tempo quest'antagonismo
popolare - la prima frase di una bolla papale di papa Bonifacio
Vili (1294-1303) recitava, «Tutta la storia mostra chiaramente l'ini-
micizia dei laici verso il clero» (in Duffy 1997, p. 121).

I fardelli del cattolicesimo del tardo Medioevo

Al nascere del XVI secolo, la gran parte degli europei con una
fede religiosa sincera sentiva come un fardello la dilagante im-
moralità e irreligiosità della Chiesa. Molti altri, soprattutto la no-
biltà, ritenevano che la Chiesa fosse da disapprovare anche per
questione prettamente secolari. Dal momento che questi fattori
svolsero un ruolo davvero importante in quello che sarebbe ac-
caduto, è meglio delinearli brevemente.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 93

Un clero immorale e indolente


Molti storici definiscono il periodo che va dal 1447 al 1521 co-
me l'era dei «papi rinascimentali» e dedicano moltissima atten-
zione e lode ai loro enormi investimenti nella costruzione e rico-
struzione del Vaticano, nel suo abbellimento con grandiose ope-
re d'arte, e quindi con il mecenatismo di Michelangelo, Botticel-
li, Raffaello e tutti gli altri. Eppure, questi stessi papi erano fra i
più dissoluti, avidi, prolifici e famigerati uomini che si siano mai
seduti sul trono di Pietro.
Papa Pio II (1458-1471) scriveva poesie e opere teatrali eroti-
che. A lui seguì Paolo II (1464-1471), nipote di papa Eugenio IV
(1431-1447) e incredibile «edonista dissoluto» ed egocentrico
(Cheetham 1983, p. 184). Al momento dell'elezione voleva assu-
mere il nome di «Formosus» (bello) in omaggio al suo aspetto,
ma alla fine fu convinto a non farlo (Cheetham 1983; Duffy 1997;
McBrien 2000). Dopo Paolo II ci fu papa Sisto IV (1471-1484), il
quale spese 100.000 ducati per la sua tiara d'incoronazione (cor-
rispondenti a più di 200 milioni di dollari di oggi), diede inizio
ai lavori per la Cappella Sistina, e lasciò una Chiesa pesante-
mente indebitata. Durante il papato fece cardinali tre dei suoi ni-
poti, e diede a uno di questi quattro vescovadi, che, assieme a
numerose abbazie, gli garantivano fortune immense. Questo ni-
potè morì a ventotto anni per «ima vita di eccessi».
Poi fu la volta di Innocenzo VIII (1484-1492), famoso per i nu-
merosi figli illegittimi, molti dei quali fatti sposare all'interno di
famiglie nobili italiane. Forse, il punto più basso fu raggiunto
con l'elezione di papa Alessandro VI (1492-1503), membro della
famiglia Borgia, e «il più famigerato di tutti i papi rinascimenta-
li» (Duffy 1997, p. 146). Non solo ostentava le sue amanti ed eb-
be nove figli illegittimi da tre donne, ma si crede che abbia anche
avvelenato un certo numero di cardinali per impossessarsi delle
loro ricchezze. Per di più, Alessandro incoraggiò gli umanisti lo-
cali ad associare cristianesimo e paganesimo, riferendosi a Dio
come al «Jupiter Optimus Maximus», e alla Vergine Maria come
«Diana» (Duffy 1997, p. 135). Nel 1503, cenando con un cardina-
le, il papa ingerì del veleno diretto al suo ospite, e morì (McBrien
94 A GLORIA DI DIO

2000). Dopo di lui, ci fu papa Giulio II (1503-1513), noto come il


terribile. Nipote di Sisto IV, Giulio dedicò la gran parte del suo
papato alla guerra, guidando le truppe su e giù per l'Italia con
indosso un'arm atura fatta d'argento. Era anche molto generoso
nello spendere (ingaggiò Michelangelo per il soffitto della Cap-
pella Sistina) e padre di tre figlie che adorava. A Giulio seguì
Leone X (1513-1521), figlio di Lorenzo de' Medici, che aveva pre-
so i voti a sette anni ed era stato nominato cardinale a tredici.
Leone assunse un atteggiamento umanista ed ebbe ima prospet-
tiva decisamente buona nei confronti della satira sull'immoralità
del clero fatta da Erasmo. Fu lui a istituire la vendita delle in-
dulgenze che provocò le Novantacinque Tesi di Lutero. E fu sem-
pre Leone X a rispondere in maniera ostile alle richieste iniziali
di Lutero, causando così la «Riforma protestante».
Dopo Leone ci fu il breve papato di Adriano (1522-1523), pa-
pa «accidentale» e membro della Chiesa della pietà. Era odiato
dalle gerarchie per l'austerità della sua vita e offese la Curia ri-
conoscendo che la responsabilità degli attacchi di Lutero stava
«nello stesso papato e nei mali che esso ha così a lungo tollerato
e incoraggiato» (Cheetham 1983, p. 199). Ma «la Curia era ben
determinata a evitare la riforma» e il suo papato fu troppo breve
per avere una minima influenza; infatti, «morì non compianto
nel 1523, non senza il consueto sospetto di avvelenamento» (Col-
lins 1903, p. 378). Dunque, Lutero si fece avanti in un'epoca in
cui «il papato [...] era al punto più basso della sua reputazione»
(Dickens 1991, p. 18). E per quanto riguardava Roma, nel 1490
più del 15% delle donne adulte residenti era costituito da prosti-
tute registrate, e l'ambasciatore veneziano la descriveva la città
come «la cloaca del mondo» (in Lea 1902, p. 672).
Lontano da Roma le cose non erano migliori. Ludwig Pastor,
illustre storico tedesco cattolico, autore di un'opera sul papato in
14 volumi, osservò che «è un errore supporre che la corruzione
del clero fosse peggiore a Roma che altrove; ci sono prove docu-
mentarie deH'immoralità dei sacerdoti in quasi ogni città della
penisola italiana» (Pastor 1898, voi. 5, p. 457). Inoltre, poiché la
maggioranza dei cardinali e molti vescovi erano parenti dei pa­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 95

pi, il fenomeno del predominio delle famiglie clericali e delle po-


sizioni ereditate perseverava anche ai livelli più bassi. Per esem-
pio, un'analisi dei sacerdoti iberici ha rivelato che più di 1700 so-
lamente nell'arcidiocesi di Braga erano figli illegittimi di altri sa-
cerdoti7.
È importante capire che le accuse di corruzione, empietà e im-
moralità al clero e agli ordini religiosi non sono opera di parti-
giani protestanti. Leali e devoti cattolici, allora come oggi, avan-
zavano queste stesse accuse. Così, nel 1335, papa Benedetto XII
emanò diverse bolle pontificie nelle quali ordinava di riformare
vari monasteri ed elencava una lunga serie di attività empie e
immorali, fra le quali: una frequentazione irregolare dei servizi
religiosi oppure l'abitudine di andarsene prim a del loro termine;
il fatto che la gran parte non indossasse gli abiti religiosi; il vive-
re nel lusso nonostante i voti di povertà; e la rarità del rispetto
del voto di castità (King 1999). In modo simile, il vescovo di Tor-
cello disse al Collegio dei Cardinali riunito nel 1458 che «la mo-
ralità del clero è corrotta, e i sacerdoti sono divenuti un'offesa
per i laici» (in Lea 1902, p. 674). Un secolo dopo, Erasmo lancia-
va l'accusa che «molti conventi di uomini e donne differiscono
poco dai bordelli pubblici» (Epistola 94). Oppure, come ha sinte-
tizzato lo storico cattolico moderno Imbert de La Tour, «leggete
le testimonianza di quest'epoca [...] cosa dicono? Sempre gli
stessi fatti e le stesse lamentele: la soppressione della vita con-
ventuale, della disciplina, della moralità [...]. La vita monastica
era scomparsa dai conventi delle monache [...] e le grandi abba-
zie [...] questi rifugi di preghiera [trasformati] in centri di disso-
luzione e disordine» (in D urant 1957, pp. 20-21).
Ma non era solamente l'immoralità del clero a far arrabbiare i
laici; anche l'assenteismo faceva zoppicare la Chiesa. Si trattava
di un fenomeno piuttosto comune fra i vescovi, alcuni dei quali
non mettevano mai piede dentro le diocesi - ed erano molti quel-
li che detenevano numerosi vescovadi. Nel caso di un vescovo di
Sens, il religioso entrò per la prim a volta nella sua cattedrale in
occasione del suo funerale. Nella Linguadoca, all'inizio del XVI
secolo, di ventidue vescovi, solo cinque erano residenti; il resto
96 A GLORIA DI DIO

stava a Roma e non aveva mai nemmeno preso in considerazio-


ne l'idea di vivere altrove (Chadwick 1972). I vescovi assenteisti,
però, non rinunciavano ai redditi provenienti dagli incarichi;
quello che non facevano era spenderli per i bisogni della Chiesa
locale. Dunque, l'assenteismo era un grande canale attraverso
cui i fondi affluivano a Roma. Inoltre, «l'assenteismo era diffuso»
anche ai livelli più bassi (Duffy 1997). Molti sacerdoti locali non
vivevano nelle loro parrocchie e vi si recavano raramente - basti
ricordare che Wyclif si manteneva a Oxford con il salario di una
parrocchia che non serviva affatto. Lo stesso era vero per la mag-
gioranza dei professori universitari. Solamente nellOxfordshire,
nel 1520, più del 30% delle parrocchie aveva un parroco non pre-
sente (Coulton 1938a).
Non va dimenticato che, nonostante tutte queste mancanze
nella Chiesa del potere, la Chiesa della pietà esisteva ancora. C'e-
rano migliaia di sacerdoti, monaci e suore devoti. Proprio loro
avrebbero svolto un ruolo importante nella formazione e nella
guida dei movimenti protestanti, e poi nel riuscire a prevalere fi-
nalmente sulla Chiesa del potere portando a termine la Contro-
riforma.

Proprietà, privilegi ed esazioni


In larghissima misura, la corruzione, soprattutto negli ordini
e nei livelli religiosi più elevati, nacque dalla straordinaria rie-
chezza e dai privilegi della Chiesa medievale. Per avere un'idea
della cospicuità di tale ricchezza si pensi che, quando gli emissa-
ri di Enrico Vili confiscarono l'altare di St. Thomas a' Becket, a
Canterbury, rimossero 140 chili d'oro, 120 chili d'argento placca-
to oro, 150 d'argento e 26 carri di altri tesori (Johnson 1976, p.
267). E ricchezze come queste erano un qualcosa d'insignificante
nel contesto generale della Chiesa.
La Chiesa era di gran lunga il più ricco e il più grande prò-
prietario terriero d'Europa. La Dieta di Norimberga nel 1522 so-
stenne che la Chiesa possedesse metà della ricchezza in Germa-
nia. Carlton Hayes, storico cattolico, calcolò che la Chiesa dete-
neva solamente un terzo della ricchezza tedesca, e un quinto in
LA VEIUTÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 97

Francia (Hayes 1917), ma il procuratore generale del Parlement di


Parigi, nel 1502, disse che quando s'includevano anche i posse-
dimenti dei parroci locali, la Chiesa possedeva i tre quarti della
ricchezza francese (Durant 1957).
La Chiesa era proprietaria di un terzo d'Italia come Stato pon-
tificio, e aveva enormi possedimenti nelle aree restanti, soprat-
tutto in Sicilia. A Zurigo, nel 1467, gruppi ecclesiastici deteneva-
no un terzo delle proprietà, e simili proporzioni si registravano
anche in molte altre città (Ozment 1975).
La Chiesa aveva acquisito ricchezza e possedimenti terrieri in
diversi modi. Per prim a cosa, i vari monasteri ampliavano i loro
possedimenti semplicemente disboscando e prosciugando la ter-
ra per renderla produttiva. Il secondo metodo, molto più impor-
tante, era quello di secoli di cessioni o donazioni, soprattutto da
parte della nobiltà che cercava così di migliorare la propria vita
dopo la morte. Inoltre, dal momento che la Chiesa controllava la
stesura e l'autenticazione dei testamenti, i suoi emissari erano
ben collocati per massimizzare questi lasciti. Infine, la Chiesa ot-
tenne proprietà terriere e immobiliari semplicemente tramite la
conquista - molti papi, come Giulio II, mantennero e utilizzaro-
no eserciti efficienti.
A ciò si aggiunge il fatto che la Chiesa godeva di un'enorme
afflusso di cassa imponendo decime a tutti, dai contadini ai re,
ogni volta fosse possibile. Non contenta di queste entrate regola-
ri, spesso istituiva delle enormi raccolte di fondi - per esempio
tramite la vendita delle indulgenze - per finanziare imprese spe-
ciali come le Crociate o la costruzione della Cappella Sistina. E in
molti luoghi non pagava le imposte sulle sue proprietà ai gover-
nanti. Quest'aspetto causava molto risentimento, e spinse diver-
si governanti e municipalità a tentare di imporle delle tassazioni
o di limitarne la crescita.
Un ulteriore fardello era il privilegio del clero davanti alla
legge. Nella maggioranza delle evenienze, nella maggior parte
dei luoghi, la Chiesa riusciva a ricusare il diritto dei tribunali se-
colari di procedere contro il clero o contro membri degli ordini
religiosi. Queste persone potevano essere giudicate solamente
98 A GLORIA DI DIO

da tribunali ecclesiastici, anche per crimini secolari quali l'omi-


cidio. E i tribunali ecclesiastici erano tristemente famosi per im-
porre sentenze molto più lievi di quelle prevalenti nei tribunali
secolari.

Penitenza inaccessibile
Come discuteremo in dettaglio nella sezione dedicata al Iute-
ranesimo, la Chiesa cattolica romana insegnava che, benché i pec-
cati venissero perdonati se confessati a un sacerdote con spirito di
vera contrizione, le persone dovevano comunque fare penitenza
(solitamente definita con l'espressione «opere buone») per pagare
per i loro peccati. E dal momento che solamente i santi erano in
grado di controbilanciare i peccati con la penitenza in vita, tutti gli
altri dovevano prevedere di passare un lungo periodo di sofferen-
za nel purgatorio, una sorta di inferno meno duro. La durata di
questa permanenza poteva però essere ridotta in questa vita, tra-
mite diverse «opere» benefiche. Fra queste c'erano i pellegrinaggi
ai luoghi riconosciuti come sacri. Nel 1343, il valore di un pelle-
grinaggio alla Chiesa del castello di Wittenberg (con appropriata
donazione) era pari a quaranta giorni di sconto sulla permanenza
in purgatorio. Giunti al 1518, il valore si era inflazionato a «127.709
anni» in meno (Schwiebert 1950, p. 312). Si poteva guadagnare
uno sconto di tempo anche partecipando a Crociate ufficiali, o
svolgendo altri servizi per la Chiesa. Oppure, si poteva pagare per
servizi sacri, come messe celebrate per la propria anima dopo la
morte, o preghiere di monaci o suore - un tot di tempo scontato a
messa o preghiera. Fra i ricchi era pratica comune pagare per que-
sti servizi - Enrico Vili fece in modo di far celebrare diecimila
messe per la sua anima, al costo di sei pence l'una (Dickens 1991).
Era possibile abbreviare la permanenza in purgatorio anche do-
nando dei terreni o del denaro alla Chiesa. Alla fine, la Chiesa ini-
zio anche a vendere delle lettere di perdono note come indulgen-
ze, che cancellavano qualche peccato specifico (spesso in via pre-
ventiva) o condonavano del tempo in purgatorio.
La vendita dei servizi religiosi per i defunti o delle indulgen-
ze portò enormi somme nelle casse della Chiesa, molte delle qua­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 99

li prendevano la via di Roma. Ciò incontrava l'opposizione di re


e principi, che vedevano le ricchezze locali prosciugate da un po-
tere lontano e straniero. E faceva arrabbiare anche la gente, che si
lamentava del fatto che, in mancanza di mezzi sufficienti, si sa-
rebbe stati condannati a secoli di sofferenze, mentre la Chiesa
permetteva ai ricchi di sfuggirne. Non meraviglia che fosse così
popolare l'idea che la salvezza derivasse dalla sola fede, e che
l'intercessione della Chiesa non fosse necessaria.
Infine, i religiosi dissoluti in genere mantenevano degli eie-
vati standard di vita proprio grazie alle somme ricevute per i
peccati dei laici. I manuali preparati per l'uso nelle confessioni
insegnavano ai sacerdoti a essere estremamente inquisitori, a
cercare anche i peccati più piccoli e i dettagli più scabrosi, al pun-
to che molte persone erano fortemente restie a sottostare alla pra-
tica, e molte (probabilmente la maggioranza) non si recavano al-
la confessione, nonostante l'assoluto obbligo di farlo almeno una
volta all'anno imposto dalla Chiesa.
Questi, dunque, erano i pesanti fardelli che ebbero un ruolo
cruciale nel momento in cui le persone iniziarono a cercare il fon-
damento scritturale di tutta questa struttura di esazioni e inter-
cessioni della Chiesa.

Lo studio popolare della Bibbia: vulgate e stampa

Tre cose facevano dell'università il focolaio della controversia


teologica. Per prim a cosa, a quell'epoca, quand'erano ancora po-
chi i parroci in grado di farlo, tutti gli studenti universitari e i do-
centi leggevano il latino. In secondo luogo, mentre nessuna chie-
sa locale e pochissime cattedrali possedevano ima copia della
Bibbia, tutte le università ne avevano. Infine, molti degli studen-
ti che ricevevano un'istruzione universitaria non prendevano i
voti, né entravano negli ordini sacri, dunque non erano sotto una
diretta supervisione ecclesiastica. Questa pericolosa commistio-
ne si espanse ed esplose improvvisamente quando la stampa e le
vulgate - traduzioni della Bibbia in lingua «volgare» - resero
100 A GLORIA DI DIO

possibile per centinaia di migliaia di europei lo studio personale


del significato delle Scritture.
Si ricordi che il fondatore dei valdesi aveva fatto tradurre la
Bibbia in francese, così da poterla leggere, e che in seguito a tale
lettura aveva stabilito che molti insegnamenti e pratiche della
Chiesa non erano in accordo con il testo sacro: Era esattamente
ciò che la Chiesa aveva sempre cercato di evitare - volendo man-
tenere il monopolio sull'interpretazione scritturale, è meglio im-
porre un monopolio sull'accesso alle Scritture. Di conseguenza,
persino il clero istruito non leggeva la Bibbia da sé, ma la stu-
diava attraverso manuali ed esposizioni altrui. Lo studio effetti-
vo delle Scritture era riservato ai soli specialisti - e fino a epoche
relativamente moderne, persino fra i papi erano pochi coloro che
avevano letto direttamente dalla Bibbia.
L'idea di tradurre la «parola sacra» in lingue che potessero es-
sere capite dalla gente veniva considerata eretica in sé e per sé. Co-
me scrisse papa Innocenzo ΠΙ nel 1215, «i misteri segreti della fede
non dovrebbero [...] essere spiegati alle genti di ogni luogo. [...] In-
fatti, tale è la profondità della divina Scrittura, che non solamente i
semplici e gli illetterati, ma anche gli avveduti e i colti non sono af-
fatto consoni a cercare di capirla» (in Lambert 1992, p. 73).
Ironia della sorte, la Bibbia cattolica ufficiale era già di suo
ima «vulgata», essendo stata tradotta in latino dal greco - im-
presa iniziata da san Girolamo (ca. 347-420) e finita da altri. Più
o meno nella stessa epoca, Ulfila aveva prodotto una traduzione
in gotico - associata poi a diversi secoli di eresia fra i visigoti. E
così pare fossero rimaste le cose fino al XII secolo, quando la ere-
scita del livello d'istruzione dei ricchi li portò a desiderare un ac-
cesso diretto alla Bibbia. E proprio come le letture della Bibbia in
francese da parte di Valdo avevano portato al movimento valde-
se, anche le traduzioni successive vennero associate a richieste di
riforma della Chiesa e alla formazione di movimenti eretici. Di
conseguenza, il vero contributo di Wyclif al dissenso fu quello di
rendere disponibile la Bibbia in inglese - i lollardi conoscevano
le loro Scritture. Quando era stato minacciato dai funzionari ec-
desiali per il suo coinvolgimento nella produzione di versioni in
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 101

inglese della Bibbia, Wyclif si era difeso facendo notare che An-
na di Boemia aveva commissionato delle vulgate sia in ceco che
in tedesco. Come sottolinea Malcolm Lambert, per Anna queste
traduzioni «erano costosi vezzi devozionali» (Lambert 1992, p.
240), ma divennero presto molto di più quando apparve sulla
scena Jan Hus.
Comunque, nemmeno le vulgate fornivano un sostanziale ac-
cesso alle Scritture. Le copie manoscritte erano spesso poche,
motivo per cui i lollardi si specializzarono nella memorizzazione
di sezioni della Bibbia in inglese. Ma tutto questo stava per cam-
biare.
Intorno al 1455, Johannes Gutenberg (1397-1468) stampò la
prima Bibbia, e presto la seguirono una marea di libri, molti dei
quali copie della Scritture e testi religiosi (Eisenstein 1979; Hirsch
1967). L'invenzione della stampa stimolò una crescita molto ra-
pida dell'istruzione in tutta Europa. AH'improwiso, le persone
avevano qualcosa da leggere, e nella loro lingua. Laddove un
tempo i lettori si contavano a migliaia, presto si contarono a de-
cine di migliaia, e poi a centinaia di migliaia. Alla volta del 1500,
almeno un 3% dei tedeschi, circa 400.000 persone, sapeva legge-
re (Ozment 1980). Per servire questo pubblico in rapida crescita,
in ogni città piuttosto grande nacquero negozi di stampatori.
Presto, venditori ambulanti si mossero per le campagne venden-
do libri e pamphlet, con il risultato che numeri enormi di euro-
pei iniziarono a leggere da soli non solo la Bibbia, ma anche com-
mentari e trattati. Le vendite totali erano incredibilmente alte da-
ta la proporzione di persone capaci di leggere - fra il 1517 e il
1520, furono vendute 300.000 copie delle pubblicazioni di Lute-
ro che chiedevano la riforma della Chiesa (Ozment 1980). «Per la
prima volta nella storia dell'uomo, un vasto pubblico di lettori
giudicava la validità di idee rivoluzionarie attraverso un mezzo
di comunicazione di massa che utilizzava le lingue vemacolari
assieme alle arti del giornalista e del disegnatore» (Dickens 1966,
p. 51). Come scrisse correttamente Paul Johnson, «l'odore del-
l'inchiostro dello stampatore [fu] l'incenso della Riforma» (John-
son 1976, p. 271).
102 A GLORIA DI DIO

Erasmo e l'Umanesimo

Tutte le discussioni sulla «Riforma protestante» così come sul


«Rinascimento» prestano una notevole attenzione al movimento
intellettuale noto come Umanesimo. Purtroppo, raramente trovia-
mo ima definizione del termine, che viene utilizzato in una va-
rietà di modi fra loro diversi. A volte, tutto ciò che s'intende è un
movimento nelle università europee che pose l'enfasi sulle arti e
sulla cultura «classiche» (greco-romane) - e questa è l'origine del-
la designazione di alcuni settori di studio come «studi umanisti-
ci». Altre volte, significa uno spostamento dell'attenzione in filo-
sofia o teologia dal divino all'umano, con forti connotazioni di
scetticismo. Gli appartenenti a questa tradizione spesso vengono
chiamati umanisti rinascimentali 8. Altre volte ancora, il termine
denota un approccio alle Scritture (devoto o scettico che sia) criti-
co e analitico, spesso chiamato anche Umanesimo biblico.
L'elemento comune in tutte le prime forme di Umanesimo
potrebbe essere meglio identificato con la nostalgia. Come
spiegò Preserved Smith (1880-1941), «i suoi ideali risiedevano
nel passato, una restaurazione e non un progresso. [L'Umanesi-
mo] non faceva appello alla ragione, ma ai poeti romani; non al-
la natura, ma all'autorità classica [...] la sua appassionata ribel-
lione contro il razionalismo di Aristotele e Tommaso d'Aquino ci
costringe a considerarlo una reazione artistica ed emozionale al-
la ragione» (Smith [1923] 1962, p. 1). Oppure, come scrisse Johan
Huizinga (1872-1945), «tutte le loro idee erano permeate di no-
stalgia per l'antica, originaria purezza [...] ambisce sempre alle
cose del passato, un rinnovamento, una restituzione, una restau-
razione» (in Schwiebert 1950, p. 275). Nel caso degli umanisti ri-
nascimentali, l'obbiettivo era tornare alle arti e alla cultura clas-
siche; per la maggioranza degli umanisti biblici si trattava di ri-
tornare al cristianesimo nella sua prim a forma, incontaminata,
rivelata dalla Bibbia.
In linea con il desiderio di ritornare a una forma antica di cri-
stianesimo, gli umanisti biblici attaccarono come «non conformi
alla Bibbia» molte «sovrapposizioni» della Chiesa, come la vene­
LA VEÌUTA DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 103

razione delle sacre reliquie, i giorni di digiuno, le messe per i de-


funti, il culto dei santi, e i lussi del clero. Nel farlo, prepararono
la strada al protestantesimo - all'inizio Lutero si considerava un
umanista biblico. Alcuni, o forse anche la maggioranza, dei più
importanti umanisti biblici di fine XV secolo, inizi XVI, però, ap-
paiono tutt'altro che sinceri nelle loro intenzioni. Spesso la loro
fede personale sembra vuota, e le critiche alla Chiesa e alla reli-
gione riusltano mosse troppo a cuor leggero; per di più, molti di
loro sembrano dare molto più valore alla forma che al contenu-
to. Così, l'um anista italiano Lorenzo Valla (1404-1457) dichiarò
che san Tommaso d'Aquino era un teologo minore, non solo per-
ché poneva l'accento sulla logica, ma soprattutto perché scriveva
in quello che per Valla era un latino povero 9. Questi aspetti del-
l'Umanesimo - snobismo e scetticismo - furono esemplificati dal
più famoso fra tutti gli umanisti, Desiderio Erasmo (1469-1536)
(Bainton 1989; D urant 1957; Erasmo [ca. 1500] 1996; Huizinga
[1924] 1957; Moeller 1972; Ozment 1980; Phillips 1949; Smith
[1923] 1962).
Ci sono molte ragioni dietro al fatto che Erasmo fu, ed è an-
cor oggi, molto amato dagli intellettuali. Per prima cosa, c'è la
sua impressionante erudizione. In secondo luogo, benché fosse a
favore di molte riforme nella Chiesa, non era «infiammato da
ima passione o uno zelo riformatore» - emozioni che tendono ad
allontanare gli studiosi (Chadwick 1972, p. 32). Piuttosto, il suo
approccio era eccentrico e umoristico, e prendeva la forma di pa-
rodie scandalose, e spesso piuttosto salaci, di sacerdoti, suore,
vescovi e monaci. In terzo luogo, era un pacifista, aspetto molto
enfatizzato dagli autori m oderni (si veda Bainton 1989). Quarto,
diversamente da Lutero, le sue visioni religiose erano vaghe, fin
quasi al punto deH'insincerità. Quinto, vilipese la Scolastica, di-
venendo così una pietra di paragone agli occhi di coloro, come
Voltaire e Gibbon, che erano determinati a vedere il cristianesi-
mo come una cappa di oscurantismo intellettuale (si veda il ca-
pitolo 2). Infine, scriveva in un latino elegante.
Figlio illegittimo di un sacerdote, Erasmo nacque a Rotter-
dam. Suo padre morì quando lui era ancora un ragazzo e dei tu­
104 A GLORIA DI DIO

tori si occuparono della sua istruzione. Costoro lo spinsero anche


a entrare nell'ordine agostiniano a Steyn, cosa che lui fece con ri-
luttanza. Fu ordinato sacerdote il 25 aprile 1492, un centinaio di
giorni prima della partenza per mare di Colombo, e benché non
abbia mai lasciato l'Europa, si potrebbe dire che viaggiò tanto
quanto lui. Conosciuto come il «grande cosmopolita», si recò in
Inghilterra molte volte, fermandosi sia a Cambridge che a
Oxford, e risiedette anche presso molte altre università europee,
fra le quali Louvain, Torino e Parigi. Nel 1506, dopo una visita a
Roma, Erasmo si stabilì a Bologna, e poi si spostò a Venezia. Da
qui, si recò nuovamente in Inghilterra, e nel 1514 si stabilì a Ba-
silea. Quello stesso anno, il suo priore gli scrisse richiamandolo
alla vita monastica di Steyn. Erasmo inorridì all'idea. Si rivolse
immediatamente a papa Leone X, che si definiva un umanista, e
gli chiese due dispense: una per continuare a vivere nel mondo
e l'altra per poter vestire in abiti non clericali. Gli furono garan-
tite entrambe. Nel frattempo, Erasmo prese residenza a Louvain.
Nel 1521, tornò a Basilea. Dopo che Basilea divenne protestante,
Erasmo andò a Friburgo, nel 1529. Alla fine, i teologi cattolici del-
la città lo accusarono di essere uno scettico, e tornò a Basilea, do-
ve morì, scegliendo di non vedere un sacerdote per l'estrema un-
zione e la confessione.
Erasmo fu il primo scrittore «commerciale». Scrisse i suoi libri
con la chiara intenzione di guadagnare ricche somme di denaro
(Lutero, invece, rifiutò tutti i diritti), ed ebbe successo. Il primo
grande successo finanziario fu Adagia, un compendio di più di
tremila proverbi e citazioni tratti dagli scrittori classici. Oggi, ov-
viamente, opere di questo tipo sono piuttosto comuni e non dan-
no prestigio ai loro autori. Ma questo era il primo libro di quel ti-
po ad apparire nelle vetrine degli stampatori, e fece di Erasmo la
più grande autorità di riferimento per questo tipo di autori.
Eppure, Erasmo guadagnò ancora di più dai diritti delle sue
satire dirette contro la Chiesa, L'elogio della follia e i Colloquia. Nel
primo ritraeva il clero, compresi cardinali e papi, come persone
corrotte, conniventi, in malafede, avide di denaro e rapporti ses-
suali - tutto con umorismo, ovviamente. E nel secondo libro la
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 105

dose aumentava. Una prostituta annovera i monaci fra i suoi mi-


gliori clienti. A una giovane si consiglia di evitare il convento se
deisdera cosnervare la propria verginità. Ed è indubbio che la
gran parte del successo del libro fosse dovuta ai numerosi giochi
di parole e battute licenziose: a una donna incinta viene impartì-
ta la benedizione «che il cielo faccia in modo che il peso che por-
ti abbia un'uscita facile quanto l'entrata». Per alcuni anni i Collo-
quia vendettero più di qualsiasi altro libro, eccetto la Bibbia.
Enormi vendite che dimostrano quanto fosse diffuso l'atteggia-
mento cinico nei confronti della Chiesa fra le élite colte d'Euro-
pa, clero compreso! Owen Chadwick aveva ragione nel dire che
«Erasmo espresse, brillantemente», ciò che gli uomini colti «bor-
bottavano» da anni, «e l'Europa colta rise. Re e vescovi, studiosi
e mercanti, chiunque potesse dire di essere istruito, lo accolsero
tutti con iniziale divertimento e poi con seria approvazione. [...
L'Umanesimo] e la critica erasmiana della Chiesa procedevano
mano nella mano, soprattutto fra gli uom ini di Chiesa»
(Chadwick 1972, p. 32).
Nel 1514 apparve a Parigi ima parodia intitolata Julius Exclu-
sus, nella quale un da poco defunto papa Giulio II (quello delle
guerre e dell'arm atura d'argento) si presenta alle porte del para-
diso, dove san Pietro gli nega l'accesso. Nella disputa che ne se-
gue, il papa minaccia di scomunicare Pietro e si vanta del suo
massimo successo, l'aver aumentato le entrate economiche («Ho
inventato nuove cariche e le ho vendute»); poi, Giulio schernisce
Pietro dicendogli che il papato era ben poca cosa quando il Papa
era lui, confronto ai lussi e al potere di cui godeva ora. La paro-
dia era di cattivo gusto e piuttosto infantile, probabile motivo
per cui non fu un grande successo. Erasmo cercò di nasconderne
la paternità - «Negò sempre con grande cautela questo fatto,
benché fu attento a usare termini che evitassero un diniego for-
male» (Huizinga [1924] 1957, p. 85). Ciò nonostante, tutti sape-
vano che era opera sua. Eppure, Erasmo fu sempre attento a ri-
manere dalla parte buona, quella di Roma. Scriveva solamente in
latino (compreso il Julius Exclusus), il che significava che la sua
opera era accessibile solamente alle élite colte - e gli uomini di
106 A GLORIA DI DIO

chiesa probabilmente rappresentavano la percentuale maggiore


dei suoi lettori e ammiratori 10. Spesso proclamava la sua fedeltà
alla Chiesa, e asseriva che le sue critiche erano dirette solamente
a fin di bene. Aveva anche la dote dell'adulazione. Quando pub-
blicò il suo Nuovo Testamento greco rivisto, nonostante i molti
errori, imo sbaglio che non fece fu dimenticare di dedicarlo a pa-
pa Leone X, che lo apprezzò come si conviene fra umanisti.
In ogni caso, Erasmo fece molto per creare un clima d'opinio-
ne elitario favorevole a riforme immediate e radicali. Ovviamen-
te, quando giunse il momento d'agire, egli non fu disposto a
rompere in maniera definitiva con Roma. Era divenuto l'intellet-
tuale più famoso d'Europa, corrispondente di re e cardinali -
uno status elevato che era restio a mettere a rischio. Se avesse
preso posizione al fianco di Lutero (che inizialmente aveva loda-
to), lui e i suoi scritti sarebbero stati sicuramente condannati dal-
la Chiesa. Per di più, la sua lealtà venne celebrata dai più impor-
tanti uomini ecclesiastici come prova certa del fatto che Lutero e
i suoi sostenitori fossero degli zoticoni ignoranti. Ironia della sor-
te, man mano che il conflitto religioso continuava a surriscaldar-
si, il Concilio di Trento dichiarò che l'ormai defunto Erasmo era
un eretico e ne proibì le opere, sostenendo che «Erasmo ha de-
posto l'uovo che Lutero ha covato» (Monter 1999, p. 56). Com'è
ovvio, allo stesso tempo i protestanti lo condannavano come bu-
giardo e codardo. Fu solamente alla fine del XIX secolo e agli ini-
zi del XX che Erasmo venne «riabilitato» dagli umanisti che am-
miravano la sua condanna della religione, sia protestante che
cattolica.
La mancanza di disponibilità da parte di Erasmo a sostenere
la «riforma protestante» rientrava nell'approccio tipico degli im-
portanti umanisti del XVI secolo. Quasi tutti costoro, all'inizio,
avevano accolto con entusiasmo Lutero, per poi fare marcia in-
dietro velocemente. L'istinto di conservazione era solo parzial-
mente responsabile di questo atteggiamento. Il fatto è che non
nutrivano un vero interesse per le controversie teologiche che
andavano emergendo e che attiravano l'attenzione di Lutero. Le
ritenevano irrilevanti, perché legate a cose nelle quali loro non
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 107

credevano più. Infatti, pare che per gli umanisti la mitologia gre-
co-romana fosse plausibile e interessante tanto quanto il cristia-
nesimo. E ritenevano che le questioni teologiche al cuore del prò-
testantesimo potessero interessare solamente le masse supersti-
ziose. Il loro scopo pare fosse solamente quello di limitare le
«riforme» della Chiesa alla creazione di ima Chiesa-dentro-la-
Chiesa; erano mosche fastidiose, non gladiatori. Will Durant
esprime bene questo punto: Erasmo era «l'Umanesimo incarna-
to - il loro culto dei classici e dello stile latino raffinato, il loro ac-
cordo signorile di non rompere con la Chiesa, e di non disturba-
re l'inevitabile mitologia delle masse, a patto che la Chiesa striz-
zasse l'occhio alla libertà intellettuale delle classi colte e consen-
tisse una ordinata riforma interna degli abusi e delle assurdità
ecclesiastiche» (Durant 1957, p. 291). Quando Leone X divenne
papa, gli umanisti credettero che fosse giunto il loro momento,
dal momento che lui stesso si considerava umanista. Coerente-
mente con l'ambiente famigliare di provenienza, quello dei Me-
dici, Leone spese di più nel gioco d'azzardo che per i bisogni del-
la Chiesa (Bainton [1952] 1985). Questo «perdigiorno» era colpi-
to e divertito da quelle mosche fastidiose degli umanisti - certo,
fino a quando uno di loro si rivelò un gladiatore.

La «Riforma protestante» di Lutero

Ed eccoci a M artin Lutero e al grande movimento protestante


nato durante il XVI secolo, che sostituì il cattolicesimo romano
come Chiesa dell'Europa settentrionale. Come ho sottolineato al-
l'inizio del capitolo, questa non fu una riforma di successo, poi-
ché ebbe come risultato una nuova Chiesa, non una Chiesa rifor-
mata. Tuttavia, la sfida protestante diede finalmente il potere al-
la Chiesa della pietà di riformare il cattolicesimo romano, come
vedremo.
Benché la storia della «Riforma protestante» in Germania sia
ben nota, sarà utile sottolineare alcuni aspetti particolari perti-
nenti a una successiva analisi del perché e del dove ebbe succes­
108 A GLORIA DI DIO

so il protestantesimo. Dunque, questa non è in nessun senso una


storia della Riforma in Germania. Non esaminerò la Guerra dei
contadini, né discuterò degli anabattisti, e ignorerò molti degli il-
lustri colleghi e alleati di Lutero, compreso Melantone. L'interes-
se è posto su Lutero e sulla Chiesa (Bainton [1952] 1985;
Chadwick 1972; Durant 1957; Elton 1999; Holborn 1969 e 1982;
Kittelson 1986; Lutero [1520] 1915; McNally 1969; Moeller 1972;
Oberman 1992; Ozment 1975 e 1980; Rupp 1951 e 1981; Schwie-
bert 1950; Tracy 1999).
M artin Lutero nacque nel 1483 in Sassonia, e nel 1501 si
iscrisse all'università di Erfurt, una delle più antiche e presti-
giose della Germania. Ottenne il diploma di laurea di primo li-
vello nel 1502 e quello di secondo livello nel 1505. L'anno se-
guente entrò a far parte della Chiesa. Come Erasmo, Lutero di-
verme monaco agostiniano e fu ordinato sacerdote nel 1507. Nel
1505 divenne insegnante all'Università di Wittenberg, dove ri-
cevette il dottorato nel 1512 e, con numerose brevi interruzioni
dovute al suo conflitto con la Chiesa, rimase a Wittenberg per il
resto della sua vita.
Nel 1510 Lutero venne scelto dal vicario generale degli ago-
stimarti in Germania come uno dei due monaci che dovevano re-
carsi a Roma a presentare un appello concernente alcune que-
stioni che riguardavano l'ordine. Il viaggio ebbe delle conse-
guenze storiche. Dieci armi dopo, Ignazio da Loyola (1491-1556),
fondatore dei gesuiti, fu consigliato di non recarsi a Roma, altri-
menti la sua fede sarebbe stata scossa dalla «sua immensa de-
pravazione» (Oberman 1992, p. 149). A Lutero non fu dato un si-
mile consiglio e, benché emozionato per la magnificenza e la sto-
ria della città, rimase profondamente scioccato dall'aperta bla-
sfemia e irreligiosità del clero, fra cui alcuni sacerdoti che ritene-
vano divertente recitare delle parodie della liturgia mentre cele-
bravano la Messa. Ciò non va sminuito come una razionalizza-
zione a posteriori; era la reazione tipica dei viaggiatori devoti
che si recavano a Roma. Per esempio, Erasmo raccontò della sua
visita, avvenuta cinque anni prim a di quella di Lutero: «Con le
mie orecchie ho sentito le più disgustose blasfemie contro Cristo
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 109

e gli Apostoli. Molti fra i miei conoscenti avevano udito sacerdo-


ti della Curia pronunciare parole disgustose a voce così alta, e
perfino durante la Messa, così che tutti attorno a loro avevano
potuto udirli» (Oberman 1992, p. 149). E proprio come Erasmo
era rimasto dentro la Chiesa, così anche Lutero non aveva la mi-
nima intenzione di abbandonarla, nemmeno dopo aver visto i
peggiori eccessi della gerarchia romana. Piuttosto, come aveva-
no fatto migliaia di devoti cattolici nei secoli precedenti, si de-
dico alla riforma.
Negli anni successivi, Lutero fu molto impegnato come pre-
dicatore e amministratore, e mentre la sua vita devozionale pri-
vata era spesso tormentata, la teologia rimaneva all'interno del-
la prospettiva agostiniana convenzionale. Sembra che le «eresie»
che alla fine formarono le basi del dissenso luterano non fossero
state formulate fino al periodo di intenso conflitto dottrinale de-
rivato dal suo attacco alle indulgenze: le Novantacinque Tesi.
Il concetto delle indulgenze è un classico esempio di creatività
teologica, in contrasto con la mera interpretazione delle rivela-
zioni (o Scritture), e lo stesso è vero per il concetto di purgatorio
sul quale si basavano le indulgenze. Tutto ebbe origine con
sant'Agostino, il quale dedusse da alcuni passaggi tratti dal Libro
dei Maccabei (12,39-45) e dalla Prima lettera ai Corinzi (ICor 3,11-
15) che al momento della morte nessuno, tranne i rari santi,
ascendeva direttamente al cielo. I dannati andavano direttamen-
te aH'infemo, ma i rimanenti passavano a una forma leggermen-
te meno dolorosa di inferno, per espiare le proprie colpe fino alla
totale purgazione (da qui il termine «purgatorio») di quei peccati
che non erano stati controbilanciati dalle opere buone durante il
corso della vita. In altre parole, un peccato doveva essere contro-
bilanciato da una sincera contrizione, dalla confessione a un sa-
cerdote, dall'assoluzione ricevuta e poi da un ammontare suffi-
ciente di opere buone. La Chiesa insegnava che per quasi tutte le
persone, al momento della morte, i peccati superavano di molto
le opere buone, e quindi c'era la necessità di soffrire le pene terri-
bili del Purgatorio per centinaia di migliaia, forse milioni, di anni
prima di avere il permesso di entrare in paradiso.
110 A GLORIA DI DIO

Dal momento che il tempo trascorso in purgatorio era un so-


stituto delle opere buone, ne seguiva che più opere buone si
compivano, meno si stava in purgatorio, e a qualcuno venne l'i-
dea che le opere buone a beneficio della Chiesa contassero più
delle altre. Infatti, presto la Chiesa iniziò a specificare quali fos-
sero tali opere, e ad assegnare loro un valore in quanto a tempo
risparmiato nella permanenza in purgatorio. Per esempio, la par-
tecipazione a una Crociata era classificata come una totale re-
missione dei peccati. E ciò si estendeva anche a coloro che dava-
no alla Chiesa denaro sufficiente per mantenere un crociato.
Quando le Crociate vennero meno, non furono accompagnate
nel declino dal desiderio di fondi della Chiesa, che invece persi-
stette. Di conseguenza, fu stabilito che, attraverso donazioni o
servizi per la Chiesa, tutti potevano «guadagnarsi» un rilascio
più veloce dalle torture del purgatorio. Presto s'iniziarono a ven-
dere certificati firmati e sigillati di indulgenze specifiche, alcuni
dei quali specificavano il periodo di remissione, altri fornivano
delle dispense per poter commettere, o per aver commesso, vari
peccati. Per esempio, moltissime persone acquistavano indui-
genze che permettevano loro di mangiare i cibi proibiti nei gior-
ni di digiuno; altri compravano dei permessi per tenere dei beni
acquisiti in modo illecito.
Man mano che passò il tempo, e che le ambizioni finanziarie
della Chiesa continuarono a crescere, si sviluppò una elaborata
rete di vendita delle indulgenze, basata sui monaci viaggiatori.
Poi, nel 1476, papa Sisto IV capì come espandere enormemente il
mercato. Cercando dei fondi per ripagare i suoi molti debiti e
continuare il lavoro alla Cappella Sistina, il Papa autorizzò la
vendita di indulgenze che avrebbero abbreviato le pene dei cari
defunti già in purgatorio. Come recitava uno slogan di vendita
dell'epoca, «Appena ima moneta gettata nella cassetta delle eie-
mosine tintinna, un'anim a se ne vola via dal Purgatorio»
(Chadwick 1972, p. 42; Duffy 1997, p. 153; Schwiebert 1950, p.
310).
Fin dall'inizio, alcuni membri della Chiesa della pietà come
Pietro Abelardo avevano messo in dubbio la validità delle indui-
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI Ili

g e m e , così come Wyclif, Hus ed Erasmo, e la pratica della ven-


dita delle indulgenze in nome dei defunti aveva offeso Lutero
già molti anni prim a che scrivesse la sua famosa protesta. Ciò
che spinse Lutero ad agire fu una massiccia campagna di vendi-
te lanciata in Germania nel 1517 per raccogliere indulgenze al fi-
ne di ricostruire la Basilica di san Pietro a Roma (era stato anche
concordato in segreto che metà dei fondi raccolti sarebbe andata
all'arcivescovo di Metz, per ripagare gli immensi debiti da que-
sti accumulati per l'acquisto della sua carica, così come di altri
tre vescovadi). Fu Johannes Tetzel (1465-1519 ca.), un importan-
te predicatore delle indulgenze, a farsi carico della campagna
nelle aree vicine a Wittenberg. Sono sopravvissuti alcuni stralci
dei suoi sermoni, e questo era un tipico passaggio: «Non sentite
le voci dei vostri genitori o degli altri defunti, che urlano e dico-
no "abbiate pietà di me, abbiate pietà di me [...] soffriamo pene
severe e grande dolore, dai quali potete salvarci con poca elemo-
sina, se solo volete"» (Oberman 1992, p. 188). Lutero era furioso
per questo sfruttamento della paura a fini commerciali.
E importante sapere che le Novantacinque Tesi non erano un
attacco generale alle dottrine o alle pratiche cattoliche, ma erano
focalizzate contro le indulgenze. Per esempio, Lutero non mette-
va in dubbio l'esistenza del purgatorio (questo venne successi-
vamente), ma solamente l'idea che ci si potesse affrancare attra-
verso il denaro. Inoltre, la storia ha mal interpretato il suo gesto
di affiggerle alla porta della chiesa del Castello come atto di sfi-
da; in realtà, quello era il metodo usuale per proporre un dibat-
tito teologico, e la porta di questa specifica chiesa era utilizzata
normalmente come «bacheca» da parte del corpo insegnanti del-
l'Università di Wittenberg (Schwiebert 1950, p. 314). Dunque,
Lutero non asseriva che queste tesi fossero vere, ma le propone-
va come materia di dibattito e valutazione secondo i normali usi
accademici. Mandò una loro copia assieme a una lettera molto ri-
spettosa e nobile all'arcivescovo di Mainz (McNally 1969).
Benché fosse rivolto ai suoi colleghi teologi e agli uomini di
Chiesa, l'attacco di Lutero alle indulgenze si diffuse con incredi-
bile rapidità. Lo stesso Lutero espresse la propria meraviglia in
112 A GLORIA DI DIO

una lettera a papa Leone X, scritta sei mesi dopo aver affisso le
tesi: «È per me un mistero il modo in cui le mie tesi [...]si sono
diffuse in così tanti luoghi. Erano intese esclusivamente per il no-
stro circolo accademico, qui [...] erano state scritte in un lin-
guaggio tale che le persone comuni difficilmente potevano ca-
pirle. Utilizzavano categorie accademiche» (in Eisenstein 1979,
pp. 306-307). Probabilmente, Lutero non era del tutto sincero,
poiché sapeva che alcuni suoi amici avevano tradotto le tesi in
tedesco (e poco dopo in francese, inglese e italiano), e che gli
stampatori d'Europa avevano fin da subito riconosciuto il docu-
mento come un potenziale «best seller» - Margaret Aston ha esa-
gerato di poco affermando che «entro due settimane [lo conosce-
va] tutta la Germania ed entro un mese l'Europa intera» (Aston
1968, p. 76). Lutero aveva affisso le sue tesi il 31 ottobre 1517 - la
vigilia del giorno di Ognissanti. Giunti a dicembre, erano già tre
i diversi stampatori di tre differenti città ad aver diffuso delle tra-
duzioni in tedesco (Eisenstein 1979). Nei mesi successivi appar-
vero edizioni in numerosi altri luoghi, compresa l'Inghilterra. Da
queste e da ulteriori comunicazioni di massa derivarono la sim-
patia e il sostegno pubblico su scala così ampia.
Probabilmente proprio perché la critica di Lutero era divenuta
così nota al di fuori dell'élite che capiva il latino, la risposta della
Chiesa fu irosa e fulminea: papa Leone X gli ordinò di presentarsi
subito a Roma. Se Lutero avesse obbedito, sarebbe quasi sicura-
mente sparito nelle note a piè di pagina della sezione martiri. For-
tunatamente per lui, l'elettore tedesco Frederick si oppose alla
convocazione (anche lui era profondamente contrario alla vendita
delle indulgenze romane in Germania), e si giunse al compromes-
so per cui Lutero avrebbe dovuto presentarsi al cardinale Caieta-
no, ad Augusta. Arrivandovi il 7 ottobre 1518 con un salvacondot-
to di Frederick, Lutero scoprì che il cardinale non aveva alcun in-
teresse a discutere delle indulgenze. Per lui, l'intera questione si ri-
duceva a una sfida all'autorità del Papa, e quindi ordinò a Lutero
di ritrattare. Quando questi, con rispetto, si rifiutò, il cardinale, in-
furiato, gli ordinò di sparire dalla sua vista fino a quando non fos-
se stato pronto ad abiurare tutto in maniera incondizionata.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 113

Presto a Lutero giunsero voci che il cardinale progettava di


violare il salvacondotto (esattamente come era stato fatto nel ca-
so di Hus) e di mandarlo in catene a Roma, dove ne avrebbero
fatto un esempio per chiunque altro avesse voluto sfidare il pa-
pato. Alcuni amici lo aiutarono allora a fuggire da Augusta e a
tornare a Wittenberg, dove il corpo insegnanti si radunò per so-
stenere la sua causa e chiese a Frederick di proteggerlo. Poi, do-
po un confronto con molti oppositori teologici a Lipsia, nel 1520
Lutero scrisse e pubblicò tre famosi e arditi trattati, che divenne-
ro noti come i «Trattati di Riforma».
Scritto in un tedesco splendidamente vigoroso, il primo trat-
tato di Lutero era una lettera aperta Alla nobiltà cristiana di nazio-
ne tedesca: del miglioramento dello Stato cristiano, della quale scris-
se a un amico, «Sto pubblicando un libro in lingua tedesca sulla
riforma cristiana, diretto contro il papa, in un linguaggio violen-
to come se fosse l'Anticristo» (in Durant 1957, p. 352). Nel tratta-
to esortava le forze secolari a sviare una potenziale sollevazione
popolare intervenendo per riformare ima Chiesa che si rifiutava
di affrontare le numerose lamentele del popolo tedesco contro
Roma. Il cuore di questo appello era un nazionalismo tedesco
che si opponesse allo sfruttamento papale: «Abbiamo il nome, il
titolo e le insegne dell'Impero [Sacro Romano], ma il Papa ha i
suoi tesori, la sua autorità, le sue leggi e la sua libertà. Così il Pa-
pa trangugia le noci, e noi rimaniamo a giocare coi gusci vuoti»
(Lutero [1520] 1915, p. 157). E continuava: «Ogni anno più di tre-
centomila fiorini sono finiti a Roma dalla Germania, inutilmente
e vanamente; non abbiamo avuto nulla in cambio, se non scher-
no e disprezzo. E ancora ci stupiamo che principi, nobili, città,
donazioni, terre e persone si siano impoveriti!» (Lutero [1520]
1915, p. 84). Per porre termine a queste «estorsioni», Lutero prò-
poneva di istituire una Chiesa nazionale libera da Roma e gui-
data dal vescovo di Magonza, e di «cacciare dalle terre tedesche
i legati papali con i loro [poteri e indulgenze], che ci vendono per
grandi somme di denaro [...] è una pura frode» (Lutero [1520]
1915, p. 138). Chiedeva anche la riduzione degli ordini mendi-
canti, l'abolizione delle messe per i defunti, e l'eliminazione dei
114 A GLORIA DI DIO

«giorni sacri» che non fossero la domenica. Inoltre, propose che


i sacerdoti potessero sposarsi, e che a nessuno fosse consentito
prendere dei voti vincolanti prim a dei trent'anni di età. Poi, do-
veva essere abolito tutto il diritto canonico; avrebbe dovuto es-
serci un insieme di leggi e dei tribunali uguali per tutti. Lutero
propose anche che la Chiesa tedesca si riconciliasse con gli hus-
siti in Boemia.
In quanto alla violenza del linguaggio: «Ascolta ciò, o papa,
non più santissimo, ma il più peccatore! O che Dio dal cielo di-
strugga presto il tuo trono e lo faccia sprofondare negli abissi
dell'inferno! [...] O Cristo, mio Signore, guarda quaggiù, lascia
che venga il giorno del giudizio, e distruggi il covo del diavolo a
Roma» (Lutero [1520] 1915, p. 139). Presto in tutta la Germania si
diffusero decine di migliaia di copie, sollevando un tumulto
d'approvazione.
Il secondo trattato, La cattività babilonese della Chiesa, era indi-
rizzato al clero tedesco e agli studiosi, ed era scritto in latino. Tut-
tavia, vennero stampate quasi contemporaneamente delle tradu-
zioni in tedesco che vendettero molto in tutta la Germania, prima,
e poi nel resto d'Europa. Qui, Lutero proponeva una completa ri-
voluzione religiosa. Partendo dal paragone fra la lunga cattività
degli ebrei a Babilonia e la cattività di migliaia di anni dei cristia-
ni causata dal papato, Lutero condannò le dottrine del purgatorio
e della transustanziazione, chiese lo scioglimento degli ordini e la
fine dei voti di celibato. Mise poi in ridicolo le messe per i defun-
ti e le indulgenze, e proclamò che gli hussiti avevano ragione: tut-
ti dovevano avere un sorso del vino di Comunione, non sola-
mente il sacerdote. Ma, soprattutto, asserì l'assoluta autorità del-
le Sacre Scritture e proclamò la salvezza tramite la sola fede.
Il terzo trattato era intitolato Trattato sulla libertà del cristiano e
chiariva gli aspetti etici della salvezza tramite la sola fede. La so-
la fede faceva di una persona un vero cristiano, e le opere buone
derivavano da questa fede. Riportando la frase presente nel Van-
gelo di Matteo (7,20), «Dai loro frutti dunque li riconoscerete»,
Lutero la trasforma in «l'albero porta i frutti, i frutti non portano
l'albero».
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 115

Messa alle strette da un'eresia così accesa, la Chiesa agì. Il 15


giugno 1520, gli scritti di Lutero furono ufficialmente condanna-
ti da ima bolla papale, e copie delle opere vennero date alle fiam-
me a Roma. In risposta, gli studenti di Wittenberg bruciarono
trattati che attaccavano Lutero, fra cui copie della stessa bolla, e
continuò a diffondersi rapidamente un fortissimo sostegno pub-
blico nei suoi confronti. Benché la gerarchia ecclesiale in Germa-
nia fosse sbalordita daU'immensa popolarità di Lutero, nel 1521
questi venne ufficialmente scomunicato da papa Leone X.
Nel frattempo, a Lutero venne ordinato di presentarsi davan-
ti alla Dieta Imperiale che si riuniva a Worms. I suoi amici non
volevano che obbedisse, temendo il peggio, ma lui insistè. Fu la
decisione più importante della sua vita, una decisione che cam-
biò il corso della storia dell'Occidente. Il viaggio di Lutero a
Worms non fu quello di un monaco scomunicato, infatti «lo ac-
compagnavano cavalieri tedeschi a cavallo e le strade erano [...]
affollate» (Rupp 1981, p. 192). Durante la sua audizione, Lutero
si rifiutò di indietreggiare, e chiuse con il suo immortale «Ecco-
mi qui».
Q uando una sessione successiva della Dieta lo dichiarò un
criminale, i suoi sostenitori lo nascosero nel castello di Wartburg.
Qui Lutero iniziò la sua traduzione tedesca del Nuovo Testa-
mento, dal greco. Poi, tornò a Wittenberg, dove si sposò e conti-
nuò a dirigere l'immenso movimento animato dai suoi scritti e
dal suo esempio. La nobiltà continuò a proteggerlo, mentre mol-
fissimi sacerdoti, suore e monaci cattolici divennero luterani, si
sposarono e rifornirono di personale la nuova chiesa.
Pochi argomenti sono stati scavati così a fondo quanto l'e-
voluzione e le complessità della teologia di Lutero. Ma le com-
plessità teologiche non animano grandi movimenti sociali. Il
sostegno popolare richiede un tema molto chiaro, molto appas-
stonante, ed esprimibile con uno «slogan». E questo non perché
la gente che partecipa a un movimento sociale sia ignorante,
ma perché questa gente è chiamata all'azione, non allo studio o
alla riflessione. Il che in nessun modo significa che la dottrina
non sia im portante; la dottrina è cruciale. Tuttavia, non era
116 A GLORIA DI DIO

un'astrusa teologia ad animare il sostegno popolare a Lutero,


ma una chiara, semplice somma delle sue idee: la salvezza è
raggiungibile tram ite la sola fede, e quindi ogni individuo de-
ve curare il proprio rapporto con Dio, indipendentem ente dal-
l'intercessione ecclesiale, ma solamente unendosi al «sacerdo-
zio di tutti i credenti».
Dal momento che la «Riforma» in Germania fu guidata da
esperti teologi e preservata dal potere della nobiltà, è facile tra-
scurare il fatto che non sia stato affatto un movimento elitario.
Senza il diffusissimo sostegno popolare che si schierò quasi im-
mediatamente con la causa, come esemplifica la folla lungo le
strade di Worms, sia Lutero sia il luteranesimo sarebbero svani-
ti. Invece, come ampiamente dim ostrato di volta in volta dalla
grande popolarità dei riformatori precedenti e di molti movi-
menti eretici, la «gente» era pronta a sostenere un cristianesimo
più intenso e accessibile. Il richiamo alla fede di Lutero fu accol-
to con grande favore, e mai prim a di allora un simile appello si
era diffuso così lontano e così rapidamente.
È importante, comunque, definire in maniera più chiara chi
fosse la «gente» che seguiva la dottrina di Lutero. Non si tratta-
va delle classi «inferiori». Contadini e braccianti non erano nem-
meno cristiani in molte delle aree che poi divennero l'Europa
protestante e, nei limiti in cui si interessavano di religione, le lo-
ro preferenze erano per rituali e sacramenti che offrivano veloce
sollievo nei momenti difficili o un aiuto aggiuntivo nella ricerca
dei risultati desiderati (Ozment 1980; Stark 1999). Infatti, come
vedremo nel capitolo 3, molte persone ricorrevano alla «magia»
della Chiesa tanto quanto ad altre forme di magia. No, oltre a no-
biltà e clero, la «gente» che si schierò per prim a a sostegno di Lu-
tero furono i laici ricchi, colti e che vivevano in città, una catego-
ria sociale a quell'epoca in rapida crescita: mercanti, banchieri,
professionisti, produttori, negozianti, studenti e gilde delle arti e
dei mestieri (Brady 1978; Monter 1967; Ozment 1975; Ròrig 1969;
Strauss 1967; Tracy 1999). L'immensa capacità di attrazione del
luteranesimo fu particolarmente rilevante nei confronti degli
stampatori, categoria in rapida crescita di «intellettuali artigia­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 117

ni». Sin dai primissimi giorni, il luteranesimo godette pratica-


mente di un monopolio della stampa (Christman 1982). Infatti,
come riportò Pollard, «fu solamente con enormi difficoltà che gli
stampatori poterono essere indotti a pubblicare opere in difesa
della Chiesa cattolica» (Pollard 1903, p. 159).
Ciò nonostante, non c'era nulla di veramente nuovo nel Iute-
ranesimo. Tutti i maggiori punti teologici erano già stati espres-
si di volta in volta nel corso dei secoli da riformatori della Chie-
sa della pietà e da molte sette dissidenti. Anche l'importantissi-
mo umanista francese Jacques Lefèvre d'Étaples (1450-1536) an-
ticipò di parecchi anni il concetto che la salvezza sia ottenibile
solamente tramite la fede. E contemporaneamente, a Basilea, nel
1508, Thomas Wyttenbach (1472-1526) insegnava al giovane Ul-
rich Zwingli che le messe, le indulgenze e il celibato dei sacer-
doti erano aspetti non conformi alle Scritture. In seguito, fu
Zwingli ad anticipare il richiamo di Lutero a una religione ba-
sata interamente sulle Scritture e l'idea che in sé il papato stes-
so non trovava alcuna giustificazione in esse. Così com'era ca-
pitato con le precedenti sfide alla Chiesa del potere, anche il lu-
teranesimo fu guidato da un membro del clero cattolico che at-
tirò alla sua causa molti altri membri del clero e degli ordini re-
ligiosi. Come nel caso dei lollardi e degli hussiti, il luteranesimo
fu un prodotto delle università. E proprio come aveva spesso
appoggiato l'opposizione religiosa a Roma, così la nobiltà so-
stenne il luteranesimo; proprio come si era schierata con prece-
denti movimenti e oppositori che offrivano una via diretta alla
salvezza, così la gente si schierò con Lutero. Infine, come con
tutti i tentativi di riforma già avvenuti, ancora ima volta prevai-
se la Chiesa del potere, dal momento che Lutero e i suoi soste-
nitori vennero esternalizzati.
Eppure, c'era qualcosa di unico nel luteranesimo: M artin Lu-
tero. Nonostante tutte le loro molte virtù, i riformatori preceden-
ti e i leader delle sette sembrano persone ordinarie confronto a
Lutero, con la sua incredibile intelligenza, la prosa di stile ma-
gnificente, il talento musicale, l'incredibile energia, la sorpren-
dente tenerezza (si vedano i suoi importanti «sermoni sulla Na­
US A GLORIA DI DIO

tività», alcuni dei quali sono stati riportati in Roland H. Bainton


1997), e, forse più di ogni altra cosa, con quella che sarebbe stato
d'accordo nel chiamare assoluta testardaggine. Eccolo lì.

La Riforma inglese

A seconda del punto di vista adottato, gli inglesi ottennero


una vera riforma oppure semplicemente istituzionalizzarono un
movimento settario eretico. Personalmente, propendo per la vi-
sione secondo cui si trattò di una riforma, benché limitata nelle
dimensioni. Al suo termine, la Chiesa era essenzialmente la stes-
sa, ma c'era un fervore in un certo senso rinnovato. In effetti, En-
rico Vili (1491-1547) non aveva alcuna intenzione di dar vita a
una nuova Chiesa, ma voleva semplicemente separare il cattoli-
cesimo inglese da Roma (la Chiesa anglicana rivendica la sue-
cessione apostolica). Di conseguenza, in seguito alla rottura, la
gran parte del clero cattolico romano originario continuò a ser-
vire la gente dalle stesse chiese e cappelle. Venivano celebrati gli
stessi sacramenti, ma in inglese, non più in latino. E per quanto
riguardava il rinnovamento degli standard religiosi, per almeno
u n breve periodo la moralità della Chiesa inglese fu significati-
vamente elevata. Dal momento che le caratteristiche chiave del-
la Riforma inglese saranno pertinenti a una successiva analisi
della diffusione del protestantesimo, le riassumerò brevemente
(Chadwick 1972; Collinson 1967; Dickens 1991; Duffy 1992; Du-
rant 1957; Fines 1981; Hoyle 2001; MacCulloch 2000; O'Day 1986;
Scarisbrick 1984; Tracy 1999).
I lollardi fornirono il capitolo d'apertura della Riforma ingle-
se. E, benché soppressi, mantennero un'attività clandestina che
accolse il luteranesimo quando giunse per la prima volta in In-
ghilterra. Come ha spiegato Dickens, l'importanza di questa «ere-
sia nativa d'Inghilterra» sta nell'aver creato delle «aree di ricezio-
ne popolare per il luteranesimo di nuova importazione». Dun-
que, «i primi protestanti inglesi degli anni '20 e '30 del 1500 era-
no luterani» (Dickens 1991, pp. 13-14). La via principale attraver­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 119

so cui il luteranesimo entrò in Inghilterra fu un gruppo di dissi-


denti inglesi esiliati ad Anversa, guidati da William Tyndale
(1494-1536), il quale si era incontrato con Lutero nel 1524 e le cui
traduzioni inglesi della Bibbia divennero le basi per la versione di
re Giacomo. Fra gli altri importanti esuli c'erano Simon Fish, Wil-
liam Roye e Jerome Barlow, tutti impegnati nello scrivere trattati
e libri che esprimevano le idee protestanti e che trovavano un
pubblico di lettori entusiasti in Inghilterra (O'Day 1986). Gli esu-
li vivevano alla «English House» mantenuta ad Anversa da mer-
canti inglesi, e godevano dell'immunità legale. (In modo meschi-
no, nel 1535, Tyndale fu richiamato al di fuori della English Hou-
se, catturato da emissari cattolici, processato come eretico e stran-
golato; il suo corpo venne poi mandato al rogo.)
Gli stretti legami fra la Riforma inglese e il continente sono
evidenti dall'importante testo, Biographical Register ofEarly Engli-
sh Protestants c.1525-1558 (Fines 1981). Questo registro ci consen-
te di collocare geograficamente più di duemila fra i primi prote-
stanti. Più del 70% di loro proveniva da «una mezzaluna di con-
tee costiere» con «un'estensione verso ovest lungo il Tamigi» fino
a Londra, «la regione a più stretto contatto con i propagandisti
esiliati guidati da Tyndale, oltre che con il mondo continentale di
Erasmo» (Dickens 1991, p. 326). Va rilevato anche che questa era
l'area più ricca e meglio istruita d'Inghilterra, il che non sorpren-
de visto che, come in Germania, il sostegno popolare al prote-
stantesimo non giunse dalle classi «inferiori», ma dal mondo lai-
co, colto e ricco - i possidenti terrieri, i professionisti, i banchieri,
i primi industriali, e i mercanti, soprattutto quelli che commer-
davano con il continente. Nel 1530 il vescovo Nix di Norwich si
lamentava del fatto che «coloro che comprano e leggono» libri
eretici sono «mercanti [...] che hanno dimora non lontano dal
mare» (Letters and Papers of Henry V ili n. 6385). Il vescovo Nix
avrebbe potuto anche includere le classi più elevate in generale,
dal momento che sentimenti anticlericali e antipapali avevano
«messo radici nelle classi dominanti» (Dickens 1991, p. 128).
Benché il Parlamento inglese avesse un potere rilevante nel
XVI secolo, predom inava ancora la Corona. In quest'occasione,
120 A GLORIA DI DIO

Corona e Parlamento si allearono per dare inizio alla «Riforma


inglese», nonostante il fatto che le motivazioni e gli eventuali
scopi fossero piuttosto diversi. Molti membri del Parlamento
legiferarono contro Roma per sinceri sentimenti protestanti,
mentre Enrico, non avendo nessuna simpatia per i protestanti e
le loro visioni religiose, puntava solamente a nazionalizzare la
Chiesa; di conseguenza, molti dei sim patizzanti protestanti
presenti in Parlamento non dichiararono apertam ente le loro
intenzioni. Quindi, il Parlam ento che si riunì nel novembre del
1529 passò alla storia non come il «Parlamento protestante» ma
come il «Parlamento della Riforma». Per prim a cosa vi fu l'e-
manazione di atti che eliminavano i privilegi ecclesiastici, come
il diritto ad au :enticare tutti i testamenti e l'imposizione di tas-
se sul decesse», e proibivano la detenzione di più di una pre-
benda alla volta. All'ultim a di queste misure, il Parlamento al-
legò una clausola che negava il potere del Papa di autorizzare
qualcosa «di contrario al presente Atto». Poi, ci fu la legge che
stabiliva che tutti i religiosi di livello inferiore al suddiacono, se
accusati di un reato, dovevano essere processati da un tribuna-
le civile, non ecclesiastico; che tutte le «annualità» (i ricavi del
prim o anno di una prebenda) non dovevano più essere pagate
al papa; e che il denaro ricavato dalla vendita di dispense, in-
dulgenze e altri servizi simili non doveva essere m andato a Ro-
ma. Nel 1533, il Parlam ento emanò uno «Statuto di restrizione
degli appelli» che stabiliva che tutte le cause che in precedenza
venivano indirizzate a Roma per essere giudicate da quel mo-
mento in poi passavano sotto la giurisdizione delle «corti spiri-
tuali e temporali all'interno del Regno, senza riguardo per
qualsiasi [... autorità] straniera» (in D urant 1957, p. 547). Il 15
gennaio 1534, il Parlamento dichiarò che la nomina di tutti i ve-
scovi era una prerogativa reale, non papale, e tolse ai tribunali
clericali tutti i processi per eresia, passandoli alle corti civili.
L'11 novembre 1534 ci fu il passo finale, l'Atto di Supremazia,
nel quale si riconosceva il re come capo della Chiesa anglicana
(Ecclesia Anglicana) con pieni poteri sul credo, l'eresia, la mora-
le, le organizzazioni e la riforma.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 121

Ne seguì immediatamente un massacro. Tre priori certosini


che avevano espresso la loro contrarietà a riconoscere come capo
della Chiesa una persona che non avesse preso i voti furono cat-
turati e, assieme a un altro sacerdote e a un frate, giustiziati nel
modo più orrendo. L'ira del re si abbatté anche su molti appar-
tenenti al clero in tutto il regno, e soprattutto su mistici come
George Lazanby. Q uando il Papa nominò cardinale il vescovo
John Fisher, Enrico lo fece catturare e pretese che firmasse un
giuramento in cui riconosceva il re come capo della Chiesa in-
glese. Davanti al rifiuto di Fisher, Enrico lo fece decapitare e or-
dinò di appendere la testa alla torre di un ponte, scherzando sul
mandarla a Roma a ricevere il suo copricapo cardinalizio (in Du-
rant 1957, p. 550). Poco dopo, fu la testa di sir Thomas More a es-
sere appesa a quel ponte, avvenimento al quale seguì la chiusu-
ra e il saccheggio di conventi e monasteri, che portarono enormi
somme nelle casse della Corona.
Nel 1536 vi fu un'insurrezione cattolica nel nord dell'Inghil-
terra, nota come il «Pellegrinaggio di Grazia». Guidata da im-
portanti membri della nobiltà, una folla di molte migliaia di uo-
mini si riunì nel Lincolnshire per protestare contro la soppres-
sione dei monasteri e l'abolizione dell'autorità papale. Si di-
spersero quando il re ordinò loro di farlo. E p u r tuttavia, il mo-
vimento si estese, fino al punto che furono almeno trentacin-
quemila gli uomini che successivamente si radunarono a Don-
caster. Anche in questo caso, si dispersero alla promessa che sa-
rebbe stato garantito loro u n perdono generale e che sarebbe sta-
to convocato il Parlamento. Però, molti mesi dopo, scoppiò una
nuova insurrezione a Beverley. Benché non avessero nessun
ruolo in questo episodio, e anzi avessero cercato di evitarlo, i
leader del movimento furono catturati e giustiziati. A questo
punto, la Corona lanciò una campagna di terrore nelle contee
settentrionali, e molte persone furono impiccate al minimo so-
spetto di dissidenza (Bush 1999; Dickens 1961; Dodds e Dodds
[1915] 1971; Hoyle 2001).
Non sfuggirono all'esecuzione nemmeno i protestanti. Enrico
rimaneva un cattolico tranne per le questioni che concernevano
122 A GLORIA DI DIO

l'autorità papale, e i suoi emissari continuarono a perseguire le


accuse di eresia contro i protestanti dichiarati, m andando alcuni
di loro al rogo. Solamente quando a Enrico Vili succedette
Edoardo VI (1537-1553) la Chiesa anglicana divenne veramente
protestante. Ma alla morte di Edoardo, la regina Maria I (1516-
1568) tentò di riportare la Chiesa inglese a Roma. Nonostante il
fatto che i polemisti protestanti l'abbiano definita con successo
«Maria la sanguinaria», va detto che i suoi tentativi versarono
molto meno sangue protestante di quanto era stato il sangue cat-
tolico versato da Enrico Vili ed Edoardo VI - anzi, il solo Enrico
Vili potrebbe aver causato tanto sangue protestante quanto Ma-
ria, o forse più (Monter 1999). Poi, con l'ascesa al trono di Elisa-
betta I (1533-1603), la Chiesa anglicana tornò al protestantesimo.
Ciò ebbe come conseguenza un numero di morti cattoliche mol-
to superiore di quanto erano state le morti protestanti durante il
regno di Maria - anche senza contare i moltissimi monaci assas-
sinati dalle truppe di Elisabetta in Irlanda. Se l'Armada avesse
avuto successo, i nostri libri di storia forse parlerebbero di «Eli-
sabetta la sanguinaria».
Il desiderio di divorzio di Enrico Vili non fu altro che una cau-
sa secondaria della Riforma inglese. Tralasciando la grande capa-
cità d'attrazione popolare delle riforme protestanti, va ricono-
sciuto che il conflitto fra Corona inglese e Chiesa si era andato in-
tensificando da molti anni. Infatti, al momento della sua incoro-
nazione, nel 1509, Enrico si rifiutò di pronunciare un giuramento
a sostegno della «Sacra Chiesa», ma giurò di sostenere la «Sacra
Chiesa d'Inghilterra». Gli aspetti primari del conflitto erano la rie-
chezza della Chiesa e le continue esazioni, oltre che l'autorità pa-
pale. Dickens ha dimostrato come le accuse concernenti la quan-
tità di denaro mandata a Roma dagli inglesi siano state enorme-
mente esagerate, e come, in realtà, in seguito alla rottura con Ro-
ma, la Corona abbia avuto dai ricavi della Chiesa d'Inghilterra
più di quanto qualsiasi papa avesse chiesto (Dickens 1991). Ma
Dickens non riconobbe due fattori importanti. Per primo, che
quasi tutto il denaro della Chiesa mandato alla tesoreria di Enri-
co Vili rimaneva all'interno dell'economia inglese, diversamente
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 123

dal denaro mandato a Roma. E secondo, che quelle accuse esage-


rate in merito alle esazioni papali erano convinzione comune in
Inghilterra all'epoca della Riforma, sia fra i vescovi e la nobiltà,
sia fra la gente comune. Infatti, già da solo, il cardinale Wolsey
(1473-1530) dava una drammatica conferma ai sentimenti antipa-
pali attraverso la sua «enorme ricchezza e sontuosa ostentazio-
ne», oltre che con il suo brutale esercizio dell'autorità romana.
Ciò nonostante, la Riforma inglese avrebbe potuto benissimo
essere ritardata se il Papa non avesse frustrato la volontà di divor-
zio di Enrico. Π punto era che la richiesta del re era ben fondata su
precedenti: il papa accordava normalmente dei divorzi con moti-
vazioni inconsistenti - tra l'altro, aveva concesso il divorzio anche
alla sorella di Enrico, la regina Margherita di Scozia, e a un altro
suo cognato, il Duca di Suffolk. Nel caso di Enrico, però, il Papa
non aveva libertà d'azione perché Carlo V, Sacro Romano Impera-
tore, deteneva un controllo militare molto saldo su Roma ed era
nipote di Caterina d'Aragona, la donna dalla quale Enrico voleva
divorziare. Carlo V non nutriva una particolare considerazione
nei confronti della zia, ma, essendo molto sensibile al fatto di non
essere cresciuto in Spagna (benché questo fosse il suo dominio più
vasto), voleva preservare l'orgoglio spagnolo della famiglia reale,
orgoglio che si sarebbe di sicuro infiammato se la figlia di Ferdi-
nando e Isabella fosse stata abbandonata da un inglese. Molta sto-
ria è frutto di questioni ancora più banali.
La restaurazione del protestantesimo a opera di Elisabetta I era
ben lontana dal porre fine alla Riforma inglese, e infatti fu presto
seguita dalla breve, ma vigorosa, riforma della Chiesa anglicana a
opera di Cromwell. Tuttavia, in questo studio il mio interesse si li-
mita a questi pochi fatti, al come e al perché un luogo specifico sia
divenuto protestante, e non alla storia religiosa successiva.

Il protestantesimo svizzero

La battaglia per istituire un protestantesimo svizzero essen-


zialmente finì prim a dell'arrivo di Giovanni Calvino in Svizzera
124 A GLORIA DI DIO

(dicembre 1534). Il maggior contributo di Calvino alla diffusione


del protestantesimo fu quello l'aver avviato un movimento ca-
pace di attrarre milioni di devoti al di fuori della Svizzera, in
Francia, nei Paesi Bassi e in Renania. Per capire come fu che al-
cune parti della Svizzera divennero protestanti dobbiamo però
partire da Zwingli.

Zwingli
Fu Ulrich Zwingli (1484-1531) a guidare il diffuso entusiasmo
protestante degli abitanti di Zurigo e di altre città svizzere (Du-
rant 1957; Ozment 1980; Potter 1976; Walton 1967). Zwingli pre-
se i voti nel 1506, e i suoi parenti gli comprarono una parrocchia.
Fin dall'inizio, fu un ammiratore entusiasta di Erasmo e condi-
vise le sue preoccupazioni in merito alla necessità di riforma del-
la Chiesa. Tuttavia, ciò non si estendeva alla questione del celi-
bato: Zwingli ebbe ima serie di relazioni con donne della parroc-
chia, e alla fine convisse con una di loro, che sposò in segreto
mentre era ancora un sacerdote cattolico. Benché alcuni aspetti
della sua predicazione fossero «luterani» prim a ancora che si
sentisse parlare di Lutero, egli rispose immediatamente alle No-
vantacinque Tesi e iniziò ad attaccare la pratica delle indulgenze.
Infatti, convinse i vicini monaci benedettini a rimuovere un'indi-
cazione sull'altare della Vergine che prometteva la completa re-
missione dei peccati. La notizia di questo gesto, come di altri,
raggiunse Zurigo, e Zwingli venne invitato a occuparsi di un
«ufficio di predicatore» (Prddikaturen) in una grande chiesa della
città. Questo tipo di attività erano volte a soddisfare il desiderio
di sermoni, in rapida crescita in parte del m ondo laico colto, al di
là della normale Messa - coloro che detenevano questi incarichi
spesso venivano chiamati «sacerdoti del popolo». Gli uffici di
predicatore erano molto comuni in Germania, soprattutto nelle
Libere Città imperiali, e in quelle parti della Svizzera che alla fi-
ne divennero protestanti. Infatti, è stato dimostrato un chiaro le-
game tra l'esistenza di questo tipo di incarichi e il successo del
protestantesimo - i detentori di uffici di predicazione spesso for-
nirono ai movimenti protestanti locali l'ispirazione iniziale e una
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 125

guida. E questo fu il caso di Zurigo, dove Zwingli iniziò ad atti-


rare grandi folle che andavano ad ascoltarlo proclamare le idee
protestanti. Alla volta del 1523, Zurigo era ufficialmente prote-
stante; l'anno successivo Zwingli sposò pubblicamente (o rispo-
sò) Anna Reinhard.
Zwingli non era un sostenitore della tolleranza religiosa. Sot-
to la sua guida, Zurigo mise presto fuori legge la celebrazione
della Messa, proibì ai cittadini di mangiare pesce al venerdì, or-
dinò che non fossero più osservati i giorni dedicati ai santi, chiù-
se monasteri e conventi, esortò monaci e suore a sposarsi, e vietò
l'accesso alle cariche pubbliche ai cattolici. Quando il movimen-
to protestante iniziò a diffondersi da Zurigo alle altre città sviz-
zere, un gruppo di cinque cantoni formò ima Lega cattolica per
opporvisi. E quando un missionario protestante di Zurigo venne
mandato al rogo a Schwyz, Zwingli spinse il consiglio di Zurigo
a dichiarare la guerra. Quando le forze cattoliche marciarono in-
sieme verso Kappel, iniziarono le negoziazioni. Non venne com-
battuta nessuna battaglia. L'accordo raggiunto favorì i prote-
stanti, dal momento che fu lasciata al voto popolare la decisione
in merito all'affiliazione religiosa di un determinato luogo. Ma
Zwingli non era soddisfatto, poiché l'accordo non prevedeva la
libertà dei protestanti di predicare in aree cattoliche (anche se lui
era piuttosto contrario a concedere la stessa libertà ai cattolici in
aree protestanti). Due anni dopo, Zwingli spinse i protestanti a
una guerra proprio per tale questione, e lui stesso partì come
cappellano con le forze di Zurigo, formate da circa 1500 soldati
protestanti. I cattolici erano 8000 circa. Non vi fu alcun miracolo.
Zwingli fu ucciso in battaglia, assieme a circa 500 soldati prote-
stanti - e il suo corpo fu smembrato e arso su una pila di letame.
Il protestantesimo sopravvisse in Svizzera perché i successori di
Zwingli ebbero più buon senso nelle questioni militari e furono
un po' più flessibili in merito alla libertà religiosa.
Alla fine, dei quattordici cantoni svizzeri, cinque divennero
protestanti, sette rimasero cattolici, e due si divisero in aree cat-
toliche e protestanti‫ ״‬. Delle sei Libere Città imperiali svizzere,
cinque abbracciarono il protestantesimo u, e solo Friburgo rima­
126 A GLORIA DI DIO

se cattolica. Se si aggiungono Ginevra e Lucerna all'elenco delle


principali città della Svizzera dell'epoca, allora sei erano quelle
protestanti, poiché Lucerna si aggiunse a Friburgo come uniche
città cattoliche. Tornerò su questo in una sezione successiva, do-
ve tratterò la questione del potere governativo e del successo
protestante.

Calvino
Giovanni Calvino (1509-1564) non fu solamente uno dei più
grandi e prolifici teologi cristiani e un predicatore superbo; fu
anche un grande stratega di attività sovversive, avendo adde-
strato e diretto una rete intemazionale di agenti-missionari «se-
greti» che costruirono con enorme successo un movimento clan-
destino «riformato» di massa (Kingdon 1956 e 1981). Benché sia
questo aspetto della carriera di Calvino a essere importante per
questo capitolo, sarà utile collocare brevemente queste attività in
un contesto biografico (Bouwsma 1992; Cottrer 2000; Kingdon
1956,1972 e 1981; Monter 1967; Ozment 1980; Parker 1975).
Calvino nacque in Piccardia, e fin dall'infanzia fu destinato a
una carriera clericale. Dunque, all'età di quattordici anni, fu man-
dato all'Università di Parigi, dove fra i compagni ebbe due futu-
ri santi, Francis Xavier (1506-1552) e Ignazio di Loyola (1491-
1556). Dopo aver ottenuto il diploma di master, si iscrisse all'Uni-
versità di Orléans, per studiare legge. Nel 1531, tornò all'Univer-
sità di Parigi, dove scrisse il suo primo libro, imo studio del filo-
sofo stoico romano Seneca. Π libro apparve nel 1532, e fu un gran-
de successo per un giovane e brillante umanista. Tuttavia, a dif-
ferenza della gran parte degli umanisti con cui era in contatto, fra
i quali il famoso Jacques Lefèvre d'Étaples, Calvino si convertì al
protestantesimo, motivo per cui dovette lasciare Parigi nel 1534.
Si stabilì in Svizzera, a Basilea, un operoso centro protestante. Lì
produsse la prima edizione del suo Istituzione della religione cri-
stiana - il capolavoro sul quale avrebbe continuato a lavorare tut-
ta la vita. Ancora prima della pubblicazione della prima edizione,
Calvino si recò in Italia, dove entrò in contatto con i rifugiati prò-
testanti che avevano trovato protezione alla corte della duchessa
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 127

di Ferrara (figlia di un ex re di Francia). Tornò a Basilea per poco


tempo, poi andò in Francia, dove incontrò altri intellettuali che
condividevano le sue posizioni, a Poitiers; infine, nell'autunno
del 1536, sulla strada per Strasburgo, si fermò a Ginevra.
Non molto tempo prim a del suo arrivo, Ginevra era ufficiai-
mente divenuta protestante, dal momento che il consiglio citta-
dino eletto aveva deposto il principe-vescovo. Quando costui
aveva fatto appello ai Savoia per riavere il proprio ruolo, il con-
siglio della città di Ginevra si era rivolto a Berna, le cui fila di pie-
chieri svizzeri sostennero il protestantesimo di Ginevra. Calvino
guadagnò presto popolarità in quanto predicatore, ma quando,
assieme a Guillaume Farei, che era stato un importante agitatore
durante l'ascesa protestante, iniziò a proporre ima legislazione
morale, un consiglio cittadino di nuova elezione diede loro tre
giorni per lasciare la città. Calvino andò a Strasburgo, dove pas-
sò tre anni come ministro dei rifugiati protestanti francesi - espe-
rienza che fu fondamentale per la sua carriera di capo del «mo-
vimento clandestino» protestante. Nel frattempo, Ginevra cadde
nel caos politico e religioso e si trovò a dover fronteggiare nuove
pressioni per un ritorno al cattolicesimo romano. La città si ri-
volse a Calvino, chiedendogli di tornare da Strasburgo per gui-
dare in maniera efficace la città. Così, nel 1541, un Calvino da po-
co sposato tornò in trionfo - e le sue ordinanze morali vennero
adottate e fatte rispettare immediatamente. Rimase a Ginevra
per il resto della sua vita.
È cosa nota che, in seguito al diffondersi del luteranesimo, il
calvinismo divenne presto la principale base di conversione po-
polare al protestantesimo. Come vedremo, in molti luoghi il lu-
teranesimo fin dall'inizio fu una «chiesa di stato», nel senso che
fu adottato da re e principi come nuova fede ufficiale, con poca
considerazione per quello che pensava o preferiva il «popolo».
Fu il ramo calvinista di protestantesimo «riformato» a guada-
gnarsi rapidamente diversi milioni di aderenti francesi, danesi e
tedeschi, ed ebbe un seguito importante anche in Italia. Queste
conversioni non era frutto di editti reali, ma il risultato dell'en-
tusiasmo personale, di solito sotto forma di sfida allo stato.
128 A GLORIA DI DIO

Moltissima attenzione, colta e sofisticata, è stata dedicata alla


specifica base teologica sottostante alla grande capacità d'attra-
zione popolare del calvinismo. Ma benché Calvino fosse un teo-
logo profondo e uno scrittore eccezionalmente chiaro, è ssai im-
probabile che la dim ensione teologica attribuita alla sua opera
possa spiegare la conversione di più di un calvinista su cento.
Come ho già osservato in merito alla capacità di attrazione del
luteranesimo, al livello della gente comune, i movimenti sociali
devono affidarsi a «slogan». A patto che siano efficaci, gli slogan
possono far appello a preoccupazioni individuali, e quindi crea-
re un clima favorevole al movimento. Ma per trasformare dei
sentimenti favorevoli in attività serve un reclutamento faccia a
faccia. E fu proprio in questo modo che il calvinismo superò il lu-
teranesimo. Non tramite una teologia più efficace, ma tramite
un'azione più efficace - creando enormi reti clandestine di con-
vertiti che poi coinvolgevano amici, parenti e vicini, sotto la gui-
da di missionari, agenti segreti professionali. Di conseguenza, tra-
lascerò la seppur notevole teologia di Calvino e la sua rilevante
carriera civica a Ginevra, e mi occuperò delle sue attività clande-
stine per la diffusione del protestantesimo. Onestamente, non
riesco a capire perché questa rilevante attività di Calvino come
gestore di missionari-agenti sia stata completamente ignorata
dagli storici, soprattutto visto che il superbo racconto di Robert
M. Kingdon a questo proposito è disponibile da cinquant'anni.
Eppure, nelle opere standard, non si trova praticamente nessun
accenno a questo aspetto della vita di Calvino, né al suo immen-
so impatto sul successo del protestantesimo riformato 13.
Fu durante la sua visita a Poitiers che Calvino ebbe la sua pri-
ma esperienza con l'evangelismo segreto. Non solo faceva prò-
seliti in casa, ma teneva servizi religiosi segreti «in un'am pia
grotta vicino alla città» (Kingdon 1956, p. 56). Una volta ristabi-
litosi a Ginevra, Calvino capì di avere accesso a un gran numero
di uomini che sarebbero stati adatti a prestare servizio come mis-
sionari protestanti segreti al di là delle linee cattoliche. Questi
uomini abbondavano grazie al continuo flusso di rifugiati prote-
stanti (fra i quali c'era lo stesso Calvino) che arrivavano a Gine­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 129

vra e in altre città svizzere dalle regioni a controllo cattolico, so-


prattutto dalla Francia e dai Paesi Bassi. A un certo punto, fra i
protestanti vi furono almeno seimila rifugiati in città, oltre ai tre-
dicimila nativi di Ginevra (Bainton [1952] 1985). Ciò che Calvino
fece fu selezionare dei rifugiati affidabili e con talento, ordinarli
sacerdoti e addestrarli non solo teologicamente, ma anche in
quello che le agenzie d'intelligence di oggi chiamano «trade-
craft», tecniche di spionaggio e operazioni clandestine, per poi
mandarli a casa a costruire il movimento calvinista. La respon-
sabilità dell'operazione era assegnata alla Compagnia dei pasto-
ri di Ginevra.
La necessità di addestrare degli agenti segreti come missiona-
ri calvinisti sottolinea il bisogno di segretezza. Un'importante te-
stimonianza di questo addestramento è un rapporto che riporta
in dettaglio le attività dei predicatori valdesi (ora ufficialmente
allineati al calvinismo) in Piemonte e Delfinato, rapporto inviato
dai due prim i agenti calvinisti stanziati in Francia. Vi è annotato
che «solitamente hanno la sciocca convinzione che sia meglio an-
dare nelle campagne e predicare il Vangelo in pubblico, piuttosto
che in segreto. Abbiamo mosso delle rimostranze a riguardo [...]
per il grande pericolo in cui mettono non solo se stessi, ma anche
noi [... e abbiamo ricordato loro] gli esempi delle assemblee not-
tum e della chiesa degli inizi» (in Kingdon 1956, p. 56). Gli agen-
ti di Ginevra furono in grado di convincere i valdesi a far ac-
compagnare i pastori nei loro viaggi notturni da guardie armate.
E crearono anche un giuramento da pronunciare singolarmente
in tutte le congregazioni calviniste affinché non fossero mai rive-
late le identità di altri protestanti. Per quanto riguardava l'orga-
nizzazione della sicurezza fisica, i servizi religiosi si dovevano
tenere di notte in abitazioni private (o granai nel caso di gruppi
più numerosi), la sala dell'incontro doveva essere protetta da
tende pesanti, e le identità andavano controllate rigorosamente
all'ingresso. Inoltre, questi agenti-missionari usavano nomi fitti-
zi e spesso camuffavano il proprio aspetto; pronti all'uso c'erano
nascondigli e vie di fuga. Gli agenti-missionari, poi, venivano
istruiti anche nell'uso delle tangenti e delle minacce per influen­
130 A GLORIA DI DIO

zare gli ufficiali giudiziari locali, di modo che ignorassero le loro


attività e li facessero uscire di prigione nel caso di arresto. La not-
te prim a di essere giustiziato, uno degli agenti di Calvino fuggì
«in qualche modo» dalla prigione «senza fare alcun rumore né
rompere le porte»; in seguito, gli ufficiali incolparono il diavolo,
testimoniando di aver visto Satana portar via il calvinista con-
dannato attraverso i m uri della prigione (in Kingdon 1956, p. 57).
Oltre a ciò, l'addestram ento degli agenti enfatizzava lo sfor-
zo di portare la nobiltà dalla parte calvinista, e molti dei nobili
rifugiati furono convinti a tornare a casa come sostenitori in in-
cognito - si stima che il 50% dei nobili francesi fosse calvinista
all'epoca dello scoppio della prim a Guerra di religione france-
se, nel 1562 (Tracy 1999). Ovviamente, dal momento che questi
nobili «sovversivi» non erano addestrati o diretti dalla Compa-
gnia, non venivano nom inati nelle sue documentazioni ufficia-
li, motivo per cui non sapremo mai il loro num ero esatto. E non
sappiam o nemmeno quanti rifugiati non ordinati tornarono nei
loro paesi d'origine a fare proselitismo da soli. Ma sappiamo
che quando in Francia il conflitto religioso giunse a una crisi
decisiva, negli anni 1561-1562, quasi tutti i leader calvinisti di
Ginevra fecero almeno un viaggio clandestino in terra francese
(Kingdon 1956).
A ogni modo, nonostante i documenti conservati dalla Com-
pagnia, è praticamente impossibile sapere quanti furono gli
agenti-missionari sotto Calvino. Robert Kingdon ha scoperto
molta documentazione riguardo 86 uomini, addestrati e attivi fra
il 1555 e il 1562. Chiaramente, è un conteggio incompleto. Per
esempio, mentre questi documenti mostrano che nel 1561 erano
attivi 12 uomini, altre testimonianze, meno complete, ne aggiun-
gono un altro centinaio per quello stesso anno. Inoltre, «le città
svizzere spogliarono i loro pulpiti per il bene dei francesi»
(Chadwick 1972, p. 156). La cosa migliore che si può dire, dun-
que, è che furono addestrati «centinaia» di agenti-missionari or-
dinati, oltre ai molti missionari laici e nobili. È importante capi-
re che il ruolo principale di questi agenti provenienti da Ginevra
era reclutare missionari locali che ispirassero i fedeli, i quali a lo­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 131

ro volta avrebbero convertito altre persone, costruendo così una


sorta di associazione di conversione piramidale.
Owen Chadwick ha fornito un esempio specifico di quanto
rapidamente potesse crescere questa piramide. Nel 1559, molti
abitanti della piccola città di Castres, nella Linguadoca, si reca-
rono a Ginevra per comprare delle Bibbie e altri libri religiosi.
Mentre erano lì, chiesero che fosse mandato un pastore anche da
loro. NeH'aprile del 1560, Geoffrey Brun arrivò a Castres e iniziò
a tenere servizi religiosi segreti in un'abitazione privata. La con-
gregazione crebbe così velocemente che dopo sei mesi Brun
tornò a Ginevra per avere un assistente. Alla volta del febbraio
1561, l'assistente teneva servizi separati in un'altra casa. Il magi-
strato gli ordinò di desistere, ma dopo diversi incontri con Brun,
anch'egli si unì alla congregazione. «Il gregge era ormai troppo
grande per incontrarsi in abitazioni private, e quindi occuparo-
no edifici pubblici e liberarono i protestanti prigionieri con la for-
za. Da quel momento in poi, la città fu ugonotta» (Chadwick
1972, pp. 156-157).
Per partecipare agli sforzi di proselitismo dei calvinisti, prò-
liferarono gli stam patori, e quella della stam pa divenne l'indù-
stria principale di Ginevra. Le stamperie funzionavano giorno
e notte, producendo ima marea di trattati e pam phlet, oltre che
libri e vulgate della Bibbia. La città aveva anche grandi cartiere
e stabilimenti di produzione dell'inchiostro. E tuttavia impor-
tava grandi quantità di carta. E Kingdon ha osservato che «è fa-
cile credere che quest'industria della propaganda assorbisse in
qualche m odo l'attenzione della gran parte della popolazione
di Ginevra», non solo quella di chi era stam patore o produtto-
re di carta o inchiostro, ma anche di autori, editori, e correttori
di bozze (Kingdon 1956, p. 94). La maggioranza di questa ma-
rea di pubblicazioni calviniste veniva venduta all'estero, dando
un grande contributo alla diffusione del protestantesimo. Ov-
viamente, dal momento che questo materiale era proibito nelle
aree a controllo cattolico, la linea di distribuzione operava in
clandestinità; alcune spedizioni furono confiscate, ma la mag-
gioranza passava.
132 A GLORIA DI DIO

Per esaminare i risultati di questi sforzi, spostiamo la nostra


attenzione al di là del confine, in Francia.

I protestanti in Francia

Stimolato dagli agenti provenienti da Ginevra, il protestante-


simo fu molto popolare in Francia, ma alla fine non riuscì a su-
perare la brutale opposizione di uno stato forte e centralizzato
(Durant 1957; Holt 1995; Ladurie 1974; Monter 1999; Ròring
1969; Tracy 1999).
La Francia cominciò a giustiziare i luterani in quanto eretici
all'inizio degli anni '20 del 1500 e, dato che c'era, massacrò anche
moltissimi valdesi. Nonostante questi tentativi di repressione, il
protestantesimo divenne una forza talmente potente da dover
essere eliminata con una serie di guerre, alla fine della quale i
protestanti sopravvissuti furono esiliati. Si tratta di una storia
che può essere raccontata in un lungo libro, oppure in pochi pa-
ragrafi. Dati i miei scopi, la seconda opzione sarà sufficiente.
All'inizio la struttura di potere parigina - il Parlement (alta
corte), la Chiesa e l'Università di Parigi, con le intermittenti be-
nedizioni di re Francesco I (1494-1547) - ritenne che mandando
al rogo un po' di eretici si potesse sconfiggere il luteranesimo.
Ma era un po' in ritardo. Enrico Vili aveva creato molti martiri
luterani, gli austriaci avevano fatto altrettanto, e Carlo V aveva
superato chiunque, m andando al rogo almeno 600 luterani nei
Paesi Bassi fra il 1525 e il 1539, quando i francesi dovevano an-
cora iniziare (Monter 1999). Oltre a questo, le loro prime vittime
non furono nemmeno dei veri luterani. Il primo fu un monaco
eccentrico mandato al rogo per blasfemia nel 1523. Nel 1526 un
giovane barcaiolo fu accusato di distruggere le ostie e fu brucia-
to sul rogo il giorno di martedì grasso, mentre tre giorni dopo
toccò a un apprendista avvocato, per blasfemia. In seguito, quel-
lo stesso anno, il Parlement riuscì finalmente ad azzeccarci, e
mandò al rogo un giovane studente di teologia che aveva ab-
bracciato le idee luterane. Una volta avviato il processo, nel pe­
LA VEKTTÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 233

riodo di tempo fra il 1540 e il 1554, solamente i Paesi Bassi supe-


rarono la Francia in quanto a esecuzioni di protestanti eretici -
una media di 21 all'anno per i Paesi Bassi, contro i 18 all'anno
della Francia, l'l,5 della Svizzera e lo 0,6 della Spagna (Monter
1999). Molte delle vittime francesi erano persone piuttosto im-
portanti, mentre le altre erano in gran parte giovani studiosi. Ma
il terrore non funzionava. Non solo continuavano a esserci Iute-
rani, ma a questi si aggiunsero legioni di agenti calvinisti che si
rivelarono missionari molto più efficaci dei luterani. E infatti, la
Francia cessò presto di scagliarsi contro i luterani, identificando
gli eretici calvinisti francesi come «ugonotti» (compagni di giù-
ramento). Gli ugonotti aumentavano a ima velocità sbalorditiva.
All'inizio del 1562, un censimento ufficiale contava 2150 chiese
ugonotte nella sola Francia, mentre il numero di aderenti france-
si si stima fosse per lo meno intorno ai tre milioni, quasi il 20%
della popolazione totale 14. E il loro numero era particolarmente
straordinario perché non erano disseminati, ma geograficamen-
te concentrati.
Il modo più facile per determinare abbastanza accuratamente
quale fosse la forza degli ugonotti in una comunità francese del
tardo XVI secolo è stabilirne la lontananza da Parigi. Benché la
Francia avesse sviluppato un regime centralizzato estremamen-
te forte, la sua tenuta effettiva tendeva ad attenuarsi con la di-
stanza. Di conseguenza, il protestantesimo fiorì nel sud della
Francia, dove «legioni di ugonotti quasi spuntavano dal terreno»
(Durant 1957, p. 505), lungo il Canale della Manica e nelle «terre
di confine» della Lorena, dell'Alsazia e della Franca Contea. Ma
non era solamente la distanza a intralciare il potere di Parigi al
sud. Era qui che in precedenza erano fioriti grandi movimenti
eretici, come quelli di catari e valdesi. Anzi, la tradizione di dis-
senso religioso non era mai morta al sud - e c'erano ancora ab-
bastanza valdesi in Provenza, nel 1545, da fornire più di 2000 vit-
time al massacro delle truppe reali (Monter 1999). Per di più, il
rancore basato su secoli di repressioni altrettanto brutali del dis-
senso religioso era una parte importante della cultura meridio-
naie. Così, in Linguadoca e Provenza, in Navarra e Delfinato, in
134 A GLORIA DI DIO

Guascogna, Limosino, Lyonnais, Alvemia e Poitou, gli ugonotti


divennero una forza dominante.
E proprio come in Germania, la «gente» che costituiva il se-
guito protestante in Francia erano in preponderanza cittadini e
persone ricche. Come abbiamo detto, James Tracy ha stimato che
il 50% della nobiltà francese fosse ugonotta. Emmanuel Le Roy
Ladurie ha analizzato un elenco di ugonotti a Montpellier (in
Linguadoca) redatto nel 1560 dalle autorità cattoliche del luogo
(Ladurie 1974, pp. 158-160). Delle 561 persone elencate con spe-
cificata l'occupazione, solo 27 (il 4,8%) erano braccianti o conta-
dini. La categoria più rappresentata era quella dei negozianti e
degli artigiani (69%), seguita dai membri delle professioni erudì-
te (15,4%). Un altro 8,5% erano mercanti o «borghesi», e il 2,3%
erano nobili.
Giunti al 1560, gli ugonotti erano troppo numerosi e troppo
concentrati geograficamente per essere m artirizzati singolar-
mente o in piccoli gruppi, e l'esecuzione degli eretici in pratica
cessò. Infatti, si trattava di un gruppo così potente da poter es-
sere soppresso solamente tram ite la guerra. Dunque, nel 1562,
iniziarono le Guerre di religione francesi (Dunn 1979; Holt
1995; Kingdon 1956). Le forze cattoliche attaccarono di conti-
nuo, ma p u r avendo successo in aperta battaglia, vennero sem-
pre schiacciate dalle numerose città fortificate (come La Ro-
chelle) sotto il controllo ugonotto. E si ratificavano trattati di
pace. Durante una di queste brevi interruzioni pacifiche, il 23
agosto 1572, il giorno di san Bartolomeo, dei cospiratori catto-
lici attaccarono gli ugonotti a Parigi e in altre città in cui non
detenevano il potere - a Parigi furono massacrati più di 2000
ugonotti, e almeno 3000 altrove. Nel 1629, dopo più di ses-
sant'anni di guerre, gli ugonotti vennero definitivamente scon-
fitti. Si arresero alle condizioni dettate dalla Pace di Alais, ce-
dendo la propria indipendenza politica e militare, ma mante-
nendo la libertà religiosa. La Chiesa, però, rimase fermamente
contraria. Alla fine, nel 1685, dopo decenni di vessazioni e qual-
che conversione forzata, Luigi XIV ordinò agli ugonotti di con-
vertirsi al cattolicesimo o lasciare la Francia. Molti si converti­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 135

rono, ma almeno 250.000 partirono per l'Olanda, l'Inghilterra,


la Prussia e l'America.

La riforma in Spagna

Sebbene il protestantesim o avesse attratto alcuni spagnoli


delle classi elevate e alcuni intellettuali, soprattutto all'interno
della Chiesa, in Spagna il movimento non ebbe grande fortuna,
per prim a cosa perché, a differenza dei francesi, gli spagnoli si
mossero subito efficacemente per sopprimerlo. Il secondo mo-
tivo era il fatto che nel tardo XV secolo una «riforma» davvero
vigorosa aveva cambiato la Chiesa di Spagna al punto che «lo
status morale del clero spagnolo [...] era incommensurabil-
mente superiore a quello del clero di qualsiasi altra parte della
cristianità occidentale» (Collins 1903, p. 400), con il risultato
che neppure le satire di Erasmo trovavano accoglimento. Op-
pure come dice Bainton, «In Spagna si originò la riforma catto-
lica prim a ancora che iniziasse quella protestante» (Bainton
[1952] 1985, p. 131).
I due centri deH'iniziale sostegno al protestantesimo in questo
paese furono Valladolid e Siviglia. In entrambe le comunità, un
gruppo rilevante di protestanti, formato da clero, suore e laici «di
buoni natali» iniziò a riunirsi per celebrare in segreto i servizi re-
ligiosi. Entrambi i gruppi furono denunciati agli inquisitori loca-
li e processati per eresia. Benché, com'era tipico dell'Inquisizio-
ne spagnola, la gran parte degli «eretici» fosse trattata con una
certa mitezza, in ognuna delle due città i pochi che si rifiutarono
di ripudiare il protestantesimo vennero giustiziati pubblicamen-
te. Pi. Siviglia, furono giustiziati in un primo gruppo quattordici
protestanti (fra i quali quattro frati), e tre mesi dopo ne moriro-
no altri otto (fra cui una suora). A Valladolid, il giorno della festa
della Santissima Trinità, furono giustiziate quindici persone (fra
cui due sacerdoti), mentre altri tredici morirono cinque mesi do-
po - frà i quali quattro sacerdoti e cinque suore (Collins 1903, p.
400). Benché non fossero grandi numeri, l'importanza delle vitti­
136 A GLORIA DI DIO

me ne faceva degli esempi agghiaccianti, e di conseguenza mol-


ti spagnoli di vera fede protestante partirono per le zone prote-
stanti a sud della Francia e in Olanda, mentre i meno devoti smi-
sero di occuparsene.
La riforma della Chiesa spagnola iniziò all'inizio del XV se-
colo, ma fu verso la fine del secolo, sotto la guida di re Ferdi-
nando e della regina Isabella, che furono intraprese misure
drastiche. Il monaco ascetico francescano Jiménez de Cisneros
(1436-1517), diventato cardinale, im pose nuovi rigidi standard,
spingendosi fino alla confisca di terre e possedim enti mona-
steriali. Ed epurò il clero - m olti monaci che riteneva incorreg-
gibili furono deportati in Marocco. Il risultato fu un rilevante
aum ento del sostegno popolare alla Chiesa e una mancanza di
quel malcontento che altrove aveva favorito luteranesim o e
calvinismo.

I protestanti italiani

Per secoli si è supposto che, al di là di un certo impatto su po-


chi intellettuali, il protestantesimo non avesse avuto successo in
Italia, essendo stato facilmente soppresso dal potere del Papa e
dalla profondità della devozione popolare al cattolicesimo. An-
cora recentemente, nel 1984, l'illustre Andrea Del Col asseriva
che tranne per qualche gruppo valdese sparso, «nella nostra pe-
nisola, in realtà, non c'erano chiese [protestanti] né vi era ima vo-
lontà organizzata di aderirvi» (in Caponetto 1999, p. xvi).
Ma non fu così! Il protestantesim o attrasse un notevole so-
stegno in Italia, soprattutto fra i privilegiati, e fallì solamente
grazie all'efficacia della repressione im posta dagli spagnoli, che
governavano in modo diretto gran parte dell'Italia dell'epoca
ed esercitavano una notevole pressione sullo Stato Pontificio
(Bainton [1952] 1985; Caponetto 1999; Collins 1903; D urant
1957; Tracy 1999). Questa nuova interpretazione della storia re-
ligiosa italiana è emersa nel secolo scorso, quando si è iniziato
a esaminare gli immensi archivi di stato ed ecclesiastici ora
LA VEWTÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 137

aperti agli storici. Uno sforzo di ricerca, questo, che ha portato


alla realizzazione della recente monografia di Salvatore Capo-
netto (la cui prim a edizione italiana apparve nel 1992, seguita
da una revisione nel 1997, e poi da un'edizione inglese nel
1999). Il volum e di Caponetto è eccellente nel suo trattam ento
dettagliato della grande varietà di attivisti e m artiri protestan-
ti. Il suo difetto è la mancanza di una visione d'insiem e siste-
matica, dal mom ento che l'autore si è accontentato di fornire
digressioni sparse, come la sua allusione alla «diffusa penetra-
zione della protesta luterana in tutti i livelli della società italia-
na, a partire dagli anni '20 del 1500». Caponetto ha dato il me-
glio di sé nel rintracciare la profondità e la dimensione del lu-
teranesimo fra il clero italiano, soprattutto fra gli agostiniani.
Un «gran num ero di monaci» in Italia abbracciarono gli inse-
gnamenti dei loro fratelli agostiniani: «insegnanti di teologia,
superiori nei conventi, professori dei maggiori centri di sapere
dell'ordine, e im portanti figure culturali» andavano a costituì-
re un elenco lungo e impressionante, e tutti furono soggetti a
«processi um ilianti e dolorosi, prigionia, sospensione dall'inse-
gnamento e dalla preghiera» (Caponetto 1999, p. 14). Alla fine,
la maggioranza dei «protestanti» agostiniani si sottomise al-
l'autorità della Chiesa. Il luteranesimo si era diffuso anche fra
le classi sociali più elevate e fra le élite cittadine, gruppi che for-
nirono m artiri e un notevole flusso di rifugiati diretto in Sviz-
zera, Germania e alle roccaforti ugonotte in Francia.
Il fattore fondamentale dietro il fallimento finale del prote-
stantesimo in Italia non fu il potere o l'influenza del papa, ma il
fatto che all'epoca non c'era nessuna «Italia», e tutte le città-sta-
to un tempo potenti erano sotto il controllo della Spagna, tranne
Venezia e gli Stati Pontifici. Proprio come avevano attaccato i
protestanti in patria e nei Paesi Bassi, gli spagnoli si mossero ve-
locemente anche contro i segnali di simpatia protestante in Italia.
Così, nella Sicilia controllata dalla Spagna, giunti al 1560, il
Sant'Uffizio aveva perseguito cinquanta protestanti (Monter e
Tedeschi 1986). In modo simile, l'Inquisizione napoletana, sotto
il controllo spagnolo, prim a del 1600 aveva processato venti prò­
138 A GLORIA DI DIO

testanti. Ovviamente, questi casi ammontavano a meno del 5%


di tutte le istanze portate davanti all'Inquisizione, il che potreb-
be essere interpretato come una prova del fatto che il protestan-
tesimo non ebbe successo in Italia. In realtà, ima simile interpre-
tazione sarebbe incoerente con le affermazioni in merito alle fa-
vorevoli risposte iniziali. Personalmente, interpreto queste cifre
così basse come una dimostrazione del fatto che muovendosi
molto velocemente e con forza contro ogni importante sacerdote
o funzionario, gli spagnoli (e i romani) furono in grado di repri-
mere con efficacia il sostegno pubblico, proprio come avevano
fatto a Valladolid e a Siviglia. Solamente a Venezia, dove l'in-
fluenza della Spagna era limitata, il protestantesimo ebbe qual-
che opportunità di sopravvivere, e lì, per un certo periodo, go-
dette anche di un notevole successo, attirando «avvocati, mer-
canti, patrizi e librai [in] in diversi luoghi d'incontro» (Tracy
1999, p.390). Tuttavia, circondata da ostili forze antiprotestanti,
Venezia subì la crescente pressione per l'estradizione dei prote-
stanti a Roma, dove sarebbero stati processati. Piuttosto che fare
una cosa simile, i veneziani diedero alla loro Inquisizione l'auto-
rità di procedere. Fra il 1547 e il 1585, 767 veneziani furono prò-
cessati con l'accusa di essere protestanti, il 62% di tutti i proces-
si tenuti dall'Inquisizione veneziana in quell'epoca. Nel biennio
fra il 1580 e il 1582, più di metà (59) dei 112 italiani accusati di
protestantesimo erano veneziani - vi fu solo una condanna per
protestantesimo in Toscana, un'altra a Napoli e solo 11 nello Sta-
to Pontificio. Va notato, comunque, che le diverse Inquisizioni
italiane, come quelle spagnole, molto di rado imposero una con-
danna a morte ai colpevoli di protestantesimo. Come vedremo
ampiamente nel capitolo 3, gli inquisitori italiani e spagnoli ra-
ramente facevano ricorso alla pena capitale persino nei casi di
stregoneria, preferendo di gran lunga far riconciliare i «peccato-
ri» con la Chiesa. Ciò nonostante, le condanne potevano avere
conseguenze sociali ed economiche gravi, e davanti a questo ri-
schio molti protestanti italiani, soprattutto veneziani, fuggirono
in Svizzera (Caponetto 1999; Collins 1903; Tracy 1999; Trevor-Ro-
per [1969] 2001; Williams 1972).
LA VER/ΤΑ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 139

Ulteriori dettagli sulla diffusione del protestantesimo, soprat-


tutto in Scandinavia, saranno presentati qui di seguito e nel ca-
pitolo 3. Ma i brevi profili presentati finora dovrebbero aver pre-
parato in maniera adeguata il contesto per un'analisi del perché
e del dove il protestantesimo ebbe successo.

Spiegare il successo protestante

La questione sociologica più importante in tema di protestan-


tesimo è perché ebbe successo in alcuni luoghi e non in altri. È stato
scritto molto su questo argomento, e alcune cose sono davvero
molto interessanti e ben documentate. Ciò nonostante, manca
ima spiegazione generale sistematica ed empiricamente dimo-
strabile. Tenterò di fornirne una.

Il richiamo teologico
Come abbiamo già visto, la vasta letteratura sul motivo del
successo del protestantesimo si dedica quasi esclusivamente al
suo «richiamo teologico» e sottolinea gli aspetti popolari della
dottrina. Ovviamente, la dottrina ha un'im portanza enorme - è
difficile immaginare una qualsiasi altra sfida dottrinale all'auto-
rità cattolica con una simile profondità e popolarità. Tuttavia, so-
no pienamente d'accordo con Steven Ozment sul fatto che la
gran parte del lavoro svolto su questo argomento è poco realisti-
ca poiché enfatizza complessità dottrinali che ben pochi fra colo-
ro che divennero protestanti potevano aver notato. Di ancora
maggior importanza è il fatto che la dottrina protestante, all'e-
poca in esame, era essenzialmente una costante, e dunque non
può spiegare una variabile - non può dirci perché alcuni luoghi
sono divenuti protestanti e altri no. Questo non significa che la
dottrina vada estromessa da una spiegazione. Come ho osserva-
to in precedenza, la dottrina era un fattore assolutamente neces-
sarto; se le dottrine protestanti non avessero avuto un diffuso ri-
chiamo pubblico, non ci sarebbe stato nessun movimento prote-
stante. Dunque, assegno al richiamo teologico un fondamentale
140 A GLORIA DI DIO

ruolo causale - soprattutto grazie alla popolarità del concetto che


gli individui potessero raggiungere la salvezza attraverso la sola
fede, senza alcuna intercessione o interferenza della Chiesa. Det-
to ciò, il compito esplicativo rimane intatto, vale a dire, si deve
spiegare perché il protestantesimo trionfò in alcuni luoghi e in al-
tri fu rifiutato.
Anche moltissime delle spiegazioni «materialistiche» date al-
l'ascesa del protestantesimo si basano su costanti, e dunque non
sosterrò che qualcuna di queste possa fare una qualche differen-
za. La gran parte di queste spiegazioni attribuisce la «Riforma
protestante» ad aspetti di cambiamento sociale: la fine del feu-
dalesimo, lo sviluppo di un'economia del denaro e del ricorso al
credito, l'espansione dei commerci, la nascita delle industrie,
nuove forme di organizzazione agricola, l'urbanizzazione, l'e-
spansione della borghesia, il declino deU'importanza militare
della cavalleria pesante, l'aum ento delle tasse, e la crescita della
popolazione, tanto per citare alcune delle cause proposte più co-
munemente (Brady 1978; D urant 1957; Engels [1873] 1964; Oz-
ment 1980; Swanson 1967; Tracy 1999; Weber [1904-1905] 1958;
W uthnow 1989). Tutte queste cose, in effetti, c'erano. Il problema
è che tali cambiamenti furono prevalenti in aree che rimasero
cattoliche come in aree che divennero protestanti; dunque, di per
sé, non spiegano proprio nulla (Becker 2000; Braudel 1981; Jere
Cohen 1980; Delacroix e Nielsen 2001; Fischoff 1968; Hamilton
1996; Samuelsson 1973).
Qualsiasi spiegazione del successo del protestantesimo ri-
chiede delle variabili che permettano di differenziare un luogo
convertitosi da un luogo rimasto cattolico. Sosterrò che siano tre
le variabili fra loro interconnesse che hanno fatto la differenza.
Per prima, abbiamo il grado di debolezza cattolica locale. Le aree
con maggiore probabilità di abbracciare il protestantesimo erano
quelle in cui la Chiesa romana cattolica pativa una mancanza di so-
stegno popolare di vecchia data. Nell'Europa settentrionale, la de-
bolezza cattolica derivava dal fallimento della Chiesa nella cri-
stianizzazione delle masse. In alcune aree, c'era un antico risen-
timento nei confronti della Chiesa, dovuto alle sanguinarie re­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 141

pressioni dei movimenti precedenti, quali catari e valdesi. In al-


cuni luoghi - per esempio nelle «regioni di confine» - erano pre-
senti entrambi questi fattori di debolezza.
Poi, ebbe un ruolo fondamentale anche la presenza di un go-
verno capace di rispondere. Certe regioni sarebbero diventate con
molta meno probabilità protestanti se il governo avesse risposto al-
le preferenze popolari. Restarono cattoliche le zone in cui il gover-
no era nelle mani di regimi forti e autoritari. Comunque, questa
seconda variabile subisce l'influenza della terza, la quale spiega
come in alcuni casi gli autocrati abbiano esercitato il loro potere
a favore del protestantesimo.
Il terzo fattore, importantissimo, che plasmò la Riforma prote-
stante fu l'interesse delle famiglie reali. In altre parole, alcuni aveva-
no molto più da guadagnare, in termini di ricchezza e potere, dal
diventare protestanti, mentre altri ne avrebbero guadagnato mol-
to meno, avendo già minimizzato l'autorità e le esazioni della
Chiesa. Dunque, i paesi tesero a rimanere cattolici nella misura in
cui il loro regime aveva guadagnato un controllo sostanziale e uf-
fidale sulla Chiesa. Alcuni aspetti di questo controllo erano la ca-
pacità di tassare i possedimenti ecclesiastici e le ricchezze della
Chiesa, il diritto di nomina (o di approvazione delle nomine) di
tutte le cariche ecclesiastiche più elevate, come quelle di vescovo,
e l'imposizione di limiti alla giurisdizione dei tribunali ecclesiali.
I regimi privi di condizioni così favorevoli avrebbero invece gua-
dagnato moltissima ricchezza e autorità sostenendo la Riforma.
Verificherò ognuna di queste tre variabili sulla base della do-
cumentazione storica.

Debolezza cattolica locale


Una m appa delle aree cattoliche dell'Europa di oggi assomi-
glierebbe in maniera rilevante a quella dei confini dell'Impero ro-
mano. I romani raramente si avventurarono al di là del Reno, e ci
sono pochi protestanti a ovest o a sud di quella grande via d'ac-
qua. Non si tratta di una coincidenza. Piuttosto, come ho ampia-
mente dimostrato in Un Unico Vero Dio, gli sforzi missionari cri-
stiani al di là del Reno furono superficiali se paragonati a quelli
142 A GLORIA DI DIO

all'interno dei confini dell'Impero. In altre parole, nei suoi primi


anni d'esistenza, il cristianesimo fu un movimento di massa che
si diffuse principalmente attraverso lo sforzo personale della gen-
te comune di convertire parenti, amici e vicini. Tuttavia, ima voi-
ta che il cristianesimo divenne una Chiesa di stato riccamente
sovvenzionata, il suo spirito di volontariato si attenuò; la succes-
siva diffusione della fede avvenne principalmente grazie a batte-
simi di re, dal momento che i missionari cristiani si concentraro-
no sulla nobiltà e suH'ottenimento di un privilegio di monopolio.
Una volta istituita e sostenuta dal diritto e dalle decime, la Chie-
sa fece poco per evangelizzare la popolazione. Di conseguenza,
come abbiamo già visto in questo capitolo, molte persone al di là
del Reno (soprattutto nelle campagne) consideravano il cristiane-
simo una religione aggiuntiva, e Cristo divenne parte di un mi-
scuglio di religione popolare e molti elementi pagani. Come ha
osservato il grande storico danese Johannes Br0 ndsted, la con-
versione dei re fece del cristianesimo la fede «pubblica» della
Scandinavia, ma fu «molto più difficile vincere sulla complessa
cultura sottostante quella religione». Egli cita un monaco anglo-
danese del XII secolo: «Fino a che le cose vanno bene e tutto è a
posto, gli Sviar e i Gautar sembrano disponibili a riconoscere il
Cristo e a onorarlo, sebbene come pura formalità; ma quando le
cose vanno male» si rivoltano contro il cristianesimo e fanno ri-
tom o al paganesimo (Brondsted 1965, p. 312). Oppure, come tro-
viamo scritto nell'islandese Landnàmabók, Helgi il Magro «era
molto promiscuo nella sua fede; credeva in Cristo, ma invocava
Thor per le questioni di navigazione e per bisogni urgenti»
(Brondsted 1965, p. 306). Infine, Br0 nsted ha sostenuto che, se si
può davvero affermare che sia avvenuta, la conversione della
Scandinavia avvenne «solo [...] quando il cristianesimo prese il
controllo delle antiche superstizioni e costumi [pagani] e consentì
loro di vivere sotto nuove spoglie» (Br0 ndsted 1965, p. 307).
Ho già sottolineato che un grande fattore nel successo del
protestantesimo fu il sostegno popolare. Qui voglio enfatizzare il
fatto che la cristianizzazione assai superficiale dell'Europa al di
là del Reno ebbe come risultato una mancanza di opposizione popo­
LA VERSTA DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 143

lare al protestantesimo. Proprio come c'era stata poca, o nessuna,


protesta popolare quando i re e i principi pagani dell'Europa set-
tentrionale erano stati battezzati, non ce ne fu quando i loro sue-
cessori optarono per il protestantesimo. Anzi, quando si manife-
sto dell'opposizione, si trattò dell'azione di membri delle élite -
spesso all'interno delle famiglie reali. Il «popolo» era passivo. Co-
me ha sintetizzato Kenneth Scott Latourette: esattamente come il
cristianesimo «era stato introdotto in larga misura sotto gli au-
spici reali e l'iniziativa reale [... anche lo spostamento al prote-
stantesimo] fu orchestrato dai re. E fu raggiunto molto più rapi-
damente, incontrando ancor meno resistenza, del precedente»
(Latourette 1975, p. 732).
Non fu così nelle aree al di sotto del Reno, dove la cristianiz-
zazione era stata sostenuta anche dagli sforzi della gente comu-
ne. Il protestantesimo spesso veniva abbracciato dalle élite, ma
avversato, frequentemente in maniera molto attiva, dai contadi-
ni. Come ha osservato Ladurie in merito alla Linguadoca, il
«proletariato rurale, da parte sua, restò praticamente impenetra-
bile alla Riforma [... che] rimase circoscritta alle classi cittadine e
artigianali dalle quali era provenuta. Non migrò e non permeò le
masse contadine, che rimasero salde nel loro credo cattolico»
(Ladurie 1974, pp. 159-160).
In Spagna, non solo il cristianesimo aveva avuto un avvio an-
tico e saldo, ma l'impegno e la devozione della gente era andata
intensificandosi in maniera selettiva nel corso dei secoli, dal mo-
mento che i cristiani erano ima minoranza circondata dal domi-
nio musulm ano. Inoltre, come ho già osservato, le riforme esten-
sive imposte sulla Chiesa spagnola frustrarono molte delle prò-
poste che altrove in Europa attiravano il sostengo popolare al
protestantesimo. Per di più, in Spagna mancava una «borghesia
indigena». Per esempio, durante la rapida ascesa del paese a po-
tenza imperiale di dimensioni mondiali, il commercio nei princi-
pali porti spagnoli, Cadice e Siviglia, era monopolio di mercanti
stranieri, la gran parte dei quali italiani. La dominazione stranie-
ra «prevaleva [anche] nel commercio più generale [...]gli uomi-
ni ricchi lasciavano campo a imprenditori stranieri [... preferen­
144 A GLORIA DI DIO

do] la sicurezza delle rendite terriere e delle cariche governative»


(Wuthnow 1989, pp. 105-106). Dunque, quegli elementi popolari
che altrove ebbero più interesse nel protestantesimo erano molto
sotto rappresentati fra i nativi spagnoli, rendendo ancora più de-
cisiva la fede nel cattolicesimo delle campagne.
Una ragione ulteriore della mancanza di sostegno popolare
alla Chiesa è evidente nel caso della Francia: una tradizione di
brutale repressione dei precedenti movimenti «eretici». Fu que-
sto a infiammare la «Riforma protestante» non solamente nella
Francia meridionale ma anche, come ho già detto, nelle «terre di
confine», soprattutto in quelle città che avevano alle spalle storie
sanguinarie di caccia agli eretici.
A ogni modo, capiamo come un fattore chiave nel successo del
protestantesimo fu la relativa mancanza di sostegno popolare al
cattolicesimo, dovuta all'assenza di vera cristianizzazione oppu-
re a un radicato risentimento, o a entrambe le cose. È possibile ve-
rificare questa ipotesi con dati ragionevolmente soddisfacenti.
Le sedici nazioni dell'attuale Europa occidentale faranno da
caso di studio. Per ognuna, determinerò il secolo in cui si ritiene
sia stata cristianizzata (Barrett 1982; Br0 ndsted 1965; Davies
1996; Jones 1977; Roesdahl 1980; Sawyer 1982; Shepherd 1980).
L'arco di tempo considerato va dal IV secolo per l'Italia al XIII se-
colo per la Finlandia1s. Poi, ho sottratto i rispettivi secoli per ot-
tenere il periodo di cristianizzazione. Basandomi sul presuppo-
sto che più recente fu la cristianizzazione, più fu superficiale, la
durata di cristianizzazione dovrebbe essere strettamente correla-
ta con gli attuali livelli di frequentazione delle chiese (dati tratti
dal World Values Survey 1990-1991). Questa previsione è soste-
nuta con forza da un coefficiente di correlazione (r) di 0,72 (dove
1,0 è la correlazione perfetta). Le nazioni con una cristianizza-
zione più antica hanno tassi di frequentazione e partecipazione
molto più elevati degli altri. Per dirla in un altro modo, la fre-
quentazione della chiesa è molto più bassa nelle nazioni prote-
stanti rispetto a quelle cattoliche - e lo è sempre stata.
Ci dovrebbe essere anche una stretta correlazione fra la dura-
ta della cristianizzazione e il rimanere cattolici. Dal momento che
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 145

le nazioni moderne includono molte aree che nel XVI secolo era-
no regni indipendenti, alcione delle quali differiscono per la con-
versione al protestantesimo o la fedeltà al cattolicesimo, ritengo
che la misura più plausibile della partecipazione alla Riforma sia
l'attuale percentuale di popolazione cattolica presente in ogni
nazione (dati fomiti dal Catholic Almanac del 1996). Questi dati
confermano con forza la mia tesi, con una correlazione dello 0,89.
Dunque, più antica era la cristianizzazione di un paese, più que-
sto paese aveva la probabilità di restare cattolico.
Su base sia qualitativa sia quantitativa, troviamo un notevole
riscontro per la tesi secondo la quale le variazioni nella forza ru-
rale del cattolicesimo svolsero un ruolo cruciale nel successo o
nel fallimento del protestantesimo.

Capacità di risposta governativa


Spesso è stato detto che i diversi luoghi divennero protestar!-
ti, rimasero cattolici, o si alternarono nella fede, a seconda delle
preferenze dei loro governanti. Benché ci sia un fondo di verità
in questa affermazione, non si dà abbastanza peso al fatto che il
protestantesimo era un movimento popolare, e che molti luoghi
divennero protestanti proprio per l'incapacità o la non disponi-
bilità del governo locale a opporsi alle richieste pubbliche. Dun-
que, la capacità di rispondere dei governi fu un fattore fonda-
mentale nel successo del protestantesimo: a parità di condizioni,
i diversi paesi sono divenuti protestanti nella misura in cui i go-
verni locali hanno risposto alle preferenze popolari.
Gli storici sono stati in un certo senso poco coerenti nei con-
fronti di questa affermazione. Da una parte, come vedremo, nel-
le loro discussioni sul successo del protestantesimo nelle città
(soprattutto nelle Libere Città imperiali), riconoscono pienamen-
te l'importanza di un governo pronto a rispondere (Moeller
1972; Ozment 1975; Pollard 1903; Ròrig 1969; Tracy 1999). Dal-
l'altra parte, gli storici hanno dim ostrato uno sprezzo tale nei
confronti del libro di Guy E. Swanson, Religion and Regime: A So-
ciological Account of thè Reformation, da essere stati inclini a igno-
rare del tutto l'argomento - lo storico di Stanford Lewis W. Spitz
146 A GLORIA DI DIO

definì l'opera di Swanson, «un tentativo bizzarro, basato su nu-


merose false premesse [...] una rassegna di errori storici rivesti-
ta di bello stile sociologico» (Spitz 1969, p. 145).
Questi commenti dicono molto sull'avversione di Spitz nei con-
fronti della sociologia, così come dicono molto dello studio di
Swanson. Ciò nonostante, indipendentemente dal sottotitolo, non
c'è nulla di «sociologico» nella sovrastruttura teorica che Swanson
sovrappone ai dati. Si tratta piuttosto di una psicologia spiccia
espressa in gergo astruso. Nello specifico, Swanson sostiene che il
modo in cui un governo ebbe un'influenza sulla conversione al
protestantesimo fu tramite la creazione di ima determinata menta-
lità nei sudditi. In altre parole, vivendo sotto regimi autocratici, le
persone finivano con l'avere una preferenza psicologica profonda
per istituzioni generalmente autocratiche, compresa una chiesa au-
tocratica; dunque, preferivano il cattolicesimo romano. Invece, nel
caso di governi in un certo senso disponibili nei confronti delle pre-
ferenze del popolo (Swanson utilizza il termine «eterarchici»), nel-
le persone si formano delle preferenze psicologiche per istituzioni
più aperte; dunque, preferiscono il protestantesimo. Questo tipo di
assunzioni psicologiche non è solamente dubbio, ma anche super-
fluo, e questo mio giudizio è condiviso da molti storici, compresi
quelli che parteciparono a uno speciale simposio sul libro di Swan-
son pubblicato nel «Journal for Interdisciplinary History» (1970-
1971). È sufficiente, e di gran lunga più plausibile, sostenere sem-
plicemente che i movimenti popolari possano essere soffocati me-
glio da governi autocratici rispetto che da governi più disponibili.
Comunque, nel criticare l'opera di Swanson, gli studiosi non han-
no ben valutato i risultati empirici potenzialmente importanti che
sottostavano alle sue tesi - i dati quantitativi che dimostrano gli ef-
fettì. diretti del governo sul successo del protestantesimo.
Swanson crea degli insiemi di dati in merito ai 41 governi euro-
pei esistenti all'epoca della «Riforma protestante», li classifica tutti
in base al tipo di governo, e tiene conto di quelli che divennero prò-
testanti. Traducendo in termini convenzionali il suo linguaggio,
nella tabella 1.1 possiamo vedere gli impressionanti risultati da lui
ottenuti. Dei 21 governi autocratici, due divennero protestanti. Dei
20 governi più disponibili, tutti divennero protestanti. Purtroppo, i
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 147

«casi» di Swanson sono un insieme molto eterogeneo. Alcuni sono


nazioni, come Inghilterra, Francia e Spagna. Altre unità sono re-
gioni, come le Highlands scozzesi. Altre ancora sono città-stato ita-
liane, come Firenze e Venezia. A ciò, Swanson aggiunge tutti e 14 i
cantoni svizzeri. Nella sua codificazione, poi, Swanson ignora que-
sfiorii come il grado di coercizione esterna, fattore importante, per
esempio, per le città-stato italiane, e tralascia le questioni di non
confrontabilità. Ciò nonostante, se analizziamo solamente i 14 can-
toni svizzeri, che tra loro sono perfettamente paragonabili, vedia-
mo che i 5 con regimi più disponibili divennero protestanti. Dei 9
con regimi autocratici, 7 rimasero cattolici, e 2 cantoni estrema-
mente rurali si divisero in regioni protestanti e cattoliche. Eppure,
un'ulteriore critica da muovere a Swanson concerne la validità del-
la sua codificazione dei governi in base alla disponibilità di rispo-
sta. Infatti, l'aver posto Danimarca, Svezia e Inghilterra fra i regimi
più disponibili, nella tabella 1.1, e la Polonia fra gli autocratici, fa
pensare che la sua classificazione sia stata influenzata dal sapere
già quali paesi erano divenuti protestanti.

Tabella 1.1. Governo e conversione al protestantesimo

Governi disponibili Governi autocratici

C o n v ertiti al p ro te sta n te sim o 100% 10%

R im asti cattolici 0% 90%

100% 100%

n= (20) (21)

Note: Gamma = 1.00; Kramer's V = 0,907; Prob. < 0,000


Fonte: Calcoli di Swanson, in Swanson 1967, p. 60.

Tuttavia, la tesi di Swanson merita un'analisi basata su dati mi-


gliori. Come abbiamo già detto, le discussioni sul protestantesimo
e le città sottolineano tutte l'importanza di governi disponibili.
Un'enfasi particolare viene posta sulle Libere Città imperiali. A
148 A GLORIA DI DIO

partire dal ΧΙΠ secolo, queste comunità uscirono lentamente dal


conflitto fra abitanti di città in crescita e signori feudali locali. Alla
volta del XTV secolo, molte città, soprattutto in aree tedesche, si era-
no guadagnate la possibilità di controllo delle questioni interne,
dal momento che persino «i più evidenti diritti di sovranità - la so-
vranità militare e giudiziaria - scivolarono via lentamente dalle
mani dei signori» (Rorig 1969, p. 25). Vennero chiamate «imperia-
li» perché dovevano alleanza all'Imperatore (Sacro Romano), ma
per il resto erano libere e sovrane. Così, pagavano le tasse diretta-
mente all'Imperatore, ma conservavano un controllo diretto sui si-
sterni di tassazione. Le Libere Città imperiali godevano anche di un
altro tipo di libertà, vale a dire, non erano soggette ad autocrati feu-
dali locali, ma ognuna era governata da consigli cittadini. I consigli
differivano in quanto a portata degli interessi rappresentati - a voi-
te comprendevano le gilde artigiane e altre volte no. Comunque,
erano eletti (anche se non tutti potevano votare), e c'era un sostan-
ziale ricambio. Di conseguenza, questi consigli cittadini dovevano
rispondere un minimo ai sentimenti dei loro elettori e concittadini.
Gli storici concordano sul fatto che le Libere Città imperiali si sia-
no mostrate insolitamente pronte ad accogliere il protestantesimo
16, ma non esistono confronti statistici adeguati con città non impe-
riali simili. Nel 1500 c'erano circa 65 Libere Città imperiali (Moeller
1972). Alcune possono essere ignorate poiché davvero piccole - al-
cune non avevano più di un migliaio di residenti (Ròring 1969). Al-
tre erano isolate e lontane dalle rimanenti città imperiali, circonda-
te da potenti ducati o principati che imponevano un certo grado di
cautela al consiglio cittadino. In contrasto, essendo nate come co-
munità commerciali, molte città erano raggruppate nell'area lungo
il Reno, o in sua prossimità, regione alla quale spesso gli storici si
riferiscono come alle «terre di confine» (si veda il capitolo 3). In
quest'area c'erano anche molte città che non erano «imperiali», il
che ci offre la possibilità di testare la tesi sull'influenza del governo
in un insieme di unità di dimensioni confrontabili, e simili in ter-
mini di eredità culturale e contesto. Di conseguenza, ho scelto tut-
te le città rilevanti di quest'area, per un totale di 43. A differenza di
Swanson, non mi serve valutare la natura di ogni governo locale in
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 149

termini di disponibilità, rischiando di commettere alcuni degli er-


rori per i quali Swanson stesso è stato messo alla berlina. Tutto ciò
di cui ho bisogno è confrontare 12 città non imperiali con 31 Libe-
re Città imperiali, presupponendo che quest'ultime tendessero ad
avere governi più aperti.
La tabella 1.2 mostra i miei risultati. I dati sono a sostegno
della tesi sul ruolo del governo nella conversione. Quasi due ter-
zi delle Città imperiali da me selezionate divennero protestanti,
mentre tre quarti delle non imperiali rimasero cattoliche.
Sono consapevole del fatto che successivamente alcune di que-
ste città tornarono al cattolicesimo, ma non è mia intenzione ten-
tare di spiegare il corso delle Guerre di religione. Qui è sufficiente
osservare come, a parità di condizioni, laddove la pressione pub-
blica aveva importanza politica, il protestantesimo ebbe successo.
Ma, allora, perché anche alcuni governi autocratici divennero
protestanti?

Tabella 1.2. Governi cittadini e conversione al protestantesimo

43* città rilevanti del 1500

Città non imperiali


Libere Città imperiali

Convertite ai protestantesim o 61% 25%

Rim aste cattoliche 39% 75%

100% 100%

n= (31) (12)

Note: Gamma = 0.652; Kramer's V = 0,326; Prob. < 0,25


*Aquisgrana, Augusta, Bamberga, Basilea, Berna, Besanzone, Coblenza,
Colmar, Colonia, Costanza, Esslingen, Francoforte, Friburgo, Ginevra,
Heidelberg, Heilbronn, Kempton, Losanna, Lucerna, Magonza, Marbur-
go, Memmingen, Metz, Mulhausen, Monaco, Nancy, Nòrdlingen, Norim-
berga, Offenburg, Ratisbona, Ravensburg, Reutlingen, Rothenburg,
Rottweil, Schwàbisch Gmund, Spira, Strasburgo, Stoccarda, Treviri, Ulma,
Worms, Wurtzberg e Zurigo.
150 A GLORIA DI DIO

Interesse reale
L'opinione pubblica ebbe pochissima importanza nella deci-
sione di molti regimi autocratici di abbracciare il protestantesi-
mo. In effetti, in diversi casi lo stesso protestantesimo aveva di
per sé poca importanza, servendo semplicemente come legitti-
mazione religiosa alla «nazionalizzazione» della Chiesa. Dal mo-
mento che il punto in questione è il motivo per cui dei regimi au-
tocratici optarono per il protestantesimo, o per il cattolicesimo, la
discussione si limita a questo tipo di governi. Di conseguenza,
non tratterò del successo del protestantesimo in Olanda, ma del
mantenimento della fede romana cattolica dei Paesi Bassi spa-
gnoli. Inizierò dai governi che scelsero di restare cattolici, e poi
esaminerò la situazione di quei governanti che si convertirono al
protestantesimo.

Rimanere cattolici
Nel 1296, re Filippo di Francia, alla disperata ricerca di fondi
per continuare la guerra con l'Inghilterra, impose una tassa sul
reddito della Chiesa. Infuriato, papa Bonifacio Vili emanò una
bolla pontificia nella quale proibiva ogni tipo di tassazione sul
clero o sulle proprietà della Chiesa. In risposta, Filippo mise fuo-
ri legge l'esportazione di denaro o metalli preziosi, e proibì agli
esattori papali di entrare in Francia. Successivamente, il papato
venne trasferito ad Avignone, nel 1305, in parte per farlo rientra-
re sotto la portata legale dei fondi francesi, e vi rimase fino al
1378 - per un arco di tempo che è divenuto noto come la «catti-
vità avignonese», durante il quale tutti i papi furono francesi.
Tuttavia, anche dopo che il papato tornò a Roma, la Chiesa in
Francia rimase subordinata alla Corona. Per tutto il XV secolo,
l'autorità del re sulla Chiesa si ampliò. All'inizio del XVI secolo
ciò sfociò in una notevole riforma della Chiesa di Francia (so-
prattutto dei monasteri), diretta dal cardinale d'Amboise, e fatta
applicare dal re. Poi, nel 1516, il potere della Corona venne for-
malizzato dal Concordato di Bologna, firmato da papa Leone X
e da re Francesco I. Al re fu riconosciuto il diritto di nomina per
tutti gli incarichi più elevati della Chiesa di Francia: dieci arcive­
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 151

scovi, ottantadue vescovi, priori, abati, badesse di tutte le centi-


naia di monasteri, abbazie e conventi. Attraverso queste nomine
il re ottenne il controllo delle proprietà e dei redditi della Chiesa.
Come ha scritto Owen Chadwick, «quando voleva il denaro ec-
clesiastico, il re non doveva nemmeno usare metodi indiretti»
(Chadwick 1972, p. 26). E tutto questo eliminò ogni tentazione di
sostenere il protestantesimo.
«In Spagna, come in Francia, non vi bisogno di nessuna rifor-
ma per subordinare la Chiesa allo stato» (Durant 1957, p. 639). La
Corona spagnola aveva già da molto tempo il diritto di nomina su
arcivescovi e vescovi, di imporre tasse sul clero e di ricevere una
sostanziale quota di decime. Π controllo spagnolo della Chiesa au-
mento enormemente nel 1486, quando Ferdinando e Isabella otte-
nero il diritto di fare tutte le nomine più importanti, di proibire il
trasferimento dei processi a Roma dai tribunali spagnoli, e di im-
porre tasse sul clero (Bush 1967; Hill 1967). In effetti, in Spagna e
nei suoi possedimenti, era illegale persino pubblicare bolle ponti-
fide e decreti papali senza il consenso reale, come vedremo nel ca-
pitolo 4. Queste stesse condizioni vigevano anche in Portogallo.
La subordinazione della Chiesa nei confronti dello stato vide un
incremento sotto Carlo V (1500-1558), dal momento che la Spagna
divenne il centro del Sacro Romano Impero, estendendo il proprio
potere nei Paesi Bassi, in Austria, in alcune regioni della Germania
sudorientale, e nella maggior parte delle città-stato italiane. Ben-
ché Carlo V dovesse sostenere dei costi enormi per difendere e
tentare di estendere i suoi vasti possedimenti, l'appetibilità di una
confisca delle proprietà della Chiesa era resa vana da tre grandi
fattori. Per prima cosa, Carlo V già riceveva ima quota rilevante
delle entrate della Chiesa. In secondo luogo, il continuo sostegno
del Papa era importante per le rivendicazioni di sovranità di Car-
lo, soprattutto in Spagna, dove era considerato imo «straniero». In
terzo luogo, l'immenso flusso di ricchezze proveniente dal Nuovo
Mondo riduceva il valore relativo della ricchezza della Chiesa, in
misura tale che non valeva la pena confiscarla.
Come abbiamo visto, il protestantesimo in Italia fu soppresso
dalle forze spagnole che agivano in linea con gli accordi favore­
152 A GLORIA DI DIO

voli esistenti fra Corona spagnola e Chiesa, estesi anche ai pos-


sedimenti spagnoli in Italia. Dunque, per avere successo in Italia,
il protestantesimo avrebbe dovuto averne prim a in Spagna.
All'inizio, il protestantesimo si dimostrò piuttosto popolare
in Polonia, dove era tollerato dallo stato, che da molto tempo ri-
spettava i diritti religiosi di ebrei e cristiani ortodossi. Alla fine,
però, venne soppresso anche il protestantesimo polacco, e un va-
sto contingente di gesuiti fu inviato a restaurare l'egemonia cat-
tolica romana. Perché? Perché le ambizioni dell'indocile nobiltà
più bassa e degli abitanti delle città, così come le fazioni esisten-
ti all'interno del protestantesimo, sembravano minacciare la Co-
rona, e perché la Chiesa aveva già ceduto molta della sua rie-
chezza e del suo potere alla nobiltà polacca. Furono tassati terre-
ni e clero. Solamente i membri delle famiglie nobili polacche po-
tevano ottenere gli incarichi ecclesiastici più elevati, e i signori
terrieri locali controllavano le nomine del clero parrocchiale.
Dunque, non c'era nessun potenziale profitto che potesse indur-
re la Corona polacca ad abbracciare il protestantesimo. Come ha
scritto Robert Wuthnow, la nobiltà polacca «godeva di un con-
trollo sulla Chiesa sufficiente a far sì che mancassero gli incenti-
vi a rivolgersi al protestantesimo» (Wuthnow 1989, p. 90).
In sintesi: in nessuno di questi luoghi la Chiesa imponeva gli
stessi fardelli finanziari e politici che imponeva altrove, e quindi
l'interesse reale non si rivolse al protestantesimo con la prospet-
tiva di immensi guadagni finanziari.

Diventare protestanti
Diversamente, in altre parti d'Europa, il valore enorme delle
proprietà della Chiesa e le sue continue esazioni finanziarie, ol-
tre che l'interferenza e l'arroganza ecclesiastiche, furono potenti
tentazioni e motivi di aspra lagnanza. Fino a quando vi era stata
una sola Chiesa, era stato rischioso sfidare l'autorità papale, co-
me scoprì Enrico IV quando fu lasciato a piedi nudi nella neve
da papa Gregorio VII. Ma ora, il protestantesimo offriva una fon-
te alternativa di legittimazione religiosa - davanti all'opzione
protestante, persino la scomunica era ormai una vuota minaccia.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 153

Indipendentemente dall'esistenza di motivazioni aggiuntive,


molti re e principi videro nel protestantesimo l'opportunità di
aumentare enormemente le proprie ricchezze e il proprio potere
(Chadwick 1972: Duffy 1992; Durant 1957; Latourette 1975; Oz-
ment 1975; Roberts 1968; Tracy 1999).
Gli inglesi non avevano nessun concordato favorevole con
Roma quando Enrico VIII, unilateralmente, usurpò l'autorità pa-
pale. Si tenga in considerazione che Enrico Vili non era prote-
stante. Era, anzi, contrario alle principali dottrine protestanti, e
continuò comunque a mandare al rogo luterani e lollardi! Dim-
que, Enrico non poteva nemmeno fingere di essere motivato da
ragioni teologiche. Egli si limitò a proclamare una Chiesa catto-
lica inglese, non più romana. Nel farlo, fece della Chiesa una prò-
prietà della Corona, guadagnando dunque una ricchezza im-
mensa e aum entando enormemente le proprie entrate annuali.
Eliminò anche ogni interferenza papale nelle questioni inglesi,
ecclesiastiche e secolari, cosa che gli permise di prendere diverse
mogli e sbarazzarsene a piacimento.
In modo simile, quando Lutero affisse le sue Tesi, i principi e
gli elettori tedeschi delle regioni nordoccidentali non avevano al-
cun potere legale per arrestare il flusso di fondi diretto a Roma,
né di limitare l'espansione terriera della Chiesa, un processo che
continuava a erodere la loro base d'imposta. Diventando prote-
stanti e confiscando proprietà ed entrate della Chiesa, come chie-
deva Lutero, riuscirono a rovesciare la situazione. Questo ragio-
namento, ovviamente, non si applica ai principi-vescovi, dal mo-
mento che costoro già possedevano i beni della Chiesa e tratte-
nevano le entrate; infatti, nessuno di loro si convertì al prote-
stantesimo.
In Danimarca, alla vigilia del XVI secolo, da un terzo a metà
delle terre coltivabili era di proprietà della Chiesa, e tutti paga-
vano delle decime - la gran parte delle quali andava a Roma. Era
il Papa a fare le nomine ecclesiastiche. Nel 1534 divenne re Cri-
stiano ΠΙ. Diciottenne, Cristiano aveva incontrato Lutero alla
Dieta di Worms, e ne era rimasto profondamente colpito. Era ri-
masto colpito anche dalle confische di proprietà e ricchezze ec­
154 A GLORIA DI DIO

clesiastiche che stavano avendo luogo in Germania. Una volta


salito al trono, si trovò in estremo bisogno di fondi e rimase of-
feso dall'arroganza dei vescovi danesi. Di conseguenza, dichiarò
la Danimarca imo stato protestante e confiscò tutti i beni e le de-
cime della Chiesa, inaugurando «un'era di prosperità» (Latou-
rette 1975, p. 735).
Nel frattempo, la Svezia si ribellò con successo contro il do-
minio danese, visto che Gustavo Vasa cacciò i danesi dalla regio-
ne e fu formalmente incoronato re Gustavo I nel 1528. Anche in
questo caso, la Chiesa aveva goduto di un'autorità incontrastata
e di immense ricchezze. Quando il nuovo re depose un arcive-
scovo e fece le sue nomine su quattro vescovadi vuoti, il Papa si
schierò a sostegno dell'arcivescovo deposto e rigettò le nomine.
A questo affronto si aggiunse il fatto che il nuovo re aveva un di-
sperato bisogno di fondi. Gustavo affrontò entrambe le questio-
ni dichiarando la Svezia un paese protestante e appropriandosi
«dei possedimenti e delle entrate della Chiesa» (Latourette 1975,
p. 737). Per rafforzare il sostegno della nobiltà, vendette ai nobi-
li le terre espropriate alla Chiesa a prezzi molto bassi. E nono-
stante questa svendita, le proprietà che tenne per sé quadrupli-
carono le terre della corona (Roberts 1968).
Vale la pena osservare che in molte circostanze era nell'inte-
resse anche dei cittadini che le terre della Chiesa venissero con-
fiscate e l'autorità ecclesiastica diminuita. Le Libere Città impe-
riali erano pesantem ente vessate da possedimenti ecclesiastici
vastissimi e non tassabili, e da un numero molto elevato di ap-
partenenti al clero e agli ordini religiosi lì residente che si rifiu-
tava di adem piere ai doveri richiesti agli altri cittadini. Nella
maggioranza delle città, per lo meno un terzo delle proprietà
apparteneva alla Chiesa, e fino a un decimo dei/residenti erano
sacerdoti o membri degli ordini religiosi (Ozment 1975). Prati-
camente ovunque esisteva un conflitto fra Chiesa e città in me-
rito a privilegi speciali, soprattutto a causa delle grandi dimen-
sioni della presenza ecclesiastica. Il clero si chiamava esente da
tutte le tasse. E questo era u n motivo di lagnanza quotidiano:
nella gran parte delle città c'erano delle imposte di vendita su
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 155

molte merci al consumo, come il vino o la birra, imposte che


non venivano pagate da sacerdoti, monaci e suore. Tutti gli al-
tri pagavano imposte sulle proprietà, ma non la Chiesa - anzi,
in realtà a tutti veniva chiesto di pagare alla Chiesa delle deci-
me. In modo simile, quando un cittadino veniva accusato di un
crimine, veniva portato davanti al tribunale locale, dove era al-
to il rischio di una condanna a morte. Sacerdoti, monaci e suo-
re potevano essere processati solamente da tribunali religiosi e
in pratica non correvano alcun rischio di pena capitale, né di
una sentenza severa - per un omicidio spesso si davano sola-
mente molti anni di digiuno. Né i religiosi adem pivano a dove-
ri quali i turni di sorveglianza alle m ura della città, come inve-
ce dovevano fare tutti gli altri uomini giudicati abili (Moeller
1972; Ozment 1975; Tracy 1999). Ecco perché tutti i laici resi-
denti in queste città avevano molto da guadagnare dal prote-
stantesimo.
Se si estende la portata del protestantesimo fino a includere
gli hussiti, si possono osservare i rilevanti benefici che la Corona
e la nobiltà boeme ottennero confiscando terre e beni della Chie-
sa. In effetti, si può estendere questo modello ai sostenitori nobi-
li di molti movimenti settari ribelli, compresi catari e valdesi, ma
non è necessario farlo qui.
Laddove il successo del protestantesim o non dipese più
dalle decisioni dei regimi, ma dal risultato delle battaglie, le
mie tre affermazioni hanno poco rilievo. N on volendo scrivere
una storia delle Guerre di religione, ho limitato la mia analisi
approssim ativam ente al periodo fra il 1517 e il 1560. AH'inter-
no di questo arco di tempo, i fatti sostengono con forza la tesi
che i governi che avevano da guadagnare di più dalla conver-
sione abbracciarono il protestantesim o, mentre i governi che
avevano già limitato il potere e la ricchezza della Chiesa rima-
sero cattolici. Francia, Spagna, Portogallo, i Paesi Bassi spa-
gnoli, la Polonia e le città-stato italiane avevano molto meno
da guadagnare dalla conversione di Inghilterra, Germania set-
tentrionale e Scandinavia. E così sono andate le cose, come mo-
stra la tabella 1.3.
156 A GLORIA DI DIO

In sintesi: il protestantesimo ebbe successo laddove 1) il cat-


tolicesimo era debole per mancanza di una precedente cristia-
nizzazione efficace o per la presenza di tradizioni antiche di dis-
senso e risentimento; 2) i governi erano abbastanza disponibili
nei confronti dei sentimenti popolari; e 3) i governi avevano da
guadagnare molto dalla conversione.

Tabella 1.3. Interesse reale e scelte religiose. Solamente regimi autocratici

Livello di va ntaggio economico e politico dato dalla


conversione

Rim asti cattolici

Francia Basso
S pagna Basso
Portogallo Basso
P aesi Bassi spagnoli Basso
Polonia Basso
Italia Basso
C onvertiti al protestantesim o

Inghilterra A lto
S tati della G erm ania nordoccidentale Alto
D anim arca Alto
Svezia Alto

La riforma cattolica

In epoche recenti, gli storici hanno mostrato la tendenza a


sminuire in qualche modo l'interpretazione di vecchia data del-
la Controriforma come reazione alla sfida del protestantesimo.
Evennett sostenne che sia la Riforma, sia la Controriforma «pos-
sono essere ragionevolmente considerate come due risultati del-
la [stessa] aspirazione generale a una rigenerazione religiosa che
pervase l'Europa di fine XV inizio XVI secolo». Dunque, Even-
nett obbietta all'uso del termine «Controriforma» con implica-
zioni «reazionarie», sostenendo piuttosto l'idea di un «adatta-
mento evolutivo» (Evennett 1968, pp. 3-9).
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 157

Qui le questioni sono due, e sono molto diverse fra loro. Per-
sonalmente, mi sentirei di sostituire «Riforma cattolica» a «Con-
troriforma», però sarebbe fare della cattiva storia l'affermare che
i cambiamenti iniziati col Concilio di Trento (1562-1563) non sia-
no stati provocati dalla rapida crescita del protestantesimo. Pen-
sarla in questo modo significa ignorare che mentre il Concilio era
riunito, in Francia c'era una dura guerra civile per stabilire se do-
vesserò prevalere i cattolici o gli ugonotti. Dunque, sostenere che
le grandi riforme iniziate a Trento sarebbero avvenute comun-
que, indipendentemente dall'agitazione protestante, significa
ignorare il fatto che la Chiesa della pietà stava cercando di rifor-
mare la religione da molti secoli, e che i papi riformatori non era-
no comunque riusciti a fare dei passi avanti.
Non c'è discredito nell'amm ettere che la Riforma cattolica,
in gestazione da molto tempo, abbia avuto bisogno di una vi-
gorosa spinta protestante per venire alla luce. Ciò che è impor-
tante è che la Chiesa della pietà a Trento asserì il proprio potè-
re. Di conseguenza, con l'aiuto di nuovi ordini religiosi come
quello dei gesuiti, e di ordini rinvigoriti come i carmelitani, la
Chiesa della pietà presto giunse a dominare la Chiesa cattolica
romana e, alla fine, i riformatori raggiunsero i loro obbiettivi.
La simonia ebbe fine. Papi e vescovi divennero modelli di pietà.
Vulgate cattoliche ufficiali e poco costose furono messe a di-
sposizione in tutte le principali lingue. La Chiesa s'impegnò
davvero nell'evangelizzazione e nell'educazione del popolo, e
continua a farlo tuttora.
Tutte queste riforme sono state enormemente influenzate da
quella che è stata ritenuta la più importante decisione presa dal
Concilio: istituire una rete di seminari per preparare gli uomini al
sacerdozio locale. In precedenza, l'unica preparazione che la mag-
gior parte dei parroci riceveva veniva dal prestare servizio come
assistenti di altri sacerdoti, che a loro volta erano stati assistenti di
altri. Di conseguenza, nei secoli precedenti, molti sacerdoti erano
rimasti analfabeti, o quasi. Molti non erano in grado di celebrare
una Messa, e si limitavano a borbottare delle sillabe senza senso.
Pochi erano coloro che conoscevano i fondamenti della dottrina -
e tanti non sapevano nemmeno ripetere i Dieci Comandamenti, o
158 A GLORIA DI DIO

elencare i Sette Peccati Capitali (Chadwick 1972; Duffy 1987; Gen-


tilcore 2003; Thomas 1971). La decisione di istituire seminari (per i
quali ai vescovi venne data l'autorità speciale di convogliare fon-
di per altre attività) iniziò presto a porre rimedio a queste man-
canze. Giunti al XVIII secolo, nella maggioranza dei luoghi la
Chiesa era rappresentata da uomini colti e molto esperti in teoio-
già. Cosa forse ancora più importante, i seminari creavano sacer-
doti le cui vocazioni erano state plasmate e messe alla prova in un
contesto ufficiale, istituzionale (Mullett 1999).
Questo fu l'aspetto positivo della Riforma cattolica. Sfortunata-
mente, e forse inevitabilmente, il lassismo della Chiesa del potere
aveva dei vantaggi che scomparirono assieme alle sue molte man-
canze. Dunque, molte pratiche e ricerche intellettuali ed economi-
che fiorite prima del Concilio di Trento vennero presto scoraggia-
te, o addirittura proibite, e fu così per molti secoli. Questo ha por-
tato ad alcuni fraintendimenti. Per esempio, dopo Max Weber si è
diffusa l'idea che il protestantesimo abbia dato vita al capitalismo
e dunque alla Rivoluzione industriale, e che queste due cose fos-
sero in qualche modo incompatibili con le prospettive e le politiche
cattoliche. In realtà, il capitalismo e l'industrializzazione non
emersero all'improvviso come conseguenza della Riforma prote-
stante. Piuttosto, come ha spiegato Hugh Trevor-Roper, si svilup-
parono gradualmente, e le imprese capitaliste medievali «erano
"razionali" nei loro metodi e "burocratiche" nella loro struttura,
tanto quanto il capitalismo moderno. [...] L'idea che il capitalismo
industriale su larga scala fosse ideologicamente impossibile prima
della Riforma viene demolita dal semplice fatto che già esisteva»
(Trevor-Roper [1969] 2001, pp. 20-21). Comunque, le attività e le
misure repressive imposte dalla Chiesa della Controriforma ebbe-
ro come conseguenza la massiccia migrazione di capitalisti e di in-
teri settori economici dalle aree cattoliche - come l'Italia e i Paesi
Bassi spagnoli - alle zone protestanti, con il risultato che le nazio-
ni protestanti fecero presto degli enormi passi avanti. Come disse
Femand Braudel, «[La tesi dell'etica protestante] è evidentemente
falsa. I paesi del Nord non hanno fatto altro che occupare il posto
che era appartenuto a lungo e in forma splendida ai vecchi centri
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 159

capitalistici del Mediterraneo. Non hanno certo inventato nulla né


nella tecnica né nella conduzione degli affari» (Braudel 1981, p. 78).
Lo stesso accadde nella scienza. Come sarà chiaro dal prossi-
mo capitolo, la nascita della scienza occidentale si radicò nella
Scolastica, e i cattolici svolsero un ruolo importante tanto quan-
to quello dei protestanti nella «Rivoluzione scientifica» del XVI
secolo. Tuttavia, dopo la Riforma cattolica, sulla scienza furono
imposte restrizioni sempre più severe, soprattutto nelle univer-
sità poste sotto il controllo della Chiesa, e i contributi cattolici al-
la scienza diminuirono rapidamente, incoraggiando false idee
sulle presunte radici protestanti della scienza. Ma di queste cose,
parleremo più avanti.

Conclusione /

La storia delle riforme e delle sette non finì nel XVII secolo.
Avrei potuto prolungare di molto questo capitolo esaminando
il modo in cui negli ultimi secoli 1 vari corpi protestanti ed
ebraici sono precipitati nel lassismo, e come questo li abbia co-
stretti a esternalizzare una m oltitudine di m ovim enti settari.
Anzi, molti gruppi religiosi del m ondo occidentale di oggi, fra
i quali i metodisti, gli episcopaliani, gli ebrei riformati e anche
gli unitariani, al momento stanno affrontando delle riforme se-
rie, così come in tutto il mondo molti gruppi islamici e in d ù 17.
Ma ho già scritto abbastanza altróve su questi sviluppi più re-
centi. In questo capitolo, il mio scopo era quello di svelare i
meccanismi sottostanti, piuttosto semplici, che generano il de-
siderio di riforma e favoriscono la formazione di movimenti
settari. Benché gli studiosi di scienze sociali siano in errore
quando asseriscono che vi siano delle motivazioni materialisti-
che nascoste alla base di tutte le sette e di tutte le riforme, han-
no comunque ragione nel considerare le sette un fenomeno ge-
nerico. Le sette e le riforme sono anche uri fenomeno inevitabile
poiché, benché vi sia un Unico Vero Dio, non ci potrà mai esse-
re un'Unica Vera Chiesa.
160 A GLORIA DI DIO

IQuesto non significa che sia la situazione usuale all'interno dei monotei-
smi, dove sono invece comuni i tentativi di imporre monopoli religiosi.
2Dal latino «tradere», consegnare, mettere in mano. È da qui che deriva il
termine traditore.
3Venne chiamata «Peste Nera» solamente alcuni secoli dopo (Ziegler
1971).
4Ancora nel 1617, san Vincenzo da Paola scoprì che il suo sacerdote loca-
le non conosceva il latino, neppure per quanto riguardava le parole del-
l'assoluzione (Delumeau 1997).
5Di recente, alcuni storici hanno individuato in Irlanda delle università ri-
salenti al VI secolo. La più famosa era quella di Clonmacnoise, che attira-
va studiosi non solo daU'Irlanda e dall'Inghilterra, ma anche dal conti-
nente. In effetti, gli studiosi irlandesi erano molto ammirati all'epoca ed
erano i benvenuti nelle scuole delle cattedrali d'Europa. Pare che le istitu-
zioni irlandesi siano andate distrutte durante l'occupazione norrena.
6La Colish (1997, p. 268) definisce la teologia di quest'epoca «la disciplina
a maggior rischio».
7Swanson 1995. Qualora la cifra sembri eccessiva, si pensi al fatto che la pre-
senza di un numero così elevato di sacerdoti in un'arcidiocesi spiega esat-
tamente la sensazione dei laici che la Chiesa fosse un fardello intollerabile.
8Questo significato è molto vicino al modo in cui oggi utilizzano il termi-
ne i gruppi antireligiosi come l'American Humanist Association.
9In realtà, san Tommaso d'Aquino scriveva in un latino eccellente, ma non
era quello stile fiorito, poetico, tanto ammirato da Valla e dagli umanisti.
Alfred Crosby (1998, p. 75) ha descritto la prosa di san Tommaso come
«ossuta, scarna, priva di allitterazioni, figure retoriche e perfino metafore,
eccetto quando fosse la tradizione a richiedere diversamente (non poteva
certo rifiutare la poesia dei Salmi, ma criticava Platone per la stravaganza
del linguaggio.) Π suo modo di ragionare e la sua scrittura sono quasi ma-
tematici: i traduttori inglesi si servono talvolta di simboli algebrici come
del mezzo migliore per esprimere, nella lingua del XX secolo, ciò che egli
scrisse nel latino del XIII».
10Π paragone più appropriato è con le battute «interne» che i gruppi etni-
ci, razziali e religiosi spesso fanno fra di loro, battute che sarebbero consi-
derate molto offensive se provenissero da esterni. Erasmo era, tecnica-
mente, un monaco.
IIProtestanti: Basilea, Berna, Ginevra, Sciaffusa e Zurigo; cattolici: Fribur-
go, Lucerna, Svitto, Soletta, Untervaldo, Uri e Zugo; divisi: Appenzello e
Glarona.
LA VERITÀ DI DIO: SETTE E RIFORME INEVITABILI 161

12Basilea, Berna, Losanna, Sciaffusa e Zurigo.


13Personalmente, notai questo aspetto grazie a un paragrafo di un articolo
su Calvino riportato nell'Encyclopaedia Britannica, articolo scritto sempre
da Kingdon.
14Kingdon utilizzò la cifra stimata di 20 milioni di persone per quanto ri-
guarda il totale della popolazione francese. Studi successivi hanno rivisto
questa cifra, abbassandola a 16 milioni.
15Austria, IX; Belgio, VII; Danimarca, XI; Finlandia, XIII; Francia, VI; Ger-
mania, IX; Gran Bretagna, IX; Islanda XI; Irlanda, V; Italia, IV; Paesi Bassi,
Vili; Norvegia, XI; Portogallo IV; Spagna, IV; Svezia, XII; Svizzera, Vili.
16Steve Ozment (1975, pp. 124-125) ha ipotizzato l'esistenza di un prò-
cesso in tre livelli seguito dalle città divenute protestanti. Il processo ini-
ziava 1) con l'arrivo di predicatori e agitatori protestanti, i quali 2) riu-
scivano a radunare un seguito popolare devoto che 3) vinceva «il soste-
gno riluttante e la sanzione di un governo». Ozment osserva che la ri-
luttanza dei membri dei consigli cittadini nel dichiararsi a favore del
protestantesimo, spesso non rispecchiava un'opposizione religiosa, ma
una preferenza per procedure appropriate e un cambiamento pacifico.
Ovviamente, alcuni consigli cittadini si rifiutarono di intraprendere il
terzo passo del processo.
17Si potrebbe dire che anche i cambiamenti successivi al Concilio Vaticano
Π, introdotti da papa Giovanni Paolo II, costituiscano una riforma.
Capitolo 2

L'Opera di Dio: le origini religiose della scienza

I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera


delle sue mani annuncia il firmamento.
Salmo 19

Anche i bambini sanno che nel 1492 Colombo dimostrò che il


mondo era tondo. E sanno anche che egli cercò qualcuno che so-
stenesse i suoi viaggi con ostinazione, nonostante anni di oppo-
sizione della Chiesa cattolica romana, la quale ridicolizzava ogni
opinione che fosse diversa daH'insegnamento biblico per cui la
terra era piatta. Andrew Dickson White (1832-1918), fondatore e
primo presidente della Cornell University, e autore della più im-
portante opera mai scritta sul conflitto fra teologia e scienza, ci
offre questa sintesi:

La battaglia di Colombo [con la religione] è ben nota al mondo:


sappiamo come il vescovo di Ceuta avesse avuto la meglio su di lui
in Portogallo; come numerosissimi saggi di Spagna l'avessero mes-
so dinnanzi alle solite citazioni dai Salmi, da san Paolo, e da
sant'Agostino; come, anche dopo il suo trionfo e il suo viaggio che
rafforzò la teoria della sfericità della terra [...] la Chiesa, tramite la
sua più alta autorità, continuasse a inciampare e persistere solen-
nemente nell'errore [...e sappiamo come] le barriere teologiche
davanti questa verità geografica abbiano poi cedetu, ma con len-
tezza. Benché fosse ormai chiaro per loro, gli scienziati esitarono a
dichiararlo al mondo in generale [...]. Ma nel 1519, la scienza ot-
164 A GLORIA DI DIO

terme la sua schiacciante vittoria. Magellano fece il suo famoso


viaggio, e dimostrò che la terra è rotonda, dal momento che la sua
spedizione la circumnavigava. [...] Eppure, nemmeno questo pose
fine alla guerra. Molti uomini [religiosi] coscienziosi si opposero a
questa teoria per altri due secoli. (White 1896, voi. 2, pp. 108-109)

Come chiunque altro, anche io sono cresciuto con queste co-


se. Venivano dette e ridette in ogni racconto del viaggio di Co-
lombo nei libri di scuola, in molti film, e a ogni Columbus Day (e
le troviamo anche all'inizio di They All Laughed, di George e Ira
Gershwin,1936: «They all laughed at Cristopher Columbus,
when he said thè world was round», tutti risero di Cristoforo Co-
lombo quando disse che il m ondo era rotondo). E per quanto ri-
guarda l'immenso studio di White di cui sopra, A History of thè
Warfare of Science with Theology in Christendom (ed. it. Storia della
lotta della scienza con la teologia nella cristianità), in due volumi,
quand'ero giovane era ima lettura obbligatoria per tutti gli intei-
lettuali in erba, e io stesso l'ho citato nel mio secondo saggio
pubblicato.
Il problema è che quasi ogni parola del racconto di White
sulla vicenda di Colombo è falsa. Ogni persona istruita dell'e-
poca, compresi i prelati cattolici romani, sapeva che la terra era
rotonda (Grant 1983 e 1994; Ham ilton 1996; Russell 1991). Beda
il Venerabile (673-735 ca.) insegnava che il m ondo era rotondo,
così come il vescovo Virgilio di Salisburgo (720-784 ca.), Ilde-
garda di Bingen (1098-1179), e san Tommaso d'Aquino (1224-
1274 ca.), e tutti e quattro alla fine sono stati proclamati santi.
Sfera era il titolo del più polare libro di astronomia del Medioe-
vo. Scritto dallo studioso della Scolastica inglese Giovanni di
Sacrobosco (1200-1256 ca.), prom uoveva la visione comune per
cui tutti i corpi celesti, Terra compresa, erano sferici. Nello stes-
so secolo del viaggio di Colombo, il cardinale Pierre d'Ailly
(1350-1420), rettore dell'Università di Parigi, osservava che
«benché vi siano montagne e valli sulla terra, per le quali non è
perfettamente rotonda, essa si avvicina di molto alla rotondità»
(in G rant 1994, p. 619).
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 165

E per quanto riguarda i «numerosissimi saggi di Spagna» che


avevano affrontato Colombo e che sconsigliavano di finanziare il
suo viaggio, non solo sapevano che la Terra era rotonda, ma an-
che che era molto più grande di quanto pensasse lo stesso Co-
lombo. Erano contrari al suo progetto, solamente perché egli ave-
va seriamente sottostimato la circonferenza della Terra e contava
su un viaggio troppo corto. Espresso in unità di misura moder-
ne, Colombo sosteneva che dalle Canarie al Giappone vi fossero
4500 chilometri, mentre in realtà i chilometri sono 22.500 circa
(Russell 1991, p. 10). Se l'emisfero occidentale non fosse esistito,
e Colombo non sapeva esistesse, lui e il suo equipaggio sarebbe-
ro morti in mare. A ogni modo, Jeffrey Burton Russell riscontrò
che non era vero che gli studiosi cristiani erano dei fanatici dalla
mente ottenebrata che si aggrappavano alle affermazioni delle
Scritture per stabilire che la terra era piatta; piuttosto, durante i
primi quindici secoli dell'era cristiana «l'opinione quasi unani-
me degli studiosi era che la terra fosse sferica, e giunti al XV se-
colo tutti i dubbi erano svaniti» (Russell 1991, p. 10). Edward
Grant, nel suo monumentale studio sulla cosmologia medievale,
osservò che in nessuno degli scritti della Scolastica si parla di
una Terra piatta, tranne che in alcune digressioni volte a confuta-
re le percezioni di piattezza (Grant 1994). Nessun documento ri-
guardante Colombo a lui contemporaneo, compreso il suo stesso
Diario di bordo e Vita dell'ammiraglio di suo figlio, e nessun rac-
conto di viaggi precedenti, inclusi quelli di Magellano, parla mai
della forma della Terra. E questo perché tutti sapevano.
Allora, perché noi non sappiamo che loro sapevano? Perché
lo sanno solo gli specialisti, oggi? Per la stessa ragione per cui il
libro di White resta influente nonostante il fatto che gli storici
della scienza di oggi lo ritengano polemico - e lo stesso White
ammise di aver scritto il libro per prendersi una rivincita nei con-
fronti delle critiche cristiane ai suoi progetti per la Cornell
(Brooke, Cantor 1998, p. 18; si veda anche Lindberg, Numbers
1986; Russell 1991). Come vedremo, molti altri racconti di White
sono falsi quanto quello sulla Terra piatta e Colombo. La ragione
per cui non sappiamo la verità in merito a tali questioni è che la
166 A GLORIA DI DIO

tesi di una guerra inevitabile e aspra fra religione e scienza è sta-


ta, per più di tre secoli, lo strumento principale di polemica uti-
lizzato nell'attacco ateo alla fede. Da Thomas Hobbes a Cari Sa-
gan e Richard Dawkins, queste false affermazioni su scienza e re-
ligione sono state usate come armi nella battaglia per «liberare»
la mente umana dalle «catene delle fede».
In questo capitolo, io sosterrò non solo che non esiste nessun
conflitto intrinseco fra religione e scienza, ma anzi, che la teologia
cristiana fu essenziale per la nascita della scienza. In dimostrazione di
questa tesi, per prima cosa farò una sintesi del lavoro storico più
recente, che mostra come la religione non generò nessuna «epoca
buia», e come non l'abbia fatto nient'altro - l'idea che, dopo la
«caduta» di Roma, sull'Europa sia scesa una lunga e oscura notte
d'ignoranza e superstizione è falsa tanto quanto la storia di Co-
lombo. In realtà, quella fu un'era di profondo e rapido progresso
tecnologico, alla fine della quale l'Europa si ritrovò più progredì-
ta del resto del mondo. Inoltre, la cosiddetta Rivoluzione scienti-
fica del XVI secolo fu la normale conseguenza del lavoro iniziato
dagli studiosi della Scolastica nell'XI secolo. Dunque, la mia at-
tenzione si sposterà sul motivo per cui la Scolastica si interessò di
scienza. Perché la vera scienza si sviluppò in Europa e in quest'e-
poca? Perché non si sviluppò altrove? Troverò le risposte a questi
interrogativi nelle caratteristiche uniche della teologia cristiana.
Ciò ci conduce a un'analisi della diffusione delle scoperte
scientifiche avvenuta tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII,
e qui esplorerò le sue connessioni con il protestantesimo, per con-
eludere che fu il cristianesimo, e non il protestantesimo, a favori-
re e sostenere la nascita della scienza. Come parte di questa di-
scussione, dimostrerò come le principali figure scientifiche del
XVI e XVII secolo fossero in grande maggioranza dei devoti cri-
stiani che credevano nel dovere di comprendere l'opera di Dio.
Rivolgendomi poi a una valutazione deU'«flluminismo», dimo-
strerò come inizialmente fosse stato concepito come forma di prò-
paganda di atei militanti e umanisti, che cercavano di prendersi il
merito della nascita della scienza. La falsità per cui la scienza ri-
chiederebbe la sconfitta della religione fu proclamata da questa
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 167

specie di cheerleader, fra i quali annoveriamo Voltaire, Diderot e


Gibbon, che di per sé non ebbero parte alcuna nell'impresa scien-
tifica - un modello comunicativo, questo, che persevera tutt'oggi.
Successivamente, dimostrerò come la stretta collaborazione
fra religione e scienza che caratterizzò la gran parte del XIX se-
colo non fu uno «strano interludio». Questa specifica designa-
zione rim anda alla crociata darwiniana che dominò le più popo-
lari discussioni del XX secolo su religione e scienza. Io sostengo
che non solo non c'è stata nessuna battaglia fra scienza e religio-
ne, ma anche che tutta la discussione sull'evoluzione fu, e rima-
ne, soprattutto un conflitto fra veri credenti di tipo opposto, dal
momento che i ferrei evoluzionisti sono ascientifici tanto quanto
qualsiasi altro fondamentalista.
E concluderò dimostrando che in tutto ciò gli scienziati prò-
fessionisti sono rimasti religiosi tanto quanto chiunque altro,
molto più religiosi dei loro colleghi che si occupano di arti o
scienze sociali.
A questo punto, è appropriato che confessi una cosa. Dopo
aver iniziato il capitolo, mi sono immerso negli studi storici più
recenti per scoprire solamente che alcuni dei miei argomenti prin-
cipali erano già di dominio pubblico fra gli storici della scienza
(benché persista una piccola minoranza, molto rumorosa, di prò-
vocatori antireligiosi). Così, dalla mia parte ho trovato il conforto
di un'opinione colta, ma al contempo non posso rivendicare di
essere stato il primo a discuterne. Avrei potuto eliminare l'intero
capitolo, ma sono dolosamente consapevole del fatto che la gran
parte dei suoi contenuti è sconosciuta al di fuori dei ristretti cir-
coli colti. Anzi, qualora le interrogassi su tali questioni, molte per-
sone ben informate esprimerebbero in maggioranza l'assoluta
certezza che le cose che dirò non possono di sicuro essere vere - anch'io
all'inizio della mia carriera sono stato di quest'opinione. Il che,
dunque, mi è sembrato un motivo sufficiente per continuare a
scrivere. Tuttavia la motivazione ultima di questo capitolo è il fat-
to che, a quanto mi risulta, nessuno ha riunito tutti questi temi e
scoperte essenziali a formulare un quadro generale coerente del-
la storia del rapporto creativo fra teologia e scienza.
168 A GLORIA DI DIO

Cos'è la scienza?

Scienza non significa semplicemente tecnologia. Una società


non è scientifica solamente perché è in grado di costruire velieri,
fondere il ferro e mangiare in piatti di porcellana. La scienza è un
metodo che viene utilizzato in tentativi organizzati di formulare
spiegazioni della natura, sempre soggette a modifiche e correzioni
attraverso osservazioni sistematiche. In altre parole, la scienza è
composta da due elementi: la teoria e la ricerca. La parte esplica-
tiva della scienza è costituita dalla formulazione di teorie. Le teo-
rie scientifiche sono enunciati astratti che riguardano il perché e il
come una parte della natura (compresa la vita sociale umana) si
formi e funzioni. Ovviamente, non tutti gli enunciati astratti,
neanche tutti quelli che offrono spiegazioni, possono essere defi-
niti teorie scientifiche, altrimenti la teologia sarebbe una scienza.
Piuttosto, si può affermare che gli enunciati astratti sono scienti-
fici solamente se da essi è possibile dedurre precise previsioni e
veti a proposito di quanto verrà osservato. Ed è qui che intervie-
ne la ricerca, che consiste nel compiere quelle osservazioni che
sono rilevanti per le previsioni e i veti empirici. Quindi, risulta
chiaro che la scienza è limitata agli enunciati riguardanti la realtà
naturale e materiale - ossia tutte quelle cose che, almeno in linea
di principio, sono osservabili. Ne consegue che esistono interi
domini del discorso a cui la scienza non può rivolgersi, compre-
se questioni quali l'esistenza di Dio.
Con il termine «organizzati» voglio sottolineare il fatto che la
scienza non è fatta di scoperte casuali e non si può ottenere in so-
litudine. È vero che alcuni scienziati hanno lavorato da soli, ma
mai isolati; sin dagli inizi, infatti, gli scienziati hanno costituito
reti di contatti e sono sempre stati molto comunicativi.
In accordo con l'opinione della maggior parte degli storici
contemporanei e dei filosofi della scienza, questa definizione
esclude tutti gli sforzi che l'uomo ha compiuto nel corso della
storia per spiegare e controllare il mondo materiale, persino
quelli che non coinvolgono mezzi soprannaturali. La maggior
parte di questi sforzi può essere esclusa dalla categoria della
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 169

scienza perché, fino a tempi recenti «la tecnica, pur nei suoi prò-
gressi, talvolta considerevoli, non era che empirismo», come ha
osservato Marc Bloch (1999, p. 102). Ciò significa che il progres‫־‬
so fu il prodotto dell'osservazione, dell'esperimento e dell'erro-
re, a cui mancavano però le spiegazioni, la teorizzazione. Questa
puntualizzazione si applica persino a Niccolò Copernico (1473‫־‬
1543), dal momento che la sua concezione eliocentrica del siste-
ma solare era semplicemente ima tesi descrittiva (e quasi del tut-
to sbagliata). Copernico non aveva nulla di utile da dire sul per-
ché i pianeti mantenevano le loro orbite intorno al sole, o le lune
intorno ai rispettivi pianeti. Fino all'arrivo di Newton non vi fu
nessuna teoria scientifica sul sistema solare. Annovero Copernico
fra i fondatori della scienza moderna solamente in virtù della sua
influenza e partecipazione a una rete di astronomi il cui lavoro
presto si sarebbe caratterizzato come vera scienza. Quindi, nem-
meno le prim e innovazioni tecniche avvenute in epoca greco-ro-
mana, nel mondo islamico e in Cina, per non parlare di quelle ot-
tenute nelle ere preistoriche, costituiscono una scienza, ma pos-
sono essere meglio descritte come sapere, saggezza, arti, mestie-
ri, tecniche, tecnologie, ingegneria, apprendimento o semplice
conoscenza. Così, per esempio, gli antichi eccellevano nelle os-
servazioni astronomiche anche senza l'utilizzo di telescopi, ma
queste osservazioni rimasero dei semplici «fatti» fino a quando
non furono collegate a teorie verificabili. Charles Darwin espres-
se in maniera brillante questo punto:

Circa trent'anni fa molti dicevano che i geologi dovessero osser-


vare e non formulare teorie; e ricordo bene che qualcuno disse che
in tal modo un uomo poteva anche recarsi in una cava di ghiaia,
contare i sassi e descriverne i colori. Che strano che non si capisca
che tutte le osservazioni devono essere a favore o contrarie ad al-
cuni punti di vista se si vuole che siano utili! (Darwin, Seward
1903, voi. 1, p. 195)

Per quanto concerne le conquiste intellettuali dei greci o dei


filosofi orientali, il loro empirismo era piuttosto a-teorico e le lo­
170 A GLORIA DI DIO

ro teorizzazioni erano non empiriche. Si pensi ad Aristotele (384‫־‬


322 BCE). Sebbene elogiato per il suo empirismo, non permise
che questo aspetto interferisse con il suo teorizzare. Insegnava,
ad esempio, che la velocità alla quale un oggetto cade a terra è
proporzionale al suo peso, e quindi che una pietra che pesa il
doppio di un'altra cadrà due volte più velocemente (ne II cielo).
Se si fosse recato presso una delle vicine scogliere avrebbe con-
statato la falsità della sua affermazione. Nella sua Fisica spiega
anche che il moto di un proiettile è dovuto alla spinta datagli dal-
l'aria che si chiude alle sue spalle, ma non presta alcuna atten-
zione alla necessità dell'aria di aprirsi davanti a esso. L'eccellen-
te, e tristemente dimenticato, teologo e scienziato della Scolasti-
ca, Giovanni Buridano (1300-1358) diede il colpo di grazia a que-
sta ipotesi aristotelica osservando che, fra le altre cose, quando
corre, un uomo «non sente l'aria che lo spinge, quanto piuttosto
l'aria davanti a sé che gli si oppone con forte resistenza» (in Cla-
gett 1961, p. 536).
Del resto, degli altri greci illustri si può dire lo stesso: la loro
opera o è interamente empirica o non può essere definita scienza
per mancanza di empirismo, essendo costituita da una serie di as-
serzioni astratte che ignorano o non implicano conseguenze osser-
vabili. Perciò, quando Democrito (460 ca. - 370 ca. BCE) propose la
tesi secondo la quale tutta la materia sarebbe composta da atomi,
non anticipò la teoria atomica della scienza. La sua «teoria» era
semplicemente una speculazione, non avendo alcuna base nell'os-
servazione o alcuna implicazione empirica. Il fatto che sia risulta-
ta «corretta» è solamente una coincidenza linguistica, e l'ipotesi di
Democrito non è più rilevante di quella del suo contemporaneo
Empedocle (ca. 490 BCE - ca. 430 BCE) che affermava che tutta la
materia era composta da fuoco, aria, acqua e terra, o della succes-
siva versione di Aristotele, il quale, un secolo dopo, affermò che la
materia era costituita da caldo, freddo, aridità, umidità e quintes-
senza. In effetti, nonostante tutta la sua ingegnosità e potenza ana-
litica, nemmeno Euclide era uno scienziato, perché la geometria di
per sé manca di sostanza, in quanto è in grado di descrivere solo
alcuni aspetti della realtà, non di spiegarne una parte.
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 171

Ovviamente, questi millenni di progresso tecnologico e intei-


lettuale furono cruciali per lo sviluppo della scienza, ma ormai è
opinione comune fra gli storici, i filosofi e i sociologi della scien-
za contemporanei, che la vera scienza sia nata una volta sola: in
Europa. A questo proposito, è significativo il fatto che in Cina,
nel mondo islamico, in India e nelle antiche Grecia e Roma l'al-
chimia fosse molto sviluppata. Eppure, solo in Europa l'alchimia
divenne chimica. Allo stesso modo, furono molte le società che
svilupparono sistemi astrologici elaborati, ma solo in Europa l'a-
strologia portò all'astronomia.
Nei paragrafi successivi esaminerò le connessioni fra la reli-
gione e la nascita della scienza in Europa, dagli inizi medievali
alla sua fioritura, nel XVI secolo. Prima di fare questo, comun-
que, devo chiarire un aspetto molto importante: io discuto di re-
ligione e scienza, non di chiese e scienza.

Istituzioni e libertà intellettuale

Affermare che esiste un legame positivo fra religione e scien-


za nella storia dell'Occidente non significa certo negare che a
volte le chiese abbiano fatto ricorso alla forza per obbligare al-
l'osservanza delle loro dottrine. Di solito, comunque, e quasi in
ogni caso in cui è stato versato del sangue, si trattava di dispute
di teologia, e non fra teologia e scienza.
Si consideri l'esecuzione di Giordano Bruno (1548-1600),
spesso citata come imo degli esempi più vergognosi di repres-
sione della scienza da parte della religione. Andrew Dickson
White sostenne che Bruno «dovrebbe essere citato con riverenza,
come colui che riprese a sviluppare nuovamente quella corrente
di pensiero greco [... che] i dottori della Chiesa avevano blocca-
to per più di un migliaio di anni» (White 1896, voi. 1, p. 57). In
realtà, Bruno non fu un vero scienziato, benché si sia dedicato al-
l'astronomia speculativa. Piuttosto, si trattò di un monaco rinne-
gato, uno stregone ermetico, e una sorta di filosofo (Yates 1981 e
2002). Tutti i suoi problemi furono solamente dovuti a una teoio-
172 A GLORIA DI DIO

già eretica che prevedeva l'esistenza di una serie infinita di mon-


di e che era basata interamente sull'immaginazione e la specula-
zione. Lo stesso vale anche per un caso altrettanto notorio, quel-
lo di Michele Serveto (1511-1553), condannato a morte a Ginevra
con il benestare di Giovanni Calvino. Benché si fosse inizialmen-
te interessato di fisiologia, Serveto si specializzò in teologia, e fu
condannato precisamente per i suoi scritti teologici '. Non solo
egli fu così poco saggio da inviare una copia delle sue idee uni-
tariane su Dio a Calvino, ma quando queste stesse idee lo co-
strinsero a lasciare l'Italia, scappò scioccamente a Ginevra.
Le teologie eretiche minacciano in maniera diretta l'autorità
di coloro i quali detengono il controllo delle organizzazioni e
delle istituzioni religiose, cosa che raram ente la scienza fa.
Quindi, anche mentre perseguivano le eresie, gli inquisitori
spagnoli non prestavano quasi nessuna attenzione alla scienza
di per sé. Nel suo im portante e recente studio, H enry Kamen
afferma:

I libri scientifici scritti da cattolici circolavano liberamente. L'indi-


ce Quiroga del 1583 ebbe un impatto trascurabile sull'accessibilità
delle opere scientifiche, e Galileo non venne mai inserito nell'elen-
co delle letture proibite. Gli attacchi più diretti dell'Inquisizione
erano contro specifiche opere nell'area dell'astrologia e dell'alchi-
mia, scienze che si riteneva portassero con sé delle connotazioni di
superstizione. (Kamen 1997, p. 134)

In Spagna si poteva incorrere in seri problemi per la lettura di


libri di autori protestanti, scientifici o meno, ma la gran parte dei
testi che portavano le persone davanti agli inquisitori non aveva
a che fare con religione, scienza e superstizione; si trattava di
pornografia (Monter, Tedeschi 1986). L'aver menzionato Galileo
annuncia la discussione del suo caso, tanto celebrato quanto
frainteso, tuttavia, per ora, mi si consenta di limitarmi a dire che
senza il controllo da parte di altre forze, le istituzioni e le organizzazio-
ni potenti tendono a sopprimere il dissenso e a imporre le loro idee e i
loro interessi su chiunque possano.
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 173

Ovviamente, le organizzazioni religiose hanno spesso dato


prova di questo principio di autorità. Tuttavia, per quanto ri-
guarda la repressione della scienza, i casi più sanguinari sono
tutti recenti, e non hanno nulla a che vedere con la religione. Fu
il Partito nazista, e non la Chiesa evangelica tedesca, a cercare di
estirpare la fisica «ebrea», e fu il Partito comunista, e non la Chie-
sa ortodossa russa, a distruggere la genetica «borghese» e a la-
sciare allo sbando molti altri settori della scienza sovietica. Ep-
pure, nessuno è stato spinto da questi avvenimenti a proporre
l'esistenza di un'intrinseca incompatibilità fra politica e scienza.
Allo stesso modo, il fatto che vi siano stati dei conflitti fra chiese
e scienza non giustifica il credere in un'incompatibilità fra reli-
gione e scienza. Piuttosto, la verità è che gli autocrati spesso non
tollerano il disaccordo. Tenendo a mente queste osservazioni,
partiamo adesso per un viaggio nell'antica Roma.

I mitici «Secoli Bui»

Nel suo best seller The Discoverers (1983; ed. it. L'avventura del-
la ricerca, 1985), Daniel Boorstin, professore illustre delTUniver-
sity of Chicago, vincitore del premio Pulitzer, responsabile della
Library of Congress, inserì un capitolo dal titolo «La prigione del
dogma cristiano», nel quale condannava il cristianesimo per aver
imposto all'Europa un'era di generale ignoranza e fanatismo:

I leader della cristianità ortodossa costruirono una grande barriera


contro il progresso della conoscenza [...]. Dopo che [...] il cristia-
nesimo conquistò l'Impero romano e gran parte dell'Europa [...]
notiamo un fenomeno di dimensioni europee di amnesia d'erudi-
zione, che afflisse il continente dal 300 a.C. ad almeno il 1300.
(Boorstin 1983, p. 100)

Come il racconto su Colombo, anche questa è ima storia con


la quale molti di noi sono cresciuti: Roma cadde, e con quel ca-
taclisma iniziarono i «Secoli Bui». Infatti, la seconda edizione del
174 A GLORIA DI DIO

Webster's Unabridged Dictionary (1934) definiva i «Secoli Bui» co-


me «la prim a parte [del Medioevo] a causa della sua stagnazio-
ne intellettuale» e l'edizione universitaria del Webster's New
World Dictionary del 1958 li definiva come «1. il periodo dalla ca-
duta deH'tmpero romano d'occidente (476 a.C.) all'inizio dell'e-
ra moderna (1450 ca.); 2. la prim a parte del Medioevo, fino alla
fine del X secolo circa [...]. In Europa, il periodo medievale, so-
prattutto nella sua prim a parte, fu caratterizzato da una diffusa
ignoranza».
Per quanto riguarda le cause della decadenza culturale dei
«Secoli Bui», fin dall'inizio del XVIII secolo gli storici hanno so-
stenuto che stessero nel cristianesimo, il quale aveva diffuso
barbarie, superstizione e ignoranza in tutta Europa. Questa in-
terpretazione ebbe il suo culmine nell'enorme atto d'accusa con-
tro la religione di Edward Gibbon (1737-1794) e del suo The Hi-
story of thè Decline and Fall of thè Roman Empire (ed. it. Declino e
caduta dell'impero romano, 1986). Oltre ad attrarre l'attenzione di
philosophes francesi e di altri intellettuali antireligiosi dell'epoca,
il libro di Gibbon fu immensamente popolare anche fra gli in-
tellettuali protestanti, che lo interpretarono in maniera più ri-
stretta, come un'accusa al cattolicesimo romano. Ciò nonostan-
te, l'espressione «Secoli Bui» è di recente creazione, probabil-
mente usata per la prim a volta dallo storico inglese Henry Tho-
mas Buckle (1821-1862) nel suo History of Civilization in England
(1859). Giunti al XX secolo l'espressione era così comune che po-
chi sapevano che la sua origine non era antica, ma relativamen-
te recente. Anzi, alcuni autori sembrano quasi suggerire che le
stesse persone vissute, per dire, nel IX secolo, descrivessero la
propria epoca come dei Secoli Bui.
Gli storici e gli archeologi moderni hanno completamente
smontato questo punto di vista 2, e quindi Boorstin non ha scu-
santi per averlo ripetuto. All'epoca in cui il suo libro fu pubbli-
cato, ormai anche le enciclopedie più popolari riportavano una
versione differente. Così, la New Columbia Encyclopaedia (1975)
diceva che l'espressione «Secoli Bui» non era più in uso fra gli
storici poiché «non si ritiene più [che l'era in questione] sia stata
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 175

così oscura». Nella sua definizione di «Secoli Bui», la quindicesi-


ma edizione della Britannica (1981) riportava che l'espressione
«oggi viene usata raramente dagli storici a causa deU'inaccetta-
bile giudizio di valore da essa implicato», essendo un «peggio-
rativo» che denota in modo scorretto «un periodo di oscurità in-
tellettuale e barbarie».
Stimolati dall'opera pionieristica di Henri Pirenne (1862-
1935) e Marc Bloch (1886-1944) gli studiosi ormai hanno capito
che il cristianesimo non ebbe nessun ruolo nella sconfitta di Ro-
ma, e che i «Secoli Bui» non furono affatto tali (Bloch 1999; Pi-
renne 1939 e 1956). La caduta di Roma ebbe molte cause, ma il
fatto di per sé non fu altro che il culmine di diversi secoli in cui
vi era stato uno spostamento dell'abilità militare dai romani ai
vari gruppi germanici, quali i goti, gli unni, i vandali, i burgun-
di e i franchi (Ferrili 1986; Grant 1978; Luttwak 1986; Wolfram
1997). Inoltre, all'epoca dell'ultima battaglia, erano i germanici a
costituire la maggioranza dei soldati romani, poiché avevano già
soppiantato i romani autoctoni (Ferrili 1986; Wolfram 1997).
Dunque, come conseguenza della sconfitta militare di Roma, il
centro politico e culturale d'Europa si spostò a nord. Fu questo
spostamento a essere interpretato come declino culturale e intel-
lettuale da coloro i quali, molti secoli dopo, equipararono il con-
cetto di civiltà con gli scritti di uno sparuto gruppo di intellet-
tuali greco-romani. In una popolazione in cui manca la familia-
rità con i filosofi e i poeti classici, argomentavano, cosa ci può
mai essere se non oscurità? A ciò si aggiunge il fatto che, per que-
ste persone, Γilluminismo si poteva ritrovare solamente in libri e
idee astratte, e sicuramente non nelle macchine o nelle pratiche
agricole. Anzi, «il disprezzo degli uomini di lettere per gli inge-
gneri in tutto il corso della storia li ha resi, troppo spesso, ignari
della tecnologia creata da quegli ingegneri» (Gimpel 1976, p. x).
Dunque, solo di recente gli storici hanno capito che anche se
gli studiosi più importanti d'Europa dell'XVIII secolo, per esem-
pio, scrivevano in un latino «minore» e non erano molto versati
in Platone e Aristotele, non erano «barbari». Di certo non erano
«barbari» dal punto di vista morale: sia Platone che Aristotele
176 A GLORIA DI DIO

possedevano degli schiavi, mentre durante i «Secoli Bui» gli eu-


ropei rifiutarono la schiavitù (capitolo 4). E non erano barbari
nemmeno in senso tecnologico: a partire dai primi «Secoli Bui» si
ebbe «una delle grandi epoche d'invenzioni dell'umanità», poi-
ché furono inventate e impiegate delle macchine «su scala tale
che nessun'altra civiltà aveva conosciuto in precedenza» (Gim-
pel 1976, p. viii). Oppure, come scrisse Lynn White, «nella tecno-
logia, almeno, i "Secoli Bui" segnarono un progresso continuo e
ininterrotto rispetto all'Impero romano» (White 1940, p. 151). I
testi di storia dei progressi tecnologici dell'epoca medievale so-
no una lettura davvero affascinante (soprattutto Gies, Gies 1994;
Gimpel 1994; White 1970). A scopo illustrativo, qui ne menzio-
nero solamente alcuni esempi.
Nel 732, nella profondità dei «Secoli Bui», Carlo Martello
(nonno di Carlo Magno) guidò un esercito franco nella Battaglia
di Tours (o Poitiers), dove furono scacciati i saraceni - invasori
musulmani giunti al Nord dalla Spagna. Come nel caso di tutti
gli eserciti europei vincitori negli ultimi venticinque secoli, la
forza principale di Carlo Martello erano delle formazioni di fan-
teria ben addestrate che avevano armi e armature migliori di
qualsiasi altra forza messa in campo da romani o greci (Hanson
2002). Contro di loro, i saraceni impiegarono un nugolo di cava-
lieri, che indossavano armature scarne, se le indossavano, ma
che erano superbamente armati con archi compositi e con le mi-
gliori spade del mondo. I cavalieri saraceni caricavano, si gira-
vano e accerchiavano, ma non riuscivano a intaccare i solidi ran-
ghi della fanteria, che infliggeva loro darmi gravi grazie alle lun-
ghe picche. Verso la fine del giorno, i saraceni iniziarono a riti-
rarsi, e fu in quel momento che vennero massacrati. Non dalla
fanteria franca - degli uomini ricoperti di armature di cotta di
maglia non sono adatti a inseguire nessuno, figurarsi dei nemici
a cavallo. No, a quel punto fecero la loro prim a apparizione su
un campo di battaglia importante dei soldati a cavallo con ar-
m atura completa, che caricarono a galoppo, mettendo tutto il pe-
so di cavallo e cavaliere a spingere una lunga lancia (Montgo-
mery 1970; White 1970). Quando con tutta la loro potenza entra­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 177

rono in collisione con la cavalleria saracena, quest'ultima si di-


sperse - le frecce non potevano penetrare l'arm atura franca, e i
futili tentativi di ricorrere alle spade venivano anticipati dalle
lance dei cavalieri franchi e dal peso irresistibile dei cavalli che
caricavano al galoppo. La differenza la fecero le staffe e la sella
normanna. Senza delle staffe sulle quali puntarsi, un cavaliere
che avesse cercato di conficcare una lancia sarebbe stato sbalza-
to da cavallo. E la capacità di un cavaliere di resistere a colpi im-
provvisi venne enormemente aumentata da una sella con pomo-
lo e arcione posteriore molto alti - con quest'ultimo incurvato a
racchiudere parzialmente i fianchi del cavaliere (Hyland 1994). I
romani non avevano staffe, e nemmeno i saraceni; entrambe le
loro cavallerie, poi, usavano delle selle imbottite leggere, quasi
piatte, oppure cavalcavano senza. Quindi, non avevano ima ca-
valleria pesante.
Romani e saraceni non sapevano nemmeno come imbrigliare
i cavalli in maniera efficiente. Prima che gli europei migliorasse-
ro quest'aspetto nei «Secoli Bui», i cavalli venivano imbrigliati
allo stesso modo dei buoi. Per non soffocare in simili briglie, un
cavallo doveva tenere la testa aH'indietro e poteva trainare sola-
mente dei carichi leggeri. Pienamente consapevoli del problema,
i romani cercarono di risolverlo con leggi apposite! Il Codice teo-
dosiano decretava pene severe per chiunque «fosse colto a im-
brigliare dei cavalli a carichi di peso superiore ai 500 chilogram-
mi [in termini moderni]» (Gimpel 1976, p. 32). Diversamente,
durante i «Secoli Bui», fu progettato un collare rigido ben imbot-
tito, il quale poneva correttamente il peso sulle spalle del cavai-
lo e non sul collo, permettendo all'animale di tramare tanto
quanto il bue, e di farlo molto più velocemente. A seguito del-
l'invenzione del collare, i contadini europei lasciarono i buoi per
i cavalli, con guadagni immensi in termini di produttività - un
cavallo poteva arare al giorno più del doppio di un bue (Smil
2000; White 1970).
A questo va aggiunto che solamente ben dopo la caduta di
Roma, gli europei crearono i ferri di cavallo da inchiodare agli
zoccoli per proteggerli dall'usura che spesso fa sì che gli anima­
178 A GLORIA DI DIO

li non ferrati diventino zoppi. I romani avevano sperimentato di-


versi tipi di sandali da cavallo (Nerone ne aveva alcuni in argen-
to), ma si slacciavano anche solamente al trotto. Con delle prote-
zioni in ferro saldamente fissate, i cavalli possono muoversi an-
che su superfici dure senza danno alcuno.
Purtroppo, benché gli storici abbiano rilevato la trasforma-
zione dell‫׳‬agricoltura implicata dal nuovo uso del cavallo, per
generazioni non ebbero alcuna idea del perché questo fosse ac-
caduto, né del motivo per cui i romani non avevano sviluppato
ima cavalleria pesante. E questo in gran parte è dovuto al fatto
che gli storici molto raramente cavalcano, o imbrigliano cavalli,
o conoscono qualcuno che lo faccia. Così, fu solamente nel 1931
che queste innovazioni tecnologiche rivoluzionarie concernenti
staffe, selle, briglie e ferri di cavallo vennero portate aU'attenzio-
ne degli studiosi grazie all'opera di un outsider assoluto, una
persona che sapeva relativamente poco di storia, ma moltissimo
di cavalli - Lefebvre des Noèttes, un ufficiale della cavalleria
francese in pensione (Gimpel 1976, p. 32).
Da quel momento in poi ci sono stati moltissimi libri che han-
no stabilito che molto prim a della fine del Medioevo, prima di
qualsiasi «Rinascimento», «Illuminismo», o «Rivoluzione scien-
tifica», la tecnologia europea era progredita ben oltre le cono-
scenze degli antichi: ruote idrauliche efficienti, mulini, alberi a
camme, orologi meccanici, bussole, e così via (Gies, Gies 1994;
Gimpel 1976; White 1940 e 1970). Molte di queste invenzioni era-
no originali, mentre altre provenivano dall'Asia. Tuttavia, l'ele-
mento più rilevante per quanto riguarda i «Secoli Bui» fu il mo-
do in cui la piena capacità delle nuove tecnologie veniva rapida-
mente riconosciuta e adottata su larga scala. Prendiamo in consi-
derazione la polvere da sparo. I cinesi furono i primi a usare la
polvere esplosiva, ma non furono loro a inventare la polvere da
sparo, dal momento che non inventarono le pistole e si limitaro-
no a usarla nei fuochi d'artificio. Quando però la conoscenza di
questo esplosivo cinese giunse in Europa, probabilmente duran-
te il primo decennio del XIV secolo, la sua applicazione all'arti-
glieria fu immediata - è probabile che i cannoni siano stati usati
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 179

per la prim a volta in battaglia durante l'assedio di Metz del 1324


(Hime 1915; Manucy 1949; Partington [1960] 1999). Quello che è
certo è che nel 1325 «esistevano cannoni in tutta l'Europa occi-
dentale» (Barclay, Schofield 1981, p. 488).
La rapida adozione della bussola rappresenta un'altra prova
schiacciante. L'affermazione per cui la bussola magnetica giunse
in Europa dalla Cina attraverso il mondo islamico è falsa. Pare
che lo strumento sia stato inventato in modo indipendente sia in
Cina sia in Europa, probabilmente intorno all'XI secolo. I cinesi
si accontentarono di una bussola molto rozza, un ago magnetiz-
zato che galleggiava in un liquido e che consentiva loro di deter-
minare l'asse nord-sud a scopi principalmente magici - i cinesi
non usarono questo strumento a bordo di navi se non molto tem-
po dopo gli europei. Gli europei del medioevo, invece, poco do-
po aver scoperto la bussola con ago galleggiante, aggiunsero la
mappa dei punti cardinali e un mirino. Questo permise ai mari-
nai di sapere non solo da che parte stesse il nord, ma anche do-
ve si stavano dirigendo con esattezza, il che a sua volta consentì
loro di stabilire delle rotte precise in qualsiasi direzione. Il tem-
poraneo affollarsi di riferimenti scritti a questa nuova invenzio-
ne dimostra che si diffuse fra i marinai dall'Italia alla Norvegia
in soli pochi anni (Hitchins, May 1951; May, Howard 1981;
Needham 1981).
Ecco, dunque, che cade il primo puntello all'argomentazione
concernente l'incompatibilità di religione e scienza. Il cristianesi-
mo non fece precipitare l'Europa in un'era d'ignoranza e arretra-
tezza. Piuttosto, vi fu un così grande progresso tecnico che non
più tardi del XIII secolo la tecnologia europea superava quella di
qualsiasi altra parte del mondo (White 1967). E questo non ac-
cadde grazie alla riscoperta del sapere classico. Non esiste ver-
sione più sbagliata della storia occidentale di quella che inizia
con la cultura classica e procede direttamente al «Rinascimento»,
sminuendo e tralasciando il millennio intermedio come si trat-
tasse di uno sfortunato e irrilevante interludio. La civiltà occi-
dentale non è diretta discendente della cultura greco-romana.
Anzi, è il prodotto di secoli di interazione fra culture «barbare»
ISO A GLORIA DI DIO

(i cosiddetti «barbari», come ormai abbiamo iniziato a capire,


avevano delle culture molto più sofisticate di quanto finora rico-
nosciuto)3 e cristianesimo. Infatti, non fu tanto il cristianesimo a
«romanizzare» i popoli germanici, ma questi ultimi a «germa-
nizzare» il cristianesimo. La successiva aggiunta di conoscenza
greco-romana fu più decorativa che essenziale (Dawson 1959).
Infatti, il punto fondamentale è che il progresso raggiunto du-
rante i «Secoli Bui» non si limitò alla tecnologia. L'Europa me-
dievale eccelse anche in filosofia e scienza. Come ha scritto Lynn
White, «alla fine del XIII secolo l'Europa si era impadronita del-
la leadership scientifica mondiale» (White 1967, p. 1203).

La Scolastica e la nascita della scienza

Per molti aspetti l'espressione «Rivoluzione scientifica» è


fuorviente tanto quanto «Secoli Bui». Entrambe furono coniate
per screditare la Chiesa medievale. Il concetto di «Rivoluzione
scientifica» è stato usato per dire che la scienza emerse improv-
visamente e si diffuse quando un cristianesimo ormai debole
non potè più impedirlo, e quando il recupero del sapere classico
lo rese possibile. Entrambe queste affermazioni, però, sono false,
esattamente come quelle su Colombo e la Terra piatta. Prima di
tutto, il sapere classico non fornisce affatto uri modello di scien-
za appropriato. In secondo luogo, la nascita della scienza risale a
molto prima del XVI secolo, essendo stata attentamente alimen-
tata da filosofi scolastici in quella cristianissima invenzione che
era l'università. Come ha sottolineato Alfred W. Crosby, «nel no-
stro tempo la parola medievale è spesso usata come sinonimo di
"confusione", ma, al contrario, potrebbe essere impiegata più
propriamente per indicare una definizione precisa e un ragiona-
mento meticoloso, cioè chiarezza» (corsivo suo. Crosby 1998, p.
76). Certo, le numerose scoperte scientifiche fecero del XVI e del
XVII secolo un'era davvero straordinaria, l'equivalente culturale
di una rosa che sboccia. Tuttavia, proprio come le rose non spun-
tano all'improvviso ma devono passare un lungo periodo di nor­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 181

male crescita prim a di aver anche solo un bocciolo, così, anche la


fioritura della scienza fu il risultato di secoli di normale progres‫־‬
so intellettuale, ed è questo il motivo per cui non voglio parlare
di «Rivoluzione scientifica» senza mettere fra virgolette l'espres-
sione. Copernico ci offre un insuperabile esempio di questo pun-
to di vista (Armitage 1951; Brooke 1991; Clagett 1961; Cohen
1985a; Crosby 1998; Gingerich 1975; Grant 1994 e 1996; Jaki 1986;
Mason 1971; Neugebauer 1975; Rosen 1971).

La «rivoluzione» copernicana come scienza normale


Tutte gli studi sulla «Rivoluzione scientifica» prendono av-
vio da Copernico, come se l'uso che fa della parola Rivoluzione
nel titolo della sua famosa opera fosse riferito a dei cambiamen-
ti sociali drastici e non alle orbite celesti. Secondo la versione
più nota, Niccolò Copernico (1473-1543) fu un oscuro canonico
cattolico della lontana Polonia, un genio isolato che in qualche
modo «scoprì» che, contrariamente a quanto tutti credevano e
avevano sempre creduto, la Terra girava intorno al Sole. Con le
parole di White:

Alla fine apparve, lontano dai centri del pensiero, ai confini della
Polonia, uno studioso semplice e ingenuo, il quale per primo e con
franchezza disse la verità al mondo moderno - verità oggi così ba-
naie, ma allora così stupefacente - che il Sole e i pianeti non ruota-
no intorno alla Terra, ma la Terra e i pianeti intorno al Sole (White
1896, p. 121)

Quindi, continua il racconto popolare, la Chiesa cercò di re-


primere senza sosta le sue idee, e fu solamente grazie agli auspi-
ci più illuminati del protestantesimo che la «verità» sopravvisse.
Ma in questa versione c'è più invenzione che fatti. Per prima
cosa, Copernico ebbe modo di acquisire ima vasta cultura. Prese
il primo diploma a Cracovia, in una delle più grandi università
dell'epoca, e poi passò altri tre anni e mezzo aU'Università di Bo-
logna, forse la migliore d'Europa. Successivamente, rimase quat-
tro anni all'Università di Padova, interrompendo la permanenza
182 A GLORIA DI DIO

per una breve visita all'Università di Ferrara, dove prese il di-


ploma di dottore in diritto canonico. In secondo luogo, l'idea che
la Terra girasse intorno al Sole non gli venne così dal nulla; anzi,
i concetti essenziali che poi portarono al modello eliocentrico gli
vennero insegnati dai suoi professori. In altre parole, il modello
eliocentrico fu sviluppato gradualmente nell'arco di due secoli
da una successione di scienziati scolastici allora famosi (ma oggi
tristemente dimenticati), e le loro conclusioni in merito alla mec-
canica erano così ben formulate che «Copernico non potè appor-
tare nessun miglioramento» (Grant 1996, p. 169). Malgrado la
profondità del suo contributo, Copernico aggiunse solamente
l'implicito passo successivo.
I greci credevano che il vuoto non esistesse, e che l'universo
fosse una sfera piena di materia trasparente. Di conseguenza, a
causa della frizione, il moto continuo dei corpi celesti richiedeva
l'applicazione continua di una forza. Ciò fu riaffermato dallo
studioso cristiano (creatore del primo calendario cristiano) Dio-
nigi il Piccolo (500-560 ca.), il quale suggerì anche che la forza
continua veniva impressa dagli esseri angelici che spingevano
ciascuna sfera. San Tommaso d'Aquino (1225-1274) identificò
Dio come il Primo Motore, ma mantenne l'idea degli angeli che
spingevano i corpi celesti. Guglielmo di Ockham (1295-1349 ca.)
contestò questa prospettiva, sostenendo che un corpo in movi-
mento poteva non aver bisogno di una spinta continua, e questo
perché egli credeva che lo spazio fosse un vuoto: ima volta mes-
so in movimento (dalla volontà di Dio), un corpo celeste, non in-
contrando nessuna frizione, nessun attrito, probabilmente avreb-
be continuato a muoversi. Le tesi di Ockham furono discusse e
ampliate dai suoi colleghi di Oxford, in modo particolare da Wal-
ter Burley (1275-1357) e Walter Heytesbury (1330-1371), ma fu al-
l'Università di Parigi che le sue idee ebbero l'impatto maggiore.
Giovanni Buridano era il rettore dell'Università di Parigi e
una figura molto importante nella scienza scolastica. Si ripensi
alla sua confutazione della tesi di Aristotele secondo la quale i
proiettili verrebbero spinti dall'aria che si chiude dietro di loro;
si trattava solamente di un frammento della sua opera, davvero
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 183

impressionante, sulla meccanica, in particolare sul moto e sul-


l'impeto. Il seguente passaggio mostra la sua abilità nel disar-
mare le critiche teologiche e la sua comprensione deU'inerzia,
che anticipa così la Prima legge del moto di Newton.

Inoltre, dal momento che la Bibbia non afferma che delle intelli-
genze appropriate muovano i corpi celesti, si potrebbe dire che non
appare necessario presupporre intelligenze di questo tipo, perché
si potrebbe rispondere che Dio, quando creò il mondo, mosse
ognuna di queste sfere celesti a Suo piacimento, e nel muoverle im-
presse su di loro degli impeti, che le muovono senza che Egli deb-
ba farlo nuovamente. [...] E questi impeti che Egli impresse nei
corpi celesti non furono diminuiti né corrotti in seguito, perché non
c'è nessuna inclinazione dei corpi celesti per altri movimenti. Né
esiste una resistenza che possa essere corruttiva o repressiva di
quell'impeto. (In Clagett 1961, p. 536)

Buridano scrisse anche ima lunga trattazione sull'ipotesi che


la Terra ruotasse intorno a un suo asse, creando così la percezio-
ne che fossero gli altri corpi celesti, quali Sole e Lima, a sorgere e
tramontare. In particolare, sottolineò come fosse più parsimo-
nioso presumere che fosse la Terra a ruotare, poiché ciò avrebbe
richiesto molta meno velocità di quanta sarebbe servita affinché
corpi distanti potessero ruotare intorno a essa. Comunque, Buri-
dano presentò le sue teorie sulle rivoluzioni terrestri come mere
ipotesi.
Il suo successore riprese le teorie sull'impeto e le sviluppò,
estendendo anche la discussione sulla rotazione terrestre, affer-
mando che «mi sembra sia possibile accogliere l'argomentazione
[...] secondo la quale ruoti la Terra e non i cieli» (in Grant 1994,
p. 642). Nicola d'Oresme (1325-1382) fu forse il più brillante
scienziato della Scolastica, e dopo essere stato rettore all'Univer-
sità di Parigi, completò la propria carriera come vescovo di Li-
sieux. Il suo fu un contributo eminentemente matematico e fornì
un elevato modello per i successivi studi sulla meccanica e l'a-
stronomia (Oresme [1350-1360 ca.] 1968 e 1971). Nel corso dei se­
184 A GLORIA DI DIO

coli, a molte persone era ovviamente venuto il dubbio che fosse


la Terra a girare intorno al Sole, ma venivano sempre avanzate
due obiezioni che rendevano improbabile un movimento terre-
stre. Perché non c'era un vento forte e costante proveniente da
est causato dalla rotazione della Terra in quella direzione? E per-
ché una freccia scoccata diritta verso il cielo non cadeva molto
dietro (o davanti) a colui che la scoccava? Dal momento che que-
sto non si verificava e le frecce ricadevano diritte, era chiaro che
la Terra non poteva ruotare. Oresme superò entrambe le obiezio-
ni. Non soffia vento da est perché il movimento della Terra è im-
partito a tutti gli oggetti sulla Terra o prossimi a essa, inclusa l'at-
mosfera. Ciò offre una risposta anche alla seconda obiezione:
frecce scoccate in aria non possiedono solamente una spinta ver-
ticale imposta loro dall'arco; hanno anche un moto orizzontale
conferito loro dalla Terra che gira.
Come rettore dell'Università di Parigi gli successe Alberto di
Sassonia (1316-1390 ca.). Anche questi lavorò sulla teoria del-
l'impeto e insegnò quella che era un'approssimazione della Pri-
ma legge del moto di Newton, sottolineando come questa teoria
eliminasse la necessità di creature angeliche impegnate a spinge-
re le sfere celesti. «Dunque si potrebbe dire che la prima Causa
creò i corpi celesti e impresse su ognuno di loro tale qualità mo-
toria, la quale muove ogni sfera». Questa iniziale impressione di
forza è sufficiente perché nello spazio non c'è resistenza, né nes-
sun'altra forza «diretta verso un qualche moto opposto» (in
Grant 1994, p. 550).
Quando i professori universitari iniziarono a insegnare che
alba e tramonto potevano essere causati dalla rotazione quoti-
diana della Terra, non fu più necessario presumere che il Sole gi-
rasse intorno alla Terra - e la concezione di un sistema solare
eliocentrico divenne sempre più plausibile e invitante. Poi fu la
volta del vescovo Nicola Cusano (1401-1464), il quale insegnava
come gli altri che la Terra girava grazie a un «impeto conferito su
di essa all'inizio del tempo». Avendo osservato che, «come si ve-
de dalla sua ombra nelle eclissi, [...] la Terra è più piccola del So-
le» ma più grande della Luna o di Mercurio, Nicola Cusano so­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 185

stenne (come avevano fatto Buridano e Nicola d'Oresme) «che


un uomo che si trovi sulla Terra, o sul Sole, o su qualche altra
stella, crederà sempre che la posizione che occupa è il centro im-
moto, e che tutte le altre cose sono in movimento» (Danielson
2000, p. 98; Mason 1971). Ne conseguiva che gli uomini non do-
vevano fidarsi del fatto che percepivano la Terra come ferma;
forse non lo era affatto.
Tutte queste teorie a lui precedenti erano ben note a Copemi-
co. La trattazione di fisica di Alberto di Sassonia era stato uno fra
i primi testi a stampa, e la prim a edizione era stata pubblicata a
Padova nel 1493, poco tempo prim a che Copernico divenisse
uno studente dell'università della città.
Quale fu allora il contributo di Copernico? Egli propose un
modello di sistema solare con il Sole al centro, circondato da pia-
neti. Tutto il resto del De revolutionibus orbium coelestium era sba-
gliato! Quello che rese il libro qualcosa di più di ima semplice
nuova formulazione di precedenti teorie fu il fatto che Coperni-
co «si espresse principalmente in termini matematici, la lingua
madre della scienza» (Crosby 1998). Quindi, egli elaborò tutta la
geometria del suo sistema, fornendo in tal modo un metodo per
il calcolo delle posizioni planetarie future - essenziale per stabi-
lire la data della Pasqua, i solstizi, e simili. Eppure, questo suo si-
stema non dava risultati più accurati di quelli del sistema geo-
centrico creato da Tolomeo nel II secolo e che aveva guidato i cal-
coli celesti d'Europa fino a quel momento. Il sistema copemica-
no non rappresentava un progresso sotto questo aspetto, perché
non riconosceva il fatto che le orbite planetarie fossero delle el-
lissi, e non delle circonferenze. Qui, forse, Copernico potrebbe
essere stato traviato dal troppo rispetto per la filosofia greca, la
quale sosteneva che il moto dei corpi celesti doveva essere circo-
lare, dal momento che il cerchio era la forma perfetta e ideale. Di
conseguenza, come Tolomeo, Copernico dovette ricorrere a degli
epicicli (cerchi) nelle orbite per ottenere dei calcoli ragionevol-
mente accurati - e finì con l'avere nel suo modello ancora più
cerchi di Tolomeo stesso (Cohen 1985a; Gingerich 1975; Neuge-
bauer 1975). Anzi, Copernico non riuscì a segnare un progresso
186 A GLORIA DI DIO

su Tolomeo e gli antichi greci anche perché postulò, come loro,


che i pianeti non si muovessero attraverso lo spazio in quanto ta-
le, ma fossero racchiusi in «enormi sfere roteanti», o gusci, che li
tenevano insieme (Cohen 1985a, p. 107). In realtà, secondo Co-
permeo, erano queste sfere a ruotare intorno al Sole - le «sfere ce-
lesti» del titolo del suo libro non sono pianeti, e i cerchi nei suoi
disegni non designano orbite planetarie, ma rappresentano le
sfere solide all'interno delle quali egli riteneva fossero racchiusi
i corpi celesti (Cohen 1985a; Gingerich 1975; Rosen 1971).
Quindi, la «Rivoluzione scientifica» non iniziò con lui. Come
scrisse l'illustre I. Bernard Cohen, «in breve, l'idea che ci sia sta-
ta una rivoluzione copernicana nella scienza va contro ogni evi-
denza [...] ed è un'invenzione degli storici successivi» (Cohen
1985a, p. 106). Molti storici della scienza contemporanei sono
d'accordo (Gingerich 1975; Jaki 2000; Rosen 1971), ma qualora
non si voglia ammettere che la nascita deU'astronomia scientifi-
ca si deve alla Scolastica, allora bisogna per lo meno spostarla in
avanti nel tempo, all'opera di Giovanni Keplero (1571-1630), il
cui raffinato modello non presentava gli errori fatti da Copemi-
co. E pur tuttavia, Keplero rientra meglio in un modello storico
di normale progresso scientifico, nel quale Copernico svolse un
ruolo certamente significativo, piuttosto che rivoluzionario.
Una delle ragioni per cui la storia ha prestato così poca atten-
zione a tutto il lavoro che preparò la strada a Copernico è il fatto
che egli non riconobbe questi debiti nel suo famoso libro (mentre
il libro di Keplero tesse le lodi di Copernico). Questa omissione
non era affatto una cosa insolita; semplicemente, nella sua epoca
non era comune rendere onore ai predecessori. Così, per esem-
pio, Galileo presentò falsamente il telescopio come ima sua in-
venzione, e Newton cancellò ogni traccia del suo debito nei con-
fronti di Cartesio (Jaki 2000). Ma il motivo più importante per cui
Copernico è stato presentato come un genio isolato che ha rivo-
luzionato la scienza è che questa immagine era adatta all'ideolo-
già di chi era determinato (e lo è ancora) a imporre sulla storia
occidentale l'idea di un «Illuminismo» e di un «Rinascimento».
Ma di questo parleremo più avanti.
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 187

Infine, dobbiamo ribadire che i protestanti non salvarono il


concetto di un sistema solare eliocentrico dai cattolici decisi a
condannarlo come eresia. Lutero era sgomento all'idea che la
Terra non fosse il centro dell'universo tanto quanto il Papa. Il
modello eliocentrico fu salvato da determinati e devotissimi stu-
diosi, sia protestanti che cattolici.

Le università della Scolastica


Da Ockham a Copernico, lo sviluppo del modello eliocentri-
co del sistema solare fu il prodotto delle università, le quali, co-
me abbiamo visto nel capitolo 1, furono un'invenzione cristiana.
Fin dall'inizio, l'università medievale fu un luogo creato e gesti-
to da studiosi e dedicato esclusivamente alla conoscenza. Non
posso dire nulla di meglio di quanto detto da Marcia L. Colish,
nella sua descrizione degli studiosi scolastici che fondarono le
università:

Studiavano le autorità del passato e le opinioni a loro contempora-


nee, facendone un'analisi e spiegando i motivi per cui alcune veni-
vano rifiutate e altre accettate. Nel complesso, la metodologia già
istituita all'inizio del XII secolo mostra la disponibilità e la pron-
tezza degli scolastici a criticare i documenti fondativi dei rispettivi
settori. Non limitandosi a ricevere e ampliare le tradizioni classiche
e cristiane, selezionavano da queste tradizioni delle idee che sa-
rebbero sopravvissute a loro vantaggio. Inoltre, riposizionavano
quelle autorità che ritenevano difendessero posizioni che queste
stesse autorità avrebbero trovato strane e originali. [I commentari]
raramente erano delle semplici sintesi o spiegazioni delle opinioni
dei loro autori. I commentatori della Scolastica, molto più comu-
nemente, mettevano in discussione l'autore scelto, oppure faceva-
no pesare sulla sua opera idee provenienti da scuole di pensiero
emergenti, o le loro stesse opinioni. (Colish 1997, p. 266)

Questo stile intellettuale era incoraggiato dalla gestione delle


università. Come per le gilde commerciali o artigianali, le facoltà
delle università medievali controllavano gli ingressi nelle loro fi­
188 A GLORIA DI DIO

la e stabilivano degli standard di competenza e di obiettivi. Spes-


so, l'autonomia delle università doveva essere difesa, ma il letto-
re moderno resta colpito da quanto incredibilmente indipenden-
ti, e privilegiate, riuscivano a essere queste istituzioni medievali.
Con le parole di N athan Schachner:

L'università era l'amata, viziata, figlia del papato e dell'Impero, dei


re come delle municipalità. Veniva ricoperta di privilegi, un fiume
continuo e dorato; privilegi senza pari prima di allora, e da allora
in poi. Nemmeno le sacre gerarchie della Chiesa avevano le stesse
dispense dei poveri studiosi mendicanti che chiedevano la prote-
zione di un'università. Le municipalità rivaleggiavano violente-
mente per avere l'onore di ospitarne ima fra le mura cittadine; i re
scrivevano lettere ammalianti per adescare gruppi di studiosi
scontenti e allontanarli dal dominio dei rivali; i Papi intervenivano
con linguaggio minaccioso per obbligare i reali a rispettare l'invio-
labilità di questa istituzione privilegiata. (Schachner 1938, p. 3)

Fra questi privilegi c'era lo stato clericale. Benché non vi fos-


se il bisogno di essere ordinati sacerdoti o di entrare negli ordini
sacri (e la maggioranza non lo faceva), gli studenti e gli inse-
gnanti delle università medievali godevano dei diritti del clero,
compreso quello di essere processati solamente da un tribunale
ecclesiastico (dove le condanne erano solitamente molto più mi-
ti di quelle delle corti civili), e gli attacchi fisici contro di loro era-
no puniti con le stesse severe condanne riservate a chi attaccava
dei religiosi. Le università avevano anche il diritto riconosciuto
di spostarsi ovunque i professori ritenessero giusto, il che impli-
cava un notevole potere nella contrattazione per privilegi e van-
taggi economici e politici (erano le città spesso a pagare tutti i sa-
lari degli insegnanti).
L'autonomia dei singoli membri del corpo insegnante con-
sentiva anche gli spostamenti da una università all'altra, incredi-
bilmente frequenti nonostante i mezzi di trasporto e comunica-
zione piuttosto primitivi. Dal momento che l'istruzione era in la-
tino, gli studiosi erano in grado di spostarsi senza preoccuparsi
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 189

dei confini linguistici. E visto che i diplomi universitari erano re-


ciprocamente riconosciuti, gli studiosi potevano entrare in qual-
siasi corpo insegnanti. In effetti, si trattava di un'epoca in cui tut-
ti i più importanti pensatori si conoscevano - molti addirittura si
erano incontrati, e comunque tutti avevano delle conoscenze in
comune. E la fama e gli inviti a unirsi alle varie facoltà d'Europa
si acquisivano grazie all'innovazione. Nel capitolo 1 ho esamina-
to il profondo impatto che il perseguimento dell'innovazione eb-
be fra i teologi universitari, fra i quali Wyclif, Hus, Erasmo, Lu-
tero e Calvino. In modo simile, fu nelle università che la Scola-
stica diede vita alla scienza. E per quanto riguarda la conoscen-
za di Aristotele, Platone, Euclide e di tutti gli altri esponenti del
sapere classico, fu nelle università scolastiche, e non nei succes-
sivi salotti dei philosophes, o durante il «Rinascimento» italiano,
che venne riconosciuta l'importanza intellettuale dei classici. In
parte, ciò dipese dalla rottura della «barriera del greco».
Era il greco, e non il latino, la lingua intellettuale dell'epoca
classica. Gli intellettuali romani parlavano greco più spesso che
latino, e dunque le eredità intellettuali del sapere greco restava-
no in questa lingua. Platone, Aristotele e gli altri non andarono
mai davvero perduti dopo il declino di Roma, ma erano illeggi-
bili in un'Europa nella quale solamente pochi studiosi conosce-
vano il greco. Questo impedimento venne superato quando, «fra
il 1125 e il 1200, una vera marea di traduzioni in latino rese il gre-
co [··· accademicamente] disponibile, e molte di più sarebbero
giunte nel XIII secolo» (Grant 1996, p. 23). Si noti che quest'ope-
ra di traduzione delle opere del sapere classico non fu dovuta a
ima ribellione umanista contro la «lunga notte» dell'ignoranza
cristiana. La «riscoperta» fu opera di studiosi cristiani estrema-
mente devoti nelle loro università di nuova creazione.
Alcuni storici hanno attribuito la ripresa del sapere classico
alla caduta di Costantinopoli, che, nel 1453, fece sì che molti stu-
diosi bizantini fuggissero in Italia, portando con sé gli autori an-
tichi. Questa ipotesi aiuta certamente a convalidare l'idea di un
«Rinascimento» italiano, ma non è veritiera. Gli studiosi occi-
dentali della Scolastica leggevano, traducevano, citavano e di­
190 A GLORIA DI DIO

scutevano tutti gli autori importanti della classicità secoli prima


che qualsiasi bizantino giungesse in Occidente. In effetti, sono
sopravvissuti molti cataloghi di biblioteche appartenenti all'epo-
ca dal XII al XIV secolo, che mostrano ima rilevante presenza dei
classici. «Per fare un esempio, la biblioteca di Mont Saint-Michel,
nel XII secolo conteneva testi di Catone, il Timeo di Platone (in
una traduzione latina), diverse opere di Aristotele e Cicerone,
estratti di Virgilio e Orazio» (Pernoud 2000, p. 24). E per quanto
concerne il «Rinascimento» italiano, non si trattò di una «risco-
perta» del sapere classico. Piuttosto, fu un periodo di emulazio-
ne culturale durante il quale persone alla m oda copiarono lo sti-
le classico negli usi e costumi, nell'arte, in letteratura e filosofia -
a Firenze, ogni anno Lorenzo de' Medici (1449-1492) dava un
banchetto per celebrare il compleanno di Platone. Per questa
passione verso gli antichi giorni di gloria, gli italiani iniziarono a
sostenere che la storia occidentale consistesse in «due periodi di
luce: l'antichità e il Rinascimento [...]e fra i due [...] secoli rudi
e oscuri» (Pernoud 2000, p. 21). Dunque, dall'entusiasmo per lo
stile e dall'orgoglio etnico nacque il concetto dei «Secoli Bui», se-
guiti dall'alba di un nuovo inuminismo. Ma non fu così. La Sco-
lastica conosceva e capiva l'opera di Platone, Aristotele e gli altri
classici.

Empirismo scolastico
Questi studiosi devoti non erano affatto intimiditi dal sapere
classico. Abbiamo già visto come scolastici quali Giovanni Buri-
dano e Nicola d'Oresme confutarono le importanti tesi di autori
classici. Il caso di Alberto Magno (1205-1280) è esemplare. Pro-
babilmente nessun altro fece tanto quanto lui per «mettere in
contatto la cristianità occidentale con la tradizione aristotelica»
(Lindberg 1992, p. 230). Ma Alberto non si accontentò di inter-
pretare Aristotele. Piuttosto, lo integrò e lo corresse al meglio
delle sue capacità. Di conseguenza, tentò, quando possibile, di
sottoporre le teorie empiriche di Aristotele (ma anche di altri) al-
la verifica dell'osservazione, riscontrando che spesso erano erra-
te. Nel frattempo, divenne «forse il miglior botanico di tutto il
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 191

Medioevo» (Lindberg 1992, p. 230), istituendo una tradizione di


ricerca che portò direttamente alle svolte della biologia e della fi-
siologia avvenute nel XVI e nel XVII secolo.
Alberto non era isolato nella sua dedizione a un preciso em-
pirismo, e per accorgersene basta esaminare gli sviluppi nello
studio della fisiologia umana. Furono gli studiosi della Scolasti-
ca, e non i greci, i romani, i musulmani, o i cinesi, a basare i prò-
pri studi sulla dissezione umana (Grant 1996; Porter 1998). Proprio
come a tutti noi sono state insegnate delle falsità su Colombo, co-
sì quasi nessuno conosce la verità sulla dissezione e sulla Chiesa
medievale, e per gli stessi motivi.
La dissezione umana non era permessa nel mondo classico, e
questo è il motivo per cui le opere greco-romane suiranatom ia
sono così sbagliate. Gli studi di Aristotele si limitarono alla dis-
sezione animale, così come quelli di Celso e Galeno. Celso so-
stenne che tre secoli prim a della sua epoca, molti medici greci di
Alessandria avevano sezionato alcuni schiavi e criminali. Altri-
menti, «nell'epoca classica, la dignità del corpo umano proibiva
la dissezione» (Porter 1998, p. 56). La dissezione umana era proi-
bita anche nel mondo islamico. Poi, vi furono le università cri-
stiane e con loro una nuova prospettiva su questa pratica. Il pre-
supposto iniziale era che a essere unica, nell'uomo, è l'anima,
non la fisiologia. Dunque, la dissezione del corpo umano non era
dissimile dallo studio dei corpi animali e non aveva alcuna im-
plicazione teologica. Da questo presupposto vennero avanzate
due giustificazioni aggiuntive. La prima era di natura forense.
Troppi omicidi sfuggivano alla cattura poiché i corpi delle vitti-
me non erano soggetti a un'attenta indagine post mortem. La se-
conda aveva a che vedere con il benessere generale: non si potè-
va acquisire nessuna conoscenza medica adeguata senza un'os-
servazione diretta dell'anatomia umana.
Quindi, nel XIII secolo, funzionari locali (soprattutto nelle
città universitarie italiane) iniziarono ad autorizzare autopsie nei
casi in cui la causa di morte fosse incerta. Poi, più avanti nel cor-
so del secolo, Mondino de' Luzzi (1270-1326 ca.) scrisse un ma-
nuale sulla dissezione, basato sul suo studio di due cadaveri
192 A GLORIA DI DIO

femminili (Mason 1971). Successivamente, intomo al 1315, svol-


se un'autopsia davanti a un pubblico di studenti e insegnanti
dell'Università di Bologna. Da questo momento in poi, la pratica
della dissezione umana si diffuse abbastanza rapidamente in tut-
te le università italiane. In Spagna, le dissezioni pubbliche ini-
ziarono nel 1391, e la prima autopsia a Vienna fu condotta nel
1404 (Porter 1998). Non si trattava di episodi rari, comunque, e
l'autopsia divenne prassi normale nelle lezioni di anatomia. In-
tom o al 1504, Copernico prese parte a ima dissezione um ana du-
rante la sua breve iscrizione ai corsi di medicina dell'Università
di Padova (Armitage 1951). «L'introduzione [della dissezione
umana] nell'Occidente latino, fatta senza forti obiezioni da parte
della Chiesa, fu un evento memorabile» (Grant 1996, p. 205).
Ciò nonostante, White descrisse indignato il modo in cui il
grande fisiologo Andrea Vesalio (1514-1564) «rischiò i più terri-
bili pericoli, e soprattutto l'accusa di sacrilegio, basata sugli in-
segnamenti della Chiesa», per aver condotto delle dissezioni
umane. E continuava sostenendo che chiunque sezionasse un
corpo umano a quell'epoca rischiava la «scomunica», ma che l'e-
roico Vesalio «ruppe senza paura» con «questo sacro convenzio-
nalismo» e procedette «nonostante la censura ecclesiastica [...].
Nessun pericolo potè intimidirlo» (White 1896, voi. 2, p. 50). Tut-
to questo si diceva fosse accaduto due secoli dopo che la pratica
della dissezione um ana si era diffusa nelle università dove Vesa-
lio l'aveva im parata e poi praticata! Non si tratta nemmeno di un
fatto emerso di recente. Già nei primi anni '20, Charles Singer,
uno dei primi storici della medicina, riteneva fosse cosa talmen-
te nota da non aver bisogno di documentazione: «Benché Vesa-
lio avesse alterato profondamente l'attitudine verso i fenomeni
biologici, ciò nonostante proseguì le sue ricerche, indisturbato
dalle autorità ecclesiastiche» (Singer [1925] 1970, p. 129).
White non racconta neanche l'immensa fama e il riconosci-
mento ricevuti dall'opera di Vesalio immediatamente dopo la
pubblicazione, né si degna di riportare che Carlo V, Sacro Roma-
no Imperatore, rispose al suo «sacrilegio» conferendogli il titolo
di conte e premiandolo con un vitalizio. A quel punto, il giovane
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 193

anatomista aveva preso residenza presso la corte di Filippo II di


Spagna, e questo proprio durante l'epoca di più accesa persecu-
zione delle eresie da parte degli inquisitori locali! In quanto alle
visioni religiose di Vesalio, basti dire che morì ritornando da un
pellegrinaggio in Terra Santa (O'Malley 1964; Porter 1998). Ecco,
quindi, che ci troviamo davanti a un altro racconto falso di Whi-
te in merito a una presunta incessante opposizione religiosa alla
scienza. E, come nel caso del racconto su Colombo, ha avuto an-
che questo un profondo e contorto effetto sulla nostra cultura in-
tellettuale4.
La dedizione all'empirismo fu cruciale per la nascita della
scienza occidentale. Quindi, continuando questa tradizione, Gio-
vanni Keplero produsse il primo modello accurato di sistema so-
lare. Lunghe e rigorose osservazioni lo spinsero a concepire le or-
bite planetarie come delle ellissi, e non delle circonferenze, il che
permise poi di svolgere calcoli orbitali accurati in maniera piut-
tosto semplice, grazie al fatto che non era più necessario presup-
porre degli epicicli. La svolta di Keplero rese possibile anche
spiegare con accuratezza, e per la prim a volta, l'alternarsi delle
stagioni, visto che l'orbita ellittica della Terra la faceva posizio-
nare a distanze diverse dal Sole durante il corso dell'anno. Si era
ormai giunti al pieno compimento dell'astronomia scientifica.
Tuttavia, Tesserci focalizzati sulle università, sull'innovazio-
ne e sull'empirismo ci ha fatto finora trascurare un interrogativo
veramente importante, vale a dire: perché gli studiosi della Sco-
lastica e gli studiosi europei dei secoli successivi erano così inte-
ressati alla scienza?
A prim a vista, sembrerebbe una domanda sciocca. Forse che
la nascita della scienza non è un aspetto normale del progresso
culturale, o del progresso delle civiltà? No. Molte società piutto-
sto sofisticate non hanno generato comunità di scienziati, né prò-
dotto un corpus di teorie sistematiche e osservazioni scientifiche
che possa essere definito scienza. Benché la Cina fosse abbastan-
za civilizzata nei molti secoli in cui gli europei erano ancora dei
rozzi selvaggi, i cinesi non svilupparono la scienza (Dom 1991;
Huff 1993; Lang 1997; Needham 1954-1984). Allo stesso modo,
194 A GLORIA DI DIO

benché fossero in pieno possesso dell'intero corpus di erudizio-


ne greco-romana, e avendo fatto impressionanti passi avanti in
matematica, gli studiosi islamici non divennero degli scienziati.
Una volta approfonditi i testi classici, gli studiosi musulmani si
accontentavano del ruolo di esegeti e non aggiungevano molto
di proprio. E la scienza non emerse nemmeno in India, o in Egit-
to. Nemmeno la Grecia classica, pur dando prova di notevole sa-
pere ed erudizione, aveva la scienza.
Come abbiamo osservato, la scienza consiste in uno sforzo or-
ganizzato (vale a dire, continuo e sistematico) empiricamente
orientato alla spiegazione dei fenomeni naturali - un processo
cumulativo di costruzione teorica e verifica. Questa attività nac-
que una volta sola. Come ha spiegato lo storico Edward Grant,
«è indiscutibile che la scienza moderna sia nata nel XVII secolo
nell'Europa occidentale e non altrove» (Grant 1996, p. 168). Altri
importanti storici della scienza e sociologi potrebbero assegnare
la nascita della scienza a un periodo leggermente antecedente,
ma tutti concordano sul fatto che fu uno sviluppo unico, ed eu-
ropeo (Ben-David 1990; Cohen 1985a; Collins 1998; Dom 1991;
Grant 1996; Huff 1993; Jaki 2000; Kuhn 1978).
La domanda cruciale è: perché?

La differenza cristiana

La mia risposta a questo interrogativo è tanto breve quanto


poco originale: la cristianità rappresentò Dio come un essere ra-
zionale, interessato, affidabile e onnipotente, e l'universo come
la sua creazione personale, con una struttura razionale, regolata
da leggi e stabile, che attendeva di essere compresa dagli esseri
umani.
Come disse Nicola d'Oresme, la creazione di Dio «è più simi-
le a quella di un uomo che costruisca un orologio e gli permetta
di funzionare e continuare il suo movimento autonomamente»
(in Crosby 1998, p. 96). Oppure, con le parole del Salmo 119,89-
90: «Per sempre, o Signore, la tua parola è stabile nei cieli. La tua
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 195

fedeltà di generazione in generazione; hai fondato la terra ed es-


sa è salda». Fra i passaggi scritturali più frequentemente citati
dagli studiosi medievali c'è il versetto tratto Libro della Sapien-
za (11,20): «Tu hai disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso».
In contrasto con le dottrine religiose e filosofiche dominanti
nel mondo non cristiano, i cristiani diedero vita alla scienza per-
ché credevano che potesse e che dovesse essere fatto. Come disse Al-
fred North Whitehead (1861-1947) durante una delle sue Lowell
Lectures a Harvard nel 1925, la scienza nacque in Europa a cau-
sa della diffusa «fede nelle possibilità della scienza [...] derivate
della teologia medievale» (Whitehead [1925] 2001, p. 31). La di-
chiarazione di Whitehead scandalizzò non solo la sua distinta
platea, ma in generale gli intellettuali occidentali, quando le sue
Lectures vennero pubblicate. Come poteva un filosofo e materna-
tico del suo calibro, co-autore insieme a Bertrand Russell della
pietra miliare Principia Mathematica (1910-1913), affermare ima
simile assurdità? Non sapeva che la religione è il nemico morta-
le dell'indagine scientifica?
Whitehead sapeva bene quel che diceva. Aveva capito che la
teologia cristiana era stata un elemento di fondamentale impor-
tanza per lo sviluppo della scienza in Occidente e di certo nel re-
sto del mondo le teologie non cristiane avevano soffocato la ri-
cerca scientifica. Come spiegò:

Non credo però di aver ancora messo in evidenza il grande contri-


buto dato dal Medioevo alla formazione del movimento scientifi-
co. Intendo parlare della fede inespugnabile che ogni evento parti-
colare può essere correlato, in modo perfettamente definito, ai suoi
antecedenti e fungere da esempio di principi generali. Senza que-
sta fede l'enorme lavoro degli scienziati sarebbe disperato. È que-
sta fede istintiva, vivamente sostenuta dall'immaginazione, che co-
stituisce il principio motore della ricerca: v'è un segreto, e questo
segreto può essere svelato. Come si è insediata così saldamente
nello spirito europeo questa convinzione?
Se paragoniamo il tono del pensiero europeo con l'atteggiamento
di altre civiltà abbiamo la sicura impressione che il primo sia ori­
196 A GLORIA DI DIO

ginato da una sola fonte. Non può infatti provenire che dalla con-
cezione medievale, che insisteva sulla razionalità di Dio, al quale
veniva attribuita l'energia personale di Yahweh e la razionalità di
un filosofo greco. Ogni particolare era controllato e ordinato: le ri-
cerche sulla natura non potevano sfociare che nella giustificazione
della fede nella razionalità. Non parlo, si badi, delle convinzioni
dichiarate di pochi individui. Ciò che ho in mente è l'impronta la-
sciata nello spirito europeo da ima fede secolare e incontestata. È
questo che intendo con tono istintivo del pensiero e non un mero
credo espresso con parole. (Whitehead [1925] 2001, pp. 30-31)

Whitehead terminava osservando che le immagini di divinità


rintracciabili nelle altre religioni, in particolar modo in Asia, so-
no troppo impersonali o irrazionali per poter incoraggiare la
scienza. Qualsiasi particolare «evento determinato poteva essere
attribuito al fiat di un [...] irrazionale» e dispotico Dio, oppure
scaturire da «qualche "origine delle cose" impersonale e imper-
scrutabile. Manca quella fiducia che proviene dall'idea della ra-
zionalità intelligibile di un essere personale» (Whitehead [1925]
2001, p. 31).
In effetti, la maggior parte delle religioni non cristiane non
presuppone affatto una creazione: nella loro prospettiva, l'uni-
verso è eterno e, per quanto possa seguire dei cicli, ciò avviene
senza principio o senza scopo; inoltre, cosa più importante, non
essendo mai stato creato non ha un Creatore. Di conseguenza,
l'universo viene ritenuto un mistero supremo, incoerente, im-
prevedibile e arbitrario. Coloro che partono da questi presuppo-
sti religiosi, raggiungono la saggezza attraverso un percorso di
meditazione e intuizioni mistiche, senza alcuna occasione d'e-
sercitare l'uso della ragione.
Diversamente, molti aspetti centrali della teologia cristiana
sono frutto del ragionamento. Così affermò Quinto Tertulliano
(160-225 ca.), uno dei primi teologi cristiani: «La ragione è cosa
di Dio, poiché non c'è nulla che Dio, creatore di tutte le cose, non
abbia previsto, disposto, ordinato secondo ragione, nulla che
non voglia doversi trattare e capire secondo ragione» (De Paeni-
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 197

tentia 1). Molti secoli dopo, sant'Agostino (354-430) sostenne che


la ragione fosse indispensabile alla fede: «Lontano da noi il pen-
siero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, in virtù della
quale ci ha creati superiori agli altri esseri animati. Lontano da
noi il credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spie-
gazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non po-
tremmo neppure credere, se non avessimo un'anim a razionale».
Ovviamente, i teologi cristiani accettavano l'idea che si dovesse
credere alla parola di Dio anche se le ragioni non erano manife-
ste. Di nuovo sant'Agostino: «Quando perciò si tratta di verità
concernenti la dottrina della salvezza, che non possiamo ancora
comprendere con la ragione (ma lo potremo un giorno), alla ra-
gione deve precedere la fede; essa purifica la mente e la rende ca-
pace di percepire e sostenere la luce della suprema ragione divi-
na». E poi aggiungeva che è necessario «che, quando si tratta di
supreme verità, le quali non possono conoscersi, la fede preceda
la ragione, qualunque sia il ragionamento che ci convince di ciò,
anch'esso deve senza dubbio condurre alla fede» (Lindberg e
Numbers 1986, pp. 27-28).
Forse, l'aspetto più rilevante di questi estratti da sant'Agosti-
no è l'ottimismo che lo porta a pensare che un giorno la ragione
trionferà. Oltre a ritenere che fosse un dovere dei teologi cercare
di capire la volontà di Dio, per la Chiesa delle origini e medie-
vale esisteva il dovere di capire l'opera di Dio, o almeno meravi-
gliarsene. Come spiegò san Bonaventura (1221-1274), lo scopo
della scienza è «rendere onore a Dio» (De reductione artium ad
theologiam).
San Tommaso d'Aquino (1225-1274 ca.) tentò di dar forma al-
l'ottimismo di sant'Agostino in merito al fatto che le «supreme
verità» potessero essere colte dalla ragione, nella sua monumen-
tale Somma teologica, la quale resta la spiegazione definitiva di
molti punti della dottrina cattolica. San Tommaso sostenne che,
dal momento che gli esseri umani mancano di intelletto suffi‫־‬
ciente per capire direttamente l'essenza delle cose, è necessario
che ragionino fino al raggiungimento della conoscenza, passo
dopo passo. Così, benché san Tommaso considerasse la teologia
198 A GLORIA DI DIO

come la più elevata delle scienze, essendo rivolta direttamente


alle rivelazioni divine, auspicava l'uso degli strumenti della filo-
sofia, soprattutto dei principi della logica, nello sforzo di co-
struire la teologia (Grant 1996; Meyer 1944).
Il punto cruciale è dunque l'aspetto metodologico. Secoli di
meditazione non produrranno nessuna conoscènza empirica, fi-
gurarsi la conoscenza scientifica. Ma nella misura in cui la reli-
gione ispira dei tentativi di comprensione dell'opera di Dio, la
conoscenza arriverà, e sorgerà la scienza in quanto «serva» della
teologia. E è proprio questo ciò che si consideravano non sola-
mente gli appartenenti alla Scolastica, ma anche coloro che pre-
sero parte ai grandi progressi del XVI e XVII secolo - studiosi al-
la ricerca dei segreti della Creazione. Charles Webster ha sinte-
tizzato l'opinione comune che si ritrova fra gli storici della scien-
za contemporanei:

Qualsiasi resoconto che voglia essere storico [...] deve prestare do-
vuta attenzione alla profonda compenetrazione di idee scientifiche
e religiose. Sembrerebbe irragionevole negare la motivazione reli-
giosa nei numerosi casi nei quali essa venne esplicitata dagli scien-
ziati stessi, spesso con dolorosa enfasi. Mai fu spesa energia nella
scienza senza la rassicurazione della coscienza cristiana. (Webster
1986, p. 213)

I casi negativi

Prima di concludere questa discussione, devo dar prova dei


casi negativi, quelli dove la scienza non si è sviluppata perché, in
società che altrimenti parevano avere tutte le potenzialità neces-
sarie, mancavano alcune idee religiose fondamentali. Si tenga
presente che io sostengo solo che per la nascita della scienza fu
necessaria una particolare concezione di Creatore, ma che questa
concezione non fu ima causa sufficiente. Qualora una cultura
dell'Età della Pietra si convertisse pienamente al cristianesimo,
non si potrebbe comunque prevedere un'emergere della scienza
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 199

al suo interno. Sono necessari molti altri progressi culturali e so-


ciali affinché ciò possa avvenire. Dunque, i casi negativi sono
quelli in cui, tralasciando la religione, ci potremmo aspettare una
cultura scientifica. Secondo me, i casi di questo tipo sono tre: Ci-
na, Grecia e mondo islamico.

Cina
Solamente tre anni prim a dell'affermazione del suo co-autore
Alfred N orth Whitehead, secondo cui il cristianesimo aveva co-
stituito la base per lo sviluppo della scienza, Betrand Russell tro-
vava piuttosto sconcertante la mancanza di scienza in Cina. Dal
suo punto di vista di ateo militante, la Cina avrebbe dovuto svi-
luppare un discorso scientifico molto prima dell'Europa. Egli af-
ferma: «Nonostante, sino a oggi, la civiltà cinese sia stata man-
chevole nella scienza, essa non ha mai nutrito sentimenti di osti-
lità verso di essa, quindi il diffondersi del sapere scientifico non
dovrebbe incontrare ostacoli pari a quelli posti dalla Chiesa in
Europa» (Russell 1922, p. 193).
Tuttavia, nonostante fosse certo del fatto che, non essendo af-
flitta dalla Chiesa, la Cina avrebbe presto superato la scienza oc-
cidentale5, non riuscì a capire che erano proprio impedimenti di
tipo religioso ad aver ostacolato l'ascesa della scienza in questo
paese. Benché da secoli la gente comune veneri una ricca schiera
di Dei, ciascuno con un limitato raggio d'azione e spesso privi di
caratteristiche definite, gli intellettuali cinesi si sono sempre van-
tati di seguire credi «senza Dei», nei quali il soprannaturale è
concepito come un'essenza o un principio che governa la vita,
impersonale, distante e certamente non un essere vivente. Il Tao
è un esempio di essenza; ying e yang rappresentano un princi-
pio. Proprio come le divinità di poca importanza non creano un
universo, non lo fanno neanche essenze o principi indistinti; an-
zi, sembra che non siano in grado di fare nulla.
Così come viene concepito dai filosofi cinesi, l'universo sem-
plicemente è, ed è sempre stato. Non vi sono motivi per suppor-
re che funzioni secondo leggi razionali o che potrebbe essere
compreso in termini fisici piuttosto che mistici. Di conseguenza,
200 A GLORIA DI DIO

nel corso dei millenni gli intellettuali cinesi sono andati in cerca
di «illuminazioni» e non di spiegazioni. E questa è proprio la
conclusione alla quale giunse lo storico marxista Joseph
Needham, il quale dedicò la maggior parte della sua carriera e
diverse opere alla storia della tecnologia cinese. Non essendo
riuscito, dopo moltissimi tentativi, a trovare ima spiegazione
materialistica, Needham concluse che i cinesi non erano riusciti
a sviluppare la scienza a causa della loro religione e per Tinca-
pacità degli intellettuali cinesi di credere all'esistenza di leggi
della natura, dal momento che «non si era mai sviluppata la con-
cezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sul-
la Natura non umana». Needham continuava:

Non è che per i cinesi non vi fosse in Natura ordine alcuno, ma


piuttosto era loro opinione che non si trattasse di un ordine stabi-
lito da un essere individuale razionale; pertanto mancava total-
mente la convinzione che esseri individuali razionali sarebbero
stati in grado di compitare nelle loro lingue terrestri inferiori il co-
dice divino delle leggi da lui precedentemente decretate. I taoisti,
certo, avrebbero disprezzato tale idea perché troppo ingenua ri-
spetto alla sottigliezza e alla complessità dell'universo così com'es-
si l'intuivano. (Needham 1981, p. 704)

Proprio così.
Diversi anni fa, il mio amico Graeme Lang scartò l'idea che
la scienza non fosse riuscita a svilupparsi in Cina a causa del-
l'influenza del confucianesimo e del taoismo sugli intellettuali
cinesi, sostenendo che tutta la cultura è flessibile e che «se in Ci-
na gli studiosi avessero voluto sviluppare la scienza, la filosofia
da sola non sarebbe stata un serio impedimento» (Lang 1997, p.
18). Forse. Ma Lang non pose la dom anda più importante: per-
ché gli studiosi cinesi non volevano occuparsi di scienza? Perché,
e sono d'accordo con W hitehead, Needham (e molti altri), per i
cinesi la scienza non era possibile. Sono dei fondamentali pre-
supposti teologici e filosofici a stabilire se qualcuno tenterà di
fare della scienza.
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 2 01

Grecia
Per secoli gli antichi greci sembrarono sul punto di raggimi-
gere ima conoscenza scientifica deiruniverso. Erano interessati a
spiegare il mondo naturale attraverso principi generali astratti.
Alcuni osservavano la natura in modo attento e sistematico -
benché Socrate considerasse l'empirismo, come le osservazioni
astronomiche, una «perdita di tempo» e Platone fosse d'accordo
con lui e consigliasse ai suoi studenti di «lasciar stare i cieli stei-
lati» (Mason 1971, p. 104). Come gli studiosi della Scolastica, i
greci crearono reti accademiche coordinate, le famose «scuole».
Ma, alla fine, produssero solamente filosofie non empiriche, an-
zi antiempiriche e speculative, raccolte di fatti ateoretici, mestie-
ri e tecnologie isolati, che non sfociarono mai nella vera scienza.
Furono tre i fattori che fecero sì che i greci non acquisissero
una conoscenza scientifica del mondo. Innanzitutto, non conce-
pivano le divinità come Creatori coscienti. In secondo luogo, per
i greci l'universo non era solo eterno e increato, ma racchiuso in
infiniti cicli di progresso e decadenza. Infine, spinti dalle prò-
prie concezioni religiose, trasformarono oggetti inanimati in
creature viventi capaci di propositi, emozioni e desideri, man-
dando così in cortocircuito la ricerca di teorie fisiche (Grant 1994
e 1996; Jaki 1986; Lindberg 1992; Mason 1971, oltre che le fonti
originali menzionate).
Per cominciare dalle concezioni religiose - nessuna delle nu-
merose divinità del pantheon greco, neanche Zeus, poteva esse-
re il plausibile creatore di un universo razionale. Infatti, anche gli
Dei, come gli umani, erano soggetti agli inesorabili meccanismi
dei cicli naturali di ogni cosa. Alcuni studiosi greci, compreso
Aristotele (384-322 BCE), presupponevano un «Dio» a guardia
deH'universo, ma questo Dio era concepito fondamentalmente
come un'essenza molto simile al Tao. Una tale divinità conferiva
una certa aura spirituale a un universo ciclico e alle sue proprietà
ideali e astratte ma, in quanto essenza, «Dio» non faceva né mai
aveva fatto nulla. Platone (427-347 BCE ca.) presupponeva una
sorta di essere divino chiamato Demiurgo, il quale era la perso-
nificazione della ragione. Il Demiurgo aveva tentato di costruire
202 A GLORIA DI DIO

un cosmo che rispondesse pienamente agli ideali di bene, vero e


bello, ma dal momento che questo «essere» aveva dovuto lavo-
rare con materiali già esistenti, i quali avevano delle proprietà
(soprattutto difetti) sui quali non aveva controllo, il risultato era
stato di molto inferiore all'ideale.
Molti studiosi dubitano che Platone volesse davvero che l'e-
sistenza del Demiurgo fosse intesa in senso letterale (Lindberg
1992). Comunque, creatore effettivo o metafora, il Demiurgo di
Platone impallidisce di fronte a un Dio che non solo è il signore
ma anche il Creatore di tutti gli elementi, avendo creato l'uni-
verso dal nulla. Per di più, per Platone l'universo non era stato
creato in base a solidi principi operativi, ma secondo degli idea-
li. E tali ideali consistevano principalmente in forme perfette. Per
questo motivo, l'universo deve essere una sfera, forma compiu-
ta e simmetrica, e 1 corpi celesti devono ruotare seguendo una
traiettoria circolare, che è il perfetto tipo di moto (Mason 1971).
L'idealismo platonico, fondato su ipotesi a priori, fu a lungo di
notevole intralcio alla scoperta scientifica. Per esempio, la fede
incrollabile in queste forme ideali, molti secoli dopo, impedì a
Copernico anche solo di essere sfiorato dall'idea che le orbite
planetarie potessero essere ellittiche e non circolari.
Sotto molti aspetti appare strano che i greci, avendo rifiutato
l'idea di progresso per quella di un infinito ripetersi di un ciclo,
abbiano poi ricercato la conoscenza e la tecnologia. Platone, per
lo meno, proponeva un universo creato, ma la maggior parte de-
gli studiosi greci riteneva che esso fosse increato ed eterno. Ari-
stotele condannò «come impensabile» l'idea «che l'universo ab-
bia avuto origine in un dato punto del tempo» (Lindberg 1992, p.
54). Nonostante considerassero l'universo eterno e immutabile, i
greci riconoscevano come evidente il fatto che storia e cultura
mutavano sempre, ma ciò avveniva solo all'interno dei rigidi
confini della ripetizione infinita. In II cielo, Aristotele osservò che
«[si ripetono] non ima volta sola, né due, bensì un numero infi-
nito di volte le stesse opinioni» e, nella Politica, che tutto è «stato
inventato diverse volte nel corso dei secoli, o piuttosto un nu-
mero di volte imprecisato»; dal momento che egli viveva in
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 203

un'età dell'oro, il livello tecnologico della sua epoca aveva rag-


giunto il massimo che si potesse ottenere. Gli individui «funzio-
navano» allo stesso modo delle invenzioni: le stesse persone na-
scevano continuamente, nel cieco scorrere dei cicli dell'universo.
Secondo Crisippo (280-207 BCE), gli stoici insegnavano che «le
precedenti esistenze delle persone sono diverse dalle attuali solo
estrinsecamente e accidentalmente; tali differenze non produco-
no un uomo diverso rispetto al suo equivalente di un'altra epo-
ca» (Jaki 1986, p. 114). Per quanto riguarda poi l'universo in sé,
secondo Parmenide (nato nel 515 BCE) tutte le percezioni di
cambiamento sono illusione, perché l'universo è in un equilibrio
statico di perfezione, «increato e indistruttibile; perché è compie-
to, immobile e infinito» (testo completo in Danielson 2000, pp.
14-15). Altri filosofi greci di rilievo, come gli appartenenti alla
scuola ionica, insegnavano che, nonostante l'universo fosse infi-
nito ed eterno, esso era anche soggetto a cicli di successione sen-
za fine. Platone vedeva le cose un po' diversamente, ma anch'e-
gli credeva nella ciclicità e nelle leggi eterne secondo le quali eia-
scuna età dell'oro era seguita da caos e tracollo.
Infine, i greci insistevano nel trasformare il cosmo, e più in ge-
nerale gli oggetti inanimati, in esseri viventi. In piena conformità
con l'animismo che gli antropologi della religione associano alle
culture «primitive», Platone sosteneva che il Demiurgo avesse
creato il cosmo come un qualcosa di vivo - e nel Timeo scrive che
il mondo è «una sola visibile creatura vivente». Quindi, il mon-
do ha un'anim a e, per quanto «solitario», è «per virtù sua capa-
ce di stare con se stesso, ed esso stesso conoscitore e amatore di
se medesimo in modo adeguato». Come ha rilevato David C.
Lindberg, «Platone conferì la divinità aH'anima del mondo e con-
siderò i pianeti e le stelle fisse ima schiera di divinità celesti»
(Lindberg 1992, p. 42).
Allora, se gli oggetti minerali sono animati, si sbaglia a tenta-
re di spiegare i fenomeni naturali; le cause del moto degli ogget-
ti, ad esempio, saranno ascrivibili a motori, non a forze naturali.
È possibile che siano stati gli stoici, in modo particolare Zenone
(490-430 BCE), a sviluppare l'idea che fosse possibile spiegare il
2 04 A GLORIA DI DIO

funzionamento del cosmo sulla base dei suoi scopi consci, e que-
sto divenne presto il punto di vista generale. Perciò, secondo Ari-
stotele, i corpi celesti si muovevano circolarmente per la loro af-
fezione nei confronti di queU'azione. Stanley Jaki ha sottolineato
come fu solamente grazie al rifiuto della fisica greca, e soprattut-
to di quella aristotelica, che la scienza della Scolastica riuscì a
progredire, «raggiungendo ima prospettiva depersonalizzata
sulla natura, nella quale non si diceva che le pietre cadono per un
loro innato amore per il centro della Terra» (Jaki 1986, p. 105).
È assai significativo il fatto che, alla fine, il sapere greco si sia
arenato dentro la propria logica interna. A parte alcuni ulteriori
sviluppi della geometria, accadde molto poco dopo Platone e
Aristotele. Quando Roma assorbì il mondo greco, abbracciò pie-
namente e celebrò anche il suo sapere - gli studiosi greci prò-
sperarono nel periodo della repubblica e durante il regno dei Ce-
sari. Ma l'apporto della cultura greca non fece progredire intei-
lettualmente il mondo romano in modo significativo (Lindberg
1992; Mason 1971). Il declino di Roma non interruppe lo svilup-
po della conoscenza umana, proprio come il «recupero» del sa-
pere greco non permise che il processo ricominciasse. Al contra-
rio, come vedremo, il sapere greco fu una barriera per l'ascesa
della scienza! Non portò alla scienza nel mondo classico greco-
romano, e soffocò il progresso intellettuale nel mondo islamico.

IsIàm
Potrebbe sembrare che il m ondo islamico abbia un concetto
di Dio adatto a favorire l'ascesa della scienza. Ma non è così (Fa-
rah 1994; Hodgson 1974; Jaki 1986; Nasr 1993; Waines 1998). Al-
lah non viene presentato come un creatore che osserva delle leg-
gi, ma è concepito come un Dio estremamente attivo che si im-
pone al m ondo come ritiene opportuno. Di conseguenza, all'in-
terno del mondo islamico si formò presto un nucleo teologico
che condannava come blasfemia ogni tentativo di formulare leg-
gi naturali, perché esse negavano la libertà di azione di Allah.
Per questo, il m ondo islamico non accolse completamente il
concetto secondo il quale l'universo possiede principi fonda­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 205

mentali stabiliti da Dio nella Creazione, ma sostenne che il mon-


do fosse retto su base continua dal suo volere. Se ne trovava giù-
stificazione nel Corano: «Dio travia chi vuole e dirige chi vuo-
le». Benché il versetto si riferisca al modo in cui Dio determina
il destino degli individui, è stato inteso in senso più ampio e ap-
plicato a tutte le cose.
Se Dio fa ciò che vuole, e se ciò che vuole è variabile, allora
l'universo potrebbe non essere basato su leggi. Si paragoni ciò al
concetto cristiano di Dio così come espresso dal genio scientifi-
co francese Cartesio (1596-1650), il quale giustificò la sua ricerca
di «leggi» naturali sulla base del fatto che tali leggi dovessero
esistere perché Dio è perfetto e quindi «opera in maniera co-
stante e immutabile», tranne per i rari casi di miracoli (Ouvres
voi. 8, p. 61).
Ogni volta che si solleva la questione della scienza e del sa-
pere islamico, la maggior parte degli storici sottolinea che per
tutti i secoli in cui l'Europa cristiana non conosceva praticamen-
te nulla della cultura greca, questa stessa cultura era rimasta vi-
va e molto apprezzata nel mondo islamico. Certamente è un'af-
fermazione vera, com'è vero che alcuni manoscritti classici giun-
sero nell'Europa cristiana attraverso il mondo islamico, in parti-
colare quando gli intellettuali cristiani e musulmani entrarono in
contatto in Spagna. Ma è anche vero che il possedere tutto que-
sto «illuminismo» non generò moltissimo progresso nell'islam,
figurarsi la nascita di una scienza islamica. Anzi, come spiegò lo
storico musulmano Caesar E. Farah:

I primi pensatori musulmani ripresero la filosofia là dove i greci


l'avevano lasciata. [...] Così in Aristotele i pensatori musulmani
trovarono la loro grande guida, e per loro divenne il «primo dei
maestri».
Avendolo accettato a priori, la filosofia musulmana per come si
evolse nei secoli successivi scelse meramente di continuare nello
stesso filone e di estendere Aristotele anziché introdurre forme di
pensiero innovativo. Scelse la via dell'eclettismo, cercando di assi-
milare piuttosto che generare, nello sforzo cosciente di adattare i ri­
206 Λ GLORIA DI DIO

sultati del pensiero greco alle concezioni filosofiche musulmane,


ma con ima portata molto più vasta di quella raggiunta dai primi
dogmatici cristiani. (Farah 1994, p. 199. Corsivo originale.)

Il risultato fu il congelamento e il soffocamento di qualsiasi


possibilità di nascita di una scienza islamica, e per le stesse ra-
gioni che sottostanno alla stagnazione in se stessa della cultura
greca: presupposti fondamentali antitetici alla scienza. È assai si-
gnificativo che il Rasa'il, la grande enciclopedia del sapere creata
dai primi studiosi musulmani, accogliesse pienamente la conce-
zione greca del mondo come un enorme, conscio, organismo vi-
vente che possiede sia intelletto che anima (Nasr 1993). Infatti,
secondo Jaki, il «concetto musulm ano di Creatore non era ade-
gratam ente razionale per ispirare un'efficace avversione ai di-
versi tipi di rappresentazioni del mondo, panteistiche, cicliche,
animistiche e magiche, che liberamente si facevano largo nel Ra-
sa'il» (Jaki 2000, p. 207). Né le concezioni raggiunte in seguito da
Ibn Rushd, noto all'Occidente come Averroè (1126-1198), e dai
suoi successori, furono più propizie alla nascita di una scienza, e
questo nonostante tutti i loro tentativi di escludere la dottrina
musulm ana dal proprio lavoro, in diretto conflitto con coloro che
appoggiavano il Rasa'il. Al contrario, Averroè e i suoi successori
divennero degli aristotelici intransigenti e dottrinari; proclama-
vano, infatti, che la teoria della fisica del filosofo greco fosse
completa e infallibile, e che se un'osservazione fosse risultata in-
coerente con una delle visioni aristoteliche, allora era tale osser-
vazione a essere sicuramente scorretta o illusoria.
Da tutto questo risultò che gli studiosi islamici fecero signifi-
cativi progressi solamente in conoscenze specifiche, come accad-
de per alcuni aspetti deH'astronomia e della medicina, discipline
che non richiedevano nessuna base teoretica generale. Col pas-
sare del tempo, poi, persino questo tipo di progresso cessò.
È chiaro quindi che, nonostante il sapere ricevuto, il «recupe‫־‬
ro» della cultura greca non riportò l'Europa sulla giusta strada
dello sviluppo della scienza. Anzi, a giudicare dall'impatto che
questo tipo di conoscenza ha avuto su greci, romani e musulma­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 207

ni, sembra sia stato di capitale importanza il fatto che questo sa-
pere non fosse fruibile prim a che gli studiosi cristiani stabilissero
una propria struttura intellettuale indipendente. Di conseguen-
za, quando gli studiosi medievali si imbatterono per la prima
volta nelle opere di Aristotele, Platone e degli altri filosofi del-
l'antichità, volevano ed erano in grado di contestarli. Come ho
cercato di spiegare, fu in esplicita opposizione ad Aristotele e
agli altri autori classici che Alberto, Ockham, Buridano e Oresme
progredirono verso la scienza. Nella misura in cui rimase ag-
grappato alle concezioni greche, Copernico non riuscì a fondare
un'astronomia scientifica. Dal momento che gli intellettuali che
nel Medioevo non si occupavano di materie scientifiche (soprat-
tutto coloro che svilupparono le arti e la filosofia speculativa) di-
vennero ammiratori dei classici greco-romani, molti dei grandi
scienziati del XVI e XVII secolo spesso affermarono formalmen-
te di essere «debitori» nei confronti di Aristotele e degli altri filo-
sofi deH'antichità, nonostante la loro opera in realtà negasse qua-
si tutto quello che i greci avevano detto a proposito del funzio-
namento del mondo.
Con questo non voglio minimizzare l'impatto che la cultura
greca ha esercitato sulla vita intellettuale dell'Europa. Ebbe un'e-
norme influenza, non solo sul pensiero della Scolastica, ma an-
che sulle generazioni successive. Tuttavia, gli elementi più anti-
scientifici del pensiero greco furono rifiutati o, al peggio, rac-
chiusi all'intem o del settore degli studi classici, mentre le scien-
ze poterono avanzare. Per esempio, il concetto greco secondo il
quale l'universo era eterno si dimostrò molto attraente per nu-
merosi studiosi della Scolastica, ma fin dall'inizio fu calorosa-
mente contrastato - san Bonaventura mise in ridicolo il concetto
su basi logiche, ed esso fu incluso anche nell'elenco delle affer-
mazioni condannate dal famoso editto diramato dal vescovo di
Parigi nel 1277 (Grant 1994). Inoltre, neppure i più ardenti soste-
nitori dell'universo eterno aH'intemo della Scolastica sostennero
mai che esso fosse increato. Anzi, il dibattito coinvolgeva aspetti
teologici molto sottili intorno alla capacità di Dio di creare un
universo eterno. Nessun platonico della Scolastica propose mai
208 A GLORIA DI DIO

un Dio limitato tanto quanto il Demiurgo, né ebbe molto credito


l'idea che la Terra e i pianeti fossero degli esseri dotati di co-
scienza, per non parlare dell'idea che si muovessero in cerchi,
mossi dalla gioia per questa azione. Anche molto tempo prima
che venisse confinato nei dipartimenti di studi classici, il sapere
greco-romano non fu mai la filosofia degli scienziati. Ed è vero (e
viene costantemente citato dai classicisti) che, in una lettera del
1675 a Robert Hooke, Newton scrisse: «Se ho visto oltre (rispetto
a te e a Cartesio) l'ho fatto stando in piedi sulle spalle dei gigan-
ti», ma una così alta considerazione degli antichi non si esprime
né si riflette nella sua opera. Al contrario, proprio come Newton
e i suoi colleghi ottenevano le loro conquiste scientifiche in ovvia
opposizione ai «giganti» greci, così i loro contemporanei teologi
organizzavano il loro attacco alla cultura greca (Baker 1952). Per
esempio, Guillaume Budé (1467-1540), fondatore della Biblioteca
Nazionale di Parigi, condannò Platone e Aristotele per aver scrit-
to troppo spesso di cose di cui non sapevano nulla (Kinser 1971).
Lutero aveva un punto di vista simile: «Il mio consiglio sarebbe
che la Fisica di Aristotele [...] venisse abbandonata del tutto, as-
sieme al resto dei suoi libri che si vantano di trattare le cose del-
la natura [... Infatti] niente può essere imparato da essi [...] e mi
arrischio a dire che un qualunque vasaio abbia una conoscenza
della natura migliore di quella che è scritta in questi libri» (Lute-
ro [1520] 1915, p. 146). Altri, fra cui Pierre De La Ramée (1515-
1572), lanciarono un'azione di rifiuto organizzato dei famosi au-
tori greci in quanto «individui fallibili, inclini all'errore umano,
evidentemente colpevoli di plagio su molti versanti» fino a
quando «gli antichi giganti iniziarono ad assomigliare più a dei
nani moderni» (Eisenstein 1979, p. 321). Ciò che confessarono le
preminenti figure coinvolte nel fiorire della scienza nel XVI e
XVII secolo, compresi Cartesio, Galileo, N ewton e Keplero, fu la
loro fede assoluta in un Dio creatore, il cui creato rispondeva a
leggi razionali che attendevano di essere scoperte.
In sintesi: la nascita della scienza non fu l'estensione del sa-
pere classico; fu la naturale conseguenza della dottrina cristiana.
La Natura esiste perché è stata creata da Dio. Per amare e onora­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 2 09

re Dio, è necessario apprezzare a fondo le meraviglie del suo


operato. Essendo Dio perfetto, il suo creato funziona secondo
principi im m utabili, principi che dovrebbe essere possibile scopri-
re utilizzando appieno i poteri della ragione e dell'osservazione
che Dio ci ha donato.
Queste furono le idee fondamentali che spiegano il motivo
per cui la scienza nacque nell'Europa cristiana e non altrove.
Tuttavia, alcuni studiosi hanno sostenuto che non tutti i tipi
di teologia cristiana siano ugualmente propizi alla nascita della
scienza, e che fu il protestantesimo, soprattutto nella sua versio-
ne puritana, a guidare l'ascesa della scienza.

I puritani e la nascita della scienza

Nel 1938, sulla rivista «Osiris» fu pubblicata la tesi di dotto-


rato in sociologia di Robert K. Merton, presentata a Harvard nel
1935. In Science, Technology and Society in Seventeenth Century En-
gland, Merton rifiutava le ortodossie marxiste e secolari dell'epo-
ca, secondo le quali la scienza era il trionfo dell'ateismo, e soste-
neva che fosse stato il puritanesimo a dar vita alla «Rivoluzione
scientifica». Secondo Merton, questo era accaduto perché i puri-
tani ragionavano (e presumibilmente erano stati i primi cristiani
a farlo) sul fatto che il mondo fosse opera di Dio, il che implica-
va che fosse loro dovere studiarlo e comprenderlo, come mezzo
per glorificare Dio. Dunque, sosteneva Merton, fra gli intellet-
tuali puritani deU'Inghilterra del XVIII secolo la scienza veniva
concepita come una vocazione religiosa. Ovviamente, la tesi di
Merton era un ampliamento delle affermazioni di Max Weber sul
ruolo dell'etica protestante nella nascita del capitalismo e, come
vedremo, era altrettanto insostenibile6.
Per sostenere la sua tesi, Merton passò in rassegna gli scritti
dei puritani che avevano contribuito alla «Rivoluzione scientifi-
ca», scoprendo che essi ponevano grandissima enfasi sul princi-
pio che la scienza consisteva nello studio dell'opera di Dio allo
scopo di poter apprezzare appieno la sua gloria. Per esempio, nel
210 A GLORIA DI DIO

suo testamento, Robert Boyle (1627-1691) si rivolse agli altri


membri della Royal Society di Londra, augurando loro ogni sue-
cesso «nei loro lodevoli sforzi di scoprire la vera N atura delle
Opere di Dio» e «pregava che loro e tutti gli altri ricercatori del-
le Verità fisiche» potessero, grazie a questi tentativi, accrescere
«la gloria del Grande Autore della Natura e il Conforto dell'U-
manità». Infatti, dal momento che i puritani credevano che il la-
voro fosse una chiamata di Dio, questi primi scienziati si davano
moltissima pena nel «giustificare le vie della scienza agli occhi di
Dio» (Merton 1938, pp. 447,450-451).
Mettendo insieme molte altre citazioni tratte dagli scritti di
scienziati inglesi del XVII secolo, Merton rese chiaro come, lun-
gi dall'essere un rifiuto della religione, per lo meno in Inghilter-
ra la «Rivoluzione scientifica» si era originata da motivazioni re-
ligiose di persone profondamente devote. Anticipando le criti-
che di coloro che avrebbero sostenuto che queste osservazioni
su Dio da parte dei prim i scienziati non erano altro che conven-
zioni letterarie dell'epoca o addirittura «calcolata ipocrisia»,
Merton osservò come molti di questi scienziati manifestassero la
loro religiosità in gesti non ambigui. Boyle, per esempio, spese
una parte considerevole dei suoi limitati fondi per far tradurre
la Bibbia in diverse lingue. John Ray lasciò Cambridge perché,
al momento della Restaurazione, per motivi religiosi non era di-
sposto a prestare il giuramento di fedeltà richiesto a Carlo II.
Anzi, Merton respinse tutti i sospetti di falsa religiosità come
«un'estrapolazione ingiustificata dalla società del XVII secolo di
credenze e attitudini del XX secolo». Poi, con un insolito cando-
re, osservò: «Benché serva sempre a gonfiare l'ego dell'icono-
clasta [...], lo "sfatare" può soppiantare la verità con l'errore»
(Merton 1938, p. 445).
Oltre a un'analisi della teologia puritana e delle sue implica-
zioni sullo studio dell'opera di Dio, Merton presentò dei dati
quantitativi sui primi appartenenti alla Royal Society di Londra,
dati che interpretò a sostegno della sua tesi per cui erano i puri-
tani a dominare l'associazione, composta da illustri scienziati in-
glesi del XVII secolo.
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 211

Negli anni, lo studio di Merton ha ricevuto moltissima atten-


zione. Come si aspettava, diversi iconoclasti hanno davvero sug-
gerito che, dal momento che i veri scienziati avevano conoscen-
ze sufficienti a non far abbracciare loro la religione, tutti i segni
della loro devozione dovevano essere per forza falsi. Per fortuna,
storici e sociologi della scienza hanno in larga misura ignorato si-
mili affermazioni, e si sono concentrati, giustamente, sui gravi
errori e sulla povertà della tesi di Merton.
Gli studiosi oggi ammettono che le affermazioni di Merton
erano fin troppo limitative7. La nascita della scienza non fu do-
vuta solo agli sforzi degli inglesi, né a quelli dei protestanti, e
tanto meno dei puritani. Così Keamey descrisse il rilevante cir-
colo intellettuale il cui principale ispiratore fu padre Marino
Mersenne (1588-1648), che, dal suo convento di Parigi, creò una
rete di corrispondenza che collegava

gli scienziati più importanti dell'epoca, indipendentemente da reli-


gione o nazionalità. [...] Collegò Cartesio in Olanda, Gassendi e
Peiresc in Provenza, Shickard a Tubinga, Nortensio a Leyden, Gali-
leo a Firenze e van Helmont a Bruxelles. [...] La corrispondenza di
Marsenne in effetti simbolizza il carattere europeo della scienza. [...]
L'Europa intellettuale dell'era di Galileo non teneva conto di quelli
che sarebbero stati i successivi confini nazionali. Né, ed è piuttosto
curioso, apparivano rilevanti le differenze religiose, nonostante
l'ombra della Guerra dei Trent'anni. (Kemey 1964, pp. 259-260)

Ovviamente, questo internazionalismo rifletteva la rete acca-


demica europea che esisteva fin dalla nascita delle università.
Sugli importanti «social network» che generavano e sostenevano
le innovazioni intellettuali sono state fatte molte analisi, che so-
no culminate nella straordinaria opera di Randall Collins sulle
reti intellettuali (1998). Infatti, ci sono stati molti studi sulle reti
di comunicazione scientifica, un certo numero dei quali seguì
Merton nell'esame della Royal Society di Londra (Hunter 1982 e
1989). Ma, come abbiamo visto, le reti di scambio scientifico in
Europa esistevano da secoli.
212 A GLORIA DI DIO

Un altro errore gravissimo nella tesi di Merton è dato dal fat-


to che non vi era nulla di nuovo, o protestante, nel credere che la
scienza fosse un tipo di indagine possibile, e degna. Come ab-
biamo visto, la scienza era già ben avviata prim a che esistessero
i protestanti, e i cattolici continuarono a svolgere un ruolo cru-
ciale nella fioritura scientifica del XVI e XVII secolo. Infine, è sta-
to dim ostrato come l'analisi di Merton si basi su una definizione
di «puritano» piuttosto estesa, che in pratica non escludeva nes-
suno - forse nemmeno i cattolici (Keamey 1964; Rabb 1965). Nel-
la concisa sintesi di Barbara J. Shapiro, «ciò che dice [Merton] è
essenzialmente che degli inglesi contribuirono alla scienza ingle-
se» (Shapiro 1968, p. 288).
Neppure i critici più severi di Merton sostennero però l'esi-
stenza di un'incompatibilità fra religione e scienza. Dunque, sarà
utile guardare più da vicino gli individui che hanno portato alla
nascita della scienza.

Le stelle della scienza: 1543-1680

Merton analizzò l'orientamento religioso dei membri della


Royal Society di Londra nel tentativo di sostenere la sua tesi in
merito al ruolo del puritanesimo. In seguito, questi dati sono sta-
ti rielaborati un certo numero di volte e con risultati diversi
(Feuer 1969; H unter 1982 e 1989; Shapiro 1968). Ma, per quanto
ne so, nessuno si è dedicato a qualcosa di simile per quanto ri-
guarda l'intero gruppo di stelle della scienza dell'epoca. Quindi,
ho creato io una raccolta dati dei singoli scienziati.
Come si può individuare la popolazione adatta a essere inse-
rita fra le stelle della scienza? In altre parole, come si decide
quando e chi? Gli storici di solito definiscono l'era della «Rivolu-
zione scientifica» come l'arco di tempo che va dalla pubblicazio-
ne del De revolutionibus di Copernico, nel 1543, alla fine del XVII
secolo (Cohen 1985a). Dunque, ho scelto Copernico come primo
caso, e ho incluso tutti gli altri casi appropriati, a partire dai suoi
contemporanei e fermandomi agli scienziati nati dopo il 1680.
Questo per quanto riguarda il «quando». Per il «chi» le cose so­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 2 13

no state un po' più difficili. Prima di tutto, mi sono limitato agli


studiosi attivi nella ricerca scientifica, escludendo quindi ben no-
ti filosofi e sostenitori della scienza come Francis Bacon, Joseph
Scaliger e Diego de Zufiiga. In secondo luogo, ho cercato di sce-
gliere solamente coloro che hanno dato un contributo significati-
vo. Per selezionarli, ho esaminato libri e articoli di storia della
scienza, e ho anche consultato alcune enciclopedie specializzate
e dizionari biografici, fra i quali devo citare le diverse edizioni
della Biographical Encyclopaedia of Science and Technology di Isaac
Asimov, per la sua completezza e mancanza di pregiudizi 8. Do-
po aver stilato un elenco di 52 scienziati, ho consultato diverse
fonti, fra le quali le biografie, per determinare gli elementi che
volevo codificare per ognuno. Il primo di questi è la nazionalità,
e il risultato è il seguente:

Numero Percentuale

Inglesi* 15 28,9
Francesi 9 17,3
Italiani 8 15,4
T edeschi 7 13,5
O lan d esi 5 9,6
D an esi 3 5,8
Fiam m inghi 2 3,8
Polacchi 2 3,8

S vedesi 1 1/9

52 100,0

*Compreso John Napier, matematico scozzese.

Com'è ovvio, gli inglesi hanno dato un apporto più elevato ri-
spetto a quanto faccia pensare la percentuale di primi scienziati
significativi. Tuttavia, rappresentarono comunque una percen-
tuale troppo bassa rispetto al totale per giustificare l'asserzione
di Merton, secondo il quale la scienza era nata in Inghilterra, an-
zi, fra i puritani inglesi.
214 A GLORIA DI DIO

Il secondo dato di cui ho tenuto conto è stata la confessione


religiosa di questi scienziati. Furono davvero, in maggioranza,
legati alla rivoluzione protestante?

Numero

P rotestanti 26

C attolici 26

Certamente no. Solo metà dei 52 scienziati era protestante.


Per di più, togliendo gli inglesi anglicani, i cattolici superavano
gli scienziati protestanti 26 a 11, il che probabilmente riflette le
differenze demografiche del totale della popolazione protestante
e cattolica dell'epoca.

Tabella 2.1 Stelle della scienza, 1543-1680

Totale (52) Protestanti (26) Cattolici (26)

Settore

Fisica 26,8% 26,9% 30,8%

A stro n o m ia 28,3% 34,6% 23,1%

M atem atica 23,1% 26,9% 19,2%

26,9%
Biologia /F isiologia 19,3% 11,6%

100% 100% 100%

Ecclesiastici?

Sì 28,8% 19,2% 38,5%

Devozione personale

D evoto 61,5% 69,2% 53,9%

N orm alm ente


34,7% 27,0% 42,3%
religioso

3,8%
Scettico 3,8% 3,8%

100% 100% 100%


L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 215

La tabella 2.1 consente di spiegare la distribuzione di altri tre


fattori da me presi in considerazione e le classificazioni trasver-
sali che permettono un confronto fra cattolici e protestanti. I da-
ti dimostrano che questi 52 scienziati erano uniformemente divi-
si su quattro settori, ma che i cattolici si dedicavano in percen-
tuali leggermente maggiori agli studi biologici o fisiologici ri-
spetto ai protestanti. Un po' più di un quarto di tali scienziati
(15) aveva seguito una carriera ecclesiastica - erano sacerdoti,
ministri, monaci, canonici e simili. Per i cattolici, la percentuale è
quasi doppia.
Il compito più ostico è stato quello di stabilire la religiosità per-
sonale. Non si trattava di equiparare la religiosità alla conformità
all'ortodossia prevalente, altrimenti si sarebbe stati costretti a so-
stenere che Martin Lutero e Giovanni Calvino non erano religiosi.
Per classificare qualcuno come devoto, ho cercato dei segnali evi-
denti di un interesse religioso particolarmente profondo. La clas-
sificazione normalmente religioso è quella di coloro che biografica-
mente non danno prova di scetticismo, ma la cui devozione non
emerge al di sopra di una soddisfazione piena. Un esempio è Mar-
cello Malpighi, la cui osservazione della crescita del cuore di un
pollo è ritenuta il più importante conseguimento della biologia del
XVII secolo. La biografia di Malpighi non mostra evidenti interes-
si o preoccupazioni nei confronti di Dio d'intensità simile a quelli
di Boyle o Newton. D'altra parte, egli si ritirò a Roma per presta-
re servizio come medico personale di papa Innocenzo XII, un pon-
tefice devotissimo della Controriforma, che probabilmente si
aspettava un simile livello di religiosità anche da coloro che lo cir-
condavano (Cheetham 1983). Quindi, al massimo posso dire di
aver sottostimato il suo livello di religiosità; simili sottovalutazio-
ni possono essere la vera spiegazione delle modeste differenze fra
cattolici e protestanti mostrate in tabella 2.1.
Infine, ho incluso nella categoria degli scettici quegli scienzia-
ti per i quali è possibile presumere che non credessero che il
mondo fosse l'opera di un Dio consapevole e disponibile - in prati-
ca, avrei dovuto inserirvi tutti i philosophes francesi.
216 A GLORIA DI DIO

L'aspetto più importante della tabella 2.1 è il fatto che fra co-
loro che fecero la «Rivoluzione scientifica» c'era un numero in-
solitamente elevato di devoti cristiani - più del 60% viene classi-
ficato come devoto, e solo due, Edm und Halley e Paracelso, co-
me scettici9. Dato il generale esibizionismo di Paracelso, è diffi-
cile sapere cosa credesse o non credesse in merito a Dio. Sappia-
mo che professava ima fede nell'astrologia e nella forma ermeti-
ca di magia rituale (si veda il capitolo 3). Per quanto riguarda
Halley, è probabile che fosse ateo (Brooke 1991; Jaki 2000). In
ogni caso, la proporzione di devoti è impressionante se pensia-
mo che, contrariamente a quanto si crede, durante il Medioevo
gli europei non erano più devoti di quanto lo siano oggi (Stark
1999). Se vi fossero ancora dei dubbi a riguardo, questi dati chia-
riscono del tu\to il fatto che la religione svolse un ruolo sostan-
ziale nella nascita della scienza. (L'elenco completo dei casi e del-
le categorie di religiosità è fornito nell'Appendice 2.1.)

Galileo

E Galileo? La storia della persecuzione di Galileo Galilei


(1564-1642) è famosa tanto quanto quella di Colombo e la Terra
piatta, benché, in questo caso, la versione tradizionale dei fatti
sia in un certo senso più veritiera (Brooke, Cantor 1998; Langford
1971; Shea 1986). Egli fu una delle più grandi figure della storia
della scienza; in età avanzata entrò in conflitto con la Chiesa cat-
tolica, fu costretto a ripudiare le proprie convinzioni sul fatto che
la Terra girasse intorno al sole, e venne condannato a vivere in
isolamento gli ultimi nove anni della sua vita. Ma c'è molto più
di questo, e i fatti, trascurati o ignorati volutamente, mettono le
cose sotto una luce in un certo senso diversa; vale a dire, i prò-
blemi di Galileo furono causati tanto dalla sua arroganza quanto
dalle sue idee scientifiche. Le cose andarono così.
Molto prima di salire al trono di Pietro, quand'era ancora il car-
dinaie Matteo Barberini, papa Urbano VIII (1623-1644) conosceva e
apprezzava Galileo. Quando pubblicò il suo 11 saggiatore, nel 1623,
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 217

Galileo lo dedicò a Barberini, e pare che questi avesse trovato mol-


to divertenti gli sgradevoli insulti diretti ai diversi studiosi gesuiti.
Anzi, Barberini fu spinto addirittura a scrivere un poema adulato-
rio sulla gloria dell'astronomia. Bene. Ma allora cosa andò storto?
Si tenga presente che tutto accadde in un'epoca in cui la
Riforma rappresentava una sfida nell'Europa settentrionale, la
Guerra dei Trent'anni infuriava, e la Controriforma era ben av-
viata. In tali circostanze, la gerarchia cattolica divenne sempre
più sensibile agli attacchi protestanti che si basavano sull'accu-
sa che i cattolici non fossero fedeli alla Bibbia; per molti uomini
della Chiesa, l'accettazione della concezione copernicana del si-
stema solare era un manifestazione di questa infedeltà alle Scrit-
ture 10. Comunque, la questione principale era quella dell'auto‫־‬
rità della Chiesa; m an mano che si procedeva con la Contro-
riforma, venivano stabiliti in maniera sempre più rigorosa i con-
fini della teologia ortodossa (capitolo 1). Eppure, la gran parte
dei leader della Chiesa, compreso il Papa, non era disposta a
condannare la scienza e a imporre un'ortodossia inflessibile.
Piuttosto, proponeva delle strade lungo le quali gli scienziati
potevano evitare il conflitto teologico. Per esempio, padre Mari-
no Marsenne diceva alla sua rete di corrispondenti che Dio era
libero di collocare la Terra dove voleva, e che era dovere degli
scienziati scoprirne la collocazione (Brooke, Cantor 1998, p. 20).
Altri importanti cattolici erano più circospetti, osservando che
non esistevano obiezioni teologiche alla proposizione di conclu-
sioni ipotetiche o matematiche.
In questo spirito, il Papa rassicurò Galileo sul fatto che non
avrebbe avuto nulla da temere fino a quando avesse esplicita-
to che parlava da matematico, e non da teologo. In particolare,
papa Urbano disse a Galileo di riconoscere, nelle sue pubbli-
cazioni, che «delle conclusioni definitive non potevano rag-
giungersi nelle scienze fisiche. Dio nella sua onnipotenza po-
teva produrre un fenomeno naturale in diversi m odi e dunque
era presuntuoso per qualsiasi filosofo affermare di aver stabi‫־‬
lito l'unica soluzione» (Brooke, Cantor 1998, p. 110). Era uno
stratagem m a abbastanza semplice, simile a quell'aggettivo
218 A GLORIA DI DIO

«ipotetico» che gli Scolastici allegavano spesso alle proprie


opere scientifiche. Per di più, per un uomo che spesso aveva
dichiarato, falsamente, di aver davvero svolto ricerche al me-
glio «ipotetiche» (come l'aver fatto cadere dei pesi dalla torre
pendente di Pisa), la cosa non avrebbe sicuram ente urtato
eventuali standard etici.
Quando pubblicò il suo famoso Dialogo sopra i due massimi si-
stemi del mondo, nel 1632, Galileo incluse la formula suggeritagli,
ma la fece pronunciare a Simplicio, lo sciocco che nel testo dava
voce a tutti gli «errori», e la cui correzione era il motore princi-
pale del libro. Inoltre, ingannò il Papa sulla data di pubblicazio-
ne del libro, così che esso uscì inaspettatamente, originando un
uragano di controversie che richiedevano risposte. Com'è com-
prensibile, il Papa si sentì tradito, ma pare che Galileo non lo ca-
pisse, e che fosse incline a dare tutta la colpa dei propri problemi
ai gesuiti (i quali, probabilmente, non avevano avuto nessun
ruolo significativo nella questione, nonostante i suoi insulti) e ai
seguaci di Aristotele, in particolare i professori (anch'essi vitti-
me, in quanto gruppo, del suo umorismo acido). Nonostante tut-
to questo, il Papa frustrò ogni tentativo di imporre conseguenze
più serie a Galileo. Ciò nonostante, lo scandalo causato da Gali-
leo contribuì a provocare un generale restringimento della li-
bertà intellettuale da parte della Chiesa - anche se ormai era
troppo tardi per impedire ai cattolici di partecipare alla nascita
della scienza.
Benché venga costantemente presentato come ima prova
schiacciante contro la religione, cosa rivela il caso Galilei? Sicura-
mente dimostra che le organizzazioni potenti spesso abusano del
loro potere. Ma evidenzia anche come Galileo non fosse proprio
una vittima innocente: non solo sfidò inutilmente il fato, ma con
noncuranza mise in pericolo l'intera impresa della scienza. E al di
là di questo, il caso non dimostra affatto quello che la maggioran-
za degli oppositori della religione spera continuando a ripeterlo.
Infatti, nonostante tutto, Galileo non nutriva alcun dubbio su Dio
e si considerò sempre un buon cattolico. Come ha osservato Wil-
liam Shea, «se Galileo fosse stato meno devoto, si sarebbe rifiuta­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 219

to di andare a Roma [convocato dal Sant'Uffizio]; Venezia gli ave-


va offerto asilo» (Shea 1986, p. 132). Dunque, non c'è alcun moti-
vo per mettere in dubbio la sua sincerità quando scrive che «il li-
bro della natura è un libro scritto dalla mano di Dio nel linguag-
gio della matematica» (Confessioni 12,23-24). L'insegnamento più
importante da trarre da questo caso è che, mentre le visioni reli-
giose di papa Urbano Vili possono aver influito negativamente
sul destino di Galileo a causa delle sue visioni scientifiche, la
scienza di Galileo non risentì delle sue stesse credenze religiose.
E questo va tenuto ben presente per accettare, come faccio io,
l'idea che la scienza fu figlia legittima della teologia cristiana, il
che non significa supporre che simile dipendenza sia durata a
lungo. Una volta adeguatamente avviata, la scienza fu in grado
di procedere in modo autonomo e presto sviluppò i propri mo-
tori e i propri impeti. Significa anche, e ho intenzione di dimo-
strarlo, che motivazioni e slanci scientifici non sono incompati-
bili con la religione. Per di più, quando scienza e religione sem-
brano collidere, di solito sorgono dei dubbi sull'effettiva dimen-
sione scientifica e /o religiosa delle questioni in gioco. L'«Illuini-
nismo» ci offre un significativo esempio di ciò.

L'«Illuminismo»

L'identificazione dell'epoca iniziata intorno al 1650 come «II-


luminismo» è inappropriata tanto quanto l'identificazione del
millennio precedente come «Secoli Bui». Entrambe le imputazio-
ni, per di più, furono mosse dalle stesse persone - intellettuali
che desideravano screditare la religione, soprattutto la Chiesa
cattolica romana, e che di conseguenza associarono la fede con
l'oscurità e l'Umanesimo secolare con la luce. A tal fine, si prese-
ro i meriti della «Rivoluzione scientifica», anche se nessuno di lo-
ro aveva svolto un ruolo significativo nell'impresa della scienza.
Uno dei loro primi passi fu quello di designare la propria epo-
ca come «Illuminismo», e sostenere che fosse una rottura im-
provvisa e totale con il passato. A questo scopo vennero inventa­
220 A GLORIA DI DIO

ti i «Secoli Bui». Fra i primissimi a farlo, Voltaire (1694-1778) de-


scrisse un'Europa medievale disperatamente impantanata nel
«decadimento e nella degenerazione» (Works voi. 1, p. 183). E
questo divenne lo slogan ufficiale. Jean-Jacques Rousseau (1712-
1778) scrisse dei secoli precedenti: «L'Europa era ricaduta nella
barbarie dei suoi prim i tempi. I popoli di questa parte del mon-
do, oggi così illuminati, alcuni secoli fa vivevano in una condi-
zione peggiore dell'ignoranza» (Works voi. 3, p. 183). Un secolo
dopo, quando Jacob Burckhardt (1818-1897) rese popolare l'idea
del «Rinascimento», i «Secoli Bui» erano ormai una certezza sto-
rica, che non sarebbe stata superata fino al XX secolo inoltrato ‫ ״‬.
Per di più, non bastava dare al cristianesimo la colpa per i
«Secoli Bui»; alla religione andava negato ogni merito per la na-
scita della scienza. Quindi, era necessario screditare i successi
dell'era della Scolastica. In conformità con tale scopo, John Locke
(1632-1704) accusò la Scolastica di essersi persa senza speranza
in un labirinto di preoccupazioni triviali, con «grandi coniatori»
di termini inutili da usare come «espediente per coprire la loro
ignoranza» (Saggio sull'intelletto umano 3.9). In modo simile, uno
dopo l'altro i philosophes condannarono il sapere cattolico, fino a
quando il termine «scolastico» divenne un epiteto per «pedante
e dogmatico», come mostra una qualunque versione del dizio-
nario Webster.
Tolto di mezzo il passato, l'aspetto centrale della campagna
condotta da David Hume, Voltaire e altri, fu quello di fare propri
i successi della scienza per avvalorare la propria condanna della
religione, in generale, e del cattolicesimo, in particolare. Franklin
L. Baumer osservò che «rUluminismo fu una gradiosa epoca di
fede». Poi, si chiese retoricamente: «Ma di fede in cosa?». Non in
qualche religione, ma «nel potere dell'uomo» (Baumer 1960, p.
67). E la prova di questo potere era la scienza, la quale, per para-
frasare Laplace, faceva di Dio un'ipotesi non necessaria. Non im-
portava se le vere scoperte erano state fatte da «cristiani seri e
spesso devoti» (Gay 1966, p. 23). Ciò che importava era, con le
parole di Peter Gay, che «la scienza poteva dare grande conforto
a deisti e atei e fornire loro tutto ciò che volevano - la fisica di
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 222

Newton senza il Dio di Newton» (Gay 1969, p. 145). Infatti, an-


che se Voltaire e la sua cerchia furono attenti nelTammettere la
devozione di Newton a un Creatore (benché descritto come un
motore primo, lontano e impersonale), le successive generazioni
di ideologi «illuministi» si diedero molta pena di minimizzare
ulteriormente la dimensione della sua fede.

N ew ton deificato e falsificato

Una delle prim e azioni di coloro che proclamarono r«Illu-


minismo« fu la «deificazione di Newton» (Gay 1969, p. 130).
Voltaire diede l'esem pio, definendolo l'uom o più grande che
fosse mai vissuto (nella lettera 12 delle L ettere inglesi). Iniziò
così una produzione senza uguali di prosa eccellente e poesia
eccessiva. David H um e scrisse che N ew ton era «il più grande
e raro genio mai nato per l'ornam ento e l'istruzione della spe-
eie» (in Storia d'Inghilterra). Come ha osservato Gay, «gli ag-
gettivi "divino" e "im m ortale" divennero praticam ente obbli-
gatori» (Gay 1969, p. 131). Per esempio, nel suo P an egyrick on
thè N ew tonian P hilosophy (1750), Benjamin M artin scrive: «Un
mistero che fu nascosto al tem po e alle generazioni; ma ora è
reso manifesto a tutte le nazioni, grazie alle divine opere del-
l'im m ortale sir Isaac Newton» (in Hindle 1956, p. 80). Nel 1802
il filosofo francese Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825)
fondò una religione atea che doveva essere guidata da sacer-
doti-scienziati e che chiamò Religione di Newton; il suo allie-
vo, Auguste Comte, la rinom inò poi «sociologia» (Manuel
1974, p. 53).
Tuttavia, man mano che !'«Illuminismo» diventava sempre
più esplicitamente ateo e determinato a stabilire l'incompatibi-
lità di scienza e religione, emergeva un urgente interrogativo: co-
sa fare della religione di Newton? Il problema era che le idee re-
ligiose di Newton non erano una questione di sentito dire. Egli
stesso, nel 1713, aveva aggiunto alla seconda edizione della sua
opera monumentale, Principia, ima sezione conclusiva, lo Scho-
222 Λ GLORIA DI DIO

lium Generale, dedicata interamente alle sue concezioni di Dio.


Qui, Newton cercava di dimostrare l'esistenza di Dio, conclu-
dendo che:

Il vero Dio è un Essere vivente, intelligente, potente.


Egli governa tutte le cose, e conosce tutte le cose che sono state fat-
te o che possono essere fatte.
Egli dura per sempre, ed è presente ovunque.
Come un cieco non ha alcuna idea dei colori, così noi non abbiamo
idea del modo in cui il Dio onnisciente percepisce e capisce tutte le
cose. (Newton 1934, pp. 543-547)

Ancora peggio, Newton aveva scritto quattro lettere negli


anni 1692-1693, nelle quali spiegava la sua teologia a Richard
Bentley, mettendo in ridicolo l'idea che il mondo possa essere
spiegato in termini impersonali e meccanicistici. Soprattutto,
avendo scoperto le eleganti leggi dei fenomeni naturali, Newton
credeva di aver dimostrato, una volta per tutte, la certezza che
dietro a tutta l'esistenza dovesse esserci un Dio intelligente, do-
tato di consapevolezza e onnipotente. Qualsiasi altra assunzio-
ne sarebbe stata «incoerente con il mio sistema» (in H urlbutt
1985, p. 7). Infine, Newton aveva lasciato dietro di sé un'enorm e
raccolta di manoscritti non pubblicati, alcuni dei quali aveva ri-
scritto diverse volte, pensando a ima pubblicazione postum a 12.
Come vedremo, questi scritti si dimostrarono problematici per
coloro che desideravano affermare l'assoluta ortodossia anglica-
na di Newton, ma assolutamente devastanti per chi lo proda-
mava l'eroe della razionalità secolare. Prima di prendere in esa-
me il contenuto di questi scritti, sarà utile capire come ognuno
di questi gruppi d'interesse abbia falsificato la figura di Newton
davanti alla storia.
I primi falsari furono cristiani devoti che cercarono di soppri-
mere le visioni moderatamente eretiche di Newton in merito al-
la Trinità. Newton, infatti, non credeva che Gesù fosse davvero il
Figlio di Dio. Piuttosto, riteneva che, al momento della Risurre-
zione, Gesù fosse divenuto immortale, divenendo solo in quel mo­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 223

mento il Figlio di Dio. Inoltre, come vedremo, Newton credeva


fermamente nella Seconda Venuta. Benché su basi puramente
tecniche si potrebbe sostenere che fosse un non-trinitario, non si
può neanche dire che fosse un «unitariano», né alcun tipo di dei-
sta - il suo Dio non era ima «Causa prima» remota e priva di co-
scienza. Ciò nonostante, molti dei suoi colleghi ritennero fosse
meglio tener celate le sue idee, e negare anche il minimo allonta-
namento dall'ortodossia. Nel farlo, però, fornirono ad altri falsa-
ri l'opportunità di sostenere che le espressioni di fede di Newton
non fossero sincere.
Q uando N ewton morì, la Royal Society di Londra nominò
una commissione incaricata di esaminare le sue carte, la quale
decise «in virtù del carattere teologico della maggior parte di es-
se, che non dovevano essere stampate» (McLachlan 1941, p.
165). Tuttavia, la commissione le affida a uno dei suoi membri,
Thomas Pellett, affinché le valutasse con maggiore attenzione e
le selezionasse per la stampa. Questi scoprì che i manoscritti
erano costituiti da 82 opere diverse, alcune davvero molto lun-
ghe, per un totale di più di quattro milioni di parole. Da questo
tesoro, Pellett scelse per la pubblicazione solamente due opere
molto brevi, annotando un «Non adatto alla pubblicazione» nel-
la prim a pagina della maggior parte delle opere restanti. Il con-
trollo di queste carte, poi, passò alla nipote di Newton, Catheri-
ne Conduitt (che aveva vissuto con lui molti anni). La donna de-
cise che si doveva pubblicare gran parte degli scritti dello zio,
ma ricevette l'ordine che «i documenti fossero attentamente cu-
stoditi» e che nulla venisse copiato o stampato senza un ulterio-
re esame da parte del reverendo Arthur Ashley Sykes (1684-
1756). Q uando Catherine Conduitt morì, i manoscritti vennero
ereditati da suo zio, Earl di Portsmouth, motivo per cui diven-
nero noti come «Portsmouth Collection» (Christianson 1984;
More 1934). Quando esaminò la raccolta, negli anni '90 del 1700,
Charles H utton commentò la loro quantità osservando che «ci
sono più di quattromila fogli, in folio, oltre ai libri rilegati»
(McLachlan 1941, p. 167). Ma non svelò nulla in merito ai con-
tenuti. E non lo fece neppure Samuel Horsley quando pubblicò
22 4 A GLORIA DI DIO

un'edizione delle opere di N ewton - «essendo più ansioso di


sopprimere le eresie di N ewton che non di renderle pubbliche»
(McLachlan 1941, p. 167). E fu così che la maggior parte degli
scritti di Newton rimase sotto chiave e travisata nei contenuti
dai pochi privilegiati che vi avevano avuto accesso. La prima
biografia di Newton, scritta negli anni '20 del 1700 dall'amico
William Stukeley, lo ritraeva quasi come un santo e senza nes-
suna traccia di eresia. N eppure il suo grande biografo successi-
vo, David Brewster (Brewster 1855 e 1871), fu disposto a ricono-
scere le escursioni teologiche di Newton, nonostante avesse
avuto accesso alla raccolta di manoscritti.
Anche dalla parte atea vennero i travisamenti, ma si riferiva-
no solo alle opere sulla religione pubblicate. Come abbiamo già
osservato, ima tattica era quella di sminuire ogni sua afferma-
zione come insincera, come nient'altro che ima sottomissione su-
perficiale alle autorità religiose adottata per evitare i problemi e
nella speranza di una promozione. Si dichiarò, per esempio, che
Newton aggiunse lo Scholium Generale solamente «per dissipare
i sospetti di ateismo» (Hurlbutt 1985, p. 14). Per di più, lo aveva
scritto solamente nel 1713, quando Newton aveva passato i set-
tant'anni, e non si doveva perciò giudicarlo in base alle azioni
della sua poco lucida vecchiaia. La scusante della religiosità in-
sincera e interessata ovviamente non poteva essere utilizzata per
le dichiarazioni di fede espresse nelle lettere a Bentley, dal mo-
mento che si trattava di comunicazioni private rivolte a un de-
voto ammiratore. Per superare il problema, benché non vi fosse
nessuna motivazione legittima per farlo, diversi autori ridataro-
no le lettere a un periodo successivo al 1713 (mentre erano del
1692) e liquidarono anche queste come opera di un uomo che
aveva ormai perduto la sua lucidità intellettuale (in Brewster
1871, pp. 242-245). Anzi, Jean-Baptiste Biot (1774-1862) liquidò
tutto ciò che Newton scrisse dopo i quarantacinque anni come la
fantasia di un uomo anziano che aveva perso le sue facoltà men-
tali, e sostenne che tutti gli scritti e gli interessi religiosi di New-
ton fossero conseguenti al declino mentale (in Brewster 1871, p.
206; Manuel 1968 e 1974). Oppure, come affermò il philosophe ba­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 225

rone d'Holbach (1723-1789), «il sublime Newton è poco più di un


bambino, quando abbandona la fisica e l'evidenza per perdersi
nelle regioni immaginarie della teologia» (in Buckley 1987, p.
310).
Così, nonostante i fatti dimostrino il contrario, nei «circoli il-
luminati» l'opinione prevalente era che durante i suoi fulgidi
giorni da scienziato, Newton era stato tutt'al più un deista alla
maniera di Hume, Voltaire e dei philosophes. Friedrich Engels
(1820-1895) sostenne che benché Newton concedesse «a Dio il
"primo impulso", gli negò qualsiasi ulteriore interferenza nel
suo sistema solare» (Marx, Engels 1964, p. 192). Eric Tempie Bell
scrisse nel suo famoso Men of Mathematics [ed. it. I grandi mate-
matici, 1950], che «Newton tuttavia permise alla sua scienza ra-
zionale di influenzare le sue credenze al punto di fare di lui ciò
che oggi chiameremo un unitariano» (Bell 1937, p. 96). Oppure,
come spiegò Gerald R. Cragg, Newton era «un deista» perché
«ignorò le asserzioni della rivelazione» (Cragg 1964, p. 13).
Nel frattempo, le opere di Newton requisite venivano control-
late. Nel 1872 Portsmouth chiese a degli archivisti dell'università
di Cambridge di catalogare la raccolta e di conservare qualsiasi
documento avesse un valore scientifico. Dopo aver diviso in ca-
tegorie i manoscritti, gli archivisti ritennero che non vi fosse pra-
ticamente nulla di «scientifico»; dunque, quasi tutta la raccolta fu
riconsegnata a Portsmouth secondo i termini degli accordi inizia-
li. Sei decenni dopo, un biografo americano di Newton consultò
il breve inventario stilato dagli esperti di Cambridge e trovò le
prove dell'enorme produzione teologica di Newton, ma il conte-
nuto degli scritti rimase sconosciuto (More 1934). Infine, nel 1936,
a causa delle imposte britanniche sui lasciti, il conte di Port-
smouth dell'epoca consegnò la raccolta a Sotheby and Company,
la famosa casa d'aste di Londra. I manoscritti e i documenti di
Newton furono messi all'asta in 329 lotti, rendendo così molto
probabile una loro disseminazione fra acquirenti intemazionali.
All'epoca, alcuni studiosi di Newton davano per scontato che sa-
rebbe accaduto proprio questo (McLachlan 1941, p. 172). Ma non
fu così, grazie a un economista di Cambridge, il quale ricorse a
226 A GLORIA DI DIO

tutti i propri fondi e studiò il catalogo d'asta con attenzione, in


modo da tenere insieme i manoscritti più importanti (Hall 1992;
Munby 1952).
John Maynard Keynes (1883-1946) fu probabilmente l'econo-
mista più famoso e influente del XX secolo, oltre che il più devo-
to collezionista di documenti newtoniani. Secondo Munby, bi-
bliotecario di Cambridge e biografo di Keynes, il grande econo-
mista iniziò la sua collezione nel 1905, quando comprò da un li-
brario di Cambridge ima rara prim a edizione dei Principia per
«quattro scellini, un affare incredibile persino per quell'epoca»
(Munby 1952, p. 48). Quando venne a sapere che la Portsmouth
Collection sarebbe stata messa all'asta, Keynes «con la sua ener-
già caratteristica e il suo senso civico si accollò l'onere di racco-
gliere nella sua biblioteca tutto il materiale che poteva» (Munby
1952, p. 41). Dal momento che Newton aveva ricopiato con cura
i manoscritti più importanti, ce n'erano due o tre copie di ognu-
no. Così, Keynes potè selezionare i propri obiettivi, stando at-
tento a non «perdere la benevolenza dei librai» che costituivano
il grosso degli altri partecipanti all'asta, in modo da poter com-
prare da loro molti manoscritti in un momento successivo. Du-
rante la vendita, che incassò un totale di poco meno di 10.000
sterline, Keynes comprò 38 dei 329 lotti offerti. Nel giro dei due
mesi successivi, ne comprò altri 92. Secondo Munby, in totale
Keynes spese 3000 sterline, circa 15.000 dollari - una somma no-
tevole per un professore di quell'epoca, ma una miseria in ter-
mini di valore assoluto. Mentre lavorava per poter acquistare i
più importanti scritti di Newton non pubblicati, Keynes teneva
una corrispondenza con A. S. Yahuda, un professore di Yale che
stava acquistando i manoscritti teologici di Newton dai rivendi-
tori americani - principalmente dei duplicati di quelli raccolti da
Keynes. Nel suo testamento, Keynes lasciò l'intera collezione al
suo college di Cambridge (il King's College). La collezione di
Yahuda oggi è custodita alla Hebrew National and University Li-
brary di Gerusalemme 13.
Grazie al fatto che il catalogo di Sotheby era «un modello di
colta [...] presentazione [...] e deve sempre rimanere il testo di ri­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 227

ferimento per gli studiosi che si occupano di Newton» (Munby


1952, p. 41), Keynes sapeva molte cose su ciò che comprava. Ciò
nonostante, fu stupito dal contenuto dei manoscritti. Essi rivela-
vano che anche nei primi anni di successi scientifici, Newton si
interessava di teologia e delle profezie bibliche tanto quanto di
fisica - il suo lascito in merito a tali argomenti è infatti di più di
un milione di parole. Per esempio, in un'opera sulle profezie bi-
bliche, iniziata negli anni '70 del 1600 e continuata con aggiunte
e revisioni fino al mese in cui morì, nel 1727, Newton calcolò, fra
le altre cose, che la Seconda Venuta sarebbe stata nel 1948, quat-
tro anni dopo la «fine della grande tribolazione degli ebrei»
(White 1997, pp. 158-162). I documenti rivelavano anche che
Newton era profondamente dedito all'astrologia e che aveva de-
dicato molti anni a un'intensa attività alchemica, lasciando un al-
tro milione di parole su questo argomento (Dobbs 1975 e 1991).
Keynes capì subito l'importanza storica di queste carte, e prò-
gettò di scriverne in maniera estesa. Il primo lavoro a questo prò-
posito fu un saggio, Newton, thè Man, scritto per la Royal Society
di Londra in occasione della celebrazione del terzo centenario
della nascita di Newton, nel 1946 (rimandato di quattro anni a
causa della seconda guerra mondiale). Purtroppo, Keynes morì
in modo improvviso molti mesi prima dell'evento, e così il suo
saggio fu letto dal fratello Geoffrey. È imo dei migliori esempi
dell'eloquenza di Keynes:

A partire dal XVIII secolo Newton fu considerato il primo e mag-


giore scienziato dell'età moderna, un razionalista, un uomo che ci
insegnò a pensare lungo le direttrici di una ragione fredda e pura.
Non lo vedo in questa luce. Non credo che chiunque abbia esami-
nato i contenuti [di questi manoscritti] possa vederlo così. Newton
[...] guardava all'intero universo e ciò che è in esso come a un enig-
ma, un segreto che poteva essere dischiuso applicando il puro pen-
siero all'evidenza certa, a indizi mistici che Dio aveva sparso nel
mondo per consentire una sorta di caccia al tesoro per filosofi [...].
Egli credeva che tali indizi si potessero trovare in parte nell'evi-
denza dei cieli e nella costituzione degli elementi [...] ma in parte
22 8 A GLORIA DI DIO

anche in alcuni documenti e tradizioni trasmessi [...] in una catena


ininterrotta, iniziata fin dall'originaria rivelazione criptica a Babi-
Ionia. Egli considerava l'universo come un crittogramma dell'On-
nipotente.

Dunque ora sappiamo tutto. Il vero Isaac Newton era lo stu-


dioso dell'opera di Dio per eccellenza, e credeva non solamente
nell'esistenza di leggi fisiche ma anche di leggi divine simili che
governavano la sto ria14. I due secoli di tentativi di dipingere
Isaac Newton come un uomo troppo sofisticato per credere in
Dio erano motivati esattamente dalle stesse ragioni che sotto-
stavano ai falsi racconti su Colombo, Vesalio, i «Secoli Bui»,
!'«Illuminismo» e la «Scolastica». Cioè: la scienza è contraria al-
la religione. Non si può giungere a nessun successo scientifico
importante e non si può nemmeno comprenderlo pienamente se
la nostra mente è dominata dalla «superstizione». La «Rivolu-
zione scientifica» fu fatta da «uomini illuminati», che quindi ci
hanno illuminato, facendo sì che risultasse impossibile per una
persona intelligente essere anche religiosa. Questi sono gli sio-
gan delle campagne polemiche più lunghe ed efficaci della sto-
ria dell'Occidente. Tuttavia, benché questa campagna abbia
avuto un im patto molto significativo sul mondo intellettuale in
generale, com'è evidente anche dai dizionari, stranamente non
ha avuto quasi nessun effetto fra gli scienziati. Coloro che fece-
ro davvero la «Rivoluzione scientifica» erano molto devoti, dun-
que, e la tradizione è continuata. Per esempio, per quasi tutto il
XIX secolo, la scienza rimase una vocazione religiosa tanto
quanto secolare, e i tentativi di districare l'enigma dell'opera di
Dio continuarono.

L'«Opera» di Dio e la scienza del X IX secolo

Forse solamente durante l'epoca della Scolastica vi fu un rap-


porto così stretto e creativo fra teologia e scienza quale quello
avuto nel XIX secolo. In realtà, mentre la prim a scienza fu stimo­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 229

lata dalla teologia, nel XIX secolo fu la teologia a essere stimola-


ta dalle ultime scoperte scientifiche, ritrovando in queste la prò-
va schiacciante di dogmi religiosi fondamentali - un approccio
noto con l'espressione «teologia naturale». I suoi sostenitori ri-
fiutavano la mera speculazione a favore di un'osservazione at-
tenta della natura. Anzi, «il teologo naturale doveva essere uno
scienziato [che praticava] una disciplina in cui la filosofia cristia-
na e la scienza empirica si fondevano» (Hovenkamp 1978, p. ix).
Quindi, mentre un tempo la religione aveva incoraggiato la sup-
posizione che esistessero delle leggi naturali immutabili, ora ufi-
lizzava la precisione di tali leggi per dimostrare l'esistenza di
Dio. Ciò divenne noto come l'Argomento del Disegno divino:
scoprire nella complessità del mondo la necessità di un Creatore.
Nessuno più del religioso inglese William Paley (1743-1805)
rese popolare il concetto di un Disegno divino dietro alla crea-
zione. Nella sua importantissima Naturai Theology [ed. it. Teologia
naturale, 1808] Paley prese in considerazione le implicazioni insi-
te nel ritrovamento di una roccia in un terreno. Se ci si chiede co-
me abbia fatto ad arrivare lì, la risposta giusta sarebbe che forse
«è lì da sempre». Diversamente, supponiamo «che si trovi un
orologio per terra». Non diremmo che è lì da sempre, poiché,
esaminando un orologio, è assurdo ritenere che sia giunto a esi-
stere per caso - qualsiasi orologio rivela di per se stesso di esse-
re una creazione. Al confronto anche del miglior orologio esisten-
te, l'organismo biologico meno complesso è chiaramente un
«meccanismo» molto più sofisticato, e ci spinge a presupporre
l'esistenza di un Creatore (Paley [1803] 1809, p. 5). Nel resto del
libro, Paley esplora le complessità di una varietà di diversi mec-
cartismi biologici. Infatti, benché ciò possa sorprendere la mag-
gior parte dei lettori, l'evidenza dimostrata dai reperti fossili di
uno sviluppo progressivo da forme più semplici a organismi più
complessi, di animali esistenti molto prima della comparsa del-
l'uomo, o il fatto altrettanto evidente che le stelle siano molto più
antiche della Terra, non turbarono la maggioranza dei teologi cri-
stiani! Anzi, esisteva una letteratura immensa, oggi non conside-
rata, sulla teologia naturale, che evidenziava il rapporto molto
230 A GLORIA DI DIO

stretto fra le ultime scoperte scientifiche - soprattutto in biologia,


geologia e astronomia - e la teologia cristiana. Non si trattava di
ima letteratura di difesa, e potremmo definirla meglio come una
celebrazione entusiasta delTopera di Dio: l'immagine di Dio di
Paley come un Divino orologiaio esprime pienamente lo spirito
dell'epoca. Ci imbatteremo ancora in Paley nel capitolo 4, poiché,
molto prim a di scrivere sulla teologia naturale, fu un forte oppo-
sitore della schiavitù, pratica del tutto incompatibile con il vero
cristianesimo.
Durante il XIX secolo, furono costruiti osservatori astronomi-
ci in molte città degli Stati Uniti tramite campagne pubbliche di
raccolta fondi. In quasi tutti i casi le campagne erano organizza-
te e avevano come target principale cristiani devoti, i quali vole-
vano dare alle persone la possibilità di osservare le meraviglie
dell'opera di Dio. I più importanti astronomi erano popolari
ospiti dei circoli religiosi e scientifici - sempre che sia possibile,
in effetti, distinguere le due cose in quell'epoca. Il sistema di
istruzione superiore in rapida crescita negli Stati Uniti, dove si
trovava la maggior parte degli scienziati, era di per sé una crea-
zione religiosa, ispirata dalla concorrenza fra confessioni. Per di
più, non erano solamente i teologi a voler unire scienza e reli-
gione; sforzi simili erano tipici anche degli scienziati dell'epoca.
Per esempio, Louis Agassiz (1807-1862), fra i più importanti geo-
logi del XIX secolo e il primo a detenere una cattedra a Harvard,
combinò i risultati del suo brillante lavoro (compresa la ricerca
pionieristica sull'Era Glaciale) con eleganti espressioni dell'Ar-
gomento del Disegno divino. Anzi, nella sua monumentale ope-
ra Contributions to thè Naturai History of thè United States (1857-
1862), Agassiz sostenne che i tentativi di costruire dei sistemi di
classificazione biologica non rappresentavano il tentativo di im-
porre la comprensione um ana sul mondo naturale, ma di scopri-
re la classificazione esistente «nella mente del Creatore». Nel suo
commento al primo volume di quest'opera, James Dwight Dana
scrisse nell'«American Journal of Science» che esso portava «la
scienza a un livello più elevato di quello che era stato ottenuto in
precedenza» (Dana 1858, p. 341). La descrizione dello stesso Da-
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 231

na deH'«armonia» fra teologia e scienza, in un saggio intitolato


Thoughts on Species, fu considerata talmente rilevante da essere
pubblicata contemporaneamente sia nella più importante rivista
di teologia sia in quella scientifica.
Nonostante il fatto che la teologia naturale venga associata al
XIX secolo, essa si fonda su un'antichissima tradizione d'inter-
prefazione scritturale. Già nel I secolo, Clemente I (che si ritiene
sia stato il terzo Papa) insegnava che la Bibbia non si doveva so-
lamente intendere letteralmente, o per lo meno non sempre;
piuttosto, alcuni passaggi erano delle allegorie. Sant'Agostino lo
considerava l'unico approccio possibile alle Scritture, «potendo-
si dare di queste parole certamente vere interpretazioni diverse».
Infatti, sant'Agostino ammetteva con franchezza che sarebbe sta-
to possibile, per un lettore di epoche successive, con l'aiuto di
Dio, cogliere un significato scritturale anche laddove la prima
persona che aveva trascritto le Scritture «non capiva». Dunque,
continuava, è necessario «indagare [...] ciò che Mosè, egregio fa-
miglio della tua fede, volle far intendere in questo racconto al let-
tore o ascoltatore. [...] Accostiamoci insieme alle parole del tuo
libro e cerchiamo in esse la tua volontà attraverso la volontà del
tuo servitore, per la cui penna le hai elargite». Inoltre, dal mo-
mento che Dio è incapace di errore o falsità, se la Bibbia sembra
contraddire la nostra conoscenza è a causa di una mancanza di
comprensione da parte del «servitore» che ha trasposto le parole
di Dio (Le confessioni 12).
La Chiesa cattolica ha sempre insegnato che il significato del-
le Scritture non è invariabilmente letterale, e dunque è soggetto
all'interpretazione da parte della Chiesa. In effetti, fu proprio
proclamando il diritto esclusivo di interpretare la Scrittura che la
Chiesa si pose in contrapposizione non solo a coloro che soste-
nevano un'interpretazione letterale, ma anche nei confronti dei
propri teologi e, in alcune epoche, della scienza. Per di più, asse-
rendo la propria infallibilità interpretativa, la Chiesa rese inevi-
tabili le riforme.
Il bisogno di interpretare la Bibbia fu centrale per tutta la teo-
logia protestante, portando alcuni a proclamare addirittura che
232 A GLORIA DI DIO

le singole persone dovevano essere i teologi di se stessi. Tuttavia,


anche i protestanti che sostenevano una chiesa più autorevole ri-
fiutavano l'interpretazione scritturale letterale. Per esempio,
Giovanni Calvino diede delle fondamenta legittime alla teologia
naturale insegnando che Dio adattava la sua rivelazione ai limi-
ti della comprensione umana - che «la rivelazione è un atto di di-
vina condiscendenza» (McGrath 1999, p. 11). Per esempio, Calvi-
no spiegò che all'autore del Libro della Genesi «fu ordinato di es-
sere l'insegnante degli ignoranti e dei primitivi oltre che degli
istruiti: quindi non poteva raggiungere il suo scopo senza scen-
dere a tali rudimentali strumenti d'istruzione». Così, Calvino ri-
fiuta concetti quali i sei giorni della Creazione come non indica-
tivi dell'effettivo tempo impiegato (McGrath 1999, p. 11). Nei
suoi sermoni sui Dieci Comandamenti, spiegò:

Poiché non partecipiamo ancora della gloria di Dio, non possiamo


avvicinarlo; piuttosto, è necessario che Egli si riveli a noi secondo
la nostra barbarie e debolezza. Resta il fatto che fin dall'inizio del
mondo, quando Dio apparve agli uomini mortali, non fu per rive-
lare se stesso così come Egli è, ma secondo le capacità dell'uomo
di capirlo. Dobbiamo sempre tenerlo a mente: Dio non era cono-
sciuto dai padri della Chiesa. E nemmeno oggi ci appare nella sua
essenza. Piuttosto, egli si adatta a noi. Essendo così le cose, è ne-
cessano che Egli si abbassi secondo la nostra capacità affinché
possiamo percepire la sua presenza con noi. (Calvino [1555 ca.]
1982, pp. 52-53)

Dalla parte cattolica, questo punto di vista venne ratificato


dal frate carmelitano Paolo Antonio Foscarini nella sua opera del
1615 su Copernico: «La Scrittura parla a seconda della nostra
modalità di comprensione» (in McGrath 1999, p. 12).
Dunque, la nascita della scienza non prese alla sprovvista i
teologi cristiani. L'unica cosa nuova della teologia naturale era il
nome - anzi, lo stesso Calvino aveva già scritto in maniera este-
sa sull'Argomento del Disegno divino. La disponibilità degli
scienziati di riconoscere un creatore e la pari disponibilità dei
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 233

teologi ad adattare le proprie dottrine alle ultime scoperte scien-


tifiche fecero quasi impazzire gli eredi militanti dell‫«׳‬Illumini-
smo». Nonostante le conquiste del «divino» Newton, non solo le
forze della «superstizione» persistevano, ma non erano nemme-
no state cacciate definitivamente dalle università. Bisognava fare
qualcosa. E fu fatto.

Evoluzione e religione

Charles Darwin (1809-1882) sarebbe fra i più importanti bio-


logi della storia anche se non avesse pubblicato il suo L'origine
della specie (1859). Ma non sarebbe stato deificato, né avrebbe so-
stituito Newton nella campagna volta a «illuminare» l'umanità.
Come vedremo, la battaglia sull'evoluzione non è un esempio
dell'«eroismo» con il quale gli scienziati hanno resistito alle con-
tinue persecuzioni dei «fanatici» religiosi. Piuttosto, fin daH'ini-
zio si è trattato principalmente di un attacco alla religione da
parte di militanti atei, avvoltisi nel mantello della scienza, nello
sforzo di confutare tutte le proclamazioni religiose in merito a un
Creatore - un tentativo che spesso si è trasformato nella sop-
pressione di tutte le critiche scientifiche all'opera di Darwin.
Benché di recente sia divenuto molto vivace, preferisco non
prendere parte al dibattito sullo status logico ed empirico della
teoria dell'evoluzione. Purtroppo, per capire in maniera adeguata
le basi reali dell'antico conflitto sull'evoluzione, dobbiamo capire
che l'aggressiva sicurezza esibita dai darwiniani è direttamente
proporzionale ai difetti della teoria. Problemi ovvi persino a
Darwin non sono stati superati se non dopo oltre 150 anni di sfor-
zi. La mia riluttanza a seguire tali questioni è basata sull'esperien-
za: niente genera più panico fra i miei colleghi di ima critica all'e-
voluzione15. Sembrano aver paura che qualcuno li possa scambia-
re per creazionisti anche solo restando nella stessa stanza con chi
dice queste cose. Come vedremo, è esattamente così che il «bull-
dog di Darwin», Thomas Henry Huxley (1825-1895), sperava si sa-
rebbero comportati gli intellettuali quando per primo sostenne che
234 A GLORIA DI DIO

l'unica scelta possibile fosse quella fra darwinismo e interpreta-


zione letterale della Bibbia. Anzi, Richard Dawkins che, titolare di
una cattedra a Oxford, si dedica alla divulgazione della scienza, ha
onestamente dichiarato che «anche se non vi fosse nessuna evi-
denza reale a favore della teoria darwiniana [...] saremmo co-
munque giustificati nel preferirla a teorie rivali», limitando atten-
tamente queste ultime a un grossolano creazionismo e all'antica
genetica lamarckiana (Dawkins 1986, p. 287).
Tuttavia, proprio come si può dubitare della tesi dell'etica
protestante di Max Weber senza per questo essere un marxista,
così si possono notare degli errori anche nella teoria darwiniana
o neo-darwiniana senza per questo credere in ima Creazione
durata sei giorni, o in ima qualsiasi delle teorie rivali - la fisica
moderna offre un esempio di come la scienza possa trarre bene-
fici dalla disponibilità a lasciare aperte le questioni senza ab-
bracciare teorie evidentemente erronee. Di certo non voglio dire
che in una teoria delle origini biologiche appropriata si debba
lasciar spazio a un Creatore - e forse un domani ci sarà una teo-
ria assolutamente materialistica migliore. Ciò che voglio dire è
che la teoria di Darwin, anche con tutte le successive revisioni,
non riesce a spiegare l'origine della specie. E nonostante questo,
sto sollevando la questione solamente perché mi serve a dimo-
strare le basi esclusivamente ideologiche della crociata darwi-
niana, e quindi a provare che essa non indica un'incompatibilità
di base fra religione e scienza. Ovviamente, esiste un conflitto
intrinseco fra «ateismo scientifico» e religione, ed è questo ciò
che voglio dimostrare.
Quando un fervente darwinista come Richard Dawkins so-
stiene che «la teoria è in dubbio tanto quanto il fatto che la Terra
ruoti intorno al Sole» (Dawkins 1976, p. 1), non proclama un fat-
to, ma vuole solamente screditare a priori chiunque osi esprime-
re delle riserve in merito all'evoluzione. Anzi, Dawkins ha addi-
rittura scritto: «È cosa assolutamente certa il fatto che, se incon-
trate qualcuno che sostiene di non credere nell'evoluzione, si trat-
ta di una persona ignorante, stupida o pazza» (Dawkins 1989, p.
34). Eric Hoffer avrebbe fatto tesoro di queste affermazioni se fos­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 235

sero state disponibili all'epoca della stesura di The True Believer


(1951). Cosa ancora peggiore, Dawkins conosce i diversi e seri
problemi implicati in una teoria dell'evoluzione puramente ma-
terialistica, ma asserisce che nessuno tranne dei veri credenti nel-
l'evoluzione possa partecipare alla discussione, che va tenuta se-
greta. Così, rimprovera duramente Niles Eldredge e Stephen Jay
Gould, due illustri darwinisti, per aver dato «illegittimo aiuto e
sostegno ai creazionisti moderni» (Dawkins 1986, pp. 241, 251).
Dawkins crede che, indipendentemente dalle buone intenzioni,
«se imo studioso rispettabile mormora anche solo un accenno di
critica su qualche dettaglio della teoria darwiniana, la cosa viene
colta al volo e ingigantita a dismisura». Il fatto è, però, che le opi-
nioni di Dawkins sono ampiamente condivise. Quindi, pur rico-
noscendo che «l'estrema rarità delle forme di transizione nelle te-
stimonianze fossili» sia un punto di grande imbarazzo per il
darwinismo, Gould confidò che si trattava di una sorta di «segre-
to commerciale della paleontologia», e ammise che i diagrammi
evoluzionisti «che adom ano i nostri manuali» sono basati su «in-
ferenze, [...] non sulle evidenze fossili» (Gould 1980, p. 181). An-
zi, secondo Steven Stanley, altro illustre evoluzionista, i dubbi sol-
levati da questo problema con i fossili furono «rimossi» per anni
(Stanley 1981, p. 104). E sempre Stanley osserva che questa fu una
strategia iniziata da Huxley, attento a non rivelare i suoi stessi ti-
mori in pubblico. Come ha sintetizzato Eldredge, «noi paleonto-
logi abbiamo detto che la storia della vita supporta [il principio
della trasformazione graduale delle specie], ma abbiamo sempre
saputo che in realtà non è così» (Eldredge 1986, p. 145). Non è co-
sì che si fa scienza; in questo modo si fanno solamente le crociate.

La teoria di Darwin
Per offrire ai miei lettori la migliore rassicurazione possibile,
sono stato molto attento a trarre le mie dichiarazioni in merito ai
difetti della teoria dell'evoluzione solamente da darwinisti ben
noti ed entusiasti.
All'epoca di Darwin era già noto da molto che l'evidenza fos-
sile dimostrava che, in un arco di tempo immenso, c'era stata
236 A GLORIA DI DIO

una progressione nella complessità biologica degli organismi.


Negli strati geologici più antichi, si osservano solamente orga-
nismi semplici; negli strati più recenti, appaiono invece organi-
smi più complessi. Inoltre, proseguendo il lavoro di Carolus
Linneo (1707-1778), il mondo biologico è stato classificato in un
insieme di categorie inserite le une nelle altre. Così, alTinterno
di ogni genere (mammiferi, rettili ecc.) troviamo le specie (cani,
cavalli, elefanti ecc.), e aH'interno di ogni specie varietà specifi-
che, o razze (alano, barboncino, beagle ecc.). I confini fra le spe-
eie sono netti e fermi - una specie non svanisce in un'altra per
gradi. Per esempio, fra varietà alTintero della stessa specie (per
esempio, fra barboncini e beagle) l'incrocio è possibile, ma non
fra le specie (i cani non possono essere incrociati con i gatti).
Dunque, non vi sono incroci fra specie (nessun cane-gatto, né
cavallo-mucca). Questo significa che non si possono creare nuo-
ve specie tramite incrocio 16.
Questi fatti interessavano moltissimo sia i teologi naturalisti
sia i biologi, e tutti capivano che essi ponevano due questioni
fondamentali. La prim a riguarda la variazione all'interno delle
specie. Perché, per esempio, ci sono così tante razze di cani? La
seconda questione riguarda la variazione fra le specie. Dal mo-
mento che nelle testimonianze fossili si ritrovano creature più
complesse, da dove sono venute? Cioè, come nascono le nuove
specie?
Si sapeva molto bene che gli incroci di razze a fini selettivi po-
tevano dare variazioni all'interno delle specie. L'immensa gamma
di razze canine è il risultato di secoli di accoppiamento selettivo:
gli uomini hanno scelto i cani che mostravano la maggior quan-
tità di tratti desiderati (coda corta, pelo arruffato, gambe lunghe)
e poi li hanno fatti accoppiare, fino a quando, dopo molte gene-
razioni di accoppiamenti selettivi, si sono ottenuti alani o bar-
boncini. Ma come avviene questo accoppiamento selettivo in na-
tura, senza l'intervento dell'uomo? Qui, Darwin dà un contribu-
to molto intelligente e valido con il principio della selezione natura-
le. Proprio come gli uomini scelgono gli incroci sulla base delle
caratteristiche desiderate, così fa la natura, anche se in maniera
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 237

non intenzionale. Gli elementi in gioco sono tre. Per prima cosa,
gli organismi di una stessa specie variano fra di loro leggermen-
te in diversi aspetti, che sono ereditabili. In secondo luogo, gli or-
ganismi sono soggetti a ima lotta per la sopravvivenza, e quelli
che hanno caratteristiche più favorevoli alla sopravvivenza han-
no più probabilità di riprodursi17. Dunque, gli organismi cam-
bierartno per diventare più adatti (o adattati) alla sopravvivenza.
In terzo luogo, se le condizioni che governano la sopravvivenza
differiscono da un luogo all'altro (è il concetto delle nicchie eco-
logiche), il risultato saranno diverse razze della stessa specie. E
fin qui, è ovvio.
Sembrerebbe impossibile che ima selezione naturale all'in-
tem o di specie esistenti possa creare nuove specie. Come rico-
nobbe Darwin, gli esperimenti di incrocio di razze rivelano dei
chiari limiti alla selezione, oltre i quali non è possibile produrre
ulteriori cambiamenti. Per esempio, i cani possono raggiungere
solo certe dimensioni, non di più, figurarsi diventare gatti. Dim-
que, la vera sfida era capire da dove derivavano le specie, ma,
nonostante il titolo del suo famoso libro e più di un secolo di
proclami e celebrazioni, è una dom anda che Darwin lasciò sen-
za risposta.
Dopo aver passato molti anni alla ricerca di una spiegazione
adeguata dell'origine delle specie, alla fine Darwin tornò alla se-
lezione naturale, sostenendo che in periodi di tempo lunghissimi
potesse anche generare nuove creature. In altre parole, gli orga-
nismi rispondono alle condizioni del loro ambiente cambiando
lentamente (evolvendosi verso) caratteristiche favorevoli alla so-
pravvivenza fino a quando, alla fine, sono mutati in maniera suf-
Sciente a creare delle nuove specie. Dunque, le nuove specie si
originano molto lentamente, un minuscolo cambiamento dopo
l'altro, e alla fine ciò dà come risultato un'intera catena di nuove
specie, come dai lemuri agli esseri umani attraverso molte specie
intermedie.
Darwin riconobbe che una grande debolezza della sua teoria
sull'origine delle specie era quello che lui e altri chiamavano il
principio della «gradualità nella natura». Egli rifiutava in ma­
238 A GLORIA DI DIO

mera esplicita l'idea che un intero insieme di cambiamenti favo-


revoli potesse verificarsi simultaneamente, producendo così una
nuova specie di punto in bianco. «Ma ammettere tutto ciò, a
quanto mi sembra, significa entrare nel campo del miracolo e ab-
bandonare quello della scienza» (Darwin 1993, p. 316). Linneo
aveva detto che la «natura non fa balzi», il che equivaleva a una
«sacra scrittura» per Darwin e i suoi colleghi. E, come spiegò
Howard Gruber, ciò «sollevava un'alternativa di rilevanza note-
vole: la natura non fa balzi, ma Dio sì» (Gruber 1981, pp. 125-
126). Per dimostrare che un qualcosa ha origine naturale, e non
divina, si deve dim ostrare che segue una progressione estrema-
mente graduale e chiara a partire da forme antecedenti. E qui sta-
va la difficoltà. Le testimonianze fossili erano in netto contrasto
con questa gradualità. Come riconobbe lo stesso Darwin:

Primieramente, se le specie derivano da altre specie, per mezzo di


gradazioni insensibili, perché non vediamo noi dappertutto innu-
merevoli forme transitorie? Perché tutta la natura non è confusa,
mentre al contrario le specie sono, come noi sappiamo, ben defini-
te? (Darwin 1993, p. 212)

In merito a ciò offriva due soluzioni. Le tipologie di transi-


zione venivano rim piazzate velocemente e dunque potevano
essere osservate soprattutto nei fossili. E per quanto riguarda-
va la mancanza di tipologie di transizione fra i fossili, si tratta-
va, come riconosceva Darwin, della «obiezione [...] più ovvia e
più rilevante di quelle che possono sollevarsi contro di essa
[teoria]» (Darwin 1993, p. 406). Darwin affrontò il problema
dando la colpa all'estrema «imperfezione dei resti geologici».
«Soltanto una piccola porzione del mondo è stata geologica-
mente esplorata, e nessuna porzione con sufficiente cura»
(Darwin 1993, p. 414), ma bastava aspettare, prometteva, e le
transizioni mancanti sarebbero state scoperte in qualche ina-
spettata regione in cui sarebbe stata fatta una ricerca più ap-
profondità. E così iniziò una ricerca intensiva di quelli che la
stam pa popolare definì presto «gli anelli mancanti».
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI REUGIOSE DELLA SCIENZA 239

Oggi, la documentazione fossile è enorme al confronto di


quella dell'epoca di Darwin, ma i fatti restano sempre gli stessi.
Gli anelli mancano ancora; le specie appaiono improvvisamente
e poi continuano a presentarsi in forma praticamente invariata.
Come ha scritto Steven Stanley, «le evidenze fossili conosciute
[...] non forniscono alcuna prova alla validità del modello gra-
dualistico» (Stanley 1979, p. 39). Anzi, dall'epoca di Darwin so-
no sempre più le prove del contrario. Come ha osservato l'ex cu-
ratore di geologia storica dell'American Museum of Naturai Hi-
story, «molte delle discontinuità [nelle evidenze fossili] tendono
a essere sempre più enfatizzate dall'aumento dei ritrovamenti»
(Newell 1959, p. 267). Nella sintesi di Stephen Jay Gould:

La storia della maggior parte delle specie fossili include due carat-
teristiche particolarmente incompatibili con il gradualismo:
1. La stasi. La gran parte delle specie non mostra alcun cambia-
mento direzionale durante l'esistenza sulla terra. Appaiono nelle
prove fossili con le stesse strutture di quando scompaiono; il cam-
biamento morfologico solitamente è limitato e non direzionale.
2. L'apparizione improvvisa. In un'area locale, ima specie non nasce
gradualmente tramite la costante trasformazione dei suoi progeni-
tori; appare aU'improwiso «completamente formata». (Gould
1980, p. 182)

E queste sono esattamente le obiezioni sollevate da molti bio-


logi e geologi all'epoca di Darwin - non si trattava solamente del
fatto che l'affermazione di Darwin per cui le specie nascono in
miliardi di anni di selezione naturale veniva presentata senza
delle prove a sostegno, ma anzi che le evidenze a disposizione
erano ampiamente contrarie a tale tesi. Purtroppo, invece che
giungere alla conclusione che non esistesse ancora ima teoria
dell'evoluzione, molti scienziati sostennero che si dovevano ac-
cogliere le idee di Darwin, senza discutere del loro merito. Come
osservò un importante paleontologo europeo, Fran 90is Jules Pie-
tet, nella sua recensione del 1860 a L'origine: «Abbiamo davanti
una teoria che da una parte sembra impossibile perché non eoe-
2 40 A GLORIA DI DIO

rente con i fatti osservati e che dall'altra parte sembra la miglior


spiegazione [a disposizione]». (In Hull 1973, p. 146)
Fin da allora, vi è stata la ricerca impellente, anche se spesso
circospetta, di un'alternativa plausibile. Ironia della sorte, men-
tre Thomas Henry Huxley intratteneva piacevolmente il suo
pubblico con racconti di specie che nascevano «senza nulla che
le precedesse» come prova dell'assurdità del creazionismo, nel
privato lui stesso cercava un meccanismo biologico con il quale
riuscire a spiegare questa sorta di balzi evolutivi (Desmond 1997,
p. 459). Infatti, Huxley era «convinto che le nuove forme venis-
sero alla luce non attraverso la modificazione di dettagli della
morfologia, ma con una riorganizzazione repentina e su larga
scala di interi sistemi anatomici» (Schwartz 1999, p. 3). Ma non
riusciva a trovare ima spiegazione convincente, per cui conti-
nuava le sue incrollabili condanne pubbliche di tutte le critiche
alla teoria di Darwin. Lo stesso Darwin aveva cercato un simile
meccanismo per molti anni, e secondo me è ovvio che sia toma-
to al gradualismo e alla selezione naturale per spiegare l'origine
delle specie solamente perché, essendo per lui necessario giun-
gere alla pubblicazione prim a che Alfred Russel Wallace si pren-
desse tutto il merito per la teoria dell'evoluzione, non aveva nul-
la di meglio da offrire.
In ogni caso, alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX, un nu-
mero sempre crescente di biologi tentò di scoprire un meccani-
smo evolutivo capace di adattarsi all'evidenza fossile per cui l'e-
voluzione procede per balzi improvvisi (Ruse 1999, Schwartz
1999). Come la stessa opera di Darwin, il primo di questi tentati-
vi era basato sulla teoria di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), se-
condo la quale le caratteristiche acquisite potevano essere eredi-
tate, vale a dire che i cambiamenti causati dall'ambiente circo-
stante agli organismi possono essere tramandati alle generazioni
successive. Infatti, Darwin non credeva solamente che fosse pos-
sibile ottenere una razza di cani con una coda corta tramite l'ac-
coppiamento selettivo, ma anche, come Lamarck, che se si accor-
ciava chirurgicamente la coda dei cani, con il passare del tempo
si sarebbe poi ottenuta una razza a coda corta. Tuttavia, ciò non
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 2 41

risolveva il problema. Anche supponendo che le caratteristiche


acquisite possano essere ereditate (cosa presto confutata dai bio-
logi), si finisce comunque con l'avere un modello di evoluzione
graduale fatto di piccolissimi incrementi, incompatibile con i re-
perii fossili di nuove specie che parevano apparse dal nulla. Poi
giunse la riscoperta dei principi genetici di Gregor Mendel (1822-
1884) e si credette di aver trovato il meccanismo dietro all'origine
delle specie.
Darwin non sapeva nulla dei geni, figurarsi delle mutazioni
genetiche. Concordava con Lamarck sul fatto che le caratteristi-
che di entrambi i genitori si mescolavano a formare la prole. Ma
Mendel dimostrò che i geni non si mescolano. Applicato all'evo-
luzione, ciò significa che dei cambiamenti graduali avvenuti per
selezione naturale non possono rispondere della nascita di nuo-
ve specie. Dunque, al cambio del secolo, i più illustri biologi, fra
i quali Hugo de Vries, William Bateson e Thomas H unt Morgan,
rifiutarono completamente (anche se in modo cauto in pubblico)
la teoria di Darwin e cercarono una plausibile base genetica del-
l'evoluzione. Credettero di trovarla nel fenomeno delle mutazio-
ni genetiche (Schwartz 1999).
Una mutazione è un cambiamento che avviene all'interno di
un gene di un determinato organismo e che può, dunque, essere
tramandato alla prole di questo specifico organismo. In altre pa-
role, in un determinato gene avviene un vero cambiamento fisi‫־‬
co, che altera l'organismo e il suo potenziale genetico. Nella
maggior parte delle versioni dell'evoluzione neo-darwiniste18, si
assume che le mutazioni avvengano in maniera casuale. Molte di
queste mutazioni casuali sono irrilevanti ai fini della sopravvi-
venza, e dunque possono persistere come svanire. Molte altre
(forse la maggioranza) possono essere sfavorevoli e scomparire,
poiché le creature che presentano tali tratti si estinguono. Tutta-
via, alcuni tratti saranno favorevoli e verranno conservati e dif-
fusi all'interno di una specie sulla base di un superiore tasso di
sopravvivenza. Ma questi tratti possono avere come risultato
una specie nuova? Come possono delle mutazioni casuali e di
piccole dimensioni trasformare un rettile in un uccello o, anzi, un
242 A GLORIA DI DIO

piccolo lemure in un essere umano? Seguendo le idee di Darwin,


gli evoluzionisti spesso hanno spiegato le nuove specie come il
risultato dell'accumulazione di piccole mutazioni casuali in un
immenso arco di tempo. Ma questa è una risposta che rimane in
contraddizione con le evidenze fossili, nelle quali le creature ap-
paiono «come Atena dalla testa di Zeus - in tutto il suo splendo-
re e impaziente di andare» (Schwartz 1999, p. 3). Di conseguen-
za, per quasi tutto il secolo scorso, biologi e genetisti hanno cer-
cato di scoprire come un numero enorme di mutazioni favore-
voli possa avvenire nel corso del tempo in modo tale da far com-
parire specie nuove senza tipi intermedi.
Nel 1940, Richard Goldschmidt ipotizzò la soluzione del «mo-
stro di belle speranze» - «Una mostruosità che appare in un sin-
golo gradino genetico potrebbe [...] produrre un nuovo tipo»
(Goldschmidt 1940, p. 390). Egli riconosceva che la maggioranza
delle mutazioni multiple aveva come risultato un «mostro senza
speranze», nel senso che i cambiamenti erano dannosi o retrogra-
di. Ma a volte le nuove caratteristiche potevano essere un miglio-
ramento, e dare origine a un «mostro di belle speranze». In realtà,
quella di Goldschmidt era un'inferenza di una causa genetica per
un risultato empirico. Le nuove specie nascono. Dal momento che
ciò deve essere il risultato dell'evoluzione, possiamo supporre so-
lamente che sia avvenuta ima grande mutazione multipla. Anzi,
questa mutazione così difficile deve avvenire due volte nello stes-
so luogo e nello stesso spazio di tempo se vogliamo che il nostro
mostro abbia u n /u n a compagno/a. Il mostro di belle speranze
bazzica ancora intorno al neo-darwinismo, ma la maggioranza dei
biologi lo ha rifiutato, come d'altronde avrebbe fatto Darwin. Co-
me ha spiegato l'eminente e convinto darwinista Ernst Mayr:

Il verificarsi di mostruosità genetiche tramite mutazione [...]è ben


acciarato, ma si tratta di stranezze talmente evidenti che tali mostri
possono essere definiti solamente come «senza speranza». Sono
per lo più così disequilibrati da non avere la più piccola possibilità
di sfuggire all'eliminazione della selezione. Se diamo a un tordo le
ali di un falco non ne faremo un miglior volatore. Anzi, mantenen­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 243

do tutte le altre strutture di un tordo, probabilmente non sarebbe


nemmeno in grado di volare. [...] Credere che ima mutazione così
drastica possa generare un nuovo tipo in grado di vivere, capace di
occupare una nuova zona adattativa, equivale al credere nei mira-
coli. (Mayr 1970, p. 253)

Che è quanto disse Darwin.


Un tentativo più recente di spiegare l'improvvisa apparizione
delle nuove specie nelle evidenze fossili è stato quello di Niles
Eldredge e Stephen Jay Gould (Eldredge 1971; Eldredge, Gould
1972; Gould, Eldredge 1993), noto come equilibrio punteggiato. Il
principio non è mai stato del tutto chiaro, anche perché gli auto-
ri, soprattutto Gould, hanno spesso cambiato idea su quello che
intendevano (Dennett 1995). In alcune occasioni sembra essere
una nuova versione del «mostro di belle speranze», e lo stesso
Gould ha pubblicato un saggio intitolato Return to thè Hopeful
Monster [«Ritorno al mostro di belle speranze», N.d.T.]. La ver-
sione iniziale dell'«equilibrio punteggiato» asserisce solamente
che Darwin era in errore nel supporre che l'evoluzione avvenis-
se attraverso una lenta accumulazione di piccoli passi. Dal mo-
mento che le evidenze fossili mostravano piuttosto dei balzi im-
prow isi, è così che si ha evoluzione: ogni tanto l'equilibrio di una
specie immutabile viene punteggiato da un improvviso cambia-
mento. Dal momento che la teoria di Darwin non prevede que-
sta ipotesi, Gould conclude che ci sia il bisogno di un nuovo
principio evoluzionistico (Gould 1980). Ma non suggerisce nes-
sun nuovo principio. Anzi, Gould è riuscito a scrivere in manie-
ra estesa sul modo in cui il suo «equilibrio punteggiato» possa ri-
conciliare il darwinismo con le prove fossili, negando allo stesso
tempo che la sua teoria proponesse un qualsiasi «meccanismo
violento» tramite il quale possa avvenire l'improvvisa comparsa
di nuove specie. Mancando l'ipotesi di un meccanismo di questo
tipo, Gould ed Eldredge non apportano nessun progresso alla
soluzione del problema dell'origine delle specie. In definitiva,
ciò che sostengono è che in qualsiasi modo ciò accada, nuove
specie nascono in aree specifiche e non si diffondono fino a
244 A GLORIA DI DIO

quando non hanno attraversato degli stadi intermedi. Ciò risol-


ve il problema degli «anelli mancanti» - gli organismi esistono
solamente in luoghi molto circoscritti e ci vorrebbe moltissima
fortuna per trovarli (presumibilmente più fortuna di quanta ne
serva per produrre la nuova specie). Eppure ancora non sappia-
mo come avvenga un simile balzo. Per di più, discutendo anche
dell'urgenza della necessità di una soluzione, Gould ed Eldred-
ge hanno provocato l'antagonismo dei colleghi che comprendo-
no come un simile meccanismo abbia la probabilità di riaprire la
porta ai miracoli, proprio ciò che Darwin temeva. In effetti, un al-
tro importante darwiniano, Daniel C. Dennett, ha accusato
Gould di avere proprio questa intenzione - «La mia diagnosi, co-
munque, è che lui [Gould] sia alla ricerca di un gancio dal cielo19
[che sollevi l'evoluzione]» (Dennett 1995, p. 298).
E infatti la parola «miracolo» salta fuori di continuo nelle va-
lutazioni matematiche della possibilità che anche catene biochi‫־‬
miche molto semplici, a maggior ragione gli organismi, possano
nascere per un processo empirico casuale. Per generazioni, i
darwiniani hanno intrattenuto i loro studenti con la storia della
scimmia e della macchina per scrivere, osservando che, dato un
arco di tempo infinito, la scimmia prim a o poi è destinata per
puro caso a scrivere un Macbeth (o un'altra opera di Shakespea-
re, o la Bibbia). E la morale è che un tempo infinito può produr-
re dei miracoli. Tuttavia, la «scimmia» dell'evoluzione casuale
non ha a sua disposizione un tempo infinito. Anche se qualcuno
ipotizzasse che la vita sia giunta sulla Terra da un pianeta mol-
to più antico e lontano, la progressione da forme di vita sempli-
ci a forme complesse sulla Terra è avvenuta in un arco di tempo
lim itato20. Ancora più indicativo è il fatto che quando dei mate-
matici considerano la questione, riescono a calcolare veloce-
mente come, anche se il compito della scimmia fosse limitato so-
lo alla scrittura di alcune frasi del Macbeth, e non dell'intera ope-
ra di Shakespeare, ciò sia assolutamente im possibile21. Le prò-
babilità di creare anche il più semplice organismo in forma ca-
suale sono ancora più remote - Fred Hoyle e Chandra Wickra-
masinghe (1984) hanno calcolato questa probabilità come ima su
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 245

IO40000(si consideri che tutti gli atomi nell'universo a noi noto so-
no stimati intorno a una cifra che non supera il 10 80). In questo
senso, dunque, la teoria darwiniana è basata su presupposti
davvero miracolosi.
Forse, l'aspetto più incredibile della situazione attuale è il
fatto che mentre Darwin viene trattato come un santo secolare
dai media popolari, e la «teoria» dell'evoluzione viene conside-
rata come una sfida invincibile alle affermazioni religiose, fra i
più importanti studiosi di scienze biologiche ormai si dà per
scontato che l'origine delle specie debba ancora essere spiegata.
Scrivendo per «Nature» nel 1999, Eòrs Szathmaiy iniziò così la
sua recensione al tentativo di Jeffrey Schwartz di costruire ima
teoria di questo tipo: «L'origine delle specie affascina da tempo
i biologi. Benché la citi nel suo titolo, l'opera principale di
D arw in non fornisce una soluzione al problem a. Jeffrey
Schwartz ce ne offre una? Mi dispiace ma, nel complesso, non lo
fa». (Szathmafy 1999)
Q uando Julian Huxley sostenne che «la teoria di Darwin è
[...] non più una teoria, ma un fatto» sicuramente sapeva ciò che
diceva (Huxley 1960, p. 1). Ma, proprio come suo nonno Thomas
Henry Huxley, sapeva che la sua bugia serviva al bene superio-
re dell'«illuminismo».

La crociata darwiniana
Q uando venne pubblicata, L'origine della specie destò un inte-
resse immenso, ma inizialmente non provocò un antagonismo su
base religiosa. La reputazione scientifica di Darwin gli garantì il
fatto che i commentatori prendessero seriamente il suo libro e
trattassero l'autore con rispetto. Benché molti avessero criticato
la mancanza di prove, nessuno sollevò obiezioni di natura reli-
giosa, come ha riconosciuto persino Stephen Jay Gould (Gould
1977, p. 7). Anzi, la risposta iniziale di coloro che si interessava-
no di teologia naturale fu estremamente favorevole. Asa Gray
(1810-1888), l'illustre botanico di Harvard, acclamò Darwin co-
me colui che aveva risolto il problema più difficile in merito al-
l'Argomento del Disegno divino - le molte imperfezioni e falli­
246 A GLORIA DI DIO

menti rilevati dai reperti fossili. Riconoscendo che Darwin «ri-


fiuta l'idea di un Disegno», Gray si congratulava comunque con
lui per aver «trovato le sue più accurate descrizioni» (in Barrow,
Tipler 1986, p. 85). Gray interpretava il lavoro di Darwin come
una dimostrazione del fatto che Dio avesse creato poche forme
originali e poi avesse lasciato che l'evoluzione procedesse all'in-
tem o di una struttura di «leggi» divine - e da qui le occasionali
svolte sbagliate e gli «errori». Darwin e i suoi più vicini sosteni-
tori ritennero questa interpretazione religiosa intollerabile - la
teoria era stata formulata proprio in opposizione all'idea del Di-
segno divino.
Dunque, quando si manifestò, l'antagonismo religioso fu ge-
nerato da un movimento sociale che - proclamando costante-
mente che Newton e Darwin insieme avevano sfrattato Dio dal-
l'universo - costrinse i leader religiosi a rispondere. Per gli eredi
de1r«Illuminismo», l'evoluzione sembrava fornire finalmente
l'arm a necessaria a distruggere la religione. Come confessò Ri-
chard Dawkins, «Darwin rese possibile l'essere degli atei intei-
lettualmente soddisfatti» (Dawkins 1986, p. 6).
La crociata darwiniana fu lanciata da un gruppo di uomini
guidati da Thomas Henry Huxley (Desmond 1997; Eiseley 1975;
Irvine 1955). Come Huxley, alcuni di questi crociati erano scien-
ziati, ma, sempre come Huxley, da molto prim a della pubblica-
zione della teoria di Darwin, erano attivisti socialisti e atei (De-
smond 1997).
I primi e più militanti sostenitori del darwinismo erano tutti
convinti socialisti (Desmond 1997; MacKenzie, MacKenzie 1977;
Wilson 1999). Quando non cantava inni in lode all'evoluzione con
George Bernard Shaw agli incontri della Fabian Society, Annie
Besant distribuiva il suo pamphlet Why I A m a Socialist [Perché so-
no socialista], nel quale si rispondeva «perché credo neU'evolu-
zione». Alfred Russell Wallace, al quale si attribuisce la scoperta
dell'evoluzione assieme a Darwin, era un illustre socialista la cui
interpretazione del futuro evoluzionistico dell'umanità lo portò a
essere il primo a proclamare l'avvento di quel campione di perfe-
zione biologica altruistica che era l'«uomo socialista» (Desmond
1997, p. 245). Anzi, si può ancora trovare fra i volumi della bi­
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 247

blioteca di Darwin una prima edizione di Das Kapital, dedicata


«Al Signor Charles Darwin. Da parte di un suo sincero ammira-
tore, Karl Marx, Londra 16 giugno 1873». Più di un decennio pri-
ma, quando lesse L'origine, Marx scrisse a Engels che Darwin ave-
va fornito la base biologica necessaria al socialismo. Quando
parlò al servizio funebre di Marx, Engels paragonò i due uomini:
«Proprio come Darwin scoprì la legge dello sviluppo della natu-
ra organica, così Marx scoprì la legge dello sviluppo della natura
umana» (McLellan 1987, p. 3). Ormai, la strada era libera per la ri-
voluzione e per l'«ateismo scientifico».
Infatti, l'ateismo era un punto centrale della missione dei
darwiniani (Wilson 1999). Lo stesso Darwin in un'occasione
scrisse di non riuscire a capire chi potesse augurarsi che il cri-
stianesimo fosse vero, dal momento che la dottrina della danna-
zione era di per sé detestabile (Barlow 1962). E per quanto ri-
guarda Huxley, egli espresse spesso e in modo chiaro la sua osti-
lità nei confronti della religione. Nel 1859 scriveva:

Il mio discorso era inteso come una protesta contro la Teologia e le


Parrocchie [...] nella mia mente entrambe sono i nemici naturali e
inconciliabili della Scienza. Pochi lo capiscono, ma io credo che sia-
mo alla vigilia di una nuova Riforma e se è mio desiderio vivere al-
tri trent'anni, è per vedere il piede della Scienza schiacciare il collo
dei suoi nemici. (In Desmond 1997, p. 253)

Come ha sintetizzato lo storico di Oxford J. R. Lucas:

[Huxley] non amava gli ecclesiastici ed era certo che la scienza do-
vesse essere opposta alla religione. Più tardi, nel corso della sua vi-
ta, continuò a opporsi strenuamente all'idea che vi fossero dei reli-
giosi che accettavano l'evoluzione, anche quando se li trovò dav-
vero davanti. (Lucas 1979, p. 329)

Semplicemente, non potevano esserci compromessi con la fe-


de. Infatti, come disse John Tyndall (1820-1893) alla British Asso-
ciation nel suo discorso presidenziale del 1874: «Il fondamento
della dottrina dell'evoluzione consiste [...] nella sua complessi­
248 A GLORIA DI DIO

va armonia con il pensiero scientifico [...]. Rivendichiamo e


strappiamo alla teologia l'intero dominio della teoria cosmologi-
ca». (Tyndall 1874, p. 44)
Quello stesso anno, un importante esponente tedesco del
darwinismo, Ernst Haeckel (1834-1919), riconosceva:

Da ima parte, la libertà spirituale e la verità, la ragione e la cultu-


ra, l'evoluzione e il progresso, si ergevano sotto il luminoso vessil-
lo della scienza; dall'altra parte, sotto la bandiera nera della gerar-
chia, c'erano la schiavitù spirituale e la falsità, l'irrazionalità e la
barbarie, la superstizione e la regressione. [...] L'evoluzione èl'ar-
tiglieria pesante nella lotta per la verità. Intere fila di [...] sofismi
cadono a tena sotto i colpi a ripetizione di questa [...] artiglieria, e
l'orgogliosa e potente struttura della gerarchia romana, quella po-
tente roccaforte di infallibile dogmatismo, cade come un castello di
carte. (In Gould 1977, p. 77)

Sorprende davvero che i credenti, scienziati o appartenenti al


clero, abbiano iniziato a rispondere a queste incessanti provoca-
zioni, condotte contro di loro in nome dell'evoluzione? Non si
trattava affatto di chiedere loro di accettare che la vita si fosse evo-
luta, visto che anche i teologi naturali da molto lo davano per
scontato e continuavano a farlo22. Ciò che i darwiniani pretende-
vano era, piuttosto, che i religiosi accettassero l'affermazione, non
vera e non scientifica, che Darwin avesse dimostrato che Dio non
aveva avuto alcun ruolo nel processo evolutivo. E le provocazioni
darwiniane non erano limitate ai circoli più radicali e alle loro
pubblicazioni. L'autore della lunga recensione del «Times» all'o-
pera di Darwin non era altri che Thomas Henry Huxley, che rin-
graziava il cielo per il libro, pur negando l'esistenza, di quel cielo.
Come avrebbero potuto non esservi delle risposte religiose? Anzi,
Huxley programmò le sue conferenze sull'evoluzione come una
sorta di spettacolo popolare itinerante, nel quale sfidava diversi
potenziali oppositori religiosi chiamandoli in causa.
Ovviamente, le persone di fede ritennero necessario rispon-
dere. E Huxley fu molto intelligente (e fortunato) nella scelta dei
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 249

suoi sfidanti. Il più famoso fra coloro che furono costretti a ri-
spondergli fu William Gladstone (1809-1898), per quattro volte
primo ministro della Gran Bretagna. Gladstone era uno scrittore
dotato di talento e un cristiano sincero, ma non era uno scienzia-
to, e quindi rappresentava per Huxley l'oppositore ideale. Ciò
nonostante, Huxley rispose a Gladstone soprattutto con insulti, e
non con argomenti di scienza - e lo ammise pure, dicendo: «Non
posso davvero utilizzare un linguaggio rispettoso davanti a que-
sta intrusione di un perfetto ignorante in questioni scientifiche»
(in Desmond 1997, p. 544).
In ima prim a bozza di questo capitolo scrissi che un'altra del-
le «vittime» di Huxley era stata il vescovo di Oxford, Samuel
Wilberforce (1805-1873), che si dice avesse fatto la figura dello
sciocco in un dibattito con Huxley durante l'incontro del 1860
della British Association, a Oxford. Il racconto del confronto
giunto fino a noi riferisce questo:

Fui piuttosto contento di essere presente alla memorabile occasione


a Oxford, quando il signor Huxley affrontò il vescovo Wilberforce.
[...] Π vescovo si alzò e con un leggero tono beffardo, florido e
fluente, ci assicurò che non c'era nulla nell'idea dell'evoluzione
[...]. Poi, voltandosi verso il suo antagonista con ima sorridente in-
solenza, chiese di sapere se era da parte di suo nonno o di sua non-
na che sosteneva di discendere dalle scimmie. A questo il signor
Huxley [...] si alzò [...] e disse queste straordinarie parole [...]. Non
si vergognava di avere una scimmia per antenato; ma si sarebbe
vergognato di essere imparentato con un uomo che usava le sue
grandi doti per oscurare la verità. Nessuno ebbe dubbi sul senso
delle parole e l'effetto fu enorme. (Sidgewick 1898, pp. 433-434)

L'aneddoto è apparso in tutte le più importanti biografie di


Darwin e Huxley, così come in ogni racconto popolare della teo-
ria dell'evoluzione (Brix 1984; Dennett 1995; Desmond 1997; De-
smond, Moore 1992; Irvine 1959; Richards 1987; Wilson 1999).
Nel suo famoso Apes, Angels and Victorians, William Irvine usò
questo racconto per screditare lo snobismo del vescovo (Irvine
250 A GLORIA DI DIO

1959, p. 6). H. James Brix si spinse oltre, nel suo premiato studio,
descrivendo Wilberforce come «naif e pomposo», un uomo le cui
«errate opinioni» erano quelle di un «creazionista fondamentali-
sta», e che fornì a Huxley l'opportunità di dare all'evoluzione «la
sua prim a grande vittoria sul dogmatismo e la malafede» (Brix
1984, pp. 15,135). Ogni autore racconta di come il pubblico pre-
sente fece un'ovazione in onore di Huxley, e quasi tutti chiama-
no il vescovo con l'appellativo di «mellifluo Sam».
Il problema è che tutto questo non è mai accaduto. La citazio-
ne che ho riportato è l'unico racconto di «prima mano» della sto-
ria, apparso in un articolo intitolato A Grandmother's Tale, scritto
da una persona non appartenente al mondo accademico su una
rivista popolare («Macmillan's Magazine», ottobre 1898)
trent'anni dopo il presunto incontro! Nessun altro racconto su
questi incontri, e ve n'erano molti all'epoca, fa menzione di qual-
che osservazione rivolta agli antenati di Huxley, né del fatto che
questi avesse messo in ridicolo il vescovo. Al contrario, molti al-
l'epoca pensarono che dall'incontro fosse uscito meglio il vesco-
vo, e diversi darwiniani convinti lo ritennero una sorta di pareg-
gio (Brooke, Cantor 1998; Cohen 1985b, p. 597). Per di più, come
sapevano tutti gli studiosi presenti a Oxford, prim a di quell'in-
contro il vescovo Wilberforce aveva pubblicato una recensione
de L'origine, nella quale riconosceva appieno il principio della se-
lezione naturale come fonte della variazione all'interno delle
specie. Tuttavia, respingeva le affermazioni di Darwin in merito
aU'origine delle specie, e alcune delle sue critiche erano così acu-
te che Darwin scrisse immediatamente al suo amico botanico J.
D. Hooker (1817-1911) che la recensione «è insolitamente intelli-
gente; evidenzia abilmente tutte le parti più congetturali, e ri-
porta bene tutte le difficoltà. Mi esamina piuttosto brillantemen-
te» (Darwin 1896, voi. 2, pp. 117-118). In una lettera successiva al
geologo Charles Lyell (1797-1875), Darwin si lamentò del fatto
che la recensione di Wilberforce fosse «piena di errori», ma poi
ammise anche: «Incidentalmente, il vescovo muove contro di me
una critica efficace e ben argomentata» (Darwin 1896, voi. 2, pp.
124-125). Per di più, molti dei commenti di Wilberforce spinsero
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 251

Darwin ad apportare delle modifiche in ima revisione successi-


va del libro (Cohen 1985b). E questi erano anche i punti che Wil-
berforce aveva sintetizzato per la British Association e ai quali
aveva risposto Huxley.
La denuncia di J. R. Lucas (Lucas 1979), che risale ormai a
trent'anni fa, della falsità del racconto del trionfo di Huxley sul
vescovo presunto fatuo e snob, ha ricevuto così poca attenzio-
ne che io stesso stavo per ripetere quella falsità - ripresa anche
nella biografia di Huxley a opera di Desmond (Desmond
1997). Eppure, a giudicare dalle loro citazioni, tutti i biografi e
gli storici che lo hanno riportato come fatto avvenuto avevano
letto la raccolta di lettere di Darwin curata dal figlio Francis, e
quindi devono essersi interrogati sul motivo per cui proprio
Darwin trovava del merito nella stupidità del «mellifluo Sam».
Inoltre, la raffinata recensione di Wilberforce pubblicata nella
«Quarterly Review» di giugno-ottobre 1860 è sempre stata a
disposizione degli studiosi. Nonostante tutto questo, la storia
della m eritata lezione subita dal vescovo continua a prospera-
re come la rivelazione della «verità» delTincompatibilità di re-
ligione e scienza. E come se Samuel Wilberforce (che si distin-
se a Oxford nel campo della matematica) dovesse per forza es-
sere in errore ed essere uno sciocco, perché era un vescovo. An-
zi, Lucas ha ipotizzato che «la ragione più im portante della
diffusione della leggenda» è che «è una questione di orgoglio
professionale» per «gli accademici [...] non saper nulla al di
fuori del proprio argomento specifico». Essi credevano ferma-
mente che una persona esterna al settore fosse necessariamen-
te ignorante; di conseguenza, Huxley «doveva aver avuto sue-
cesso in quell'occasione». Per di più, «la battaglia fra religione
e scienza non iniziò a causa di quello che disse Wilberforce, ma
perché fu Huxley a volerlo; e m an mano che la teoria di
Darwin si guadagnava dei sostenitori, costoro facevano prò-
pria la sua versione dell'accaduto» (Lucas 1979, pp. 329-330).
I due episodi di Gladstone e Wilberforce svelano i diversi
metodi usati di frequente nella crociata darw iniana per sovra-
stare gli oppositori: quando possibile, quello di focalizzare la
252 /I GLORIA DI DIO

propria attenzione sugli oppositori meno qualificati e più vul-


nerabili e, in mancanza di bersagli facili, quello di inventarli -
come fa il famoso biografo di Huxley, A drien Desmond, quan-
do dice che «rese insignificanti i "creazionisti"» (Desmond
1997, p. 256). Dunque, ancora oggi è raro trovare un manuale di
biologia generale o sull'evoluzione, per non parlare della trat-
fazione popolare dell'argom ento evoluzione-religione, che non
riduca il «Creazionismo» ai calcoli del vescovo Ussher sull'età
della Terra o alle buffonate di William Jennings Bryan durante
il cosiddetto Processo della Scimmia di Scopes.
James Ussher (1581-1656) era membro della facoltà del Tri-
nity College di Dublino e successivamente fu vescovo di Ar-
magh. Protestante di tendenza calvinista, calcolò che la Crea-
zione ebbe luogo nel 4004 BCE. In realtà, non fu lui a fornire
questa data, che era solamente una delle molte che circolavano
all'epoca (Rudwick 1986, p. 302). Lo stesso Isaac N ewton de-
dico una considerevole attenzione a tale questione e giunse a
conclusioni abbastanza simili. All'epoca della crociata darwi-
niana, poi, la datazione di Ussher era stata dimenticata da mol-
to 23 e l'idea prevalente fra i teologi così come fra i geologi era
che la Terra fosse molto antica. Furono gli evoluzionisti a so-
stenere che la datazione di Ussher rappresentava la visione cri-
stiana, soprattutto per screditare i loro oppositori. Infatti, non
vi era stata una seria opposizione alla teoria dell'evoluzione,
un'opposizione di tipo davvero fondamentalista, fino a più di
sessantanni dopo la pubblicazione de L'origine della specie
(Numbers 1986).
La sprezzante e falsa identificazione del vescovo Wilberforce
con un «creazionista fondamentalista» operata da H. James Brix
era sbagliata sia teologicamente che linguisticamente. Teologica-
mente, perché il vescovo non interpretava le Scritture in senso
letterale (nella sua recensione del libro di Darwin condannò
espressamente tutte le obiezioni mosse alla scienza sulla base
delle Scritture), e linguisticamente perché il termine «fondamen-
talista» non era ancora stato coniato. Molte persone probabil-
mente danno per scontato che il fondamentalismo sia la forma
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 253

più antica di cristianesimo - quella «religione dei tempi antichi»


celebrata dai promotori di un risveglio religioso. In realtà, il Mo-
vimento fondamentalista nacque intorno al 1910 negli Stati Uni-
ti. In risposta a ima «nuova prospettiva critica» negli studi bibli-
ci che dominava nei più importanti seminari (la Harvard Divi-
nity School era apertamente unitariana da un secolo), un gruppo
di pastori cristiani conservatori abbracciò l'idea che nella Bibbia
fosse tutto vero e andasse interpretato in senso letterale - rom-
pendo così con quasi duemila anni di tradizione interpretativa
cristiana. Essi pubblicarono le loro idee in dodici libretti chiama-
ti I Fondamentali, da cui il nome.
Il M ovimento fondam entalista ebbe una discreta popolarità
e divenne un fattore culturale e politico im portante nella vita
americana (Finke, Stark 1992). Avendo deciso di opporsi all'in-
segnamento dell'evoluzione nelle scuole, il m ovimento riuscì a
ottenere delle leggi che proibissero tale insegnam ento in cin-
que stati meridionali, fra i quali il Tennessee. Come sa chiun-
que abbia visto l'opera teatrale o il film E l'uomo creò Satana!, in
conseguenza di questa legge funzionari pubblici fondamenta-
listi perseguirono i docenti che si dedicavano all'insegnam en-
to della vera scienza, ma in realtà nessun pubblico ministero
del Tennessee né di altri stati si prese la briga di far applicare
la legge, e sembrerebbe che nessuno abbia mai avuto intenzio-
ne di farlo (Larson 1997). Ciò che accadde, invece, fu che nel
19251'American Civil Liberties Union fece pubblicare degli an-
nunci sui giornali nei quali cercava un volontario che testasse
la legge; riuscì a reclutare John Thomas Scopes, allenatore, a
volte supplente di biologia, disposto ad am mettere di aver in-
segnato l'evoluzione (benché fosse improbabile che l'avesse
fatto davvero) e a costringere il pubblico ministero a perse-
guirlo. L'ACLU fece anche in m odo di farlo difendere da Cla-
rence Darrow (1857-1938), il più im portante avvocato difenso-
re dell'epoca, autore di m olti trattati ateistici. Poi vi fu un
grandissim o colpo di fortuna per gli evoluzionisti. William
Jennings Bryan (1860-1925), candidato democratico che aveva
perso alle presidenziali per tre volte, riuscì a farsi nominare a
254 A GLORIA DI DIO

capo dell'accusa. Bryan sperava di sfruttare la pubblicità na-


zionale derivata dal processo per una quarta cam pagna presi-
denziale. Ovviamente, egli sapeva molto poco di scienza, non
aveva particolari qualifiche teologiche, e si rese ridicolo, tra-
scinando con sé i fondam entalisti - aiutato e favorito da una
stam pa estrem amente faziosa (Larson 1997).
È a causa di questo processo che ogni qual volta dei cristia-
ni chiedono che l'evoluzione sia presentata nelle scuole pub-
bliche «solamente come una teoria», vengono ridicolizzati dal-
la stam pa come fondam entalisti e creazionisti. Julian Huxley e
molti altri ideologi darw iniani sostengono che, a differenza
delle teorie della fisica, della chimica o anche della sociologia,
l'evoluzione sia un «fatto», e non un'ipotesi. Ma questa è
un'assurdità filosofica. Tutte le teorie scientifiche sono sogget-
te alla possibilità di future confutazioni. Anzi, quando il gran-
de filosofo della scienza Karl Popper (Popper 1972, 1975 e
1996) sostenne che la versione standard dell'evoluzione non
fosse nem meno una teoria scientifica, quanto piuttosto una
tautologia non verificabile, fu oggetto di condanna pubblica e
offese personali.
Le tribolazioni di Popper illustrano un altro aspetto basilare
della vittoria del darwinismo: l'appello efficace a costituire un
fronte unito da parte degli scienziati per contrastare un'opposi-
zione religiosa, ha messo a tacere il dissenso all'interno della co-
munità scientifica. Ho già rilevato come i problemi inerenti alla
teoria dell'evoluzione spesso siano stati «insabbiati», tuttavia va-
le la pena citare l'ammissione molto franca deH'eminente studio-
so Everett C. Olson in merito all'esistenza di «un gruppo gene-
ralmente silenzioso» di biologi «che tendono a essere in disac-
cordo con molte affermazioni del pensiero attuale» sull'evolu-
zione, ma che restano in silenzio, in molti casi perché «sono così
fortemente in disaccordo che sembra loro futile» esprimere il
proprio dissenso. Egli riconobbe che è «difficile valutare la di-
mensione e la composizione di questo segmento silenzioso», ma
il loro «numero non è insignificante» e la loro «esistenza è im-
portante è non può essere ignorata» (Olson 1960, p. 523).
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 255

Di recente è divenuto noto il num ero di questi dissenzienti;


le preoccupazioni di Olson erano più che giustificate. Un son-
daggio condotto fra biologi talmente im portanti da essere in-
elusi nell 'American M en and Women of Science rivela che il 45%
am mette che il processo dell'evoluzione è guidato da Dio (Lar-
son, W itham 1997; W itham 1997). Un sondaggio condotto fra
tutti i biologi mostrerebbe senz'om bra di dubbio che i «crea-
zionisti evoluzionisti» sono la maggioranza!

La religiosità degli scienziati moderni

È probabile che il primo sondaggio fra scienziati sia stato


condotto da Francis Galton (1822-1911), il quale, nel 1872, spedì
dei questionari a circa 190 «uomini di scienza inglesi» (Galton
1875; Hilts 1975). Galton era cugino di Charles Darwin e uno dei
fondatori della psicologia quantitativa, ed era diventato famoso
per i suoi studi sull'ereditarietà. La sua inchiesta fra gli scien-
ziati si basò su uno dei questionari più naif e di parte mai scrit-
ti, terribile quasi quanto quello distribuito fra i lavoratori ingle-
si in quello stesso decennio da Karl Marx (e ripubblicato in Bot-
tomore, Rubel 1956). In precedenza Galton aveva sostenuto che
l'interesse scientifico fosse ereditario, ma - convinto dalla corri-
spondenza tenuta con un biologo svizzero che vi fossero coin-
volte sia la natura sia l'educazione - in questo studio voleva far
spazio anche ai fattori ambientali. Per scoprirlo, Galton sottopo-
se dom ande come queste:

Quale misura di cappello portate?


Quanto vi sembrano innati i vostri gusti scientifici?
La religione che vi è stata insegnata in gioventù ha avuto qualche
effetto deterrente sulla libertà delle vostre ricerche?

Quando rispose al questionario, Charles Darwin scrisse «cer-


tamente innati» come risposta alla seconda domanda fra quelle
presentate qui sopra. Alla terza, rispose semplicemente «No».
256 A GLORIA DI DIO

Ciò sorprese molto Galton. Essendo un ateo militante, si aspetta-


va che tutti, e non solo Darwin, rispondessero «Sì». Egli sapeva
che scienza e religione erano incompatibili. Ma non fu solo suo
cugino a non dirlo; più di 90 scienziati dei 100 che risposero al
questionario fecero altrettanto, e pare che Galton non abbia mai
ammesso l'ambiguità della domanda. Egli fu anche molto sor-
preso nello scoprire che quasi tutti coloro che avevano risposto
dichiaravano un'affiliazione religiosa di qualche tipo. Indicativo
è il fatto che Galton fornì cifre esatte per gran parte dei risultati
(per esempio, scrisse che solo 13 avevano ima testa di dimensio-
ne inferiore ai 55 centimetri e 8 superavano i 60), ma non fu così
sollecito in merito ai risultati sulle domande religiose, e le cifre
che ho riportato sono state in un certo senso ricostruite. Inoltre,
benché ammettesse che molti avessero espresso idee religiose
forti, sottolineò che «molti di coloro che si descrivono come reli-
giosi tendevano [...] ad apparire stranamente noncuranti del
dogma ed esenti dal misterioso terrore» (Galton 1875, p. 97). In
ogni caso, questi riscontri erano talmente sgraditi che quando il
pioniere della statistica Karl Pearson (1857-1936) scrisse la bio-
grafia di Galton in tre volumi, ebbe molta cura di spiegare le ra-
gioni metodologiche del perché quei dati non dovevano essere
interpretati a favore della credenza ovviamente «erronea» che
scienza e religione siano compatibili (Pearson 1914-1930). Ciò
nonostante, quando furono condotti studi migliori i risultati non
cambiarono.
Nel 1914, lo psicologo americano James Leuba inviò dei que-
stionari a un campione casuale di persone elencate nell'American
Men of Science. A ognuno venne chiesto di scegliere una delle se-
guenti affermazioni «riguardanti la fede in Dio» (tutti i corsivi
sono originali):

1. Credo in un Dio al quale posso rivolgermi con la preghiera nel-


l'attesa di ricevere una risposta. Con «risposta» intendo qualcosa di
più dell'effetto soggettivo e psicologico della preghiera.
2. Non credo in un Dio definito come sopra.
3. Non ho una convinzione definita in merito alla questione.
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 257

Lo standard scelto da Leuba per la fede in Dio è talmente ri-


goroso da escludere una quota rilevante di clero «tradizionale»24,
e la cosa era ovviamente intenzionale. Egli voleva dimostrare che
gli uomini di scienza non erano religiosi. Con suo sgomento,
Leuba scoprì che il 41,8% del suo campione di scienziati im-
portanti avevano scelto la prim a opzione, prendendo quindi
una posizione che m olti avrebbero considerato «fondamentali-
sta». Un altro 41,5% (molti dei quali, ammise Leuba, credeva-
no senza dubbio in una divinità in un certo senso meno attiva)
scelse la seconda opzione, e il 16,7% rispose con l'alternativa
più indeterm inata.
Evidentemente, questi risultati non erano quelli che Leuba si
aspettava e sperava. Dunque, egli diede grande enfasi al fatto
che, secondo le misurazioni, i credenti non erano la maggioran-
za, e continuò esprimendo la sua fede nel futuro, sostenendo che
i dati dimostravano un rifiuto dei «dogmi fondamentali - un ri-
fiuto evidentemente destinato a espandersi parallelamente alla
diffusione della conoscenza» (Leuba [1916] 1921, p. 280). Tutta-
via, quando il suo studio venne ripetuto con ima metodologia
corretta, nel 1996, i risultati furono invariati (Larson, Witham
1997). Dunque, in un arco di tempo di 82 anni, nella comunità
scientifica non c'era stato nessun calo in una fede in Dio assolu-
tamente letterale.
Nel 1969 la Camegie Commission condusse un vasto sondag-
gio su più di 60.000 professori - circa un quarto di tutto il corpo
insegnanti di college americani, di gran lunga il più ampio son-
daggio di questo tipo. Il sondaggio era centrato su questioni ac-
cademiche e attitudini socio-politiche, ma includeva anche alcu-
ne domande in merito alla religione: «Quanto spesso frequenta
servizi religiosi?», «Qual è la sua religione al momento?»,
«Quanto si considera religioso?», e «Si considera un conservato-
re dal punto di vista religioso?».
La Tabella 2.2 riassume le risposte a seconda dei diversi cam-
pi scientifici. Due riscontri piuttosto sorprendenti sfidano le pre-
tese di incompatibilità fra religione e scienza. Per prim a cosa, i li-
velli di religiosità sono relativamente elevati. In secondo luogo,
258 A GLORIA DI DIO

gli studiosi di scienze sociali sono notevolmente meno religiosi


di coloro che si occupano di settori che potrebbero essere consi-
derati più avanzati dal punto di vista scientifico.

Tabella 2.2 Religiosità a seconda del settore scientifico

% Persone % Abituali % Non


% Conservatori % N on religiosi
religiose frequentatori frequentanti

M a te m a tic a /
60 47 35 40 27
S tatistic a

Scienze fisiche 55 43 38 34 27

Scienze
55 42 36 36 29
n a tu ra li

Scienze sociali 45 31 48 19 36

Econom ia 50 38 42 26 30

Scienze
51 32 43 18 30
politiche

Sociologia 49 38 43 16 36

Psicologia 33 20 62 12 48

A n tro p o lo g ìa 29 15 67 11 57

Fonte: Calcoli tratti dal Camagie Commission Survey condotto su 60.028


professori universitari, 1969.

In gran parte dei campi di studio, una maggioranza si ritiene


religiosa, moderatamente o profondamente - soltanto fra gli stu-
diosi di scienze sociali si tratta di una minoranza (45%). Inoltre,
gli scienziati non si limitano a una fede tiepida - il 40% dei prò-
fessori universitari di matematica e statistica si descrive come
«conservatore» in tema di religione, così come 11 34% degli stu-
diosi di scienze fisiche e il 36% di quelli di scienze naturali. Per
di più, gli scienziati frequentano le chiese con gli stessi livelli di
regolarità della popolazione generale - il 47% dei matematici e
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 259

degli statistici dice di frequentare servizi religiosi due o tre volte


al mese, o più spesso, così come il 43% dei professori di scienze
fisiche e il 42% di quelli di scienze naturali. Il General Social Sur-
vey del 1973 (solamente di quattro anni successivo a questo), ri-
scontrò che il 44% degli americani frequentava servizi religiosi
almeno due o tre volte al mese. Gli scienziati, tuttavia, mostrano
una percentuale leggermente superiore rispetto a quella di chi,
fra la popolazione generale, dichiara di non frequentare nessuna
chiesa - circa un terzo nella maggior parte dei settori scientifici e
quasi la metà in quelli delle scienze sociali, in confronto a un 21%
della popolazione in generale. In aggiunta, gli scienziati supera-
no la popolazione in generale nella percentuale di chi afferma di
non aver «nessuna» preferenza religiosa. Ciò nonostante, al di
fuori del campo delle scienze sociali, solo uno su quattro ha da-
to questo tipo di risposta.
Eppure, la scoperta forse più straordinaria è che per ognuna
di queste misurazioni, i professori che si occupano di scienze
più «rigorose» si rivelano molto più religiosi delle loro contro-
parti di scienze più «morbide», come le scienze sociali: frequen-
tano la chiesa con maggiore regolarità, hanno una più elevata
probabilità di descriversi come «profondamente» o «moderata-
mente» religiosi e di dichiararsi «conservatori», oltre che di ri-
vendicare un'affiliazione religiosa. Questo tipo di schema non è
evidente solamente nelle semplici misure riportate in tabella,
ma anche nelle regressioni complesse: le differenze fra le scien-
ze sociali e le scienze naturali e fisiche sono estremamente forti
e resistono a controlli per caratteristiche individuali quali età,
sesso, razza, o educazione religiosa. Inoltre, queste differenze
fra le aree scientifiche sono state confermate anche dai sondag-
gi su altri campioni di professori di college (Leuba [1916] 1921 e
1934; Thalheimer 1973), e persino di gruppi di studenti univer-
sitari (Feldman, Newcomb 1970). Inoltre, Steven Bird ha scoper-
to che gli studenti di scuola superiore con affiliazioni «fonda-
mentaliste» non avevano meno probabilità degli altri di dichia-
rare di avere fratelli maggiori impegnati in studi scientifici al
college (Bird 1993). E dati di natura longitudinale dimostrano
260 A GLORIA DI DIO

che professori e studenti non diventano meno religiosi m an ma-


no che avanzano nella loro carriera scientifica; anzi, gli iscritti a
scienze sociali sono meno religiosi della popolazione in genera-
le ancor prim a di entrare al college e alle scuole di specializza-
zione (Wuthnow 1985, p. 191).
Nella Tabella 2.2, poi, le scienze sociali sono suddivise in cam-
pi specifici. Qui, possiamo notare un'altra caratteristica: sono so-
prattutto le facoltà di psicologia e antropologia a ergersi come
vette dello scetticismo. Le altre scienze sociali sono relativamen-
te non religiose, mentre queste due sono dei veri casi isolati. Gli
psicologi e gli antropologi, rispetto agli scienziati, hanno quasi il
doppio di probabilità di non frequentare una chiesa, di non defi-
nirsi persone religiose, e di dichiarare di non seguire nessuna re-
ligione. Tali differenze sono così grandi che difficilmente si può
ipotizzare che non abbiano nessuna influenza su linguaggio,
istruzione e ricerca nei rispettivi campi. Anzi, al contrario, i dati
gettano luce sul motivo per cui sia così diffusa la convinzione
che scienza e religione siano incompatibili: quasi tutto ciò che è
stato scritto sull'argomento nel corso del XX secolo è opera di
non-scienziati, o di studiosi di scienze sociali. Sarebbe difficile
immaginare di trovare la seguente citazione in un libro di testo
per studenti universitari di fisica o chimica: «Il futuro evoluzio-
rùstico della religione è l'estinzione. [...] La fede in forze sopran-
naturali è destinata a svanire, in tutto il mondo, come risultato
della sempre maggiore adeguatezza e diffusione della conoscen-
za scientifica». (Wallace 1966, p. 265)
Eppure, non vi furono sopracciglia alzate in segno di sor-
presa quando queste parole apparvero in un manuale per stu-
denti universitari scritto dall'illustre antropologo Anthony F. C.
Wallace.
Questo contrasto fra scienze sociali e scienze fisiche è ben il-
lustrato dal seguente aneddoto. Nel 1940, A. S. Yahuda, il prò-
fessore di Yale che aveva acquistato la raccolta di manoscritti di
Newton che oggi si trova a Gerusalemme, propose a George Sar-
ton di mostrargli le opere teologiche di Newton. L'illustre stori-
co di Harvard declinò l'offerta in maniera piuttosto sgarbata, so­
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 262

stenendo di essere interessato solamente alla scienza25. Ma quan-


do Yahuda mostrò i manoscritti ad Albert Einstein, questi li trovò
affascinanti e scrisse una lettera nella quale esprimeva la sua
gioia nell'esaminare «il laboratorio spirituale» di Newton (Ma-
nuel 1974, p. 27). Einstein era piuttosto incline al «parlare di Dio»
(Regis 1987, p. 24). Nel 1911, disse al filosofo ebreo Martin Buber:
«Ciò a cui noi [fisici] aspiriamo è proprio tracciare le Sue linee
dopo di Lui». Nel 1921 disse a un giovane fisico: «Io voglio sco-
prire come Dio ha creato questo mondo. [...] Voglio conoscere i
Suoi pensieri, il resto sono dettagli». Inoltre, sono divenute fa-
mose due delle affermazioni che faceva spesso in merito a Dio:
«Dio è sottile, ma non malizioso», e «Dio non gioca a dadi con il
mondo» (Clark 1971, pp. 18-19; Regis 1987, p. 24). Benché alcuni
biografi di Einstein neghino che il suo uso della parola «Dio» ab-
bia delle implicazioni religiose (Clark 1971; Snow 1968), non c'è
bisogno che qui si approfondisca tale questione. Quello che mi
interessa è solo sottolineare come queste espressioni non faces-
sero sollevare nessun sopracciglio, né lo fanno ora, nel mondo
della fisica e delle scienze naturali, mentre qualsiasi studioso di
scienze sociali che parlasse in questo modo verrebbe stigmatiz-
zato dai colleghi. E questo è il probabile motivo per cui i socio-
logi della scienza continuano a seguire l'esempio di Sarton. Non
solo non sono interessati alla religiosità di Newton o Einstein,
ma hanno anche mostrato poco o nessun interesse per il grande
revival di simili discorsi nei circoli scientifici.
Il 20 luglio 1998, la copertina di «Newsweek» proclamò:
«La scienza scopre Dio». Dati i presupposti che hanno gover-
nato le opinioni intellettuali su scienza e religione per la mag-
gior parte del secolo, la scoperta che molti sofisticati scienzia-
ti credano che la figura di un Creatore offra la spiegazione più
semplice e più convincente di come è nato il mondo, è im a no-
tizia degna di una copertina. Eppure, non si può certo dire che
sia stata im a scoperta improvvisa. Una pietra miliare nella ri-
presa di un dialogo serio fra scienza e teologia fu il libro di Ian
Barbour, Issues in Science and Religion (1966). Da quel punto in
poi, gli im portanti tentativi (soprattutto da parte di scienziati)
262 A GLORIA DI DIO

di combinare religione e scienza, come God and thè New Physics


(Davies 1983; ed. it. Dio e la nuova fisica, 1984), hanno attratto
un vasto pubblico di lettori. Inoltre, questi sviluppi possono
essere interpretati come un ritorno al rapporto tradizionale fra
teologia e scienza. Le nuove e brillanti opere di teologi come
John Polkinghorne (1998; ed. it Credere in Dio nell'età della scien-
za, 2000), unico membro ecclesiastico della Royal Society di
Londra, seguono la tradizione della teologia naturale - come
riconosce pienam ente lo stesso Polkinghorne. Allo stesso mo-
do, i tentativi di scienziati come il premio Nobel per la fisica
Charles Townes di dim ostrare che Dio è un fattore necessario
in qualsiasi spiegazione esauriente dell'universo (Townes
1995), sono del tutto allineati a una lunga tradizione, quella
stessa tradizione che la crociata darw iniana ha cercato di in-
terrompere. Potremmo persino dire che questo rinnovato rap-
porto sia un ritorno alla «normalità» se ammettiamo che aves-
se ragione Albert Einstein nell'affermare: «La scienza senza la
religione è zoppa. La religione senza la scienza è cieca» (Ein-
stein 1954, p. 46).
Non voglio sostenere che gli scienziati debbano includere
Dio all'interno delle loro cosmologie, né che i non credenti non
siano in grado di fare buona scienza. Piuttosto, sostengo che re-
ligione e scienza siano compatibili, e che le origini della scien-
za risiedano nella teologia.

Conclusione

Nonostante la sua lunghezza, questo capitolo ruota intorno a


due punti essenziali. Il primo è che la scienza nacque una volta
sola nella storia - nell'Europa medievale. Il secondo è che la
scienza poteva nascere solamente in una cultura dominata dalla
fede in un Creatore dotato di consapevolezza, razionale e onni-
potente. Dunque, si potrebbe dire che la nascita della scienza ri-
chiese un Undicesimo Comandamento: «Dedicatevi alla cono-
scenza della mia opera».
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 263

1Come osservò Theodor K. Rabb (1975, p. 274), «il caso Serveto appare ir-
rilevante nella discussione dell'opposizione protestante alla scienza, poi-
ché di sicuro nessuno ha messo in dubbio che sia Calvino sia coloro che
guidarono la protesta [...] fossero interessati solo alla punizione delTere-
sia dottrinale. Ipotizzare un'altra questione significa travisare la realtà».
2Nel numero del suo cinquantennale, pubblicato nel settembre 1998, «Ar-
chaeology» riportava un lungo articolo intitolato I secoli non proprio bui, nel
quale si sintetizzavano le scoperte basate su un numero rilevante di scavi,
che dimostravano come quest'epoca fosse molto più civilizzata di quanto
avessero ammesso le generazioni precedenti, e si confermava la rivaluta-
zione storica che conferisce a quest'epoca il merito di aver gettato «le fon-
damenta della cultura europea moderna» (Hodges 1998, p. 61).
3Mi è stato insegnato che quando Giulio Cesare conquistò la Britannia, i
nativi erano semiselvaggi che si dipingevano di blu. Eppure, gli stessi rac-
conti di Cesare rivelano che dovette combattere e vincere una lunga e dif-
ficile battaglia navale per attraversare la Manica. Un popolo con una ma-
rina capace di sfidare i romani difficilmente poteva essere selvaggio.
4Film e racconti sui «ladri di cadaveri» spesso suggeriscono che questa ne-
fanda attività fosse necessaria a causa del divieto di dissezione. In realtà,
i furti di cadaveri si sono verificati in diversi tempi e luoghi, ma non per-
ché fosse proibita la dissezione dei corpi umani, quanto per la scarsità dei
corpi. Le famiglie erano restie a concedere i loro cari a un trattamento ir-
rispettoso, o a rinunciare al conforto delle visite a un luogo di sepoltura.
5Π passo citato dall'opera di Russell continua così: «Senza dubbio, se i ci-
nesi riuscissero a instaurare un governo stabile e a stanziare fondi suffi-
denti, nell'arco dei prossimi trent'anni comincerebbero a fare un lavoro no-
tevole in ambito scientifico. Anzi, è molto probabile che ci supererebbero».
6Data l'ossessione di Merton per le questioni di priorità, trovo molto biz-
zarro il fatto che non abbia mai riconosciuto la portata del proprio debi-
to nei confronti di Dorothy Stimson e della sua precedente pubblicazione
sul rapporto fra puritanesimo e nascita della scienza. Potrebbe anche dar-
si che egli abbia scritto la sua tesi senza conoscere il precedente lavoro
della Stimson. Ma, per tutte le ragioni che avanza nei suoi scritti sulla
priorità, avrebbe dovuto parlarne con chiarezza al momento della pub-
blicazione del 1938, oppure nelle successive ristampe degli estratti chia-
ve della sua tesi. Una discussione molto tardiva di tale questione da par-
te di Bernard Cohen, uno dei più grandi ammiratori di Merton, non si di-
mostra particolarmente illuminante a proposito (in Clark, Modgil, Mod-
gii 1990). Alcuni storici oggi attribuiscono congiuntamente la tesi sia a
2 64 A GLORIA DI DIO

Merton sia alla Stimson, senza nessuna menzione di precedenza (si veda
Himter 1982; Shapiro 1968). Tuttavia, dal momento che questi stessi sto-
rici rifiutano questa tesi, la cosa è divenuta quasi una disputa insignifi-
cante tanto quanto quella su chi sia stato a formulare per primo la teoria
del flogisto.
7Le tesi di Merton si richiamavano con forza alle accuse anticattoliche del-
l'epoca. Si trattava di un'era di feroce anticattolicesimo. Anzi, è stato detto
che l'anticattolicesimo di allora fu l'antisemitismo degli intellettuali libera-
li. Un forte anticattolicesimo era comune anche in riviste e giornali rispet-
tabili degli anni '30 - e la cosa si protrasse fino agli anni '60.
8Diversamente, il Random House Webster's Dictionary o f Sdentisi, oltre a
ostentare tutti i peccati del politicamente corretto, banalizza la parola
«scienziato» includendo moltissime voci come «Fixx, James 1932-1984. Di-
vulgatore statunitense dello jogging».
9Alcuni storici hanno tentato di classificare Pierre Gassendi come uno
scettico, nonostante il fatto che fosse un sacerdote cattolico. Ciò sembra
del tutto infondato, come ha dimostrato in modo convincente Sylvia Murr
(1993).
10Ironicamente, parte dei problemi di Galileo derivò dai rinnovati sforzi di
contrastare gli astrologi, le cui pretese di previsione del futuro erano state
denunciate da molto tempo come pericolose superstizioni (capitolo 3). Al-
cuni uomini della Chiesa erroneamente equipararono l'affermazione che
la Terra si muovesse alle dottrine secondo cui il fato era governato dal mo-
to dei corpi celesti.
11Burckhardt fu anche il primo a sostenere che la conversione di Costanti-
no fosse falsa e dovuta solamente alla sua sete di potere. Per fortuna, gli
storici successivi hanno rifiutato questa tesi, ma devono ancora scoprire i
pregiudizi presenti nel suo studio sul Rinascimento.
12Prima di morire, Newton distrusse una vasta raccolta di documenti. Copiò
poi molti dei manoscritti che aveva salvato con cura, come facevano gli au-
tori dell'epoca quando volevano dare allo stampatore un manoscritto chiaro.
13A esse si aggiunge l'importantissima collezione dei manoscritti sdentili-
ci di Newton custodita a Oxford e la collezione dei Babson College Archi-
ves, a WeUesley, nel Massachusetts.
MNegli ultimi quattro decenni, i manoscritti e le annotazioni di natura teo-
logica, alchemica, astrologica ed esoterica di Newton sono stati studiati
con grande attenzione, e numerosi sono stati pubblicati - anche se ne man-
cano ancora molti (cfr. Castillejo 1981; Dobbs 1975 e 1991; Hall e Hall 1962;
McLachlan 1950).
L'OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA 265

15Diversi colleghi mi hanno avvertito che criticare la teoria dell'evoluzio-


ne avrebbe potuto danneggiare la mia «carriera», il che non ha fatto altro
che rafforzare la mia determinazione a non sopportare più questo oscu-
rantismo arrogante.
16Alcuni potrebbero obiettare che esistono rare eccezioni, come l'incrocio
di un cavedio e di un asino, che genera un mulo. Ma, come avviene esat-
tamente nel caso dei muli, la prole generata da questi incroci è costituita
da ibridi sterili.
17E qui do una possibilità ai darwinisti ortodossi e neo-ortodossi, dal mo-
mento che non sono stati in grado di definire questo essere adatti se non
in termini di un tasso di riproduttività più elevato, rendendo così tautolo-
gica la teoria: quelli che si riproducono con percentuali più elevate si ri-
produrranno con percentuali più elevate.
18Il termine si applica a tutti gli studi evoluzionisti basati sulla genetica
mendeliana.
1’Si tratta di ima sorta di strumento magico, un gancio attaccato a un cavo
che si spinge nel cielo ed è in grado di sollevare e abbassare dei pesi sen-
za essere collegato a una gru o ad altro mezzo meccanico. Quando ero nel-
l'esercito, il termine era di uso comune in espressioni come: «A meno che
il cappellano non preghi fino a farci scendere un gancio dal cielo, non riu-
sciremo mai a far alzare quel babbeo».
20Indicativo del carattere a‫־‬scientifico della crociata darwiniana, Cari Sa-
gan (1975, p. 82), disse che il fatto che «il tempo disponibile per l'origine
della vita sembra essere stato breve, al massimo poche centinaia di milio-
ni di anni» era una prova a sostegno della prospettiva per cui l'evoluzio-
ne deve essere molto più veloce e statisticamente molto più probabile di
quanto avevamo pensato.
21Dawkins (1986) «risolve» questo problema introducendo un non identi-
ficato editor che permette alla scimmia di sapere ogni volta se ha messo la
lettera corretta nel punto corretto, fornendo così un rapido completamen-
to delle frasi. Trovo questa cosa rilevante, poiché Dawkins si guadagna da
vivere essenzialmente con il suo ateismo, mentre un qualsiasi creazionista
istruito abbraccerebbe volentieri questa sua versione di evoluzione «con
ima regia».
22Un sondaggio condotto fra gli studenti di cinque scuole di teologia ameri-
cane protestanti alla fine degli anni '20, rilevò che il 94% era d'accordo con
l'affermazione che «l'idea dell'evoluzione è coerente con la fede in Dio in
quanto Creatore», e solamente un 5% diceva «che la creazione del mondo è
avvenuta secondo i modi e i tempi documentati dalla Genesi» (Betts 1929).
266 A GLORIA DI DIO

23U fatto che venga ricordata è dovuto alla sua inclusione in una nota mar-
ginale di alcune edizioni della Bibbia di Re Giacomo.
24Un campione trasversale di ministri protestanti di Chicago, alla fine de-
gli anni '20, rivelò che, benché tutti dichiarassero la propria convinzione
che «Dio esiste», solo il 64% diceva che «la preghiera ha il potere di cam-
biare le situazioni in natura». Nello stesso studio si interrogavano anche
degli studenti di cinque scuole teologiche, dei quali solo il 21% concor-
dava con l'affermazione sulla preghiera (Betts 1929). In un sondaggio a
campione sul clero protestante nella California del 1968, solo il 45% dei
pastori della Chiesa Unita di Cristo era d'accordo con l'affermazione: «So
che Dio esiste e non ho alcun dubbio a proposito» (Stark et al 1971); del
clero metodista, era d'accordo un 52%. Si noti che questa affermazione è
molto meno rigorosa di quella proposta da Leuba, dal momento che il
clero era libero di definire Dio come preferiva. Dato che la maggioranza
di questo stesso clero dubitava della divinità di Gesù, si deve supporre
che molti di questi religiosi dichiarassero una fede in una concezione di
Dio piuttosto remota e vaga, non di certo un Dio che possa ascoltare e ri-
spondere alla preghiera.
25La cosa non sorprende poiché Sarton rimase un fedele sostenitore di A.
D. White e della convinzione che la religione sia la nemica naturale della
scienza (si veda Sarton 1955).
Appendice 2.1

Ruolino di stelle della scienza

Devozione personale

Bayer Johann (1572-1625) Devoto


Borelli Giovanni (1608-1679) Convenzionale
Boyle Robert (1627-1691) Devoto
Brahe Tycho (1546-1601) Convenzionale
Briggs Henry (1561-1630) Devoto
Cartesio René (1596-1650) Devoto
Cassini Giovanni (1625-1712) Convenzionale
Copernico Nicolò (1473-1543) * Convenzionale
Fabricius David (1564-1617) * Devoto
Falloppio Gabriele (1523-1562) Devoto
Fermat Pierre (1601-1665) Convenzionale
Flamsteed John (1646-1719) Devoto
Galilei Galileo (1564-1642) Convenzionale
Gassendi Pierre (1592-1655) * Devoto
Gellibrand Henry (1597-1663) Devoto
Gilbert William (1540-1603) Convenzionale
Graaf Regnier de (1641-1673) Convenzionale
Grew Nehemiah (1641-1712) Devoto
Grimaldi Francesco (1618-1663) * Devoto
Guericke Otto (1602-1686) Convenzionale
Halley Edmund (1656-1742) Scettico
Harvey William (1578-1657) Convenzionale
268 A GLORIA DI DIO

Helmont Jan Baptista van (1577-1644) Devoto


Hevelius Johannes (1611-1687) Convenzionale
Hooke Robert (1635-1703) Devoto
Horrocks Jeremiah (1619-1641) * Devoto
Huygens Christiaan (1629-1695) Devoto
Keplero Giovanni (1571-1630) Devoto
Kircher Athanasius (1601-1680) * Devoto
Leeuwenhoek Anton (1632-1723) Convenzionale
Leibniz Gottfried (1646-1716) Devoto
Malpighi Marcello (1628-1694) Convenzionale
Mariotte Edme (1620-1684) * Devoto
Mersenne Marin (1588-1648) * Devoto
Napier John (1550-1617) Devoto
Newton Isacco (1642-1727) Devoto
Oughtred William (1575-1660)* Devoto
Papin Denis (1647-1712) Devoto
Paracelso (1493-1541) Scettico
Pascal Blaise (1623-1662)* Devoto
Picard Jean (1620-1682) * Devoto
Ray John (1628-1705) * Devoto
Riccioli Giovarmi (1598-1671) Devoto
Roemer Olaus (1644-1710) Convenzionale
Scheiner Christoph (1575-1650) * Devoto
Snell Willebrord (1591-1626) Convenzionale
Steno Nicolaus (1638-1686) * Devoto
Stevinus Simon (1548-1620) Convenzionale
Torricelli Evangelista (1606-1647) Convenzionale
Vesalius Andreas (1514-1564) Devoto
Vieta Franciscus (1540-1603) Convenzionale
Wallis John (1616-1703) * Devoto

*Ecclesiastici (sacerdoti, monaci, frati, ministri del culto, canonici ecc.)·


Π corsivo indica un protestante.
Capitolo 3

I Nemici di Dio: una spiegazione della caccia


alle streghe in Europa

L'estremo razionalismo può essere definito come il


fallimento della ragione nel comprendere se stessa.
Abraham Joshua Heschel

Per secoli, quasi tutti gli europei istruiti hanno creduto che le
loro società fossero vittime di un terribile movimento clandesti-
no di «streghe», che avevano giurato fedeltà a Satana e che gioi-
vano nelTinfliggere sofferenza, morte e distruzione al prossimo.
La reale esistenza di queste malfattrici era certa al di là di ogni
dubbio, essendo stata confessata con dettagli elaborati e coeren-
ti da migliaia di «streghe» portate davanti alla giustizia in molti
luoghi diversi.
Questi racconti fatti sotto giuram ento dipingevano u n qua-
dro terribile di u n diavolo, male assoluto, alla ricerca di prede.
A tutte le «streghe» veniva chiesto di partecipare regolarmen-
te a degli incontri in cui avvenivano i crimini più stravaganti e
immorali immaginabili. Gli incontri più frequenti erano i sab-
ba (o sabbath), nei quali le «streghe» degli im mediati dintorni
si riunivano, solitamente il venerdì notte, in luoghi come cimi-
teri nei pressi di chiese e nelle vicinanze di prigioni. La riunio-
ne iniziava con le partecipanti che recitavano delle preghiere al
Diavolo, il quale era presente - a volte in forma um ana, a voi-
te come orribile creatura dotata di corna. Dopo aver riafferma-
to la rinuncia a Cristo, ognuna delle «streghe» baciava il Dia-
volo, di solito nell'ano. A questa cerimonia seguiva un ban­
270 A GLORIA DI DIO

chetto, di solito con un neonato arrostito per l'occasione. Dopo


il pasto, c'era una versione blasfema della Messa cristiana, al
term ine della quale, le «streghe» si raccontavano i propri sue-
cessi nel danneggiare gli altri scatenando tempeste, facendo
appassire i raccolti, facendo ammalare bestiame e pollame, fa-
cendo nascere bam bini morti o am malare le persone, spesso in
maniera letale. Poi, alla luce di una candela posta nel retto di
una delle partecipanti, che rim aneva appoggiata su mani e gi-
nocchia, iniziava una danza che si trasformava presto in un'or-
già generale, nella quale niente era vietato. Il climax si rag-
giungeva nel rapporto sessuale di Satana con tutti i presenti -
il Diavolo cambiava sesso per compiacere gli uom ini come le
donne. Le «streghe» che avevano reso le loro dichiarazioni
avevano confessato che il pene del Diavolo era dolorosamente
ruvido e il suo seme gelido.
Molte volte l'anno, «streghe» provenienti da ogni dove si riu-
nivano per un sabba generale, superando le enormi distanze con
mezzi di trasporto magici volanti, a volte cavalli, o arieti, o cani
enormi, altre volte su scope o pali che, grazie a un olio magico
cosparso su di essi, permettevano loro di volare. In questi sabba,
accadevano le stesse cose che avvenivano nelle riunioni regolari,
ma su scala molto più grande. Il sabba iniziava con i presenti che
ripronunciavano i loro giuramenti, compresi quelli di «ricoprire
di ingiurie e insulti con parole e azioni la Beata Vergine Maria e
gli altri Santi; calpestare, profanare e distruggere tutte le Reliquie
e le immagini dei Santi; astenersi dal segno della Croce; [...] non
confessare i propri peccati a un sacerdote [...] e infine, reclutare
tutti quelli che potevano al servizio del diavolo» (Guazzo [1608]
1972, p. 16). Alla fine di tutti i sabba, grandi e piccoli, Satana or-
dinava alle «streghe» di disperdersi e causare quanto più male
possibile ai propri vicini cristiani.
Se gli europei si fossero trovati davanti davvero a un simile
pericolo, l'unica cosa ragionevole e decorosa da fare sarebbe sta-
ta quella di combatterlo, e fu proprio ciò che molte persone ra-
gionevoli e decorose si accinsero a fare. Le conseguenza furono
tragiche.
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 271

Pregiudizi dannosi

Pochi argomenti hanno generato così tante sciocchezze e as-


solute invenzioni come la caccia alle «streghe» europea. Alcuni
degli episodi più famosi non sono mai avvenuti, esistendo sola-
mente in racconti ingannevoli e documenti falsificati \ e persino
l'attuale letteratura «colta» abbonda di cifre assurde sul numero
delle streghe condannate. Andrea Dworkin sostenne che nove
milioni di donne europee furono m andate al rogo come «streghe»
(1974), mentre Mary Daly si accontenta di parlare di «milioni» di
donne (1978). Pennethome Hughes incluse entrambi i sessi nel
«novero di coloro che morirono per stregoneria», e, avendo os-
servato che secondo alcuni le stime si aggiravano intorno ai «no-
ve milioni», aggiunse: «Potrebbero essere molti di più» (Hughes
1952, p. 195). Norman Davies (1996, p. 567) dedicò solo due del-
le più di mille e trecento pagine della sua storia d'Europa alla
stregoneria, ma gli furono sufficienti per affermare con sicurezza
che !'«ossessione» aveva «consumato milioni di innocenti»2. So-
lamente accettando statistiche così fantasiose, i vari autori pos-
sono utilizzare con plausibilità un termine come «genocidio», e
paragonare la caccia alle «streghe» all'Olocausto.
Come vedremo, i processi per stregoneria cominciarono con
l'inizio del XIV secolo, ma le vittime furono poche per 150 anni.
Di conseguenza la datazione convenzionale dell'epoca della stre-
goneria va dal 1450 al 1750 circa, anche se molti degli episodi più
feroci si verificarono fra il 1550 e il 1650. Durante tutti questi tre
secoli, è assai poco probabile che in Europa siano morte più di
100.000 persone per stregoneria. Infatti, gli studiosi che hanno
passato in rassegna i documenti reali prestando attenzione ai nu-
meri concordano sul fatto che la stima migliore stia intorno alle
60.000 morti per stregoneria - di uomini così come di donne -
nell'arco di tutta l'epoca della caccia alle «streghe» (Briggs 1998;
Katz 1994; Levack 1995). Ciò ci riporta a un totale di circa due
vittime per 10.000 abitanti 3. Anche se presumessimo un tasso di
mortalità doppio, il totale che si ottiene è una piccola frazione
delle stime che sono state a lungo ripetute.
272 A GLORIA DI DIO

Ovviamente, la caccia alle «streghe» non fu un fenomeno dif-


fuso nel tempo e nello spazio, anzi il fatto che si verificasse a on-
date, e si concentrasse in pochi luoghi, significa che una gran
parte degli episodi locali furono più sanguinosi di quanto possa-
no suggerire le statistiche complessive. Tuttavia, anche la mag-
gioranza di questi episodi più tragici fu molto meno sanguinaria
di quanto spesso proclamato. Theo B. Hyslop (Hyslop 1925, p. 4)
riferì che in Inghilterra, dal 1600 al 1680, «furono arse circa qua-
rantaduemila streghe» (si tenga presente che in Inghilterra in
realtà le «streghe» non venivano nemmeno mandate al rogo, ma
impiccate) - ma le vere cifre per quanto riguarda questo paese
probabilmente si aggirano al di sotto di un migliaio di vittime
nell'arco di tre secoli (Ewen 1929; Levack 1995; Thomas 1971). In
modo simile, si credette a lungo che alTinizio del XVII secolo,
600 «streghe» fossero state giustiziate nella regione basca della
Spagna. In realtà, la vera cifra potrebbe ammontare a trenta, o co-
munque non essere superiore a ottanta (Henningsen 1990). Fino
a poco tempo fa si presumeva anche che 99 uomini, donne e
bambini fossero stati arsi vivi a Mora, in Svezia, nel 1669 (Rob-
bins 1959). In realtà, in quell'occasione furono decapitati 17 adul-
ti (e nessun bambino) e i loro corpi vennero dati alle fiamme sue-
cessivamente (Ankarloo 1990). Henry C. Lea pone la stima delle
morti in Scozia intorno a un totale di 7500 (Lea 1906-1907) cinque
volte superiore alla vera cifra (Larner 1981). E così via.
La morte di 60.000 persone innocenti è certamente un qualco-
sa di agghiacciante, ma non giustifica l'esagerazione così invero-
simile delle cifre. Né esiste alcuna giustificazione per presumere
e continuare a ripetere che la maggior parte dei cacciatori di
«streghe» fossero dei fanatici sadici. Se fosse stato così, avremmo
una facile spiegazione del fenomeno, ma i fatti non ci consento-
no di portare avanti questa tesi. H ugh Trevor-Roper sottolineò
che «i prìncipi più feroci persecutori delle streghe, scopriamo
spesso, sono anche i mecenati più colti del sapere contempora-
neo». E per quanto riguarda molti di coloro che ebbero un ruolo
attivo nelle effettive persecuzioni, esaminando le loro biografie,
Trevor-Roper disse «che si sono rivelati personaggi innocui e
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 273

istruiti» (Trevor-Roper [1969] 2001, pp. 141-143). Dando per


scontato che molti di questi famigerati cacciatori di «streghe» fu-
rono veramente dei fanatici che non si sarebbero fermati davan-
ti a nulla, va detto che gran parte dei giudici e degli inquisitori
sembravano piuttosto preoccupati di giungere a sentenze giuste.
«Con poche eccezioni, i tribunali europei mostrarono una consi-
derevole moderazione e cautela nel valutare i sospetti di strego-
neria» (Briggs 1996, p. 8). Ciò si riflette nel fatto che la percen-
tuale di condanne totali per coloro che furono portati in tribuna-
le con accuse di stregoneria era del 50-55% (Katz 1994; Levack
1995) - una cifra bassa tanto quanto le percentuali di condanna
per altri crimini in quell'epoca “.
E la morte non era nemmeno la conseguenza inevitabile di
una condanna per stregoneria. In molti luoghi le pene per un rea-
to commesso la prim a volta erano molto moderate - in Spagna la
norma era la riconciliazione con la Chiesa senza punizione, e di
solito solamente coloro che rifiutavano di pentirsi venivano con-
dannati (Levack 1995; Kamen 1993 e 1997; Katz 1995). In alcuni
luoghi, certo, la morte era la condanna normale che veniva in-
flitta alle «streghe». Ma anche in questo caso, bisogna tenere in
considerazione il fatto che la pena capitale era la normale pena
prevista per tutti i reati di una certa gravità - anche all'apice del-
la caccia alle «streghe», venivano giustiziati molti più ladri e ra-
pinatori di «streghe» (Weisser 1989). Anzi, «è probabile che fos-
sero molte di più le donne giustiziate per infanticidio che quelle
per stregoneria» (Briggs 1998, p. 262). Per esempio, a Rouen, fra
il 1550 e il 1590, al culmine della caccia alle «streghe», furono
mandate al rogo per infanticidio 66 donne, mentre furono con-
dannati al rogo per stregoneria tre donne e sei uomini (Monter
1999). Inoltre, il ricorso al rogo come metodo per giustiziare le
«streghe» era dovuto non al desiderio di infliggere incredibili
sofferenze, ma di «impedire la risurrezione del corpo» (Hansen
1969, p. 12). Di conseguenza, spesso le «streghe» venivano stran-
golate prima di essere arse, oppure si poneva del fogliame ba-
gnato sul fuoco, di modo che le vittime morissero di asfissia pri-
ma che le fiamme le raggiungessero. In Svezia, le «streghe» ve­
274 A GLORIA DI DIO

nivano decapitate e poi i loro corpi mandati al rogo. Per di più,


molte «streghe» non furono affatto bruciate, né da vive né da
morte. In Inghilterra e Scozia venivano impiccate, e in alcune zo-
ne della Germania venivano decapitate o affogate.
Dovremmo anche osservare che, invece che essere pieni di
estremisti religiosi, i tribunali ecclesiastici, nel trattare con perso-
ne accusate di stregoneria, erano molto più giudiziosi e clemen-
ti delle corti secolari (Levack 1995). Contrariamente alla sua re-
putazione famigerata, ormai è opinione generale fra gli storici
importanti che l'Inquisizione nacque in Spagna per sostituire le
azioni della folla con un processo e una detenzione giudiziaria
(Haliczer 1990; Hamilton 1981; Henningsen 1990; Kamen 1993 e
1997), con il risultato che, come ha sottolineato Brian Levack, du-
rante «la più vasta caccia alle streghe della storia spagnola» fu-
rono accusate più di millenovecento persone, ma «solamente un-
dici individui furono condannati» (Levack 1995, p. 92).
È vero che spesso si ricorreva alla tortura per estorcere una
confessione alle presunte «streghe», e che erano queste confes-
sioni estorte con la violenza, più di qualsiasi altra cosa, a soste-
nere la convinzione dell'esistenza di veri patti con il Diavolo. Ma
la tortura in genere era considerata uno strumento di giustizia le-
gittimo, e veniva applicata anche a molti di coloro che venivano
accusati di crimini più convenzionali. Anche in questo caso, era-
no i tribunali ecclesiastici le corti più riluttanti nei confronti del-
la tortura, e alla fine furono i prim i a proibirne l'uso.
Prima di esaminare le spiegazioni del perché vi siano state
delle cacce alle «streghe», dobbiamo distinguere le tre attività
fondamentali sulle quali si basavano tutte le accuse: magia, stre-
goneria e satanismo.

Magia, stregoneria e satanismo

Magia
Come vedremo meglio, in questo periodo la magia normale
era largamente praticata ed era molto simile alla magia diffusa
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 275

ovunque, con incantesimi semplici, formule magiche, e pozioni,


tutte pratiche volte a controllare il tempo, la fertilità, l'amore, la
salute e le fortune economiche. Di per se stessa, raramente la ma-
già venne considerata un grave crimine. Benché spesso la Chie-
sa avesse tentato di proibirla - in parte perché i suoi intellettuali
la consideravano un inganno, e in parte perché l'establishment
religioso voleva avere l'esclusiva del «mercato» della magia -
praticamente nessuno ebbe seri problemi a causa dell'esercizio
della magia. Tuttavia, praticanti della magia con alta visibilità,
soprattutto coloro che lo facevano su base commerciale, erano
vulnerabili al sospetto di commettere azioni più gravi e malva-
gie. Di solito venivano accusati principalmente di utilizzare la
magia per danneggiare gli altri causando tempeste, bruciando i
raccolti, o inducendo aborti, nascite di bambini morti e malattie.
Questo aspetto della magia spesso veniva definito con il termine
di magia nera - studiosi e cacciatori di «streghe» lo chiamavano
maleficia. Sappiamo che i malefici erano una pratica piuttosto co-
mune perché, senza essere soggette a forme di costrizione, mol-
te persone ammettevano non solo di averne fatti, ma anche di
averne commissionati.

Stregoneria
La stregoneria è ima forma più elaborata di magia, e richiede
ima notevole conoscenza e pratica per utilizzare riti, incantesimi,
calcoli e strumenti speciali. Alchimia, astrologia, divinazione e
negromanzia (queste ultime tre hanno a che vedere con la previ-
sione del futuro) erano fra le arti degli stregoni medievali. Molte
pratiche della stregoneria hanno gli stessi obiettivi della norma-
le magia, ma la stregoneria è considerata molto più potente, e
quindi molto più pericolosa se impiegata per far del male agli al-
tri. La Chiesa condannava l'alchimia, l'astrologia, la divinazione
e la negromanzia come superstizioni, ma erano i malefici a prò-
vocare una vera contrarietà, fra i laici come fra il clero. Come ha
spiegato Robert Briggs, «maledizioni e incantesimi impiegati con
malevolenza sono pericoli reali quando tutti credono in essi, co-
sì che le questioni di colpevolezza e innocenza non sono così
276 A GLORIA DI DIO

semplici come possono sembrare» (Briggs 1989, p. 65). Molto


spesso, le persone si prendevano il merito di aver causato even-
ti dannosi come il cattivo tempo, ed erano comuni le minacce di
far fare a uno stregone una fattura contro qualcuno. Le fatture
meno sofisticate rientravano nella magia, mentre i malefici più
elaborati, come quelli nei quali si usavano immagini di cera per
indurre una malattia, richiedevano la stregoneria.
Nell'Europa medievale e nell'Europa prem odem a c'era un
numero rilevante di stregoni attivi, e sappiamo che alcuni furo-
no coinvolti nella caccia alla «streghe» perché le prove fisiche
delle loro attività venivano ammesse come prove nei processi; a
volte venivano presentate ai tribunali anche prove fisiche di ma-
leficia (Levack 1995).

Satanismo
Come abbiamo osservato nell'introduzione, a volte la strego-
neria implicava dei tentativi di costrizione di entità soprannatu-
rali primitive affinché obbedissero agli ordini dello stregone. An-
che in tal caso, però, la stregoneria rimane entro i confini del ma-
gico. E il satanismo, infatti, che travalica il confine fra magia e re-
ligione, implicando casi di vera e propria adorazione di esseri so-
prannaturali malvagi, o di collaborazione con essi. La magia e la
stregoneria, comprese le forme che hanno a che fare con i male-
fici, si ritrovano in tutto il mondo e costituiscono quelle attività
identificate come «stregonerie» neirimm ensa, e a volte davvero
illustre, letteratura antropologica sull'argomento. Ma non fu
questo ciò che finì per caratterizzare le «streghe» in Europa. Era
il satanismo l'essenza della stregoneria europea, e il fondamento
logico per l'imposizione della pena capitale. E il satanismo era
anche un'idea esclusivamente europea, che separava in maniera
netta «il concetto di stregoneria europeo» dalla «fede magica di
altri popoli primitivi» (Thomas 1971, p. 438). Dunque, benché
l'antropologia della stregoneria possa essere utile anche in Euro-
pa, per capire le tensioni locali in merito a magia e stregoneria,
data la cultura unica implicata, la letteratura antropologica risul-
ta irrilevante per cogliere il motivo per cui gli europei finirono
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 277

con il credere nel satanismo e le modalità con cui lo fecero. E il


punto fondamentale è proprio questa fede, poiché non vi è alcun
mistero nelle ragioni per le quali i giudici, davanti a individui
che credevano davvero di essere dei satanisti, li mandarono alla
forca o al rogo.
A volte il satanismo era la prim a accusa mossa a una perso-
na, ma pare che nella maggioranza dei casi tutto cominciasse da
sospetti in merito alla pratica di magia e stregoneria, e che le ac-
cuse di satanismo emergessero in seguito, durante il processo e
gli interrogatori. L'unica prova a sostegno dell'esistenza del sa-
tanismo consiste nelle confessioni. Un lettore obiettivo, però,
dovrebbe ritenerle tutte falsità, sia le poche confessioni volontà-
rie, sia quelle estorte con la tortura. Per quanto riguarda i detta-
gli sui sabba contenuti nelle confessioni, e sui quali c'era un ge-
nerale e vasto accordo, vedremo come gli interrogatori si basas-
sero su manuali elaborati appositamente per la scoperta delle
«streghe», e come tali dettagli fossero esattamente quelli richie-
sti dai manuali per convalidare ima confessione. Quindi, pos-
siamo dedurne che gli esaminatori continuassero le torture fino
a quando le vittime non ammettevano queste specificità. Alcuni
degli accusati conoscevano già i diversi dettagli perché rientra-
vano neH'immaginario collettivo sulla stregoneria, e li confessa-
vano senza tante sollecitazioni. Ma anche le persone che ne era-
no all'oscuro erano in grado di raccontarli, raccogliendoli dalle
stesse domande che venivano loro rivolte. In qualunque caso,
quindi, le confessioni di satanismo non sono da considerarsi va-
lide, se non altro perché implicano fatti impossibili, quali il vo-
lare, lo scivolare dentro i buchi delle serrature e i camini, il cam-
biare aspetto e forma, il diventare animali, e l'avere rapporti ses-
suali con Satana.

Otto spiegazioni sbagliate

Oltre alle statistiche esagerate e alle altre concezioni erronee


che abbiamo riportato in precedenza, per quanto riguarda la cac-
278 A GLORIA DI DIO

eia alle «streghe» in Europa abbiamo anche otto spiegazioni sba-


gliate, che però dominano sia la letteratura popolare sia quella
accademica. Attraverso il chiarimento e la confutazione di ognu-
na di queste teorie possiamo individuare molte delle caratteristi-
che fondamentali del fenomeno.

Vere streghe
Non solo i cacciatori di «streghe» dell'epoca, ma anche alcuni
studiosi moderni, credono che l'Europa medievale abbondasse
di veri satanisti. Montague Summers (1880-1948), che curò e tra-
dusse in inglese molte fonti primarie concernenti la stregoneria,
sostenne che le persone vendessero veramente le loro anime a
Satana, si dessero alle orge e frequentassero i sabba, urinassero
nelle fonti battesimali, cuocessero neonati, e così via (Summers
1926 e 1927). Margaret M urray (1863-1963) rese popolare una vi-
sione meno estrema della reale esistenza del satanismo soste-
nendo che vi fosse un movimento religioso medievale diffuso e
nascosto, basato sui culti di fertilità precristiani, le cui pratiche
assomigliavano a quelle imputate alle «streghe» - anche se i suoi
membri si recavano agli incontri con mezzi di trasporto conven-
zionali e non a cavallo di una scopa (Murray 1972 e 1978; si ve-
da anche Hughes 1952; Rose 1962). Quindi, si afferma che i cac-
ciatori di «streghe» perseguitassero i ribelli religiosi organizzati,
i quali compivano davvero la maggior parte delle azioni satani-
che che venivano loro imputate. L'opera della M urray un tempo
era molto in voga - e lei scrisse addirittura la sezione sulla stre-
goneria di molte edizioni dell 'Encyclopaedia Britannica. Tuttavia,
gli studiosi più rispettabili oggi concordano con Norman Cohn
sul fatto che la conoscenza della M urray era, nella migliore delle
ipotesi, «superficiale e la sua padronanza del metodo storico ine-
sistente» (Cohn 1975, p. 109). Anzi, la disonestà dell'autrice nel-
l'estrarre citazioni dalle confessioni, con modalità evidentemen-
te tese a fuorviare i lettori omettendo le parti che non avvalora-
no la sua tesi, è stata pienamente denunciata, e la sua opera or-
mai è considerata priva di valore (Briggs 1998; Cohn 1975 e 2000;
Kieckhefer 1976; Parrinder 1958; Robbins 1959; Rose 1962; Rus­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 279

sell 1972; Thomas 1971; Trevor-Roper [1969] 2001). Vale la pena


ricordare che la M urray interpretò la morte di Giovanna d'Arco
come un vero sacrificio rituale, finalizzato alla richiesta di un
buon raccolto (Murray 1978), e che alla fine sostenne che da Gu-
glielmo il Conquistatore in poi, per i quattro secoli successivi,
ogni re d'Inghilterra era stato in segreto un sacerdote di questo
culto delle «streghe» (Murray 1954).
Ciò nonostante, la sua opinione resta tuttora popolare. Gli
editori continuano a mettere sul mercato i suoi libri, assieme a
molti altri che asseriscono che la stregoneria era ed è reale, libri
di solito scritti da aspiranti «streghe» o da studiosi che sguazza-
no nell'ambiente dei vari gruppi wicca. Di conseguenza, oggi le
librerie dedicano molto spazio ai diversi racconti sul tema dei
poteri occulti e alle celebrazioni della «rinascita» della stregone-
ria. La verità è molto meno sensazionale, ma molto più interes-
sante: gli uomini e le donne più istruiti dell'epoca, fermamente
votati al razionalismo, credevano in maniera assoluta nel satani-
smo. Non dovrebbe essere necessario sottolineare che si sbaglia-
vano, e che i cacciatori di «streghe» medievali non perseguitaro-
no veri satanisti, né un movimento religioso occulto simile alla
stregoneria - ma poi, anche qualora una cosa simile fosse esisti-
ta davvero, come avrebbe fatto a passare inosservata per più di
un migliaio di anni? Contrariamente a quanto sostengono le
«streghe» moderne, il movimento wicca contemporaneo è di ori-
gine molto recente, non certo di derivazione antica.
Questo non significa che la stregoneria fosse tutta una fanta-
sia e che non esistesse «nulla» in grado di generare ima certa
preoccupazione negli europei. Come vedremo, una percentuale
notevole delle accuse di stregoneria, soprattutto nei primi tempi,
implicava l'eresia; e questa era un'epoca che abbondava di im-
portanti movimenti eretici. Più avanti in questo capitolo, mo-
strerò come le aree geografiche delle eresie e della stregoneria
siano molto simili fra loro - «In quelle aree in cui l'eresia era for-
te, anche la stregoneria divenne importante» (Russell 1972, p.
40). Per esempio, lungo il Reno, in Germania e Francia, i movi-
menti ereticali prosperarono e le cacce alle «streghe» furono fre­
280 A GLORIA DI DIO

quenti e sanguinarie; in Spagna e Italia, dove l'eresia era poco


diffusa, furono pochi anche i processi per stregoneria. Inoltre, è
nelle stesse aree di diffusione delle eresie e della stregoneria che
si verificano episodi di più violento antisemitismo. Dunque, la
mia ipotesi è che la violenza antisemita, la persecuzione degli
eretici e la caccia alle «streghe» siano tutti risultati collaterali dei
conflitti fra grandi forze religiose.
Un secondo fattore importante è il «contesto» convalidante
fornito da magia e stregoneria: entrambe abbondavano nell'Eu-
ropa dell'epoca, e spesso avevano a che fare con maleficia. Quin-
di, la maggioranza delle accuse in merito a queste pratiche erano
vere. Solitamente, una persona veniva accusata di fare malefici
dai vicini, che motivavano spesso la denuncia con lunghi elenchi
di lagnanze accumulate negli anni (Briggs 1989). Non si trattava
di accuse inconsistenti basate unicamente su sospetti sorti dal
susseguirsi di svariate sfortune - grandinate, malattie del bestia-
me, morte di neonati, e cose simili - che si presumevano causate
dagli accusati, ma si fondavano sulla pubblica conoscenza di si-
mili comportamenti. Molti degli accusati avevano svolto servizi
magici per coloro che alla fine gli si erano rivoltati contro. Molti
altri avevano minacciato per molti anni pubblicamente di ricor-
rere alla stregoneria, oppure si erano vantati di averlo fatto. Un
caso tipico fu quello di Elena Dalok, portata davanti al tribunale
di Londra nel 1493, dopo essersi ripetutamente vantata di essere
in grado di far piovere a piacere e di aver causato la morte di tut-
ti coloro che aveva maledetto (Kittredge 1929, p. 130). Altrettan-
to tipico è il caso di Catarina Servada, del villaggio francese di
Argelès al confine con la Spagna: «Nei suoi scontri con il marito
e i vicini, Catarina affermò ripetutamente di essere una strega e
minacciò chiunque le si opponesse» (Kamen 1993, pp. 238-239).
Oppure, nel 1493, Robert Bayly e sua moglie furono accusati dal
loro parroco, nel Somersetshire, di essere «noti per la loro litigio-
sità e per aver maledetto il vicinato» (Thomas 1971, p. 511). Non
si trattava di maledire nel senso di utilizzare un linguaggio in-
temperante, ma spesso di invocazioni pubbliche di poteri so-
prannaturali affinché generassero conseguenze catastrofiche, co­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 281

me quando Elizabeth Weeks si inginocchiò in un cimitero del


Kent e, davanti alla congregazione dei fedeli, maledì il vicario e
sua moglie, augurando loro che «il papa e il Diavolo» se li pren-
dessero con loro (Thomas 1971, p. 508).
Come dimostrano questi casi, spesso esisteva una base fat-
tuale dietro le accuse, ima base che poteva essere pienamente
provata nei tribunali e che dava un'aura di realtà anche alle ac-
cuse di satanismo. Inoltre, una volta desunta dai teologi e am-
piamente pubblicizzata la cultura del satanismo, ci si doveva
aspettare che alcune persone confessassero volontariamente le
proprie colpe - proprio come la polizia di oggi si trova spesso
davanti a false confessioni di crimini terribili. Senza dubbio, al-
cune persone cercarono davvero di diventare sataniste, e di que-
ste poche, essendosene pentite, «erano sinceramente persuase
delle proprie colpe [... e] le confessarono persino ai loro sacer-
doti» (Monter 1976, p. 199). Tuttavia, benché concordi con Jeffrey
Burton Russell sul fatto che è probabile che nel corso degli anni
diversi piccoli gruppi si siano dedicati a orge sessuali e a molti
degli altri atti sacrileghi dei quali erano accusati, non sono con-
vinto né che tali gruppi fossero la fonte delle idee sulle riunioni
sataniche, né che la convinzione praticamente generale nell'esi-
stenza delle attività sataniche si basasse su questi esempi. Riten-
go più plausibile l'ordine causale inverso, vale a dire che l'esi-
stenza di una cultura del satanismo immaginata in maniera vivi-
da abbia stimolato i tentativi occasionali di gruppi e individui di
metterla in pratica - come accade d'altronde anche nella nostra
epoca, che presumiamo più illuminata. Di conseguenza, benché
si debba ammettere l'esistenza di una sostanziale realtà dietro la
credenza nella stregoneria, nelle accuse di satanismo troviamo
ben poca sostanza.

M alattia m entale
Una variante della teoria secondo la quale le «streghe» esi-
stevano davvero sostiene che esse soffrissero di malattie menta-
li, non individuate in quanto tali in quelle epoche pre-psichia-
triche (Alexander, Selesnick 1975; Bromberg 1959; Cartwright e
182 A GLORIA DI DIO

Biddiss 1972; Freud [1921] 1959; Sarbin 1969; Zilboorg 1935). Ma


ciò può essere sostenuto solamente da chi ha poca familiarità
con le trascrizioni processuali, che rivelano chiaramente la ra-
zionalità di una percentuale preponderante di vittime (Mi-
delfort 1972; Spanos 1978), oltre al fatto che la confessione delle
loro «inganni» veniva estorta con torture e imbeccate, e spesso
ritrattata davanti al giudice. Per di più, come ha osservato Na-
chman Ben-Yehuda (1981), l'interpretazione psicopatologica in-
duce a porsi una dom anda rilevante: dal momento che la pazzia
non apparve improvvisamente nel XV secolo (anche se alcuni
studiosi sostengono che sia così, basandosi su un ragionamento
che parte proprio dalla diffusione delle accuse di stregoneria;
Alexander, Selesnick 1975), perché i malati di mente furono eti-
chettati come «streghe» solamente in quest'epoca? In realtà, la
malattia mentale non venne affatto scambiata per stregoneria;
sopravvivono molti atti dei tribunali nei quali esse sono netta-
mente distinte (Rosen 1968). Per esempio, una demonologia
pubblicata nel 1624 per facilitare l'individuazione delle «stre-
ghe» metteva in guardia i lettori sul possibile fraintendimento
di diverse forme di malinconia con la stregoneria (Monter 1976).
Anzi, se la pazzia ha avuto qualche ruolo nel fenomeno, lo tro-
viamo nel fatto che a volte gli psicotici venivano ritenuti vittime
della stregoneria, vale a dire, persone in qualche modo «strega-
te». L'idea che le «streghe» fossero in realtà persone malate di
mente non riconosciute è falsa (Spanos 1978), il che non signifi-
ca, ovviamente, che molte di quelle che venivano accusate di
stregoneria non fossero un po' «particolari».

Sessismo
Un'altra spiegazione, ugualmente infondata, attribuisce la
caccia alle «streghe» al sessismo, cioè al tentativo di controllare le
donne punendo quelle che violavano le norme che governavano
i ruoli sessuali convenzionali (Barstow 1995; Hughes 1952; Lar-
ner 1984). Anne Llewellyn Barstow sostenne che le cacce alle
«streghe» in Europa «diedero agli uomini di potere l'opportunità
di punire [le donne] in un modo sessualmente sadico», il che ri­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 283

vela come «uomini e donne si rapportassero gli uni alle altre»


(Barstow 1995, p. 12). Va detto che, a sostegno dei capi d'accusa
della Barstow, gli autori deH'aboininevole Malleus maleficarum (Il
martello della strega) - un manuale del XV secolo per individuare
e perseguire le «streghe» - scrissero: «Tutta la stregoneria deriva
dalla lussuria carnale, che nelle donne è insaziabile [...]. Perciò,
al fine di saziare le loro brame, si uniscono anche ai diavoli»
(Kràmer, Sprenger [1487] 1928, p. 47).
Il difetto fondamentale della tesi sessista è che le accuse di
stregoneria venissero rivolte esclusivamente alle donne. Basan-
doci sul calcolo preciso di quante persone furono condannate
durante l'intero periodo della caccia alle «streghe», possiamo di-
re per certo che un terzo furono uomini (Briggs 1998; Levack
1995). Certo, in alcune comunità le vittime furono esclusivamen-
te, o quasi, donne. Purtroppo, questi casi hanno ricevuto un'at-
tenzione ossessiva da parte di autori che si limitano a liquidare
come «non rappresentativi» gli episodi in cui gli accusati furono
esclusivamente, o quasi, uomini. Inoltre, nelle pagine seguenti,
presenterò la prim a prova del fatto che fra gli accusati era molto
più probabile che gli uomini ottenessero punizioni assai più se-
vere delle donne, compresa l'esecuzione capitale. È vero che nel
Malleus si sostiene che le «streghe» sono quasi sempre donne, e
questo può aver contribuito a far aumentare la percentuale di ac-
cusate nel corso del tempo (anche se, verso la fine dell'epoca del-
la caccia alle «streghe», la percentuale di vittime maschili crebbe
molto rapidamente). Tuttavia, anche nel periodo della persecu-
zione più intensa e feroce, fra gli accusati vi furono «cittadini rie-
chi, consiglieri comunali, studenti, scolari, e bambini di entrain-
bi i sessi», come ha spiegato Norman Cohn (Cohn 1975, p. xiii).
Anzi, all'inizio del XVII secolo il vescovo-principe di Bamberga
fece giustiziare per stregoneria il proprio cancelliere e cinque
borgomastri (Midelfort 1972; Trevor-Roper [1969] 2001).
Inoltre, una percentuale molto elevata di donne indiziate di
stregoneria erano state accusate da altre donne, e non da uomini
- potenti o meno (Briggs 1998; Holmes 1993). Né questo fatto
può essere trascurato sostenendo che si trattasse di donne che, in
284 A GLORIA DI DIO

una società patriarcale, si muovevano in maniera conforme a


delle aspettative maschili (Larner 1984), attaccando le altre don-
ne «percepite come outsider, nella speranza di essere accettate, o
tollerate, a propria volta» (Barstow 1988, pp. 17-18). Quello che
emerge con chiarezza dai molti volumi di trascrizioni dei verba-
li dei processi è che la maggioranza delle accuse delle donne con-
tro altre donne erano «motivate» da litigi per questioni pretta-
mente femminili. Come ha sintetizzato Deborah Willis:

Metto in discussione soprattutto la visione femminista ampiamen-


te diffusa che assegna alle donne accusate di stregoneria il ruolo di
proto femministe ribelli, e alle accusatóri quello di conformiste. I li-
tigi che portarono alle accuse di stregoneria nascevano da lotte per
il controllo dei confini famigliali, per il cibo, per la cura dei bambi-
ni e per altre questioni riguardanti tipicamente la sfera femminile.
In questi litigi, è anche possibile che la donna accusata di stregone-
ria fosse proprio colei che chiedeva un comportamento conforme al
modello patriarcale. Le sue maledizioni e i suoi insulti erano vissu-
ti non come ima violazione di una condotta femminile adeguata,
ma come assalti verbali contro la reputazione dell'altra donna, che
potevano danneggiare anche le persone care poste sotto la sua cu-
ra. (Willis 1995, p. 13)

È vero, le donne avevano molta più probabilità degli uomini


di essere accusate, ma, come vedremo, la loro maggiore vulnera-
bilità risiedeva quasi interamente nel fatto che la magia medica
era praticata soprattutto dalle donne (il che a volte attirò contro
di esse accuse di satanismo). Questa differenziazione di ruolo fra
i sessi nacque non a causa di un comportamento deviante, ma
proprio perché il ruolo convenzionale della donna portava con sé
la responsabilità della salute famigliare. E questo risponde anche
del fatto che le donne accusate di stregoneria tendevano a essere
quelle più anziane (Levack 1995). Ovviamente, erano queste
donne più anziane ad aver acquisito l'esperienza necessaria a
svolgere il ruolo di levatrice e guaritrice. Inoltre, si diceva che le
donne accusate avessero «ima lingua tagliente, fossero di carat­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 285

tere irascibile e litigiose» (Levack 1995, p. 152. Si veda anche


Cohn 2000; Monter 1976; Thomas 19741). Dal momento che le ac-
cuse di solito venivano mosse dai vicini, si può supporre che Ti-
nimicizia nei confronti delle accusate giocasse un ruolo signifi-
cativo. A parziale sostegno della spiegazione sessista, queste in-
crinature personali potevano effettivamente emergere in quelTe-
poca dalle condizioni di vita poco piacevoli delle donne più an-
ziane e non sposate. Si tenga presente, comunque, che i cacciato-
ri di «streghe» accusarono pochissime donne, ignorando dunque
le presunte violazioni delle dinamiche fra i sessi e la condotta
sgradevole di milioni di persone.

Cam biam ento sociale


Ugualmente scorrette sono quelle posizioni sociologiche che
imputano la caccia alle «streghe» ai cambiamenti sociali. Così,
George Rosen diede la colpa alle «tensioni e difficoltà» causate
dallo «stress del rapido cambiamento». In quell'epoca, «paura,
incertezza, sospetto, potevano portare i membri del gruppo col-
pito a guardarsi in giro alla ricerca di una qualche spiegazione»
(Rosen 1968, p. 7). Paul Tillich era d'accordo con questa visione,
e definì quel periodo «l'età dell'angoscia» (Tillich 1968). Steven
T. Katz elencò molti cambiamenti avvenuti in Europa nel XIV e
XV secolo, commentando: «Non è difficile capire il motivo per
cui i cristiani fossero così profondamente angosciati, e il modo in
cui tale legittima preoccupazione si esacerbò nell'isteria della
stregoneria» (Katz 1994, p. 416n). E l'illustre Michael Walzer sug-
gerì «che la stregoneria aiutò a risolvere, nella mente della gen-
te, alcuni dei problemi sollevati [dallo sviluppo economico] e dal
suo impatto sui modi tradizionali di fare le cose» (Walzer [1963]
1969, p. 140).
Sono molti gli storici della stregoneria che alludono alla tesi
del cambiamento sociale, e alcuni persino la discutono in manie-
ra sistematica. La sintesi più esauriente è quella di Nachman
Ben-Yehuda, secondo il quale !'«ossessione per le streghe» era
una «reazione negativa» al rapido cambiamento sociale, «nel
senso che il suo scopo era contrastare e prevenire il cambiamen­
286 A GLORIA DI DIO

to, e ristabilire l'autorità religiosa tradizionale» (Ben-Yehuda


1980, p. 14). Il saggio di Ben-Yehuda è un elenco di «cause» so-
ciologiche - la crescita urbana, lo sviluppo economico che inclu-
deva l'inizio di ima «forma di produzione industriale», l'espan-
sione dei commerci e una divisione del lavoro più pronunciata,
il sempre maggiore utilizzo del denaro, la crescita demografica,
il declino del feudalesimo, la nascita della scienza - tutte aventi
come risultato una anomia diffusa. Nella sua sintesi:

Durante il XV e XVI secolo, l'Europa fece esperienza di quelle vi-


cende dolorose che accompagnano in genere l'emergere di un
nuovo ordine sociale e il crollo di un ordine più antico [...]. Lo
stato di impotenza e anomia vissuto dai contemporanei era ulte-
riormente aggravato da profondi cambiamenti climatologici e de-
mografici, i quali, assieme alle scoperte geografiche, generarono
la sensazione che fosse incombente un destino funesto, preparan-
do così la strada alla diffusione dell'ossessione [per le streghe].
La dissoluzione della mappa cognitiva medievale fece sorgere
aspettative utopistiche, credenze magiche, e audaci esplorazioni
scientifiche. Queste condizioni crearono il bisogno di una ridefi-
nizione dei confini morali, come tentativo di ristabilire l'ordine
sociale precedente. (Ben-Yehuda 1980, pp. 24-25)

Questa spiegazione contiene moltissimi errori, ma il più gra-


ve di tutti è la mancanza di consapevolezza della natura episo-
dica del fenomeno che vorrebbe spiegare. Non vi fu nessuna
«ossessione per le streghe» generalizzata. Come osserva con
grande chiarezza Robin Briggs, «l'espressione "ossessione per
le streghe" [...] dovrebbe essere m antenuta solo per casi [loca-
li] eccezionali». La caccia alle «streghe» fu un fenomeno princi-
palmente endemico in gran parte dell'Europa nell'epoca consi-
derata; una fase acuta, epidemica, della caccia alle «streghe» si
ebbe solamente in alcuni, famigerati, casi locali, «non durò mai
molto a lungo in un posto specifico e fu geograficamente mol-
to limitata. [...] Praticamente tutti gli esempi significativi si col-
locano fra l'ultim o decennio del 1500 e gli anni '40 del 1600»
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 287

(Briggs 1998, pp. 401-402). Le principali variabili indipendenti


citate da Ben-Yehuda sono tutte di lungo periodo, con un'evo-
luzione piuttosto costante e graduale nella maggior parte del
territorio europeo nel periodo in questione, ma le conseguenze
da lui proposte sono invece improvvise, a breve termine, e lo-
cali. Semplicemente, non c'è un rapporto di causa-effetto fra le
curve graduali del cambiamento sociale e i picchi improvvisi
della caccia alle «streghe».
In modo simile, Alan Macfarlane sostenne che la caccia alle
«streghe» in Inghilterra fosse il risultato del sorgere dell'indivi‫־‬
dualismo economico e sociale che stava sopraffacendo la società
comunale basata sui villaggi (Macfarlane 1970). La sua era una
visione largamente condivisa dei cambiamenti sociali di quell'e-
poca in Inghilterra e in Europa. Ciò nonostante, in uno studio
successivo, lo stesso Macfarlane ritrattò la sua tesi, dicendo di
aver scoperto che quei cambiamenti non erano in atto in quel-
l'epoca specifica, e che gli storici avevano solamente supposto
che lo fossero. Inoltre, lo sviluppo dell'individualism o inglese
era di gran lunga antecedente ai processi contro le «streghe»
(Macfarlane 1978).
Nessuno vuole sostenere che le cacce alle «streghe» si siano
svolte in una sorta di vuoto sociale. E ovvio che alcune condi-
zioni ed eventi furono cruciali - e io darò particolare enfasi ai
grandi conflitti religiosi, a partire dalle Crociate per finire con la
Pace di Vestfalia. Ma non serve invocare il cambiamento sociale
(le cui indicazioni quasi mai sono riscontrabili), presumere una
reazione disordinata a un cambiamento, e poi asserire che questi
fattori abbiano causato tutto quello che è accaduto. Una spiega-
zione di questo tipo è talmente vaga da essere coerente con qual-
siasi tipo di sviluppo successivo - anzi, se non fosse accaduto
niente, probabilmente si sarebbe detto che i cambiamenti sociali
avevano prodotto un mondo troppo intimorito per agire. Dare la
colpa al «cambiamento sociale» è puerile, a meno che non si spe-
cifichino chiaramente i cambiamenti in questione e poi si dimo-
stri come essi si colleghino in maniera diretta a delle conseguen-
ze specifiche.
288 A GLORIA DI DIO

Solidarietà
In Wayward Puritane (ed. it. Streghe, eretici e criminali, 2005),
Kai T. Erikson difende in modo eloquente la nozione funzionali-
sta per cui la devianza serve a rafforzare l'ordine morale - cioè,
che individuando e punendo le «streghe», la gente di Salem ri-
trovò un senso di solidarietà di gruppo più forte, e quindi ima
maggiore adesione comune alle norme del gruppo:

[La devianza] può davvero svolgere un servizio necessario per la


società spingendo le persone a unirsi in una comune posizione di
rabbia e indignazione. L'individuo deviante viola le regole di con-
dotta che il resto della comunità tiene in molta considerazione; e
quando queste persone si ritrovano insieme a esprimere il loro sde-
gno per l'offesa e a deporre contro il trasgressore, sviluppano un
vincolo di solidarietà più stretto di quello che esisteva in prece-
denza. (Erikson 1966, p. 4)

Dunque, il bisogno di solidarietà sociale fu la causa prima del-


le persecuzioni della stregoneria. Come spiega Erikson, «l'isteria
per le streghe» fu il tentativo «della gente della Bay di chiarire la
sua posizione al mondo nel suo complesso, di ridefinire i confini
che istituivano il New England come un nuovo esperimento di
vita» (Erikson 1966, p. 67).
Questo modo di vedere le cose rifletteva un approccio alla de-
vianza che, nel secolo scorso, attrasse periodicamente i sociologi,
in parte anche per il loro amore nei confronti deH'ironia insita nel
fatto che qualcosa di «buono» potesse essere causato da qualco-
sa di «cattivo» - in questo caso, la caccia alle «streghe» (fenome-
no cattivo) avrebbero causato una maggior osservanza delle nor-
me (fenomeno buono). Emile Durkheim, elaborando per primo i
concetti legati alle conseguenze positive latenti della devianza,
sostenne che il crimine fosse «parte integrante di tutte le società
sane» (Durkheim [1895] 1958, p. 67). Questa prospettiva divenne
molto popolare durante gli anni '60 e fu comunemente conside-
rata come una «introspezione profonda» sul fatto che la devian-
za assolva a una funzione sociale di valore, mantenendo il mec-
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 289

cartismo del controllo sociale in perfetto funzionamento; dun-


que, le persone «buone» devono la loro virtù a quelle «cattive»
(Coser 1962; Erikson 1962 e 1966; Homans 1950).
Questa spiegazione, però, non regge a un'analisi attenta. Per
prima cosa, dal momento che pare essere una costante, il bisogno
di solidarietà non offre alcun indizio sul motivo per cui, ad esem-
pio, diversamente da assassini e bigami furono scelte le «streghe»
come devianti esemplari in questo periodo e non in altri. In se-
condo luogo, Travis Hirschi identificò correttamente questo ap-
proccio come la «teoria dell'esercizio» del controllo sociale - vale
a dire che più spesso un gruppo è costretto a far rispettare le nor-
me, più forti esse sono (Hirschi 1973). Ma, come spiegò Hirschi,
la vera ironia di questa interpretazione funzionalista sta nel fatto
che essa si fonda sulla contraddizione logica per cui una società
con alcune devianze avrà un minor tasso di devianza di una so-
cietà priva di devianza. Per esempio, ne consegue che una società
con molti stupri avrà delle norme più severe contro lo stupro e
dunque una maggiore capacità di impedirlo rispetto a una società
in cui gli stupri si verificano raramente, o mai. Suscita altrettanta
ironia il fatto che dietro a questo concetto abbiamo una versione
distorta ed equivoca della teoria della deterrenza - una teoria al-
la quale si oppongono con forza gli stessi sostenitori dell'idea che
la devianza rafforzi la solidarietà. La teoria della deterrenza so-
stiene che più certa, rapida e severa è la punizione imposta per un
reato, meno frequentemente esso verrà commesso (Gibbs 1975).
Quando la teoria viene applicata in maniera consequenziale, ne
ricaviamo il seguente ragionamento: nella misura in cui un au-
mento dell'incidenza di un crimine causa paura e rabbia nella col-
lettività, si aumentano gli sforzi per individuarlo, le punizioni
vengono rese più severe, e l'incidenza del crimine diminuisce.
Applicata alla stregoneria, la teoria della deterrenza dice che un
numero considerevole di condanne al rogo avrebbe come risulta-
to un calo nella pratica locale della magia e della stregoneria, il
che è piuttosto probabile. Ma non è questo ciò che sostengono
quei teorici che affermano che è la devianza, di per se stessa, ad
aumentare la solidarietà e la conformità alle regole della società.
290 A GLORIA DI DIO

E questo ci conduce a un altro grave difetto di questa tesi: a


smentire la quale sta il fatto che le cacce alle «streghe» non au-
mentarono la solidarietà sociale, né nel Massachusetts né altrove.
Anzi, fu piuttosto il contrario. Come appare chiaro dalle fonti a
nostra disposizione, alcune delle quali saranno citate nelle sezio-
ni seguenti, le cacce alle «streghe» invariabilmente hanno au-
mentato le tensioni sociali e i sospetti reciproci, fatto sorgere an-
sie in merito alla possibilità di essere accusati di stregoneria, ed
elevato le paure in merito a una possibile vendetta da parte di
«streghe» non ancora individuate, o dello stesso Satana. Di con-
seguenza, durante le cacce alle «streghe», le persone tendevano
a isolarsi e non a radunarsi, e questo fatto non permetteva la for-
mazione della solidarietà sociale.
Un altro difetto è che questa sorta di funzionalismo presup-
pone che le motivazioni consce abbiano poca o nessuna impor-
tanza nella comprensione della vita sociale. Dunque, un certo
num ero di ben noti studiosi di scienze sociali ha ipotizzato che
le persone non conoscessero la vera ragione per cui prendeva-
no parte a rituali religiosi come le danze della pioggia o, addi-
rittura, le cacce alle «streghe». Così, gli antropologi Dan Sper-
ber (1975) e Rodney N eedham (1972) negano l'esistenza di uno
«stato interiore» chiamato fede, o credenza; quindi, i «primiti-
vi» non possono avere la nozione di Dei della pioggia e devono
danzare per aum entare la solidarietà sociale. In realtà, in as-
senza di «stati interiori» le persone non hanno nessun motivo
di fare quello che fanno, e il comportamento um ano risulta esse-
re semplicemente una risposta inconsapevole a forze sociali.
Quando applichiamo simili concetti alla stregoneria, questi
funzionalisti ci chiedono di accettare il fatto che la «società» fe-
ce sì che le persone m andassero al rogo le «streghe», indipen-
dentemente dal motivo per il quale credevano di farlo (sempre
che fossero capaci di nutrire una qualche convinzione), oppure,
in alternativa, che alcune persone con una consapevolezza so-
ciologica sufficiente abbiano cinicamente incoraggiato gli altri a
bruciare vittime innocenti per il bene superiore del gruppo. In
realtà, le persone sapevano bene perché perseguitavano le
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 291

«streghe», essendo assolutamente convinte che fossero fonte di


grande pericolo.

Cupidigia
Molti studi assegnano la responsabilità sostanziale delle cac-
ce alle «streghe» alla cupidigia, affermando che le accuse di stre-
goneria venivano avanzate da coloro che cercavano di spartirsi il
bottino costituto dalle ricchezze espropriate (Currie 1968; Lea
[1887] 1955; Robbins 1959). In effetti, Elliot Currie dedicò gran
parte di un articolo aH'«industria della stregoneria», sostenendo
che «nell'Europa continentale [la caccia alle «streghe»] fu un'at-
tività economica vasta e complessa, che creò e mantenne la mo-
dalità di sostentamento di un numero considerevole di persone»
(Currie 1968, p. 21). Di certo, i funzionari dei tribunali erano pa-
gati per i processi di stregoneria come lo erano per tutti gli altri
procedimenti criminali, e i boia erano pagati per il loro lavoro.
Senza dubbio, poi, in alcuni casi si cercò di sfruttare cinicamente
le accuse di stregoneria per ottenere un guadagno - fu per rica-
varne un profitto che il re Filippo IV di Francia falsificò le prove
di satanismo e mandò al rogo i più importanti cavalieri templari
(Cohn 1975; Read 2001).
Nonostante questo, però, la tesi trascura molti fatti. Per prima
cosa, la stragrande maggioranza delle vittime possedeva d aw e-
ro poco. In secondo luogo, le proprietà confiscate andavano pre-
valentemente allo «stato», e non agli accusatori. Terzo, nella mi-
sura in cui un accusato non aveva nulla che valesse la pena con-
fiscare, i tribunali si prendevano solo una piccola percentuale del
valore netto delle proprietà - nella Germania sudoccidentale la
media delle confische si aggirava intorno a un 14% (Midelfort
1972). Infine, come ha sottolineato Christina Lamer, il costo dei
procedimenti per stregoneria «era quasi sempre una spesa a ca-
rico delle autorità locali più che un mezzo per ottenere dei rica-
vi» (Larner 1981, p. 116). Molti altri storici hanno sottolineato più
o meno la stessa cosa (Henningsen 1990; Midelfort 1972; Thomas
1971). Un esempio tipico sono i procedimenti contro le «streghe»
nella regione basca della Spagna, all'inizio del XVII secolo. Il co­
292 A GLORIA DI DIO

sto per il sostentamento dei prigionieri da solo ammontava a


14.495 reali, mentre le confische dei beni di coloro che venivano
giudicati colpevoli ammontavano a 732 reali. E in questa perdi-
ta, davvero considerevole, non sono inclusi neanche i costi dei
procedimenti stessi (Henningsen 1990). Anzi, come ha rilevato
Keith Thomas, «in Inghilterra i procedimenti molto di rado po-
tevano aver avuto ima motivazione economica» (Thomas 1971,
p. 457). Norman Cohn ha dato lo stesso giudizio per l'Europa nel
suo complesso: «La brama finanziaria e il sadismo consapevole,
benché ben lungi dal mancare, non costituirono la motivazione
principale, fornita piuttosto dallo zelo religioso» (Cohn 2000, p.
233). Inoltre, anche se alcune persone malvagie a volte cercarono
di trarre dei guadagni dalle accuse di stregoneria, l'attribuzione
della motivazione della cupidigia non affronta la questione più
importante: perché c'era la possibilità di denunciare gli altri per
stregoneria? Come nacque una cultura così elaborata in merito al
satanismo? Perché anche i più importanti intellettuali dell'epoca
credevano che alcune persone fossero in grado di volare, lancia-
re maledizioni o incantesimi debilitanti sugli altri, far ammalare
il bestiame e danneggiare i raccolti? Da dove fu tratta l'idea che
esistesse un movimento segreto di anime perdute che mangiava-
no neonati, adoravano l'incesto, e baciavano Satana nell'ano?

Clero fanatico
Le risposte a queste domande vengono offerte dalle interpre-
fazioni che sottolineano l'irrazionalità del fenomeno. Molto di
queste in realtà sono puro e semplice anti-cattolicesimo - le cac-
ce alle «streghe» sono state attribuite a «superstizioni pagane e
papiste» da Francis Hutchinson (1660-1739) nella prim a storia
seria della stregoneria (Hutchinson 1720). Una «spiegazione» più
specifica vuole che, oltre alla normale dose di fanatismo che ac-
compagna la fede, il fanatismo del clero cattolico fosse spronato
al massimo da ima sessualità repressa. Così Trethowan5 sosten-
ne che la causa di tutto fossero i desideri sessuali inibiti: «La per-
secuzione delle streghe, che può essere attribuita in maniera di-
retta 'all'ascetismo cristiano, fu di conseguenza il risultato della
l NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 293

pulsione sessuale diretta al di fuori del suo contesto naturale per


decreto divino». E continuava: «I desideri sessuali quando inibi‫־‬
ti hanno la forte tendenza sadica a diventare una forza di distru-
zione». Poi, citava il suo collega psicanalista Walter Schubart sul
fatto che le cacce alle «streghe» fossero nate da «un rifiuto delle
donne carico di paura» che culminò in «una furiosa campagna di
vendetta e annientamento» (Trethowan 1963, p. 343). Tuttavia,
non ci viene detto perché i sacerdoti furono spinti a tali estremi
dalle loro pulsioni sessuali represse solamente in quest'epoca, il
che sembrerebbe un esempio dell'errore che si commette quando
si utilizza una costante per spiegare una variabile.
Prendendo una cantonata in un certo senso diversa, Henry
Charles Lea (1825-1909) ipotizzò che le accuse di stregoneria
spesso fossero dovute a tentativi da parte di sacerdoti di far pres-
sione su delle donne per ottenere da loro rapporti sessuali, o a
tentativi di vendicarsi di quelle donne che li rifiutavano con sde-
gno (Lea 1867). Di certo questo sarà accaduto molte volte, ma re-
sta il fatto che le accuse di stregoneria assai raramente venivano
mosse da sacerdoti; di solito erano i vicini di casa, e molto spes-
so le altre donne a farlo. Lea è giustamente ammirato per i suoi
attenti ed energici tentativi di raccogliere le fonti originali, ma
come molti altri fra coloro che hanno scritto sulla stregoneria, an-
che lui era un estremista anti-cattolico, e questo aspetto permea
le sue generalizzazioni e valutazioni accademiche. In modo si-
mile, Rossell Hope Robbins sostenne che gli inquisitori fossero
dei fanatici così assetati di sangue che in pratica nessuno di quel-
li sottoposti a processo veniva assolto: «Come dimostrano tutti i
documenti storici, e come ammisero persino gli stessi inquisito-
ri, una volta accusati, le possibilità di sfuggire alla morte erano
praticamente nulle» (Robbins 1959, p. 270). In realtà, le varie In-
quisizioni (ce n'erano di diverse e indipendenti, su base regiona-
le e nazionale) molto più spesso dei tribunali secolari assolveva-
no gli accusati, o assegnavano condanne leggere (Katz 1994; Le-
vack 1995; Monter e Tedeschi 1986). Inoltre, come vedremo, in
luoghi in cui l'autorità dell'Inquisizione era all'apice, come in
Italia e Spagna, la maggioranza delle accuse di stregoneria non
294 A GLORIA DI DIO

venivano formalizzate nei processi, e pochissimi dei condannati


furono giustiziati. Anzi, nel 1550, l'Inquisizione della Catalogna,
presto sostenuta anche dalle altre Inquisizioni di Spagna, attaccò
il fondamento probatorio dei processi per stregoneria e si oppo-
se a ulteriori procedimenti giudiziari - e questo in un'epoca in
cui altrove era appena iniziato il periodo in cui la caccia alle
«streghe» raggiunse il massimo della ferocia (Kamen 1993 e
1997). Ciò nonostante, Geoffrey G. Coulton (1858-1947) ripetè ac-
cettandola per vera la falsità per cui «l'assoluzione era quasi sco-
nosciuta all'Inquisizione», beandosi di una superiorità prote-
stante nei confronti della «Chiesa totalitaria» (Coulton 1938a, pp.
119, 324).
Ma non è stato solo il pregiudizio anticattolico a plasmare
molti studi sulla stregoneria. Gli storici legati al «liberalismo» di
fine XIX inizio XX secolo scrivevano in opposizione a tutte le re-
ligioni, pur riservando i propri attacchi al vetriolo soprattutto ai
«papisti» (Russell 1972). Come ha sintetizzato Trevor-Roper: «Gli
storici liberali [...] scrivono come se l'irrazionalità del credere al-
le streghe fosse sempre stata ben chiara alla ragione naturale del-
l'uom o e come se la prevalenza di simili convinzioni potesse es-
sere spiegata solamente con il bigottismo clericale» (Trevor-Ro-
per [1969] 2001, p. 162). In effetti, questi storici sembrano inte-
ressarsi alla stregoneria solamente come arma nella battaglia
contro la fede - molti erano sostenitori dell'inevitabilità dello sta-
to di guerra fra religione e scienza. William E. H. Lecky (1838-
1903) oppose al cattolicesimo credulone che dava la caccia alle
«streghe» lo spirito del razionalismo che aveva liberato l'Europa
dai «Secoli Bui» (Lecky [1865] 1903). Jacob Burckhardt, araldo
del Rinascimento, espresse posizioni simili (Burckhardt 1961).
Andrew Dickson White, che abbiamo citato nel capitolo 2 in me-
rito ad altre false rappresentazioni dei fatti, avanzò la tesi dav-
vero rilevante secondo la quale le accuse di stregoneria fossero
quasi interamente basate sul rifiuto della Chiesa cattolica di ac-
cettare spiegazioni naturali per le tempeste, delle quali il clero in-
colpava le «streghe» e non le condizioni atmosferiche6. L'allievo
di White, George Lincoln Burr (1857-1938) fu ancora più pun­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 295

gente, spingendosi fino a ipotizzare che il fenomeno della stre-


goneria fosse stato cinicamente creato dall'Inquisizione per la
necessità di trovare nuove vittime da mandare al rogo una volta
sconfitti gli eretici - Inquisizione che «volse le sue mani sfaccen-
date all'estirpazione delle streghe» (Burr 1897, p. 1). A queste af-
fermazioni Hugh Trevor-Roper contestò così queste affermazio-
ni: «L'immagine di un'Inquisizione che rimette in moto contro le
streghe i suoi macchinari inattivi semplicemente per evitare che
si arrugginiscano non può certamente convincerci» (Trevor-Ro-
per [1969] 2001, p. 163). E per quanto riguarda il bisogno di nuo-
ve vittime dell'Inquisizione, beh, proprio al culmine dell'epoca
della stregoneria c'erano molti più eretici veri disponibili per la
persecuzione - infatti, infuriavano le Guerre di Religione. Inol-
tre, i protestanti furono ferventi cacciatori di «streghe» tanto
quanto i loro avversari cattolici, e fu il loro sforzo congiunto a
portare la caccia alle «streghe» al suo apice storico. Questo per
quanto riguarda la presunta esclusiva colpa del cattolicesimo
nella persecuzione della stregoneria.
Eppure, il fatto forse più interessante, e così accuratamente
ignorato da molti di coloro che hanno cercato di utilizzare l'era
della stregoneria come la prova definitiva del fatto che la religio-
ne è l'avversario implacabile della ragione e della scienza, è che
gli episodi di maggiore intensità della caccia alle «streghe», che
questi studiosi amano collocare nel «buio Medioevo», in realtà si
sono verificati durante !'«Illuminismo»: durante «i secoli del Ri-
nascimento, della Riforma e della scienza sperimentale», come
ha osservato Trevor-Roper ([1969] 2001, p. 90). Anzi, «l'Umanesi-
mo rinascimentale non attaccò il sistema della stregoneria [...]la
magia permeava la visione del mondo di gran parte dell'Urna-
nesimo rinascimentale» (Monter 1976, p. 29). E così Erasmo deri-
se la scienza, soprattutto l'astronomia, osservando che «la natu-
ra ride delle loro misere congetture» (Elogio della follia).
Alcuni storici «liberali» hanno cercato di far passare le ere-
denze magiche deH'Illuminismo come un semplice retaggio del-
la visione medievale, o persino come l'ultimo reazionario sus-
sulto di una Chiesa che veniva sopraffatta dal progresso. Come
296 Λ GLORIA DI DIO

ha spiegato Joseph Hansen, la diffusione dei processi per strego-


neria non fu «nient'altro che la naturale estinzione dello spirito
medievale, che la Riforma solo in parte aveva accantonato» (in
Midelfort 1972, p. 30). Ma non fu cosi7. Le prime obiezioni signi-
ficative all'esistenza reale della stregoneria satanica vennero da-
gli inquisitori spagnoli, e non dagli scienziati! Non solo questi,
che furono i protagonisti della cosiddetta «Rivoluzione scientifi-
ca», non espressero la loro opposizione alla credenza irrazionale
nella stregoneria, ma molti di loro ne accettavano i presupposti
essenziali, ed alcuni, come Isaac Newton, praticarono attiva-
mente la magia e la stregoneria (White 1997 e capitolo 2).
L'illustre filosofo Henry More (1614-1687), amico intimo di
Newton e suo mentore a Cambridge, assistette spesso ai proces-
si per stregoneria, espresse la sua ferma convinzione dell'esi-
stenza del satanismo, e addirittura interrogò ima giovane donna
accusata di stregoneria, accettando la sua confessione di aver fre-
quentato dei sabba (Robbins 1959). Joseph Glanvill (1636-1680),
altro appartenente al gruppo di Newton a Cambridge, e membro
di spicco della Royal Society, scrisse Saducism us Triumphatus, or
filli and plain evidence concerning w itches and apparitions, nel quale
sostenne che solamente gli atei «negano che esistano gli spiriti e
le streghe» (Robbins 1959, p. 224). Persino uno scienziato come
l'illustre Robert Boyle incoraggiò la caccia alle «streghe» (Briggs
1998). Quanto a Paracelso, questo campione di scetticismo nei ri-
guardi della religione e grande innovatore della scienza medica,
osservò diverse «streghe» e dichiarò che i loro poteri erano veri,
benché non satanici (Monter 1976). Lo stesso Paracelso si dedi-
cava alla magia ermetica e sosteneva di essere riuscito a imbri-
gliare l'energia dell'universo combinando l'alchimia con l'astro-
logia. Nelle giuste circostanze, avrebbe potuto essere processato
per stregoneria (Midelfort 1974; Pagel 1989). E per quanto ri-
guarda il «martire» della scienza secondo White, Giordano Bru-
no, non solo fu giustiziato per eresia teologica, e non scientifica
(capitolo 2), ma fu un candidato altrettanto probabile per l'accu-
sa di stregoneria, essendo stato anche un appassionato della tra-
dizione ermetica della magia (Yates 1981 e 2002).
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 297

Anche le principali voci antireligiose dell'epoca erano a favo-


re della persecuzione delle «streghe». Thomas Hobbes (1588-
1679), il famoso filosofo inglese, esplicitamente ateo, che nel suo
assai influente II Leviatano (1651) liquidò ogni religione come
«credulità», «ignoranza» e «menzogna», e gli Dei come «creatu-
re di [...] fantasia», nello stesso libro scrisse anche: «Per quanto
riguarda le streghe [...] sono giustamente punite»8. Oppure, pos-
siamo prendere in considerazione Jean Bodin (1530-1596 ca.),
acerrimo nemico della Chiesa, ateo segreto e «indiscusso mae-
stro intellettuale di fine XVI secolo» (Trevor-Roper [1969] 2001, p.
113). Bodin scrisse Colloquium H eptaplom eres, che divenne il «clas-
sico oscuro» dell'ateismo del XVII secolo. In esso, l'autore os-
servò che dal momento che tutte le religioni fra loro concorren-
ziali rivendicano di essere vere, «tutte risultano confutate da tut-
te» (in Preus 1987, p. 9). Anche se pare non credesse in Dio, Bo-
din credeva sicuramente nei demoni e nel diavolo, prestò servi-
zio come giudice in diversi processi per stregoneria, e sostenne
che le «streghe» dovessero essere bruciate vive a fuoco lento. Nel
1580, poi, Bodin pubblicò D em onom ania degli streg on i9, «il libro
che, più di ogni altro, riattizzò i roghi contro le streghe in tutta
Europa» (Trevor-Roper [1969] 2001, p. 112) - un libro che Henry
More giudicò «razionale e sagace» (in Robbins 1959, p. 54).
Bodin scrisse il suo libro sulla stregoneria in francese per ren-
derlo più accessibile ai giudici e ai pubblici ministeri locali, ma
presto comparvero edizioni in lingua latina e tedesca, e il libro fu
un vero e proprio «best seller» - giunti al 1604 erano state ven-
dute già più di dieci edizioni della versione francese. Quello che
Bodin fece, fu aggiornare il M alleus M aleficarum e adattarlo all'u-
tilizzo nei tribunali secolari, pur conservando ogni aspetto della
prospettiva satanista, compresi il cannibalismo, i sacrifici di
bambini e le orge con il Diavolo. Oggi, il valore scientifico del li-
bro di Bodin consiste nel fatto che le sue argomentazioni a soste-
gno della pena di morte, non solo per le «streghe», ma anche per
tutti coloro che mettevano in dubbio un qualsiasi dettaglio della
sua demonologia, erano perfettamente chiare e logiche. In defi-
nitiva, egli non faceva appello alle emozioni o alla superstizione
298 A GLORIA DI DIO

(anche se parla molto di entrambe), ma alla ragione. Nel far ciò,


Bodin non era un'eccezione. I principali trattati sulla stregoneria
non sono dei deliri furiosi, anche se racchiudono ima grande
quantità di rabbia e di ciò che ora sappiamo essere sciocchezze.
Piuttosto, sono opere ben ragionate di scrittori orgogliosi della
propria logica. E questo è vero anche nel caso del Malleus malefi-
carum (Feyerabend 1981).

Psicostoria
L'ottava falsa spiegazione attribuisce la caccia alle «streghe» a
episodi di follia collettiva che avrebbero afflitto gli europei di
tutte le confessioni religiose. Anzi, !'«ossessione delle streghe» è
considerata come il primo episodio di «psicosi di massa», o ciò
che Freud definì «epidemie psichiche, o convulsioni storiche di
massa» (in Jones 1953, p. 184). Il principale sostenitore del con-
cetto per cui i gruppi umani sono spesso animati da un «incon-
scio collettivo», simile all'ipnotismo, che fa sì che ogni singolo
membro del gruppo «diventi un automa», fu Gustave Le Bon
(1841-1931), autore di Psychologie des foules ([1895] 1960; ed. it.
Psicologia delle folle, 1980). Infatti, Freud dedicò quasi un quarto
della sua monografia sulla psicologia di gruppo a brani tratti da
Le Bon intervallati da commenti favorevoli (Freud [1921] 1959).
Citando Le Bon, «i gruppi non hanno mai sete di verità. Essi
chiedono illusioni, e non possono fame a meno. E sempre danno
la precedenza a ciò che è irreale su ciò che è reale», Freud com-
mento: «Questa predominanza della vita della fantasia e dell'il-
lusione nata da un desiderio insoddisfatto è il fattore dominante
nella psicologia della neurosi [...] un sintomo isterico si basa sul-
la fantasia [in merito a] un'intenzione malvagia che non è stata
mai realizzata» (Freud [1921] 1959, p. 17).
Così, seguendo la dottrina freudiana, George Rosen trovò
che la caccia alle «streghe» fosse un classico esempio di «psico-
si collettiva, deliri di massa, [ed] epidemie di isteria» (Rosen
1968, p. 5). Anzi, al termine della prim a edizione del suo eccel-
lente libro sulla campagna europea contro l'eresia e la stregone-
ria, anche N orm an Cohn si avventurò nella psicostoria freudia­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 299

na ortodossa con il suo PostScript: Psycho-Historical Speculations.


Qui, Cohn fa risalire la «fantasia» della stregoneria ai «demoni
interiori» che affliggevano i cristiani europei, demoni generati
nel «più intimo io» da «paure ossessive, e [...] desideri spaven-
tosi, non riconosciuti». Cohn ampliò la diagnosi discutendo de-
gli «impulsi cannibalistici inconsci» che i genitori provano «nei
confronti dei loro figli», e i figli «nei confronti di fratelli più pie-
coli» (Cohn 1975).
Secondo me, applicare la psicostoria alla caccia alle «streghe»
equivale a spiegare una fantasia con un'altra. Per di più, relega-
re le preoccupazioni in merito alle «streghe» al regno della psi-
copatologia crea un mistero ancora più profondo: come hanno
fatto degli stati mentali così dannosi a colpire un numero enor-
me di persone che altrimenti sarebbero apparse assolutamente
sane? Le scienze sociali non offrono alcuna teoria plausibile a so-
stegno delle diagnosi di pazzia di massa - e concetti come «iste-
ria di massa» e «inconscio collettivo» sono stati abbandonati
molto tempo fa (Turner, Killian 1987). Inoltre, questo tipo di psi-
costoria di solito viola un assioma davvero fondamentale della
scienza sociale, vale a dire che è impossibile giudicare un'azione
in termini di razionalità, a meno che non si conosca il punto di
vista di chi la compie. Solo sapendo ciò che le persone pensano di
fare possiamo valutare il perché lo fanno. Quando si presta suffi-
ciente attenzione a tali questioni, diviene chiaro come i cacciato-
ri di «streghe» non fossero affatto spinti dall'irrazionalità. Al
contrario, fu la ragione a farli andare fuori strada. Fu molto si-
gnificativo il fatto che nel 2000, Norman Cohn curò un'edizione
riveduta del suo famoso libro nella quale venne omessa l'appen-
dice sulla psicostoria - in conformità con il rifiuto recente e dif-
fuso (benché tardivo) del freudianesimo da parte degli studiosi
di scienze sociali.
Nelle pagine seguenti dimostrerò che la stregoneria divenne
un fenomeno sociale a causa di quella fede nella ragione che fu
sempre caratteristica della teologia cristiana. Furono i tentativi di
fornire una spiegazione logica al motivo per cui la magia non le-
gata alla Chiesa «funzionava» a portare i teologi a confondere
300 A GLORIA DI DIO

magia e religione, e a dedurre che le persone coinvolte dovessero


per forza vendere le loro anime a Satana. A causa di questo erro-
re, la persistenza dei processi per stregoneria può essere attri-
buita direttamente alla persistenza della magia: le persone conti-
nuarono a dedicarsi alla magia e la Chiesa continuò afraintenderla con-
siderandola satanismo. Certamente, la maggioranza delle volte né
la Chiesa né lo stato venivano informati delle attività magiche di
gran parte dei praticanti. Le attività magiche giungevano all'at-
tenzione ufficiale solamente quando qualcuno - di solito dei vi-
cini di casa o dei clienti - muoveva delle accuse contro una per-
sona. E anche allora, nella stragrande maggioranza dei casi,
Chiesa e stato non facevano nulla in merito, oppure respingeva-
no le accuse in maniera superficiale. Solamente in certe epoche,
e in alcuni luoghi, si verificarono delle vere e proprie manifesta-
zioni improvvise di caccia alle «streghe». Midelfort ha riscontra-
to come non siano stati più di 18 gli episodi in cui, in una città
della regione Baden-Wurttemberg, centro importante della più
feroce caccia alle «streghe», vi furono più di 20 esecuzioni in un
anno (Midelfort 1972). Tenterò di spiegare perché queste cose ac-
caddero in un determinato momento e in un determinato luogo.
Mi si consenta di ammettere fin da ora che non presento nul-
la di originale dal punto di vista storico - ognuno dei principali
elementi storici del capitolo è già stato messo in luce da molti al-
tri autori. Il mio tentativo di offrire un contributo consiste nel
mettere insieme tali elementi, nelTidentificare gli schemi signifi-
cativi, e neH'interpretarli in base a una teoria sociale originale.

La prevalenza della magia

Il mondo classico era un mondo magico - astrologia, amuleti,


incantesimi, divinazioni, maledizioni, indovini, pozioni d'amo-
re, incantesimi, guaritori e così via, erano parte della vita quoti-
diana anche fra le classi più elevate delle città greco-romane
(Beard, North e Price 1998; Cumont 1967 e 1990; MacMullen
1981). La gente si recava ai templi, dove oltre a chiedere l'aiuto
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 301

di Dei e Dee specifiche, si immergeva in sacre vasche, comprava


amuleti e incantesimi, consultava astrologi e patrocinava oraco-
li. E per quanto riguardava la campagna, ovunque si potevano
trovare pozzi magici, boschi sacri, formazioni rocciose e radure
abitate da spiriti, e in ogni villaggio i «savi» si occupavano dei bi-
sogni locali.
Nel m ondo greco-romano, poi, si dava per scontata la stre-
goneria: si trattava, tuttavia, di una magia (o stregoneria) che
avevano a che fare con i maleficia senza alcuna traccia di sata-
nismo. Sono sopravvissute molte m aledizioni magiche incise
su tavolette, una delle quali recita: «Io maledico Tretia M aria e
la sua vita, la sua mente, la sua memoria, il suo fegato e i suoi
polm oni insieme, e le sue parole, pensieri e memorie». Oltre a
questo, nella tavoletta sono conficcati sette chiodi (in Kieckhe-
fer 1989, p. 19). Si sono conservati anche dei papiri magici che
offrivano ricette e istruzioni di magia «nera». Greci e romani,
compresi intellettuali e im peratori, spesso lam entavano di es-
sere stati «maledetti» o danneggiati in altro m odo da maghi, e
finì con l'essere am piam ente accettata l'idea che i maghi po-
tessero causare la m orte tram ite incantesimi o avvelenamenti,
che si trattasse di pozioni magiche o vere e proprie droghe
(Beard, N orth, Price 1998; MacMullen 1981). Si dava anche per
scontato che i maghi avessero bisogno di cadaveri per portare
a compimento i loro incantesimi più letali, e che almeno alcu-
ni di loro fossero implicati in pratiche di sacrificio umano. Il
fatto che vi fossero dei sacrifici um ani nei riti druidi della Gran
Bretagna e nel «barbaro» N ord conferiva credibilità a queste
supposizioni.
Di conseguenza, prefigurando l'opposizione cristiana alla
«superstizione», anche allora la magia provocava spesso delle
misure repressive. Nell'81 BCE i romani affrontarono la magia
con leggi contro l'omicidio e l'avvelenamento. Questi provvedi-
menti erano indirizzati contro i maghi, che si credeva fossero in
grado di compiere tutte le azioni più malvagie «tramite la forza
misteriosa di certi incantesimi». La legge proibiva «riti empi e
notturni [...]riti implicanti il sacrificio umano [... e] riti che am­
302 A GLORIA DI DIO

maliavano o stregavano o vincolavano altre persone» (Beard,


North, Price 1998, p. 233). Le conseguenze di questa legge spin-
sero Plinio il Vecchio (23-79) a scrivere a proposito della Gran
Bretagna deU'«immensa gratitudine dovuta ai romani, che spaz-
zarono via i mostruosi riti [druidi], nei quali uccidere un uomo
era sommo dovere religioso e cibarsi di lui una garanzia di salu-
te» (Storia naturale XXX,13,11,3).
Ma non erano solo i malefici a preoccupare i romani. Anche
l'astrologia e la divinazione turbavano molti di loro. L'imperato-
re Augusto (63 BCE-14) permise la pratica dell'astrologia sola-
mente alla condizione che non vi fossero consultazioni private e
che nessuno si occupasse della data della morte altrui (soprat-
tutto della sua). L'imperatore Tiberio (42 BCE-37) espulse gli
astrologi e i maghi da Roma, nell'anno 16 per eliminare le predi-
zioni in merito al suo regno e soprattutto in merito alla data del-
la sua morte, e questa interdizione fu ripetuta molte volte in tut-
to il resto del secolo (Beard, North, Price 1998). Sopravvivono i
dettagli di 15 processi del primo secolo contro astrologi e loro
clienti. Secondo Tacito, l'ex moglie dell'imperatore Caligola (12-
41), che in seguito cercò di sposare l'imperatore Claudio (10
BCE-54), fu accusata di «aver consultato astrologi, maghi e l'ora-
colo di Apollo Claro in merito [alle nozze con l'imperatore]» (An-
nales XII,22). Per questo, la donna venne esiliata e successiva-
mente obbligata a togliersi la vita. Avrebbe anche potuto essere
accusata di utilizzare la magia d'am ore nel tentativo di diventa-
re imperatrice di nuovo - accusa che prevedeva la pena di mor-
te, ma che in genere non veniva rivolta ad alti funzionari o capi
di stato.
Per sintetizzare la situazione che la Chiesa si trovò ad affron-
tare quando giunse al potere possiamo dire questo: la magia era
ovunque. Praticamente tutti vi credevano. La prevalenza dei ma-
leficia generava una notevole preoccupazione, e la maggior parte
delle pratiche magiche era di ovvie origini pagane. La Chiesa ri-
spose in due modi: per prim a cosa, tentò di proibire molte prati-
che magiche. In secondo luogo, tentò di cristianizzare quelle che
apparivano troppo popolari per essere soppresse.
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 303

La soppressione della «superstizione»


I romani denunciarono molte credenze e pratiche magiche co-
me «superstizioni» (superstitio), estendendo questa definizione a
molte religioni «straniere»» come ebraismo e cristianesimo. All'i-
nizio, la Chiesa utilizzò il termine «superstizione» non solo per
condannare le molte e diverse forme di magia, ma anche nel sen-
so moderno del termine, per definire credenze e pratiche irra-
zionali e ingannevoli. L'attacco di sant'Agostino (354-430) contro
l'astrologia mostra entrambi gli usi del termine. Nella Città di Dio
(V,l), Agostino osserva che due gemelli concepiti nello stesso
momento e nati alla stessa ora hanno lo stesso oroscopo. Ciò no-
nostante, spesso sono estremamente diversi fra loro: «Come
spiegare il fatto che [gli astrologi] non sono mai riusciti a com-
prendere le ragioni delle molte differenze riscontrabili nella vita
dei gemelli, nelle loro attività, professioni, mestieri, cariche, e ne-
gli altri aspetti della vita umana e della stessa morte? Questi da-
ti talora sono più simili negli estranei rispetto a certi gemelli». E
da questo sant'Agostino deduceva che l'astrologia fosse un in-
ganno. Tuttavia, continuava, l'astrologia è anche un'eresia, dal
momento che nega la dottrina fondamentale del libero arbitrio
sostenendo che il destino umano sia predestinato dalle stelle.
Argomentazioni simili venivano avanzate anche dagli altri
teologi cristiani contro la maggioranza delle forme della magia e
della stregoneria, comprese alchimia, negromanzia e magia amo-
rosa 10. Così, nel 1607, il Concilio di Malines riaffermò la defini-
zione dell'ortodossia: «È superstizioso attendersi un qualche ef-
fetto da un qualcosa quando un simile effetto non può essere
prodotto da cause naturali, da istituzione divina, o dall'ordina-
zione e approvazione della Chiesa» (in Thomas 1971, p. 49). Ma
forse l'aspetto più straordinario (e di gran lunga troppo poco
menzionato) della campagna della Chiesa contro la superstizio-
ne fu l'inclusione della credenza nella stregoneria fra le supersti-
zioni condannatei San Bonifacio (673 ca.-754), missionario inglese
in Germania, insegnava che credere nelle «streghe» era a-cristia-
no. Alla stessa epoca, agendo su consiglio dei teologi, Carlo Ma-
gno (742-814) dichiarò la pena di morte per chiunque bruciasse
304 A GLORIA DI DIO

presunte «streghe», poiché si trattava di una «usanza pagana»


(Trevor-Roper [1969] 2001, p. 85). Nel IX secolo, sant'Agobardo
(779-840) negò che le «streghe» potessero influenzare il tempo
meteorologico. Queste posizioni contrarie alla realtà della stre-
goneria furono incorporate nel diritto canonico ufficiale e diven-
nero note come Canone episcopale. Il documento proclamava che
chiunque credesse che alcune persone «cavalcassero certe bestie
[...] nel cuore della notte per attraversare grandi spazi della ter-
ra» era «al di là di ogni dubbio un infedele». Il documento, poi,
avvertiva che «i sacerdoti attraverso le loro chiese dovrebbero
con ogni insistenza predicare che tutto questo è a ogni modo fai-
so» (in Russell 1972, pp. 76-77). In conformità a questo insegna-
mento della Chiesa, nell'XI secolo il re d'Ungheria non si occupò
di «streghe» dal momento che «esse non esistono» (Trevor-Roper
[1969] 2001, p. 85). E per molti secoli, le cose rimasero così.

La cristianizzazione della magia «pagana»


Come già menzionato nel capitolo 1, in molte questioni con-
cernenti la magia, e soprattutto nei confronti della sopraw iven-
za della magia folcloristica pagana, la Chiesa adottò la strategia
dell'incorporazione. In una lettera datata 601 e conservata da Be-
da il Venerabile (Storia ecclesiastica 1,30), papa Gregorio Magno
consigliava l'abate Mellito, in partenza per una missione di cri-
stianizzazione della Britannia:

Sono giunto alla conclusione che i templi degli idoli di quel popo-
lo non devono essere assolutamente distrutti. Devono essere di-
strutti soltanto gli idoli che vi si trovano, ma i templi di per sé de-
vono essere aspersi di acqua benedetta, devono essere costruiti al-
tari al loro interno e riposte reliquie. [...] In tal modo, speriamo che
la popolazione, vedendo che i suoi templi non sono distrutti, pos-
sa abbandonare l'errore e, accorrendo più prontamente nei luoghi
che le sono familiari, possa giungere a conoscere e adorare il vero
Dio. E poiché sono soliti sacrificare ai demoni molti buoi, si cambi
ciò con la sostituzione di qualche altra celebrazione, come nella ri-
correnza della consacrazione della chiesa o nelle festività dei santi
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 305

martiri, le cui reliquie vi sono riposte [...]. Se alla popolazione vie-


ne concesso qualche piacere materiale in tal modo, giungerà a de-
siderare più prontamente le gioie dello spirito. Non c'è infatti dub-
bio che sia impossibile strappare dalle loro menti ostinate tutti gli
errori in un colpo solo.

Iniziarono così molti secoli di cristianizzazione di luoghi e


pratiche magiche, e di canonizzazione di divinità pagane. Come
ha osservato Keith Thomas, «le centinaia di fonti magiche che
punteggiavano le campagne divennero "pozzi sacri", associati a
un santo, ma furono ancora utilizzati per guarigioni magiche e
per la divinazione del futuro. A volte la loro acqua veniva rite-
nuta particolarmente adatta per il battesimo» (Thomas 1971, p.
48). Presto il paesaggio della Gran Bretagna e dell'Europa fu pie-
no di altari, chiese e abbazie, ognuna delle quali con la sua colle-
zione di sacre reliquie, potenziali fonti di effetti soprannaturali.
Spesso queste reliquie consistevano in ossa od oggetti di santi o
martiri locali, ma altre volte si credeva provenissero direttamen-
te dalla Terra Santa - di solito via Costantinopoli. Guardando le
reliquie, toccando gli scrigni e i reliquiari in cui erano conserva-
te, pregando dinnanzi a esse per un'intercessione, la gente invo-
cava l'aiuto divino - al primo posto forse la guarigione dalle ma-
lattie. Di conseguenza, c'era sempre un flusso costante di visita-
tori per ogni sito, alcuni attiravano persino pellegrini da lontano
e altri erano limitati ai supplici locali (Brooke, e Brooke 1984). La
gente non aveva più bisogno di affidarsi a un mago o a imo stre-
gone, dal momento che aveva ormai la piena possibilità di acce-
dere al soprannaturale e di richiederne i benefici attraverso la
Chiesa - ed entro certi limiti. La Chiesa non utilizzava il proprio
potere contro i maleficia, e non offriva nessuna forma di magia
d'amore. Ildegarda di Bingen (1098-1179) fornì ampie istruzioni
su come usare la radice di mandragola per reprimere i desideri
sessuali, comprese alcune ricette diversificate per uomini e don-
ne, ma nulla per infiammare le passioni (Physica 1,56).
Benché per rendere più comprensibile il discorso a volte fac-
eia riferimento alla «magia» della Chiesa, le virgolette servono
306 A GLORIA DI DIO

per ricordare ai lettori che ciò che la Chiesa offriva al posto della
magia, non era magia ma religione. Si credeva che le sacre reli-
quie e le formule utilizzate dai sacerdoti funzionassero perché
Dio le faceva funzionare (o delegava tale potere ai vari santi). Co-
me vedremo, questo contrasto fra religione e magia non legata
alla Chiesa divenne cruciale quando i teologi iniziarono a chie-
dersi perché quest'ultim a «funzionasse». Inoltre, la gamma limi-
tata dell'offerta della Chiesa offrì un vantaggio rilevante alla
concorrenza della magia. Ma ritornerò più avanti su tali questio-
ni. Per il momento, è importante concentrare l'attenzione sulle
guarigioni.

L'efficacia della magia


Tutta la magia funziona - alcune volte. Di conseguenza, mol-
ti di coloro che si rivolgevano alla «magia» della Chiesa veniva-
no guariti. Per di più, la Chiesa non si accontentava di affidarsi a
santuari e reliquie per ottenere dei risultati medici; essa ratificò e
promulgò molti procedimenti soprannaturali volti a trattare prò-
blemi specifici. La evira per la lussuria di santa Ildegarda, basata
sulla mandragola, per lo meno implicava il ricorso a un materia-
le vegetale, ma molti altri trattamenti della Chiesa si allineavano
alla tradizione degli incantesimi, p u r rimanendo aH'interno del
regno della religione. Per esempio, una cura raccomandata per
chi aveva qualche problema a un occhio consisteva nella se-
guente preghiera recitata da un sacerdote:

Dunque io ti imploro, o pagliuzza, per il Dio vivente e il Dio san-


to, di scomparire dall'occhio del servo di Dio (nome della persona),
che tu sia nera, rossa o bianca. Possa Cristo farti scomparire. Amen.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. (In
Kieckhefer 1989, p. 3.)

Q uando una donna soffriva di problemi mestruali, la cura


consisteva nello scrivere queste parole su una striscia di carta:
«Per Lui, con Lui e in Lui», e poi appoggiare questa striscia di
carta sulla fronte della donna (in Kieckhefer 1989, p. 4).
1NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 307

Ovviamente, dal momento che la maggior parte dei sintomi


di solito scompare da sola, queste cure spesso erano seguite dal-
la guarigione. Il problema era che le persone guarivano spesso
anche senza ricorrere alla «magia» della Chiesa, ma rivolgendo-
si ai maghi tradizionali, come i «savi» dei villaggi. Anzi, le cure
prestate da queste persone spesso avevano più successo perché
non c'era una vera e propria differenza fra magia e medicina.
Queste persone facevano ricorso a un ricco bagaglio di tradizio-
ni e credenze, gran parte delle quali di origine empirica, di soli-
to basate su vere pozioni e unguenti piuttosto che su incantesi-
mi, e alcune delle loro pratiche avevano davvero la funzione di
medicine efficaci. D'im portanza ancora maggiore era il fatto che
le cure religiose e la medicina popolare, magica o no, erano di
molto superiori alla medicina secolare, se non altro perché era-
no relativamente zn-efficaci! Nessuna donna con problemi me-
struali morì mai per essersi appoggiata una striscia di carta sul-
la fronte, né mai nessuno morì di preghiere, mentre, addirittura
fino all'inizio del XX secolo, la medicina secolare molto spesso
uccideva i suoi pazienti. I dottori erano pericolosi per la salute
perché le loro tecniche erano estremamente invasive, consisten-
do quasi interamente in forti purganti e salassi (Porter 1998).
Come ha spiegato Robin Briggs, «ci sarebbe voluto un po' d'in-
gegno per escogitare metodi migliori con cui minare delle costi-
tuzioni forti e stroncare quelle deboli» (Briggs 1998, p. 70). In ag-
giunta, benché alcune delle loro prescrizioni fossero innocue,
molti dei «medicamenti» usati dai dottori avevano delle conse-
guenze pesanti - come per esempio il mercurio che era fra i ri-
medi più u tilizzati.
La medicina secolare veniva resa ancora più pericolosa dal
fatto che i dottori entravano in contatto quotidianamente con
molte persone che presentavano infezioni gravi, le quali spesso
venivano trasmesse agli altri pazienti. Infatti, ignorando ancora
la nocività dei germi, i medici non si lavavano le mani, né puli-
vano i loro strumenti (figurarsi se li sterilizzavano) passando da
un paziente all'altro. Ancora a fine XIX secolo, gli ospedali in cui
si partoriva erano delle famigerate trappole mortali in cui i me­
308 A GLORIA DI DIO

dici e le infermiere trasmettevano la febbre puerperale di donna


in donna. Le donne erano molto più al sicuro nelle mani della le-
vatrice del villaggio, che non veniva frequentemente in contatto
con le infezioni e che aveva una conoscenza pratica più che teo-
rica del sistema riproduttivo femminile. E la maggior parte delle
persone riusciva a riprendersi molto meglio ricorrendo ai rimedi
tradizionali (anche quando questi erano privi di valore) piutto-
sto che rivolgendosi a un medico che le curava con purghe o sa-
lassi, trasmettendo loro altre infezioni - ironicamente, la conse-
guenza di questa situazione era che i poveri contadini riceveva-
no «cure» mediche migliori dei ricchi. Thomas Hobbes con-
dannò le «streghe», ma aveva ragione nell'osservare che avrebbe
preferito «avere il consiglio di [...] un'anziana donna d'esperien-
za che è stata al capezzale di molte persone malate, piuttosto che
quello del più colto [...] dei medici» (in Thomas 1971, p. 14).
Hobbes aveva anche ragione nel presupporre che l'alternativa
ai dottori fossero delle anziane donne esperte poiché, come ab-
biamo visto nella discussione della tesi su sessismo e stregoneria,
la realtà era che fino a tempi recenti le donne avevano la quasi to-
tale responsabilità della salute della famiglia (Briggs 1998; Levack
1995; Russell 1972; Thomas 1971). Le donne facevano nascere i
bambini e si occupavano di loro; dunque, fin dalla primissima in-
fanzia, gli uomini erano abituati ad affidarsi a donne ogni qual
volta fossero feriti o malati. Inoltre, dal momento che erano loro
a cucinare e spesso a prendersi cura degli orti, le donne impara-
vano ciò che già si sapeva, o si credeva, sulle varie erbe e sul mo-
do in cui trasformarle in pozioni e unguenti. Per rispondere ai bi-
sogni della propria famiglia, le donne condividevano le loro co-
noscenze mediche e l'esperienza; quando invecchiavano, quelle
che dimostravano una maggior attitudine e interesse diventava-
no levatrici e guaritrici - spesso finendo con l'essere considerate
come «savie», una sorta di equivalente europeo dei medici-stre-
goni (Briggs 1998). Dunque, ogni proibizione nei confronti della
magia medica ricadeva principalmente sulle donne.
Quindi la magia alcune volte funziona. Ma non solo. La ma-
già alcune volte fallisce. I pazienti bisognosi di cure si rivolge­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 309

vano alternativamente alla Chiesa o alla «magia» medica, a se-


conda dei risultati ottenuti in precedenza. Per secoli la Chiesa si
impegnò poco, o per nulla, per assicurarsi un monopolio sulla
magia. Lungi dal pensare che la magia fosse di origine satanica,
la Chiesa rifiutava ogni forma di stregoneria solamente in quan-
to eretica. Questa era anche l'epoca durante la quale non vi fu-
rono manifestazioni gravi di antisemitismo, e venivano ignora-
te anche le eresie organizzate. Non può essere solo una coinci-
denza il fatto che l'antisemitismo sanguinario, la lotta alle eresie
altrettanto sanguinaria, e tutti gli sforzi per eliminare la magia
furono fenomeni che si verificarono nello stesso momento, e che
«confluirono» nella caccia alle «streghe».

Conflitto religioso

Nel capitolo 1 ho sintetizzato parti di una teoria del conflitto


religioso che ho presentato nel dettaglio in un Unico vero Dio. Ho
prestato attenzione non solamente all'individuazione delle con-
dizioni in cui i gruppi religiosi diventano intolleranti, ma anche
alla spiegazione del quando e del perché tollerano l'anticonfor-
mismo. Poi ho usato questa teoria per spiegare i secoli «tranquil-
li» dell'Europa, quando Chiesa e stato, così come la gente, per-
mettevano a ebrei e a molti eretici di vivere in pace, anche se i
primi erano comunque soggetti a diverse imposizioni discrimi-
natorie. La teoria spiega il motivo per cui, dopo un così lungo pe-
riodo di tempo, al termine dell'XI secolo, all'improvviso, la tolle-
ranza per eretici ed ebrei ebbe fine.
Ora dimostrerò che la persecuzione delle «streghe» fu un altro
aspetto dello stesso fenomeno. Anzi, spesso gli studiosi dell'epoca
della stregoneria accomunano ebrei, eretici e «streghe» in quanto
oggetto di ira cristiana (Russell 1972, p. 148), ma nessuno ha avan-
zato una spiegazione convincente. Mi si consenta di ripetere bre-
vemente la mia idea sulla dinamica che collega tali fenomeni.
Il punto di partenza è il fatto che, nonostante il riconoscimen-
to di entità soprannaturali minori, tutti i monoteismi dualistici
310 A GLORIA DI DIO

proclamano l'esistenza di un Unico Vero Dio. Ne consegue che se


esiste un Unico Vero Dio, chiunque veneri altri Dei è in grave er-
rore, e le altre religioni rappresentano una sorta di affronto al-
l'Unico Vero Dio. Da molto tempo ho definito questa tipologia di
sentimenti con il termine particolarismo. È molto difficile resi-
stere alla tentazione di eliminare ogni affronto a Dio o di co-
stringere le persone a credere nella vera religione che garantirà
loro la salvezza!
Fortunatamente, la vita sociale è soggetta a una considerevo-
le inerzia. Normalmente le persone non si mobilitano con faci-
lità, soprattutto quando non hanno un interesse diretto e perso-
naie nell'agire. Ciò si applica ai leader così come alla gente in ge-
nerale. Quindi, anche se coloro che possiedono una fede partieo-
laristica possono disprezzare i non conformisti religiosi, la mera
esistenza di questi ultimi spesso non provoca una reazione. Dun-
que, come ho spiegato nel capitolo 1, i comportamenti non
conformi alla religione tradizionale saranno tollerati nella misu-
ra in cui i dissenzienti non costituiscano nessuna minaccia istitu-
zionale percepita.
Il fatto che non costituissero una minaccia istituzionale aiuta
a spiegare le politiche della Chiesa, che consentivano agli ebrei
di persistere nelle loro pratiche religiose. Lo stesso principio
spiega perché la stessa tolleranza non era riservata ai donatisti.
Quei pericolosi eretici dovevano essere annientati! Perché? Per-
ché erano guidati da un'élite che controllava gran parte del
N ord Africa e che costituiva una minaccia diretta e seria per il
dominio trinitario della Chiesa e dello stato. E questo è anche il
motivo per cui i protestanti inglesi furono così ferventi nella lo-
ro caccia ai preti cattolici - entrambi i gruppi aspiravano al mo-
nopolio religioso.
Ciò ci porta all'osservazione per cui il conflitto religioso ri-
sulterà massimizzato laddove, a parità di altre condizioni, coesi-
stano alcune organizzazioni religiose particolaristiche potenti. Ognu-
na di esse costituirà un'evidente minaccia istituzionale per le al-
tre, ed è prevedibile l'instaurarsi di un aperto clima di guerra re-
ligiosa, evitata solamente da delicati equilibri di potere. Adam
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 311

Smith aveva compreso questo punto in maniera molto chiara. Le


differenze religiose, scrisse, «possono essere pericolose e proble-
matiche unicamente laddove ci sia solo una setta tollerata nella
società o dove l'intera società sia divisa in due o tre grandi sette»
(Smith [1776] 1981, pp. 792-793). Come aveva capito Smith, que-
st'ultima situazione tende a essere molto instabile, dal momento
che un gruppo tende a spazzare via gli altri o a portarli alla clan-
destinità. Inoltre, tali conflitti tenderanno a non essere limitati ai
rivali principali, ma genereranno un clima di intolleranza religiosa
generale esteso anche ai gruppi religiosi minori che normalmente
sarebbero stati tollerati. Da qui, il secondo grande principio: du-
rante i periodi di grave conflitto religioso, non saranno tollerati anche
quei gruppi religiosi non minacciosi ma comunque «devianti».
Come abbiamo visto nel capitolo 1, e come ho discusso in ma-
niera estesa in Unico vero Dio, è questo il principio che chiarisce
il motivo per cui le Crociate causarono un improvviso scoppio di
azioni violente antisemite, non solo in Europa, ma anche nel
mondo islamico. E spiega anche perché le Crociate spinsero la
Chiesa a preoccuparsi dell'eresia, dopo averla praticamente
ignorata per secoli. Il capitolo 1 segue anche l'evoluzione della
campagna iniziale contro gli eretici all'interno della Chiesa, ed
esamina il modo in cui il fallimento della «Riforma del XII seco-
lo» portò al proliferare di ima serie di movimenti «eretici» di
massa, ognuno dei quali fu accusato di essere ispirato da Satana
e divenne l'obiettivo di sanguinarie campagne di repressione.
La ricerca degli eretici nascosti, soprattutto valdesi e catari,
preparò la strada alla caccia alle «streghe». Fu la scoperta conti-
nua di veri gruppi eretici a dare sostanza all'idea che il mondo
cristiano fosse pieno di satanisti ben nascosti.

L'eresia della stregoneria

In alcune parti d'Europa il termine usato per «strega» era ga-


zarius, che è una forma corrotta di cataro, e in molte aree wuaden-
sis o vaudois, entrambe corruzioni di valdese. Nella regione di
312 A GLORIA DI DIO

Giura, il termine per chiamare la «strega» nei dialetti locali deri-


vava da una parola che significava eretica (Monter 1976; Russell
1972). Questa associazione linguistica riflette il fatto che iniziai-
mente gli europei concepivano la stregoneria come una funzione
dei movimenti eretici di massa, e che per questo cominciarono a
preoccuparsene. Così, nel 1258, papa Alessandro IV consigliava
gli inquisitori di «non intervenire nei casi di divinazione o stre-
goneria a meno che essi non avessero il chiaro sentore della mani-
festa eresia» (testo in Kors, Peters 1972, p. 79).
Fu in risposta alle dottrine catare in merito airimm enso potè-
re di Satana e al suo controllo sulle questioni terrene che i leader
cristiani iniziarono a preoccuparsi di patti con il Diavolo e a con-
dannare i catari per condotta satanica. Inoltre, fu in risposta al-
l'eresia che la pratica del rogo divenne comune. Nel 1184, papa
Lucio III approvò i roghi citando il Vangelo di Giovanni (15,6):
«Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si sec-
ca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano». Nel
1198 papa Innocenzo III dichiarò che chi si trovava in dissenso
era colpevole di «tradimento contro Cristo» (Russell 1972, p.
151). E fu la ricerca di catari e valdesi a incoraggiare la credenza
nei sabba delle «streghe», dal momento che spesso gli eretici si
incontravano, per necessità, in luoghi nascosti, dove svolgevano
rituali segreti - ai quali cinici propagandisti e teologi creduloni
aggiunsero elaborati dettagli di orge e depravazione: «Baciano
gatti e rane, invocano il Diavolo e fornicano in orge a luci spen-
te» (Russell 1972, pp. 126-127). Si ricordi, dal capitolo 1, che la
Chiesa accusò quasi sempre i gruppi eretici di sfrenatezza ses-
suale, e ciò si verificò nuovamente e con facilità nei racconti sul-
la degenerazione sessuale delle «streghe».
Ovviamente, varie leggende popolari sulla stregoneria cir-
colavano da secoli, forse fin dalle primissime comunità um ane
- ma non parlavano di satanismo. Per di più, l'idea che Satana
cercasse di tentare e reclutare dei seguaci era anch'essa antica -
il Nuovo Testamento ci parla infatti delle tentazioni di Cristo e
riporta degli episodi di possessione da parte di spiriti maligni.
Anzi, fin dai prim i tempi, la Chiesa utilizzò esorcisti per af­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 313

frontare tale problema. Spesso gli ebrei e diversi eretici delle


sette gnostiche, a partire da Simon Mago, erano accusati di es-
sere legati a Satana. Di conseguenza, esisteva un contesto d'or-
todossia dietro a questi sospetti di satanismo. Poi, nel XIV se-
colo, cominciarono a fare la loro comparsa accuse di satanismo
anche nella politica europea, dal momento che diversi funzio-
nari, fra i quali vescovi, furono condannati per aver causato la
morte prem atura di re, o per aver cospirato contro papi
(Kieckhefer 1976). La maggioranza di queste accuse era falsa,
come nel caso di papa Giovanni XXII, il quale in più occasioni
m andò al rogo i suoi oppositori interni alla Chiesa (dal 1316 al
1334), oppure come nel caso di Filippo IV di Francia (1268-
1314), che dichiarò di aver m andato al rogo il gran maestro del-
l'ordine dei cavalieri templari, Jacques de Molay, e il precettore
di Normandia, Geoffroi de Chamey, perché erano adoratori del
Diavolo (Read 2001). In altri casi, gli accusatori erano sinceri. A
ogni modo, però, ciò che è im portante è che l'idea del patto con
Satana stava guadagnando credibilità. Ciò nonostante, non
aveva ancora fatto presa l'idea che persone comuni potessero
stilare dei patti con il Diavolo, e non si era ancora diffusa la
paura che la società cristiana fosse perm eata di cellule satani-
che infiltrate. Ma questa prospettiva non era poi così lontana
dalla caccia agli eretici satanici, soprattutto dal momento che
l'associazione della magia con il satanismo risolveva un miste-
ro assai im barazzante e reale.

Il problema della magia non legata alla Chiesa

Per molti secoli la Chiesa si accontentò di offrire numerose


alternative al diffuso ricorso alla magia, ma non fece nessun se-
rio tentativo di proibirla. I sacerdoti locali potevano suggerire
ai parrocchiani di cercare la grazia di una guarigione presso il
vicino santuario, ma non criticavano i clienti dei «savi» del vii-
laggio, i quali erano, in effetti, membri del loro gregge. Tutta-
via, quando si attenuò fino quasi a scomparire il generale clima
324 A GLORIA DI DIO

di tolleranza per pensieri e comportamenti non conformi ai


precetti della religione ufficiale, la Chiesa cominciò a manife-
stare un atteggiamento sempre più antagonista nei confronti
della magia tradizionale. In questa campagna furono utilizzate
tre grandi strategie (O'Neil 1984). La prim a fu quella di espan-
dere ulteriormente la propria «magia». Per esempio, si ampliò
l'elenco di servizi disponibili per un dato santo, gli esorcisti
vennero identificati come specialisti in «medicina ecclesiastica»
e il loro numero aum entò immensamente. La seconda tattica fu
quella di condannare la magia tradizionale con regolarità, da
ogni pulpito, e di cercare di sradicarla attraverso le confessioni
- i confessori locali cominciarono a rim proverare i «savi» per
l'uso di incantesimi e cure palesemente magiche. La terza stra-
tegia consistette nel rendere più efficace la precedente, prescri-
vendo punizioni per coloro che violavano il divieto di pratica-
re la magia.
Il problema era che, nel sostituire la magia tradizionale, la
Chiesa spesso falliva, mentre le cure magiche invece funziona-
vano. In un mondo essenzialmente privo di risorse mediche, ciò
rendeva praticamente irresistibile il richiamo della magia (Tho-
mas 1971). Anzi, la Chiesa non riusciva nemmeno a far sì che il
proprio clero si trattenesse dal ricorrervi e dal raccomandarla,
soprattutto nel caso della magia medica. Ancora nel XVI secolo,
l'analisi di casi tratti dall'archivio dei processi della Chiesa a Mo-
dena, tradotti in inglese e analizzati da Mary R. O'Neil, rivela
l'incapacità del clero, di fronte al disperato bisogno e alle richie-
ste della popolazione, di resistere all'uso della magia proibita
(O'Neil 1981, 1984 e 1987).
Si prenda in considerazione il caso di fra' Girolamo Azzoli-
ni, esorcista francescano. L'accusa contro di lui riguardava un
bambino che gli era stato portato con una malattia che egli
aveva diagnosticato, ma che non riteneva di essere in grado di
curare. Il frate francescano aveva detto alla m adre di portare il
bam bino dalla guaritrice locale e di «dirle a nome mio che cu-
ri questo vostro figlio, e lei lo farà» (O'Neil 1981, p. 19). Perché
fra' Azzolini aveva fatto una cosa di questo tipo, sapendo che
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 315

era proibita? D urante il processo egli ammise di aver sofferto


di una m alattia simile, e che le forme di cura della Chiesa non
avevano avuto successo. Disperati, i suoi parenti avevano
m andato a chiamare la guaritrice. Q uando la donna era arri-
vata, aH'inizio si era rifiutata di curarlo perché, aveva detto, «il
suo confessore non voleva più assolverla quando faceva quel-
le cose». Fra' Azzolini le aveva risposto che se in precedenza
aveva trovato il rim edio ed era stata poi assolta, poteva garan-
tirle che sarebbe stata assolta di nuovo. La guaritrice allora
aveva accettato questa rassicurazione e aveva seguito le sue
procedure. Fra' Azzolini era guarito. Di conseguenza, aveva
affrontato tutti 1 casi successivi con la convinzione di conosce-
re - in caso di fallimento dei m etodi della Chiesa - una cura
veram ente efficace e risolutiva. Il religioso fu ritenuto colpe-
vole, venne sospeso dalla pratica dell'esorcismo ed esiliato
dalla città. Dunque, non soltanto i laici ma anche gli uomini di
Chiesa si trovavano a dover affrontare un dilemma nel mo-
mento in cui l'osservanza del divieto della Chiesa avrebbe po-
tuto privarli di una cura adeguata. A M odena, fra il 1580 e il
1600, il 20% dei processati per superstizione furono sacerdoti o
frati, quattro dei quali esorcisti (O'Neil 1984).
Un secondo caso assai indicativo tratto dai documenti di Mo-
dena mostra la pressione che il clero doveva affrontare non solo
per la proibizione della magia, ma anche perché la Chiesa non
aveva predisposto delle alternative alle pozioni amorose, con-
dannandole come peccaminose. Don Giovanni Battista, sacerdo-
te della cattedrale della città, fu processato nel 1585 per aver for-
nito una pozione amorosa a una nobildonna locale. La donna gli
aveva chiesto di battezzare un pezzo di magnete, che progettava
di utilizzare per attrarre a sé suo marito, di modo che questi
smettesse di unirsi a donne promiscue. AH'inizio il sacerdote si
era rifiutato di farlo, sapendo che si trattava di un abuso di un
sacramento, e che era proibito. Disse al tribunale: «Benché mi
fossi rifiutato più di dieci volte, alla fine fui obbligato a farlo dal-
le molte insistenze della Signora, e promisi di aiutarla in tal sen-
so» (O'Neil 1981, p. 11).
316 A GLORIA DI DIO

Il concetto del satanismo

Coloro che all'interno della Chiesa si opponevano alla ma-


già non lo facevano perché la ritenevano falsa o ingannevole;
anzi, al contrario, perché credevano che funzionasse! E questo
poneva un interrogativo cruciale in tema di stregoneria: perché
la magia funzionava ? Data la natura puram ente a-teorica della
magia, come abbiamo sottolineato nell'«Introduzione», non esi-
steva alcuna tradizione speculativa alla quale i pensatori cri-
stiani potessero attingere per trovare una risposta. I «savi» non
si ponevano nem meno questo interrogativo; persino gli strego-
ni ignoravano la questione. Mi si consenta di sottolineare che la
concezione europea della stregoneria satanica non fu un prò-
dotto del folclore, né ebbe alcun fondamento in una cultura ma-
gica. N orm an Cohn riferì che «da nessuna parte, nei libri [me-
dievali] sulla magia sopravvissuti, c'è traccia di satanismo. Da
nessuna parte si dice che il mago debba allearsi con le milizie
demoniache, o che debba compiere azioni malvagie per guada-
gnarsi il favore del Principe del Male» (Cohn 1975, p. 169). Il
concetto del satanismo fu dedotto da im portanti intellettuali del-
la Chiesa, e non ebbe origine neH'immaginazione di persone
superstiziose e illetterate, né fra gli stregoni. In altre parole, non
riuscendo a cogliere le differenze fondamentali fra magia e re-
ligione, i teologi più raffinati non potevano accettare la sempli-
ce idea che la magia «funzionasse». Sapevano bene perché fun-
zionavano le alternative della Chiesa alla magia. Dio e i santi
erano agenti attivi; quando una procedura della Chiesa non
funzionava era perchè gli esseri soprannaturali avevano deciso
altrimenti. Era ovvio, però, che non erano Dio e i santi a far fun-
zionare la magia tradizionale. E allora chi? Posta all'interno del
contesto del monoteismo dualistico, questa dom anda poteva
avere solamente una risposta: Satana era responsabile del male
nel mondo; Satana si opponeva a Dio; Satana faceva «funzio-
nare» la magia.
Nessuno ha descritto l'evoluzione del concetto di satanismo
così chiaramente come Richard Kieckhefer. Avendo rilevato che
l NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 317

«la preoccupazione per il culto del Diavolo nacque più da neces-


sità intellettuali che su base psicologia», egli osserva che «l'in-
traduzione del culto del Diavolo può essere più plausibilmente
interpretata come il risultato del desiderio dell'élite letterata di
dare un senso al concetto di stregoneria». E continua:

Essenzialmente, [gli intellettuali] opponevano un'interpretazione


religiosa della stregoneria a una magica. Non potevano concepire
seriamente l'idea che atti di stregoneria e parole o sostanze male-
fiche avessero il potere intrinseco di causare esiti malvagi, senza
la mediazione di demoni. Nella loro visione del mondo non c'era
spazio per cause che non fossero né naturali né del tutto sopran-
naturali.
[...] Alla metà del 1400, Johannes Wunschelburg operò un'analo-
già con i sacramenti e i rituali della Chiesa: proprio come questi ri-
ti hanno efficacia in quanto segni, il cui utilizzo è una concessione
della grazia, così anche le parole e le formule dello stregone sono
semplicemente dei segni del Diavolo [...] dal punto di vista del-
l'élite intellettuale, né i sacramenti né i sacramentali potevano
avere effetto senza la cooperazione di Dio. Allo stesso modo, dal
loro punto di vista, non poteva esserci nessuna stregoneria senza
il coinvolgimento del Diavolo. Si potrebbe addirittura ipotizzare
che concepissero la stregoneria come ima sorta di sacramento ne-
gativo, diabolico. (Kieckhefer 1976, pp. 79-80)

Fu così che la logica e la ragione indussero le migliori menti


dell'epoca in un errore catastrofico.
Una volta concepita, l'idea che la magia fosse di pertinenza di
Satana, e che quindi un gran numero di persone dovesse avere
dei legami con lui, si diffuse rapidamente, e si ramificò. Non era-
no più solamente gli eretici a essere implicati nel satanismo; in
ogni villaggio ci potevano essere delle «streghe» - e non si trat-
tava solamente dei «savi», ma anche di persone comuni che par-
tecipavano nei sabba e adoravano Sua Maestà il Diavolo.
Essendo una creazione di teologi e intellettuali, l'idea della
stregoneria satanica ebbe un fondamento istituzionale nelle
318 A GLORIA DI DIO

università che andavano sviluppandosi rapidam ente - il colle-


gamento fra stregoneria e satanismo fu argomento di una deli-
berazione da parte della facoltà di teologia dell'Università di
Parigi nel 1398 (Kieckhefer 1976, p. 22). Fu nelle università che
generazioni di futuri giudici e funzionari ecclesiastici ricevet-
tero la loro istruzione, basata sulla proliferante letteratura sul
satanismo. H. C. Erik M idelfort ha osservato che uno dei mo-
tivi per cui la Germania sudoccidentale divenne il centro della
caccia alle «streghe» fu il fatto che il suo sistema legale «per-
metteva ai professori universitari [i m aggiori sostenitori della
dottrina del satanismo] di far pienam ente parte del meccani-
smo giudiziario» (Midelfort 1981, p. 30). Steven T. Katz ha la-
menta to che «i giuristi chiedevano consiglio ai professori [...]
spalancando così la porta alle loro pedanterie perniciose e
iper-ortodosse» (Katz 1994, p. 417). In effetti, Jacob Sprenger,
coautore del Malleus maleficarum, era professore di teologia
presso l'U niversità di Colonia. Pubblicato per la prim a volta
nel 1486, il Malleus fu fra i prim i libri a stam pa, e vide molte
edizioni e num erose traduzioni. Sarebbe davvero difficile esa-
gerare l'im patto avuto da questo libro. N on solo esso convinse
generazioni di persone istruite (fra le quali Cotton Mather) del
fatto che le «streghe» esistessero; esso spiegava anche in detta-
glio come scoprirle e interrogarle per ottenere una confessione
valida - una confessione che fosse conforme al sapere «con-
venzionale» sul m ondo del satanismo. Personalmente, ritengo
assai probabile che se non vi fosse stato in circolazione il Mal-
leus, o altri libri simili, molte epidemie locali di caccia e di per-
secuzione delle «streghe» non vi sarebbero mai state, e non
avrebbero com unque superato i bassissimi livelli raggiunti nel
XIV e nel XV secolo.
Tuttavia, non furono i libri a bruciare le «streghe», e resta
pur sempre l'interrogativo del perchè il Malleus fu un «best sei-
ler». Per di più, gli episodi che ispirarono l'uso dell'espressio-
ne «ossessione per le streghe» non avvennero se non dopo mol-
te generazioni dall'apparizione di questo libro. Perché non av­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 319

vennero subito? E perché non vi fu ovunque la caccia alle «stre-


ghe»? Perché vi furono così tante differenze in quanto a fre-
quenza, durata e ferocia delle cacce alle «streghe» nei luoghi in
cui si verificarono? Queste sono tutte dom ande che devono tro-
vare una risposta.

Cronologia della caccia alle «streghe»

Dal momento che gli archivi locali con i documenti dei tri-
bunali sono la fonte prim aria di materiale, molti studiosi hanno
pubblicato degli eccellenti elenchi di procedimenti legali contro
la stregoneria, ognuno dedicato a una o due comunità specifiche
(Hennigsen 1980; Larner, Lee, McLachlan 1977; Macfarlane
1970; Midelfort 1972; Monter 1976). Questi dati hanno permesso
di calcolare la percentuale di condanne, la distribuzione delle
sentenze e il sesso di coloro che venivano portati in tribunale.
Tuttavia, questi studi locali hanno molti limiti. Per prim a cosa,
per il fatto di essere locali, non includono epoche e luoghi in cui
non accadde nulla - vale a dire, la maggioranza delle epoche e
dei luoghi. Anzi, queste comunità sono state scelte dagli autori
proprio perché avevano vissuto un periodo di caccia alle «stre-
ghe» insolitamente intenso, e lo studio di solito si limita a que-
sto arco di tempo. In secondo luogo, alcuni di questi lavori (e
spesso gli archivi stessi sui quali si basano) omettono tutti i casi
che non hanno avuto come esito una condanna, o persino quel-
li che non hanno visto una sentenza di morte, il che fa sì che le
condanne vengano sovrastimate e con esse le percentuali delle
esecuzioni.
Fortunatamente, questi difetti non oscurano lo schema com-
plessivo in termini di tempi e luoghi. Assieme a dei confronti di
nazioni e regioni specifiche, i dati generali sono sufficienti per
una verifica della teoria che presenterò nelle sezioni successive.
Qui delineerò una cronologia generale della caccia alle «stre-
ghe», distinguendo due ere: prim a e dopo il 1500.
320 A GLORIA DI DIO

1300-1499
È possibile avere dati statistici molto precisi riferiti ai primi
due secoli dei processi per «stregoneria» perché Richard Kieckhe-
fer (1976) si è preso la briga di creare un «calendario» dei proces-
si dal 1300 al 1499, e aveva la raffinatezza intellettuale necessaria
per farlo. Qui egli tenta di datare e localizzare ogni processo a noi
noto, e di riportare il numero e il sesso degli accusati, le specifi-
che accuse, il verdetto o sentenza, e altre informazioni utili. Posto
che il lavoro di Kieckhefer risale ormai a una trentina d'anni fa e
che dopo di lui sono state compiute molte nuove ricerche sull'ar-
gomento, il constatare che non sia stato fatto nulla per estendere
il suo calendario fino al 1750 mi lascia perplesso. Non essendo
qualificato per intraprendere un'im presa di questo tipo, mi sono
accontentato di trasformare il suo calendario in un database
quantificato, in parte anche per dimostrare l'importanza di un da-
tabase esaustivo per l'intera epoca in questione.
I dati di Kieckhefer partono dal 1300 perché fu allora che co-
minciarono i primi procedimenti legali contro la «stregoneria» - al
di là di quelli che vedevano imputati valdesi e catari. Nei casi da
lui selezionati, l'autore incluse tutti i processi noti che implicasse-
ro le accuse di praticare magia o stregoneria, o di avere qualche le-
game con il Diavolo. Io ho ristretto leggermente il campo di ricer-
ca. Per prima cosa, ho escluso 12 casi perché l'accusa era di diffa-
mazione contro alcune persone che avevano falsamente accusato
qualcuno di stregoneria. In realtà, questi erano processi contro
l'antistregoneria. In secondo luogo, la prima sezione del calenda-
rio è dominata da processi (alcuni celebrati in absentia) nei quali le
accuse di stregoneria venivano mosse piuttosto falsamente, come
arma nella lotta per il potere politico. Nessuno di quelli che erano
coinvolti nei processi ai templari, per esempio, credeva all'accusa
di re Filippo IV che li voleva in combutta con Satana. Né qualcu-
no credette davvero a questo stesso re quando avanzò accuse si-
mili contro papa Bonifacio Vili (1294-1303). Questa falsità appare
altrettanto evidente in molti processi avviati dal famigerato papa
Giovanni ΧΧΠ (1316-1334) ad Avignone. Questi processi politici si
conclusero a volte con la condanna al rogo delle persone accusate
di stregoneria e svolsero un ruolo significativo nella diffusione
dell'idea del satanismo, ma a mio giudizio non si possono qualifi­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 321

care come casi rappresentativi. Dunque, ho escluso anche 24 casi


con ovvie connotazioni politiche - la maggior parte dei quali av-
venuta nella prima metà del 1300. In terzo luogo, ho scartato 15 ca-
si perché avevano a che vedere con semplici accuse e non vi era
stato nessun processo. E ho escluso anche i casi basati su fonti
estremamente vaghe e inconsistenti. Nel farlo, sono riuscito a se-
guire le linee guida di Kieckhefer, dal momento che egli collocò
quasi tutti questi casi fra parentesi. Ho poi utilizzato delle fonti
più recenti per prendere in considerazione molti dei casi messi fra
parentesi e ometterne molti fra quelli che lui non aveva indivi-
duato. In definitiva, ho codificato 410 processi.
La definizione giustamente circostanziata di Kieckhefer si riflet-
te nel fatto che solo il 45% dei processi presentava delle accuse di
satanismo - 27% nel 1300,48% nel 1400. E questo spiega la percen-
tuale relativamente bassa di condanne a morte - solo il 39% dei
processi ebbe come conseguenza l'esecuzione. Tuttavia, il tasso
molto basso di assoluzioni - solamente un 9% - è piuttosto incoe-
rente con il tasso medio calcolato con dati di vari archivi locali
(Katz 1994; Levack 1995). Questa incoerenza potrebbe essere il ri-
sultato del mancato riferimento nelle fonti a un verdetto per un
32% di processi. Mentre lavoravo intensamente su questi dati, con-
sultando nuove fonti oltre a quelle citate da Kieckhefer, mi sono
convinto che queste stesse fonti tendevano a riportare preferibil-
mente le sentenze di morte, e che nella maggior parte dei casi per i
quali mancava l'esito probabilmente l'imputato era stato assolto. In
altre parole, le fonti raramente riportavano che un determinato ac-
cusato era stato «giustiziato» o «condannato», preferendo riporta-
re che era stato «arso», «impiccato», «affogato», «decapitato»,
«strangolato» o, nel caso di una madre e di una figlia condannate
per stregoneria a Colonia, nel 1487, «sepolte vive». Spesso queste
fonti, che erano anche piuttosto dettagliate riguardo alle sentenze
non capitali, riportavano che gli accusati erano stati «banditi»,
«multati», «imprigionati», «mutilati», «marchiati», «frustrati» o
«purgati». Di conseguenza, quando non viene detto nulla sulle sen-
tenze del processo, tendo a credere che sia perché la persona era
stata assolta. Se fosse così, allora questi dati mostrano una percen-
tuale di assoluzione del 41%, che è coerente con gli altri risultati.
Per amore di completezza, mi si lasci osservare che un ulteriore
322 A GLORIA DI DIO

17% dei processi portò a sentenze miti quali multe, penitenze e


bando, mentre un 3% finì con punizioni dure quali periodi di de-
tenzione, mutilazioni e frustate.
Anche mantenendo l'ampio standard d'inclusione di Kieckhe-
fer, possiamo dire che non vi furono molti processi pertinenti du-
rante questi due secoli. Come si può notare dalla Tabella 3.1, vi fu-
rono 63 processi di questo tipo nel 1300 e 347 nel 1400. Va ricorda-
to che il calendario di Kieckhefer è basato sui processi, non sugli
imputati. Nella maggioranza dei casi viene fornito il numero di
imputati, di solito pari a uno. Nei pochi casi di processi di gruppo,
tuttavia, il numero degli imputati è sconosciuto, e io ho inserito
una mia stima, basata sul contesto e su qualsiasi indizio disponi-
bile, probabilmente in eccesso. Di conseguenza, il numero totale
degli imputati è soltanto approssimato. Ciò nonostante, ho calco-
lato che in questi duecento anni gli imputati furono solamente 935.
Certo, sia i processi sia gli imputati divennero più numerosi con il
passare del tempo. Eppure, nell'Europa nel suo complesso, negli
ultimi 25 anni del XV secolo, solamente 283 imputati giunsero a
processo, circa 11 all'anno, con 4 esecuzioni. Se le percentuali fos-
sero rimaste queste, non ci sarebbe nessuna «ossessione delle stre-
ghe» da spiegare. Ma questo lo vedremo più avanti.

Tabella 3.1 Procedimenti legali contro la stregoneria, 1300-1499

Numero di im putati
Numero di processi
(appro6$imato)

1300-1324 10 17
1325-1349 11 63
1350-1374 9 17
1375-1399 33 90

X IV secolo 63 187

1400-1424 30 59
1425-1449 78 170
1450-1474 107 236
1475-1499 132 283
X V secolo 347 748

Fonte: dati tratti da Kieckhefer 1976.


I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 323

Prima di passare al periodo successivo, però, devo citare


molte scoperte quantitative basate su questi dati. La Tabella 3.2
ci m ostra il sesso degli im putati. Metà dei processi del XIV se-
colo videro im putate donne, il 32% im putati uomini, e il 18%
im putati di entram bi i sessi. La percentuale dei processi con
solo donne accusate salì fino a un 66% nel 1400. Queste per-
centuali sono coerenti con altri riscontri citati nella sezione sul-
la teoria sessista come spiegazione alla caccia alle «streghe».

Tabella 3.2 Sesso degli imputati, 1300-1499

1300-1399 1400-1499 Totale


D onne 50% 66% 63%
U o m in i 32% 24% 25%
M isto 18% 10% 12%
100% 100% 100%

Fonte: dati tratti da Kieckhefer 1976

Comunque, per quanto mi consta, prima d'ora nessuno ha


mai esaminato la correlazione fra sesso degli accusati e condan-
ne, mostrata in Tabella 3.3. Benché entrambi i sessi avessero la
stessa probabilità di essere assolti (o di avere un esito del prò-
cesso a noi sconosciuto), gli uomini avevano più probabilità del-
le donne di venir giustiziati o di avere sentenze severe; le donne
avevano ima maggiore probabilità di avere verdetti più miti.
Queste differenze sono assai significative dal punto di vista sta-
tistico. Sarebbe davvero importante capire se questa disparità di
sentenze in base al sesso si sia ripetuta anche nella seconda par-
te dell'epoca della stregoneria.
324 A GLORIA DI DIO

Tabella 3.3 Sesso degli imputati e sentenze, 1300-1499

Uomini Dotine

Morte 41% 33%


Assoluzione 10% 10%

Sentenza severa* 6% 1%
Sentenza m ite‫־״״‬ 3% 24%
Sentenza sconosciuta 35% 32%

100% 100%

Fonte: dati tratti da Kieckhefer 1976


Nota: Prob. < 0,002
*Prigionia, mutilazione, frustate ecc.
**Bando, penitenza, multa ecc.

1500-1750
C'è consenso unanime sul fatto che la proliferazione dei prò-
cessi per stregoneria cominciò all'inizio del 1500, raggiungendo
il suo culmine «fra gli anni '90 del 1500 e i '40 del 1600» (Briggs
1998, p. 402). H. C. Erik Midelfort analizzò il periodo di tempo
compreso fra il 1562 e il 1684 nel suo celebre libro sulla caccia al-
le «streghe» nella Germania sudoccidentale. Midelfort scoprì che
in quest'area relativamente piccola, fra il 1562 e il 1600 furono
giustiziate 1114 persone, molte di più di quante fossero state prò-
cessate in tutta Europa nei due secoli precedenti. Poi, in quella
stessa regione, nei sette decermi successivi, furono giustiziate al-
tre 1839 persone (Midelfort 1972). In un altro ottimo studio, E.
William Monter (1976) scoprì che a Ginevra, nella prim a metà
del XVI secolo, furono processate per stregoneria 18 persone e
nella seconda metà dello stesso secolo, 133. Durante la prima
metà del 1600, altri 153 ginevrini furono processati. Si trattava di
numeri davvero rilevanti, visto che la popolazione della città al-
l'epoca si aggirava intorno a un totale di 19.000 abitanti. Poi, tut-
to finì. Dopo il 1649 furono solamente 14 i ginevrini che dovette-
ro affrontare un processo per stregoneria, e solo uno di questi fu
giustiziato. A nord, a Neuchàtel, Monter scoprì che dal 1568 al
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 325

1599 le persone processate per stregoneria furono 77, fra il 1600


e il 1649, 200, e altre 52 fra il 1650 e il 1677. Gli stessi dati posso-
no essere trovati in molte altre realtà locali, per cui in generale si
ritiene che il periodo più intenso di caccia alle «streghe» si veri-
fico dagli anni '20 del 1500 agli anni '40 del 1600, oppure dall'i-
nizio del protestantesimo alla Pace di Vestfalia. Successivamen-
te, vi furono altri processi, e continuarono le esecuzioni, ma la
caccia alle «streghe» diminuì gradualmente.
I tentativi di spiegare la caccia alle «streghe» devono dunque
essere coerenti con questa cronologia: un basso livello d'attività,
dovuto alle persecuzioni a catari e valdesi, caratterizzò i due se-
coli fra 1300 e primi del 1500, poi vi fu la proliferazione di un li-
vello assai elevato di attività, fino agli anni '40 del 1600, seguito
da un rapido declino, e poi da un lento calo - e dopo il 1750 pra-
ticamente non vi furono più processi. Si tenga presente, comun-
que, che questa è la cronologia complessiva. È importante che ima
teoria della caccia alle «streghe» tenga conto anche dei bassi li-
velli, dei diversi tempi e dei diversi luoghi in cui si svolsero le at-
tività persecutorie.

Una teoria della caccia alle «streghe»

La mia spiegazione della caccia alle «streghe» è un amplia-


mento delle mie tesi generali a proposito del monoteismo e del
conflitto religioso, introdotte nel capitolo 1. Applicando la teoria
a questo specifico fenomeno storico, possiamo isolare tre grandi
fattori che spiegano quando e dove la caccia alle «streghe» ebbe
luogo.

La persistenza della magia


L'attività magica costituì la base fattuale della caccia alle «stre-
ghe». Quando la Chiesa, in risposta alle Crociate, divenne intolle-
rante nei confronti di atteggiamenti che non minacciavano diret-
tamente la religione (favorendo così gli attacchi contro gli ebrei e
la «riscoperta» dell'eresia), furono condannate anche la magia e la
326 A GLORIA DI DIO

stregoneria popolari. Tuttavia, per le ragioni che abbiamo delinea‫־‬


to in precedenza, il bisogno di magia rimase così acuto che le per-
sone continuarono a cercarla e a fornirla, indipendentemente dal-
la disapprovazione della Chiesa. All'inizio, le sanzioni imposte
sulla magia furono leggere. Tuttavia, una volta entrata in voga
l'interpretazione satanica della magia, questa divenne una pratica
molto più pericolosa. La stragrande maggioranza delle accuse che
portarono a procedimenti legali contro la stregoneria iniziarono
come lamentele in merito a ipotetici danni causati dalla magia. In
altre parole, raramente le persone avanzavano accuse di satani-
smo; piuttosto, accusavano gli altri di pratiche magiche che ave-
vano causato morte, malattie, tempeste e altre forme di sofferenza
locale. Le interpretazioni sataniche di queste lamentele furono
quasi imposte dai pubblici funzionari e dai giuristi. Così, se chi
praticava la magia veniva portato all'attenzione delle autorità, po-
tevano essergli imposte delle pene severe. E allora perchè la gente
continuava? Non solo per necessità, o perché gli altri facevano
pressioni a tal proposito, ma anche perché il più delle volte, nella
maggioranza dei luoghi, non c'era nessuno che andava dalle au-
torità a denunciare qualcuno per satanismo. Anzi, in molti luoghi
i sacerdoti stessi continuarono a praticare molto attivamente la
magia popolare (O'Neil 1981 e 1984; Kamen 1993). Si può affer-
mare con sicurezza che forse non più di ima persona su diverse
centinaia di praticanti di magia ebbe mai qualche problema a prò-
posito, e che le possibilità che tali lamentele venissero avanzate di-
pendeva principalmente dalla percezione dei maleficia. Anzi, mol-
ti dei condannati per stregoneria probabilmente sapevano ben po-
co di magia ed erano solamente degli sciocchi che sostenevano di
essere in grado di maledire il prossimo. Così, il primo elemento
della mia spiegazione ha a che vedere con una pratica continuativa
della magia e della stregoneria, combinata all'imputazione di satanismo
per coloro che venivano accusati di malefici.

Conflitti religiosi intensi e costanti


La probabilità che le attività magiche divenissero ufficiai-
mente un problem a fu dovuta soprattutto al fatto che questi
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 327

furono secoli torm entati da minacce e gravi conflitti religiosi


costanti e cruenti - di solito nella forma di guerre religiose fra
cristiani e m usulm ani, oppure fra cattolici e protestanti. Que-
ste guerre religiose sono state praticam ente ignorate dagli sto-
rici che si sono occupati di stregoneria, con il falso presuppo-
sto che la caccia alle «streghe» subisse un'interruzione quando
in una determ inata area c'erano dei veri e propri combatti-
m enti - una questione, questa, che affronterò in seguito. Data
questa negligenza, mi sembra opportuno delineare la durata,
l'intensità e l'estensione di questi conflitti, perché essi furono
davvero importanti!
Per prim a cosa tratterò dei conflitti con il mondo islamico.
Considerando l'impatto delle Crociate suU'intolleranza sia cri-
stiana sia musulmana, va riconosciuto che questo conflitto non
ebbe fine con le Crociate, né con la «Riconquista» della Spagna.
Piuttosto, la sfida dell'islam si intensificò quando eserciti e flotte
dell'Impero ottomano invasero a più riprese l'Occidente.
Il regno crociato di Gerusalemme durò solamente due seco-
li. Nel 1291, Acri, l'ultim a delle grandi città fortezze della Terra
Santa, cadde sotto il controllo delle forze islamiche, dopodiché
il contrattacco m usulm ano si spostò al di là dei precedenti con-
fini storici dell'islam. Nel 1390, tutta l'Asia Minore era sotto il
dominio musulm ano, tranne Costantinopoli e le sue immedia-
te vicinanze. Nel 1453, cadde Costantinopoli, e due anni dopo
le forze islamiche presero Atene. Poi, gli attacchi contro l'Euro-
pa seguirono due strade: la prim a fu quella delle campagne
contro le isole del M editerraneo e le enclave europee della co-
sta settentrionale dell'Africa, così come contro la m arina euro-
pea; la seconda, quella dei tentativi continui di invadere l'Eu-
ropa da sudest, attraverso i Balcani, l'Ungheria e l'Austria.
Nel 1499 la flotta veneziana fu affondata a Lepanto (un'isola
al largo della Grecia), che poi passò sotto il dominio ottomano.
L'Occidente contrattaccò nel 1535, quando Carlo V di Spagna,
Sacro Romano Imperatore, invase Tunisi, liberando migliaia di
schiavi cristiani. Nel 1551, le truppe musulmane tentarono di in-
vadere Malta, ma fallirono dopo un lungo assedio; nel 1565 falli­
32 8 A GLORIA DI DIO

rono nuovamente. Nel 1571, una flotta ottomana fu distrutta da


don Giovanni d'Austria al largo delle coste di Lepanto, che tornò
a essere un'isola cristiana. Tre anni dopo, gli spagnoli persero Tu-
nisi, che tornò in mano alle forze musulmane. Nel 1669, le forze
musulmane conquistarono Creta. È chiaro come cristiani e mu-
sulmani fossero in continua lotta in tutta la zona del Mediterra-
neo per l'intera epoca della stregoneria.
Tuttavia, il Mediterraneo fu il teatro secondario degli attacchi
musulmani contro l'Europa orientale, che per tre volte giunsero
fino alle porte di Vienna. Questi scontri ripetuti sono stati in gran
parte ignorati nelle storie generali dell'Europa u, ma causarono
molta sofferenza e paura, e sono di cruciale importanza nella
spiegazione della caccia alle «streghe». Nel 1462, sette anni dopo
aver conquistato Atene, le forze musulmane invasero la Bosnia.
Nel 1492 toccò aH'Ungheria, il che diede il via a più di due seco-
li di guerre contro il Sacro Romano Impero. Più volte i musul-
mani conquistarono l'Ungheria, e più volte ne furono cacciati.
Nel 1526, presero la città di Buda e posero sotto assedio Vienna -
che si trovava a meno di cinquecento chilometri da Berlino e
molto più vicina a quelle aree della Svizzera e della valle del Re-
no dove si verificarono le più intense persecuzioni di «streghe».
Vienna non cadde, ma tre anni dopo i musulmani tornarono e as-
sediarono nuovamente la città. Furono sconfitti un'altra volta,
ma fallirono i tentativi di cacciarli via dall'Ungheria, nonostante
le molte campagne condotte dalle forze del Sacro Romano Impe-
ro. Nel 1663, fu respinto un grande attacco contro l'Impero, con
enormi perdite da entrambe le parti, e l'anno successivo le forze
austriache sconfissero nuovamente gli invasori ottomani. Ma nel
1683 un esercito turco circondò di nuovo Vienna, e fu di nuovo
respinto. Solamente nel 1716 i turchi ottomani furono definitiva-
mente cacciati dall'Ungheria e così ebbe termine una guerra du-
rata secoli. Questi sono solo gli eventi salienti di un conflitto che
produsse un livello cronico di lotte e atrocità, punteggiato da
grandi battaglie, in concomitanza con l'epoca della stregoneria.
Ciò nonostante, la guerra contro i turchi per la caccia alle
«streghe» ebbe un'im portanza molto inferiore delle ripetute ed
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 329

estremamente violente guerre di religione volte a sradicare le


eresie. Le guerre hussite durarono lungo tutto il XV secolo, e i
tentativi di sradicare le enclave valdesi con le armi continuarono
- nel 1487 i valdesi furono attaccati a Dauphiné, e i sopraw issu-
ti fuggirono in Piemonte. Poi, in rapida successione, Martin Lu-
tero affisse le sue Novantacinque Tesi alla porta della chiesa del
castello di Wittenberg (1517), Ulrich Zwingli predicava a Zurigo
contro gli abusi della Chiesa, e nel 1520, lo stesso anno in cui Lu-
tero fu scomunicato, nacque il movimento anabattista di Thomas
Miinzer. Quattro anni dopo, Miinzer guidò la Rivolta dei Conta-
dini nella Germania meridionale, lo stesso anno in cui Zwingli
aboliva la Messa cattolica a Zurigo. Nel 1525 fu soffocata la Ri-
volta dei Contadini, Miinzer fu giustiziato e gli anabattisti so-
pravvissuti si stabilirono in Moravia. Nel 1528, quando le forze
ottomane stavano per attaccare la città, i funzionari di Vienna de-
cisero di mandare al rogo un leader anabattista. Due anni dopo,
i principi protestanti di Germania formarono una lega per op-
porsi alle minacce cattoliche.
In Inghilterra, Enrico Vili assunse il titolo di capo supremo
della Chiesa d'Inghilterra nel 1534, cosa che gli costò la scomu-
nica, due anni dopo. I suoi attacchi contro le proprietà della
Chiesa portarono a una ribellione cattolica nota come il «Pelle-
grinaggio di Grazia», sedata dopo un anno, con delle conse-
guenze davvero sanguinose.
Nel frattempo, nel 1531 era scoppiata la guerra civile fra prote-
stanti di Zurigo e cantoni cattolici della Svizzera. In Germania, la
guerra civile scoppiò nel 1546 e vide coinvolte la Schmalkaldischer
Bund protestante e le forze cattoliche guidate da Carlo V. Seguì la
breve Pace di Augusta. Poi, nel 1562 in Francia scoppiò la prima
guerra di religione per sopprimere gli ugonotti protestanti. Nei
vent'anni successivi vi furono altre sette guerre di questo tipo, in-
tervallate da sanguinari attacchi contro gli ugonotti, fra i quali il
Massacro del giorno di San Bartolomeo, durante il quale delle azio-
ni di massa ben organizzate causarono almeno cinquemila morti
fra i protestanti. Nel frattempo, il sostegno alla Riforma portò alla
guerra civile in Scozia, che finì con la vittoria calvinista del 1560.
330 A GLORIA DI DIO

Altrove, le guerre religiose interessarono i Paesi Bassi quando


l'esercito spagnolo conquistò diverse roccaforti protestanti. Al di
là della Manica, «Maria la sanguinaria» aveva mandato al rogo
per eresia diverse centinaia di protestanti. In seguito alla sua
morte si assistette alla caccia ai sacerdoti cattolici, che costò mol-
te più vittime, e nel 1587, Maria di Scozia fu giustiziata per il suo
coinvolgimento in «complotti papisti». Poi, nel 1588, l'Armada
spagnola salpò per l'Inghilterra per riportarvi il cattolicesimo.
Nonostante il fallimento, nel 1597 venne fatto un ulteriore tenta-
tivo (reso vano dalle burrasche) a seguito di un effettivo sbarco
di truppe spagnole in Comovaglia, nel 1595. Nel 1597, le truppe
cattoliche forzarono la ri-cattolicizzazione dell'Austria setten-
trionale. L'anno dopo, Carlo XI iniziò le persecuzioni dei cattoli-
ci in Svezia. Nel 1601 le truppe spagnole sbarcarono in Irlanda e
furono costrette ad arrendersi a Kinsala, nel 1602. Lo stesso an-
no, Rodolfo II, Sacro Romano Imperatore regnante, iniziò la per-
secuzione dei protestanti.
Nel 1618, in Boemia, funzionari cattolici fecero chiudere tutte
le cappelle protestanti. In risposta, i protestanti, infuriati, getta-
rono due governatori imperiali dalla finestra del castello di
Hradcany - gesto noto da quel momento in poi con il termine di
«defenestrazione di Praga» - dando il via alla Guerra dei
Trent'anni, che finì col coinvolgere tutte le potenze europee. Pre-
sto scoppiarono azioni collaterali in molti altri luoghi. I cattolici
massacrarono i protestanti in Valtellina, nel 1620. Gli ugonotti si
ribellarono in Francia nel 1621, e non vi fu nessun accordo fino al
1629. Nel 1640 scoppiò la Rivoluzione puritana in Inghilterra,
che durò 20 anni. Nel 1641 furono massacrati i protestanti del-
l'Ulster, evento che ha avvelenato i rapporti nell'Irlanda setten-
trionale fino a oggi.
Poi, nel 1648, dopo tre decenni di intensi scontri e atrocità, so-
prattutto in Germania e nei Paesi Bassi, fu siglata la Pace di Ve-
stfalia. Ovviamente, non si instaurò subito una vera e durevole
pace religiosa. Il protestantesimo rimase illegale in Italia e in tut-
te le regioni sotto il dominio spagnolo. In Inghilterra continuò la
grave discriminazione dei cattolici. Nel 1685, Luigi XIV espulse
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 331

gli ugonotti dalla Francia, costringendo moltissimi protestanti


francesi a fuggire in Germania, Inghilterra e America. In quest'e-
poca, la Francia espulse tutte le famiglie ebree da Bordeaux. Tut-
tavia, le Guerre di Religione erano finite, ma il protestantesimo
era sopravvissuto.
Per decenni, l'interesse degli studiosi della caccia alle «stre-
ghe» per la «Riforma protestante» fu pesantemente condizio-
nato dai tentativi partigiani di storici protestanti di dimostrare
che la caccia alle «streghe» fosse un fenomeno prevalente nelle
aree cattoliche, e da quelli di storici cattolici di dimostrare il
contrario. Questa disputa, portata avanti da studiosi con una
scarsa consapevolezza della necessità di confrontare dei tassi e
non dei semplici numeri, pare aver distolto l'attenzione dal ve-
ro significato della nascita del protestantesimo - vale a dire che
provocando guerre di religione, massacri e persecuzioni, la
«Riforma protestante» è stata una delle cause principali della
caccia alle «streghe».
Tuttavia, la rilevanza causale della «Riforma protestante»
continua a essere ignorata o ridotta al minimo, anche dagli stori-
ci più autorevoli che si sono occupati di caccia alle «streghe». La
«Riforma» non compare neppure negli indici dei famosi studi di
Jeffrey Burton Russell o William E. Monter (Russell 1972; Monter
1976). In un volume di studi su casi nazionali di caccia alle «stre-
ghe», a cura di Gustav Henningsen e Bengt Ankarloo, nel quale
sono contenuti sedici saggi di collaboratori illustri, la parola
«Riforma» appare solo in quattro saggi, e in modo del tutto inci-
dentale. Nel suo libro, molto celebrato, H. C. Erik Midelfort
(1972) si è accontentato di riaccendere il dibattito su quale parte,
cattolica o protestante abbia condannato al rogo più «streghe».
Robin Briggs, un altro storico illustre, ha limitato la sua discus-
sione sulla «Riforma» a una ricostruzione di come il dissenso
dottrinale non si sia esteso fino a respingere le concezioni catto-
liche sulla stregoneria (Briggs 1989 e 1998). Infine, anche dopo
aver notato la stretta correlazione tra lo scoppio di un'intensa
caccia alle «streghe» e la crescita del protestantesimo, in quella
che molti giudicano come una delle analisi più complete sulla
332 A GLORIA DI DIO

caccia alle «streghe», Brian Levack ha fatto un passo indietro av-


vertendo che, ovviamente, «la caccia alle streghe europea iniziò
in realtà quasi 100 anni prim a che Lutero affiggesse le sue No-
vantacinque Tesi presso la chiesa del castello di Wittenberg» (Le-
vack 1995, p. 102).
In realtà, la caccia alle «streghe» europea iniziò più di 200 an-
ni prima della nascita di Lutero, ma lo stesso vale per la «Rifor-
ma»! Come dimostrato nel capitolo 1, l'idea che la catena di
eventi che portarono direttamente alla «Riforma protestante» eb-
be inizio nel XII secolo (se non prima) non è controversa. Quin-
di, se correttamente definito, l'inizio della «Riforma protestante»
ha preceduto l'era della caccia alle «streghe», ed entrambi i feno-
meni hanno raggiunto il loro apice proprio nello stesso momen-
to. Empiricamente e teoricamente, la «Riforma protestante» e la
caccia alle «streghe» sono inseparabili. Infatti, come si vedrà,
quando i protestanti portarono la loro «Riforma» in nuove regio-
ni e nazioni, spesso portarono con sé anche la caccia alle «stre-
ghe», o intensificarono il suo precedente livello, in piena coeren-
za con l'osservazione di M artin Lutero, «accenderei io stesso i lo-
ro roghi» (in Delumeau 1977, p. 171). Allo stesso modo, quando
i cattolici riconquistavano un territorio «protestante», continua-
vano a incitare alla caccia e alla persecuzione delle «streghe» an-
che in quei luoghi in cui non ve n'erano mai state in precedenza
- come per esempio nelle Fiandre (Trevor-Roper [1969] 2001). E
questo perché, in tutte queste brutali lotte religiose, «Satana sta-
va sempre dall'altra parte» (Katz 1994, p. 420).
Tuttavia, i conflitti religiosi legati alla «Riforma protestante»,
così come gli attacchi ottomani, erano solo ima condizione neces-
saria e non sufficiente per la caccia alle «streghe». Entrò in gioco
anche un terzo fattore: un efficace governo centrale.

Capacità di risposta governativa


La caccia alle «streghe» si sarebbe potuta scatenare nella mag-
gior parte delle comunità europee. Senza dubbio, la pratica ma-
gica era diffusa ovunque. Tutti sapevano del satanismo. Erano
pochissime le comunità non esposte ai conflitti religiosi. Eppure,
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 333

gran parte delle comunità non soccombette alla caccia alle «stre-
ghe» perché non fu permesso loro di farlo.
Come verrà documentato nel caso studiato più avanti, in mol-
ti luoghi la caccia alle «streghe» fu evitata perché un forte gover-
no centrale o un'élite ecclesiastica soffocarono gli entusiasmi lo-
cali. In altre parole, la caccia alle «streghe» si è verificata in luo-
ghi che Richard S. Dunn ha definito come «vuoti politici» (Dunn
1979, p. 295). La maggior parte delle «streghe» fu giudicata da
funzionari locali che non dovevano rispondere ad autorità di li-
vello superiore. Laddove esisteva un potere centrale forte, go-
vemativo o ecclesiastico, come in Francia, Spagna e Inghilterra,
la caccia alle «streghe» fu severamente controllata. Ad esempio,
fatta eccezione per la Linguadoca e le aree non assimilate cultu-
ralmente e indipendenti di Alsazia, Lorena e Franca Contea, tut-
ti i casi francesi che implicavano delle accuse di stregoneria era-
no oggetto di valutazione da parte di Parigi, che ribaltava la
maggior parte dei verdetti di condanna. In Spagna, i vari tribù-
nali dell'Inquisizione divennero così contrari ai processi per stre-
goneria che non solo intervennero ripetutamente per salvare
l'im putato quando le comunità locali istituivano i loro processi,
ma punirono spesso, e a volte duramente, i tribunali locali per
aver celebrato quei processi (Kamen 1993 e 1997).
Analogamente, la risposta governativa non era sempre effica-
ce allo stesso modo. Dipendeva da come nei vari luoghi gli ebrei
venivano perseguitati e dalla capacità dei movimenti ereticali di
prendere piede. Fu praticamente solo nelle città lungo il Reno,
nel sud-ovest della Germania, in Svizzera, Alsazia e Lorena che
tra il 1096 e il 1614 ebbero luogo gli attacchi mortali contro gli
ebrei - senza che le autorità politiche e religiose, nonostante tut-
ti i loro sforzi, potessero impedirli, ma che altrove invece furono
evitati (Stark 2009). E furono queste stesse aree a dimostrarsi mol-
to ospitali nei confronti delle eresie, perché Chiesa e stato erano
troppo deboli per impedirlo. Nella Germania del XII secolo, fu
solamente in Renania, a Colonia e Magonza in particolare, che i
catari ebbero successo, e fu principalmente in Renania che i vai-
desi trovarono sostegno nel XIII secolo, soprattutto a Magonza,
334 A GLORIA DI DIO

Strasburgo, Spira, Worms, e W urzburg (Kieckhefer 1979). Nel


corso dei secoli XIII e XIV in queste stesse città renane fiorì l'ere-
sia del Libero Spirito - intorno al 1320 a Colonia erano circa due-
mila le appartenenti al movimento delle Beghine, gruppo fem-
minile del Libero Spirito (Cohn 1961; Johnson 1976; Kieckhefer
1976). Nel XV secolo gli hussiti trovarono dei tedeschi interessa-
ti al loro movimento, e città come Norimberga, Magonza,
Worms, Spira, e Regensberg divennero luoghi di conflitto
(Kieckhefer 1976). E, naturalmente, fu a Spira che il termine
«protestante» venne attribuito per la prim a volta ai seguaci di
Martin Lutero, e a Worms che Lutero disse alla Dieta: «Eccomi
qui». Poi, nel secolo successivo, nella Germania prevalentemen-
te luterana il calvinismo si radicò solo in Renania (Holbom
1982). E tutta questa attività eretica rivela chiaramente la stessa
mancanza di controllo politico ed ecclesiastico che lasciò libere di
agire le folle antisemite.
La caccia alle «streghe» si verificò negli stessi paesi che sono sta-
ti appena citati. Gli storici concordano sul fatto che lungo entram-
be le rive del Reno e nei luoghi che già erano o che divennero la
Svizzera si diffuse nella popolazione la più intensa «ossessione per
le streghe» (Briggs 1989 e 1998; Levack 1995; Midelfort 1972; Mon-
ter 1976). E questo non perché la gente in questi luoghi fosse parti-
colarmente superstiziosa. Essa non era più incline alla violenza
contro gli ebrei perché più antisemita rispetto agli altri europei, né
abbracciò l'eresia per un bisogno particolare d'intensa religiosità.
Niente di tutto questo! Tutto ciò accadde in questi luoghi, e non al-
trove, perché solamente qui non fu impedito che accadesse! Come
ha affermato Brian Levack, «la caccia alle streghe fu incoraggiata
dall'indipendenza giuridica de facto» (Levack 1995, p. 196).
Le diverse conseguenze delle differenti capacità di controllo
dei governi centrali possono essere osservate nella Tabella 3.4, la
quale ci serve anche come introduzione all'esame di nazioni e re-
gioni specifiche. Questi dati sono limitati al periodo 1300-1499, ma
sono già evidenti le grandi differenze nazionali. La Svizzera -
frammentata in zone rivendicate dalla Francia, zone tedesche e al­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 335

tre parti che lottavano per formare una Confederazione svizzera


(lotta che ben presto sfociò in ima guerra civile tra zone cattoliche
e protestanti) - svetta su tutta l'Europa in termini di persecuzione
della stregoneria. Più di un quarto di tutti i processi ha avuto luo-
go in questa piccola regione di soli 650.000 abitanti. Per eliminare
le differenze dovute solo alle dimensioni della popolazione, ho
calcolato il numero di imputati per milione di abitanti. Π tasso del-
la Svizzera (376,9) era 6,5 volte superiore a quello della «Germa-
nia«, 57,6; all'interno della Svizzera, Basilea ebbe un tasso più che
doppio rispetto a quello di Zurigo. (Ho virgolettato «Germania»
sia nella frase precedente sia nella tabella, per ricordare ai lettori
che all'epoca la Germania era un blocco culturale, non politico.
Eviterò le virgolette nel resto del capitolo.)

Tabella 3.4 Geografia dei procedimenti legali, 1300-1499

Num ero di Popolazione in Im p u ta li per


Num ero di processi
im putati milioni di abitanti* milione di abitanti

S vizzera 122 245 0.650 376,9

Basilea 4 11 0,009 1222,2

Zurigo 6 6 0,011 545,5

«G erm ania» 101 311 5,400 57,6

Regione dei Reno 62 182

Norimberga 16 22 0,023 956,5

Francoforte 5 5 0,020 250,0

Strasburgo 3 4 0,024 166,7

Colonia 5 6 0,045 133,3

P aesi Bassi 18 23 1,100 20,9

Francia 115 232 15,000 15,5

Inghilterra 24 37 2,500 14,8

Italia 28 85 5,800 14,4

S p ag n a 2 2 7,200 0,3

T otale 410 935 37,650 24,8

*Fonti: Chandler e Fox 1974; Russell 1958.


336 A GLORIA DI DIO

Benché la Germania fosse al secondo posto in termini di im-


putati per milione di abitanti, il suo tasso complessivo è in un cer-
to senso privo di significato, dal momento che i processi per stre-
goneria si concentrarono in gran parte nell'area del Reno: quasi
due terzi di tutti i processi tenutisi in Germania, per un 58% di
imputati. Non sono disponibili dati per questa regione nel suo
complesso, ma si possono calcolare i tassi riferiti a quattro città
della zona. Vediamo così che si passa dai 956,5 imputati per mi-
lione di abitanti di Norimberga ai 133 per milione di Colonia. Tut-
tavia, con l'eccezione di Norimberga, queste percentuali erano
ben al di sotto di quelle di Basilea e Zurigo. Diversamente, Fran-
eia e Inghilterra, che avevano dei forti governi centrali, presenta-
no delle percentuali basse. Anche in Italia, dove l'Inquisizione era
potente, i tassi sono bassi. E in Spagna, anch'essa con un'Inquisi-
zione che manteneva un notevole controllo, in due secoli sono so-
lamente due i processi a noi noti (con due imputati). Come ve-
dremo, queste tendenze si mantennero anche nel 1500 e nel 1600.
In sintesi: furono tre i fattori che portarono alla caccia alle
«streghe». Uno di questi fu in parte una costante, dal momento
che la magia continuò a essere praticata ovunque, nel periodo in
questione. Ciò che variò fu la reazione alla magia. Vi furono no-
tevoli differenze nei tentativi di sopprimerla e, cosa più impor-
tante, nella volontà di imputare il satanismo alle pratiche magi-
che. Posto che il cattolicesimo era la fede «universale», resta il fat-
to che in alcuni luoghi la Chiesa mostrò grande riluttanza a par-
lame. In generale, dubbi in merito al satanismo e riserve molto se-
rie a riguardo alla credibilità delle prove estorte con la tortura era-
no molto più comuni fra le élite politiche ed ecclesiastiche che fra
la gente comune. Ciò fu particolarmente importante laddove un
governo centrale forte consentiva a queste élite di imporre i prò-
pri standard. Di conseguenza, un governo debole è il secondo fat-
tore che contribuisce a spiegare il fenomeno della caccia alle «stre-
ghe». Il terzo fattore in causa fu, ovviamente, il conflitto religioso.
Tuttavia, ognuno di questi fattori fu solamente una causa ne-
cessaria, e solo la combinazione dei tre rappresentò una causa
sufficiente.
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 337

La pratica della magia non produsse sempre la caccia alle


«streghe», nemmeno laddove il concetto di satanismo era diffu-
so - e questo perchè non si trattava di una causa sufficiente. Ma
era una causa necessaria - i veri processi alle «streghe» (diversa-
mente da quelli che vedevano implicate solamente magia e su-
perstizione) non vi furono laddove mancava questo fattore.
Allo stesso modo, il conflitto religioso fu solamente una cau-
sa necessaria, e non sufficiente, della caccia alle «streghe». Ciò si-
gràfica che le persecuzioni contro le «streghe» non vi sarebbero
state (e di fatto non vi furono) in secoli «tranquilli», quando la
mancanza di ima minaccia istituzionale credibile permetteva al-
la Chiesa di ignorare Tanticonformismo religioso. E questo im-
plica anche che maggiore è la minaccia istituzionale percepita,
meno saranno tolleranti i contendenti più forti, il che contribui-
sce a spiegare il motivo per cui anche i protestanti si dedicarono
alla persecuzione delle «streghe». Non significa che le «streghe»
fossero individuate principalmente fra le fila rivali, cioè che i cat-
tolici mandassero al rogo «streghe» protestanti, e viceversa. Cer-
to, c'era la tendenza ad attribuire simpatie cattoliche o prote-
stanti a coloro che venivano accusati di stregoneria, ma ciò era
incidentale. Le persone andavano incontro a guai per la pratica
della magia in un'epoca in cui era fuori legge qualsiasi trasgres-
sione delle regole della religione ufficiale - vale a dire, la caccia
alle «streghe» fu un fenomeno collaterale a conflitti più vasti.
Tuttavia, essendo stato solamente un fattore necessario, non vo-
glio sostenere che il conflitto religioso abbia avuto sempre come ri-
sultato la caccia alle «streghe». Né sostengo che l'intensità della
caccia alle «streghe» sia stata proporzionale a quella del conflitto
religioso locale. Da una parte, quando in un'area era in corso un
vero e proprio combattimento, solitamente la caccia alle «streghe»
veniva sospesa, per essere ripresa solamente in tempi più pacifici
(Briggs 1998; Levack 1995; Midelfort 1972; Monter 1976). Non c'e-
ra nulla di straordinario nella sospensione delle persecuzioni da-
vanti a degli invasori che marciano all'orizzonte; anzi, è certo che
in simili circostanze c'era un calo dei procedimenti legali contro
qualsiasi tipo di crimine. In effetti, erano molte le cose che risulta­
338 A GLORIA DI DIO

vano rallentate o bloccate durante questi interludi burrascosi, dal-


le celebrazioni delle festività locali a molti tipi di transazioni com-
merciali. Per esempio, nel XX secolo, le percentuali di suicidio in
America scesero quasi precipitosamente durante ogni guerra,
compreso il breve impegno nel Golfo Persico (Stark 1998).
Essenzialmente, fu la mancanza di tolleranza caratteristica
del conflitto religioso ad avere un impatto decisivo sulla caccia
alle «streghe». I livelli di conflitto religioso non ebbero però
un'im portanza duratura tranne nel senso che alimentarono l'intol-
leranza. Tuttavia, anche quando i livelli di intolleranza locale fu-
rono elevati, la caccia alle «streghe» potè essere evitata con un
controllo governativo forte. Certo, non si può nemmeno dire che
la caccia alle «streghe» si verificò ovunque il governo fosse de-
bole, poiché anche questa condizione fu solamente una causa ne-
cessarla (ma non sufficiente). Di conseguenza, la mia spiegazio-
ne della caccia alle «streghe» richiede la presenza di tutti e tre i
fattori esposti.
La frequenza e l'intensità della caccia alle «streghe» furono ai
massimi livelli laddove: 1. vi furono sforzi seri di sopprimere la
magia e la stregoneria, assieme all'alta probabilità che a queste
attività venisse collegata l'idea del satanismo-, 2. esisteva un conflitto
acceso fra gruppi religiosi che rappresentavano delle minacce
concrete al potere istituzionale; 3. un governo centrale ecclesiasti-
co e /o politico debole impedì alle «élite nazionali» di stroncare gli
entusiasmi locali.

Applicazione della teoria

Esaminerò ora i casi principali al fine di determinare se


ognuno di essi è coerente con questa spiegazione. Dal momento
che così tanti storici hanno mostrato sorpresa per la relativa as-
senza di caccia alle «streghe» nell'Europa meridionale, mi sem-
bra questo il punto migliore da cui partire. Infatti, se riuscirò a
spiegare in maniera convincente perché in queste zone non vi
furono grandi episodi di persecuzione delle «streghe» 12, sarò a
buon punto nella dim ostrazione del valore della mia teoria. Per
i NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 339

questo motivo, dedicherò più spazio alla Spagna che alle altre
regioni. Successivamente, dimostrerò brevemente come il caso
delTItalia sia simile a quello spagnolo. Poi, dopo aver esamina-
to in generale la Francia, mi sposterò nel focolaio della caccia al-
le «streghe», costituito dall'area lungo il fiume Reno, o nelle sue
vicinanze, cioè la Francia settentrionale, la Germania meridio-
naie e la Svizzera - quella regione spesso chiamata «Terre di
confine» (Monter 1976). Continuando verso nord, tratterò in
breve i bassi livelli della caccia alle «streghe» del resto della Ger-
mania e poi analizzerò gli eventi in Scandinavia dove, in alcune
zone, il fenomeno fu piuttosto intenso. Concluderò con un'ana-
lisi di Inghilterra e Scozia.

Spagna
In Spagna vi furono relativamente pochi processi per stregone-
ria. Ancora più impressionante è il fatto che difficilmente quelli ce-
lebrati ebbero come risultato la pena capitale. Tranne per molti ca-
si insoliti in cui dei tribunali locali, secolari, avviarono la caccia al-
le «streghe» senza essere autorizzati dall'Inquisizione, pochi degli
accusati furono processati, e quasi tutti i condannati ottennero del-
le pene miti (Contreras, Hennigsen 1986; Given 1997; Haliczer
1990; Hennigsen 1980; Kamen 1993 e 1997; Levack 1995; Monter
1976). Perfino Henry C. Lea, fortemente anticattolico, concorda sul
fatto che la caccia alle «streghe» fu «resa relativamente inoffensi-
va» in Spagna, grazie «alla saggezza e alla fermezza dell'Inquisi-
zione» (Lea 1906-1907, voi. 4, p. 206).
In Europa non esisteva un'unica Inquisizione, ma delle In-
quisizioni piuttosto indipendenti con competenza su imo speci-
fico territorio. In Spagna ne operavano principalmente due, una
con giurisdizione per l'Aragona, l'altra per la Castiglia. Anche il
Portogallo aveva la sua Inquisizione, della quale parleremo in
breve al termine di questa sezione.
In Spagna, come in molte altre aree, l'Inquisizione aveva
giurisdizione su tutti i reati che implicavano eresia, blasfemia,
superstizione e stregoneria, reati sessuali (a volte classificati
come «adescamenti», altre volte come «sodomia», anche se
questa categoria era definita in term ini molto ampi), e «oppo­
340 A GLORIA DI DIO

sizione» (l'interferenza con le attività dell'Inquisizione). La Ta-


bella 3.5 è basata su 44.701 individui processati davanti all'In-
quisizione di Aragona e Castiglia, dal 1540 al 1700, e presenta
diverse sorprese.

Tabella 3.5 L'Inquisizione «spagnola»: accuse ed esecuzioni, 1540-1700

Aragona Castiglia Totale Percentuale

Marranos 4397
942 3455 9,8
(cripto-ebrei)
Moriscos
(cripto■ 7472 3345 10.817 24,2
m ussulm ani)
Luteranos
2284 1219 3503 7,8
(protestanti)

Alumbrados
61 32 143 0,3
(Illuminati) '
Varie altre eresìe 2247 771 3018 6,8
Totale eretici 13.006 8872 21.878 49,0

Proposte indecenti
5Θ8Θ 6229 12.117 27,1
e blasfemia

Bigami 1591 1054 2645 5,9


Adescamento 695 463 1131 2,5

O pposizione
(atti contro 2139 1232 3371 7,6
l'Inquisizione)

Superstizione
2571 961 3532 7,9
e stregoneria
Totale 25.890 18.811 44.701 100,00
Totale giustiziati 826 1,8

Fonte: adattamento da Contreras, Hervningsen 1986.

Sono stati scritti molti libri sulla persecuzione spagnola con-


tro i marranos, ebrei accusati di eresia per aver continuato la pra-
tica dell'ebraismo dopo essersi formalmente convertiti al cristia-
nesimo (Gitlitz 1996; Netanyahu 1999), ma praticamente nessu-
na attenzione è stata data ai moriscos, i musulmani accusati di fin-
ta conversione e quindi di eresia. Nonostante questo, furono prò-
cessati molti più moriscos che marranos. Anzi, i processati per
protestantesimo o per altre eresie furono pressoché tanti quanti
quelli accusati di essere segretamente ebrei. Complessivamente,
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 341

una metà dei processi di queste Inquisizioni furono intentati agli


eretici.
Diversamente, anche m ettendo assieme la stregoneria con il
reato m olto più comune di praticare la superstizione (magia), i
processi superano appena quelli per protestantesimo. Anzi,
queste statistiche spinsero William M onter a intitolare un capi-
tolo del suo libro sull'Inquisizione in Aragona, «Witchcraft:
The Forgotten Offense», «Stregoneria: il reato dimenticato»
(Monter 1990).
Eppure, forse la sorpresa più grande è il fatto che di queste
44.701 persone portate in tribunale, solamente 826 (o l'l,8%) fu-
rono giustiziate. Analizzando questa fonte vediamo come non
sia disponibile nessun dato che leghi esecuzione ad accuse, ma la
Tabella 3.6 ci fa capire quanto fosse basso il rischio di essere giù-
stiziati quando si veniva processati per superstizione o stregone-
ria da parte dell'Inquisizione di Aragona fra 1540 e il 1640. In tut-
to il secolo, solamente 12 persone furono giustiziate per strego-
neria, su forse diecimila accusati e molte migliaia di processati.
In Spagna era meno pericoloso essere scoperti come ebrei (16
esecuzioni) che come musulmani (181 esecuzioni) - quest'ultimo
reato prevedeva sentenze molto più crudeli a causa delle moltis-
sime ribellioni di moriscos sfociate nel sangue.

Tabella 3.6 Numero di esecuzioni per i condannati


dall'Inquisizione di Aragona, 1540-1640

Marranos 16

Moriscos 1S1

P ro te s ta n ti 122

Sodom iti* 167

S u p e rstiz io n e o s tregoneria 12
O stilità 31

T o tale 535

*Definiti in termini molto ampi, comprendevano la maggior parte dei rea-


ti sessuali, bestialità e incesto più spesso che omosessualità.
Fonte: adattamento da Monter 1990.
342 A GLORIA DI DIO

La ragione principale per la quale gli inquisitori spagnoli


ignorarono un numero così rilevante di accuse di stregoneria, e
per cui furono così indulgenti anche nelle condanne, era (in
conformità con il primo elemento della mia teoria) una scarsa
propensione nel definire «sataniche» la stregoneria e la magia. E
questo, a sua volta, era il risultato della preferenza degli inquisì-
tori spagnoli per una base d'interpretazione empirica, più che
teorica, delle azioni effettive della gente.
La magia e la stregoneria erano diffuse ovunque in Spagna,
forse addirittura più che altrove, con l'eccezione della Scandina-
via, e le Inquisizioni spagnole si preoccupavano di sopprimere
queste «superstizioni» tanto quanto i capi della Chiesa di altri luo-
ghi (Kamen 1993 e 1997). Tuttavia, quando processavano le perso-
ne colpevoli di aver praticato la magia tradizionale, in Spagna, co-
me in Italia, gli inquisitori ascoltavano con attenzione ciò che gli
imputati dicevano su quello che avevano fatto e sulle loro inten-
zioni. Di conseguenza, scoprivano che la maggior parte degli ac-
cusati credevano di fare un uso legittimo della «magia» della
Chiesa. In altre parole, le pratiche e le procedure vietate erano
molto simili a quelle autorizzate dal clero, come le procedure per
rimuovere una macchia da un occhio o per il trattamento di cram-
pi mestruali, che abbiamo discusso in precedenza. Nel tentativo di
ottenere un qualche effetto magico, le persone facevano cose come
recitare frammenti di liturgia, far appello ai santi, spruzzare acqua
santa presa dalla chiesa locale, sbriciolare un'ostia di Comunione
sulla parte dolorante, e farsi ripetutamente il segno della Croce. Di
conseguenza, gli imputati sembravano sinceramente sorpresi di
apprendere che in realtà avevano fatto qualcosa di male, e spesso
sottolineavano di non aver avuto la minima idea di peccare, altri-
menti non l'avrebbero fatto. Per di più, negavano con veemenza di
aver invocato i demoni o il Diavolo; avevano sempre dato per
scontato di invocare il potere di Dio (O'Neil 1987). In effetti, l'uni-
ca ragione per la quale tali pratiche non si qualificavano come
«magia» della Chiesa era che i praticanti violavano il monopolio
di quest'ultima sull'accesso al divino: non essendo ordinati, non
erano autorizzati a svolgere tali attività.
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 343

Gli inquisitori spagnoli concordavano con i loro colleghi di


altri paesi che la magia popolare, e quindi quella non gestita
dalla Chiesa, funzionava solamente grazie a un intervento dia-
bolico - non avrebbe potuto essere l'opera di Dio visto che chi la
praticava non faceva parte del clero. Tuttavia le Inquisizioni
spagnole (e italiane) tracciarono una distinzione molto signifi-
cativa «tra l'invocazione implicita ed esplicita dei demoni» (θ '-
Neil 1987, p. 90). In altre parole, presumevano che la maggior
parte degli accusati di magia fosse costituita da cattolici sinceri
che davvero non sapevano scientemente di invocare i demoni -
e dunque le loro implorazioni erano solamente implicite. Ben-
ché fosse sbagliato che la gente praticasse la magia, chi veniva
individuato colpevole meritava solo le condanne più miti, spes-
so nulla di più di una confessione con successiva assoluzione.
Come spiega Mary O'Neil, il concetto di invocazione implicita,
quindi, «consentì all'Inquisizione di affrontare le pratiche magi-
che tradizionali come un problema serio ma gestibile, per il qua-
le era più appropriato un approccio sobrio e relativamente in-
dulgente» (O'Neil 1987, p. 90).
Le Inquisizioni in Aragona e Castiglia convalidarono l'accusa
di stregoneria e imposero condanne severe solo quando si trova-
rono di fronte a prove certe di esplicite invocazioni sataniche - co-
me per esempio quando le persone erano state già accusate altre
volte o sfidavano la corte e si rifiutavano di mostrare pentimento.
Questi casi erano molto rari, e gli inquisitori raramente erano di-
sposti a condannare qualcuno per satanismo senza avere delle
prove convincenti. Di grandissima importanza, poi, è il fatto che
fossero estremamente riluttanti, e alla fine assolutamente contrari,
a ricorrere alla tortura per ottenere tali «prove».
Al contrario, molte autorità locali secolari della Spagna ab-
bracciarono pienamente l'interpretazione satanica della magia,
attribuendola prontamente a chi la praticava e ricorrendo alla
tortura per trovare le prove necessarie alla loro condanna. Ed è
proprio questa caccia alle «streghe» locale «fuori controllo» a
rappresentare la quasi totalità delle esecuzioni in Spagna (Hen-
nigsen 1980; Kamen 1993 e 1997; Levack 1995; Monter 1990).
344 A GLORIA DI DIO

Uno dei primi esempi ebbe luogo a Barcellona, nel 1549, prò-
prio quando in altre parti d'Europa stavano dilagando le più fe-
roci cacce alle «streghe». Un funzionario della sede locale dell'In-
quisizione di Aragona approvò la condanna al rogo di sette «stre-
ghe». L'organo sovrano della Santa Inquisizione (la Suprema) ri-
mase sgomento davanti al fatto che potesse essere accaduta una
cosa simile, e mandò subito l'inquisitore Francisco Vaca a inda-
gare. Al suo arrivo, egli ordinò l'immediato rilascio di due donne
ancora detenute in attesa della pena di morte. Dopo ulteriori in-
dagini, ordinò il rilascio di tutti gli altri arrestati e la restituzione
di tutti i beni confiscati. La sua relazione sui fatti denunciava che
i processi erano stati «illegali e contrari alle norme del Sant'Uffi-
zio», e che le accuse erano «ridicole», il che indusse la Suprema a
licenziare il suo rappresentante locale. Dopo questo caso, le In-
quisizioni sia d'Aragona che di Castiglia «intervennero ovunque
fosse possibile per fermare le esecuzioni» (Kamen 1997, pp. 237‫־‬
238). E, tranne poche eccezioni, ci riuscirono.
Una famosa eccezione si verificò quando !'«ossessione delle
streghe» francese oltrepassò il confine. Nel 1609 accadde un epi-
sodio molto grave di caccia alle «streghe» nella regione della Lin-
guadoca, nella Francia meridionale, che si concluse con il rogo di
ottanta «streghe». Queste «esecuzioni provocarono un brivido di
terrore» al di là del confine, nella regione basca della Spagna. Do-
menica 7 Novembre 1610, sei persone furono bruciate come
«streghe» dai funzionari locali di Logrono. A causa di ciò la Su-
prema ordinò un'indagine immediata. Dopo aver interrogato
centinaia di persone e aver esaminato tutti i documenti del tri-
bunale, Alonso de Salazar y Frias riferì alla Suprema di non es-
sere stato in grado di trovare la «minima prova» di ima strego-
neria. La Suprema lo considerò come una conferma della propria
politica, e si convinse ancor di più di essere nel giusto nel tenta-
re di sopprimere la caccia alle «streghe». Eppure, di tanto in tan-
to, la gente continuava a perdere il controllo. Come risposta, gli
inquisitori iniziarono a imporre condanne gravi a coloro che ri-
sultavano coinvolti in simili vicende. Nel 1617, un cacciatore di
«streghe» che operava in Aragona fu arrestato dopo l'impicca­
1 NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 345

gione di dodici «streghe» in diversi villaggi, senza prove ma so-


lo in base alla sua parola. Nel 1619, un altro cacciatore di «stre-
ghe» ingaggiato dalle autorità locali fu arrestato in Catalogna
dopo aver causato una ventina di morti. La Suprema lo mandò
in galera per dieci anni - quasi certamente una condanna a mor-
te (Kamen 1993 e 1997).
In questo modo, la caccia alle «streghe» in Spagna fu ridotta al
minimo. Gli inquisitori si rifiutarono di dare per scontato il sata-
nismo, a meno di non essere spinti a presumerlo da prove so-
stanziali e non estorte, e anche in questi casi furono molto restii a
utilizzare la pena di morte, ritenendo proprio dovere riportare il
colpevole nelle grazie della Chiesa. E nella maggior parte dei luo-
ghi, per la maggior parte del tempo, l'Inquisizione riusciva a im-
porre le proprie opinioni e procedure, nonostante il fatto che l'o-
pinione pubblica fosse spesso così fortemente contraria su questi
temi da indurre il popolo a degli attacchi, alcuni dei quali morta-
li, contro gli inquisitori o i loro rappresentanti (Kamen 1993).
Per quanto riguarda il conflitto religioso, gli spagnoli soppor-
tarono secoli di guerra contro l'islam - Granada fu «riconquista-
ta» solo nel 1492 - e la Spagna era pesantemente coinvolta nelle
guerre di religione, avendo più volte tentato di restaurare il cat-
tolicesimo in Inghilterra, ed essendo la principale fonte di trup-
pe e fondi per la lotta contro il protestantesimo nei Paesi Bassi e
nella Germania meridionale. Benché gran parte di questi conflit‫־‬
ti non abbia mai costituito una minaccia diretta per la vita spa-
gnola a livello locale, è probabile comunque che vi fosse una for-
te preoccupazione generale. Ma di per sé il conflitto religioso
non fu una causa sufficiente, e in Spagna mancavano gli altri due
elementi.
In Portogallo, paese che aveva la propria Inquisizione e che
divenne parte della Spagna solamente nel 1580, nel 1559 alcu-
ni funzionari laici di Lisbona m andarono al rogo sei «streghe».
L'Inquisizione portoghese m andò al rogo una «strega» a Évo-
ra, nel 1626. E fu tutto! Da qui, l'affermazione di Francisco
Bethencourt, secondo il quale «l'ossessione delle streghe che
colpì la m aggioranza dei paesi dell'Europa centrale e occiden­
346 A GLORIA DI DIO

tale [...] non toccò il Portogallo» (Bethencourt 1990, p. 404). Le


ragioni della m ancanza di condanne a m orte per chi praticava
la stregoneria erano esattam ente le stesse che abbiamo trovato
in Spagna.

Italia
Le varie Inquisizioni regionali in Italia erano ancora meno prò-
pense di quelle in Spagna e Portogallo a infliggere pene severe per
i condannati per stregoneria, osservando attentamente le norme
del diritto canonico, che prescriveva che la pena di morte non do-
vesse essere imposta per nessun reato, a meno che il condannato
non avesse condanne precedenti, si fosse ostinatamente rifiutato
di pentirsi, o avesse commesso un crimine particolarmente effera-
to, come ad esempio un omicidio a scopo sessuale. Così, tra il 1553
e il 1588, gli inquisitori di Venezia fecero giustiziare solamente
quattro persone (su oltre 1000 imputati), e nessuna di loro per stre-
goneria. Nella giurisdizione di Milano, tra il 1560 e il 1630, vi fu-
rono solo sette esecuzioni, tutte per eresia. Per un periodo di più
di duecento anni a partire dal 1542, gli inquisitori di Roma decise-
ro 97 esecuzioni; fra queste persone, poche, se non nessuna, erano
state condannate come «streghe» (Monter, Tedeschi 1986). Nell'a-
rea del Friuli, dal 1557 al 1786 furono processate dall'Inquisizione
locale 814 persone per aver praticato magia e stregoneria. Per
quanto si sa, nessuno fu giustiziato (Ginzburg 1983).
Praticamente tutti quei fattori che resero meno sanguinosa la
caccia alle «streghe» in Spagna e Portogallo si riscontrano anche
in Italia. Come i loro colleghi spagnoli, gli inquisitori in Italia fe-
cero pieno uso della distinzione fra invocazioni implicite ed
esplicite, deliberando quasi sempre a favore della prim a opzio-
ne. Di conseguenza, le condanne inflitte erano molto leggere, co-
me, per esempio, «la Confessione e la Comunione quattro volte
l'anno [...] e la recita del Rosario ogni venerdì per un anno» (θ '-
Neil 1987, p. 94). Una condanna più severa consisteva nella pub-
blica umiliazione di dover stare in piedi nella parte anteriore del-
la propria chiesa parrocchiale, durante una messa domenicale,
indossando un cartello con l'indicazione del proprio reato.
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 347

È interessante la scoperta fatta da Mary O'Neil per cui «le


condanne più severe inflitte dall'Inquisizione di Modena» ri-
guardavano la «magia amorosa». L'Inquisizione trovava questo
tipo di magia assai discutibile soprattutto per due ragioni: la pri-
ma, perché l'intenzione era quella di indurre una persona a pec-
care, e la seconda perché chi la praticava accettava il concetto
eretico secondo cui il Diavolo poteva sopraffare il libero arbitrio.
Per i condannati per magia amorosa, la condanna poteva essere
severa: frustate o esilio. Un'affascinante annotazione a margine è
il fatto che a far maggior uso della magia amorosa non erano uo-
mini che aspiravano a donne belle altrimenti irraggiungibili, ma
giovani donne di condizione sociale umile che cercavano così di
sposare uomini di classe superiore (O'Neil 1987).
In ogni caso, benché anche in Italia fosse molto diffusa la ma-
già, e benché la Chiesa si adoperasse attivamente per soffocarla,
la riluttanza nel dare per scontato il satanismo esplicito fermò la
corsa al rogo. Inoltre, le Inquisizioni regionali mantennero un
controllo molto stretto su tutti i processi per «arti magiche»,
spesso intervenendo con stizziti reclami sui funzionari locali che
chiedevano una maggiore severità. Infine, certo, la maggior par-
te d'Italia era lontana dalla guerre di religione.

Francia
La Francia ci permette di esplorare a fondo l'importanza del
governo centrale quando gli altri due fattori restano costanti. Co-
me nel resto d'Europa, anche qui la magia era ovunque, e le guer-
re di religione erano croniche in tutto il paese. Tuttavia, il con-
frollo del governo centrale sulle questioni locali variava immen-
samente. In gran parte della nazione, i tribunali locali erano stret-
tamente controllati dal Parlement (Corte Suprema) di Parigi. In te-
ma di stregoneria, il Parlement impose il punto di vista modera-
to delle élite, sia ecclesiastiche sia secolari - il che non significava
che la stregoneria non esistesse, ma che si riteneva che i processi
dovessero rispettare degli standard ragionevoli in merito a prove
e procedure, e che la maggioranza delle «streghe» doveva ricon-
ciliarsi con la Chiesa, non essere uccisa. Ma l'influenza di Parigi
348 A GLORIA DI DIO

non raggiunse né il confine meridionale né quello settentrionale,


e il risultato fu che proprio in queste zone si verificarono alcuni
dei più sanguinosi episodi della storia della caccia alle «streghe».
Escludendo le zone di confine, si stima che probabilmente
meno di 4000 persone vennero giustiziate per stregoneria in
Francia dal 1450 al 1750 (Levack 1995), circa 13 all'anno (o meno
di una aH'anno per milione di abitanti). Come abbiamo detto,
tutte le condanne per stregoneria erano soggette al controllo del
Parlement di Parigi. Il fatto che per un 75% queste condanne fu-
rono rovesciate (Levack 1995, p. 97) non solo impedì in maniera
diretta le singole esecuzioni, ma stabilì degli standard che sco-
raggiarono «l'intero processo della caccia alle streghe in Francia»
(Levack 1995, p. 199). Anzi, il messaggio fu chiaro quando il Par-
lement convocò a Parigi tre funzionari della giustizia provincia-
le, li accusò di aver ucciso un imputato, e li fece impiccare
(Briggs 1989). Se lo stato francese avesse avuto questo livello di
autorità in Linguadoca, al Sud, e nelle zone del confine nord-
orientale di Alsazia, Lorena e Franca Contea, sarebbero state ri-
spanniate migliaia di vite (Briggs 1989). Ma come ha spiegato
Brian Levack:

Queste aree si opponevano agli sforzi della monarchia francese di


istituire uno stato centralizzato, assolutista. [...]La ragione princi-
pale dell'intensa caccia alle streghe nelle regioni periferiche della
Francia è che i tribunali di queste zone operavano con maggiore in-
dipendenza dal controllo del governo centrale rispetto a quelli del
centro del paese [...] e il diritto di località particolari di perseguire
le streghe senza interferenze del governo centrale fu una delle mol-
te questioni che contrapposero Luigi XIV alle diverse province del
suo regno. (Levack 1995, p. 198)

Dal momento che la Francia era lacerata da conflitti religiosi


interni, cronici e sanguinosi, così come da guerre di religione
esterne, e dal momento che le pratiche magiche abbondavano e
la credenza nel satanismo era praticamente universale, una sola
cosa impedì un bagno di sangue di dimensioni nazionali: un
f NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 349

controllo governativo forte. Purtroppo, lungo entrambe le rive


del fiume Reno, in Francia e in Germania, e fin sulle Alpi, non si
riuscì a impedire che la gente del posto affrontasse senza con-
trollo !'«epidemia» di «streghe». Quindi, è ora opportuno con-
centrarsi sulla zona in cui avvennero quegli eventi che meritaro-
no l'epiteto di «ossessione delle streghe».

Le «terre di confine»
L'area in questione consisteva in un mosaico di piccole unità
politiche relativamente autonome. La maggior parte era di cui-
tura tedesca, ma aveva legami politici mutevoli. Midelfort ha co-
sì descritto la zona:

Nessuna definizione moderna [...] si adatta davvero ai fatti geo-


grafici del XVI e XVII secolo. A quel tempo, circa 350 territori for-
mavano una mappa a scacchiera di terre detenute da 250 cavalieri
e prìncipi, 25 città imperiali, e circa 75 signori ecclesiastici. I terri-
tori non avevano una particolare unità, erano senza capitale, e nes-
suna forma di organizzazione più vasta li rappresentava nel loro
complesso [...] solo i singoli territori avevano un'unità reale. (Mi-
delfort 1972, p. 8)

Di conseguenza, spiegò Levack, la «debolezza politica [...]


potrebbe essere stata la ragione più importante per l'alta concen-
trazione di processi per stregoneria in questa parte d'Europa»
(Levack 1995, p. 193).
Insieme al caos politico, queste terre di confine sopportavano
tutto il peso delle guerre di religione. Qui combattevano gli eser-
citi protestanti e cattolici, conquistando e riconquistando gli stes-
si luoghi, e seminando il terrore fra le popolazioni civili: omicidi,
mutilazioni, stupri, incendi, vandalismi, saccheggi, fame, e dif-
fusione di malattie. Inoltre, «la regione divenne religiosamente
instabile, con alcune zone che cambiarono la propria affiliazione
religiosa più di ima volta» in risposta alle diverse ondate della
guerra, o per cambiamenti di alleanza del loro governatore loca-
le (Levack 1995, p. 200).
350 A GLORIA DI DIO

In queste circostanze incerte, e prive di vincoli esterni, le au-


torità locali potevano fare più o meno ciò che volevano in meri-
to alle «streghe», e quello che molti di loro volevano fare era dar
loro la caccia una volta per tutte. La Tabella 3.4 (p. 335) ha mo-
strato che anche prim a che la caccia alle «streghe» dilagasse, nel
XVI secolo, questa regione superava il resto d'Europa nel suo en-
tusiasmo per tale pratica. La tendenza continuò e, alla fine, più
di 30.000 «streghe» morirono in questa regione, almeno la metà
delle esecuzioni per stregoneria di tutta Europa (Levack 1995;
Monter 1976). Per esempio, il principe-vescovo di W urzburg giù-
stiziò circa 900 «streghe» nel periodo 1623-1631, nello stesso arco
di tempo in cui suo cugino, il principe-vescovo di Bamberga,
mandò al rogo altre 600 persone, tra cui molti funzionari pubbli-
ci. Dall'altra parte del Reno, nel Ducato di Lorena, tra il 1586 e il
1595, Nicholas Remy giustiziò più di 800 persone a Nancy, e nel
Ducato in generale potrebbero aver perso la vita più di 3000 per-
sone tra il 1580 e 1630 (Briggs 1989). Altre 10.000 persone mori-
rono nella Confederazione elvetica, 3000 delle quali nel Pays de
Vaud (Levack 1995).
Sarà utile esaminare alcune di queste «follie», in parte per
svelare degli aspetti non ancora affrontati dalla mia teoria, quali
gli effettivi meccanismi con cui le cacce alle «streghe» locali si ge-
nerarono e si diffusero.

Wiesensteig
Man mano che la «Riforma protestante» si diffondeva, i citta-
dini della piccola città di Wiesensteig, nelle Alpi sveve, comin-
ciarono a invitare i sostenitori della Riforma a tenere dei discor-
si nella loro città, e il pubblico iniziò a dividersi in fazioni, alcu-
ne a favore di Lutero, altre di Zwingli, e altre ancora di Osiander.
Tuttavia, il protestantesimo non prese piede in forma stabile a
Wiesensteig fino a quando non fu imposto dai conti di Helfen-
stein. Il conte Sebastian von Helfenstein morì poco dopo, e suo
fratello Ulrich alla fine tornò al cattolicesimo, nel 1567, ma non
prim a di aver lanciato una grande «caccia alle streghe». Questa
sintesi si basa sul lavoro di Midelfort (1972, pp. 88-90).
l NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 351

Ai fini pratici, il conte Ulrich von Helfenstein era la legge a


Wiesensteig (la città era situata nella piccola contea di Helfenstein,
le terre degli antenati del Conte). La sua autorità era incontrastata
al di fuori della contea, soprattutto a causa deirinstabilità della si-
tuazione politica. Nel bel mezzo «dei disordini religiosi [e] del ti-
more della guerra [...] Ulrich si scagliò contro le streghe». L'even-
to che fece precipitare la situazione fu una grandinata eccezionale,
che nel 1562 distrusse le coltivazioni locali. Era tipico, in questo
periodo, dare la colpa delle tempeste ai maleficia, soprattutto nel
caso di fenomeni meteorologici particolarmente gravi. All'indo-
mani di tale calamità, vennero prese di mira quelle persone che
avevano una cattiva reputazione, ed erano già note per la pratica
della magia o per un brutto carattere. In ogni caso, Ulrich era cer-
to che questa calamità fosse opera delle «streghe» e arrestò tutti
coloro che venivano indicati come sospetti. Le torture conferma-
rono presto la loro colpevolezza, e il Conte ne fece subito giusti-
ziare sei, rimandando le decisioni sugli altri al momento in cui le
loro storie fossero state svelate del tutto. Π fulcro di questi interro-
gatori era l'identità delle altre persone viste nei sabba di «streghe».
Presto, dunque, fu coinvolta altra gente, tra cui tre cittadini di Es-
slingen, un altro piccolo paese a 50 chilometri di distanza. I fun-
zionari qui furono prontamente informati del fatto che anche la lo-
ro città ospitava molte «streghe». I commenti di Midelfort a que-
sto proposito sono di particolare interesse:

Vediamo qui la perfetta illustrazione del motivo per cui il concetto


di sabba delle streghe fu di così fondamentale importanza. Con
informazioni di questo tipo, a partire da un luogo originario, il pa-
nico nei confronti delle streghe si poteva diffondere in tutta la cam-
pagna circostante.

In questo caso, però, tutte e tre gli accusati di Esslingen furo-


no rilasciati. Ulrich si infuriò per ima simile «irresponsabilità» e
riaffermò subito la sua leadership giustiziando più di 41 «stre-
ghe» a Wiesensteig. Prima della fine dell'anno, ne mandò al ro-
go altre venti.
352 A GLORIA DI DIO

Queste 67 vittime possono essere ascritte alla parte protestan-


te della caccia alle «streghe». Pochi anni dopo, tuttavia, Wiesen-
steig tornò al cattolicesimo e, nel 1583, «almeno 25 persone furo-
no giustiziate» come «streghe» nel paese. Ancora ima volta, in-
tom o al 1605, furono bruciate sul rogo altre 14 persone, e nel 1611
quattro visitatrici di W urttemberg e un uomo furono mandati al
rogo in questa piccola cittadina.

Rottenburg
Rottenburg era notevolmente più grande di Wiesensteig, con
una popolazione di 2700 abitanti. Situata nella valle del fiume
Neckar, a circa 80 chilometri a ovest di Wiesensteig e 40 a sud di
Stoccarda, anche Rottenburg dimostrò un considerevole interes-
se locale per il protestantesimo, ma esso finì quando gli Asburgo
re-imposero il cattolicesimo (anche questa sintesi si basa sul la-
voro di Midelfort del 1972, pp. 90-94).
Quando la caccia alle «streghe» si diffuse nella regione, Rot-
tenburg non vi partecipò (per lo meno non mandò nessuno al ro-
go). Anche in questa città nel 1578 vi fu una grave tempesta con
fulmini che appiccarono degli incendi e mandarono in rovina i
raccolti, e anche qui si diffuse !'«ossessione per le streghe», che
condusse all'identificazione e alla condanna al rogo di sette
«streghe». Iniziò così un ciclo continuo di accuse, arresti e tortu-
re, che portavano a nuove accuse, arresti e torture, e via di que-
sto passo. Infatti, spesso era necessario torturare gli accusati per
ottenere i nomi di altri sospetti, dal momento che sotto tortura la
gente si dimostrava più che disponibile a condividere il destino
con qualcun altro. In alcuni casi, temendo di essere accusate, le
persone facevano sapere che se lo fossero state avrebbero porta-
to con sé molti altri, e quando arrivava il momento, manteneva-
no fede alla promessa (Briggs 1989, p. 92). Molti autori hanno da-
to la colpa di questa incapacità di comprendere che erano gli
stessi im putati a fabbricare le accuse al cieco fanatismo dei re-
sponsabili della giustizia. Eppure, a questi critici sfugge la somi-
glianza con i pubblici ministeri moderni, che «ricostruiscono»
trame criminali sulla base delle confessioni dei colpevoli già ar­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 353

restati, ai quali garantiscono l'immunità. Certo, è più umano


concedere l'immunità che infliggere torture, ma gli scopi sono i
medesimi. In entrambe le circostanze, chi indaga crede nell'esi-
stenza di un gruppo segreto di malfattori. Dal momento che co-
loro che perseguivano le «streghe» credevano davvero di scopri-
re cellule segrete di satanisti, sarebbe stato irresponsabile da par-
te loro non far pressioni su quelli che catturavano per scoprire al-
tri complici. E questo serva come promemoria sulla facilità di in-
correre in errore pur essendo competenti e logici.
A Rottenburg l'indagine volta a «scoprire» la comunità di sa-
tanisti locali mantenne occupati i boia per 31 anni, per un totale
di 150 persone bruciate sul rogo. In tutto questo periodo, la per-
centuale annuale fu sempre abbastanza stabile, ma vi fu un picco
improvviso nel 1596, quando furono bruciate per stregoneria 36
persone. Questo picco provocò così tanto interesse che sia gli stu-
denti sia i professori della vicina Università di Tubinga disertaro-
no le loro lezioni per assistere ai processi. Π professor Martin Cru-
sius annotò nel suo diario, il 7 maggio 1596, «oggi sono state bru-
ciate dieci «streghe» a Rottenburg, legate in quattro a ogni palo»
(il che fa pensare che non fosse un professore di matematica).
Con il passare del tempo, lo status sociale degli accusati ini-
zio a salire in maniera abbastanza rilevante. Cominciò tutto
quando gli accusati, torturati allo scopo di conoscere i nomi di al-
tre persone implicate nella stregoneria, iniziarono a fare i nomi
di mogli di funzionari e appartenenti alla piccola nobiltà. Una
volta avviato il meccanismo, le accuse si estesero presto agli stes-
si funzionari, e nel 1602 il governatore della città fu accusato, tor-
turato e morì in prigione a causa delle ferite. Questa «escalation
di accuse», che colpivano tutte le classi sociali, si verificò in mol-
te comunità, e probabilmente si trattò di un fenomeno collegato
alla maggiore visibilità degli abitanti appartenenti alle classi su-
periori. Anche l'invidia e gli antichi rancori probabilmente ebbe-
ro un loro ruolo. In ogni caso, come ha osservato Midelfort, l'«at-
tacco contro gli alti funzionari locali sembra spesso aver scosso
profondamente le comunità, portandole al panico totale». In
realtà, a Rottenburg, la caccia alle «streghe» finì velocemente.
354 A GLORIA DI DIO

Germania
Per quanto riguarda il resto della Germania (il Nord e l'Est ri-
spetto alle terre di confine del Reno), i processi per stregoneria
furono poco comuni, come in Francia, e il controllo politico fu al-
trettanto efficace. Certo, anche in quest'area mancava un regime
centrale e i tribunali locali non rispondevano a un Parlement, ma
le unità politiche erano molto più estese, e al loro interno esiste-
va un controllo paragonabile a quello di un governo centrale. Si
ricordi, dal capitolo 1, che molte di queste entità divennero prò-
testanti o rimasero cattoliche senza curarsi del sostegno popola-
re, ma basandosi sugli interessi politici e finanziari dei loro go-
vernanti. Fu solamente il controllo efficiente a far distinguere
quest'area dalle terre di confine, dal momento che entrambi gli
altri due fattori erano presenti anche qui. Proprio come nella vai-
le del Reno, imperversava il conflitto religioso con continui scon-
tri fra gli eserciti protestanti e cattolici. E anche qui, era senza
dubbio diffusa la credenza nell'esistenza del satanismo.

Scandinavia
I processi per stregoneria incominciarono molto tardi in Scan-
dinavia. Ma una volta accesi, i roghi bruciarono molto vivida-
mente. Si stima che, a partire dalla fine del 1600, siano stati giù-
stiziati per stregoneria 1700 scandinavi. Dato che nella regione
vivevano circa due milioni di persone, si ha un tasso di esecu-
zioni di circa 850 per milione, molto più alto che in Francia e nel-
l'Europa meridionale. Ovviamente, anche in quest'epoca la
«Scandinavia» comprendeva diverse nazioni indipendenti e aree
relativamente autonome. Sarà utile prenderne in considerazione
alcune separatamente, partendo dalle due principali potenze, la
Svezia e la Danimarca.

Svezia
La credenza nella magia e nei malefici in Svezia era universa-
le, così come in tutta Europa. Qui i malefici implicavano la pena
capitale qualora fosse possibile dimostrare che qualcuno avesse
subito dei veri danni. Ma fu solo a fine 1500 che iniziarono a
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 355

comparire riferimenti al satanismo, introdotti dal clero prote-


stante che aveva ricevuto la propria istruzione in Germania. Al-
l'inizio, l'opinione generale era abbastanza divisa in merito all'e-
sistenza di questa forma di stregoneria. L'idea di «streghe» che
volavano ai loro sabba era piuttosto conforme alle credenze po-
polari, ma «la tradizione elitaria fu lenta nell'assorbire le nuove
idee» (Ankarloo 1990, p. 290). Alla fine, prevalsero i concetti le-
gati al satanismo, e !'«ossessione per le streghe» iniziò in Svezia
nel 1668.
Π primo processo portò a 18 condanne a morte, ma 11 furono
ridotte in appello e così 7 «streghe» vennero decapitate e i loro
corpi mandati al rogo, nel maggio 1669. Pare che queste esecu-
zioni abbiano generato ima grande paura delle «streghe», che
portò a sospettare dozzine di persone, con accuse mosse in mag-
gioranza da sedicenti «cacciatori di streghe» fra cui diversi barn-
bini. Di conseguenza, nell'agosto del 1669, altre 29 persone furo-
no m andate al ceppo, prima, e al rogo poi. L'anno successivo ne
morirono altre 15. A questo punto, fu istituita ima commissione
reale che riesaminasse i casi e sovraintendesse ai procedimenti
legali. Fin dall'inizio, però, tale commissione fu radicalmente di-
visa. Da una parte vi erano tre aristocratici, che consideravano il-
legali questi processi e che non credevano nei racconti di satani-
smo estorti agli imputati, ma erano contrastati e dominati dagli
appartenenti al clero e dagli agricoltori presenti nella commis-
sione. Così, le esecuzioni continuarono, raggiungendo un picco
nel 1675, quando a morire furono in 100. Nel 1676 fu nominata
una nuova commissione, la quale continuò a giustiziare «stre-
ghe» fino a quando fu profondamente scossa dall'improvvisa
confessione di molti bambini di essersi inventati tutto, bambini
sulla cui testimonianza si erano basate le esecuzioni. Questo fece
ribaltare completamente il punto di vista della commissione, co-
sì che non solo finirono i processi per stregoneria, ma furono an-
che avviati procedimenti legali contro testimoni chiave di prò-
cessi precedenti, quattro dei quali vennero condannati a morte.
Dopo di ciò vi furono poche altre esecuzioni in zone remote, ma
!'«ossessione» era finita per sempre (Ankarloo 1990).
356 A GLORIA DI DIO

È significativo che le idee di sabba delle «streghe» e di satani-


smo non abbiano prevalso in Svezia se non dopo l'adozione del
protestantesimo - il clero militante che faceva parte della com-
missione reale non era cattolico romano, ma luterano. Inoltre, la
Svezia non «divenne» protestante nel senso che rappresentanti
del protestantesimo convertirono la gente alla nuova fede. In
realtà, non è chiaro nemmeno se il popolo svedese sia mai stato
completamente cristianizzato, figuriamoci luteranizzato. Co-
m unque sia, il cambiamento religioso in Svezia comportò la con-
versione della casa reale e pochi altri. Si dichiarò che la Svezia
era stata cristianizzata nel XI secolo, quando il re riconobbe co-
me unica fede lecita la fede nella Chiesa, concedendole il diritto
di riscuotere le decime. Poco, o nulla, fu fatto per evangelizzare
le masse, e il paganesimo non morì mai veramente. La conver-
sione al protestantesimo che trasformò la Svezia in uno stato prò-
testante, avvenne quando re Gustavo I, che regnò dal 1523 al
1560, commutò la chiesa di stato al protestantesimo dopo aver
portato avanti una faida con il Papa per la nomina dei vescovi, e
dopo aver deciso di impadronirsi delle ricchezze della Chiesa. Il
conseguente passaggio dal cattolicesimo al protestantesimo fu
graduale e superficiale. La maggior parte dei vescovi e del clero
si convertì senza troppa difficoltà. Il manuale della nuova chiesa,
distribuito nel 1571, mantenne in vigore «la Confessione, la sco-
mimica, e la penitenza pubblica. Molti dei parroci continuarono
i loro incarichi e sposarono le loro governanti o concubine per le-
gittimare i loro figli» (Latourette 1975, p. 738). A parte il fatto che
la chiesa luterana non era subordinata alla Corona e che la Bib-
bia era stata tradotta in svedese, le cose rimasero più o meno le
stesse in termini di vita religiosa.
Tuttavia, essendo diventato uno stato protestante, la Svezia fu
trascinata nella guerra religiosa cronica dell'Europa. In effetti,
probabilmente fu proprio l'esercito svedese a salvare il prote-
stantesimo, vincendo una battaglia dopo l'altra, fino all'adozio-
ne del Trattato di Vestfalia, nel 1648. Ma questo non segnò la fi-
ne della guerra per la Svezia. Diversi anni dopo la firma del trat-
tato, Carlo X lanciò un attacco contro la Polonia, il che fece inter­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 357

venire la Danimarca contro la Svezia. Carlo sconfisse presto i da-


nesi, e la Danimarca fu costretta a cedergli un certo numero di
province. Ma la guerra scoppiò di nuovo nel 1658 per il sostegno
dato dalla Danimarca ai Paesi Bassi, e Inghilterra e Francia inter-
vennero per aiutare la Danimarca contro la Svezia. Nel 1660,
mentre negoziava un accordo per questi conflitti, Carlo X morì
improvvisamente. Divenne re suo figlio, di cinque anni, ma il po-
tere effettivo spettò a dei reggenti, fino al 1672. Sotto questa reg-
genza, la Svezia evitò nuove guerre, ma si svilupparono dei gra-
vi conflitti interni, e si prospettò la minaccia di una guerra civile.
Fu durante questo momento di forte tensione e di grande debo-
lezza dello stato, quando il re Carlo XI aveva solo tredici anni,
che divampò la caccia alle «streghe». E fu nel 1676, dopo quattro
anni di effettivo potere di Carlo XI, che venne istituita una com-
missione reale, la quale pose fine al fenomeno.
Così tutte e tre le condizioni della mia teoria sono soddisfat-
te. Prima vi fu l'ufficializzazione dell'interpretazione satanica
della magia, introdotta dal clero luterano. In secondo luogo vi fu
un lungo periodo di intenso conflitto religioso esterno, dal mo-
mento che la Svezia ebbe un ruolo di primo piano nella Guerra
dei Trent'anni. In terzo luogo, la caccia alle «streghe» scoppiò in
un periodo di governo insolitamente debole - e l'opinione elita-
ria era tale che per fare cessare il fenomeno bastò un re forte.

Danimarca
I danesi erano l'altra grande potenza della Scandinavia, con
colonie occidentali fino all'Islanda e alla Groenlandia. La caccia
alle «streghe» della Danimarca si verificò molto prima di quella
in Svezia, e fu molto più mite. Cosa ancora più importante, ci of-
fre un'illustrazione drammatica del potere del governo. Per tut-
to il periodo in questione, la Danimarca ebbe un governo forte,
centralizzato, e la caccia alle «streghe» si verificò e finì in rispo-
sta a delle variazioni nelle politiche ufficiali. Prima del 1617, in
Danimarca le norme giuridiche in tema di stregoneria non pre-
vedeva l'ipotesi satanica. Altrettanto importante il fatto che il co-
dice delle leggi proibiva la tortura e le denunce non venivano
358 A GLORIA DI DIO

considerate prove sufficienti. Queste regole evitarono che ima


valanga di sospetti portassero all'«ossessione per le streghe» in
alcune aree d'Europa. Nel 1576 una donna fu condannata per
maleficio, da un tribunale locale, e condannata a morte. Quando si
scoprì che era stata mandata al rogo prim a che la condanna fos-
se respinta dalla corte suprema, fu adottato un ulteriore articolo,
nel quale si stabiliva «che nessuna persona riconosciuta colpevo-
le dal tribunale deve essere giustiziata prima che il caso sia stato
oggetto di ricorso» (Johansen 1990, p. 341). Di conseguenza, fu-
rono molto poche le «streghe» giustiziate in Danimarca durante
il XVI secolo, epoca in cui molte «ossessioni» stavano prendendo
piede nelle terre di confine del Reno.
Tuttavia, nel 1617 la situazione cambiò drammaticamente.
Venne prom ulgata una nuova ordinanza che per la prim a volta
asseriva l'esistenza del satanismo. Si ordinava che i casi di ma-
già e stregoneria ordinaria venissero trattati con moderazione,
e che solo le persone note per essere legate in qualche modo al
Diavolo fossero giustiziate. Come spiegò Jens Christian V.
Johansen, «l'aspetto teologico del crimine per la prim a volta fu
portato in prim a linea nella legislazione: le streghe [...] erano
coloro che avevano stipulato un patto con il Diavolo» (Johan-
sen 1990, p. 341). Ma perché ciò avvenne proprio in quel mo-
mento? A quanto pare, il re era molto preoccupato per le «stre-
ghe» perché influenzato da un teologo luterano, il quale diven-
ne vescovo della diocesi più im portante della nazione nel 1615
(Johansen 1990). In ogni caso, l'effetto della nuova ordinanza fu
immediato e drammatico. I processi cominciarono subito, e il
numero di persone condannate a m orte salì dalle 15 del 1617 al-
le 30 dell'anno successivo, con un picco di 40 nel 1620. In se-
guito, sia i processi sia le esecuzioni dim inuirono rapidamente.
Sembra che le ragioni principali di questo calo siano state prin-
cipalmente due. In prim o luogo, si esaurirono rapidam ente i
sospetti su cui vi era un consenso locale. Come ha osservato
Johansen, ci volevano «molti anni per costruire una simile fa-
ma» da poter essere indicati come fonte di maleficia (Johansen
1990, p. 348). In secondo luogo, i tribunali danesi continuarono
l NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 359

a rifiutare di utilizzare la tortura negli interrogatori e di consi‫־‬


derare come prove valide di colpevolezza degli im putati le con-
fessioni degli altri accusati di stregoneria. Entrambi i fattori ri-
dussero fortemente l'«offerta» di potenziali vittime una volta
esaurita la «raffica iniziale». A questo punto, l'élite cominciaro-
no a opporsi al satanismo - il medico del re, Thomas Bartholin,
fu apertam ente critico (Naess 1990). Di conseguenza, i processi
alle «streghe» in Danimarca furono poco frequenti e infine
scomparvero del tutto - fra il 1656 e il 1685 fu pronunciata una
sola condanna a morte. Poi, nel 1686, un cacciatore di «streghe»
locale riuscì a far condannare al rogo 4 persone, ma le condan-
ne vennero annullate dalla Corte Suprema, e il cacciatore di
«streghe» fu sospeso. E così finì tutto.

Islanda
Prima della «Riforma protestante» non vi fu nessun processo
per stregoneria nella colonia danese deH'Islanda. Poi, «la Rifor-
ma fu imposta con la forza agli islandesi dal re danese, certa-
mente non senza la loro resistenza» (Hastrup 1990, p. 386; Vé-
steinsson 2001). Per ordine di Cristiano III, i vescovi cattolici fu-
rono deposti e i loro beni sequestrati dalla Corona. Tuttavia, un
vescovo sollevò le truppe e si oppose, ottenendo l'appoggio di
molti altri che avevano ideali nazionalistici. Alla fine, comunque,
prevalsero le forze danesi, e il vescovo e alcuni dei suoi sosteni-
tori furono decapitati (Latourette 1975).
Quando il clero luterano cercò di imporre la nuova fede nella
pratica pubblica trovò come cruciale punto di conflitto la magia
e la stregoneria, che erano molto popolari e avevano incontrato
poca opposizione da parte del cattolicesimo. Quasi subito, il eie-
ro luterano appena arrivato chiese di proibire tali pratiche e co-
minciò a formulare accuse contro chi vi si dedicava. Peggio an-
cora, i luterani importarono dal continente europeo le concezio-
ni che collegavano la magia al satanismo. Così, nel 1625, poco
dopo che le esecuzioni per stregoneria si erano diffuse in Dani-
marca, fu m andata al rogo la prim a «strega» islandese. I fattori
scatenanti furono la morte di un gran numero di capi di bestia­
360 A GLORIA DI DIO

me causata da un inverno particolarmente freddo, e un focolaio


di peste che uccise molte persone. I sospetti si posarono su ima
persona del luogo, che venne mandata al rogo per ordine di un
funzionario danese, il quale era stato educato ad Amburgo e co-
nosceva molto bene il Malleus maleficarum. Successivamente an-
darono al rogo 22 islandesi, 21 uomini e una donna. Tutti proba-
bilmente erano stregoni guaritori e potrebbero essere stati anche
cripto-pagani, dal momento che elementi di paganesimo riman-
gono ancor oggi molto forti in Islanda (Stark 2009; Swatos, Gis-
surarson 1997). Nel 1686 giunse dalla Danimarca il decreto che
ordinava che tutte le condanne a morte fossero ratificate dalla
Corte Suprema di Copenaghen, il che pose fine alle esecuzioni in
Islanda (Hastrup 1990).

Norvegia
Come llslanda, la Norvegia era sotto il controllo danese du-
rante i giorni della caccia alle «streghe». Inoltre, come all'Islanda,
alla Norvegia fu imposta la «Riforma protestante», e con essa
giunse il clero luterano educato in Germania e votato alla dottai-
na del satanismo. E, come in Islanda, questo portò alla ridefini-
zione della magia e della stregoneria, stabilendo che per prati-
carie occorresse un patto con il Diavolo, il che rese inevitabile la
caccia alle «streghe» (Naess 1990).
La caccia alle «streghe» norvegese si diffuse nello stesso mo-
mento in cui iniziò in Danimarca, e fu condotta «da pastori, giù-
dici e ufficiali giudiziari nati o educati in Danimarca e Germania»
(Naess 1990, p. 381). Il fenomeno, poi, raggiunse il suo culmine
più o meno negli stessi anni del picco danese, negli anni '20 del
1600, con l'esecuzione di 69 persone. Tuttavia, in Norvegia fu più
letale e durò più a lungo che in Danimarca, diminuendo graduai-
mente solo negli anni '60 di quel secolo e costando la vita a circa
280 persone (un tasso di 638 per milione). Proprio come in Dani-
marca la caccia alle «streghe» finì nel momento in cui i tribunali
furono in grado di affermare il proprio controllo sulle procedure
e sulla validità delle prove, quando questi stessi principi furono
esportati in Norvegia, la Corte d'Appello cominciò non solo ad
1 NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 361

annullare le condanne a morte per stregoneria, ma anche a recar-


si in visita nella zone periferiche per interrogare e rilasciare le per-
sone accusate. Non si trattava tanto di un rifiuto del satanismo,
anche se alcuni giudici iniziavano a prendere tale posizione,
quanto della capacità di vedere i difetti di accuse e confessioni ac-
quisite con la tortura o con la paura della morte. Inoltre, la Nor-
vegia si servì sempre più di funzionari e pastori di origine e istru-
zione locale, il che moderò l'influenza tedesca.
Ma il protestantesimo era sopravvissuto! Come scrisse Hans
Eyvind Naess: «Un cristianesimo protestante che si era sentito
sotto assedio ora poteva smobilitarsi; le precedenti dottrine mili-
tanti cominciarono a essere messe in discussione» (Naess 1990, p.
381). Più avanti tornerò su questo tema in maniera estesa.

Finlandia
Durante l'epoca della stregoneria, la Finlandia era una prò-
vincia della Svezia. Le dirette influenze tedesche fecero sì che la
caccia alle «streghe» finlandese iniziasse una ventina di anni pri-
ma, ma sia in Finlandia sia in Svezia il culmine fu negli anni '70
del 1600, quando 41 finlandesi furono giustiziati come «streghe».
Il fenomeno si esaurì nello stesso momento nel resto della Svezia
e per gli stessi motivi. I morti furono 115, per un tasso di 329 per
milione (Heikkinen, Kervinen 1990). Metà delle vittime erano
uomini. E, come capitava in tutta la Scandinavia, la maggior par-
te erano «stregoni professionisti» ai quali venivano imputate
competenze e poteri diabolici - un punto di vista importato con
il protestantesimo. Anzi, la dottrina del satanismo fu promulga-
ta dai docenti della Turku Academy, la prim a università della
Finlandia, fondata nel 1640. Qui dominava il pensiero tedesco,
comprese le nozioni riguardanti la stregoneria. Dopo pochi anni
dalla sua fondazione, «alla Turku Academy furono pubblicate
due tesi di laurea che trattavano l'argomento della magia natu-
rale e discutevano anche dei patti con il Diavolo» (Heikkinen,
Kervinen 1990, pp. 323-326).
Per riassumere: la caccia alle «streghe» giunse in Scandinavia
con il protestantesimo, quando la credenza luterana nel satani­
362 A GLORIA DI DIO

smo entrò in contatto con una cultura particolarmente attiva in


tema di magia e stregoneria. La gravità della caccia alle «stre-
ghe» dipese dalla forza del controllo centrale sulle iniziative lo-
cali e sugli standard di prova imposti dall'autorità centrale. E il
fenomeno finì quando si placò l'era di intenso conflitto religioso
in Europa.

Inghilterra
Solo gli spagnoli e gli italiani giustiziarono in proporzione
meno «streghe» degli inglesi. C. L'Estrange Ewen (Ewen 1929)
stimò che sul patibolo salirono circa 1000 «streghe» inglesi, e
Brian P. Levack (1995) portò la cifra a circa 500. E questo ci dà al
massimo 200 morti per milione, oppure solo 100, a seconda del-
la stima scelta.
L'era della caccia alle «streghe» in Inghilterra coincise con
quella della «caccia ai preti», che causò circa 260 «martiri» catto-
lici (Thomas 1971). Entrambe seguirono la caccia all'eresia che
mandò al rogo circa 300 protestanti durante il breve regno di
«Maria la sanguinaria», dal 1553 al 1558 (Lambert 1992; Latou-
rette 1975). Il numero totale delle vittime della caccia ai preti e
quello della caccia alle «streghe» è piuttosto simile, se si esclu-
dono le 200 morti causate da M atthew Hopkins, il quale attra-
versò le contee orientali nel 1645 e nel 1646, per «scovare» le
«streghe». Dal momento che Hopkins testimoniò di aver visto i
diavoli invocati da alcune delle sue vittime, e dal momento che,
per aggirare le regole giudiziarie, ricorse a metodi di tortura che
non lasciavano segni fisici, si può sostenere in maniera convin-
cente che la sua fosse una frode volta a ottenere le piccole ricom-
pense da «cacciatore» che riusciva a farsi dare dai funzionari lo-
cali (Robbins 1959; Thomas 1971). In ogni caso, Hopkins provocò
l'unica vera «paura» delle streghe della storia inglese, e gran par-
te degli altri casi segue imo schema «di procedimenti penali an-
nuali costanti e poco spettacolari» (Thomas 1971, p. 451). Al di là
dei casi fomiti da Hopkins, il picco delle azioni penali inglesi si
ebbe negli anni '80 e '90 del 1500, durante il regno di Elisabetta I
(1533-1603). Dopo Hopkins (che si ritirò dalla caccia alle «stre­
l NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 363

ghe» nel 1646 e morì l'anno successivo), il numero di processi di-


minuì rapidamente, e la maggior parte degli imputati furono as-
solti. In Inghilterra l'ultim a «strega» fu impiccata nel 1685.
È fondamentale sapere non solo che in Inghilterra si tennero
relativamente pochi processi per stregoneria, ma anche che nella
maggior parte di essi l'accusa era solo di maleficio., non di satani-
smo. Probabilmente sarebbe stato così anche in molte altre na-
zioni se non si fosse permessa la tortura, poiché erano le confes-
sioni che in genere giustificavano l'estensione delle iniziali accu-
se di maleficia al satanismo. In effetti, l'assenza di tali confessioni
in Inghilterra può spiegare la mancanza di interesse per il Mal-
leus maleficarum, visto che non c'era un'edizione inglese (e nes-
suna traduzione fino al 1928). Keith Thomas ha osservato che «la
totale assenza di un'edizione in lingua inglese è sorprendente se
paragonata alle tredici edizioni uscite nel continente dal 1520
[...]in Germania fu pubblicato sedici volte prima del 1700 e un-
dici volte in Francia» (Thomas 1971, p. 440).
Il satanismo guadagnò terreno in Inghilterra grazie ai prote-
stanti. L'Assemblea di Westminster (1643-1652), convocata dai
puritani per riformare la Chiesa d'Inghilterra, cambiò la vecchia
definizione di «strega»: da persona che praticava maleficia a per-
sona che aveva stretto un patto con il Diavolo. Nel 1645 l'Assem-
blea spiegò anche che «alcuni ritengono che le streghe non pos-
sano morire a meno che non venga tolta loro [...] la vita. Anche se
da un simile patto non deriva alcun male, la strega merita ima
morte certa per il patto in sé» (Thomas 1971, p. 441). Matthew
Hopkins interpretò queste parole come un'autorizzazione alla
caccia alle «streghe». Tuttavia, il concetto di satanismo incontrò
delle resistenze, ricevendo «solo un tiepido e riluttante sostegno
dall'élite amministrativa e governante d'Inghilterra» (Levack
1995, p. 201).
Inoltre, la proibizione di ricorrere alla tortura impedì l'accu-
m ulazione incontrollata delle accuse (tranne nel caso di
Hopkins), e ciò ridusse al minimo i processi di gruppo. Per di
più, con alcune eccezioni, i giudici inglesi rispettarono la norma
di considerare valide solo le prove evidenti e il principio per cui
364 A GLORIA DI DIO

l'im putato era innocente fino a prova contraria. Diversi passi fai-
si sono da imputare a giudici così agitati sull'argomento da igno-
rare le loro funzioni, e alcuni a giudici che cedettero alle richie-
ste popolari. Il presidente di corte North confessò di aver accon-
sentito alla condanna di tre donne innocenti per paura che il re-
spingimento delle accuse infiammasse le folle, spingendole a ul-
teriori cacce alle «streghe». Ma nella maggior parte dei casi, i giù-
dici mantennero le cose sotto controllo. In un caso memorabile,
un giudice inglese rispose all'accusa rivolta a un imputato di vo-
lare nel corso dei sabba delle «streghe» asserendo che non vi era
alcuna legge contro il volo (Thomas 1971).
Così, nonostante i conflitti religiosi locali, intensi e sanguino-
si, e anche dopo che la credenza nel satanismo aveva preso pie-
de, un controllo politico forte impedì il peggio. Il che non fu di
nessun aiuto per i 500 sfortunati, che morirono per crimini im-
maginari, ma salvò centinaia di imputati dalla condanna al rogo,
e migliaia di persone da sospetti e imputazioni.

Scozia
Le cose andarono in modo molto diverso in Scozia. Sebbene
nessuna «strega» scozzese fosse stata m andata al rogo prim a
della «Riforma protestante» (Levack 1995), alcuni fra i prim i so-
stenitori del protestantesim o furono giustiziati per eresia, a co-
minciare da Patrick Hamilton, nel 1528. Q uando il cardinale
cattolico di Saint A ndrews m andò al rogo il protestante George
Wishart, nel 1546, un gruppo di «terroristi» protestanti assassi-
narono il vescovo e si barricarono in un castello, in attesa di
aiuti dall'Inghilterra. Invece, furono fatti prigionieri dalle forze
inviate dalla Francia (Latourette 1975). Tra i prigionieri c'era
John Knox (1514-1572), che non aveva preso parte all'assassi-
nio, ma che si era unito al gruppo nel castello. Portato in Fran-
eia, scontò una condanna di diciannove mesi di galera e poi
andò in Inghilterra, nel 1549. Lì prestò servizio come cappella-
no di re Edoardo VI ma, insieme alla maggior parte del clero
protestante più influente, dovette fuggire di nuovo nel conti-
nente quando la fervente cattolica «Maria la sanguinaria» salì
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 365

al trono. Riparato a Ginevra, divenne un discepolo di Giovanni


Calvino.
Nel frattempo, la Riforma raccoglieva sostegno in Scozia, as-
sai incoraggiata dalTantagonismo nei confronti delle ambizioni
francesi nella regione, in particolare dopo che Maria di Scozia
si sposò con l'erede al trono di Francia, nel 1558. Knox ebbe un
certo peso nell'alim entare questi sentimenti anti-francesi, pre-
dicando nel sud della Scozia per quasi due anni, nel 1555 e nel
1556. Il 3 dicembre 1557, un gruppo di nobili anti-francesi
formò una coalizione protestante. Ne seguì presto una guerra
civile, alla quale presero parte sia truppe francesi sia inglesi.
Vinsero i protestanti, e nell'agosto del 1560 il Parlamento scoz-
zese adottò una confessione di fede calvinista, redatta da Knox
e altri (Latourette 1975).
Tre anni dopo, spinto dal clero calvinista che vi aveva mol-
ti rappresentanti, il Parlam ento approvò uno statuto che im-
poneva la pena di morte in tutti i casi di stregoneria. A diffe-
renza della controparte inglese, il clero scozzese prese il co-
m ando nella caccia alle streghe e si assicurò che i tribunali ri-
spettassero gli obblighi di condanna alla pena capitale (Larner
1981 e 1984). Le conseguenze furono quasi immediate, e feroci.
Alla fine, in Scozia furono giustiziate almeno 1500 persone, cir-
ca 750 per milione (Larner 1981 e 1984; Levack 1995). Non so-
lo i tribunali seguivano le norm e dello statuto del 1563, ma ad-
dirittura i m agistrati locali avevano l'autorità per processare le
«streghe» senza nessuna supervisione di funzionari superiori.
Inoltre, i tribunali scozzesi non erano vincolati dai principi le-
gali inglesi. Le giurie inglesi potevano condannare un im puta-
to solamente all'unanim ità; in Scozia, le condanne richiedeva-
no solo la m aggioranza dei giurati. L'Inghilterra proibiva l'uso
della tortura; in Scozia era u n elemento normale degli interro-
gatori prelim inari delle «streghe». Gli inglesi non avrebbero
portato qualcuno a giudizio solamente sulla base di un'accusa
formulata da un altro im putato; in Scozia, invece, si cercava
questo tipo di accuse che produssero, di conseguenza, dei prò-
cessi di massa.
366 A GLORIA DI DIO

Come in tutti gli altri casi, anche la Scozia conferma la mia


teoria. Per prim a cosa, una credenza che collegava satanismo e
magia, ratificata in maniera ufficiale, si innestò su una cultura
della magia molto attiva. In secondo luogo, il conflitto religio‫־‬
so era intenso. Terzo, in Scozia prevaleva il controllo locale dei
tribunali, con tutti gli abusi inerenti a tale situazione.
Riguardando i casi studiati, potremmo pensare che la creden-
za nel satanismo e l'esistenza di tribunali deboli siano due eie-
menti che da soli possono fornire ima spiegazione a tutto il fe-
nomeno, rendendo il conflitto religioso una componente non ne-
cessarla della teoria, essendo stata una costante dell'epoca. Un
momento, però. L'immensa importanza del conflitto religioso si
nota non solo nel fatto che fu questo elemento a dare origine al fe-
nomeno, infiammando l'opposizione a qualsiasi forma di non
conformità religiosa percepita, ma anche nella cessazione della
caccia alle «streghe» una volta trovata una soluzione credibile e
duratura al conflitto religioso. E questo ci introduce all'ultima se-
zione del capitolo.

E poi, tutto finì

All'inizio del XVIII secolo, la caccia alle streghe era ormai


finita, tranne che per alcuni casi occasionali in aree remote. Le
normali spiegazioni della fine di questo fenomeno sono insod-
disfacenti tanto quanto quelle sulla sua origine. Abbiamo visto
che l'idea per cui la caccia alle streghe sarebbe un movimento
reazionario infiammato dalla paura di un'im m inente moder-
nizzazione è infondata. Certo, è vero che il collegamento fra
magia e satanismo fu il prodotto del ragionam ento teologico,
ma i tentativi di sopprim ere la magia e la superstizione diffi-
cilmente possono essere considerati degli attacchi all'illumini-
smo o alla m odernità. Inoltre, le menti più illuminate dell'epo‫־‬
ca accettavano l'idea che le «streghe» fossero in com butta con
il Diavolo. Dal mom ento che la caccia alle «streghe» non ebbe
la sua origine dalle ansie per «la dissoluzione della m appa co­
l NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 367

gnitiva medievale», appare anche piuttosto dubbio che la sua


fine sia stata merito del trionfo di una m oderna visione del
mondo.
Eppure, i capitoli conclusivi di molti studi sulla caccia alle
«streghe« dedicano ampie discussioni all'aw ento dei tempi mo-
dem i e al m odo in cui ciò non rese più plausibile il credere all'e-
sistenza di «streghe». Avendo osannato la nascita della scienza,
molti studiosi danno il merito di aver posto termine al fenome-
no ai loro predecessori - intellettuali, autori di libri e articoli nei
quali si rifiutava il concetto del satanismo. È ovvio che questi li-
bri furono scritti, e letti. E sono persino disposto ad ammettere
che alcuni di questi testi abbiano dato un loro contributo per por-
re fine allo spargimento di sangue ma, come vedremo, la tempe-
stiva opposizione intellettuale alla caccia alle «streghe» non può
essere presentata come quella vera voce dell·«Illuminismo» che
alla fine tutti avevano ascoltato. Quell'opposizione intellettuale
importante, che emerse abbastanza presto da poter avere un ef-
fetto sulla caccia alle streghe, provenne da uomini che non pos-
sono essere affatto definiti «modernisti». Per di più, va ricono-
sciuto che i libri - persino quelli non scritti da modernisti - eb-
bero davvero poca influenza sugli eventi del mondo reale. Per
concludere la mia analisi, cercherò dunque di sintetizzare tutti
gli argomenti esposti finora.
La mia spiegazione del motivo per cui vi fu la caccia alle
«streghe» è in realtà una macro-teoria, poiché si applica prima di
tutto a unità sociali relativamente ampie, come società e regioni,
e ha poco da dire sugli eventi avvenuti al microlivello degli in-
dividui o delle piccole comunità. Per esempio, non ho detto qua-
si nulla sul motivo per cui un determinato villaggio abbia avuto
una sua specifica caccia alle «streghe», se non che si trovava in
un'area in cui il fenomeno era presente. Né mi sono dilungato
sul motivo per cui alcune tipologie di persone fossero così adat-
te a essere designate come «streghe». Non ritengo si tratti di que-
stioni di poca importanza, e ora presterò loro la dovuta attenzio-
ne, in quanto parte essenziale della mia spiegazione del motivo
per cui a un certo punto il fenomeno cessò.
368 Λ GLORIA DI DIO

Reti e limiti
Avendo esaminato tutti i casi noti di «grandi» cacce alle
«streghe» nella Germania sudoccidentale, H. C. Erik Midelfort
fece un'osservazione acuta. Le comunità potevano alimentare
delle piccole cacce alle «streghe» più o meno all'infinito - anno
dopo anno, poteva essere processato e giustiziato un certo nu-
mero di persone. Diversamente, le cacce alle streghe di vaste di-
mensioni (definite tali per numero annuale di condannati a
morte superiore ai venti) non potevano essere alimentate di con-
tinuo, e portarono rapidam ente alla fine del fenomeno (Mi-
delfort 1972, p. 191). In altre parole, dopo una rilevante prolife-
razione di esecuzioni, le comunità coinvolte non si attestarono
su un livello inferiore ma, al contrario, posero del tutto fine alle
esecuzioni.
La spiegazione di questo fenomeno che ci viene data da Mi-
delfort è che le grandi cacce alle «streghe» «distrussero ogni sen-
so di comunità», e fecero sì che tutti si sentissero a rischio. Si trat-
tava di una «sensazione sconvolgente», che confutava Timmagi-
ne prevalente di chi poteva essere considerato colpevole, poiché
tutti erano dei potenziali sospetti. Personalmente, sono certo che
Midelfort abbia ragione. Infatti, la sua osservazione è del tutto
coerente con i fondamentali principi sociologici sulla natura del-
la solidarietà di gruppo.
Riducendo la spiegazione all'essenziale, possiamo dire che
tutte le comunità sono costituite da reti sociali, da strutture di re-
lazioni tra le persone. Queste relazioni sono basate su legami fa-
miliari, di vicinato, di amicizia, lavoro, e simili. Le reti sociali so-
no la base di tutta la vita sociale. Esse danno ai membri sicurez-
za, appagamento emotivo, e identità. Forniscono informazioni,
attitudini e risorse sociali. Inoltre, le reti impongono conformità:
certi tipi di comportamento non solo possono costare agli indivi-
dui i loro legami di rete, ma possono far sì che la rete imponga
loro delle punizioni. In una comunità, però, non tutti fanno par-
te di una rete. Ci sono sempre degli individui isolati, o piccoli
gruppi, che non vi appartengono o non si adattano. Tutta la so-
ciologia si basa su qùesti concetti.
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 369

Nei piccoli villaggi europei del periodo in questione, la mag-


gioranza delle persone aveva forti legami all'interno della rete
sociale locale, ma alcune avevano relazioni interpersonali debo-
li, o erano addirittura isolate, a volte dalle circostanze: ad esem-
pio, le vedove anziane, povere e senza figli, così come i mendi-
canti vagabondi, e alcuni anziani, donne e uomini, non sposati.
Altri erano privi di legami sociali perché avevano personalità
sgradevoli, delle cattive abitudini, qualche problema caratteriale
o una cattiva reputazione - fattori, questi, che a volte isolavano
famiglie intere.
La vasta letteratura sull'identità delle persone accusate di stre-
goneria dimostra che la stragrande maggioranza di esse rientra-
va in queste tipologie di persone, isolate, disprezzate, e di cattiva
fama. È stata prestata molta attenzione alla loro maggiore vulne-
rabilità, ma la questione dei costi sociali è stata ampiamente igno-
rata. Giustiziare delle persone isolate non distrugge le reti socia-
li. In effetti, nessuno sente la loro mancanza, e forse molti sono
addirittura contenti che non vi siano più. Diversamente, le accu-
se avanzate contro persone ben inserite nella società non manca-
no di suscitare l'opposizione di coloro che le amano, le rispetta-
no, o ne dipendono. E tali accuse suscitano perciò anche il timore
che «nessuno» sia al sicuro.
La mia ipotesi è che le grandi cacce alle «streghe» affrettaro-
no l'esaurirsi del fenomeno perché finì rapidamente la quota
«poco costosa» delle loro comunità, dopo di che i costi sociali del
proseguimento della caccia salirono rapidamente a livelli inso-
stenibili. Improvvisamente, le persone che erano rimaste a guar-
dare mentre «gli altri» venivano portati via, assunsero un atteg-
giamento piuttosto diverso, poiché il dito venne puntato contro
un «noi». E questo è coerente anche con l'effettiva attenuazione
della caccia alle «streghe» occorsa quando le accuse raggiunsero
persone di status più elevato.
Un supporto a questa interpretazione viene fornito dalla no-
tevole somiglianza dei tassi di mortalità raggiunti in molte pie-
cole comunità nel momento in cui le esecuzioni si placarono.
Nelle otto comunità sulle quali abbiamo dati significativi - ognu­
3 70 A GLORIA DI DIO

na delle quali aveva subito ima grande caccia alle «streghe» e


nessuna delle quali superava i 5000 abitanti, ma anzi la maggio-
ranza era molto più piccola - !'«ossessione per le streghe» cessò
dopo che era stata uccisa circa una persona su venti. Nello speci-
fico: Miltenburg 8%; Obermarchtal e Oppenau: 7%; Gengenbach,
Lindheim, Mergentheim e Rottenburg: 6%; Offenburg: 4% (Mi-
delfort 1972; Lea [1939] 1956, voi. 3).
Questi risultati sono coerenti con diversi studi moderni che si
sono occupati di quella parte di popolazione che in una comu-
nità è relativamente isolata e con una cattiva fama, poiché dalle
ricerche condotte sia in Inghilterra (Farrington 1988) sia negli
Stati Uniti (Wolfgang, Figlio, Sellin 1972) risulta una cifra intor-
no al 6%. Non voglio dire che queste percentuali siano esatte, ma
credo che ci aiutino a capire il fatto che in una comunità c'era so-
lamente un numero limitato di persone che potevano essere ac-
cusate in maniera credibile e con facilità, e che la caccia alle «stre-
ghe» si esaurì quando le accuse iniziarono a estendersi a perso-
ne saldamente integrate nelle reti sociali tradizionali.
La prova diretta di questo fenomeno può essere trovata in
molti resoconti di casi specifici. Per esempio, Henry Charles Lea,
nella sua raccolta di materiali originali pubblicata postuma, citò
uno storico tedesco in merito a una «ossessione per le streghe»
durata due anni nel distretto rurale alpino di Werdenfels:

La popolazione totale era di soli 4700 abitanti, tutti uniti da inatri-


moni, di modo che vi furono solo poche famiglie non colpite, tan-
to più che furono coinvolte donne di tutte le classi. [...] Il giudice
speciale, infine si stancò del lavoro e [...] scrisse alle autorità di
Freising chiedendo che l'azione penale fosse fermata [...] così l'os-
sessione per le streghe ebbe termine, con grande sollievo della po-
polazione, che aveva assediato di petizioni le autorità di Freising
perché ponessero fine a tutto. (Lea [1939] 1956, voi. 3, p. 1125)

Si noti che quelli che ho definito «normali» limiti, in alcuni


piccoli villaggi furono di gran lunga oltrepassati - in pochi casi,
quasi tutta la popolazione fu sterminata dai cacciatori di «stre­
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 371

ghe». Tuttavia, in questi episodi, l'assalto proveniva esclusiva-


mente dall'esterno, ed era molto più simile a un massacro di un
esercito conquistatore o di ima banda di predoni che a un prò-
cedimento giudiziario, e le pressioni dall'interno del villaggio
non avevano nessuna rilevanza. Dobbiamo anche capire che a
volte una caccia alle «streghe» riprendeva in forma intensa lad-
dove una comunità veniva «ripresa» ai protestanti dai cattolici,
o viceversa. Questi continui e radicali cambiamenti di religione
avevano come conseguenze degli scismi all'interno delle reti so-
ciali, e ricreavano così un bacino di vittime «poco costose». An-
zi, laddove il riallineamento religioso implicò uno spargimento
di sangue, le morti crearono nuovi isolati nella parte perdente
della comunità.
Le comunità più grandi a volte riuscirono a mantenere un
numero di morti notevolmente più elevato. Per esempio, a Stra-
sburgo fra il 1615 e il 1635, il 18% della popolazione morì per
«stregoneria». Ma questo è compatibile anche con l'analisi del-
le reti qualora si considerino diversi fattori. Per prim a cosa, le
comunità grandi presentano reti sociali più complesse e multi-
pie, e dunque saranno più lente a rispondere agli attacchi con-
tro pochi appartenenti a una data rete, e gli attacchi contro una
specifica rete non costituiranno una minaccia diretta per la
maggioranza dei residenti. In secondo luogo, le comunità più
grandi probabilmente contengono in proporzione un numero
maggiore di persone isolate e con cattiva fama - infatti, questa
tipologia di individui di solito tende ad andarsene dai villaggi
per vivere nelle città, che poi ne generano di per se stesse di più
(Fischer 1975). Infine, gli autocrati locali in genere si trovano
nei centri più grandi della loro area giurisdizionale. Senza dub-
bio, in com unità governate da un autocrate insolitamente po-
tente, magari particolarmente attivo nella lotta contro le «stre-
ghe», è possibile che vi siano maggiori incursioni nelle reti so-
ciali tradizionali e addirittura fra le élite - il che non vieta che
ciò accada anche nelle comunità piccole, come dim ostrano gli
eccessi del conte Helfenstein a Wiesensteig. Ma anche gli auto-
crati delle città, alla fine, devono affrontare la questione dei li­
372 A GLORIA DI DIO

miti sociali. A questo proposito vale la pena citare una lettera


scritta da un sacerdote di Bonn al conte Werner von Salm, in
una comunità vicina:

A Bonn sono iniziate le violenze e i roghi di streghe [...]. Le vitti-


me delle pire funerarie sono per la maggior parte uomini. Deve es-
sere implicata metà città, poiché sono già stati arrestati professori,
studenti di legge, pastori, canonici, vicari e monaci. [...] Il cancel-
liere, sua moglie e la moglie del suo segretario privato sono già sta-
ti arrestati e giustiziati [...]. Ho visto decapitare e bruciare un ca-
nonico della cattedrale di nome Rotensahe [...]. Per farla breve, la
situazione è così brutta che non si sa con quali persone parlare e
quali frequentare. (In Robbins 1959, pp. 220-221)

Per come la vedo io, a Bonn in quel momento cresceva una


forte pressione contraria, perché l'arcivescovo di Colonia, sotto
la cui autorità stava avvenendo tutto questo, aveva superato i li-
miti sociali del bacino di persone relativamente isolate. E questa
pressione probabilmente svolse un ruolo importante nell'evitare
che la catastrofe fosse ancora peggiore, dal momento che il tutto
stava per avere termine proprio nel momento in cui era stata
scritta la lettera.
Ovviamente, nessuno in queste com unità disse mai che la
caccia alle «streghe» doveva finire perché erano finite le vitti-
me adatte. Piuttosto, quando il terrore si diffuse fra la gente
normale, e soprattutto fra le élite, si iniziarono a mettere in
dubbio le concezioni fondamentali in tema di satanismo. Rite-
nendo piuttosto incredibile che certe persone potessero essere
delle «streghe», la gente iniziò a dubitare della veridicità delle
loro confessioni e della legittimità del procedimento tram ite il
quale venivano estorte. E questo fu un cambiamento di prò-
spettiva cruciale.
Tornerò più avanti sullo svanire della fede nella caccia alle
«streghe», e ora mi si consenta di tornare al macrolivello della
mia analisi, e di esaminare le implicazioni della pace e del diffon-
dersi di stati centralizzati forti.
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 373

La pace
Nel 1648, dopo più di un secolo di spargim enti di sangue,
venne siglata la Pace di Vestfalia. In essa, si proclamava il di-
ritto dei protestanti di vivere la propria fede e si fissavano dei
confini fra territori protestanti e cattolici. Si decise anche che i
prìncipi cattolici avrebbero permesso ai protestanti di dedicar-
si al proprio culto (in privato) all'interno dei loro territori, e
che i prìncipi protestanti avrebbero fatto lo stesso con i cattoli-
ci. Tuttavia, l'accordo copriva un'area molto limitata, in parti-
colare la Germania. I protestanti non ottennero una vera li-
bertà religiosa in Spagna, Portogallo e Italia fino al XX secolo
inoltrato, e alcune restrizioni restano ancora oggi. Per quanto
riguarda la Francia, fino alla fine del 1600 continuarono delle
gravi persecuzioni anti-protestanti, le quali cessarono sola-
m ente quando non rimasero più ugonotti in tutto il paese. An-
che in Inghilterra l'anticattolicesimo persistette, anche se la
caccia ai preti finì.
Nonostante queste limitazioni, il livello generale di conflitto
e, cosa più importante, le ansie associate a questi scontri dimi-
nuirono rapidamente dopo la Pace. E la cosa si verificò soprat-
tutto nei territori protestanti. Come abbiamo già detto parlando
della Norvegia, all'improvviso i protestanti poterono sentirsi al
sicuro. Non ci sarebbero più state Armadas spagnole, le truppe
francesi non sarebbero più intervenute come avevano fatto in
Scozia, e né forze cattoliche né protestanti avrebbero depredato
la regione del Reno. In Svizzera ormai erano al sicuro sia i can-
toni protestanti sia quelli cattolici.
Esattamente come lo scoppio di diversi conflitti religiosi
gravi aveva portato con sé la caccia alle «streghe», così la fine
delle guerre di religione e la stipulazione di trattati di tolleran-
za vi posero termine. Nazione dopo nazione, dopo la Pace di
Vestfalia !'«ossessione per le streghe» svanì. E questo trattato
segnò anche la fine della caccia alle eresie: i valdesi sopravvis-
suti non dovevano più nascondersi. Allo stesso modo, l'ultim o
massacro di ebrei (fino al XX secolo) si verificò a Francoforte,
nel 1614.
374 A GLORIA DI DIO

Stati più forti


Gli accordi politici ebbero come risultato anche degli stati più
forti e centralizzati, capaci di estendere un'autorità efficace an-
che sulle questioni locali. Per esempio, il potente stato di Luigi
XIV estese l'autorità di Parigi annettendo le terre di confine di
Alsazia, Lorena e Franca Contea, oltre che molte città semi indi-
pendenti come Strasburgo. Ciò ebbe un impatto immediato e di-
retto. Robin Briggs ipotizzò che la caccia alle streghe in Lorena
avrebbe potuto continuare «molto più a lungo se non vi fosse
stata la crescita deH'influenza francese» (Briggs 1989, p. 59). In
modo simile, dalla Guerra dei Trent'Anni emerse un'Austria più
forte ed espansionista, capace di incorporare parti del Tirolo
(Barraclough 1982). Per quanto riguarda la Svizzera, l'autorità
divenne molto più centralizzata all'intemo dei vari cantoni, e la
Pace di Vestfalia includeva il riconoscimento formale dell'indi-
pendenza della Confederazione Svizzera.
Un governo centrale più forte ottenne un risultato molto im-
portante: la rapida diffusione della proibizione della tortura per
ottenere delle confessioni (Levack 1995). Di conseguenza, fu ri-
mosso il principale meccanismo che aveva permesso la prolife-
razione della caccia alle «streghe» e l'unica fonte significativa di
prove a favore del satanismo. Le persone isolate, strane, di catti-
va reputazione e sgradevoli non potevano più essere trasforma-
te in «streghe» per loro forzata ammissione.

Scetticismo
Quando i timori legati al conflitto religioso svanirono, e quan-
do la proibizione della tortura mise fine al sistema delle confes-
sioni estorte, la consapevolezza delle terribili ingiustizie della
caccia alle «streghe» iniziò a diffondersi piuttosto rapidamente
fra le élite europee. E ciò fu particolarmente stimolato dall'espe-
rienza diretta di grandi persecuzioni, placatesi dopo che le accu-
se erano state estese a cittadini chiaramente eccellenti, rove-
sciando così le idee sulle caratteristiche esteriori delle «streghe».
Come ha osservato Keith Thomas, «bastava essere testimoni ocu-
lari di accuse palesemente ingiuste per credere alla necessità di
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 375

esercitare maggiore cautela in futuro. I più importanti autori


scettici, quasi senza eccezione, sembrano essere stati spinti alla
pubblicazione da ima conoscenza personale di casi di questo ti-
po» (Thomas 1971, p. 576).
Ed esattamente come i processi alle «streghe» avevano stimo-
lato molti trattati sui sistemi di smascherarle, il declino di tali prò-
cessi ispirò subito nuove opere che negavano l'esistenza delle
«streghe». Brian Levack le acclama come parte di «una rivoluzio-
ne intellettuale che distrusse la Scolastica [...] e [...] dissolse mol-
te delle credenze che stavano alla base dei procedimenti giudizia-
ri contro la stregoneria» (Levack 1995, p. 240). Eppure, queste
espressioni di scetticismo, lungi dall'aver posto fine alla caccia al-
le «streghe», giunsero troppo tardi e riuscirono solamente a con-
sentire agli studiosi successivi di discolpare, con argomenti privi
di fondamento, gli intellettuali secolari, incolpando della caccia al-
le «streghe» la Scolastica e altri fuorviati «credenti». In verità, le
prime opere significative di opposizione intellettuale alla caccia al-
le «streghe» giunsero da: 1. un inquisitore spagnolo, nel 1549; 2. un
medico tedesco che credeva nelle «streghe», nel 1563; 3. un ingle-
se profondamente superstizioso, nel 1584; 4. un altro inquisitore
spagnolo nel 1612; seguito, nel 1631, da 5. un gesuita che aveva
preso parte ai roghi di «streghe». Tutti gli altri scrissero molto do-
po che la stregoneria era diventata una questione discutibile,
quando era, al massimo, solamente una questione di opportunità.
Fu l'inquisitore Francisco Vaca il primo a muovere un attacco
pubblico diretto contro la persecuzione delle «streghe» 13, quan-
do, nel 1549, fu mandato dalla Suprema a indagare su un caso di
rogo di «streghe» a Barcellona. Ho già citato questo episodio par-
landò della Spagna. Benché Vaca non negasse l'esistenza delle
«streghe», egli riteneva che fossero creature estremamente rare,
senza nessuna somiglianza con gli sfortunati arrestati dalle au-
torità locali. Dunque, il rapporto da lui presentato fu descritto da
Henry Kamen come «uno degli atti d'accusa contro la persecu-
zione delle streghe più schiaccianti che siano mai stati registrati»
(Kamen 1993, p. 238). E visto il suo effetto sulle successive poli-
tiche dell'Inquisizione spagnola, fu di sicuro importante!
3 76 A GLORIA DI DIO

Il secondo attacco significativo contro i processi per stregone-


ria è stato ripetutamente citato come prova del fatto che delle pri-
me voci deiriUuminismo si fossero sollevate in protesta. Anzi, E.
William Monter ha definito il libro di Johann Weyer, De praestigiis
daemonum, pubblicato nel 1563, la «critica più radicale ed esausti-
va dell'opinione convenzionale sulle streghe e sulla stregoneria
che sia apparsa nel XVI secolo». E continuava affermando che
«Weyer fu l'unico importante critico del XVI secolo a negare la
realtà del presunto patto delle streghe con il Diavolo» (Monter
1976, pp. 32-33). Beh, non è proprio così. Weyer accettava com-
pletamente l'esistenza di patti con il Diavolo; egli sostenne addi-
rittura di aver personalmente impedito al Diavolo di volare via
con una vergine (Robbins 1959). La sua «critica» consistette nel
denunciare il ìatto che le «vecchie megere», che molto spesso ve-
nivano accusate di patti satanici, erano solamente «possedute» e
«ingannate» da Satana, poiché solamente degli stregoni molto po-
tenti potevano intrattenere determinati rapporti con il Diavolo.
Così, benché di sicuro non fosse ima voce dell'illuminismo (nem-
meno con l'iniziale minuscola), comunque Weyer condannò con
vigore la tortura. «Questa crudeltà viene perpetrata fino a quan-
do anche i più innocenti sono costretti a confessarsi colpevoli.» E,
avendo assistito alle impietose cacce alle «streghe» lungo il Reno,
condannò risolutamente i cacciatori di «streghe»:

Ma quando apparirà il grande cercatore di cuori, a cui nulla è na-


scosto, le vostre azioni malvagie saranno svelate, voi tiranni, giù-
dici sanguinari, macellai, torturatori e ladri feroci, che avete getta-
to via l'umanità e non conoscete misericordia. Così io vi convoco
davanti al Sommo Giudice, che deciderà fra noi, dove la verità che
avete calpestato e seppellito risorgerà e vi condannerà, chiedendo
vendetta per la vostra disumanità. (In Robbins 1959, p. 540)

La terza voce significativa che si era sollevata contro la caccia


alle «streghe» fu quella di Reginald Scot, che pubblicò The Disco-
verie of Witchcrafl [«La scoperta della stregoneria», N.d.T.] nel
1584. Rossell Hope Robbins sostenne che «Scot non scrisse per
/ NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 377

consigliare giudici o teologi ma per mettere in ridicolo la strego-


neria agli occhi del pubblico». E citò con approvazione Henry C.
Lea, secondo il quale il libro di Scot «ha l'onore di essere la pri-
ma delle opere polemiche che negarono con risolutezza l'esi-
stenza della stregoneria e il potere del Diavolo» (Robbins 1959, p.
454). Il libro di fatto ridicolizzava l'idea per cui Satana avrebbe
avuto bisogno di «uno strumento non adatto» come «una donna
vecchia, senza denti, impotente e impacciata nel volare in aria»,
dal momento che «il Diavolo non ha certo bisogno di simili stru-
menti per ottenere i propri scopi» (Scot [1584] 1972, pp. 7-8).
Piuttosto, «il Diavolo entra davvero nella mente, e in tal modo
cerca di confondere l'uomo». In dubbio, dunque, non è l'esisten-
za del Diavolo, ma la credibilità delle affermazioni relative alle
sue attività. Il libro di Scot, in effetti, è un attacco pungente con-
tro il ricorso alla tortura per dimostrare il satanismo, ma di certo
non è un precursore della nuova «prospettiva mentale» alla qua-
le Levack dà il merito di aver posto fine all'era della stregoneria
(Levack 1995, p. 239). Infatti, nel libro si asseriscono le proprietà
magiche del corno di un unicorno e di varie pietre preziose.
Robbin Briggs ha definito Alonso de Salazar y Frias «l'inqui-
sitore sorprendentemente acuto» (Briggs 1998, p. 407). Ed era ve-
ro. Inviato dalla Suprema per indagare sul rogo non autorizzato
di sei «streghe» a Logrono nel 1610, Salazar passò più di un an-
no nella zona interrogando gli abitanti e invitandoli a ripudiare
i loro errori (per lo più concernenti magia e superstizione) Alla
fine della sua missione, Salazar riferì di aver fatto riconciliare
con la Chiesa 1802 persone. Come abbiamo visto esaminando la
situazione della Spagna, riferì anche i risultati negativi della sua
indagine sulla stregoneria:

Non ho trovato il minimo indizio che permetta di dedurre che un


singolo atto di stregoneria sia realmente avvenuto. In effetti, i miei
sospetti precedenti sono stati rafforzati da nuovi elementi di prova
tratti dalla visita: che la prova costituita solo dagli imputati, senza
prove esterne, non è sufficiente a giustificare l'arresto. (In Kamen
1997, p. 274)
3 78 A GLORIA DI DIO

E continuava suggerendo di fare degli sforzi per evitare ogni


discussione pubblica su questo tema; soprattutto, si doveva evi-
tare di predicare contro la stregoneria nei sermoni, perché aveva
scoperto «che non vi erano né streghe né persone stregate finché
non se ne parlava loro o non se ne scriveva». Né Salazar né la Su-
prema dichiararono che non esisteva la stregoneria, ma se il loro
punto di vista sugli elementi di prova fosse prevalso più a nord,
sarebbero state risparmiate decine di migliaia di vite.
E, infine, il gesuita. Friedrich von Spee visse per tutta la sua
vita nella regione centrale dell'«ossessione per le streghe». Egli
nacque vicino a Colonia, dove frequentò il collegio dei Gesuiti,
poi studiò filosofia a Wurzburg, e in seguito teologia a Magonza;
nel 1627 divenne professore a Wurzburg. Ognuno di questi luo-
ghi fu testimone di feroci cacce alle «streghe». Poco dopo che pa-
dre Spee ebbe la sua cattedra a Wurzburg, vi fu un periodo di
straordinaria recrudescenza del fenomeno, durante il quale an-
darono al rogo circa 900 «streghe». Padre Spee fu il confessore di
molti imputati e li accompagnò al supplizio finale. Egli capì pre-
sto quali fossero i risultati catastrofici delle confessioni estorte
sotto tortura, e nel 1641 scrisse un potente atto d'accusa, Cautio
criminalis. Come spiegava:

Gli innocenti zeloti che incoraggiano la caccia alle streghe dovreb-


bero capire che, dal momento che i torturati devono denunciare
qualche persona, i processi diventeranno sempre più numerosi, fino
a quando le accuse cingeranno anche loro, e alla fine tutti saranno
bruciati [...] una persona innocente, obbligata dalla tortura a con-
fessare una colpa, è costretta a denunciare altri, di cui non sa nulla;
e così faranno anche costoro, dunque difficilmente accusatori e ac-
cusati cesseranno di danneggiarsi reciprocamente e, se nessuno osa
ritrattare, saranno tutti marchiati a morte. (In Robbins 1959, p. 480)

Il libro di padre Spee apparve in sedici edizioni (comprese


molte traduzioni) nel secolo successivo. Ed ebbe la sua impor-
tanza. A esso si dà il merito di aver fatto sì che le truppe svedesi
avessero un'influenza moderatrice sui processi per stregoneria
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 379

durante la Guerra dei Trent'Anni (il libro, infatti, era stato letto
dalla regina Cristina) e dell'aver fatto sì che l'elettore di Magon-
za ponesse fine ai processi nelle zone sotto il suo controllo. Le ar-
gomentazioni di Spee furono anche adottate e promulgate dal-
l'Inquisizione romana (Midelfort 1972). Tuttavia, né padre Spee
né i suoi colleghi a Roma dubitavano del fatto che Satana fosse
ima costante fonte di miseria umana, o pensavano che la strego-
neria non esistesse. Piuttosto, come ha osservato Keith Thomas,
«Ciò che li influenzò non era la negazione della possibilità della
stregoneria in quanto tale, ma una superiore consapevolezza del-
la difficoltà logica del dimostrarla nei casi specifici» (Thomas
1971, p. 573).
Diversamente, quando iniziarono a essere espressi dei dubbi
sull'effettiva esistenza della stregoneria, era ormai troppo tardi
perché avessero importanza. Per esempio, Balthasar Bekker
spesso viene citato per aver negato l'esistenza stessa del Diavo-
lo. Nel suo The World Bewitched [«Il mondo stregato», N.d.T.]
scrisse che in quanto «monoteista, credente in un solo Dio» non
poteva «pensare che vi fossero due dei, uno buono e uno malva-
gio». E disse anche che la stregoneria era stata inventata dai cat-
tolici «per riempire le tasche del clero» (in Robbins 1959, p. 45).
Ma scrisse solamente nel 1691. Allo stesso modo, Christian Tho-
masius, rettore dell'Università di Halle - e anche lui spesso cita-
to per aver contestato i dogmi che stavano alla base della ere-
denza nella stregoneria - pubblicò i suoi scritti solo nel 1701: ben
un secolo e mezzo dopo Francisco Vaca.
Infine, è buona cosa osservare che la nascita della scienza of-
fri delle spiegazioni naturali a quei fenomeni che in precedenza
venivano attribuiti a spiriti. Tuttavia, come ho chiarito nel capi-
tolo precedente, è una spiacevole sciocchezza «liberale» il soste-
nere che la fine della caccia alle «streghe» si dovette al «trionfo
della cosmologia meccanicista dell'Europa di fine XVII secolo»
(Monter 1976, p. 39), oppure che tale «filosofia meccanicista rap-
presentò una seria minaccia per la fede religiosa» e dunque sere-
dito i «miracoli, l'efficacia delle preghiere, l'opera della Divina
Provvidenza e persino l'esistenza di Dio» (Levack 1995, p. 241).
380 A GLORIA DI DIO

Le credenze sulla stregoneria e le conseguenti persecuzioni non


furono superate dall'avvento di un'era di scienza e ragione.
Niente affatto! Proprio come i loro predecessori avevano consi-
derato il satanismo come un meccanismo che governava la ma-
già tradizionale non legata alla Chiesa, furono sempre degli sco-
lastici profondamente devoti e ben istruiti a sradicare queste
convinzioni dal loro fondamento probatorio, rispondendo alle
evidenze dei loro sensi.

Perché non accadde nulla di tutto ciò nel mondo islamico?

La caccia alle «streghe» non si verificò nel mondo islamico no-


nostante il fatto che la cultura islamica sia satura di magia e di ere-
denze in diavoli e spiriti maligni (Zwemer 1921) e che la teologia
musulmana riconosca il potere degli stregoni di fare del male agli
altri. Anzi, secondo la legge islamica, la morte è la giusta pena per
la stregoneria (Abdurrahman 2000). Però nel mondo islamico non
si sviluppò mai la credenza nel satanismo e in una rete diffusa e
pericolosa di agenti del Diavolo. Le preoccupazioni in merito alla
stregoneria rimasero al livello del timore cronico associato alla ere-
denza nelle «streghe» delle società non cristiane. Perché? In primo
luogo perché l'islam si accontentava di perdonare la pratica diffu-
sa della magia, perché non rappresentava nessuna minaccia per il
dominio politico musulmano e perché molte di queste pratiche
erano comprese nel Corano (Zwemer 1921). In secondo luogo per-
ché Maometto aveva fornito alle persone gli strumenti per essere
del tutto al sicuro da ogni forma di magia e stregoneria. I musul-
mani credono che recitando le ultime frasi del Corano dopo le cin-
que preghiere quotidiane si neutralizzino tutte le forze malvagie.
Infine, l'islam non sviluppò la concezione di satanismo per la stes-
sa ragione per cui non sviluppò la scienza: i teologi musulmani
non erano così dediti alla ragione e alla razionalità. Di conseguen-
za, mentre i teologi cristiani non potevano accontentarsi della
semplice constatazione che la magia «funzionava», i loro colleghi
musulmani potevano, e di fatto lo fecero. E questo è l'ultimo
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 381

aspetto fatalmente ironico della caccia alle «streghe» europea: es-


sa fu il risultato della ragione e della logica applicate a una falsa
premessa.

Conclusione

Nel capitolo 2 abbiamo visto come il ragionamento teologico


abbia portato a uno dei più grandi successi dell'umanità: la na-
scita della scienza. Qui, abbiamo visto come lo stesso processo
abbia avuto come risultato alcuni dei periodi più bui della so-
cietà occidentale, e come non siano stati degli sciocchi a diffon-
dere la cultura della stregoneria, ma le migliori menti dell'epoca.
Il prossimo capitolo introduce un'altro fatto sorprendente e irò-
nico che riguarda la ragione e la teologia: nessuna figura del 1500
denunciò la schiavitù più aspramente di Jean Bodin, imo dei più
veementi sostenitori francesi della caccia alle «streghe». E fu Sa-
muel Sewall, uno dei giudici che nel 1692 condannarono le stre-
ghe di Salem, a scrivere in seguito il primo trattato teologico con-
tro la schiavitù pubblicato in America.

1Il più importante è la storia in tre volumi dell'Inquisizione francese a ope-


ra di Étienne-Léon de Lamothe-Langdon (1829), nella quale si sostiene che
a Tolosa e Carcassonne vi furono almeno un migliaio di processi per stre-
goneria, oltre che un numero immenso di esecuzioni, fra il 1320 e il 1350.
A conferma di ciò, vengono inclusi lunghi brani tratti dai documenti uffi-
ciali del tribunale. Gli studiosi successivi hanno considerato l'opera come
«il più importante corpus unico di fonti per tutti i processi alle streghe
d'Europa» (Kieckhefer 1976, p. 16). Mi sembra incredibile che siano pas-
sati quasi 150 anni prima che qualcuno si chiedesse come potevano esser-
vi tutti questi processi in queste città, quando altrove in pratica non ve n'e-
rano, oppure perché tutti i documenti originali citati da Lamothe-Lang-
don fossero «scomparsi» prima che qualcuno potesse vederli, oppure an-
cora cosa implicava l'utilizzo anacronistico di termini che non sarebbero
entrati nell'uso comune se non molto tempo dopo la data dei presunti ma­
382 A GLORIA DI DIO

noscritti, o come mai Lamothe-Langdon era noto per aver prodotto un cer-
to numero di altre falsificazioni, come le finte memorie di celebrità del
XVIII. Solamente a metà degli anni '70, gli studiosi che si occupavano di
stregoneria lo capirono. Norman Cohn (1975 e 2000) e Richard Kieckhefer
(1976) si meritano delle congratulazioni per aver messo in luce queste fai-
sità, che hanno fatto sì che moltissimo lavoro accademico andasse spreca-
to nel tentativo di verificare cose mai accadute.
2Il totale di nove milioni di morti può essere fatto risalire a Matilda Joslyn
Gage, in ]Nomati, Church and State, un'opera dei primi tempi del femmini-
smo pubblicata nel 1893. Sembra che la cifra sia più un'intuizione, poiché
l'autrice non offre alcuna prova a suo sostegno, ma da quel momento in
poi è sopravvissuta, spesso senza citazione specifica - Andrea Dworkin
(1974, p. 130) si limita per esempio a definirla «la stima più affidabile».
Beh, proprio così!
3Supponendo che nell'Europa dell'epoca vi fosse una popolazione media
di 35 milioni di persone (Russell 1958) e che, in base all'aspettativa di vita
prevalente, la popolazione triplicasse in un secolo, questa proporzione si-
gnifica che 315 milioni di persone correvano il rischio di essere giustiziate
per stregoneria.
1In quella che è la caccia alle «streghe» più attentamente studiata e docu-
mentata, 162 persone furono accusate di stregoneria a Salem, nel Massa-
chusetts. Di queste, 76 furono processate, 30 condannate, e 20 giustiziate
(Levack 1995).
5Trethowan (1963, p. 341) esprime la propria sorpresa per la «notevole so-
miglianza» fra le discussioni della «psicopatologia» dell'impotenza nel
Malleus maleficarum e quelle proposte da lui e dai suoi colleghi freudiani.
Per chiunque non fosse un vero credente basterebbe questo per iniziare
una seria riflessione sul valore scientifico della psicanalisi.
6Questa è una falsità tanto quanto quelle in merito alla Terra piatta o al-
l'opposizione della Chiesa alla dissezione umana. Per esempio, nel 1619,
Pere Gii, rettore del Collegio gesuita di Barcellona, diede voce alla posizio-
ne cattolica ufficiale sostenendo che l'idea che le «streghe» potessero cau-
sare il maltempo era una superstizione eretica, dal momento che solamen-
te Dio poteva intervenire sulle cause naturali delle tempeste (Kamen 1993,
p. 241). White aveva ragione nel sostenere che molte «streghe» furono con-
dannate per aver causato grandinate e altri fenomeni di maltempo, ma ciò
avvenne in tribunali locali secolari, oppure a causa di un clero ignorante e
isolato, essendo una posizione contraria alla dottrina della Chiesa.
7William Shakespeare (1564-1616) credeva nelle «streghe», e come lui il
I NEMICI DI DIO: UNA SPIEGAZIONE DELLA CACCIA ALLE STREGHE 383

suo pubblico (Harris 1980; Willis 1995). Albrecht Durer (1471-1528) fece
del suo meglio per creare dei ritratti accurati di «streghe» che svelassero le
loro anime mostruose.
“Hobbes non credeva che le «streghe» possedessero davvero dei poteri so-
prannaturali, ma dava per scontato che credessero di averne e che cercas-
sero di usarli, motivo per cui erano da considerarsi colpevoli. Questo pun-
to di vista lascia intatto il suo ateismo, certo, ma non lo qualifica come «il-
luminato».
, Incredibilmente, dopo essersi dilungate a lungo sul suo libro di teoria po-
litica, oggi ampiamente dimenticato e ignorato, nelle loro voci su Bodin
sia YEncyclopaedia Britannica sia la New Columbia Encyclopaedia non fanno
menzione di quest'opera, che fu di gran lunga la più influente.
10La condanna delle pozioni amorose come interferenze nella libertà di
scelta, e dunque come forma di violazione, è in sostanza identica alle de-
nunce che oggi vengono mosse contro la «droga dello stupro».
11Norman Davies (1996) ha trattato in maniera estesa il declino deU'Impe-
ro ottomano nel XIX e nel XX secolo, ma non queste importanti campagne.
12Robin Briggs (1989, p. 20) suggerisce di «considerare l'intero fenomeno
come risultato naturale di tendenze potenti all'intemo sia del mondo cri-
stiano, sia dello sviluppo di una cultura superiore, e di concentrarci sulla
spiegazione del motivo per cui le cose non andarono molto peggio, piut-
tosto che sul motivo per cui avvennero».
13Sono certo che anche altri abbiano obbiettato alla caccia alle «streghe» in
precedenza, ma non se ne trova menzione nella letteratura sull'argomen-
to. Ho omesso Michel de Montaigne perché il suo «attacco» nei saggi è as-
sai ellittico, e ammonta a poco più di una riga. Benché sia stato celebrato
da chi sostiene la tesi che furono gli umanisti a salvare l'Europa da ulte-
riori cacce alle «streghe», va sottolineato che non va oltre a un «dopo tut-
to è mettere le proprie congetture a ben alto prezzo il volere, per esse, far
arrostire vivo un uomo».
Capitolo 4

La Giustizia di Dio: il peccato della schiavitù

Gli indiani e tutte le altre genti [...] possono


usare in modo libero e lecito della propria li-
berta e del possesso delle proprie proprietà; [...]
non devono essere ridotti in servitù e [ . . . ] tut-
to quello che si è fatto e detto in senso contrario
è senza valore.
Papa Paolo ΙΠ (2 giugno 1537)

Come per la nascita della scienza, così anche per l'opposizio-


ne morale alla schiavitù fu essenziale la teologia cristiana.
Con questo, non voglio negare che i primi cristiani accettas-
sero in qualche modo la schiavitù. Tuttavia, va riconosciuto che
fra tutte le religioni del mondo, compresi i tre grandi monotei-
smi, solo nel cristianesimo si sviluppò l'idea che la schiavitù fos-
se un peccato e dovesse essere abolita. Benché sia ima moda ne-
garlo, le dottrine antischiaviste iniziarono a comparire nella teo-
logia cristiana poco dopo il declino di Roma e ottennero la defi-
nitiva scomparsa della schiavitù ovunque, tranne che ai margini
dell'Europa cristiana. Quando successivamente gli europei isti-
tuirono la schiavitù nel Nuovo Mondo, lo fecero nonostante la
strenua opposizione papale, un fatto questo che è stato dimenti-
cato nella storia, per motivi di convenienza ideologica, fino a
epoche recenti. Infine, l'abolizione della schiavitù nel Nuovo
Mondo fu un'im presa avviata e portata a termine da attivisti cri-
stiani.
386 A GLORIA DI DIO

Queste sono le tematiche principali che svilupperò in questo


capitolo, insieme ad altre due questioni molto importanti. Per
prima cosa, l'eccessiva adesione al «politicamente corretto» non
ha fatto altro che cancellare il fatto che la schiavitù un tempo fos-
se praticamente universale per tutte le società in grado di per-
mettersela, e che solo in Occidente nacque ima significativa op-
posizione di natura morale che portò alla sua abolizione. Pur-
troppo, quando trattano della schiavitù, i libri di testo danno
l'impressione che si sia trattato di un vizio specificamente euro-
peo, e soprattutto americano, e non parlano dell'estensione del-
la schiavitù in epoche passate, o delle notevoli dimensioni del fe-
nomeno che tuttora persiste in molte parti del mondo non cristia-
no (Bales 1999). Anzi, fra le molte migliaia di libri sulla schiavitù
attualmente pubblicati (una ricerca per argomento su Amazon
mi ha dato come risultato 2680 titoli), praticamente non ci sono
storie generali o studi comparativi di una certa portata. Invece,
nella maggioranza di essi, gli autori si limitano a trattare la schia-
vitù nel Nuovo Mondo, e spesso circoscrivono il loro interesse a
uno stato o anche solamente a una città, o a una contea, o a una
piantagione. Di conseguenza, per comporre questo capitolo, so-
no stato costretto a un grande sforzo di sintesi.
Una seconda ragione per cui ho deciso di scrivere questo ca-
pitolo è il fatto che un gruppo di storici revisionisti incredibil-
mente influenti ha tentato non solamente di negare che la reli-
gione svolse il ruolo principale nel sostenere il movimento an-
tischiavista, ma anche di sostenere che essa non ne fece parte -
e che la retorica religiosa degli abolizionisti fosse o «falsa co-
scienza» o una maschera dietro cui si nascondeva un tornacon-
to economico.
Ciò che segue, dunque, è un tentativo di dire come stanno
davvero le cose. Una sintesi della storia complessiva della schia-
vitù mi permetterà di analizzare la connessione esistente fra le
diverse religioni e la schiavitù nelle diverse epoche, così da riu-
scire a dimostrare il motivo per cui fu solamente la teologia cri-
stiana, con l'eccezione di un certo numero di sette ebraiche, a svi-
luppare una prospettiva abolizionista. Poi esaminerò la diffusio­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 387

ne nella società dell'opposizione teologica alla schiavitù e la


creazione di movimenti sociali antischiavisti veri e propri. De-
scriverò quindi l'incapacità di filosofi e moralisti non religiosi o
anti-religiosi de1r«Illuminismo>> di opporsi efficacemente alla
schiavitù. Infine, smonterò la tesi che fu solamente l'economia a
porre fine alla schiavitù e che tutti i riferimenti a Dio e al pecca-
to furono irrilevanti.

Un breve sguardo d'insieme sulla schiavitù

Uno schiavo è un essere umano che, per il diritto e la consue-


tudine, è una proprietà, o un bene mobile, di un altro essere
umano o di un piccolo gruppo di esseri umani. La proprietà di
schiavi comporta il controllo assoluto, incluso il diritto di puni-
zione (spesso comprendente anche il diritto di vita e di morte),
di dirigerne i comportamenti e di trasferirne la proprietà. Le mo-
dalità primarie mediante le quali le persone diventano schiave
sono nascita, cattura, vendita da parte di genitori o famigliari, e
procedimento giudiziario - i criminali e i debitori spesso sono
stati condannati alla schiavitù.
Come vedremo, non solo la schiavitù è stata una caratteristi-
ca quasi universale della «civiltà», ma era anche comune in un
certo numero di società «aborigene» sufficientemente ricche da
potersela permettere - per esempio, la schiavitù era un fenome-
no prevalente fra i nativi americani delle regioni nordoccidenta-
li (Donald 1997). L'esistenza della schiavitù è funzionale alla prò-
duttività umana. Quando i costi del mantenimento e del controllo
gli schiavi sono più che ripagati dalla loro capacità produttiva, ci sarà
ima dom anda di schiavi. NeU'economia delle piantagioni del
Nuovo Mondo, come nel mondo antico, gli schiavi erano lette-
ralmente i mezzi di produzione fondamentali. Tuttavia, quando
alcuni membri della società sono sufficientemente benestanti, la
schiavitù può anche esistere principalmente come forma di con-
sumo, con schiavi utilizzati in ruoli non produttivi, come dome-
stiri personali, concubine, intrattenitori e persino guardie del
388 A GLORIA DI DIO

corpo. «La schiavitù di consumo» era la forma tipica nel mondo


islamico.
Il termine «schiavo» è una forma corrotta della parola «sla-
vo», poiché i popoli slavi erano una normale fonte di approvi-
gionamento degli schiavi per gli europei (anche la parola araba
per «schiavo» è una corruzione del termine arabo per «slavo»).
Questo fatto ha un'im portanza che va ben al di là dell'etimolo-
già, perché ci permette di capire che spesso la schiavitù non im-
plicava le differenze razziali. Storicamente, la maggioranza degli
schiavi era identica ai padroni dal punto di vista razziale, benché
di solito appartenesse a ima comunità o gruppo etnico diversi.
Così la maggior parte degli schiavi cinesi erano cinesi, o asiatici.
Gli antichi ateniesi avevano principalmente schiavi greci di altre
città-stato o «stranieri» di analoga provenienza etnica, e gli schia-
vi fra i nativi americani della costa settentrionale provenivano in
maggioranza da altre tribù vicine - anche se dopo l'arrivo degli
europei nel Nord America, alcuni di loro finirono come schiavi
dei Makah e dei Mowachaht (Donald 1997).
Esiste una logica inerente alle condizioni imposte agli schiavi
(Patterson 1982). Perciò, benché sia molto più antica delle pira-
midi, la schiavitù ha sempre assunto forme simili, persino in so-
cietà assai remote. Per delineare gli aspetti fondamentali del fe-
nomeno, mi sembra utile cominciare questa indagine con un esa-
me della schiavitù che esisteva tra le tribù della costa nordocci-
dentale del Nord America.

La schiavitù tra i nativi americani della costa nordoccidentale


Generazioni di antropologi hanno liquidato la schiavitù tra i
nativi della costa nordoccidentale come un fenomeno insignii!‫־‬
cante e, anche quando ammettevano la sua esistenza, la ritene-
vano piuttosto diversa dalla «vera» schiavitù dei neri negli Stati
Uniti del Sud. Franz Boas scrisse che «le tribù della costa del Pa-
cificQ sono divise in nobili, gente comune, e schiavi», ma scelse
di non considerare nella sua analisi gli schiavi «dal momento che
non sono parte integrante del clan» (Boas 1897, p. 338). Edward
Curtis ammise che la schiavitù «era saldamente presente tra i Sa-
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 389

lish della costa», ma negò che «le immagini strazianti che quella
parola ci riporta in mente abbiano [una qualche] connessione con
l'istituzione esistente tra le tribù indiane di questa regione». E
continuava sostenendo che gli schiavi «non lavoravano più stre-
nuamente dei membri liberi delle classi più basse», e che «in ge-
nerale si può dire che gli schiavi erano trattati molto bene» (Cur-
tis 1913, p. 74). Più di recente, Morton Fried (1967, pp. 220-223)
ha espresso la sua contrarietà all'uso del termine «schiavo» in ta-
le contesto, ritenendo più esatto fare riferimento a queste perso-
ne come a «prigionieri», dal momento che «lo status definito
"schiavitù" nelle culture della costa nordoccidentale mostra
scarsa somiglianza con quello associato alle società stratificate»
(beh, quale sociologo competente potrebbe accettare l'idea che
esista una società non stratificata?). Inoltre, questi «prigionieri»
erano «pochi», principalmente «donne e bambini». Infine, Ro-
nald ed Evelyn Rohner, nella loro lunga monografia sui Kwakiu-
tl, affermarono: «Un tempo anche i Kwakiutl avevano degli
schiavi che erano di solito prigionieri di guerra di altre tribù. Gli
schiavi contribuivano poco al sistema sociale tradizionale, confe-
rivano soltanto prestigio ai loro possessori; non presteremo loro
ulteriore attenzione» (Rohner, Rohner 1970, p. 79).
Queste considerazioni superficiali dominarono il sapere con-
venzionale in materia così a lungo e in misura tale che nei ma-
nuali universitari per la laurea di primo livello sui nativi norda-
mericani1non si parla nemmeno di schiavitù, né ne fa cenno l'o-
pera The Smithsonian Book of North American Indians, pubblicata
nel 1986. Fortunatamente, fin da subito alcuni studiosi racconta-
rono la verità sulla schiavitù praticata dalle varie tribù delle co-
ste nordoccidentali: si trattava di vera schiavitù in tutti i suoi
aspetti, che imponeva condizioni brutali a un numero considere-
vole di persone (si veda MacLeod 1925 e 1928; Nieboer 1910;
Ruby, Brown 1993; Ruyle 1973; Siegei 1945). Nel 1990 persino lo
Smithsonian era pronto a riconoscere che presso i nativi nordoc-
cidentali veniva praticata una vera schiavitù e a scartare «la vi-
sione convenzionale [...] secondo la quale gli schiavi erano solo
dei beni di prestigio» che «vivevano bene come i loro padroni»
390 A GLORIA DI DIO

(Suttles, Jonaitis 1990, p. 87). Poi, nel 1997, fu pubblicato uno stu-
dio generale definitivo, Aboriginal Slavery on thè Northwest Coast
of North America [«Schiavitù aborigena sulla costa nordocciden-
tale del Nord America», N A T .], di Leland Donald. Quest'opera
imponente documentò i seguenti fatti.
Per quanto riguarda il loro numero - considerato esiguo da-
gli studi precedenti - in realtà gli schiavi costituivano un terzo
della popolazione in alcuni villaggi, e dal 15 al 25% in molti al-
tri. Non erano certo di scarsa, o nulla, rilevanza economica, ma
«la loro forza lavoro era molto importante in numerose attività
di sussistenza», e il commercio degli schiavi aveva un ruolo rile-
vante nell'economia di alcune tribù. In tutte queste culture in-
diane, la schiavitù era «considerata vergognosa e degradante».
Invece che essere limitata a pochi prigionieri, la condizione di
schiavo era ereditaria - «I figli degli schiavi erano schiavi» - e so-
lo molto raramente i proprietari liberavano uno schiavo. Quan-
do Boas aveva eliminato in maniera così drastica gli schiavi dal
suo studio perché non appartenevano ad alcun clan, si era di-
menticato di dire che proprio per questo motivo non avevano di-
ritti o privilegi di alcun tipo. Spesso venivano venduti o ceduti.
«I padroni esercitavano un controllo fisico assoluto sui loro
schiavi, e potevano anche ucciderli qualora lo desiderassero.» E
spesso i padroni sceglievano di uccidere gli schiavi anziani e am-
malati, così come i ribelli. Infine, gli schiavi spesso venivano uc-
cisi nei sacrifici rituali, soprattutto durante il funerale del loro
padrone, di modo che questi potesse usufruirne nel mondo a ve-
nire, e mostrare intanto la sua ricchezza a chi rimaneva (Donald
1997, pp. 33-34).
Questo per quanto riguarda i tentativi di escludere dal nove-
ro delle società schiaviste i «buoni selvaggi» del nordovest. Co-
me illustrato in precedenza, erano presenti in quest'area geogra-
fica tutte le caratteristiche fondamentali della schiavitù. Per
quanto concerne la base economica della schiavitù in queste so-
cietà, nello suo studio classico H. J. Nieboer sostenne in modo
convincente che essa si fondava sull'abbondanza naturale (Nie-
boer 1910). Lungo la costa nordoccidentale bastava un piccolo
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 392

sforzo per ottenere più cibo di quanto se ne potesse mangiare 2:


immense foreste di alberi di cedro fornivano tronchi facilmente
lavorabili per barche e abitazioni, i boschi e il mare abbondava-
no di mammiferi da pelliccia, e il clima era mite tutto l'anno. Di
conseguenza, in queste condizioni uno schiavo poteva risultare
altamente produttivo, e alcune persone potevano benissimo per-
mettersi degli «schiavi di consumo».

Grecia e Roma: società schiaviste


Nel capitolo 1 abbiamo visto come, a partire dal XV secolo cir-
ca, gli umanisti aspirassero ardentemente a raggiungere le glorie
della Grecia e di Roma. Nell'affermare la superiorità dell'età
classica, la maggior parte degli umanisti sembrò indifferente al
fatto che si trattasse di società schiaviste. Edward Gibbon definì
l'essere schiavo a Roma «una condizione infelice», ma sostenne
che, a causa delle frequenti «insurrezioni» degli schiavi, il «trat-
tamento crudele» riservato loro era «quasi giustificato dalla
grande legge dell'autoconservazione» (Gibbon [1776] 1994, voi.
1, p. 67). Ancora più indicativo è il fatto che, su migliaia di pagi-
ne di storia romana, Gibbon abbia dedicato «solo alcuni decoro-
si paragrafi al tema della schiavitù» (Finley 1980, p. 22). Infatti,
anche quando riconoscevano l'esistenza della schiavitù, i più fa-
mosi umanisti la ritenevano il prezzo da pagare per lo splendo-
re della cultura greco-romana, un giudizio sul quale concordava
anche Friedrich Engels, che scrisse nel 1878: «Senza la schiavitù,
nessuno stato greco, né arte e scienza greche» (Finley 1980, p. 12).
E questo punto di vista è condiviso anche dagli umanisti del XX
secolo inoltrato. L'influente Joseph Vogt accettava la schiavitù
antica come un male necessario: «Il lavoro degli schiavi fu indi-
spensabile per consentire ai greci di dedicarsi alle attività intel-
lettuali, filosofiche e artistiche [...]. La schiavitù e la sua conse-
guente perdita di umanità erano parte del sacrificio che doveva
essere pagato per questa impresa» (Vogt 1974, p. 25).
Non furono solo gli Umanisti a «minimizzare» la schiavitù
antica. A parte l'osservazione per cui l'eredità culturale della
Grecia fosse inseparabile dalla schiavitù, Engels si dimostrò mol­
392 A GLORIA DI DIO

to più interessato ai tempi recenti. Anche «Marx prestò poca at-


tenzione alla schiavitù in quanto tale», e praticamente nessuna
alla schiavitù antica, che considerava «un indispensabile stru-
mento di produzione» nelle economie greca e romana. Per que-
sto motivo anche gli storici marxisti ignorarono l'argomento,
«come riconosciuto dagli studiosi sovietici della storia antica de-
gli anni '60» (Finley 1980, pp. 41-42). Come vedremo, la ragione
per la quale i marxisti non nutrirono interesse per la schiavitù di
per sé è che consideravano tutto il lavoro svolto per gli altri,
compreso quello retribuito, una «schiavitù» - tranne, naturai-
mente, quello dei lavoratori delle imprese socialiste. In ogni ca-
so, lo studio della schiavitù antica è stato molto «intermittente»
e spesso deformato dalla «ferocia polemica» (Finley 1980, p. 11).
Tutte le civiltà antiche - comprese quelle dei sumeri, dei ba-
bilonesi, degli assiri, degli egizi, dei cinesi e degli indiani - vide-
ro un uso estensivo del lavoro degli schiavi. Ma, come ha spie-
gato Moses I. Finley, furono i greci e i romani che costituirono le
prime vere «società schiaviste», e diventarono in larghissima mi-
sura dipendenti dall'«impiego su larga scala del lavoro degli
schiavi sia nelle campagne che nelle città» (Finley 1980, p. 67).
Sarà utile, dunque, delineare il carattere e la dimensione di que-
sta schiavitù classica.
In Grecia e a Roma, gli schiavi divennero la base primaria del-
la produzione, oltre che una grande forma di consumo. Il ricor-
so agli schiavi fu il risultato delle frequenti vittorie militari che
«inondarono i mercati di schiavi del Mediterraneo» di prigionie-
ri (Boak, Sinningen 1965, p. 157). Le aree recintate dei grandi
mercati romani di Capua e Deio erano in grado di contenere
20.000 schiavi al giorno e spesso erano piene fino al limite della
loro capienza (Grant 1981). Grazie all'afflusso di schiavi, le pie-
cole tenute familiari venivano sostituite da piantagioni di grandi
dimensioni (i romani le chiamavano latifundia) lavorate da folle
enormi di schiavi.
Gli schiavi dell'agricoltura erano soprattutto uomini, e dal
momento che i loro padroni li temevano (molti erano stati solda-
ti nemici), spesso erano tenuti in catene anche durante il lavoro
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 393

e passavano la notte in prigioni sotterranee. Secondo gli attuali


standard americani, i latifundia non erano molto vasti - di solito
misuravano dai 24 ai 60 ettari, mentre la tenuta agricola media in
America è di circa 200 ettari (un campo da football misura circa
2 ettari) - la proprietà familiare media romana era di soli 2 etta-
ri. Le tenute erano piccole perché, a causa della mancanza di
macchinari, l'agricoltura romana e greca era estremamente fati-
cosa. È stato stimato che un uliveto di 24 ettari richiedesse il la-
voro di 16 schiavi più un aiuto supplementare al momento del
raccolto (Boak, Sinningen 1965). Col tempo, tuttavia, i latifondi
divennero più grandi, molti superarono i 400 ettari e di alcuni si
diceva che fossero grandi come un «regno». Plinio il Vecchio (23-
79 ca.) racconta di un podere che, all'inizio del I secolo, aveva
4117 schiavi e 7200 buoi (Meltzer 1993). Nel suo famoso trattato
sull'agricoltura (De agricultura), Catone il Vecchio (234-149 BCE)
consiglia di prestare molta più cura ai buoi che agli schiavi, dal
momento che questi ultimi erano in grado di badare a se stessi.
Gli schiavi dovevano essere ben nutriti in modo da mantenersi
in forze, ma quando diventavano vecchi, o deboli, dovevano es-
sere lasciati morire. Catone, poi, sconsigliava di permettere agli
schiavi di avere mogli, poiché non valeva la pena di mantenere
le donne e i bambini - era più economico comprare un nuovo
schiavo maschio che allevarne uno fin dall'infanzia (Grant 1978;
Jones 1956). Così «grandi folle» di schiavi «deperivano e in mag-
gioranza morivano senza lasciare traccia di sé, o discendenti»
(Gordon 1924, p. 102).
Gli schiavi non solo fornivano alla Grecia e a Roma la forza
lavoro agricola, ma anche quasi tutta la forza lavoro delle minie-
re - Atene aveva più di trentamila lavoratori nelle sue miniere
d'argento, e Roma ne manteneva centinaia di migliaia nelle sue
molte miniere, sparse nel territorio dell'impero, dalla Gran Bre-
tagna all'Egitto. Il lavoro in miniera consumava gli schiavi a un
ritmo spaventoso. Lo storico romano Diodoro (90-27 BCE) scris-
se che nelle miniere gli schiavi erano «tutti in catene, tenuti al la-
voro continuamente, giorno e notte [...] non c'è indulgenza, nes-
suna pausa [... Sono] costretti al lavoro dalle frustate, fino a
394 A GLORIA DI DIO

quando, sopraffatti dagli stenti, muoiono fra i tormenti. La loro


miseria è così grande che [...] la morte è accolta come ima cosa
desiderabile più della vita» (in Meltzer 1993, pp. 150-151). Come
scrisse Mary L. Gordon nel suo brillante saggio sulla nazionalità
degli schiavi romani, «la crescita dell'impero ebbe uno sfondo di
sofferenza um ana di grado e portata inimmaginabili [... e] se si-
mili fatiche uccidevano prematuramente [gli schiavi], il signore
romano dell'epoca repubblicana poteva dire, con la concisa bru-
talità di Tacito, uile damnum: ce ne sono tantissimi altri» (Gordon
1924, p. 102).
Gli schiavi greci e romani venivano anche ampiamente im-
piegati nel settore manifatturiero e in quello delle costruzioni.
Sebbene non ci fossero fabbriche in quell'epoca, esistevano gran-
di botteghe artigiane dedite alla produzione di merci varie: uten-
sili da cucina; armature, scudi e armi; tessuti; e così via. E furono
soprattutto gli schiavi a costruire famosi edifici pubblici quali il
Colosseo e il Partenone.
Naturalmente, nel settore delle costruzioni, in agricoltura, e
nel settore manifatturiero, se non nelle miniere, continuavano a
esserci anche persone libere che lavoravano a pagamento oltre
che molti lavoratori autonomi. Ma le economie delle grandi città-
stato greche e delle città dell'Impero romano si reggevano sulle
spalle degli schiavi, a tal punto che gli schiavi che lavoravano
nella m anifattura m antenevano un'enorm e popolazione di
schiavi domestici. Tutti avevano degli schiavi domestici. Persino
i proprietari di piccole tenute agricole di un ettaro avevano in ca-
sa uno schiavo o due, e ciascuno dei soldati dei ranghi più bassi
dell'esercito romano possedeva per lo meno un servitore-schia-
vo, e spesso più di uno (Jones 1956). Si ritiene che ogni famiglia
ad Atene e Roma avesse degli schiavi (Meltzer 1993). E come è
prevedibile, «molti possedevano schiavi anche quando non po-
tevano permetterseli» (Finley 1981, p. 101). Il sofista greco Liba-
nio (314-393) lamentò la grave povertà di cui soffrivano quattro
docenti della sua scuola - vivevano in abitazioni terribili, erano
fortemente indebitati, difficilmente potevano permettersi di spo-
sarsi, ed erano a malapena capaci di mantenere tre schiavi eia-
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 395

scuno (Oratio XXXI, 11). Quando gli fu chiesto quanti schiavi


possedesse, il poeta greco Senofane (ca. 560-478 BCE) rispose,
«solamente due, e riesco a malapena a nutrirli» (in Meltzer 1993,
p. 76).
Gli schiavi domestici erano spesso «produttivi» nel contesto
dell'economia famigliare poiché cucivano e tessevano, ma erano
soprattutto una forma di consumo, come dimostra il loro numero
di solito di molto eccedente la necessità (Jones 1956). Plinio il
Giovane (62-113) aveva 500 schiavi, e molti senatori più di mille,
compresi degli eunuchi che si occupavano delle cure delle don-
ne e degli «storpi» che servivano a divertire gli ospiti. Lo status
sociale spesso si misurava dal numero di schiavi che accompa-
gnavano un romano in pubblico.
Gli schiavi non erano addetti solo ai servizi domestici, ma an-
che airintrattenim ento dei romani: costituivano infatti la mag-
gioranza degli attori (non c'erano attrici, ma solamente uomini
che recitavano anche nei ruoli femminili) e dei musici e delle
prostitute. Allo stesso modo, anche la maggioranza dei gladiato-
ri era composta da schiavi, migliaia dei quali morivano ogni an-
no per il divertimento dei romani liberi (Barton 1993; Beacham
1999; Finley 1981; Gordon 1924).
Infine, queste erano società schiaviste anche nel senso che,
per lo meno in certi periodi, gli schiavi superavano in numero la
popolazione libera.

Il declino della schiavitù nel mondo cristiano


Il declino della schiavitù cominciò negli ultimi giorni dell'Im-
pero romano, come conseguenza diretta della debolezza milita-
re. Non c'erano più comandanti vittoriosi che distribuivano mol-
titudini di prigionieri ai mercati di schiavi. Dal momento che i
tassi di fertilità erano molto bassi fra gli schiavi romani, a causa
sia delle privazioni sia della mancanza di donne, il loro numero
scese rapidamente e, per la carenza di schiavi, il lavoro dell'agri-
coltura e dell'industria venne affidato a lavoratori liberi. Come
ha dimostrato Moses Finley, presto «il mondo della tarda anti-
chità non fu più una società schiavista [...]g li schiavi non costi­
396 A GLORIA DI DIO

tuivano più la forza lavoro dominante per la produzione su lar-


ga scala nella campagna [...e ] non rappresentavano più il gros-
so delle rendite delle élite. Solo nella sfera domestica rimasero
predominanti» (Finley 1980, p. 149).
La «caduta» definitiva di Roma causò un'ulteriore diminu-
zione della schiavitù, dal momento che essa non era mai stata
una caratteristica rilevante nelle società germaniche (Thompson
1957). Presto, «in gran parte dell'Europa occidentale la schiavitù
cominciò a declinare e poi quasi scomparve con l'emergere del
sistema feudale», persistendo «solamente ai margini dell'Europa
medievale - in Spagna, nel vasto mondo musulmano, nell'impe-
ro bizantino, nella Rus' di Kiev» (Davis 1966, pp. 31, 37). Que-
st'ultima affermazione potrebbe sembrare ovvia, e benché sia ac-
cettata da importanti storici (fra i quali Bloch e Finley), per sva-
riate ragioni alcuni la trovano discutibile.
Da una parte, è molto difficile stabilire con esattezza quando
finì la schiavitù nell'Europa cristiana (che continuava tuttavia in
aree pagane). Come ha scritto Adam Smith, «il tempo e il modo
[...] con i quali fu determinata una così importante rivoluzione è
uno dei punti più oscuri della storia moderna» (Smith [1776]
1981, p. 389). La maggioranza degli storici del Medioevo ha sem-
plicemente eluso la questione, ignorando del tutto il fenomeno.
Le parole «schiavo» e «schiavitù» a mala pena compaiono nei
sette volumi della Storia del mondo medievale (a cura della Cam-
bridge University 1911-1936). La grande storia d'Europa di Nor-
man Davies (1996) contiene solo due riferimenti alla «schiavitù»
neH'indice, uno in meno di quelli a Margaret Thatcher e uno in
più di quelli al «football» e al «Tour de France». Il primo consiste
in una pagina e mezza sulla rivolta degli schiavi guidata da
Spartaco nel 73 BCE, l'altro, di estensione simile, è dedicato al
primo acquisto portoghese di schiavi in Africa; segue poi un
sommario di molti paragrafi sulla tratta atlantica degli schiavi.
Quindi, Davies non solo ignora il declino del fenomeno, ma non
ha nemmeno nulla da dire sulla schiavitù in Grecia e a Roma, o
sui movimenti abolizionisti europei del 1700 e 1800! E le storie di
portata molto minore spesso non fanno meglio. Nell'edizione ri­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 397

veduta di The Civilization ofthe Middle Ages, Norman F. Cantor ha


menzionato la schiavitù soltanto per affermare, in maniera scor-
retta, che il primo cristianesimo non condannava la schiavitù e
per imputare alla Chiesa ima visione razzista nei confronti dei
neri (Cantor 1993). E in Λ History of thè Middle Ages di Joseph
Dahmus, le parole «schiavo» e «schiavitù» non compaiono nem-
meno ima volta (Dahmus [1968] 1995).
Peggio ancora, alcuni storici che si sono occupati della schia-
vitù europea negano addirittura che essa sia scomparsa. Molti
giustificano questa posizione citando l'esistenza della schiavitù
fra gli scandinavi e i russi, non riconoscendo che questi non era-
no propriamente «europei» nell'epoca in questione e trattando
come tipici ed esemplari i casi di schiavitù isolati, e di portata so-
lo locale, come a Venezia (Meltzer 1993; Phillips 1998). Altri an-
cora rifiutano l'idea del declino del fenomeno sostenendo che
non avvenne altro che uno slittamento linguistico, nel quale il
termine «schiavo» fu sostituito da «servo». In altre parole, inve-
ce che scomparire, coloro che un tempo erano chiamati schiavi
furono semplicemente chiamati servi, e continuarono ad esistere
per tutto il periodo medievale; così, «trasformata ma ancora ri-
conoscibile, la schiavitù continuò a esistere in Occidente, dal-
l'antica Roma all'incontro con le Americhe» (Bensch 1998, p.
231). Qui non è la storia, sono gli storici a fare giochi di parole.
Come ha osservato Marc Bloch, la vita dei servi medievali «non
aveva nulla in comune con la schiavitù» (Bloch 1999). I servi non
erano dei beni mobili; avevano dei diritti e un notevole grado di
libertà di scelta. Sposavano chi volevano, e le loro famiglie non
erano soggette a vendita o a divisione. Pagavano una pigione, e
quindi avevano il controllo del proprio tempo e del ritmo di la-
voro, «che in genere era lento e [...] rispettoso dell'individuo»
(Fogel 1989, p. 25). Se, in alcuni luoghi, i servi dovevano ai prò-
pri signori un certo numero di giorni di lavoro l'anno, l'obbligo
era comunque limitato, e assomigliava a un lavoro «a nolo» più
che alla schiavitù. Come ha scritto Bloch, «Lo schiavo era stato
un bue nella stalla, costantemente soggetto agli ordini del suo
padrone; il servo era un lavoratore che si presentava in certi gior­
398 A GLORIA DI DIO

ni e che se ne andava non appena il lavoro era finito» (Bloch


1975, p. 23). Di conseguenza, benché i servi fossero vincolati da
molti «obblighi» al loro signore, anche il loro signore era vinco-
lato da obblighi a un'autorità superiore, e così via, in diversi
schemi di obblighi reciproci - e questa era la natura essenziale del
feudalesimo (Bloch 1975 e 1999; Dahmus [1968] 1995; Davis 1966;
Pelteret 1995).
Anche se nessuno potrebbe sostenere che fossero liberi in sen-
so moderno, i contadini medievali comunque non erano schiavi,
e dunque quella brutale istituzione scomparve in quel periodo
dall'Europa. Non così a Oriente e al Sud.

Schiavitù musulmana
Per quasi tutto il secolo corso, la schiavitù esistente nel mon-
do islamico, come quella fra i nativi della costa nordoccidentale,
ricevette poca attenzione. Nel suo Slavery: A World History (1993)
[«Schiavitù: una storia del mondo», N.d.T.], Meltzer non nomina
nemmeno la schiavitù m usulm ana se non in una breve discus-
sione sull'attuale schiavitù, proprio alla fine del libro. E come se,
paragonata al commercio di schiavi dell'Atlantico, la schiavitù
islamica fosse troppo insignificante per essere considerata im-
portante storicamente. In verità, il commercio di schiavi musul-
mano iniziò molti secoli prim a che gli europei scoprissero il
Nuovo Mondo e ne furono vittime tanti africani quanti ne furo-
no imbarcati per attraversare l'Atlantico, se non di più (Austen
1979; Curtin 1969; Gordon 1989; Lewis 1990; Lovejoy [1983] 2000;
Mauny 1970; Segai 2001; Thomas 1997). Inoltre, molto tempo do-
po la fine del commercio occidentale di schiavi, «i sambuchi ara-
bi si muovevano ancora furtivamente da Zanzibar, Mombasa e
altri porti dell'Africa orientale, seguendo le familiari rotte del-
l'Oceano Indiano, per consegnare r ‫״‬ebano'' [...] destinato a es-
sere venduto nelle fiere di schiavi dell'Arabia, del Golfo Persico,
dell'Impero ottomano e dell'India» (Gordon 1989, p. 4).
Per la stragrande maggioranza dei casi la schiavitù musul-
mana era del tipo «di consumo». I primi esperimenti con l'im-
piego di schiavi nelle piantagioni provocarono sanguinose ribel­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 399

lioni, e la pratica della schiavitù fu discontinua - l'esistenza di


vaste popolazioni contadine nelle aree agricole dell'islam, poi,
scoraggiava il ricorso al lavoro degli schiavi. C'erano alcuni cor-
pi militari d'élite composti solamente da schiavi, soprattutto
bianchi di origine cristiana comprati quando erano bambini. Ma
era la servitù domestica a costituire la maggioranza degli schia-
vi islamici, e moltissime erano anche le schiave concubine. Di
conseguenza, «le schiave erano richieste molto più degli uomini»
(Gordon 1989, p. 57), e molti schiavi, maschi adulti o ragazzi, ve-
nivano evirati al momento della cattura o dell'acquisto. Ciò cau-
sava una mortalità estremamente elevata, ma le conseguenti per-
dite finanziarie erano molto più che controbilanciate dalle som-
me pagate per gli eunuchi. Dal momento che tutte le forme di
mutilazione erano proibite dalla legge islamica, le operazioni
erano svolte da «infedeli», come i cristiani copti o gli ebrei, co-
munque, di solito, sotto la supervisione diretta dei mercanti isla-
mici di schiavi (Gordon 1989; Lewis 1990; Lovejoy [1983] 2000;
Segai 2001).
I m usulm ani non avevano una particolare preferenza per gli
schiavi neri, e per secoli utilizzarono un numero enorme di
schiavi bianchi. Il num ero di gran lunga più grande, probabil-
mente di diversi milioni, si otteneva con il devflirme, u n tributo
obbligatorio imposto sugli europei nel M editerraneo orientale.
Ogni quattro anni, i funzionari ottomani passavano in tutti i di-
stretti cristiani sottoposti al dominio dell'Impero e sceglievano
i bambini più adatti, che venivano portati via, allevati come
m usulm ani, e poi diventavano schiavi di prezzo elevato. Oltre
a ciò, i m usulm ani raccoglievano un gran numero di schiavi
nelle regioni slave dell'Europa, come pure europei presi prigio-
nieri in battaglia o catturati dai pirati. Quando, nel 1535, Carlo
V di Spagna invase Tunisi, liberò circa 20.000 cristiani che vi
erano detenuti come schiavi (Grun 1982). Nella battaglia di Le-
panto (1571), quando le galee cristiane sotto il comando di Don
Juan distrussero una grande flotta m usulm ana, furono liberati
15.000 schiavi galeotti cristiani, e un numero molto maggiore
annegò (Hanson 2002).
400 A GLORIA DI DIO

Tuttavia, quando le forze islamiche vennero respinte al di


fuori dell'Europa, la loro fonte principale di schiavi divenne l'A-
frica. Si stima che nel 1600, fossero più di 7 milioni gli africani
trasportati in cattività nelle società islamiche (Lovejoy [1983]
2000). Nei due secoli successivi ne furono portati via altri 2 mi-
lioni (Austen 1979). All'inizio del XIX secolo, alcune nazioni di-
chiararono fuorilegge il commercio atlantico degli schiavi: nel
1803 la Danimarca, la Gran Bretagna nel 1807, gli Stati Uniti nel
1808, e l'Olanda nel 1818. Tuttavia, il flusso di schiavi che si diri-
geva verso le nazioni musulmane non conobbe sosta. La stima
più plausibile è di almeno 1,2 milioni di persone portate via tra
il 1800 e il 1900 (Austen 1979). Quanti schiavi siano stati impor-
tati nel XX secolo non si sa, ma di certo non fu un numero tra-
scurabile - la schiavitù fu legalmente abolita in Arabia Saudita
solo nel 1962, e in Mauritania solamente nel 1981.
È importante capire anche che queste statistiche riguardano
principalmente il trasporto di schiavi andato a buon fine,che par-
tiva dall'interno dell'Africa e aveva come destinazione ima na-
zione islamica. Quindi, il numero effettivo di africani sottoposti
a schiavitù era molto più grande, poiché molti morivano «du-
rante le lunghe marce forzate verso la costa o a bordo delle affol-
late» navi schiaviste (Gordon 1989, p. 149). Le stime più serie af-
fermano «che da un 20 a un 40% di schiavi moriva mentre veni-
va trasportato verso la costa, un altro 3-10% moriva durante l'at-
tesa sulle coste, e da un 12 a un 16% di quelli imbarcati sulle na-
vi moriva durante il viaggio» (Cohn 1998, p. 290). In totale, si
parla di una perdita dal 35 al 66% di persone inizialmente cattu-
rate come schiave!
Si è spesso sostenuto che i musulmani si curassero molto più
dei loro schiavi e li trattassero con maggiore umanità rispetto ai
proprietari di schiavi del Nuovo Mondo. Ronald Segai vorrebbe
farci credere che «il trattamento degli schiavi nel mondo islami-
co era nel complesso più benevolo» e attribuisce ciò all'assenza
del «capitalismo di tipo occidentale, che considera prioritario il
profitto rispetto alla dignità delle persone» (Segai 2001, p. 5). E
M. A. Salahi ha affermato che «gli schiavi, nello stato musulma­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 401

no, godevano dei diritti umani essendo per il loro padrone degli
individui. E fu così solamente nella terra dell'islam» (Salahi 1995,
p. 375). Uno dei motivi che stanno alla base di simili affermazio-
ni è il fatto che, a volte, gli schiavi, soprattutto gli eunuchi, otte-
nevano una posizione di notevole potere e influenza. Ma è fon-
damentale capire che è fuorviante paragonare uno schiavo tipi-
co del mondo musulmano e imo tipico del Nuovo Mondo, poi-
ché non è possibile confrontare schiavi domestici con schiavi che
lavoravano nei campi. E ciò nonostante è facile confutare l'idea
che gli schiavi fossero trattati meglio neH'islam. Anzi, è suffi-
ciente osservare quanto poche siano le persone di discendenza
africana nelle nazioni islamiche rispetto a quelle del Nuovo
Mondo. Dal momento che, approssimativamente, lo stesso nu-
mero di africani giunse nelle due diverse aree, se la vita degli
schiavi nella «terra deU'islam» fosse stata anche solo paragona-
bile a quella degli schiavi americani, beh, allora queste nazioni
dovrebbero avere una rilevante popolazione nera. Ma non è co-
sì, perché la fertilità degli schiavi nel mondo islamico era estre-
mamente bassa, non solo a causa della frequente castrazione de-
gli uomini, ma anche perché l'infanticidio era pratica comune nel
caso di neonati che mostrassero una discendenza africana (Gor-
don 1989; Lewis 1990).
La fine della schiavitù islamica (ma il fenomeno esiste ancora
su scala minore), fu il risultato diretto della sua abolizione in Oc-
cidente (Lewis 1990). Fu soprattutto la Marina britannica a prati-
care l'embargo sulle navi schiaviste musulmane, e le truppe co-
loniali britanniche e francesi intercettarono innumerevoli caro-
vane di schiavi in Africa, liberando le persone e a volte giusti-
ziando sul posto i mercanti di schiavi. Anche la recentissima abo-
lizione della schiavitù in alcune nazioni islamiche è stata una ri-
sposta alla forte pressione occidentale.

Schiavitù africana
Proprio come hanno ignorato per molto tempo la schiavitù
islamica, gli storici occidentali hanno mostrato «una tendenza
simile a "glissare" sulla pratica della schiavitù e sull'esteso traf­
402 A GLORIA DI DIO

fico di schiavi, fenomeni largamente diffusi nella stessa Africa»


(Gordon 1989, p. 5). Una ragione di questa negligenza è dovuta
al fatto che porre l'attenzione sulla schiavitù in luoghi diversi
dal Nuovo M ondo significa andare incontro a polemiche spia-
cevoli ed essere accusati di minimizzare la colpa «dei bianchi».
Tuttavia, il motivo principale è che ben poco è stato scritto su
qualsiasi argomento riguardi l'Africa. Le fonti sono relativamente
poche, e così i libri pubblicati. Eppure rimane il fatto che la
schiavitù e il commercio di schiavi erano due fenomeni ben con-
solidati nel continente da molto tempo prim a dell'arrivo degli
europei e che i compratori, sia europei sia islamici, dipendeva-
no comunque da fornitori africani (Lovejoy [1983] 2000; Man-
ning 1990; Thornton 1998a).
L'asservimento degli africani neri risale per lo meno all'anti-
co Egitto. Pitture murali sulle tombe dei faraoni ritraggono alcu-
ni schiavi con una pelle scura, in evidente contrasto con gli egi-
ziani di pelle chiara raffigurati nelle stesse scene. Ciò nonostan-
te, fu il possesso di schiavi e non il commercio a costituire l'a-
spetto fondamentale della schiavitù nell'Africa nera: «Molte del-
le società africane precoloniali, se non tutte, si reggevano su si-
stemi schiavistici» che implicavano il ricorso sistematico, e in mi-
sura rilevante, al lavoro degli schiavi (Thornton 1998b, p. 27).
Dunque, l'inizio del commercio degli schiavi, che fosse con mer-
canti egiziani, islamici o, alla fine, cristiani, non dipese dalla tra-
sformazione profonda di società agricole a economia chiusa e au-
tosufficiente, che producevano solo per il consumo domestico, in
società a economia aperta, che vendevano i prodotti dell'agricol-
tura o le altre merci. Né si può dire, nonostante le esortazioni di
radicali quali Walter Rodney, che il commercio di schiavi fosse
stato imposto agli africani dagli europei (Rodney 1984). Infatti, il
fenomeno precedette di gran lunga la scoperta e l'esplorazione
del territorio africano da parte degli europei. Per di più, molto
dopo la scomparsa del mercato estero di schiavi, e nonostante
tutti gli sforzi delle amministrazioni coloniali, la schiavitù locale
continuò (e continua) in molte parti dell'Africa. La schiavitù afri-
cana fu un'istituzione indigena.
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 403

Schiavitù nel Nuovo Mondo


Nel 1441, una piccola nave portoghese con a bordo dodici
schiavi neri approdò a Lisbona. Gli africani erano una novità, e il
loro arrivo fu accolto con grande interesse, ma senza disapprova-
zione, poiché, anche se la schiavitù era ormai da molto tempo
scomparsa nella maggior parte dell'Europa, era ancora presente
in alcune aree del Mediterraneo. La schiavitù esisteva ancora in
quelle parti di Spagna e Italia che si trovavano sotto il dominio
moresco (musulmano), e anche in alcune zone cristiane, soprat-
tutto in Spagna, dove c'era uno stato di guerra endemico fra cri-
stiani e musulmani. I cristiani catturati in battaglia dai mori veni-
vano asserviti. A loro volta, i cristiani ricambiavano il trattamen-
to facendo schiavi i prigionieri mori. Anche in Italia il contatto fra
musulmani e cristiani alimentava la schiavitù - i mercanti di Ve-
nezia vendevano europei (soprattutto slavi) ai mori.
Questo primo carico di schiavi sbarcato nel 1441 a Lisbona fu
presto seguito da altri e, quando gli schiavi africani cominciaro-
no a essere venduti anche più a nord, nacque un dibattito sulla
moralità e sulla legalità della schiavitù. Rapidamente si diffuse
l'opinione che la schiavitù fosse sia un peccato sia un'azione ille-
gale - Jean Bodin (I sei libri della Repubblica), acerrimo nemico del-
le «streghe», proclamò che la schiavitù era «una cosa assai per-
niciosa e pericolosa», e che essendosene liberati da tempo in Eu-
ropa non si doveva ripristinarla. Le idee di Bodin furono riaffer-
mate da Germain Fromageau, professore alla Sorbona, il quale
osservò che «nessuno può, in verità di coscienza, comprare o
vendere negri, perché in simile commercio c'è ingiustizia» (in
Elkins [1959] 1976, p. 69). Venne applicato il principio del «libe-
ro territorio»: gli schiavi che facevano ingresso in ima terra libe-
ra erano automaticamente liberi. Questo principio era saldamen-
te in vigore alla fine del 1600 in Francia, Olanda e Belgio (Watson
1989). Quasi un secolo dopo, nel 1761, i portoghesi lo tradussero
in una legge, e un giudice inglese applicò lo stesso principio in
Gran Bretagna nel 17723. Benché a volte venissero tollerate alcu-
ne eccezioni come il possesso di un solo schiavo domestico, o
due, soprattutto se in compagnia di un viaggiatore straniero, «al
404 A GLORIA DI DIO

di là di qualche servo in Spagna e Portogallo, nell'Europa occi-


dentale di fine XVI secolo c'erano pochissimi veri schiavi»
(Blackbum 1998, p. 62).
Nel frattem po, Colombo era salpato verso il N uovo Mondo.
Portogallo e Spagna quindi si trovarono coinvolte nell'enorm e
sforzo di controllare, sfruttare e sviluppare i propri interessi in
questa vastissima nuova regione. Il che richiedeva una forza
lavoro. I tentativi di sfruttare i popoli indigeni nelle piantagio-
ni e nelle miniere furono piuttosto fallimentari. Non solo i pri-
gionieri nativi erano ribelli e ostinati, ma le m alattie trasmissi-
bili che gli europei portarono con sé - soprattutto morbillo e
vaiolo - provocarono delle vastissime epidemie mortali, che ri-
dussero rapidam ente il num ero dei nativi americani. Allo stes-
so modo, fallirono anche i tentativi di utilizzare lavoratori im-
portati dall'Europa, specialmente nelle Indie Occidentali e in
Brasile, dal momento che non erano im m uni alle m alattie ero-
niche dei Tropici. I colonizzatori europei non ci misero molto a
capire che era possibile acquistare, a basso costo, una forza la-
voro adatta, proveniente dalla costa occidentale dell'Africa,
praticam ente im m une alle m alattie tropicali (Diamond 1998;
McNeill 1981).
Gli europei parteciparono raramente alle incursioni schiaviste
nell'intemo dell'Africa. Se fosse stato necessario, probabilmente la
cosa avrebbe notevolmente minimizzato il ricorso agli schiavi neri
nelle nuove colonie. Ma l'esportazione di schiavi africani si prò-
traeva da molti secoli, e i mercanti africani erano ben organizzati e
preparati a offrire una fornitura quasi inesauribile di eccellenti la-
voratori a basso prezzo. Per guadagnare profitti enormi, tutto quel-
lo che gli europei dovevano fare era trasportarli dai centri schiavi-
sti sulle coste africane ai mercati di schiavi nelle colonie. Di solito il
prezzo degli schiavi nelle Indie Occidentali era dalle cinque alle sei
volte superiore a quello nei porti africani. Fra il 1638 e 1702, i prez-
zi degli schiavi nell'Africa occidentale si aggiravano in media in-
tomo alle 3,8 sterline britanniche4, mentre il prezzo pagato all'arri-
vo nelle colonie britanniche era di circa 21,3 sterline - questi prez-
zi fluttuarono solo leggermente in tutto il periodo considerato
(Bean 1975). Certo, c'erano molti costi da detrarre, inclusa la non
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 405

infrequente perdita di intere navi con il loro carico, ma la maggio-


ranza dei mercanti di schiavi in un arco di tempo di tre o quattro
mesi guadagnava un profitto pari al 200 o 300% della cifra spesa
(Thomas 1997).
Data la continua dom anda di schiavi del Nuovo Mondo, non
c'è da meravigliarsi se le navi schiaviste affollavano l'Atlantico.
Dall'inizio, nel 1510 circa, fino alla fine, quando Cuba abolì il
commercio degli schiavi, nel 1868, circa 10 milioni di africani rag-
giunsero i mercati degli schiavi del Nuovo Mondo, il che signifi-
ca che a iniziare il viaggio dalle regioni interne dell'Africa furo-
no almeno 15 milioni (probabilmente di più). Philip Curtin cal-
colò che dei 10 milioni che sopravvissero al viaggio, circa 400.000
raggiunsero il Nord America britannico, 3,6 milioni andarono in
Brasile, 1,6 milioni nelle colonie spagnole, e i restanti 3,8 milioni
furono portati nelle colonie britanniche, francesi, olandesi e da-
nesi dei Caraibi (Curtin 1969).
Nel N uovo M ondo gli schiavi venivano usati nella stra-
grande m aggioranza dei casi come lavoratori del settore prò-
duttivo, soprattutto in vaste piantagioni nelle quali venivano
coltivati i principali prodotti agricoli destinati al mercato - an-
che se fino al 1800 gli schiavi delle aree spagnole erano utiliz-
zati soprattutto nelle miniere, nel settore delle costruzioni, e
nell'agricoltura estensiva. Di conseguenza, diversam ente dal
mercato islamico, nel N uovo M ondo i maschi avevano un
prezzo molto più elevato delle femmine, e non esisteva nessun
mercato per gli eunuchi. Nonostante le differenze di prezzo
basate sul sesso, però, i carichi di schiavi includevano un nu-
mero elevato di donne, e in alcune colonie agli schiavi era per-
messo formare delle unioni «maritali», con il risultato che il
tasso di fertilità era molto più elevato qui che nel m ondo isla-
mico o nelle nazioni dell'antichità.
Le condizioni imposte agli schiavi nel Nuovo Mondo - l'eco-
nomia, il diritto, le usanze, il clima, la configurazione geografica
e le malattie endemiche - erano molto diverse da zona a zona.
Perciò non è facile fare un discorso generale. Di conseguenza,
farò una breve sintesi delle condizioni degli schiavi nei Caraibi,
in Brasile e nel Nord America.
406 A GLORIA DI DIO

La schiavitù nei Caraibi


I possedimenti coloniali divisi fra spagnoli, britannici, france-
si, olandesi e danesi erano costituiti da Cuba, Portorico, Barba-
dos, Martinica, Santo Domingo (successivamente diviso in Haiti
e Repubblica Dominicana), Bermuda, Bahamas e Giamaica nella
«regione caraibica», da Guyana, Sminarne e Venezuela, sulla co-
sta sudamericana. In gran parte erano società schiaviste, nelle
quali gli schiavi rappresentavano la stragrande maggioranza del-
la popolazione. Il loro sistema sociale era stratificato a quattro li-
velli. In cima c'era l'élite bianca: proprietari di piantagioni, am-
ministratori, mercanti, banchieri, funzionari governativi e ufficia-
li militari. Il secondo livello era quello dei «bianchi poveri» fra i
quali c'erano sorveglianti, negrieri, marinai e soldati. Al terzo li-
vello, ancora più sotto nello status system, c'erano gli schiavi li-
berati e le persone libere di razza mista, i «liberi di colore» (nelle
colonie britanniche c'erano poche persone appartenenti a queste
categorie). AU'ultimo livello stava l'enorme massa di schiavi.
L'estremo divario esistente fra il numero degli schiavi e quel-
lo degli uomini liberi nelle società caraibiche era dovuto al fatto
che esse si basavano su economie quasi esclusivamente di pian-
tagione - riso, indaco, cacao, caffè, cotone, tabacco - specializza-
te in raccolti destinati al mercato, e richiedevano quindi necessa-
riamente ima forza lavoro numericamente consistente che potè-
va essere fornita solo dagli schiavi. La coltivazione intensiva del-
lo zucchero ebbe molte gravi conseguenze (Fogel 1989). La pri-
ma è che questo tipo di prodotto era coltivato in piantagioni mol-
to estese, come si deduce dal fatto che la maggioranza dei prò-
prietari di schiavi dei Caraibi ne possedeva più di 150 (diversa-
mente dal Nord America, dove più del 90% dei proprietari ave-
va meno di 50 schiavi). In secondo luogo, la produzione dello
zucchero richiedeva l'utilizzo di squadre di lavoro di 10-20 schia-
vi, ognuna controllata da un negriero pronto a usare la frusta
contro i più lenti. La terza conseguenza era che, in parte a causa
dello sforzo fisico richiesto da questo tipo di lavoro a squadre e
in parte per le condizioni ambientali adatte alla coltivazione del-
la canna da zucchero (aree basse e paludose), la mortalità era
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 407

molto alta - in Giamaica la percentuale di morti nelle piantagio-


ni di zucchero era del 50% più elevata di quella nelle piantagio-
ni di caffè (Higman 1976). Infine, era necessario un costante e ri-
levante afflusso di nuovi schiavi, dal momento che l'alto tasso di
mortalità non era compensato dalla natalità, molto bassa, come
abbiamo visto, fra gli schiavi.
Al di là di queste condizioni generali, nei Caraibi c'era una
notevole differenza nel trattamento degli schiavi a seconda della
nazionalità dei colonizzatori.
Nelle colonie francesi la condizione degli schiavi era regola-
ta dettagliatamente dal Code Noir, formulato da Jean-Baptiste
Colbert (1619-1683), il ministro delle finanze di Luigi XIV. Nel-
l'elaborare il codice, promulgato nel 1685, Colbert fu assistito e
fortemente influenzato dai più importanti uomini della Chiesa
francese. Sono troppi gli storici che hanno prestato attenzione
solamente all'articolo 3, che proibiva «qualsiasi esercizio pub-
blico di religione diversa» dal cattolicesimo romano, usandolo
come pretesto per scagliarsi contro l'«intolleranza» cattolica.
Nessuno di questi storici dice che proprio in quella stessa epoca
il culto pubblico del cattolicesimo romano era proibito nelle co-
Ionie britanniche (con l'eccezione del Maryland). Più significati-
vo, comunque, è il fatto che questi storici abbiano ignorato i
molti articoli del codice che si fondavano sulla premessa che
uno schiavo è «una creatura di Dio». Era in questo spirito che il
codice stabiliva che i padroni battezzassero i propri schiavi, for-
nissero loro un'istruzione religiosa e consentissero loro il sacra-
mento del sacro matrimonio, il quale, a sua volta, implicava la
proibizione di vendere separatamente i membri della stessa fa-
miglia. Gli schiavi erano poi esentati dal lavoro la domenica e
nelle festività religiose (da mezzanotte a mezzanotte), e i loro
padroni erano soggetti a multe o addirittura alla confisca degli
schiavi stessi in caso di violazione di questa disposizione. Altri
articoli specificavano una quantità minima di cibo e vestiario,
che il padrone era obbligato a fornire, e ordinavano che i disa-
bili e gli anziani venissero accuditi in maniera appropriata,
ospedalizzazione compresa.
408 A GLORIA DI DIO

Non sorprende affatto che l'articolo 12 proibisse agli schiavi


di portare pistole o mazze, né che l'articolo 13 dichiarasse illega-
le «che schiavi appartenenti a diversi padroni si riunissero in fol-
le». L'articolo 38, che proibiva ai padroni di torturare gli schiavi,
consentiva loro, però, di frustarli. Come vedremo, alcuni storici
considerano solo questi articoli e li presentano come esemplari
deH'intero codice, nel tentativo di sostenere che esso si occupava
solamente della «protezione dei bianchi». Peter Gay scrisse che il
Code era «straordinariamente severo - ovviamente, nei confronti
dello schiavo»5. Ma per credere ancora a questa menzogna, è ne-
cessarlo che non vengano citati non solamente gli articoli che ho
già menzionato, ma anche l'articolo 39, che ordinava ai respon-
sabili della givstizia «di procedere penalmente contro quei pa-
droni e quei sorveglianti che uccidano o mutilino i loro schiavi».
Va di moda sottovalutare il Code Noir sostenendo che spesso
non veniva osservato, né fatto rispettare - David Brion Davis si
lamentava che «non vi è testimonianza del fatto che un proprie-
tario francese sia mai stato giustiziato per aver ucciso uno schia-
vo» (Davis 1966, p. 258). Mi colpisce, e trovo significativo, il fat-
to che Davis non riporti l'intera citazione che afferma essere la
sua fonte, la quale dice: «I padroni che maltrattano o uccidono
gli schiavi erano passibili di azione legale, e abbiamo testimo-
nianza di effettive accuse mosse contro di loro, anche se pare che
nessun proprietario sia stato condannato alla pena di morte per
aver ucciso uno schiavo» (Goveia 1969, p. 132). E questo mette
sotto tutt'altra luce la questione dell'applicazione del codice, non
vi pare? Il Code Noir veniva spesso violato, non c'è dubbio. Ed è
indubbio anche il fatto che i proprietari di schiavi godessero di
molti vantaggi quando il codice veniva applicato ai loro misfat-
ti. Eppure, è altrettanto ovvio che i codici stabiliscono leggi stan-
dard, ed è molto più probabile che un'azione non venga perpe-
trata se è proibita dalla legge rispetto al caso in cui venga libera-
mente scelta - in altre parole, dopo tutto, c'era la possibilità di es-
sere perseguiti penalmente, come scoprirono alcuni proprietari
di schiavi francesi. Posto che il codice non era osservato allo stes-
so modo nelle varie colonie, va detto che in genere il Code Noir
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 409

servì come deterrente a rendere meno dura la situazione degli


schiavi nella gran parte delle colonie francesi, come vedremo
chiaramente procedendo nella nostra trattazione.
Forse sorprende il fatto che le colonie spagnole nei Caraibi
non divennero delle vere e proprie società schiaviste, né svilup-
parono un sistema di agricoltura estensiva a piantagione fino al
XIX secolo. Quindi, prim a di allora vi furono relativamente me-
no schiavi nell'America spagnola. Il passaggio alle piantagioni
iniziò aU'indomani della Guerra dei Sette Anni (1756-1763). Va-
lutando la debolezza delle proprie colonie caraibiche, la corte
spagnola decise di «emulare il successo delle altre nazioni euro-
pee con lo sviluppo di piantagioni schiaviste nei Caraibi» (Sca-
rano 1998, p. 140). Così, gli spagnoli diedero vita a grandi pian-
tagioni di caffè e zucchero a Cuba, Santo Domingo e Porto Rico,
piantagioni che richiesero un'im mensa espansione della schia-
vitù; quasi un milione di schiavi fu importato dall'Africa duran-
te la prima metà del XIX secolo, dopo di che la tratta atlantica de-
gli schiavi venne completamente abolita da trattati intemaziona-
li e dalla marina britannica (anche se gli schiavi continuarono a
entrare clandestinamente a Cuba fino al 1867).
Come accadeva nelle colonie francesi, il modo spagnolo di
trattare gli schiavi era fortemente influenzato dalle preoccupa-
zioni dei cattolici, ma risultò di una benevolenza di gran lunga
maggiore. Infatti, verso la fine del XVIII secolo, la Spagna adottò
il suo Código Negro Espanol, basato su un codice castigliano del
XIII secolo, che stabiliva le norme di trattamento degli schiavi
mori prigionieri di guerra. Il Código non solo includeva la mag-
gior parte delle disposizioni del Code Noir francese, ma era anche
molto più liberale, nel senso che garantiva agli schiavi il diritto
di proprietà e di acquisto della libertà. Nello specifico, gli schia-
vi potevano presentare una petizione al giudice «per essere va-
lutati e per potersi riscattare dietro pagamento anche da padroni
non disposti a farlo secondo il loro valore di mercato stimato giù-
dizialmente» (Schafer 1994, pp. 2-3). Ciò era notevolmente facili-
tato da altre disposizioni del codice, le quali davano agli schiavi
il diritto di lavorare in forma autonoma nei giorni di riposo,
410 A GLORIA DI DIO

compresi gli ottantasette giorni l'anno in cui erano liberi poiché


non dovevano per legge lavorare per i loro padroni, vale a dire
le domeniche (52) e nelle festività religiose (35). Nelle zone rura-
li, agli schiavi era in genere consentito di vendere i prodotti dei
propri orti e tenere il ricavato (Tannenbaum [1946] 1992). Al con-
trario, nella sua versione originale, il Code Noir poneva dei seri
ostacoli all'affrancamento, richiedendo addirittura che i proprie-
tari ottenessero il permesso dal governo - anche se «un diritto
consuetudinario di affrancamento iniziò [presto] a ottenere rico-
noscimento nelle [colonie] francesi» (Turley 2000, p. 58), il che al-
la fine portò alla modificazione del codice (Goveia 1969).
Molti scettici hanno sostenuto che i diritti concessi dal Código
fossero puramente «simbolici». Ma, allora, come si giustifica il
fatto che nel 1817 nella sola Cuba c'erano 114.058 neri liberi, mol-
ti di più che in tutte le Indie Occidentali britanniche (Schmidt-
Nowara 1999)? Oppure il fatto che gli schiavi degli spagnoli si
sposavano (in chiesa) quasi nelle stesse percentuali dei bianchi?
Per quanto riguarda l'applicazione del Código, la Chiesa non so-
10 aveva avuto un ruolo di primo piano nella sua formulazione,
ma continuò a occuparsene e i vescovi tennero spesso dei sinodi
per «affrontare le condizioni locali», durante i quali «legiferava-
no sempre a favore della massima libertà e dei diritti ammissibi-
11 [degli schiavi]» nel Código. Nel frattempo, «il clero più basso,
soprattutto a livello parrocchiale, di fatto faceva applicare questa
legge» (Klein 1969, p. 145). E lo faceva non solo mantenendo
stretti contatti con i i parrocchiani neri, ma anche cercando di re-
golare conformemente ai precetti della religione molti aspetti del
rapporto schiavo-padrone. Non solo i figli degli schiavi erano
battezzati con cerimonie formali che sottolineavano la loro
«umanità», ma si celebravano anche matrimoni religiosi per cop-
pie schiave, e anche l'affrancamento veniva presentato con una
cerimonia religiosa tenuta in chiesa (Klein 1967; Meltzer 1993;
Thomas 1997; Turley 2000).
Al contrario, i britannici non battezzavano gli schiavi né cer-
cavano di convertirli al cristianesimo, anzi, diverse assemblee
coloniali inflissero ammende pesanti ai quaccheri che avevano
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 411

tentato di farlo (Dunn 1972). Inoltre, i britannici non elaborarono


mai codici di regolamentazione dei rapporti fra padroni e schia-
vi. Nel suo violento attacco contro tutti gli storici non marxisti
della schiavitù, Marvin Harris trovò «piuttosto oscuro» il motivo
per cui tale «lacuna legislativa» potesse avere ima qualche im-
portanza «per il corso della schiavitù» (Harris 1964, p. 70). La ri-
sposta avrebbe dovuto essere ovvia anche per un marxista così
polemico. Non esisteva nessun codice, e il Parlamento si rifiuta-
va di formularne uno, così l'emanazione delle norme fu lasciata
alle colonie britanniche. Dal momento che le colonie erano com-
pletamente sotto il controllo di ima «classe dirigente» schiavista
(e la Chiesa d'Inghilterra non faceva nemmeno finta di esserne
interessata), le leggi emanate erano semplicemente il sogno dei
colonizzatori e l'incubo degli schiavi.
Nel 1661 i proprietari delle piantagioni delle Barbados adotta-
rono, per una miglior regolamentazione degli schiavi, un Act for
thè Better Ordering of Slaves. Presto l'atto fu copiato da altre colo-
nie britanniche - in Giamaica nel 1664, nel South Carolina nel
1696, e ad Antigua nel 1702 (Dunn 1972) - e quei pochi storici che
l'hanno menzionato a volte l'haruno chiamato Code of Barbados,
oppure Act of Barbados. Qualunque fosse il suo titolo, questo co-
dice, brutale almeno tanto quanto quelli formulati dagli antichi
romani (Beckles 1989; Dunn 1973; Goveia 1969; Sheridan 1974;
Watson 1989), definiva gli schiavi neri come «pagani, bruti e una
tipologia di persone volubile e pericolosa» (in Dunn 1972, p. 239).
I padroni avevano il diritto di «esercitare una forza illimitata
per obbligare [gli schiavi] al lavoro», senza alcuna sanzione, an-
che qualora ciò determinasse la mutilazione o la morte (Fogel
1989, p. 36). Pertanto, anche se il codice comminava una multa
per l'uccisione «arbitraria» di uno schiavo, questa non veniva
applicata quando gli schiavi erano puniti per un «giustificato
motivo», non importava quanto insignificante. Coerentemente
con il principio che gli schiavi erano una proprietà privata, l'am-
menda era notevolmente più pesante qualora qualcuno uccides-
se arbitrariamente lo schiavo di un altro (Dunn 1972). Agli schia-
vi erano specificamente preclusi i processi con giuria: «Essendo
412 A GLORIA DI DIO

gli schiavi bruti non meritano, per la bassezza della loro condi-
zione, di essere giudicati da [...] dodici uomini» (Goveia 1969, p.
126). Tuttavia, nel caso di un «qualsiasi reato degno di morte» il
padrone doveva portare il colpevole davanti a un giudice di pa-
ce e a due testimoni per ima condanna formale (Dunn 1972, p.
243). Il codice, inoltre, precisava che i sorveglianti dovevano te-
nere gli schiavi sotto un controllo molto stretto, e perquisire le lo-
ro capanne almeno due volte al mese alla ricerca di beni rubati e
merci di contrabbando. Agli schiavi non era permesso sposarsi,
e ai padroni era proibito dare la libertà a uno schiavo, tranne nel
caso in cui vi fosse un atto legislativo speciale. Questa restrizio-
ne legale all'affrancamento fu presto sostituita da ima tassa così
pesante da renderlo un divieto. Nelle isole Leeward settentrio-
nali un proprietario era tenuto a pagare 500 sterline al tesoro
pubblico per liberare uno schiavo, cifra molte volte superiore al
prezzo d'acquisto di imo schiavo (Johnston 1910, p. 231). Una
tassa simile fu imposta da parte del legislatore di San Cristoforo
nel 1802, con il dichiarato intento di evitare l'aum ento del nu-
mero di «negri liberi», che era considerato un «grande inconve-
niente» (Mathieson 1926, pp. 38-40). I coloni delle Barbados era-
no così preoccupati di ridurre al minimo il numero di neri liberi
che imposero ima tassa ancora più pesante sulla liberazione del-
le schiave.
Q uando il codice fu prom ulgato e inviato in patria per la re-
visione governativa, il governatore delle Barbados temette che
potesse essere uno «shock» per i funzionari in Inghilterra. Con
sua grande sorpresa, invece, il codice fu rapidam ente approva-
to nella sua integrità dai funzionari del Commercio, i quali os-
servarono che gli schiavi neri erano «gente brutale considerata
[correttamente] alla stregua di merce e beni mobili» (Mathieson
1926, p. 245).
Si tenga presente che il Code of Barbados fu adottato in parte
per moderare il trattamento degli schiavi nelle colonie britanni-
che! E questa moderazione era assolutamente necessaria. Ad
esempio, un rapporto proveniente dalla colonia di Nevis, nel
1675, parlava di «numerose persone crudeli» che avevano ucciso
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 413

«molti» schiavi neri «in modo frivolo». Nell'ultimo decennio del


1600, a Montserrat, uno schiavo fuggitivo venne squartato e «i
pezzi del suo corpo appesi nelle piazze pubbliche come di con-
suetudine» (Mathieson 1926, p. 244). Un visitatore recatosi in
Giamaica negli anni '80 dello stesso secolo catalogò un'intera se-
rie di punizioni estreme, fra le quali rientrava quella di impalare
gli schiavi attraverso l'ano, per poi bruciarli vivi lentamente
(Craton 1998; Durtn 1972). Nella pratica, i proprietari britannici
di schiavi di solito erano molto meno feroci di quanto consentito
loro dalla legge, ma la maggioranza trattava comunque i propri
schiavi più duram ente di quanto permetteva la legge nelle colo-
nie cattoliche.
Dunque, a smentita delle normali accuse mosse contro i «cru-
deli» spagnoli, era la Spagna ad avere la legge schiavista più
umana, seguita dalla Francia, e l'Inghilterra a essere colpevole di
aver tradotto in legge le pratiche più brutali. E per quanto ri-
guarda l'obiezione per cui la legge contava poco, le differenze
nella severità dei codici si accompagnano a differenze nel tasso
di mortalità: gli schiavi nelle colonie inglesi avevano infatti tassi
di mortalità molto più elevati rispetto alle colonie spagnole,
mentre le colonie francesi si collocavano nel mezzo (Beckles
1989; Curtin 1969; Dunn 1972).
Fin dall'inizio, gli osservatori della schiavitù del Nuovo Mon-
do concordarono sul fatto che gli spagnoli e i portoghesi fossero
«indubbiamente i migliori padroni di schiavi», come disse Wad-
stròm nel 1794, e che gli inglesi fossero i peggiori (in Elkins
[1959] 1976, p. 77). Sir Harry Johnston osservò che portoghesi e
brasiliani «rivaleggiano con la Spagna per il primo posto nell'e-
lenco delle nazioni schiaviste più umane [...]. La schiavitù sotto
la bandiera [...] della Spagna non era una condizione senza spe-
ranza, una vita all'inferno, come nella maggior parte delle Indie
Occidentali britanniche» (Johnston 1910, p. 89). E, naturalmente,
Frank Tannenbaum, al quale spesso si riconosce il merito di aver
compiuto studi comparativi sulla schiavitù del Nuovo Mondo 6,
sviluppò questa prospettiva in un'analisi sistematica e dettaglia-
ta nel suo Slave and Citizen ([1946] 1992). Questo studio, un clas­
414 A GLORIA DI DIO

sico pubblicato per la prim a volta nel 1946, fu considerato per


molto tempo la dim ostrazione definitiva delle notevoli differen-
ze esistenti fra la schiavitù spagnola e quella britannica, «non so-
lo per quanto riguarda il loro effetto sugli schiavi ma, ancora più
significativamente, sul luogo e sullo status morale degli uomini
liberati» (Tannenbaum [1946] 1992, p. 88). Successivamente, il
giudizio di Tannenbaum fu confermato da Stanley M. Ellcins, il
quale scrisse che nelle colonie cattoliche «la tensione e l'equili-
brio esistenti fra le tre tipologie di interesse organizzativo - Chie-
sa, Corona e agricoltura delle piantagioni - impedirono che la
schiavitù fosse portata all'estreme conseguenze di disumanità
dalla classe dei proprietari terrieri» (Elkins [1959] 1976, p. 71).
Molti altri importanti studiosi hanno espresso opinioni simili (si
veda Genovese 1969; Goveja 1969; Klein 1967 e 1986).
Ovviamente, i revisionisti si misero subito a lavorare sodo per
dimostrare che gli schiavi non stavano di certo meglio sotto gli
spagnoli o in Brasile, anzi, che forse era il contrario. Nessun re-
visionista fu più veemente di Marvin Harris (1963 e 1964), né si
dedicò con maggiore accanimento alle «escursioni polemiche fe-
roci» (Genovese 1969). Harris condannò l'idea che alcuni aspetti
della «cultura», quali leggi o ideali, potessero influenzare il si-
stema della schiavitù, e chiese che tutta l'analisi storica rimanes-
se assolutamente «materialista». Egli credeva che, dal momento
che solamente la classe dei proprietari e le modalità di produ-
zione potevano fare una qualche differenza, gli schiavi francesi e
spagnoli dovevano aver sofferto tanto quanto quelli posseduti da-
gli inglesi. Pur esprimendosi con molto meno astio, dagli anni
'50 anche gli storici marxisti brasiliani hanno attaccato l'idea che
gli schiavi stessero meglio sotto portoghesi e spagnoli, operando
un totale rovesciamento rispetto alle opinioni degli storici brasi-
liani che li avevano preceduti (si veda Schwartz 1992).
Questa posizione contraria al riconoscimento degli effetti mo-
deratori della cultura legale e religiosa riscosse un notevole sue-
cesso quando fu appoggiata da David Brion Davis nel suo libro
The Problem of Slavery in Western Culture (1966, ed. it. Il problema
della schiavitù nella cultura occidentale), vincitore del premio Pulit-
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 415

zer. Davis condannò come «modelli idealizzati» tutte le tesi che


consideravano le condizioni di schiavitù più leggere nelle aree
cattoliche, paragonandole a quelle avanzate in merito dagli
«apologeti del sud». Sostenne, invece, che «la schiavitù negra
fosse un fenomeno isolato, o Gestalt, le cui variazioni non aveva-
no grande importanza rispetto alla sua fondamentale unità» (Da-
vis 1966, pp. 228-229). E a questa affermazione seguono pagine
di esempi che vorrebbero dimostrare l'esistenza di padroni
«buoni» in zone accusate di essere state dei posti «cattivi», e vi-
ceversa, e altre dichiarazioni in merito al fatto che le leggi più
umane non ebbero alcuna conseguenza, a causa di magistrati di-
sonesti e padroni avidi e sadici. Infine, Davis conclude che «per
mancanza di informazioni statistiche dettagliate» e dal momen-
to che l'argomento è «troppo complesso», è impossibile «presu-
mere che il trattamento degli schiavi fosse sostanzialmente mi-
gliore in America Latina rispetto alle colonie britanniche, prese
nel loro complesso» (Davis 1966, p. 243).
Da nessun'altra parte Davis esprime un così grande interesse
per la statistica, e il fatto che neghi l'esistenza degli effetti cultura-
li è abbastanza strano in un libro come il suo che è ima classica sto-
ria delle idee. Anzi, Moses Finley si lamentò giustamente del fatto
che Davis fosse spesso in errore proprio perché legato - dedito
com'era al «regno delle astrazioni» - alla storia delle idee, e trop-
po poco interessato ad azioni ed eventi (Finley 1969, p. 260). Per-
sonalmente, sono incline ad attribuire l'insolita posizione di Da-
vis, la sua escursione al di fuori del regno delle idee, a quella che
chiamiamo «correttezza politica». Nel contesto polemico degli an-
ni '60, Davis sembra preoccuparsi molto di evitare le accuse di
«moderazione» sull'argomento della schiavitù, accuse così spesso
sollevate contro coloro che suggerivano la possibilità che alcuni si-
stemi schiavisti fossero meno brutali di altri - come Fogel ed En-
german (1974) avrebbero scoperto presto. La scelta più sicura era
quella di asserire che la schiavitù fosse una condizione disumana
in tutte le sue manifestazioni. E Davis non fu certamente l'unico a
far propria quest'ultima affermazione; era tipico di quell'epoca -
come Finley racconta eloquentemente (Finley 1980).
416 A GLORIA DI DIO

Un altro esempio di questo punto di vista si può ritrovare nel-


l'illustre studio sulle colonie britanniche di Richard S. Dunn, nel
quale si nega che «la schiavitù protestante inglese fu più feroce e
traumatica della schiavitù cattolica spagnola e portoghese». E
Dunn giustificò questa affermazione facendo un paragone chia-
ramente capzioso, non con i Caraibi britannici, ma con il tratta-
mento degli schiavi relativamente più mite dei «protestanti ingle-
si che coltivavano il tabacco nella Virginia, o il riso in Carolina»
(Dunn 1972, p. 225). Per molti studiosi, naturalmente, questi sono
gli unici confronti interessanti, dal momento che al centro della
loro attenzione pongono principalmente la schiavitù nel Sud de-
gli Stati Uniti. Ciò nonostante, quando si fanno dei confronti tra
schiavi impegnati nello stesso tipo di lavoro (come la coltivazio-
ne e la lavorazione dello zucchero), nello stesso ambiente fisico, e
laddove i padroni di schiavi (a differenza di quelli del Sud Ame-
rica) erano esenti dalle pressioni abolizioniste, gli schiavi di prò-
prietà di «inglesi protestanti» stavano molto peggio degli altri.
Ho dedicato tanta attenzione a questo argomento solo perché,
come tutti riconoscono, la religione svolse un ruolo molto più im-
portante nella vita degli schiavi delle colonie cattoliche rispetto a
quelle protestanti. Accettare l'idea che tali differenze religiose, e
le differenze legali da esse ispirate, non abbiano influito su come
andarono effettivamente le cose non significa solamente rifiutare
la tesi di questo capitolo, ma anche ignorare il buon senso.
Gli olandesi ebbero un ruolo di primo piano, secondo solo a
quello britannico, nella tratta atlantica degli schiavi (Emmer
1998). Tuttavia, i coltivatori olandesi fallirono più volte nei loro
sforzi di gestire delle piantagioni basate sul lavoro degli schiavi.
Acquisirono il Suriname dai britannici in cambio di Nuova Am-
sterdam, ben presto ribattezzata New York. Ma a causa di ima
serie di valutazioni errate e di un tasso elevato e costante di fu-
ghe di schiavi, i quali scappavano in roccaforti «maroon» nella
giungla, i coltivatori olandesi non riuscirono mai a produrre un
bilancio positivo e sperimentarono frequenti fallimenti. Gli os-
servatori dell'epoca classificarono gli olandesi assieme ai britan-
nici come «peggiori» schiavisti (Elkins [1959] 1976, p. 77). Certo,
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 417

anche gli olandesi erano protestanti e, come gli inglesi, elabora-


rono un loro codice schiavista.
Per quanto riguarda i danesi, solo su St. Croix riuscirono a
creare delle piantagioni di zucchero di grandi dimensioni, intor-
no al 1750, ma ormai s'intravedeva già la fine del commercio de-
gli schiavi - la Danimarca abolì la tratta degli schiavi nel 1803
(Green-Pedersen 1971 e 1981).

Brasile
La colonia portoghese del Brasile è stata la società schiavisti-
ca più grande e longeva del Nuovo Mondo (Conrad 1974,1983 e
1993; Drescher 1988; Karasch 1987; Schwartz 1985, 1992 e 1998;
Toplin 1972 e 1981). Inizialmente, gli schiavi erano nativi. Tutta-
via, gli schiavi nativi potevano essere catturati solo con spedi-
zioni costose e rischiose; inoltre, una volta prigionieri, erano
molto difficili da controllare (e spesso fuggivano di nuovo nella
giungla) e nelle loro comunità il tasso di mortalità era molto eie-
vato a causa delle malattie europee. I missionari gesuiti e dome-
nicani, poi, si opponevano con forza ed efficacia alla schiavitù
dei nativi, citando le bolle papali in materia (di questo, parlere-
mo più avanti). Così, nel 1570, la corona portoghese vietò la ri-
duzione in schiavitù dei nativi, a meno che non fossero catturati
e fatti prigionieri in ima «guerra giusta». La Chiesa cattolica ro-
mana si affrettò a osservare, però, che quelle contro i nativi non
erano affatto guerre giuste, e inoltre condannò la riduzione in
schiavitù dei nativi «per guerra sia giusta sia ingiusta», come
scrisse papa Gregorio XIV (1590-1591) nella sua bolla Cum sicuti,
nel 1591 (Panzer 1996, p. 30). Tutti questi fattori spinsero i porto-
ghesi a cercare in Africa lavoratori schiavi, con il vantaggio ulte-
riore che la costa africana era più vicina a quella del Brasile ri-
spetto a qualsiasi altro punto dell'emisfero occidentale.
Dalla metà del XVI secolo fino all'abolizione della schiavitù
nel 1888, i brasiliani importarono dall'Africa almeno 3,6 milioni
di schiavi (Curtin 1969). Oltre alla mortalità molto elevata, anche
un tasso di fertilità molto basso rese necessaria questa importa-
zione massiccia. La bassa fecondità era il risultato di una serie di
418 A GLORIA DI DIO

fattori, tra cui l'importazione di un maggior numero di uomini


rispetto alle donne (circa 3,2 a 1), le brutali condizioni di vita, il
clima malsano e l'elevatissima mortalità infantile (Conrad 1974).
Una conseguenza inattesa del continuo aumento di nuovi schia-
vi provenienti dall'Africa fu il rafforzamento della capacità di so-
praw ivenza della cultura africana, che, a sua volta, plasmò «la
cultura brasiliana in generale, com'è evidente dalla sua cucina,
dalla lingua, dalla musica, dalla religione, e da molti altri aspet-
ti della vita» (Schwartz 1998, p. 101).
La schiavitù assunse degli aspetti molto curiosi in Brasile.
Mentre un gran numero di schiavi lavoravano in squadre nelle
piantagioni, molti altri vivevano nelle città in rapida crescita - nel
1849, Rio de Janeiro aveva una popolazione di circa 200.000 abi-
tanti, quasi la metà dei quali erano schiavi e molti altri ex-schia-
vi. Spesso era molto difficile distinguere i due gruppi - non per-
ché mancasse la libertà agli ex-schiavi, ma perché molti schiavi
erano così privi di sorveglianza da essere in grado di lavorare au-
tonomamente, il che procurava loro il denaro necessario all'ac-
quisto della propria libertà (Karasch 1987). Gli schiavi delle città
formavano anche delle proprie confraternite religiose, e prende-
vano parte in modo visibile e attivo alle feste pubbliche come il
Carnevale (Schwartz 1998). A differenza delle colonie dei Caraibi,
dove la maggioranza degli schiavi veniva acquisita attraverso
nuovi prelievi dall'estero, in Brasile vi era un notevole commer-
ciò di schiavi interno, e nel tempo la zona di maggiore concentra-
zione della popolazione schiava si spostò, passando dalle pianta-
gioni di zucchero nel nord-est del Brasile alle aree di coltivazione
del caffè nel regione centro meridionale (Turley 2000).
Gli autori moderni rimangono perplessi di fronte alle leggi che
regolavano la schiavitù in Brasile, il che non sorprende, dal mo-
mento che pare che gli stessi brasiliani fossero piuttosto confusi a
proposito. Ciò che si riesce a desumere dai diversi stralci di deci-
sioni legislative e giudiziarie sono delle pratiche apparentemente
influenzate, spesso senza che vengano menzionati negli statuti,
dal diritto romano e dal Código Negro Espanol. Per esempio, la
Chiesa cattolica riconosceva i matrimoni, e questo era «tacita­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 419

mente accettato in Brasile», ma non riconosciuto dal «diritto civi-


le». Tuttavia, il diritto riconosceva che un «proprietario non potè-
va vendere o alienare uno schiavo distruggendone l'unione ma-
trimoniale» (Watson 1989, p. 98). In generale, gli schiavi avevano
il permesso di trattenere una parte del reddito guadagnato, con la
quale acquistavano di solito la propria libertà, ma non c'era alcu-
na garanzia legale, né formalità legali, per l'affrancamento. La
legge autorizzava uno schiavo a richiedere di essere venduto se
un padrone era brutale, tuttavia la mutilazione, la marchiatura e
le pesanti percosse erano pratiche ammesse dal diritto. Forse que-
sta contraddizione legislativa fu parzialmente responsabile del
fatto che alcuni padroni si sentissero Uberi di agire a proprio pia-
cimento - si dice che alcuni coltivatori brasiliani di grado sociale
elevato avessero delle stanze di tortura nelle loro proprietà (Boxer
1962; Davis 1966). In ogni caso, si è discusso molto se in Brasile gli
schiavi fossero trattati meglio o peggio che nelle altre colonie (si
veda Davis 1966). Come già accennato a proposito delle colonie
spagnole, la conclusione a cui si giunge dipende dal confronto fra
le varie situazioni. Gli schiavi in Brasile probabilmente erano trat-
tati molto meglio di quelli delle colonie britanniche dei Caraibi, e
probabilmente peggio degli schiavi nelle colonie spagnole, e for-
se non meglio di quelli nel Nord America.

Nord America
Furono relativamente pochi gli schiavi portati nell'America
del Nord se pensiamo all'estensione del sistema delle piantagio-
ni meridionali e ai milioni di americani di origine africana. I pri-
mi schiavi neri arrivarono in Nord America nel 1626, quando una
piccola spedizione di olandesi sbarcò sull'isola di Manhattan. Da
allora fino al 1808, quando l'importazione di schiavi divenne ille-
gale, nel paese entrò un totale di circa 400.000 schiavi. Per fare un
confronto, si stima che 340.000 schiavi furono importati da pian-
tatori inglesi a Barbados, una piccola isola con una superficie di
soli 430 chilometri quadrati, appena un quarto delle dimensioni
di una contea media americana. Barbados potè ricevere un nu-
mero così elevato di schiavi solo grazie al suo spaventoso tasso di
420 A GLORIA DI DIO

mortalità, approssimativamente pari al tasso d'importazione


(Curtin 1969; Dunn 1972). E, tra il 1600 e il 1808, furono circa
750.000 gli schiavi importati nella colonia inglese della Giamaica;
eppure, nel 1808, le persone di origine o discendenza africana nel-
la colonia erano meno della metà (Higman 1976).
Dunque, la caratteristica più evidente della popolazione degli
schiavi negli Stati Uniti fu la sua rapida crescita naturale. Il censi-
mento del 1790, poco prima della fine degli sbarchi delle navi di
schiavi, annoverava 694.224 schiavi in America, molti di più del
numero totale importato. Settantanni dopo, il censimento del 1860
registrava 3.950.546 schiavi, equamente divisi tra maschi e femmi-
ne, così come 482.122 neri liberi, un totale undici volte superiore al
numero giunto dall'Africa. Ciò è in radicale contrasto con la cresci-
ta demografica della schiavitù di altri luoghi. Purtroppo, questa ca-
ratteristica della schiavitù americana è stata erroneamente inter-
pretata come una prova che le condizioni essenziali della vita degli
schiavi nel Sud degli Stati Uniti fossero significativamente più fa-
vorevoli di quelle di altri tempi e luoghi. Come abbiamo visto, al-
curii sostengono che sia implicitamente immorale e razzista soste-
nere che vi siano dei diversi gradi di «malvagità» nel trattamento
degli schiavi, dal momento che la schiavitù è un male assoluto. Ma
qualsiasi storia comparativa seria è costretta a tener conto di diffe-
renze demografiche radicali, come queste. I proprietari di schiavi
americani probabilmente punivano i loro schiavi più severamente
di quanto non facessero spagnoli e francesi, tuttavia la salute degli
schiavi nel Sud degli Stati Uniti beneficiò enormemente di un eli-
ma molto più mite e della relativa assenza di malattie tropicali che
affliggevano i Caraibi. Inoltre, tutta una serie di studi accurati e ben
documentati rivela che gli americani consideravano gli schiavi di
loro proprietà, dei beni di grande valore e come tali li nutrivano,
davano loro alloggio, li vestivano e li facevano lavorare - l'alimen-
fazione degli schiavi negli Stati Uniti era probabilmente migliore di
quella del contadino medio nella maggior parte dei paesi europei
dell'epoca (Fogel 1989; Fogel, Engerman 1974). Non significa giù-
stificare o scusare gli schiavisti del Sud il riconoscere che, per per-
seguire egoisticamente i propri interessi economici, trattavano me-
glio i loro beni mobili.
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 421

Per quanto riguarda la struttura della schiavitù americana, un


fattore importante è il fatto che non fosse basata sulle piantagioni
di zucchero (Fogel 1989). Nella prima parte del XVHI secolo, la
maggioranza degli schiavi americani lavorava nell'agricoltura
estensiva, nell'artigianato e nei servizi domestici; le piantagioni di
tabacco ne impegnavano circa un terzo, e il resto degli schiavi la-
vorava nelle piantagioni il riso e di indaco. Le piantagioni di coto-
ne assunsero ima grande importanza solo intorno al 1800, con l'in-
traduzione delle macchine sgranatrici. Le piantagioni di zucchero
non impiegarono mai più del 5% degli schiavi americani, e solo in
un'epoca successiva e soprattutto in Louisiana. Rispetto alle pian-
tagioni di zucchero, le altre colture non richiedevano una forza la-
voro schiavista altrettanto numerosa. Di conseguenza, non c'era
un'avida domanda di schiavi. Come risultato, grazie anche al rapi-
do aumento naturale della popolazione schiava in America, le im-
portazioni furono ridotte al minimo.
Insieme, questi elementi hanno avuto numerose e significative
conseguenze. In primo luogo, presto gli schiavi americani furono
in maggioranza nativi del luogo: giunti agli anni '40 del 1700, più
di metà degli schiavi americani era nata in America; verso il 1780,
la percentuale era a salita a un 80% circa, e molti vivevano nel pae-
se da diverse generazioni. Al contrario, ancora nel 1800 circa un
quarto degli schiavi della Giamaica era stato importato dall'Afri-
ca nei dieci anni precedenti! In secondo luogo, quasi tutti gli schia-
vi americani lavoravano in piccole unità. Una piantagione di ta-
bacco media aveva meno di venti schiavi, e anche le più grandi
piantagioni di cotone erano piccole in confronto agli standard ca-
raibici e brasiliani, poiché avevano in media solo trentacinque
schiavi. In terzo luogo, invece che essere isolati in squadre di la-
voro di grandi dimensioni, di solito gli schiavi americani avevano
un contatto stretto e costante con i bianchi. Ciò fu ulteriormente fa-
cilitato dal fatto che, mentre gli schiavi costituivano la stragrande
maggioranza della popolazione delle società schiaviste dei Carai-
bi, persino nel profondo Sud degli Stati Uniti rimasero ima mino-
ranza. Infine, l'assiduo contatto con i bianchi in un arco di tempo
così lungo, fece sì che gli schiavi americani venissero assimilati in
maniera molto più completa nella cultura «europea» - da qui an­
422 A GLORIA DI DIO

che gli effettivi sforzi di recupero del patrimonio culturale africa-


no, che non si sono verificati nei Caraibi o in America Latina.
Molti lettori saranno sorpresi nel leggere che i primi schiavi
neri portati in America giunsero a Nuova Amsterdam su navi
olandesi, e che inizialmente la schiavitù non si era limitata agli
stati del Sud. Come mostrato nella Tabella 4.1, nel 1790 c'erano
schiavi in ogni stato, ad eccezione di Maine e Massachusetts, do-
ve, grazie all'eredità culturale e religiosa puritana, la schiavitù
era già illegale. Benché la popolazione degli schiavi si concen-
trasse negli stati del Sud, il fenomeno era diffuso in modo nu-
mericamente significativo anche nello stato di New York, in New
Jersey, Pennsylvania e Connecticut. La maggior parte degli
schiavi in questi stati del Nord era costituita da «schiavi di con-
sumo», impiegati come servitori personali.

Tabella 4.1. La schiavitù in America, 1790

Nnntero di schiavi Percentuale di popolazione


1. Virginia 292.627 39,1
2. S o u th C arolina 107.094 43,0
3. M ary land 103.036 32,2
4. N o rth C arolina 100.763 25,6
5. G eorgia 29.264 35,5
6. N ew York 21.193 6,3
7. K en tu ck y * 12.430 16,8
8. N e w Jersey 11.423 6,2
9. D elaw are 8867 15,1
10. Pennsylvania 3707 0,9
11. C on n ecticut 2648 1,2
12. N ew H am p sh ire 157 0,1
13. V erm ont 17 0,0
14. M aine 0 0,0
15. M a ssa c h u se tts 0 0,0
T o tale 694.224 17,7

Fonte: U.S. Census, 1790.


*Verrà riconosciuto come stato solo due anni dopo, nel 1792.
** Π totale comprende 958 schiavi dei territori e del District of Colum-
biada, stato da poco fondato.
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 423

Nelle piantagioni schiaviste americane, che nacquero sotto il


sistema coloniale britannico, vigevano le leggi del Code of Barba-
dos piuttosto che quelle del Code Noir o del Código Negro Espanol.
Tuttavia, a differenza dei coltivatori inglesi dei Caraibi, i coltiva-
tori degli stati del Sud adottarono presto molte «riforme», nel ten-
tativo di prevenire la crescente pressione degli abolizionisti del
Nord, soprattutto dopo l'indipendenza. Così, ad esempio, i tribù-
nali e i parlamenti del Sud approvarono delle leggi contro l'ucci-
sione degli schiavi. Nel North Carolina, nel 1791, l'uccisione de-
gli schiavi era considerata un reato perseguibile penalmente e pu-
nibile come «omicidio»; nel 1816, la Georgia dichiarò che l'ucci-
sione o la mutilazione di uno schiavo era equivalente all'uccisio-
ne o alla mutilazione di una persona bianca (Cobb [1858] 1968).
In generale, però, quasi tutti i tribunali del profondo Sud de-
finivano gli schiavi come dei «beni immobiliari» e alcuni li trat-
tavano semplicemente come «beni personali» (Morris 1996). Ciò
significava che gli schiavi potevano essere ereditati, scambiati o
venduti a piacere, senza riguardo a conseguenze come la separa-
zione delle coppie sposate o dei genitori dai figli. Tuttavia, in mi-
sura sempre maggiore, i tribunali del Sud dichiararono che gli
schiavi «erano delle proprietà con un'anima» e definirono i prin-
cipi concernenti i «doveri reciproci di schiavi e padroni ratifican-
doli nella legge». Quindi, i padroni «erano obbligati a sfamare e
vestire i loro schiavi, oltre che a fornire cure mediche, e in molte
giurisdizioni schiaviste dovevano garantire una consulenza le-
gale agli schiavi processati per qualche crimine» (Morris 1998, p.
257). In alcune città degli stati del Sud agli schiavi era permesso
il lavoro autonomo (previo pagamento di un'im posta ai loro pa-
droni), e a volte svolgevano mestieri altamente qualificati. Ma i
tribunali ritennero sempre prioritari i diritti di proprietà degli
schiavi rispetto agli altri principi.
Gli abitanti degli stati del Sud tendevano, poi, proprio come i
bianchi nei Caraibi britannici, a ritenere poco desiderabile la pre-
senza di «neri liberi». Così, il censimento del 1860 rilevò che nel
1849, su oltre 3,2 milioni di schiavi, solo 1467 erano stati liberati
in quell'anno, e nel 1859, su oltre 3,9 milioni di schiavi, ne erano
stati liberati solamente 3018. In effetti, le statistiche sui neri libe-
ri offrono l'opportunità per un «esperimento naturale» volto a
424 A GLORIA DI DIO

valutare se, e in quale misura, il Code Noir e il Código Negro


Espanol facessero una qualche differenza nella vita degli schiavi.
Questo comporta necessariamente un confronto fra la «cattolica»
Louisiana e il resto del Sud «protestante».
La Louisiana adottò il Code Noir nel 1724, quando i francesi
consolidarono la loro giurisdizione sul territorio. Quando il con-
trollo passò alla Spagna, nel 1769, le condizioni di vita degli
schiavi furono notevolmente migliorate grazie alle disposizioni
liberali del Código Negro Espanol concernenti il diritto di prò-
prietà degli schiavi e il diritto di acquistare la propria libertà. La
Francia riconquistò la Louisiana nel 1802 e la vendette agli Stati
Uniti l'anno successivo, ma le norme cattoliche in merito alla
schiavitù e al trattamento dei neri liberi erano ormai profonda-
mente radicate. Ciò è evidente dal censimento degli Stati Uniti
del 1830 che rilevò che in Louisiana c'era una percentuale molto
più alta di neri liberi (13,2%) rispetto a qualsiasi altro stato schia-
vista. Il contrasto è particolarmente netto con i paesi limitrofi che
avevano delle economie di piantagione simili: Alabama (1,3%),
Mississippi (0,8%) e Georgia (1,1%).
Tuttavia, è ancora più indicativo il contrasto tra New Orleans
e le altre importanti città del Sud, come mostrato nella tabella 4.2
(in cui i dati per le città sono rielaborati sulla base dei dati riferì-
ti alla contea). A New Orleans, oltre quattro residenti neri su die-
ci erano liberi! Persino a Richmond e Norfolk i neri avevano mol-
te meno probabilità di essere liberi, e queste città non si trovano
certo nel profondo Sud. Nelle città della Carolina le probabilità
che un nero fosse libero variavano da imo su dieci a uno su ven-
ti. Altrove, pochissimi schiavi avevano conquistato la libertà. E
da cosa possono derivare queste enormi differenze se non dagli
effetti dei codici e dell'attitudine cattolica nei confronti della
schiavitù? Invece di versare lacrime di coccodrillo per la man-
canza di « informazioni statistiche dettagliate» che rivelino se i
codici schiavisti cattolici abbiano fatto o meno ima qualche dif-
ferenza, David Brion Davis avrebbe fatto meglio a fare i sempli-
ci calcoli mostrati nella Tabella 4.2 - dati disponibili da 170 anni.
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 425

Tabella 4.2. Neri liberi nelle città degli stati del Sud, 1830

Percentuale di neri liberi Popolazione nera

N ew O rleans, Louisiana 41,7 28.545

Richm ond, Virginia 21,1 11.385

N orfolk, Virginia 16,5 11.492

Raleigh, N o rth Carolina 9,3 8942

C harleston, S o u th Carolina 6,4 56.116

C olum bia, S o u th Carolina 5,2 9534

S avannah, G eorgia 4,3 9901

A u g u sta , G eorgia 3,6 6481

N ashville, Tennessee 3,9 12.133

M em phis, Tennessee 2,9 2111

M ontgom ery, A labam a 1,0 6515

Selm a, A labam a 0,9 7723

N atiche, M ississippi 1,2 11.077

V icksburg, M ississippi 0,5 4505

Fonte: U.S. Census 1830


Nota: Atlanta all'epoca non esisteva.

Essendo molto numerosi, i neri liberi (così come gli schiavi)


svolgevano dei ruoli straordinariamente im portanti nella vita
culturale ed economica di New Orleans, e la razza non era af-
fatto un fattore decisivo discriminante nelle attività sociali (In-
gersoll 1999). In realtà, come rivelano le cifre del US Census del
XIX secolo, benché in alcune parti del Sud vi fossero proprietari
neri di schiavi, questi erano molto più comuni a New Orleans;
solamente la Louisiana aveva dei grandi proprietari di pianta-
gioni neri che possedevano molti schiavi (Foner 1970; Genovese
1974; Koger 1985; Menn 1964; Mills 1977). Invece, nelle altre par-
ti dell'America, e persino negli stati non schiavisti, ai neri liberi
erano negati molti diritti civili, compreso quello di testimoniare
nei tribunali.
42 è A GLORIA DI DIO

Si completa così questa «breve rassegna» sulla schiavitù pen-


sata per fornire solo una base adeguata per l'analisi del ruolo
svolto dalla religione nel porre fine a tutta questa triste storia.

Dei e morale

Gli studiosi di scienze sociali considerano un assioma il con-


cetto che la funzione della religione sia quella di sostenere l'ordi-
ne morale. Ma non è vero, o almeno non è vero in molti casi, poi-
ché solamente alcuni tipi di religione hanno delle implicazioni mo-
rali. Questo non vuol dire che ci siano delle società senza codici
morali, ma che in molte di esse la morale non ha alcun fonda-
mento religioso e manca di autorità sacra. Svilupperò questo
aspetto a lungo nel poscritto. Qui, sarà sufficiente un breve cenno.
La possibilità che le religioni generino ima cultura morale di-
pende principalmente dalla loro immagine di Dio. Non solo le
essenze divine non sono in grado di trasmettere dei comanda-
menti, ma non possono nemmeno generare il concetto di «pec-
cato». Il Tao non consiglia agli uomini di amarsi gli uni gli altri,
né la «Causa Prima» dice di non desiderare lo sposo o la sposa di
altri. Il «fondamento del nostro essere» di Paul Tillich non è un
essere, e di conseguenza è incapace di avere delle preoccupazioni
morali, figurarsi di esprimerle (Tillich 1951). Solamente gli Dei -
esseri soprannaturali consapevoli - possono desiderare che noi
ci comportiamo secondo i principi della morale. Ma nemmeno
questo è sufficiente. Gli Dei possono fondare l'ordine morale so-
lo se sono disponibili e affidabili, se si interessano, si informano
e si dimostrano attivi per il bene degli essere umani. Inoltre, per
favorire la virtù fra gli uomini, gli Dei devono essere a loro voi-
ta virtuosi e devono preferire il bene al male. Infine, gli Dei saran-
no efficaci nel promuovere i precetti morali se la loro potenza si
estende a largo raggio.
Oltre a essere più deboli, le numerose divinità dei sistemi po-
liteistici spesso non sono concepite come disponibili e affidabili,
o necessariamente attive a favore del bene. Tra i nativi americani
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 427

della costa nordoccidentale, gli Dei non si occupavano di mora-


le, e la magia dominava i riti religiosi (Suttles 1990). A parte le
persone che appartenevano alle sette ascetiche, la maggior parte
di greci e romani credeva che gli Dei potessero ascoltare le loro
suppliche, ma che nella maggioranza dei casi non lo facessero, e
non se ne curassero. Aristotele insegnava che gli Dei non erano
capaci di una reale preoccupazione per gli esseri umani - potè-
vano provare lussuria, gelosia e rabbia, certo, ma mai affetto nei
loro confronti. Questi Dei richiedevano di essere propiziati, e tal-
volta si poteva contrattare con loro dei favori. Ma non si poteva
fare affidamento su di loro, e addirittura forse non era nemmeno
saggio attirare la loro attenzione. Certo, gli Dei della Grecia e di
Roma (e dei politeismi in generale) a volte mantenevano la pa-
rola e davano agli esseri umani ricompense di grande valore, ma
spesso mentivano e arrecavano gravi danni agli uomini per ra-
gioni molto meschine. Come affermò William Foxwell Albright
(1957, p. 265), «Le divinità greche dell'Olimpo [erano] figure
poetiche affascinanti [ma] modelli poco edificanti». Poteva valer
la pena offrire periodicamente a simili Dei un animale sacrifica-
le o due (soprattutto poiché i donatori banchettavano con le of-
ferte dopo la cerimonia), ma nulla più di questo.
Al contrario, gli immensi Dei del monoteismo chiedono mol-
to di più, e lo ottengono. In cambio delle ricompense ultraterre-
ne che promettono, e per consentire agli esseri umani di evitare
le terribili punizioni che minacciano, questi Dei impongono co-
stantemente ima serie di richieste, fra cui l'ubbidienza ai detta-
gliati codici di comportamento, non solo nei confronti del sacro,
ma anche gli uni verso gli altri. Questi codici etici si basano sul
concetto di peccato - pensieri e azioni illecite che meritano una
punizione divina. Alcuni peccati saranno precisati da rivelazio-
ni, altri saranno i prodotti della teologia, cioè dello studio delle
implicazioni delle rivelazioni.
L'identificazione di nuovi peccati è stata un punto centrale
nel lavoro di teologi ebrei, cristiani e islamici. Per esempio, in
nessuna parte della Bibbia è vietato il suicidio. Fu sant'Agostino
ad affermare che il togliersi la vita fosse un peccato (Città di Dio
428 A GLORIA DI DIO

1,17-23). Per tornare alla questione del rapporto etica-religione,


mi ripropongo di dimostrare che prim a del sorgere del monotei-
smo le religioni erano poco attrezzate per imporre dei codici mo-
rali, comprese le proibizioni di natura morale nei confronti della
schiavitù. E i filosofi non potevano certo riempire questo vuoto.
Poi, spiegherò in che modo due antiche sette ebraiche e, succes-
sivamente, il cristianesimo medievale stabilissero che la schia-
vitù era uri peccato - un principio in seguito ratificato da molti
papi, e dopo ancora dai quaccheri, seguiti da molti altri gruppi
protestanti. Infine spiegherò perché i teologi islamici non giun-
sero alla conclusione che la schiavitù fosse un peccato.

Politeismo e schiavitù
Quando le religioni non sottoscrivono l'ordine morale, la cri-
tica sociale è un'iniziativa laica lasciata a filosofi, artisti e altri in-
tellettuali. Non avendo alcun concetto di peccato per rafforzare i
propri giudizi, e non avendo rivelazioni da cui partire, i filosofi
antichi, per la maggior parte, furono dei sostenitori dello status
quo. Non vi è alcuna traccia di filosofi nel mondo sumero, babi-
lonese o assiro che abbiano mai protestato contro la schiavitù,
«né vi è alcuna espressione della benché minima simpatia per le
vittime di questo sistema. La schiavitù veniva semplicemente
data per scontata» (Mendelsohn 1949, p. 123). Anzi, il Codice di
Hammurabi (1750 ca. BCE) prescriveva la morte per chi aiutava
uno schiavo a fuggire.
Nemmeno i grandi filosofi greci condannarono la schiavitù.
Platone era contrario alla schiavitù dei suoi compagni «elleni»
(greci) ma assegnò agli schiavi «barbari» (stranieri) un ruolo cru-
ciale nella sua Repubblica ideale - dove avrebbero svolto tutto il
lavoro produttivo (Schlaifer 1936). Anzi, le regole stilate da Pia-
tone in merito al giusto trattamento degli schiavi erano insolita-
mente brutali - «Nessun codice americano fu così severo» (Davis
1966, p. 66). Inoltre, Platone non credeva che il divenire schiavo
fosse una questione di pura malasorte; piuttosto, era la natura a
creare «un popolo schiavo», privo della capacità mentale neces-
saria alla virtù o alla cultura, e adatto solamente a servire. Dal
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 429

momento che gli schiavi non avevano anima, non avevano nem-
meno «diritti umani», e i padroni potevano trattarli a loro arbi-
trio. Ovviamente, se qualcuno uccideva uno schiavo apparte-
nente ad altri, doveva ricompensare il padrone con il doppio del
valore di mercato dello schiavo morto - un principio che riap-
parve anche nel Code of Barbados7. Benché suggerisse di sottopor-
re a una rigida disciplina gli schiavi, Platone credeva che, per
prevenire le agitazioni, fosse necessario non sottoporli a eccessi-
ve crudeltà (Schlaifer 1936). Come si legge nel suo testamento, le
proprietà di Platone comprendevano cinque schiavi.
Aristotele rifiutava la tesi avanzata dai sofisti per cui tutta
l'autorità si fonda sulla forza e dunque si autogiustifica, poiché
dal canto suo condannava la tirannia politica. Ma allora, come
giustificare la schiavitù? Qui, Aristotele anticipò gli umanisti so-
stenendo che senza schiavi che si occupassero del lavoro, gli uo-
mini illuminati non avrebbero avuto il tempo e l'energia per per-
seguire virtù e conoscenza. E giustificava la schiavitù anche affi-
dandosi alle affermazioni «biologiche» di Platone - la schiavitù è
giustificata perché gli schiavi sono molto più simili a bruti ottu-
si che a uomini liberi (Schlaifer 1936). Lasciati a se stessi, gli
schiavi sarebbero stati guidati solamente dai loro appetiti, cau-
sando un gravissimo danno alle città. Il fondamento della schia-
vitù, scrisse, è innato: «Certi esseri, subito dalla nascita, sono de-
stinati, parte a essere comandati, parte a comandare» (Politica I,
1254). Alla sua morte, le proprietà personali di Aristotele com-
prendevano quattordici schiavi.
Fra gli ateniesi c'erano anche delle «voci» che dissentivano da
questi principi. Il dramm aturgo Euripide (480-406 BCE) sostene-
va che alcuni schiavi erano più virtuosi e intelligenti dei loro pa-
droni, rifiutando così l'idea che la schiavitù fosse ima qualità na-
turale ereditaria. Tuttavia, egli accettava anche il concetto che «vi
sono alcuni la cui natura è più adatta alla schiavitù» (Schlaifer
1936). Il poeta Filemone (361-262 BCE) scrisse che schiavo e pa-
drone sono fatti della stessa carne, e che non è la natura, ma il fa-
to, a ridurre in schiavitù il corpo. E il filosofo sofista del IV seco-
lo Alcidamante insegnava che «Dio ci ha creati tutti liberi; la na­
430 A GLORIA DI DIO

tura non crea schiavi» (in Meltzer 1993, p. 96). Ma quale Dio? I
sofisti non potevano invocare un Unico Vero Dio. E invocare un
Dio minore non faceva tremare proprio nessuno.

Monoteismo e schiavitù
Durante il XX secolo, la maggioranza degli studiosi che ha
trattato l'argomento ha sottolineato con una certa soddisfazione
che ebraismo, cattolicesimo romano e islam accettarono tutti la
schiavitù (si veda Blackbum 1998; Davis 1966; Meltzer 1993). Di-
mentichiamo per un momento che la Chiesa cattolica medievale
abbia condannato la schiavitù. Di certo, non potremmo sorpren-
derci se i teologi soffrirono della stessa «cecità» della loro epoca
e dei loro paesi. Come abbiamo visto nel capitolo 2, molti teoio-
gi cristiani, fra i quali sant'Agostino e Giovanni Calvino, hanno
insegnato che le limitazioni culturali spesso hanno reso impossi-
bile a persone appartenute a epoche precedenti la comprensione
di una verità rivelata loro. Il punto rilevante è che i teologi pos-
sono sempre innalzarsi al di sopra di questi limiti. Ed è questa la
storia che ora vi racconterò.

Ebraismo: esseni e terapeuti


Mosè non scese dalla montagna con un comandamento che
proibiva la schiavitù. Eppure, secondo la Torah, Dio gli rivelò un
codice morale molto elaborato in merito alla condizione degli
schiavi - un codice che rese la schiavitù ebraica molto più urna-
na di quella di altre società dell'epoca classica.
Benché fosse proibito agli ebrei il ridurre in schiavitù altri
ebrei, e quindi nonostante il fatto che i loro schiavi provenissero
da popoli «pagani», c'erano delle limitazioni severe in merito al
modo di trattarli. Per qualsiasi padrone ebreo che uccidesse imo
schiavo c'era la pena di morte. La Torah ammoniva anche che
doveva essere data come ricompensa la libertà a uno schiavo che
avesse subito atti di violenza: «Quando un uomo colpisce l'oc-
chio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, gli darà la li-
bertà in compenso dell'occhio. Se fa cadere il dente del suo schia-
vo o della sua schiava, gli darà la libertà in compenso del dente»
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 431

(Esodo 21,26-27). La legge ebraica diceva che i figli degli schiavi


non dovevano essere separati dai loro genitori, né le mogli dai
mariti. Inoltre, nel Deuteronomio (23,16-17) agli ebrei si intima di
non riportare indietro gli schiavi fuggiti: «Non consegnerai al suo
padrone imo schiavo che, dopo essergli fuggito, si sarà rifugiato
presso di te. Rimarrà da te nel tuo paese, nel luogo che avrà scel-
to, in quella città che gli parrà meglio; non lo molesterai». Anzi,
nel Talmud si dice che lo schiavo deve essere trattato come un
membro della famiglia, gli si deve consentire il risposo del saba-
to e lo si deve trattare in modo equo: «Non bere vino invecchia-
to dando a lui quello nuovo. Non dormire su cuscini lasciando-
lo giacere sulla paglia» (in Meltzer 1993, p. 44).
Alla fine, alcuni ebrei rifiutarono del tutto la schiavitù. Così si
dice che gli esseni, la setta ascetica descritta nel capitolo 1, aves-
sero reso illegale la schiavitù8. Come riferì Filone di Alessandria
(20 ca. BCE-50), gli esseni «non solo condannano i padroni come
ingiusti in quanto ledono l'uguaglianza, ma anche come empi
poiché violano la legge naturale che ha generato e nutrito tutti
gli uomini allo stesso modo» (Ogni uomo buono è libero 79). In mo-
do simile, anche i terapeuti («guaritori»), altra setta ebraica che
si crede sia vissuta vicino ad Alessandria, rifiutavano la schia-
vitù. Filone scrisse: «Non sono serviti da schiavi, poiché ritengo-
no che possederne sia assolutamente contro natura, che ha gene-
rato gli uomini liberi» (De vita Contemplativa 70).
Filone non spiega la teologia in base alla quale questi gruppi
condannavano la schiavitù. Dal momento che la Torah chiara-
mente la accetta, come potevano costoro rifiutarla pur sostenen-
do di essere ligi osservanti della Legge? Personalmente, credo
che la risposta sia duplice. Per prim a cosa, potrebbero non aver
definito la schiavitù un peccato di per sé, ma essere giunti alla
conclusione che il vero ascetismo richiedesse molti sacrifici, fra i
quali il non essere serviti da altri. In altre parole, rifiutarono la
schiavitù come peccato in quanto asceti, come rifiutavano tutti
gli altri lussi e comodità. In secondo luogo, credevano che nella
misura in cui osservavano pienamente la Legge, erano assoluta-
mente liberi di imporre dei precetti morali ancora più rigidi. Per
432 A GLORIA DI DIO

esempio, non osservavano solo i precetti kosher di astenersi dal


mangiare carne di maiale, ma li estendevano a tutti i tipi di car-
ne. Allo stesso modo, non solo osservavano la Legge in merito al
trattamento umano degli schiavi, ma andando oltre, non riduce-
vano nessuno in condizione di schiavitù.
Dal momento che gli esseni e i terapeuti erano gruppi isolati,
considerati precursori dei monaci cristiani, non è certo che si
aspettassero che il loro rigore etico fosse adottato da tutti. Di con-
seguenza, il loro rifiuto della schiavitù potrebbe non aver avuto
nessun significato morale al di fuori delle loro comunità. Sia co-
me sia, per quanto sono riuscito a determinare, esseni e terapeu-
ti furono le prime «società» (benché società piccole) a proibire la
schiavitù. E non è una coincidenza il fatto che gli ebrei fossero
anche i primi a credere che Dio fosse molto interessato al com-
portamento morale degli uomini.

Santi e papi
Anche alcuni autori cattolici ripetono che la schiavitù non fu
ripudiata dalla Chiesa cattolica romana prim a del 1890 (si veda-
no Hurbon 1992; Noonan 1993), e un sacerdote britannico ha per-
sino affermato che ciò non è avvenuto prima del 1965 (Maxwell
1975). Sciocchezze! A ddirittura nel VII secolo, santa Batilde (mo-
glie di re Clodoveo II) divenne famosa per la sua campagna con-
tro il commercio di schiavi e a favore della loro liberazione;
nell'851, san Oscar tentò di fermare la tratta vichinga degli schia-
vi. Il fatto che venisse loro impartito il battesimo a opera della
Chiesa fu portato come prova del fatto che anche gli schiavi
avessero un'anim a, e ben presto re e vescovi - compresi Gugliel-
mo il Conquistatore (1027-1087), san Wulfstan (1009-1095) e
sant'Anseimo (1033-1109) - proibirono la riduzione in schiavitù
dei cristiani (Attwater, John 1993; Thomas 1997). E dal momento
che, a eccezione di piccoli insediamenti di ebrei e dei vichinghi a
nord, tutti nel vecchio continente erano per lo meno nominai-
mente cristiani, nella pratica questo significò abolire la schiavitù
nell'Europa medievale, tranne che ai confini meridionali e orien-
tali con l'islam, dove cristiani e musulmani riducevano in schia­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 433

vitù i prigionieri. Tuttavia, anche questo comportamento a volte


fu condannato: nel X secolo, i vescovi di Venezia fecero pubblica
penitenza per il loro passato coinvolgimento nel commercio di
schiavi mori e cercarono di impedire ai veneziani di esserne nuo-
vamente coinvolti. Poi, nel XIII secolo, san Tommaso d'Aquino
affermò che la schiavitù era un peccato, e ima serie di papi so-
stenne la sua posizione, a partire dal 1435 fino ai tre grandi prò-
nunciamenti contro la schiavitù di papa Paolo III, nel 1537 (Brett
1994; Panzer 1996).
È importante osservare che all'epoca di san Tommaso d'Aqui-
no la schiavitù era ormai un sistema legato al passato o a terre
lontane, per cui egli prestò molta poca attenzione al concetto in
sé, occupandosi di più della servitù, che riteneva ripugnante. Tut-
tavia, nella sua analisi della moralità nelle relazioni umane, san
Tommaso definì la schiavitù contraria alla legge naturale, dichia-
rando che tutte «le creature razionali» avevano diritto alla giusti-
zia. Dunque, egli non trovava nessun fondamento naturale per la
riduzione in schiavitù di ima persona piuttosto che di un'altra,
«rimuovendo in tal modo qualsiasi possibile giustificazione della
schiavitù basata su razza o religione» (Brett 1994, pp. 57, 78). La
giusta ragione, e non la coercizione, è il fondamento morale del-
l'autorità, poiché «un uomo non è per natura assegnato a un altro
come suo fine» (Somma teologica q.3, a.3). San Tommaso distingue
due forme di «sottomissione» o autorità, giusta e ingiusta. La pri-
ma esiste quando i capi operano per il vantaggio e il beneficio dei
loro sottoposti. La forma ingiusta di sottomissione «è quella del-
la servitù, nella quale colui che comanda usa il suddito per la prò-
pria utilità» (Somma teologica q.92, a.1-2). L'opinione che la schia-
vitù era un peccato, fondata sull'immensa autorità di san Tom-
maso d'Aquino, divenne ufficiale nella Chiesa.
È vero che alcuni papi non osservarono l'obbligo morale di
opporsi alla schiavitù - in effetti, nel 1488, papa Innocenzo Vili
accettò da re Ferdinando d'Aragona il dono di un centinaio di
schiavi mori, e ne diede alcuni ai suoi cardinali favoriti. Certo,
Innocenzo può essere accusato di ima lunga serie di azioni im-
morali, come abbiamo visto nel capitolo 1, ma il lassismo non va
434 A GLORIA DI DIO

confuso con la dottrina. Infatti, benché avesse avuto personal-


mente molti figli, Innocenzo non modificò la dottrina ufficiale
sul celibato del clero. Analogamente, il fatto che lui avesse accet-
tato degli schiavi in dono non va confuso con gli insegnamenti
ufficiali della Chiesa, che venivano proclamati di frequente e in
maniera esplicita.
Durante gli anni '30 del 1400, gli spagnoli colonizzarono le
Canarie e iniziarono a ridurre in schiavitù la popolazione nativa.
Non si trattava di servitù, ma di vera e propria schiavitù, dello
stesso tipo di quella che da molto tempo cristiani e mori pratica-
vano con i rispettivi prigionieri. Quando la notizia giunse a pa-
pa Eugenio IV (1431-1447), questi emanò ima bolla, Sicut dudum.
Il Papa parlò con franchezza, senza misurare le parole. Minac-
dando la scomunica, dava ai destinatari della bolla quindici
giorni «per riportare alla loro precedente libertà tutte le persone
di entrambi i sessi residenti nelle isole Canarie [...]. Queste per-
sone devono essere totalmente e perpetuamente libere e devono
essere liberate senza esazione e ricevimento di denaro» (in Pan-
zer 1996, p. 8). Papa Pio II (1458-1464) e papa Sisto IV (1471-1484)
seguirono questa strada con altre bolle nelle quali condannarono
la schiavitù dei popoli delle Canarie, che, ovviamente, era conti-
nuata. E ciò dimostra chiaramente la debolezza dell'autorità pa-
pale in quell'epoca, non l'indifferenza della Chiesa di fronte al
peccato della schiavitù.
Con il successo delle invasioni spagnole e portoghesi del
Nuovo Mondo, iniziò la riduzione in schiavitù dei popoli indi-
geni e l'importazione degli africani, e alcuni schiavisti ritennero
che non si trattasse di una violazione della morale cristiana, in
quanto tali popoli primitivi non erano «creature razionali» con
diritto alla libertà, ma erano una sorta di animali, e quindi potè-
vano essere legittimamente sottoposti allo sfruttamento umano.
Questa teologia strumentale dei mercanti di schiavi è stata abil-
mente utilizzata da Norman R. Cantor per accusare il cattolicesi-
mo: «La Chiesa accettava la schiavitù [...] Nella Spagna del XVI
secolo, i cristiani discutevano ancora se gli schiavi neri avessero
un'anim a o fossero stati creati come animali dal Signore» (Can-
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 435

tor 1993, p. 38). Ma Cantor non accenna nem m eno al fatto che
Roma avesse p iù volte proclamato che la schiavitù del N u ovo
M ondo era m otivo di scomunica.
Eppure, questo è precisam ente ciò che disse sulla questione
papa Paolo III (1534-1549). Benché appartenesse a una fam iglia
ecclesiastica romana, e benché fosse stato una sorta d i libertino
in gioventù (fu ordinato cardinale a 25 anni, ma non accettò l'or-
dinazione fino all'età d i cinquantanni), Paolo si rivelò un Papa
m olto autorevole e devoto, riconobbe pienam ente il significato
morale del protestantesim o e avviò la Controriforma. La sua boi-
la contro la schiavitù del N u o v o M ondo (così com e le bolle sim i-
li di altri Papi) è andata in qualche m odo «perduta» (Auping
1994; Panzer 1996) fra i docum enti storici, fino a poco tem po fa 9.
Credo che ciò sia d ovuto ai pregiudizi degli storici protestanti,
magari indignati dal fatto che il Papa fondasse il suo attacco sul
presupposto che Satana era la causa della schiavitù:

[Satana,] nemico del genere umano, che si oppone sempre alle buo-
ne opere per portare gli uomini alla distruzione, inventò un meto-
do fino ad allora inaudito per impedire che la parola divina di sai-
vezza fosse predicata alle genti. Egli ha aizzato alcuni dei suoi ac-
coliti, i quali, desiderando soddisfare la propria avarizia, si trova-
rono ad affermare che gli indiani occidentali e meridionali di cui
abbiamo recente conoscenza, con il pretesto che ignorano la fede
cattolica, debbono essere sottoposti alla nostra obbedienza come se
fossero animali. E li riducono in servitù, facendoli soffrire come
non farebbero nemmeno con le bestie.
Noi [...] consideriamo [...] che gli stessi indiani [siano] uomini ve-
ri [... e] facendo ricorso all'autorità apostolica determiniamo e di-
chiariamo con la presente lettera che detti indiani e tutte le genti che
in futuro giungeranno alla conoscenza dei cristiani, anche se vivo-
no al di fuori della fede cristiana, possono usare in modo incondi-
zionato e lecito della propria libertà e delle proprie proprietà; che
non devono essere ridotti in servitù e che tutto quello che si è fat-
to e detto in senso contrario è senza valore. (In Panzer 1996, pp. 16-
21. Corsivo mio)
436 A GLORIA DI DIO

In una seconda bolla sulla schiavitù, Paolo minacciò la sco-


munica contro chiunque, indipendentemente da «dignità, stato,
condizione o grado [...] possa in qualche modo presumere di ri-
durre detti indiani in servitù o di spogliarli dei loro beni» (Pan-
zer 1996, p. 22).
Eppure, non accadde nulla. Ben presto, al brutale sfruttamen-
to dei nativi si aggiunsero i viaggi delle navi schiaviste spagnole
e portoghesi fra Africa e Nuovo Mondo. E proprio come i mis-
sionari cattolici d'oltremare avevano spinto la Chiesa romana a
condannare l'asservimento degli indios, iniziarono subito simili
appelli contro l'importazione di schiavi neri. Il 22 aprile 1639, pa-
pa Urbano Vili (1623-1644), su richiesta dei gesuiti del Paraguay,
emanò ima bolla, Commissum nobis, nella quale riaffermava le di-
rettive «del nostro predecessore Paolo III» per cui chi riduceva
altri in schiavitù era soggetto a scomunica (Panzer 1996, p. 33).
Alla fine, la Congregazione del Sant'Uffizio (la Santa Inquisizio-
ne) si occupò della questione. Il 20 marzo 1686, in forma di que-
stionario, domande e risposte, decretò:

Si chiede:
è permesso catturare con la forza e l'inganno neri e altri nativi che
non hanno fatto male a nessuno?
La risposta è: no.
È permesso comprare, vendere o stipulare contratti di compraven-
dita di neri e altri nativi che non hanno fatto male a nessuno e so-
no stati fatti prigionieri con la forza e l'inganno?
La risposta è: no.
I possessori di neri e altri nativi che non hanno fatto male a nessu-
no e sono stati catturati con la forza o l'inganno sono tenuti a la-
sciarli liberi?
La risposta è: sì.
I catturatori, i compratori e i possessori di neri e altri nativi che non
hanno fatto male a nessuno e che sono stati catturati con la forza e
l'inganno sono tenuti a ricompensarli?
La risposta è: sì. (Panzer 1996, appendice C)
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 437

Qui non c'è proprio nulla di ambiguo. Il problema non era


che la Chiesa non condannava la schiavitù, quanto piuttosto che
erano in pochi ad ascoltarla, e che la maggioranza non sentiva
queste parole. In quest'epoca, i Papi avevano poca o nessuna in-
fluenza su spagnoli e portoghesi, dal momento che gli spagnoli
dominavano la gran parte d'Italia (si veda il capitolo 1); nel 1527,
sotto il comando di Carlo V, avevano addirittura saccheggiato
Roma. E se il Papa aveva poca influenza in Spagna e Portogallo,
ne aveva ancora meno nelle colonie del Nuovo Mondo, se non in
forma indiretta, attraverso l'operato degli ordini religiosi. Infatti,
era addirittura illegale pubblicare i decreti papali «nei possedi-
menti coloniali spagnoli senza il consenso reale» e al re spetta-
vano anche le nomine di tutti i vescovi (Latourette 1975, p. 944).
Ciò nonostante, la bolla di Urbano Vili fu letta in pubblico dai
gesuiti di Rio de Janeiro, con il risultato che dei rivoltosi attacca-
rono il collegio gesuita locale e ferirono un certo numero di reli-
giosi. A Santos, una folla travolse il vicario generale gesuita
quando questi cercò di rendere pubblica la bolla, e i gesuiti furo-
no espulsi da San Paolo quando si diffuse la voce del loro coin-
volgimento nella pubblicazione del documento (Delumeau 1977;
Genovese 1974). Ciò nonostante, la conoscenza delle bolle anti-
schiaviste e delle dichiarazioni successive dell'Inquisizione fu
generalmente limitata al clero, soprattutto agli ordini religiosi, e
quindi ebbe un impatto pubblico scarso.
Naturalmente, spagnoli e portoghesi non erano gli unici
schiavisti presenti nel Nuovo Mondo, ma anche se fossero state
pubblicate e diffuse ovunque, le bolle papali non avrebbero avu-
to nessuna forza morale fra i britannici e gli olandesi. Va comun-
que osservato che l'introduzione della schiavitù nel Nuovo Mon-
do non spinse nessun importante esponente religioso o politico
protestante, danese o britannico, a denunciarla.
Anche se le bolle papali contro la schiavitù non furono ascoi-
tate nel Nuovo Mondo, le visioni antischiaviste della Chiesa eb-
bero comunque un effetto moderatore significativo nelle Ameri-
che cattoliche tramite il Code Noir e il Código Negro Espanol. In en-
trambi i casi, la Chiesa ne guidò la formulazione e applicazione;
438 A GLORIA DI DIO

dimostrò quindi la sua fondamentale opposizione alla schiavitù,


tentò di garantire «i diritti dello schiavo e il suo benessere mate-
riale», e impose degli «obblighi ai proprietari di schiavi, limitan-
do il loro controllo su costoro» (Auping 1994, p. 13). Come ha
scritto Eugene Genovese: «Il cattolicesimo segnò una profonda
svolta nella vita degli schiavi. Impartì alle società schiaviste bra-
siliane e dell'America spagnola un'etica [...]d i vera forza spiri-
tuale» (Genovese 1974, p. 179).
La prevalenza di pregiudizi antireligiosi, e soprattutto anti-
cattolici, nelle diverse storie della schiavitù è ben esemplificata
dall'analisi del Code Noir nella voce sulla Louisiana della Co-
lumbia Encyclopaedia (1975): «Il Code Noir, adottato nel 1724,
provvide al rigido controllo della vita [degli schiavi] e alla prò-
tezione dei bianchi. Altre disposizioni istituirono il cattolicesi-
mo come religione ufficiale». Tutto qui! I molti articoli a prote-
zione degli schiavi, nemmeno presi in considerazione! Certo,
non era un proclama di emancipazione, ma non era nemmeno il
Code ofBarbadosì
Come ulteriore esempio di pregiudizio antireligioso diffuso
fra gli storici contemporanei si prenda in considerazione il fatto
che nella sua discussione del Code Noir, Robin Blackbum scrisse
della «presunta politica ufficiale d'incoraggiamento dei matri-
moni fra schiavi nelle colonie francesi» solo per concludere la
frase con la notevole ammissione che essa ebbe «risultati limita-
ti ma non trascurabili» (Blackburn 1998, p. 291). Poi cita un do-
cumento della Martinica nel quale si riferiva che metà degli
schiavi in età da matrimonio erano sposati. Dal momento che, te-
ner conto della distribuzione dei sessi fra la popolazione schiava,
significava eguagliare le percentuali dei matrimoni nella Francia
dell'epoca, sembrerebbe che il «presunto» sostegno al matrimo-
nio sia stato sufficiente.
Altrettanto rilevante è il fatto che storici della schiavitù così il-
lustri abbiano raramente menzionato il Code Noir e completa-
mente ignorato il Código Negro Espaùol, al punto che quest'ultimo
non compare nemmeno negli indici delle loro famose opere
(Blackbum 1998; Davis 1966 e [1975] 1999; Drescher, Engerman
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 439

1998; Meltzer 1993; Turley 2000). Ma se molti storici hanno pre-


stato poca o nessuna attenzione a questi codici ispirati dalla
Chiesa, praticamente nessuno ha mai nominato il Code of Barba-
dos (nemmeno con altri nomi), tranne quei pochi storici specia-
lizzati sulla legislazione riguardante la schiavitù (Goveia 1969;
Morris 1996; Schafer 1994; Watson 1989), e i molti che hanno
scritto specificamente sulla storia della schiavitù nelle Barbados
(Beckles 1989; Dunn 1979). E questo nonostante il fatto che il co-
dice fosse in vigore in tutte le Indie Occidentali britanniche. Cre-
do che il Code of Barbados avrebbe ricevuto notevole attenzione se
fosse stato scritto da cattolici e non da protestanti.
Eppure, l'omissione forse più significativa in tutta la discus-
sione sulla schiavitù nel Nuovo Mondo, e in particolare sull'as-
servimento e il maltrattamento delle popolazioni indigene, ri-
guarda la repubblica gesuita del Paraguay (Abou 1997; Boxer
1962; Caraman 1975; Furneaux 1969; Graham 1901; M òmer
1965). Per più di 150 anni (1609-1768), i gesuiti amministrarono
un'area due volte più grande della Francia, situata a sud del Bra-
sile e a ovest dei territori ceduti al Portogallo dal Trattato di Tor-
desillas (1494). Qui, un piccolo gruppo di gesuiti spagnoli (prò-
babilmente mai più numerosi di duecento) fondarono, protesse-
ro, istruirono e consigliarono imo stato autonomo che racchiu-
deva per lo meno trenta comunità, o reducciones10, di indios gua-
ranì. Non solo nella repubblica gesuita fiorirono le arti e l'indù-
stria (città con strade pavimentate e grandi edifici, orchestre
sinfoniche, stampa) ma fu fatto anche un valido tentativo di crea-
re un governo rappresentativo. Lo scopo dei gesuiti nel fondare
questa repubblica, come spiegò il loro superiore Antonio Ruiz de
Montoya nel 1609, era quello di cristianizzare e «civilizzare» gli
indios, così che potessero diventare sudditi liberi della Corona,
alla pari degli spagnoli, e dunque «portare la pace fra spagnoli e
indios, un compito così difficile che, dalla scoperta delle Indie
Occidentali più di un centinaio di anni fa, non è stato ancora pos-
sibile» (in Abou 1997, p. 65).
La repubblica fiorì, ma invece di divenire la base per l'ugua-
glianza e la pace, la sua esistenza disturbò molti funzionari colo­
440 A GLORIA DI DIO

niali e coltivatori, e alimentò la tentazione deH‫׳‬esproprio. Ciò no-


nostante, i gesuiti riuscirono per generazioni a prevenire e sven-
tare questo tipo di interessi a loro contrari degli oppositori. Ma
poi le cose cominciarono ad andare male. Il primo passo verso la
caduta della repubblica fu compiuto nel 1750, quando portoghe-
si e spagnoli firmarono un nuovo trattato nel quale si spartivano
il Sud America sulla base dei confini naturali. Come risultato,
sette reducciones finirono sotto la giurisdizione portoghese. I ge-
suiti si opposero all'ordine di consegnare questi insediamenti al-
le autorità civili, e si rivolsero alle Corone portoghese e spagno-
la affinché risparmiassero le reducciones. Tuttavia, i loro opposi-
tori erano troppo forti e senza scrupoli, e diffusero voci e false
prove di cospirazioni gesuite contro entrambe le Corone. Così,
nel 1754, la Spagna mandò contro le sette reducciones le sue trup-
pe, che procedettero da ovest, mentre i portoghesi avanzarono
da est. Entrambe le forze europee furono sconfitte dagli indios,
ben addestrati in tattica militare e dotati di moschetti e cannoni.
Benché i gesuiti non avessero partecipato alle battaglie, furono
accusati di essere dei traditori e vennero espulsi dal Portogallo e
da tutti i territori portoghesi, nel 1758. Presto, complotti simili
contro i gesuiti ebbero successo anche in Spagna, e tutti gli ap-
partenenti all'ordine furono arrestati, nel 1767, e deportati nello
stato papale. Nel luglio dello stesso anno, le autorità coloniali fu-
rono pronte a muoversi contro i gesuiti in America Latina, e le re-
tate iniziarono da Buenos Aires e Córdoba. Ma fu solamente l'an-
no successivo che le truppe spagnole si mossero contro le re-
stanti 23 reducciones e catturarono tutti i gesuiti rimasti, legarono
ai muli anche padri molto anziani e ammalati, e li trasportarono
sulle montagne - molti morirono a causa degli stenti e del catti-
vo tempo. E fu così che i gesuiti furono espulsi dall'emisfero oc-
cidentale. Presto la loro repubblica andò in rovina - sconfitta e
depredata dalle autorità civili. Scoraggiati dai maltrattamenti e
dalla perdita dei padri dalla tonaca nera, i guarani sopravvissu-
ti si dispersero, e molti si trasferirono nelle città.
Ovviamente, fra i pochi storici che hanno parlato della re-
pubblica gesuita ve ne sono alcuni che insistono a scagliarsi con­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 441

tro il colonialismo e il cattolicesimo, condannando i «fanatici»


gesuiti per aver imposto la religione e la civiltà ai «miti» indios,
e definendo i tentativi dei gesuiti di conservare la repubblica so-
10 crudele paternalismo e «sfruttamento spietato» (Garay [1900]
1965; Madariaga [1948] 1965; si veda poi la sintesi di Caraman
1975). Anche qualora accettassimo la versione più estrema di
questa ricostruzione storica, troveremo comunque testimonian-
za dei tentativi sinceri e concreti dei gesuiti di proteggere gli in-
dios dai coltivatori e dalle autorità coloniali che volevano ridur-
11 in schiavitù o sradicarli completamente dalla loro terra. L'aver
costruito una civiltà indios avanzata in tale contesto storico fu
un'im presa piuttosto straordinaria. Comunque, per lo meno
questi storici parlano, p ur travisandolo, di questo evento storico
significativo; la maggior parte degli altri storici, semplicemente,
lo ignora. Personalmente, sono riuscito a trovare soltanto due li-
bri sull'argomento scritti in lingua inglese negli ultimi 30 anni,
uno dei quali è una traduzione dal portoghese, ed entrambi so-
no esauriti (Abou 1997; Caraman 1975). Per quanto sono riuscito
a scoprire, l'unico cenno all'argomento nélYEncycopaedia Britan-
nica è un'unica frase, alla voce «Paraguay, Storia di»: «Per gran
parte dell'epoca coloniale, il Paraguay fu noto principalmente
per il folto gruppo dei missionari gesuiti delle 30 reducciones».
N on ci viene nemmeno spiegato cosa siano le reducciones. Un to-
tale silenzio riservano alla Repubblica gesuita le maggiori opere
sulla schiavitù del Nuovo Mondo, le quali esprimono sempre
giudizi negativi molto duri (e spesso improntati a pregiudizi an-
ticattolici) sulla riduzione in schiavitù e sugli abusi sugli indios
in America Latina.
Al contrario, grande attenzione è stata riservata al fatto che
non tutto il clero cattolico, non tutti i gesuiti, accettavano l'idea
che la schiavitù fosse peccaminosa. In effetti, immersi in società
schiaviste, a volte anche gli stessi appartenenti al clero possede-
vano degli schiavi - nel XVIII secolo e agli inizi del XIX i gesuiti
del Maryland erano proprietari di schiavi (Murphy 2001). Altri
religiosi, invece, avevano idee molto confuse sull'argomento. Ad
esempio, il domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566) con­
442 A GLORIA DI DIO

tro la riduzione in schiavitù degli indios intraprese una campa-


gna dura e di un certo successo, nella quale proponeva però di
andare a prendere gli schiavi in Africa. In seguito giunse a ram-
mancarsi profondamente di questa sua proposta, e confidò di
avere profondi dubbi sul perdono di Dio per questo suo terribi-
le peccato (Hanke 1951).
Va inoltre riconosciuto che la Chiesa, di solito, non ha affron-
tato di petto i governi su questo problema per tentare di forzarli
a porre termine alla schiavitù. Certo, i Papi avevano minacciato
la scomunica, ma nella pratica la Chiesa si limitò a tentare co-
stantemente di migliorare per quanto possibile le condizioni de-
gli schiavi. Così la Chiesa fu inesorabile nel dichiarare che la
schiavitù era solo una condizione di servizio, e che gli schiavi ri-
manevano pienamente umani e conservavano la piena ugua-
glianza agli occhi di Dio. Come scrisse l'importante cardinale ita-
liano Giacinto Gerdil (1718-1802): «La schiavitù non è da inten-
dersi come il dare a un uomo lo stesso potere su un altro uomo
che si ha sul bestiame [...]. Difatti, la schiavitù non abolisce l'u-
guaglianza naturale degli uomini [... ed] è subordinata alla con-
dizione che il padrone abbia la dovuta cura del suo schiavo e lo
tratti umanamente» (in Fox 1913, p. 40). Come già accennato, fu
con questo spirito che il primo articolo del Código Negro Espanol
richiedeva a tutti i padroni di far battezzare i loro schiavi e pre-
vedeva delle sanzioni gravi per quelli che non permettevano agli
schiavi di partecipare alla Messa o di celebrare i giorni di festa.
Al contrario, la Chiesa d'Inghilterra non riconosceva gli schiavi
«come esseri umani battezzabili» (Fiske 1899, p. 108). Entrambe
le prese di posizione ebbero un effetto profondo, non solo su chi
era direttamente coinvolto nella schiavitù, ma anche sull'attitu-
dine nei confronti dell'affrancamento e, soprattutto, degli ex
schiavi.
E chiaro, dunque, che l'idea diffusa che la Chiesa cattolica, in
generale, abbia favorito la schiavitù non è affatto vera. Infatti, co-
me si vedrà, quando i quaccheri americani diedero vita al movi-
mento abolizionista, trovarono anime affini non solo tra gli altri
protestanti, ma anche tra i cattolici romani.
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 443

L'eccezione islamica
Se il monoteismo contiene in sè il germe originario delle dot-
trine antischiaviste, perché l'islam non si ribellò contro la schia-
vitù? Anzi, perché la schiavitù persiste ancora in alcune aree isla-
miche? Perché la pratica è stata solo recentemente interrotta in
alcune nazioni musulmane, e solo in risposta alle intense pres-
sioni da parte dell'Occidente?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo capire che i teo-
logi lavorano entro precisi limiti intellettuali - vale a dire, su ma-
teriali culturali specifici, dai quali non è possibile trarre una con-
clusione qualsiasi. Per esempio, sarebbe del tutto impossibile per
teologi ebrei, cristiani o islamici dedurre dalle Sacre scritture che
Dio non abbia alcun interesse per il comportamento sessuale
umano. I testi rivelati non permetterebbero mai ima simile con-
clusione. Né i teologi cristiani potevano dedurre che Gesù prefe-
risse la poligamia, almeno non senza una rivelazione supple-
mentare. Il problema fondamentale che i teologi musulmani si
trovarono davanti in merito alla moralità della schiavitù è il fat-
to che Maometto acquistò, vendette, catturò e possedette schiavi
(Lewis 1990; Watt 1961 e 1965).
Come Mosè, il profeta ordinò che gli schiavi fossero trattati
bene: «Date loro da mangiare ciò che voi stessi mangiate e vesti-
teli con ciò che voi stessi indossate [...] Sono il popolo di Dio co-
me voi e siate gentili con loro» (in Gordon 1989, p. 19). Maomet-
to, per di più, liberò diversi suoi schiavi, ne adottò uno come fi-
glio, e sposò una schiava. Inoltre, il Corano insegna che è sba-
gliato costringere a «le vostre schiave prostituirsi» (24,33), e che
si può ottenere il perdono per aver ucciso un fratello credente, li-
ber andò uno schiavo (4,92). Come fecero le regole ebraiche sulla
schiavitù, l'ammonizione e l'esempio di Maometto probabil-
mente mitigarono spesso le condizioni degli schiavi nel mondo
islamico, diversamente da quanto accadeva in Grecia e a Roma.
Tuttavia, non era in dubbio la moralità della pratica della schia-
vitù. Benché i teologi cristiani fossero in grado di aggirare l'ac-
cettazione biblica della schiavitù, probabilmente non avrebbero
potuto farlo se Gesù avesse posseduto degli schiavi11. Che Mao­
444 A GLORIA DI DIO

metto possedesse degli schiavi era un fatto che i teologi musul-


mani non potevano superare con nessuna manovra intellettuale,
anche se avessero voluto.

Spiegare i movimenti abolizionisti

Q uando gli schiavi cominciarono a riapparire nell'Europa del


XV secolo, la loro presenza suscitò quelli che possono essere
chiamati solamente movimenti abolizionisti nascenti. Nel 1444,
quando ima nave carica di schiavi africani fu messa in vendita a
Lagos, in Portogallo, la folla fu così sconvolta dalla vista di fa-
miglie separate e vendute da intervenire per impedirlo (Saun-
ders 1982). Quando un mercante di schiavi olandese ne portò un
carico nei Paesi Bassi, nel 1596, il consiglio locale, spinto dai cit-
tadini infuriati, dichiarò liberi tutti gli schiavi - dopo di che gli
schiavisti olandesi proseguirono la loro attività all'estero (Dre-
scher 1987). La vista di schiavi per le strade di Parigi suscitò un
tumulto popolare (McCloy 1961). Dopo aver visto il mercato de-
gli schiavi in Giamaica, aH'inizio del XVIII secolo, un ammiraglio
inglese scrisse una lettera arrabbiata e disgustata nella quale par-
lava di compratori che sceglievano esseri umani «come se fosse-
ro stati tanti cavalli» (Leslie 1740).
Ciò che suggeriscono queste reazioni è che il contatto diretto
con la schiavitù si dimostrava intollerabile per molti cristiani
non personalmente coinvolti nello sfruttamento degli schiavi. In-
fatti, la tesi fondamentale che esprimerò nel seguito di questo ca-
pitolo è la seguente: un'opposizione organizzata alla schiavitù sorse
solo dove e quando: 1. la necessaria predisposizione morale fu 2. stimo-
lata dalla rilevanza del fenomeno e 3. non fu repressa da un percepito
interesse personale. Il primo fattore spiega il motivo per cui dei
movimenti abolizionisti indigeni devono ancora fare la loro com-
parsa nei paesi non cristiani. Il secondo risponde del fatto che i
movimenti abolizionisti si siano limitati a luoghi in cui la gente
sentiva di avere una certa responsabilità diretta per l'esistenza
della schiavitù, come negli Stati Uniti, in America Latina, e nelle
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 445

nazioni europee che parteciparono direttamente alla schiavitù


coloniale. Il terzo fattore spiega perché i movimenti abolizionisti
non prosperarono nel Sud degli Stati Uniti o nelle colonie euro-
pee.
Per esporre in modo esauriente questa tesi, traccerò la storia
della nascita del movimento abolizionista negli Stati Uniti. Poi,
delineerò la sua evoluzione in Gran Bretagna e in Francia. Infine,
analizzerò l'abolizionismo in Spagna e America Latina.

America
Il 19 giugno 1700, Samuel Sewall (1652-1730), pubblicò The
Selling of Joseph («La vendita di Giuseppe», N.d.T.) il prim o trat-
tato abolizionista scritto in America. Sewall era un bostoniano
di classe sociale elevata, puritano devoto, laureato a Harvard,
mercante di successo. Era stato un famoso giudice impegnato
nei processi per stregoneria a Salem, una cosa per la quale sue-
cessivamente espresse pubblicamente il suo pentimento. Nono-
stante la sua statura sociale, l'attacco di Sewall alla schiavitù
«fu semplicemente ignorato dai suoi contemporanei» (Yazawa
1998, p. 3).
Questo esempio illustra un principio sociologico fondamen-
tale: le pubblicazioni non danno Otta ai movimenti sociali; lo fa la gen-
te, coinvolgendo amici, parenti, vicini e colleghi, motivandoli ad
agire in maniera coordinata - a diventare un'organizzazione. E la
cosa di solito è più semplice se si parte da un gruppo che è già
organizzato.
Di conseguenza, il movimento abolizionista americano non
nacque a Boston, ma cinquantaquattro anni dopo, all'Assemblea
annuale quacchera di Philadelphia, stimolato da un altro tratta-
to abolizionista. In questo caso, si trattò dell'opera di John Wool-
man (1720-1772), un giovane molto devoto, le cui preoccupazio-
ni morali riguardo alla schiavitù emersero quando il suo datore
di lavoro gli chiese di redigere ima fattura per una schiava.
Woolman l'aveva fatto, ma ne aveva tratto un senso di colpa che
non trovava sollievo. Le sue inquietudini crebbero, fino a diven-
tare critiche aperte, quando, viaggiando per la Virginia, constatò
446 A GLORIA DI DIO

con i propri occhi la miseria della condizione degli schiavi. Al ri-


tomo, scrisse il suo primo trattato contro il «peccato della schia-
vitù», Some Considerations on thè Keeping ofNegroes [«Alcune con-
siderazioni sul possesso di negri», N.d.T.]. Esso non si limitava
solo a rispecchiare il punto di vista del suo autore, ma dava vo-
ce a idee diffuse e, dopo aver ricevuto l'approvazione ufficiale
dei responsabili stampa dell'Assemblea, fu distribuito a tutti i
presenti. Il pam phlet di Woolman ([1974] 1969) era un modello di
garbata persuasione quacchera. Iniziava con ima citazione dal
Vangelo di Matteo (25,40): «Ogni volta che avete fatto queste co-
se a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me»,
con l'implicazione diretta che ridurre in schiavitù un «negro» si-
gnificava far schiavo Cristo. Benché fosse chiaramente rivolto ai
quaccheri che possedevano degli schiavi, il trattato ricordava a
tutti i quaccheri che «i negri sono creature nostre sorelle, e la lo-
ro attuale condizione fra di noi richiede la nostra seria attenzio-
ne», e che tutti i fratelli quaccheri si erano votati alla giustizia, al-
l'amore e al miglioramento dell'umanità, non al tornaconto per-
sonale. Nel suo paragrafo finale, Woolman esprimeva, poi, la
convinzione che Dio, anche se non era intervenuto fino a quel
momento, vedeva che «[gli schiavi] sono umiliati e disprezzati,
eppure si ricorda di loro: Egli vede il loro dolore», e presto si sa-
rebbe accinto a «umiliare gli arroganti» che preferivano «il gua-
dagno [...] alla giustizia». Successivamente, Woolman dedicò la
sua vita alla diffusione del messaggio abolizionista, che basò
esclusivamente su obiezioni religiose alla pratica schiavista.
Woolman aveva scritto il suo trattato nel 1746, ma scelse di
aspettare a divulgarlo perché i responsabili della stampa quac-
chera di allora erano in maggioranza proprietari di schiavi. Nel
1754, però, le cose erano cambiate, e solo un terzo di essi posse-
deva degli schiavi. Inoltre, la percentuale di proprietari di schia-
vi fra coloro che erano stati inviati in rappresentanza all'incontro
annuale di quell'anno era da poco scesa da un 50 a un 10% (So-
derlund 1985). Dunque, il messaggio di Woolman non incontrò
un'opposizione dovuta alla difesa di un invincibile tornaconto
personale, ma fu accolto favorevolmente dalla maggioranza, tan­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 447

to che l'anno successivo l'assemblea concordò di pubblicare un


proprio trattato, con un attacco molto più diretto contro la schia-
vitù: A n Epistle of Caution and Advice, Concerning thè Buying and
Keeping ofSlaves [«Una lettera di diffida e avvertimento circa l'ac-
quisto e il possesso di schiavi», N.d.T.].
Questa lettera iniziava chiedendosi se fosse compatibile con
la Regola d'Oro il privare «creature nostre sorelle di quella li-
bertà benedetta e preziosa», o !'«arricchirsi tramite la loro schia-
vitù». Poi proclamava: «Il vivere nell'agio e nell'abbondanza
grazie alla fatica di coloro che la violenza e la crudeltà hanno
messo in nostro potere, non è coerente né con il cristianesimo né
con la comune giustizia, e abbiamo buone ragioni per credere
che attiri il dispiacere del cielo [...]. Come possiamo dire di ama-
re i nostri fratelli e [...] per fini egoistici tenerli in schiavitù?».
Poi, dopo aver proseguito su questa linea, il comitato esten-
sore del docum ento giungeva al punto decisivo: «Infine, fratei-
li, noi vi supplichiamo [...] per amore del Vangelo, di valutare
seriamente la causa della loro detenzione in schiavitù. Se è per
il vostro privato guadagno, o qualsiasi altro motivo che non sia
il loro bene, dobbiamo temere che l'am ore di Dio, e l'influenza
dello Spirito Santo, non trovino spazio nei vostri cuori» (in
Brookes 1937, pp. 475-477).
Oltre a diffondere questo trattato, l'Assemblea annuale no-
minò una commissione perché appurasse presso le Assemblee
locali se i membri erano «esenti dal peccato dell'importazione e
dell'acquisto di negri»; gli sforzi dovevano essere diretti a con-
vincere i colpevoli di tali azioni che erano in errore. In risposta,
molte Assemblee locali cominciarono a espellere i membri rico-
nosciuti colpevoli. Successivamente, nel 1758, l'Assemblea an-
nuale nominò un comitato di cinque persone «per far visita e af-
frontare tutti questi fratelli che possedevano schiavi» e riferire
sui progressi compiuti nell'attività di convertirli. Infine, nei pri-
mi anni '70 del 1700, le Assemblee annuali quacchere di New En-
gland, New York, New Jersey e Pennsylvania vietarono ai loro
membri di possedere schiavi, pena l'estromissione. E così nacque
il movimento abolizionista americano (Soderlund 1985).
448 A GLORIA DI DIO

David Brion Davis ha giustamente osservato che anche un


certo numero di voci non-quacchere in quell'epoca si erano sol-
levate contro la schiavitù, sia in America sia all'estero (Davis
1966). Ma, come ha riconosciuto lo stesso Davis, le «voci» non so-
no movimenti. I quaccheri non erano solo un gruppo di persone
affini che leggevano e concordavano con i trattati antischiavisti.
Il loro approccio aH'abolizionismo fu potente perché fin dall'ini-
zio si dedicò alla causa la loro comunità religiosa, ben organiz-
zata e influente. Il loro scopo iniziale era quello di purificare se
stessi dalla colpa del possesso di schiavi, e principalmente in
questo ebbero successo. Anche se alcuni proprietari di schiavi
quaccheri abbandonarono la loro chiesa piuttosto che adeguarsi
alla sua politica abolizionista, la maggior parte vi aderì, compre-
si i proprietari di alcune piantagioni molto grandi (Soderlund
1985). Tuttavia, proprio come speravano di ottenere alla fine la
salvezza per tutta l'umanità, così il loro obiettivo ultimo era
quello di porre fine alla schiavitù ovunque. E si avvicinarono a
tale obiettivo molto più di quanto tante persone colte e raffinate
avessero previsto all'epoca (o di quanto diverse persone altret-
tanto colte e raffinate di oggi vorrebbero ammettere).
Uno dei motivi del loro successo fu il fatto che, pur avendo
iniziato come una setta disprezzata dagli altri cristiani (tra il 1659
e il 1661 quattro quaccheri che erano stati precedentemente fru-
stati e cacciati dal Massachusetts per «eresia» furono impiccati
per esservi tornati), i quaccheri americani avevano raggiunto un
grande potere economico e politico. Molte delle persone più rie-
che del tempo erano quacchere, alcune delle quali, come John
Pemberton, acquistarono con il loro denaro la libertà di molti
schiavi. Si ricordi, inoltre, che Philadelphia era la città più gran-
de delle colonie americane e che fu la capitale della nazione fino
alla creazione di Washington, D.C. Indicativo deU'influenza dei
quaccheri è anche il fatto che nel 1787 la Pennsylvania Society for
Promoting thè Abolition of Slavery, d'ispirazione quacchera, era
guidata da Benjamin Franklin e Benjamin Rush, due tra gli ame-
ricani più rispettati e influenti dell'epoca. Quello che dicevano
loro contava, eccome. Per di più, i quaccheri avevano lanciato
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVrTÙ 449

una sfida morale alle altre organizzazioni cristiane. I puritani po-


tevano anche ignorare con una certa facilità Samuel Sewall, ma
potevano lasciare ai quaccheri il monopolio assoluto della mora-
lità? Certo che no, disse nel 1771 la maggioranza puritana nel-
l'assemblea legislativa del Massachusetts, dichiarando illegale
l'importazione di schiavi.
Per non essere da meno, molti gruppi cristiani aderirono alla
causa dell'abolizionismo, e ben presto sorsero molte associazio-
ni abolizioniste anonime. Ma, nel complesso, il movimento (di-
stinto dai gruppi informali di semplici simpatizzanti) era com-
posto da devoti cristiani attivisti, la maggior parte dei quali
membri del clero (Auping 1994; Barnes [1933] 1964; Strong 1999).
Infatti, le più importanti figure religiose del XIX secolo ebbero un
ruolo di primo piano nel movimento, come il congregazionalista
liberale Lyman Beecher (1775-1863), la cui figlia scrisse La capan-
na dello zio Tom, o l'evangelista più potente dell'epoca, Charles
Grandison Finney (1792-1885), il quale trasformò l'Oberlin Col-
lege in una stazione chiave della «ferrovia clandestina» che por-
tava in Canada gli schiavi in fuga, oppure come John Humphrey
Noyes (1811-1886), fondatore del «notorio» gruppo comunitario
Oneida.
Nel 1833, un gruppo importante di abolizionisti formò l'A-
merican Anti-Slavery Society (Kraditor 1967; Mayer 1998; Nye
1955). Guidato dall'ardente redattore di «The Liberator», Wil-
liam Lloyd Garrison (1805-1879), il gruppo elaborò e pubblicò
ima Dichiarazione di Sentimenti, ricca di motivazioni religiose.
Constatando che tenere un essere umano «in servitù involonta-
ria» significa rubare «secondo le Scritture», il documento proda-
mava la certezza che «gli schiavi dovrebbero essere liberati im-
mediatamente, e posti sotto la protezione della legge».
Inoltre tutte le leggi attuali - proseguiva il documento - «am-
mettendo il diritto di schiavitù, sono dunque, davanti a Dio, del
tutto nulle e prive di valore [...] un'audace usurpazione delle
prerogative divine» e «un'arrogante trasgressione di tutti i sacri
comandamenti». Ciò nonostante, il gruppo accettava «la sovra-
nità di ogni stato» e ammetteva «che il Congresso [...] non ha al­
450 A GLORIA DI DIO

cun diritto di interferire negli stati schiavisti». Ma la Dichiara-


zione sosteneva anche che il Congresso aveva il diritto e l'obbli-
go di porre fine al commercio degli schiavi tra gli stati, e di met-
tere fuorilegge la schiavitù in tutti i territori. In conclusione, ri-
poneva la fiducia «nella giustizia sovrana di Dio»: «Ci fondiamo
sulla Dichiarazione della nostra Indipendenza e sulle verità del-
la Divina Rivelazione come sulla Roccia Eterna» (in Ruchames
1963, p. 78).
!/American Anti-Slavery Society crebbe rapidamente. In due
anni nacquero 400 sedi locali, e nel 1838 erano più di 1000. An-
che se Garrison stesso trovò spesso difficile andare d'accordo con
il clero (Mayer 1998), quest'ultimo costituiva la spina dorsale vi-
tale della sua organizzazione. La società si diffuse e crebbe gra-
zie agli sforzi degli agenti itineranti nominati per supervisionare
specifici territori, aiutati da agenti locali residenti nei grandi cen-
tri abitati. John A. Auping ha raccolto dati su tutti i 155 agenti iti-
neranti e i 149 locali che prestarono il loro servizio per l'Ameri-
can Anti-Slavery Society durante il periodo della sua grande
espansione, dal 1834 al 1840. Ottantuno agenti itineranti, il 52%,
erano ministri del culto. E degli agenti locali, 111, il 75%, faceva-
no parte del clero (Auping 1994).
Inoltre, man mano che i sentimenti abolizionisti si diffonde-
vano, furono soprattutto le chiese (spesso congregazioni locali),
e non le associazioni e le organizzazioni laiche, a rilasciare di-
chiarazioni formali a favore della fine della schiavitù (Barnes
[1933] 1964; Strong 1999). L'abolizionismo apertamente espresso
dalle congregazioni del Nord e dai gruppi confessionali causò
grandi scismi all'interno delle più importanti chiese protestanti,
e alla fine portò alla loro separazione in due chiese indipenden-
ti, una al nord e ima al sud; e questa fu l'origine dei battisti, dei
metodisti, e dei presbiteriani meridionali. I congregazionalisti
non si divisero perché non avevano chiese più a sud del Con-
necticut.
La Chiesa cattolica romana americana subì gravi conflitti in-
tem i sulla schiavitù perché aveva poche parrocchie negli stati
meridionali e, per lo meno all'inizio del XIX secolo, il clero se­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 451

guiva il Papa nella sua opposizione alla schiavitù. Al Congresso


di Vienna del 1815, papa Pio VII (1800-1823) chiese la soppres-
sione del commercio degli schiavi. Poi, nel 1839, papa Gregorio
XVI (1831-1846) inviò una Lettera Apostolica al Consiglio prò-
vinciale dei vescovi americani nella quale condannava la schia-
vitù. La lettera iniziava con un bell'esempio di «deduzione» teo-
logica. Nel suo paragrafo di apertura il Papa ammetteva che gli
apostoli avevano consigliato agli schiavi di obbedire ai loro pa-
droni, ma proseguiva osservando (come aveva fatto anche Wool-
man) che dal momento che Cristo aveva dichiarato che qualsiasi
cosa fatta al più piccolo degli uomini era come se fosse fatta a
Lui, «ne conseguiva naturalmente» che i cristiani dovevano trat-
tare gli schiavi come fratelli. Poi, il Papa sottolineava come «nel
procedere del tempo, essendo stata completamente dissipata la
nebbia della superstizione pagana e ammorbidite le maniere del-
le genti barbare, grazie alla Fede che opera con la Carità [...] non
vi sono più schiavi nella maggior parte delle nazioni cristiane».
Purtroppo, «fra gli uomini di fede» vi erano uomini «vergogno-
samente accecati dal desiderio di sordido guadagno» che si era-
no recati in paesi lontani e «non hanno esitato a ridurre in schia-
vitù gli indios, i negri e altri popoli infelici». Quindi, «deside-
rando rimuovere tale vergogna dalle nazioni cristiane» e «cam-
minando sulle orme dei nostri predecessori», il Papa chiedeva la
fine della schiavitù (in Auping 1994, pp. 109-110).
In seguito a ciò, il segretario di stato americano John Forsyth,
nella campagna elettorale negli stati del Sud del 1840 per la rie-
lezione del presidente Martin van Buren, definì il Papa un aboli-
zionista, per far appello ai sentimenti anticattolici degli elettori.
A ciò John England, vescovo di Charleston, nel South Carolina,
rispose che benché considerasse la schiavitù un peccato, la Chie-
sa intendeva lasciare le questioni legali agli organi legislativi del
governo. England aveva le sue ragioni per essere cauto, dal mo-
mento che nel 1836 una folla violenta lo aveva costretto a chiù-
dere la scuola per neri liberi che aveva aperto nella sua diocesi
un anno prim a (Auping 1994). Tuttavia, la dichiarazione del ve-
scovo non riuscì a disinnescare l'anticattolicesimo in rapida ere-
452 A GLORIA DI DIO

scita - nell'estate del 1844 ima sollevazione di protestanti a Phi-


ladelphia portò all'incendio delle due maggiori chiese cattoliche
della città. Anzi, la Chiesa cattolica veniva talmente associata con
l'abolizionismo dalle forze pro-schiavitù che Charles Finney, il
famoso devoto evangelico e primo presidente dell'Oberlin Col-
lege ricordò che la scuola era stata boicottata proprio perché le
sue visioni sulla razza sarebbero state addirittura «peggiori di
quelle del cattolicesimo romano» (Finney [1876] 1960, p. 344). Sia
come sia, come è stato dimostrato dalla splendida analisi di John
Hammond, la rinascita spirituale promossa da Finney ebbe un
profondo effetto sull'aumento delle adesioni alle varie associa-
zioni antischiaviste, così come sul sostegno al Partito liberale nel
1844 e al Partito del Libero Suolo (Free Soil Party) nel 1848 (Ham-
mond 1974).
L'aspetto più rilevante è che gli abolizionisti, sia Papi sia capi
evangelici, parlavano quasi esclusivamente il linguaggio della
fede cristiana. E benché molte personalità religiose degli stati del
Sud abbiano proposto delle difese teologiche della schiavitù, i di-
scorsi a favore di essa erano in maniera preponderante di natura
secolare - e i loro riferimenti erano alla «libertà» e ai «diritti de-
gli stati», non al «peccato» o alla «salvezza». Ciò è stato dimo-
strato in maniera definitiva da Auping, con un'analisi del conte-
nuto degli scritti di alcuni importanti abolizionisti e di quelli dei
difensori della schiavitù, scelti in modo casuale. Gli abolizionisti
erano contro la schiavitù in maggioranza per motivi religiosi, e si
notavano differenze anche fra i testi di uomini religiosi (Auping
1994). Il che non stupisce affatto dal momento che persino gli
storici marxisti più radicali sono d'accordo sul fatto che il movi-
mento abolizionista sia stato avviato e portato avanti da creden-
ti. Ovviamente, come vedremo, questi marxisti sostengono an-
che che quando le persone di fede condannavano la schiavitù
per motivi religiosi, in realtà non erano sincere o erano vittime di
una falsa coscienza.
Tuttavia, c'è ancora un'altra tesi, molto più persuasiva, che
viene avanzata per minimizzare l'im portanza della religione
nell'abolizione della schiavitù. Si sostiene, infatti, che molti sin­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 453

ceri cristiani furono piuttosto abili a inquadrare la pratica della


schiavitù airinterno della teologia - come scrisse nel 1798 Fran-
cis Asbury, prim o vescovo m etodista degli Stati Uniti, «metodi-
sti, battisti, presbiteriani [...] nei loro più alti voli di entusiasti-
ca devozione, m antengono ancora e difendono [la schiavitù]»
(Asbury 1958, voi. 2, p. 151). Stando così le cose, secondo que-
sta prospettiva, non deve essere stata la religione di per sé ma
qualcos 'altro a spingere alcuni cristiani a concludere che fosse
un peccato tenere in schiavitù degli esseri umani. Eppure, come
sapeva bene Asbury, questo tipo di ragionamento non significa
nulla. L'argomentazione contro la schiavitù è teologica, non re-
lativa a una rivelazione. Se Mosè avesse ricevuto un comanda-
mento contro la schiavitù, beh, allora solamente gli ebrei e i cri-
stiani eretici avrebbero potuto possedere degli schiavi. Oppure,
se Gesù avesse proclamato che nessun padrone di schiavi sa-
rebbe entrato in Paradiso, i cristiani non avrebbero avuto nes-
suna incertezza nella scelta di un comportamento antischiavi-
sta. Ma la teologia si basa sulle interpretazioni umane, e dim-
que dei pensatori sinceri e brillanti possono giungere a conclu-
sioni opposte. Asbury non disse che coloro che accettavano la
schiavitù non erano a conoscenza delle rivelazioni, ma che ave-
vano tratto delle conclusioni teologiche scorrette dalle scritture,
che non avevano né «un senso della religione né un senso del-
la libertà sufficiente».
L'abolizionismo non era un concetto inerente alla Scritture
cristiane; era solamente una conclusione possibile, e una conclu-
sione improbabile da raggiungere tranne che in circostanze fa-
vorevoli. Per dirla in un altro modo, non voglio sostenere che il
monoteismo o persino la cultura cristiana siano una base suffi-
dente per condannare la schiavitù come un peccato. Piuttosto, so-
stengo che si trattasse di una base necessaria, nel senso che sola-
mente quei pensatori religiosi che operavano all'interno della
tradizione cristiana furono in grado di giungere a conclusioni di
natura antischiavista (con l'eccezione di due sette ebraiche). Ma,
ho già avuto modo di spiegarlo, come la fede in un Dio creatore
razionale fu la causa necessaria, ma non sufficiente, per la nasci­
454 A GLORIA DI DIO

ta della scienza (poiché fu necessario anche un notevole progres-


so tecnologico e intellettuale), allo stesso modo, aH'interno del
pensiero cristiano risiedeva il potenziale morale per una teoria
antischiavista, che tuttavia m aturò soltanto quando venne a con-
tatto con i concetti laici di libertà e dignità dell'individuo - vale
a dire, con le tendenze morali e politiche generali della cultura
occidentale. In effetti, come ho già osservato, i cristiani europei
avevano avuto l'opportunità unica di vivere in un «mondo» sen-
za schiavi, il che dava loro un punto di vista avvantaggiato da
cui guardare alla schiavitù, liberi da preconcetti in merito alla
sua normalità.
Si tenga presente, poi, che non voglio nemmeno suggerire che
il movimento abolizionista sia riuscito a coinvolgere un così gran-
de numero di americani da far eleggere presidente Abraham Lin-
coln. Furono relativamente pochi, invece, gli americani coinvolti
in maniera effettiva in una qualche organizzazione abolizionista, e
furono molti i fattori che influenzarono la crescita del Partito re-
pubblicano e la nomina e l'elezione di Lincoln, nel 1860. Tuttavia,
contrariamente a quanto sostengono, nel loro revisionismo, stori-
ci progressisti quali Charles Beard, la Guerra civile fu primaria-
mente una guerra combattuta contro o a difesa della schiavitù, e
non per gli interessi economici del Nord industriale o del Sud
agricolo. Ed è molto significativo che nessuno degli storici prò-
gressisti, colleghi di Beard, abbia ritenuto strano che Beard, pur
opponendosi all'idea di motivazioni religiose a sostegno dell'abo-
lizionismo, sostenesse però l'esistenza di una forte influenza reli-
giosa a favore della schiavitù negli stati del Sud (Beard 1927). Per
lo meno, Beard non negò che valesse la pena combattere per l'af-
francamente degli schiavi, come fecero molti altri illustri storici
dell'epoca, compreso Avery O. Craven, il quale diede la colpa del-
la Guerra civile ad agitatori e predicatori senza scrupoli di en-
trambe le parti, e concluse che la guerra era stata un grosso e inu-
tile errore, e che non valeva la pena combattere per la questione
della schiavitù (Craven 1942).
Con tutto ciò, Craven aveva però ragione nel dire che la
Guerra civile non si era basata essenzialmente sullo scontro fra
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 455

sistemi economici, fabbriche contro piantagioni, ma fra conce-


zioni morali diverse. Pochi soldati «yankee» avevano un qual-
che collegamento con le fabbriche, e la maggioranza dei «ribel-
li» non possedeva schiavi. Blu o grigio, l'idealismo era dilagan-
te! Ed è merito degli abolizionisti l'aver dato vita a questo con-
fronto morale. Decenni di esortazioni, dal pulpito e dal palco
pubblico, spinsero i reggimenti dell'Unione a marciare cantan-
do «Mine eyes have seen thè glory of thè coming of thè Lord...»
[«I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore»,
The Battle Hymn of thè Republic, N.d.T.].
La storia dell'affrancamento degli schiavi in America è lunga
e complessa, con crisi politiche e compromessi, e alla fine con
una guerra molto sanguinaria, nella quale morì un soldato del-
l'Unione per ogni dieci schiavi liberati. Non ho nemmeno ipotiz-
zato la possibilità si riassumere gli eventi in imo studio così bre-
ve, essendo interessato esclusivamente a fornire un racconto
adeguato solo degli aspetti pertinenti alla mia tesi. In sintesi:
un'opposizione organizzata alla schiavitù nacque 1. come ima
questione di coscienza fra quaccheri che avevano 2. un contatto
personale con la schiavitù, ma 3. che non erano proprietari di
schiavi, benché la loro moml suasion abbia fatto sì che alcuni
quaccheri liberassero i propri schiavi. Per portare questo discor-
so su un livello più generale, 1. l'abolizionismo si diffuse attra-
verso le chiese cristiane del Nord, alimentato dall'indignazione
morale e 2. infiammato non solamente dall'esistenza della schia-
vitù nei vicini stati meridionali, ma anche dalla testimonianza di
ex schiavi e dalle cacce all'uomo organizzate da coloro che in tut-
to il Nord catturavano e, spesso, rapivano gli schiavi fuggitivi.
Infine, 3. al Nord erano molto poche le persone che traevano un
profitto diretto dagli schiavi. Dunque, gli abolizionisti avevano
buone possibilità di affrontare la schiavitù da un punto di vista
ravvicinato, ma esterno. Come vedremo, tutti i maggiori movi-
menti abolizionisti in Europa e America Latina godettero di un
simile punto di vista avvantaggiato.
Al contrario, benché la maggioranza dei residenti negli stati
del Sud fosse composta da cristiani praticanti che non possede­
456 A GLORIA DI DIO

vano schiavi, la maggioranza considerava la schiavitù una que-


stione di interesse personale, essendo basilare per l'economia e
la cultura di quegli stati, e fu questo a stimolare il sorgere di un
diffuso sentimento collettivo di difesa «immorale» della schia-
vitù, nella quale la religione svolse un ruolo rilevante (Fox-Ge-
novese, Genovese 1987; Mathews 1977). Con questo spirito fer-
vente partirono entusiasti per difendere «Dixie» e il modo di vi-
vere del Sud.
Infine, gli abolizionisti sapevano che il loro era un movimen-
to religioso, e come loro numerose generazioni di storici (Ahi-
strom 1972; Anstey 1975; Barnes [1933] 1964; Coupland 1933; Fo-
gel 1989). Ma durante la seconda metà del XX secolo, molti sto-
rici decisero che erano gli unici depositari della verità. Lascio il
revisionismo marxista a un'analisi successiva, ma mi sembra op-
portuno chiarire qui le idee scorrette portate avanti da storici la
cui incapacità di capire come stessero le cose risiede principal-
mente nel loro pregiudiziale antagonismo nei confronti della re-
ligione in generale, e della Chiesa cattolica romana in particola-
re. Ancora una volta, David Brion Davis può servire da esempio
illuminante.
Davis pose la questione cruciale in merito al ruolo della reli-
gione nel movimento abolizionista in due frasi: «Per duemila an-
ni gli uomini hanno considerato il peccato una sorta di schiavitù.
Un giorno hanno iniziato a considerare la schiavitù un peccato»
(Davis 1966, p. 90). Ma non provò nemmeno a spiegare il motivo
per cui avvenne questo spostamento di prospettiva. Dopo aver
dedicato molte pagine a dimostrare che coloro che avevano gui-
dato l'abolizionismo in maggioranza erano cristiani devoti, e che
tutti, in un modo o nell'altro, avevano detto di fare quello che fa-
cevano per Dio, Davis scelse di non credere loro. Secondo me,
giunse a questa conclusione perché non capiva la natura proble-
matica della teologia, e perché negava, o trascurava, l'effettiva
storia della «risposta» cristiana alla schiavitù. Dunque, Davis af-
fermò che i teologi cristiani, e soprattutto la Chiesa cattolica, non
potevano «mettere in dubbio le basi etiche della schiavitù [...
perché] avrebbe significato mettere in dubbio le concezioni fon­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 457

damentali dello scopo di Dio e della storia e del destino dell'uo-


mo. Se la schiavitù fosse stata un male e non avesse svolto nes-
suna funzione decretata dal disegno divino, allora perchè Dio la
autorizzava nelle Scritture e aveva permesso la sua esistenza in
quasi tutte le nazioni?» (Davis 1966, p. 91).
Questo tipo di argomentazione risulta plausibile solamente se
non si riesce a capire che per i cristiani doveva essere possibile met-
tere in dubbio le basi etiche della schiavitù, visto che in così grande
numero lo fecero. Come accade spesso con gli intellettuali, Davis
non riusciva a capire come teologi creativi e raffinati potessero im-
pegnarsi tanto per trovare dei fondamenti che giustificassero la
conclusione da loro desiderata - basti pensare all'eleganza logica
della Lettera Apostolica di papa Gregorio XVI. Ancora peggio, dal
momento che Davis aveva imputato un carattere sociale e morale
monolitico al cristianesimo, ogni qual volta incontrava dei senti-
menti d'indifferenza, o a favore della schiavitù, da parte di qual-
cuno collegato in qualche modo a una chiesa, li generalizzava, ri-
tenendo tutti colpevoli. Per di più, in tutte le occasioni in cui dei
capi religiosi avevano riconosciuto i limiti del proprio potere e del-
la propria influenza, e avevano tentato di rendere più umane le
condizioni della schiavitù, Davis aveva disprezzato i loro sforzi,
tacciandoli di complicità con gli schiavisti. Secondo questa logica,
non si poteva dare il merito al cristianesimo di aver fornito l'es-
senziale base morale all'opposizione alla schiavitù, a meno che
non si fosse tenuta una grande Conferenza Ecumenica nella quale
si fosse denunciata la pratica della schiavitù in quanto peccato,
con un voto unanime, e dimostrando chiaramente e pubblicamen-
te il pentimento per averla tollerata in epoche passate. Non essen-
do avvenuto nulla di tutto ciò, Davis non fu in grado di capire che
la convinzione che la schiavitù fosse un peccato era nata fra alcuni
cristiani, proprio perché erano cristiani. Essi non erano preoccupa-
ti del fatto che altri cristiani potessero non essere d'accordo. Esat-
tamente come nessuna delle migliaia di sette e fazioni cristiane
sorte attraverso i secoli sono mai state vittime del dubbio perché
gli altri non concordavano con loro, così non lo furono gli aboli-
zionisti cristiani. E, in questo caso, prevalse la virtù.
458 A GLORIA DI DIO

Gran Bretagna
Fu dai cugini americani che i quaccheri britannici trassero il
loro entusiasmo per l'abolizione della schiavitù, e anch'essi for-
nirono l'iniziale ossatura religiosa al movimento antischiavista.
Tuttavia, i britannici raggiunsero il loro scopo molto prima delle
forze abolizioniste americane. I motivi principali furono due. Per
prim a cosa, dal momento che quasi tutti gli inglesi proprietari di
schiavi vivevano in colonie lontane, la loro influenza politica era
limitata. In secondo luogo, il governo britannico era di gran lun-
ga più centralizzato e molto meno rappresentativo delle istanze
locali del governo in America. Così, le élite di partito potevano
emanare leggi più liberamente rispetto a quelle statunitensi, poi-
ché negli Stati Uniti molte azioni richiedevano una legislazione
locale, non nazionale, e persino il Congresso era indisciplinato e
spesso incapace di raggiungere un accordo. Queste sono dunque
le tematiche che mi accingo ad affrontare (Anstey 1975; Black-
b u m 1988; Clarkson 1808; Drescher 1987; Eltis 1987; Temperley
1998; Walvin 1981).
Nel 1783, su richiesta dei quaccheri di Philadelphia, i quac-
cheri britannici crearono il Meeting for Sufferings di Londra.
Così, come in America, furono loro a fornire una solida base or-
ganizzativa all'opposizione britannica alla schiavitù: volontari,
luoghi per incontrarsi e denaro. Questi sforzi furono moltiplica-
ti in modo significativo nel 1787, con la costituzione della So-
ciety for thè Abolition of thè Slave Trade, Associazione per l'a-
bolizione della tratta degli schiavi, nella quale si unirono ai
quaccheri altri protestanti non conformisti. L'anziano John We-
sley (1703-1791), fondatore del metodismo, intraprese una cam-
pagna di predicazione contro la schiavitù, facendo riecheggiare
molte delle idee che aveva espresso con tanta forza nel suo trat-
tato abolizionista del 1774, Thoughts on Slavery (Green 1964;
Smith 1986). Wesley mise a disposizione della coalizione reli-
giosa antischiavista in rapida crescita l'im portante risorsa costi-
tuita dalle sue cappelle metodiste. Fu sempre in questo periodo
che il movimento abolizionista britannico arruolò le sue reclute
più importanti.
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 459

William Wilberforce (1759-1833) era il padre del vescovo Sa-


muel Wilberforce (capitolo 2) e un membro del Parlamento, prò-
veniente dallo Yorkshire. Egli apparteneva a un gruppo evangeli-
co molto rigoroso e influente all'interno della Chiesa d'Inghilterra,
conosciuto come la Setta di Clapham. Probabilmente l'unico moti-
vo per cui questi evangelici non lasciavano la Chiesa d'Inghilterra
era il fatto che all'epoca solo i membri di quest'ultima godevano
di pieni diritti civili, compreso il diritto esclusivo a essere eletti al-
la Camera dei Comuni. Abbracciando la causa abolizionista, Wil-
berforce si assunse la responsabilità di orientare gli sforzi anti-
schiavisti di alcuni deputati della Camera dei Comuni, dove go-
deva di un rapporto stretto con il Primo ministro William Pitt.
Thomas Clarkson (1760-1846) frequentava Cambridge, dove si
preparava a entrare nelle fila del clero. Ordinato diacono, parte-
cipò a un concorso per un premio di saggistica sul tema «È giusto
ridurre in schiavitù gli altri contro la loro volontà?». Π trovarsi a
riflettere su questo interrogativo lo portò ad accantonare «le sue
notevoli prospettive di carriera ecclesiastica» aU'intemo della
Chiesa d'Inghilterra per dedicare la sua vita interamente alla cau-
sa dell'abolizionismo (Anstey 1975, p. 249). Con le sue parole:
«Non c'è mai stata una causa [...] così grande e importante [...] in
cui il dovere della carità cristiana debba essere così ampiamente
esercitato; mai una causa più degna della dedizione di tutta una
vita per essa» (Clarkson 1808, voi. 1, pp. 228-229). Clarkson si as-
sunse subito la responsabilità di mobilitare l'opinione pubblica. A
tal fine, costruì ima rete di organizzazioni locali e di attivisti sul-
la preesistente struttura delle congregazioni quacchere, percor-
rendo circa 50 mila chilometri a cavallo su e giù per l'Inghilterra
tra il 1787 e il 1792. Il risultato più evidente di tutto questo sforzo
fu la presentazione di una petizione che chiedeva al Parlamento
di porre fine alla tratta degli schiavi. Durante il biennio 1786-1787
gli sforzi di Clarkson portarono all'adesione alla causa di almeno
sessantamila inglesi12 - undicimila solo a Manchester (dove fir-
marono circa due terzi dei maschi adulti).
Queste petizioni diedero a Wilberforce un'arm a potente da
utilizzare in Parlamento, e nel 1792 sembrava che il divieto del
460 A GLORIA DI DIO

commercio degli schiavi sarebbe stato approvato. Tuttavia, lo


scoppio della Rivoluzione francese e la guerra con la Francia
ostacolarono gli sforzi abolizionisti. Infatti, al culmine della «rab-
bia» britannica per i brutali eccessi che si verificavano in Francia,
Wilberforce fu accusato per qualche tempo di simpatie radicali.
Con la sconfitta della flotta di Napoleone a Trafalgar, nel 1805, i
britannici rilevarono le colonie francesi nei Caraibi. A questo
punto riemerse una rinnovata campagna antischiavista, che non
riuscì a ottenere voti sufficienti alla Camera dei Comuni per fare
approvare un atto di abolizione della schiavitù. Quindi, Wil-
berforce cambiò tattica e convinse Pitt a imporre un divieto al
commercio degli schiavi nelle colonie francesi per decreto am-
ministrativo e in virtù della sua facoltà di disciplinare il com-
mercio nei territori conquistati. Pitt morì cinque mesi più tardi.
Quando fu formato un nuovo governo, con Lord Grenville come
Primo Ministro e Charles Fox come leader della Camera dei Co-
munì, si scoprì che la maggioranza del governo era a favore del-
l'abolizione della schiavitù. Così nel 1807 fu approvato con ima
maggioranza schiacciante sia alla Camera dei Lords sia a quella
dei Comuni un atto di abolizione della tratta degli schiavi in tut-
te le colonie britanniche. Non accontentandosi di essersi chiama-
ti fuori dal commercio degli schiavi, i britannici ricorsero alla di-
plomazia e perfino alla corruzione per far sì che anche altre na-
zioni firmassero i trattati che vietavano il trasporto di schiavi
dall'Africa al Nuovo Mondo. Oltre a ciò, gli inglesi formarono e
finanziarono una forza speciale della Marina perché pattugliasse
le coste africane e facesse rispettare tali trattati. Nei cinquant'an-
ni successivi, la Marina britannica sequestrò quasi 1600 navi
schiaviste, molte delle quali cariche di schiavi, ma anche quelle
senza schiavi a bordo venivano requisite se trovate attrezzate al-
lo scopo. Complessivamente, i britannici liberarono dalle navi
più di 150.000 persone (Eltis 1987).
Tuttavia, l'eliminazione del commercio di schiavi non abolì-
va la schiavitù nelle colonie britanniche; semplicemente impe-
diva che vi venissero introdotti altri schiavi. Quindi fu creata
una nuova società britannica per perseguire l'obiettivo di una
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 461

completa abolizione: The Society for thè Mitigation and Graduai


Abolition of Slavery Throughout thè British Dominions. Ancora
una volta Clarkson percorse in lungo e in largo il paese per rin-
novare e ridare vigore alle organizzazioni locali. Fu organizzata
una nuova petizione; quando si giunse a una crisi politica defi-
nitiva, nel 1833, la firmarono più di un milione e mezzo di in-
glesi, circa la metà della popolazione adulta maschile dell'In-
ghilterra (i miei calcoli si basano sui dati forniti in Mitchell
1962). Questi sforzi furono incrementati dal lavoro di missiona-
ri metodisti e battisti tra gli schiavi nelle Indie Occidentali - la
Chiesa d'Inghilterra non prendeva ancora posizione. L'opinione
pubblica in Gran Bretagna continuava a essere stimolata e orien-
tata in senso antischiavistico dalle relazioni dei missionari che
«descrivevano le minacce e le molestie subite a opera dei titola-
ri delle piantagioni, e conferivano autenticità all'opinione ere-
scente, non solo tra i metodisti ma in tutte le chiese evangeliche,
che i coltivatori delle Indie Occidentali fossero ima classe cor-
rotta» (Fogel 1989, p. 219).
I proprietari delle piantagioni delle colonie ammonirono che
l'emancipazione degli schiavi avrebbe significato delle perdite
catastrofiche per gli investitori in Gran Bretagna, e sottolinearo-
no che tutti nella madrepatria ne avrebbero risentito perché sa-
rebbe alimentato notevolmente il prezzo dello zucchero qualora
fosse stato prodotto da lavoro libero. Questi appelli ebbero un
certo peso alla Camera dei Lord - in quell'epoca i Lord erano im-
portanti e il loro consenso era necessario per legiferare. Per otte-
nere l'appoggio della Camera dei Comuni, gli abolizionisti ac-
colsero delle disposizioni neH'Emancipation Act volte a compen-
sare i coltivatori delle colonie con una somma enorme, pari alla
metà del bilancio annuale britannico. Nel 1833, un mese dopo la
morte di William Wilberforce, fu così approvata la legge che sta-
biliva che il 1° agosto 1834 sarebbe cessata la schiavitù in tutte le
colonie britanniche. I costi diretti per i singoli cittadini britanni-
ci furono notevoli, sia in termini di imposte per la compensazio-
ne dei coltivatori (e per continuare a sostenere le operazioni na-
vali contro le navi schiaviste) sia di un maggior costo della vita -
462 A GLORIA DI DIO

il prezzo dello zucchero salì sensibilmente, come era stato previ-


sto. Anzi, il costo deiremancipazione fu così alto che Seymour
Drescher definì l'abolizione della schiavitù britannica come un
«economicidio» volontario. (Drescher 1977).
Dall'inizio alla fine, i quaccheri svolsero un ruolo fondamen-
tale nelle organizzazioni abolizioniste britanniche, e quasi tutti
gli altri abolizionisti importanti erano membri devoti di gruppi
religiosi non conformisti, specialmente metodisti e battisti. No-
nostante ciò, gli storici revisionisti hanno cercato di sminuire
l'importanza delle influenze religiose. L'argomentazione usata
più di frequente è che, anche se delle personalità religiose pos-
sono avere avviato il movimento abolizionista britannico, esso
ebbe successo solo perché aveva fatto presa in ambienti esclusi-
vamente secolari, come dimostrava il grande successo della cam-
pagna per la petizione. Un'enfasi particolare viene posta sulla
straordinaria risposta degli uomini di Manchester alle petizioni.
Manchester era una città industriale di primo piano, e quindi è
stato detto che i suoi lavoratori erano, in qualche modo, «i meno
parrocchiali della Gran Bretagna», seguaci dei principi di merca-
to e del libero scambio. Così fu «Manchester e non la rete reli-
giosa quacchera a spingere la Gran Bretagna oltre la soglia psi-
cologica dell'era abolizionista» (Drescher 1987, pp. 71-72).
Eppure, questa interpretazione dei fatti m ostra molte pec-
che. Prima di tutto, nulla della sua conformazione industriale,
economica o culturale, distingueva Manchester da molte altre
città inglesi, eccetto la sua risposta alla petizione abolizionista.
Le affermazioni del contrario sono sempre vaghe e prive di
prove. In secondo luogo, si presum e che gli operai di Manche-
ster non fossero influenzati da motivazioni religiose, come se
queste fossero esclusive del clero e degli attivisti religiosi a tem-
po pieno. Ma non c'è ragione di supporre che la maggior parte
delle persone a Manchester dividesse la propria fede, separan-
dola nettamente, dalle valutazioni «politiche». Per di più, la
campagna per le petizioni veniva presentata principalmente
non come una questione politica, ma come un obbligo morale.
Inoltre, mi sembra che in modo assai significativo proprio a
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 463

Manchester, diversam ente dalle altre città inglesi, accadde che


nel 1787, poco prim a dell'im m ensa risposta locale alle petizio-
ni antischiaviste, John Wesley, l'evangelista più influente del-
l'epoca, predicò una rinascita spirituale contro la schiavitù, e i
metodisti locali, rom pendo con la politica ufficiale di non par-
tecipazione alla vita politica, contribuirono alla diffusione del-
la petizione (Drescher 1987; Green 1964; Smith 1986). Sarebbe
stato incredibile che tutti questi avvenimenti non riuscissero a
galvanizzare la popolazione locale!
In terzo luogo, ridurre al minimo l'importanza di coloro che
resero popolare la visione antischiavista e che fecero circolare le
petizioni abolizioniste, per dare il merito di aver costituito la ve-
ra base dell'abolizionismo britannico ai soli firmatari, significa
scambiare le cause con gli effetti. Certo, né i quaccheri né i loro
alleati non conformisti avrebbero potuto ottenere l'Emancipation
Act senza riuscire a risvegliare l'opinione pubblica. Ma senza i
loro sforzi, organizzati ed efficaci, finalizzati a plasmare e solle-
vare l'opposizione popolare alla schiavitù non sarebbe successo
niente. Infine, sostenere che l'abolizione fu una conquista laica
non ha fatto altro che creare una sorta di «mistero», sciocco e inu-
tile, sulle motivazioni degli abolizionisti inglesi, come è spiegato
dalle riflessioni di Howard Temperley:

Π movimento britannico contro la schiavitù continua ad intrigare


gli storici, a causa dell'apparente mancanza di interesse personale
da parte dei suoi principali sostenitori. Ciò è così contrario al pun-
to di vista convenzionale sul comportamento politico da dar luogo
a una controversia intellettuale. Eppure, nonostante ogni sforzo in-
tellettuale, nessuno è riuscito a dimostrare che quelli che hanno fat-
to le campagne per porre fine al commercio degli schiavi e poi per
la loro liberazione avessero da guadagnare personalmente in qual-
che modo tangibile, né che tali misure non fossero economicamen-
te costose per il paese. A suo tempo, i successi antischiavisti della
Gran Bretagna sono stati dunque considerati con orgoglio come l'e-
spressione della dedizione della nazione ai principi di umanità e li-
beralità. (Temperley 1998, p. 14)
464 A GLORIA DI DIO

Questo passo di Temperley ricapitola la posizione della re-


cente storiografia. Dopo molte oscillazioni e amoreggiamenti
con le infondate interpretazioni marxiste per le quali l'emanci-
pazione in realtà fu un atto compiuto per un tornaconto econo-
mico, gli storici sono giunti ad accettare l'idea che vi fosse impli-
cata anche una notevole componente di idealismo. E sono venu-
ti a patti con tale conclusione affermando che si trattava di «prin-
cipi liberali», evitando così un ritorno alla convinzione «scorret-
ta» che l'idealismo dell'epoca fosse di carattere religioso. Ma ciò
richiede che si ignori la testimonianza unanime delle persone
che effettivamente condussero con successo quell'impresa! Colo-
ro che divulgarono i principi abolizionisti in tutta la Gran Breta-
gna non citavano «principi liberali», ma la Bibbia. Parlavano di
peccato e della grazia salvifica di Dio.

Francia
A prima vista potrebbe sembrare che il movimento abolizioni-
sta in Francia si sia davvero basato su «principi liberali». Tuttavia,
una volta detto che mai gli abolizionisti francesi hanno fatto ap-
pello al popolo, bisogna riconoscere che esso fu un risultato delle
inquietudini religiose come lo erano i movimenti americani e bri-
tannici. Infatti, i tre movimenti erano direttamente collegati
(Blackbum 1988; Daget 1980; Drescher 1987; Jennings 2000).
Nel 1793 il commissario di Santo Domingo, Léger Félicité
Sonthonax, nominato dal governo rivoluzionario di Francia, di-
chiaro l'abolizione della schiavitù in quella colonia. Lo fece in ri-
sposta al successo della ribellione degli schiavi scoppiata fin dal
1791, e alle minacce di invasione da parte di britannici e spagno-
li. La sua speranza era che l'emancipazione gli consentisse di
guadagnare il sostegno sia degli ex-schiavi sia dei ribelli nella di-
fesa della colonia. Quando la notizia raggiunse la Francia, la
Convenzione nazionale controllata dai giacobini non solo so-
stenne questa azione m a abolì anche la schiavitù in tutte le colo-
nie francesi. Nel farlo, i membri della Convenzione condannaro-
no la schiavitù come una reliquia della monarchia e una pratica
non coerente con i loro valori rivoluzionari. Il fatto che non ab­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 465

biano agito che quattro aravi dopo la Rivoluzione, e solo quando


furono informati della necessità dell'alleanza con gli schiavi per
difendere le colonie, ci fa capire che forse l'idealismo radicale da
solo non basta. In ogni caso, nel 1802 Napoleone reinstaurò la
schiavitù nelle colonie francesi. Come già detto, quando poi gli
inglesi conquistarono le colonie francesi nei Caraibi, Pitt vietò lo-
ro d'im portare schiavi. Tuttavia, dopo la sconfitta definitiva di
Napoleone, le colonie dei Caraibi furono restituite alla Francia, e
l'importazione di schiavi riprese. Nel corso dei quindici anni
successivi arrivarono nei Caraibi francesi circa 125 mila nuovi
schiavi (Blackburn 1988). Fu solamente il 22 febbraio 1831 che la
Francia approvò una legge efficace contro la tratta degli schiavi;
e la schiavitù fu abolita solo nel 1848.
Con l'aiuto britannico, nel 1788, poco prima della Rivoluzione,
fu fondata in Francia una società abolizionista, la Société des Amis
des Noirs (Società degli amici dei neri). Thomas Clarkson trascor-
se molto tempo in Francia, contribuendo a formare il gruppo.
Gran parte dei testi adottati da questa associazione era costituita
dalle traduzioni in francese dei suoi pamphlet, dai quali derivava
l'idea della motivazione religiosa della condanna della schiavitù.
Benché gli Amis des Noirs non abbiano mai avuto più di 150
membri, molti di essi erano famosi, come il filosofo Antoine de
Condorcet e l'eroe francese della Rivoluzione Americana, il mar-
chese de Lafayette. Purtroppo, quando la Rivoluzione francese
sfociò in ima guerra interna al movimento rivoluzionario, gli
Amis des Noirs furono identificati con la fazione dei girondini e
condannati a morte da Robespierre, nella primavera del 1793 - i
leader andarono alla ghigliottina, Condorcet si suicidò in carcere,
e Lafayette fuggì in Austria. I pochi sopravvissuti ripresero gli in-
contri alla fine di quel decennio, ma «scomparirono definitiva-
mente nel 1799, quando Napoleone giunse al potere. [...] Ci volle-
ro due decenni prima che nascesse ancora una volta in Francia una
società c o n io scopo di porre fine alla tratta degli schiavi e alla
schiavitù nelle colonie francesi» (Jennings 2000, pp. 3-4).
Nel 1821 fu fondata la Société de la Morale Chrétienne (So-
cietà della morale cristiana). Com'era evidente fin dal suo nome,
466 A GLORIA DI DIO

il programma di questo gruppo era ispirato da motivazioni reli-


giose, e fra i suoi obbiettivi aveva l'abolizione della tratta degli
schiavi. Come gli Amis des Noirs, anche questo era un gruppo
molto piccolo (al momento del suo maggiore successo ebbe 338
membri), ma si trattava di un'élite ancora più illustre, che anno-
verava anche il futuro re Luigi Filippo. Anche i membri di que-
sto gruppo fecero circolare una petizione, e nel 1825 la presenta-
rono al governo. Le 130 firme della petizione erano tutte di «cit-
tadini importanti» (Daget 1980, p. 72). In ogni caso, il commercio
degli schiavi fu messo fuorilegge nel 1831, subito dopo che era
salito al trono Luigi Filippo.
I francesi ben presto iniziarono a collaborare pienamente con
gli inglesi per sequestrare le navi schiaviste che salpavano dal-
l'Africa. Ma nonostante ciò la schiavitù continuava indisturbata
nei Caraibi francesi. Quindi, nell'agosto 1834, gli abolizionisti
francesi formarono un altro gruppo, la Société Frangaise pour
l'Abolition de l'Esclavage (Società francese per l'abolizione del-
la schiavitù). Anche questa era un'associazione molto piccola, e
probabilmente non superò mai i 92 soci (Jennings 2000). Ma era
anch'essa un gruppo molto elitario, composto da persone di
classe sociale elevata e nobili, e «avrebbe operato in gran parte
come appendice alla Camera dei Deputati» (Jennings 2000, p.
54). Il gruppo aveva poi una percentuale più alta di protestanti
rispetto alla media nazionale, e gli abolizionisti inglesi esercita-
vano su di esso una notevole influenza, nonostante il fatto che
la grande maggioranza dei membri fosse composta da attivisti
cattolici. Inoltre, più della metà degli appartenenti a questa as-
sociazione era nobile di nascita, e molti avevano importanti in-
carichi politici nel governo. Tra di loro c'era l'illustre Alexis de
Tocqueville (1805-1859), recentemente tornato dal suo giro del-
l'America. Nel 1839, a nome della Société, Tocqueville presentò
una proposta di emancipazione alla Camera dei Deputati fran-
cese. Era ispirata aU'Emancipation Act britannico e prevedeva
un risarcimento di 150 milioni di franchi francesi per i padroni
di schiavi che fossero stati liberati. Tuttavia, la proposta fu ar-
chiviata, come in seguito molte altre dello stesso tipo.
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 467

Negli anni '40 del 1800, con il sostegno finanziario degli abo-
lizionisti inglesi, la Société iniziò ad ampliare le proprie prospet-
tive (Jennings 2000). Nel 1844 presentò al governo una nuova pe-
tizione antischiavista, sottoscritta da 7000 parigini. Il re Luigi Fi-
lippo l'accolse e liberò tutti gli schiavi appartenenti alla Corona.
A questo punto, la Chiesa cattolica entrò in gioco, chiedendo l'e-
mancipazione immediata di tutti gli schiavi francesi e facendo
circolare una nuova petizione. Molti degli 11.000 cittadini che la
firmarono erano sacerdoti cattolici. Sostenuto dall'arcivescovo di
Parigi, il quotidiano cattolico «L'Univers» si unì alla battaglia
contro la schiavitù. Tutti questi sforzi ebbero successo nel 1848,
quando la Monarchia di luglio fu sostituita da un governo prov-
visorio, prim a della formazione della Seconda Repubblica. Il de-
creto di emancipazione passò, e il regime provvisorio liberò tut-
ti gli schiavi entro due mesi dalla sua proclamazione, compen-
sando i loro proprietari con ima somma di denaro pari alla metà
del valore di ogni schiavo, per un costo di 6 milioni di franchi in
denaro e 120 milioni in obbligazioni del 5%. Dunque, come in In-
ghilterra, anche in Francia l'emancipazione fu ottenuta a un
prezzo davvero rilevante che ricadde su tutti i contribuenti.
Si è spesso sottolineato che i movimenti abolizionisti organiz-
zati in Francia furono molto piccoli ed elitari, ma ciò si spiega
con il fatto che in quell'epoca la Francia non era una democrazia:
eventuali appelli per ottenere il sostegno popolare non solo non
avrebbero avuto successo, ma anzi, avrebbero potuto danneg-
giare pesantemente la causa. Da Napoleone in poi, i governi
francesi hanno cercato di evitare la mobilitazione dei cittadini,
temendo, probabilmente a ragione, che fosse solo un invito al di-
sordine e alla rivoluzione. Quindi, gli appelli di massa sarebbero
stati soffocati; per avere successo bisognava convincere ad agire
l'élite politica. Sarebbe del tutto sbagliato interpretare ciò come
una prova del fatto che gli ideali e le convinzioni religiose fosse-
ro irrilevanti. Perché l'élite francese intraprese davvero questa
azione? Non per un interesse economico, poiché, come per gli in-
glesi, l'emancipazione degli schiavi nelle colonie francesi fu rag-
giunta a un prezzo rilevante, che ricadde pesantemente su colo­
468 A GLORIA DI DIO

ro che l'avevano voluta. Nulla più di un simile esempio di idea-


lismo in azione dimostra chiaramente che gli ideali erano im-
portanti.
Va inoltre rilevato che esisteva una «linea» religiosa che colle-
gava i movimenti abolizionisti francesi, americani e inglesi: i
quaccheri americani diedero vita all'aboliziomsmo tra i loro pari
in Gran Bretagna, e l'impegno di John Wesley e dei suoi metodi-
sti britannici influenzò i metodisti americani. Poi, furono dei de-
voti abolizionisti inglesi ad avviare, e in parte finanziare, il mo-
vimento francese.

Spagna e America Latina


Quando fu organizzata la Sociedad Abolicionista Espanda
(Società abolizionista spagnola), nel 1865, era molto tardi. Gli
schiavi erano stati liberati nelle colonie britanniche da più di
trent'anni, nelle colonie francesi da quasi vent'anni, e nelle colo-
nie olandesi da due; il 9 aprile di quell'anno, Lee si era arreso a
Grant, e tutti gli schiavi americani erano diventati uomini liberi.
Rimaneva solo la schiavitù coloniale spagnola, insieme con la
schiavitù del Brasile, che ormai si era liberato dalla dominazione
portoghese.
Coloro che cercano un movimento abolizionista secolare pos-
sono guardare alla Spagna, dove la religione servì da base mora-
le implicita e fornì un lessico di obbligo. Gli storici deH'abolizio-
nismo spagnolo giustamente sottolineano il ruolo dei movimen-
ti politici liberali e radicali emergenti in Spagna così come nelle
colonie (Blackburn 1988; Klein 1986; Schmidt-Nowara 1999). Tut-
tavia, questi storici non prestano adeguata attenzione all'eviden-
te debolezza economica e militare della Spagna. Appare molto si-
gnificativo che siano state delle attività antischiaviste a Porto Ri-
co a spingere alla formazione di un'associazione abolizionista in
Spagna, e che a fondamento deU'abolizionismo portoricano vi
fossero principalmente il recente declino economico di Porto Ri-
co e le preoccupazioni per l'espansionismo americano, nonché la
difesa di interessi locali in quanto «una transizione immediata al
lavoro libero sarebbe stata di giovamento per l'isola» e per la sua
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 469

economia depressa (Schmidt-Nowara 1999, p. 7). Anche se si ba-


sava su un ragionamento economico difettoso (che i proprietari
di schiavi capirono subito), questa proposta ebbe l'effetto di col-
legare la virtù morale a un chiaro interesse personale. Infatti, l'i-
dea di una Spagna rinnovata e potente fu un elemento esplicito
dell'abolizionismo spagnolo, con la sua duplice enfasi sui bene-
fici del lavoro libero e del libero scambio.
Si tenga presente che gli abolizionisti spagnoli non svolsero
alcun ruolo nel processo di emancipazione degli schiavi in gran
parte dell'America Latina, perché la Spagna aveva da tempo per-
so la sua sovranità sul continente a causa dei movimenti di libe-
razione nazionale. Tre fattori collegano la maggior parte di que-
sti movimenti di liberazione all'emancipazione. Il primo è che, al
di là del Brasile e di diverse colonie continentali nei Caraibi, ΓΑ-
merica Latina non aveva economie di piantagione, e la schiavitù
- impiegata tanto a livello di consumi quanto di produzione -
era sempre rimasta una pratica su piccola scala. Il secondo fatto-
re è che quasi tutti coloro che possedevano schiavi erano contra-
ri ai movimenti di liberazione. Il terzo fattore è che, proclaman-
do l'emancipazione, i movimenti di liberazione furono in grado
di guadagnarsi il sostegno degli schiavi alla loro causa - quan-
tunque fosse probabile che i leader rivoluzionari fossero del tut-
to sinceri nella loro opposizione alla schiavitù. Quando ottenne-
ro l'indipendenza, le nazioni latinoamericane optarono per l'e-
mancipazione: l'Argentina nel 1813, la Colombia nel 1814, il Cile
nel 1823, l'America Centrale nel 1824, il Messico nel 1829, la Bo-
livia nel 1831, l'Ecuador nel 1851, e Perù e Venezuela nel 1854.
Così, quando alla fine si manifestò, l'attività abolizionista spa-
gnola ebbe una portata molto ridotta, limitandosi soltanto alle
poche colonie rimaste, principalmente Cuba e Porto Rico.
La storia di come il governo spagnolo emancipò gli schiavi a
Porto Rico (1873) e a Cuba (1886) è una vicenda complessa di tu-
multi politici e di un alternarsi di liberalizzazione e di repressio-
ne. In tutto ciò, naturalmente, la Spagna era fortemente consape-
vole non solo del suo status di paria schiavista agli occhi delle al-
tre nazioni europee, ma anche delle sue debolezze economiche e
m A GLORIA DI DIO

militari. Infatti, dieci anni dopo che le Cortes spagnole abolirono


la schiavitù a Cuba, gli Stati Uniti conquistarono tutte le colonie
spagnole dei Caraibi, così come le Filippine.
Il Brasile divenne una nazione indipendente nel 1822, quan-
do Pedro I (figlio del re Giovanni VI di Portogallo) si proclamò
imperatore. Come risultato, i proprietari delle piantagioni brasi-
liane non furono più sottoposti al controllo di un regime europeo
e assunsero un'influenza economica e politica dominante. Di
conseguenza, l'emancipazione si raggiunse molto lentamente.
Quando finalmente ciò avvenne, nel 1888, il merito fu di tre fat-
tori (Conrad 1974, 1983 e 1993; Drescher 1988; Karasch 1987;
Schwartz 1985,1992 e 1998; Toplin 1972 e 1981).
Il primo fattore connesso con la fine della schiavitù brasiliana
fu un'intensa pressione straniera: «I brasiliani [erano] umiliati
dai riferimenti al loro paese come all'ultima nazione cristiana
che tollerava la schiavitù, allo stesso livello "arretrato" delle so-
cietà schiaviste africane e asiatiche» (Drescher 1988, p. 21). Anzi,
fu solamente per reazione alle pressioni britanniche che il Brasi-
le accettò di porre fine alla sua partecipazione alla tratta atlanti-
ca degli schiavi, nel 1831. E furono i pattugliamenti britannici a
bloccare l'importazione illegale di schiavi da parte dei brasiliani,
nel 1853. La caduta della Confederazione americana degli stati
del Sud fu un colpo politico terribile, che privò il Brasile di un
importante alleato - se gli stati del Sud avessero vinto la Guerra
Civile, il Brasile e le colonie spagnole dei Caraibi avrebbero po-
tuto aderire alla Confederazione (Fogel 1989).
Il secondo fattore fu un movimento abolizionista sempre più
militante, alimentato da uomini giovani istruiti all'estero e dal
numero molto grande e in rapida crescita di neri liberi, risultato
di condizioni di affrancamento molto liberali (modellate sul Có-
digo Negro Espanol). Già nel 1817, circa il 25% dei 2,3 milioni di
brasiliani di origine africana era libero. Quando vi fu l'emanci-
pazione nel 1888, gli schiavi erano solamente un 5% circa della
forza lavoro brasiliana (Conrad 1993; Schwartz 1998).
Il terzo fattore fu un rapido sviluppo economico e la crescita
della popolazione, che privarono del potere politico i proprietà­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 471

ri delle piantagioni. Tra il 1840 e il 1890, la popolazione del Bra-


sile passò, con un incremento sostanziale della crescita dovuta a
immigrati europei, da 4 a 14 milioni (Merrick, Graham 1979).
Sebbene le città assorbissero gran parte di questa crescita, l'im-
migrazione fornì anche una forza lavoro agricola che contribuì a
convertire all'abolizionismo alcuni proprietari terrieri settentrio-
nali (Toplin 1972). Nel frattempo, le piantagioni di zucchero e di
cotone degli stati settentrionali sperimentarono tempi difficili
dal punto di vista economico, e la zona con ima maggiore pre-
senza di schiavi divenne il Sud, dove la principale coltura era il
caffè - e moltissimi schiavi furono trasferiti da Nord a Sud. L'ur-
banizzazione, l'industrializzazione e un mercato dello zucchero
in crisi erosero l'influenza politica dei grandi proprietari di pian-
tagioni. Alla fine, le città e le zone che non dipendevano econo-
micamente dalle piantagioni imposero l'emancipazione a un Sud
dipendente al contrario dal lavoro degli schiavi. A causa dell'in-
fluenza ridotta dei proprietari delle piantagioni, non vi fu nes-
sun indennizzo per loro quando furono costretti a lasciar liberi i
loro schiavi.
E così finì la schiavitù nel mondo cristiano. Fu abolita grazie
alle campagne moralizzatrici stimolate dalla gravità del fenome-
no. Naturalmente, dal momento che la maggioranza degli uomi-
ni non è composta da moralisti senza riserve, i movimenti abolì-
zionisti ebbero successo laddove le preoccupazioni morali non
entravano in conflitto con l'interesse economico dei proprietari
di schiavi, anche se in America, Gran Bretagna e Francia la gen-
te fu disposta a fare notevoli sacrifici personali in nome della li-
berazione degli schiavi. Ciò nonostante, possiamo dire che in
ogni caso una zona non schiavista potente impose l'abolizione
della schiavitù a una regione schiavista più debole. In altre paro-
le, gli abolizionisti americani mobilitarono il Nord per liberare
gli schiavi del Sud; gli abolizionisti in ima Gran Bretagna priva
di schiavi convinsero il governo a dichiarare illegale la schiavitù
nelle lontane colonie; fu nella Francia metropolitana che si deci-
se il destino della schiavitù nelle Indie Occidentali francesi; fu a
Madrid, non a L'Avana o a San Juan, che si ottenne l'emancipa­
472 A GLORIA DI DIO

zione degli schiavi dei Caraibi spagnoli; e fu a Rio che gli schia-
vi brasiliani furono emancipati. Al contrario, i movimenti abolì-
zionisti non si fecero strada, o non ne fecero molta, nelle regioni
meridionali degli Stati Uniti e del Brasile, o nelle colonie europee
con un'economia di piantagione.

L'«Illuminismo» e la schiavitù

Farebbe piacere a molti studiosi contemporanei se gli argo-


menti morali a favore dell'abolizione fossero stati un prodotto
d e ir «Illuminismo». In effetti, Peter Gay si spinse fino ad affer-
mare che fu proprio così, p u r rim proverando ai philosophes di
essere stati un po' troppo vaghi sulla questione (Gay 1969,410).
Tuttavia, nemmeno l'attenta selettività di Gay può nascondere
il fatto che le principali figure dell'«Illuminismo» accettassero
pienamente la schiavitù. Thomas Hobbes (1588-1679) e John
Locke (1632-1704) «approvarono apertam ente l'asservimento
umano» (Davis 1966, p. 391), e Locke addirittura investì nella
tratta atlantica degli schiavi (Gay 1969). Voltaire (1694-1778)
scrisse un aspro commento sui cristiani che traevano profitto
dalla schiavitù, ma sosteneva la tratta degli schiavi e credeva
nell'inferiorità degli africani (Seeber 1937). Il barone di Monte-
squieu (1689-1755) ebbe cura di escludere eventuali motivazio-
ni religiose a favore della schiavitù, solo per dire che essa era
giustificata dalla legge naturale. Il conte di M irabeau (1748-
1791) accettava la schiavitù, e come lui Edm und Burke (1729-
1797), che liquidò gli abolizionisti come fanatici religiosi e
spiegò che «la causa dell'um anità trarrebbe molti più benefici
dalla continuazione del commercio [degli schiavi] e della ser-
vitù [...] che dalla distruzione totale di entrambi, o di vino dei
due» (in Davis 1966, p. 398). David H um e (1711-1776) non era
favorevole all'abolizione, anche se il suo vicino e amico Adam
Smith (1723-1790) fu un veemente oppositore della schiavitù
per motivazioni sia morali sia economiche, come vedremo. In
effetti, anche alcuni altri esponenti de1r«Illuminismo» sosten­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 473

nero la causa deirabolizionism o, come Denis Diderot (1713-


1784), Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-1781), il dottor Sa-
muel Johnson (1709-1784) e, ovviamente, Condorcet (1749-
1794). Tuttavia, la maggior parte di loro accettava la schiavitù
come ima componente normale della condizione um ana (Davis
1966). Non furono i filosofi o gli intellettuali laici a mettere in-
sieme l'atto d'accusa formale contro la schiavitù, ma le stesse
persone che loro disprezzavano, uomini e donne di grande fe-
de, che si opposero alla schiavitù perché era un peccato. Dun-
que, come abbiamo detto nel capitolo 2, fu il teologo naturale
William Paley, e non il suo oppositore ateo David Hume, a con-
dannare la schiavitù in quanto «istituzione odiosa», e lo fece
sulla base della «luce e dell'influenza» cristiana (Paley [1785]
1827, pp. 87-88).
N on solo gli intellettuali deH'«Illuminismo» non raggiunse-
ro m inim am ente l'intensità e la passione dell'im pegno abolì-
zionista che si diffuse attraverso i circoli religiosi dell'epoca;
anche se fossero stati unanim em ente a favore dell'emancipa-
zione degli schiavi, il loro sostegno pubblico avrebbe contato
molto meno di quello degli abolizionisti cristiani. E la ragione
è semplice: nel corso degli eventi umani, le «voci» contano
molto meno delle organizzazioni. I quaccheri erano pochi (per-
sino negli Stati Uniti, nel 1776, erano solo un 10% di tutte le
congregazioni - Stark e Finke 1988), ma non erano delle «vo-
ci»; erano congregazioni. N on si limitarono a esprim ere le loro
opinioni, ma agirono. Le loro azioni furono ben fondate, coor-
dinate, ben condotte e orientate a influenzare l'opinione pub-
blica. Le chiese sono sem pre incredibilmente efficaci nel pia-
smare la politica pubblica perché non hanno bisogno di creare
organizzazioni per perseguire i propri fini; sono già delle or-
ganizzazioni. Anzi, l'abolizione della schiavitù fu solamente la
più celebrata di molte efficaci cam pagne religiose simili - le
chiese svolsero un ruolo guida anche nel m ovimento per il suf-
fragio femminile, e furono la componente fondamentale nel
m ovimento per i diritti civili del Sudamerica (Branch 1988; Fo-
gel 2000; Morris 1984).
474 A GLORIA DI DIO

La contro-spiegazione marxista

All'insaputa di gran parte degli storici marxisti, la loro spie-


gazione revisionista del «vero» motivo per cui gli schiavi furono
liberati si basa sull'opera deU'economista che più disprezzano:
A dam Smith. Però Smith sbagliò sull'economia della schiavitù e,
di conseguenza, sbagliarono (sbagliano) i marxisti.
Smith sosteneva che la schiavitù fosse una modalità di prò-
duzione inefficiente poiché il lavoro degli schiavi costava più di
quello di individui liberi e pagati. Gli schiavi non avevano alcu-
na motivazione economica, ma lavoravano solamente il necessa-
rio per evitare la punizione - dunque, più lentamente e con me-
no cura rispetto ai salariati. Invece, i lavoratori liberi potevano
essere ricompensati proporzionalmente alla loro produttività, e
dunque si sarebbero applicati al lavoro, sia mentalmente che fi*
sicamente. «L'esperienza di tutti i tempi e di tutte le nazioni di-
mostra che [...] l'opera fatta dagli uomini liberi risulta alla fine
più a buon mercato che non quella fatta dagli schiavi.» (Smith
[1776] 1981, p. 99). Dunque, il saggio latifondista delle pianta-
gioni avrebbe dovuto preferire alla schiavitù un sistema simile
alla mezzadria.
Con la crescita della fama di Smith, si diffuse tra gli intellet-
tuali la convinzione che la schiavitù fosse contraria alla buona
pratica economica - che le piantagioni schiaviste fossero molto
meno redditizie di quanto lo sarebbero state impiegando lavora-
tori liberi. Presto, questa divenne l'opinione prevalente tra gli
oppositori della schiavitù, tanto che William Lloyd Garrison con-
dannò quelle che riteneva delle proposte non attendibili, soste-
nendo che gli abolizionisti americani dovessero modificare il
fondamento del loro attacco al sistema della schiavitù, sostituen-
do al «dovere cristiano» le questioni di «portafoglio» (in Thomas
1963, p. 326). Alla vigilia della guerra civile, Hinton Rowan Hel-
per sostenne che la schiavitù stava ritardando la crescita econo-
mica del Sud (Helper 1857), e Frederick Law Olmsted proclamò
che le piantagioni schiaviste del Sud erano un investimento non
remunerativo (Olmsted 1861). Dopo la guerra, questa divenne
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 475

l'opinione accademica comune - e all'inizio del XX secolo ogni


persona «ben informata» sapeva che la schiavitù del Sud era or-
mai alla fine dei suoi giorni al momento della secessione, e che
se i proprietari delle piantagioni fossero stati degli imprenditori
più sobri, e accorti, avrebbero abbandonato la schiavitù molto
prim a che divenisse necessaria una guerra.
Quando i marxisti si occuparono della questione, queste idee
si erano evolute fino all'affermazione che non fossero state delle
obiezioni morali, ma il capitalismo, ad abolire la schiavitù! Non
che il capitalismo portasse a simpatizzare con coloro che veniva-
no tenuti in schiavitù, naturalmente. Come ha scritto Howard
Temperley, «ima filosofia che esaltava il perseguimento dell'inte-
resse personale, come avrebbe potuto contribuire, in assenza di
qualsiasi aspettativa di guadagno economico, al raggiungimento
di un così lodevole obiettivo quale l'abolizione della schiavitù?»
(Temperley 1977, p. 105). Secondo David Brion Davis, la «do-
manda fondamentale» era questa: come «ha fatto un movimento
apparentemente liberale a emergere e a continuare ad ottenere il
sostegno dei più importanti leader di governo nel periodo 1790‫־‬
1832, un periodo caratterizzato sia dalla restaurazione politica
sia dalla rivoluzione industriale» (Davis [1975] 1999, pp. 348-
349)? La risposta marxista è che l'emancipazione fu conseguita
per sostituire l'istituzione economica precapitalistica, inutile e
datata, della schiavitù: il «vero» scopo degli abolizionisti era ri-
muovere un impedimento all'ulteriore sviluppo del capitalismo.
Il sostenitore più energico e originale di questa tesi fu Eric
Williams, uno storico dell'economia che fu primo ministro di Tri-
nidad e Tobago dal 1961 al 1981. Egli sostenne che i britannici at-
taccarono la schiavitù nelle Indie Occidentali, perché era «così
poco redditizia da rendere inevitabile la sua soppressione» (Wil-
liams [1944] 1994, p. 135). Per la precisione, l'argomentazione di
Williams era che l'obiettivo primario del capitalismo emergente
fosse quello di abbassare il costo del lavoro: essendo pienamen-
te consapevoli della tesi di Adam Smith per cui il lavoro degli
schiavi era più costoso di quello salariato, i capitalisti britannici
sostennero l'abolizionismo. Williams capì che se avesse lasciato
476 A GLORIA DI DIO

la sua affermazione così come era formulata, sarebbe stata ov-


viamente smentita dal fatto che la schiavitù nelle Indie Occiden-
tali non finì affatto grazie a dei capitalisti che cercavano di au-
mentare i propri profitti. Per ovviare a questo inconveniente, li-
quidò i proprietari delle piantagioni definendoli «ciechi davanti
a tutte le considerazioni e conseguenze, tranne il mantenimento
del loro sistema malato» (Williams [1944] 1994, p. 135). Ma come
poteva una riduzione del costo del lavoro nelle Indie Occidenta-
li arrecare vantaggio a dei capitalisti della Gran Bretagna? Attra-
verso un notevole abbassamento dei costi dello zucchero: dal
momento che questo avrebbe ridotto il costo della vita in Gran
Bretagna, i datori di lavoro sarebbero stati in grado di diminuire
i salari dei lavoratori. Per quanto riguarda le motivazioni reli-
giose, Williams le scartò come false, ovviamente, perché, se fos-
sero state autentiche, gli abolizionisti avrebbero anche lottato
contro il colonialismo e contro lo sfruttamento capitalistico del
lavoro libero. Dal punto di vista di Williams, qualsiasi vero op-
positore della schiavitù avrebbe anche combattuto contro la
«schiavitù del salario».
Gli aspetti economici della tesi di Williams da tempo sono
stati confutati dai fatti. In primo luogo, è stato ampiamente di-
mostrato che i proprietari delle piantagioni non erano né scioc-
chi né ciechi davanti alle realtà economiche; piuttosto, la schia-
vitù era molto redditizia, e per forme di agricoltura su larga sca-
la e intensiva il lavoro degli schiavi era molto più produttivo del
lavoro salariato (Conrad, Meyerl958; Easterlin 1961; Fogel, En-
german 1974). In secondo luogo, come già osservato e come am-
piamente previsto da coloro che approvarono in Gran Bretagna
l'Emancipation Act, i costi economici della soppressione della
schiavitù furono immensi, e il prezzo nazionale dello zucchero
aumentò drasticamente. Ciò nonostante, l'insistenza di Williams
sul fatto che gli abolizionisti dovevano essere stati dei capitalisti
motivati solo dal proprio tornaconto sopravvive ancora oggi.
Anche in questo caso, David Brion Davis si dimostra l'esempio
più influente, benché il suo sia un marxismo in un certo senso
più «morbido».
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 477

Davis iniziò identificando i quaccheri inglesi come «l'incar-


nazione della mentalità capitalista [...] l'avanguardia della rivo-
luzione industriale» (Davis [1975] 1999, p. 233). Come «classe im-
prenditoriale» la loro preoccupazione più urgente era quella di
domare «ima forza lavoro ribelle» e la necessità di imporre una
«disciplina del lavoro». E l'abolizionismo fu il metodo adottato
dai quaccheri per raggiungere tale obiettivo:

Ai moralisti e ai riformatori delle altre fedi i quaccheri dimostraro-


no che schierarsi contro la schiavitù poteva essere un corrispettivo
sociale di purezza interiore che sembrava non costituire alcuna mi-
naccia per l'ordine sociale - per lo meno per quell'ordine capitali-
stico nel quale i quaccheri si erano guadagnati un posto così invi-
diabile. [...] L'antischiavismo [quacchero] era una risposta alta-
mente selettiva allo sfruttamento del lavoro. Forniva il pretesto per
dimostrare la preoccupazione cristiana davanti alla sofferenza e al-
l'ingiustizia umana, e grazie a questo considerava profondamente
immorali le attività economiche che dipendevano dalla sofferenza
e dalla ingiustizia umana in maniera meno visibile. (Davis [1975]
1999, p. 251)

Dunque, «il movimento abolizionista contribuì a preparare la


strada ideologica agli industriali britannici» (Davis [1975] 1999,
p. 467).
Tuttavia, Davis non accusò i quaccheri di «insincerità o deli-
berato inganno». Piuttosto, data l'evidente sincerità degli abolì-
zionisti quaccheri e cristiani, sostenne che la loro motivazione
economica, seppur reale, era inconscia. Quindi, anche se i quac-
cheri non erano consapevoli delle loro vere e interessate motiva-
zioni, i raffinati osservatori moderni sono in grado di penetrare
neH'«intenzione conscia» degli abolizionisti e capire che costoro,
in realtà, «riflettevano le necessità e i valori dell'emergente ordi-
ne capitalista» (Davis [1975] 1999, p. 350).
E qui Davis utilizzò la più celebrata e difettosa arma dell'ar-
senale marxista, vale a dire, il principio della «falsa coscienza».
Ogni qual volta le persone non agiscono spinte dai loro «interes­
478 A GLORIA DI DIO

si economici» secondo le previsioni marxiste, la cosa va spiegata


come un errore, o una percezione sbagliata, da parte loro. Quin-
di, anche se i quaccheri avrebbero dovuto sapere che si opponeva-
no alla schiavitù perché volevano l'espansione del capitalismo,
pare che non ne fossero consapevoli, forse perché passavano
troppo tempo in chiesa a raccontarsi l'un l'altro «favole» religio-
se. A ulteriore spiegazione di questo principio marxista mi sem-
bra opportuno citare John Ashworth, il quale in sostegno a Da-
vis e per eludere la chiara evidenza che gli abolizionisti fossero
sinceri nel loro idealismo, definì la falsa coscienza come «il con-
cetto che la consapevolezza degli attori storici è incompleta, con
il risultato che costoro percepiscono in maniera errata il mondo
attorno a sé». Ma non si tratta solamente d'ingannare se stessi,
poiché è «la società, piuttosto che l'individuo, a generare la falsa
coscienza». E poi cita l'asserzione di un «teorico marxista»: «Non
è il soggetto che inganna se stesso, ma la realtà che lo inganna».
Per illustrare questo punto, Ashworth osservò:

Quando Maria Antonietta disse ai contadini di Parigi (non impor-


ta se la storia probabilmente è apocrifa) di mangiare dei dolci se
non avevano più pane, non stava ingannando se stessa nel ritene-
re che potessero metterselo. Piuttosto, la natura del suo coinvolgi-
mento nella società le nascondeva la possibilità di capire che i con-
tadini non potevano affatto permettersi di mangiare dolci.
(Ashworth 1992, p. 182)

Ovviamente, come riconosce lo stesso Ashworth, Maria An-


tonietta non pronunciò mai queste parole, e sembra anche piut-
tosto inconcepibile che lei, come chiunque altro dotato di un'in-
telligenza media, non sapesse che i contadini erano poveri.
Com'è significativo che Ashworth abbia scelto di illustrare il
principio della falsa coscienza con un falso esempio!
Davvero le persone percepiscono erroneamente le situazioni?
Certo. A volte hanno delle motivazioni duplici? Di sicuro. A voi-
te aiutano senza volerlo coloro ai quali vogliono opporsi? Senza
dubbio. Eppure, riconoscere queste manchevolezze non significa
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SCHIAVITÙ 479

sostenere che la realtà sia come vuole farci credere la teoria


marxista - vale a dire, puro solipsismo. Tutto quello che sono di-
sposto a concedere ai marxisti su questo punto è che il principio
della falsa coscienza è un bell'esempio proprio di falsa coscien-
za, ma non riesco a trovarne un altro. Anzi, concordo pienamen-
te con Thomas Haskell: «Dire che una persona è mossa dall'inte-
resse di classe significa dire che questa persona intende promuo-
vere gli interessi della sua classe, oppure non significa nient'al-
tro» (Haskell 1992, p. 117).

Conclusione

La schiavitù non ebbe fine per la sua inefficienza, e l'emanci-


pazione non fu il risultato di un complotto capitalista. Come
spiega molto bene Robert William Fogel, la fine della schiavitù fu
«l'esecuzione politica di un sistema immorale all'apice del suo
successo economico, voluta da persone ardenti di fervore mora-
le» (Fogel 1989, p. 410). Proprio così! Il fervore morale è l'argo-
mento essenziale di tutto questo libro: la potente capacità del
monoteismo, e soprattutto del cristianesimo, di dar vita a straor-
dinari episodi di fede che hanno plasmato la civiltà occidentale.

1Durante gli anni '90, il più importante testo di storia americana per la
scuola superiore, Rise ofthe American Nation (Harcourt, Brace, Jovanovich)
asseriva che la schiavitù fosse stata un fenomeno sconosciuto per il Nord
America fino alla sua introduzione da parte degli europei (Carroll, Shiflett
2002).
2Durante un soggiorno alla Debob Bay, un'insenatura di Puget Sound, io
e mia moglie abbiamo raccolto più di ima dozzina di grandi granchi in
meno di quindici minuti di bassa marea, usando solamente le mani e un
sacco. Le ostriche erano così abbondanti che ne abbiamo prese quante sia-
mo riusciti. Un semplice bastoncino ci è bastato per le vongole. Abbonda-
vano oche e anatre facilmente catturabili, e il mare era ricco di pesce, com-
presi dei salmoni magnifici. Ovunque crescevano bacche selvatiche. E se
480 A GLORIA DI DIO

queste condizioni esistono ancor oggi, è impossibile riuscire a immagina-


re quale fosse la ricchezza della regione anche solo un secolo fa.
3Fu la famosa sentenza Somersett. Trovo difficile spiegare perché molti
storici insistano sul fatto che questa sia stato il primo grande passo verso
l'abolizione della schiavitù, quando vi furono dei precedenti in Europa ri-
salenti a molto tempo prima e dei quali il tribunale inglese era perfetta-
mente a conoscenza. David Brion Davis ([1975] 1999, p. 505) mette le ma-
ni avanti ammettendo che «possibili precedenti» alla sentenza Sommerset
si possano ritrovare nel diritto francese, ma li esclude, sostenendo che «il
Code Noir del 1685 autorizzò la schiavitù di beni mobili nelle colonie», il
che non ha niente a che vedere con il principio del libero territorio vigen-
te in Francia. Nella stessa frase in cui riconosce l'esistenza di possibili pre-
cedenti, Davis scrive che «gli inglesi erano piuttosto divertiti dalle pre-
sunzioni di libertà della Francia borbonica», il che sembrerebbe una prova
sufficiente dei suoi grandi pregiudizi anglofili anticattolici.
4Ometto un prezzo africano dal momento che era di un ordine di gran-
dezza superiore agli altri dodici oltre che basato su un'unica fonte.
5Gay 1969, p. 411. E continua ammettendo che «la sua promulgazione se-
gnò l'inizio dell'imposizione di alcuni limiti ai padroni».
6In realtà, Manoel de Oliveira Lima (1914) e Gilberto Freyre (1922) antici-
parano Tannenbaum.
7L'enfasi posta in Gran Bretagna sull'educazione «classica» rende proba-
bile che per lo meno alcuni dei legislatori conoscessero questo principio
greco.
81 rotoli del Mar Morto, che molti autorevoli studiosi associano agli esse-
ni, comprendono dei codici di leggi che consentono la schiavitù dei non
credenti (Vermes 2000).
9Stanley M. Elkins ([1959] 1976, p. 69) conosceva di sicuro queste bolle,
avendo scritto, «lo stesso papato denunciò [la schiavitù] in diversi modi
nel 1462, 1537, 1639, 1741, 1815 e 1839», ma non scrisse altro. Nessuna ci-
tazione. Nessuna indicazione di contenuti o contesti. Niente. Anche Frank
Tannenbaum conosceva le bolle: «Il commercio degli schiavi era stato con-
dannato da Pio II il 7 ottobre 1462, da Paolo III il 29 maggio 1537, da Ur-
bano VIII il 2 aprile 1639, da Benedetto XIV il 20 dicembre 1741, e infine
da Gregorio XVI il 3 dicembre 1839. Il fondamento di tale condanna era
che persone innocenti e libere venivano catturate illegalmente e con la for-
za, e vendute in schiavitù, e che saccheggi, crudeltà e guerre erano stimo-
lati dalla ricerca di essere umani da vendere per trame profitto». Certo,
una discussione un po' più ampia di quella di Elkins, ma pur sempre po­
LA GIUSTIZIA DI DIO: IL PECCATO DELLA SC H IA VnÙ 481

vera. Eppure, persino Elkins dice molto di più della maggioranza degli
storici sulle bolle papali contro la schiavitù. L'unica voce per Pope nell'in-
dice della tanto celebrata storia intellettuale della cultura occidentale di
David Brion Davis (1966) è quella corrispondente al poeta britannico
Alexander Pope. Esattamente lo stesso si può dire del vasto studio di Ro-
bin Blackbum (1998). E per quanto riguarda Milton Meltzer (1993), nel suo
indice non troviamo nemmeno Alexander Pope. Non citano i papi nean-
che Drescher ed Engerman nella loro enciclopedica Historical Guide to
World Slavery (1998), nonostante le lunghe sezioni dedicate alle «questioni
morali» e alla «religione».
10Π significato del termine in questo caso è molto simile all'uso che se ne
fa in cucina, quando si riduce una salsa, e si basa sul fatto che i gesuiti ave-
vano concentrato i guarani in insediamenti molto più densi di quelli in cui
vivevano in precedenza.
11Dovrei bilanciare questa affermazione sottolineando la capacità di molti
teologi protestanti di «aggirare» il fatto che Gesù bevesse vino.
12Dal momento che le donne non avevano diritto di voto si riteneva che le
loro opinioni avrebbero avuto poca importanza agli occhi dei funzionari
eletti.
Post scriptum: divinità, rituali e scienze sociali

La base più ovvia del comportamento religioso è


quella di cui ci parla un qualsiasi credente quan-
do lo interroghiamo - e , a differenza di alcuni an-
tropologi, io gli credo. Costui crede in esseri so-
prannaturali e compie dei rituali religiosi allo
scopo di soddisfarli.
Melford Spiro

Se è difficile credere che le immagini degli Dei siano ima que-


stione ignorata nelle storie scritte più di recente, lo è ancora di
più capire perché molto tempo fa gli Dei siano stati banditi an-
che dallo studio scientifico della religione. E questo è proprio il
motivo per cui, oltre che per far risorgere e riformulare una so-
ciologia degli Dei, ho dedicato due volumi alla dimostrazione
del ruolo cruciale degli Dei nel plasmare la storia e la civiltà. Ora
che ho portato a termine la mia impresa, è giunto il momento di
sintetizzare tutte le idee in una prospettiva conclusiva.
In questo post scriptum esaminerò per prim a cosa il motivo
per cui le scienze sociali hanno abbandonato gli Dei e li hanno
sostituiti con il rituale quale aspetto religioso fondamentale. La
validità di questa sostituzione viene confutata facilmente dalle
prove schiaccianti del fatto che sono le concezioni del sopranna-
turale a determinare il carattere e l'importanza dei rituali, e non
il contrario. Poi, dimostrerò che solo le religioni con un'immagi-
ne degli Dei adeguata sono in grado di sostenere la moralità, e
484 A GLORIA DI DIO

che la partecipazione rituale ha poco o nessun impatto sul com-


portamento morale. Terminerò con una breve esortazione.

Quando le scienze sociali hanno abbandonato Dio

Se si chiede loro cosa significa la parola «religione», la mag-


gioranza dei credenti risponderà che è «un qualcosa» che ha a
che fare con Dio o con gli Dei. Eppure, per un secolo, la maggior
parte degli studi di scienze sociali sulla religione ha esaminato
praticamente tutti gli aspetti della fede, tranne le credenze delle
persone negli Dei. Q uando e perché abbiamo commesso questo
grave errore? Quando Durkheim e gli altri primi funzionalisti
scartarono gli Dei dall'analisi, ritenendoli imo specchietto per le
allodole, e quando sostennero piuttosto che riti e rituali fossero
l'aspetto fondamentale della religione. In ima lunga recensione
alla sesta parte dei Principi di sociologia di Herbert Spencer, Émi-
le Durkheim accusò l'autore di aver ridotto la religione «a una
mera raccolta di credenze e pratiche riferite a un agente sopran-
naturale». Vista dalla prospettiva della «vera» sociologia:

L'idea di Dio che qualche tempo fa sembrava essere la somma to-


tale della religione, ora non è nulla più che un caso minore. È un
fenomeno psicologico che si è mescolato a un processo sociologico
la cui importanza è di ordine piuttosto diverso [...]. Forse do-
vremmo essere in grado di scoprire cosa si nasconde dietro questo
fenomeno così superficiale. [...]
Dunque, il sociologo presterà poca attenzione ai diversi modi in
cui gli uomini e i popoli hanno concepito la causa sconosciuta e la
profondità misteriosa delle cose. Egli metterà da parte tutte queste
speculazioni metafisiche e vedrà nella religione solamente una di-
sciplina sociale. (Durkheim [1886] 1994, p. 19)

Quindici anni dopo, Durkheim non aveva cambiato idea sul


fatto che gli Dei fossero non fossero essenziali alla religione, os-
servando che benché l'apparente scopo dei rituali fosse quello di
POST SCRIPTUM: DIVINITÀ, RITUALI E SCIENZE SOCIALI 485

«rafforzare i vincoli che uniscono il fedele al suo Dio», ciò che fa-
cevano in realtà era rafforzare i «vincoli fra individuo e società
[...] essendo il Dio solo una rappresentazione figurativa della so-
cietà» (Durkheim [1912] 2005, p. 284). E nacque così una nuova
ortodossia delle scienze sociali: la religione consiste solamente
nella partecipazione a riti e rituali.
A lungo ho sospettato che la «ragione» occulta che ha distolto
la nostra attenzione da Dio e l'ha spostata sul rituale avesse a che
fare con il fatto che Durkheim e la sua cerchia erano degli ebrei
laici militanti i quali, nonostante ciò, a volte frequentavano le si-
nagoghe (Strenski 1997). Nella loro personalissima esperienza, la
fenomenologia della religione non includeva la credenza in esse-
ri soprannaturali, ma solo la solidarietà dei rituali di gruppo.
Queste convinzioni personali poi erano state rafforzate dalla let-
tura assidua di racconti antropologici sulla vita rituale dei «pri-
mitivi», redatti da osservatori che non avevano alcuna simpatia
per le divinità venerate. Anzi, alcuni fra i più famosi antropologi
ammonivano di non prestare attenzione alle ragioni addotte dai
«nativi» per spiegare il perché celebravano determinati riti. Al-
fred R. Radcliffe-Brown definì un «deplorevole errore» supporre
che qualcuno diverso da un colto osservatore esterno potesse da-
re un significato all'attività rituale (Radcliffe-Brown 1939, p. 25).
Così, fu dal suo privilegiato punto di vista esterno che lo studio-
so concluse che, benché «a volte si dica che i riti funebri o di cele-
brazione del lutto siano il risultato di una fede in un'anim a che
sopravvive alla morte [...]. Io direi piuttosto che la fede in un'a-
nima che sopravvive alla morte non è la causa, ma l'effetto, di ta-
li riti» (Radcliffe-Brown 1952, p. 155). Con la stessa logica, si dice
che le culture «scoprano» l'esistenza di divinità della pioggia co-
me risultato delle danze della pioggia - senza porsi il problema
del perché a un certo momento abbiano iniziato a farle. Bisogna
davvero essere dei grandissimi esperti di scienze sociali per poter
credere a una cosa simile!
Questo, insieme a molti altri consigli degli «esperti», ha spo-
stato l'attenzione degli studiosi su questioni marginali, dando la
precedenza a ciò che le persone facevano in nome della religio‫־‬
486 A GLORIA DI DIO

ne piuttosto che la religione in sé. E a questi studiosi tutto sem-


brava essenzialmente irrazionale, poiché avendo completamen-
te eliminato dal ragionamento gli oggetti di tali attività, di sicu-
ro non potevano capire perché le persone si dedicassero a que-
ste pratiche. Se crediamo veramente che i rituali siano la vera es-
senza della religione, allora cosa dobbiamo pensare di quelle
persone che nelle loro cerimonie includono «sacrifici» davvero
costosi, come la rinuncia ai propri interessi personali? Devono
per forza essere pazze. E questa è la conclusione alla quale cer-
tamente giunsero molti studiosi di scienze sociali che si dedica-
rono alla spiegazione del «sacrificio». Royden Keith Yerkes sot-
tolineò la cieca irrazionalità dei sacrifici nelle società tradiziona-
li (Yerkes 1952, p. 4), mentre Freud sostenne che l'irrazionalità
dei riti sacrificali era radicata nel complesso di Edipo. Egli disse
che il sacrificio «commemorava» il «peccato originale», nel qua-
le i figli si ribellano, uccidono e mangiano il loro padre, e poi
hanno rapporti sessuali con le sue mogli (Freud [1912-1913]
1987). Questa visione fu legittimata in maniera esauriente da
Roger Money-Kyrie (1994) e, nel suo im portante libro di testo,
Brian Morris definì la tesi di Freud «sorprendente» e «allettan-
te» (Morris 1987, p. 159).
Alla fine, questa linea di analisi è sfociata in assurdità quali
la negazione da parte di Rodney N eedham dell'esistenza di
qualsiasi «stato interiore» che possa essere chiamato fede reli-
giosa (Needham 1976) o l'affermazione di Simon R. F. Price se-
condo la quale essendo la fede religiosa solamente un'invenzio-
ne cristiana, quando i «primitivi» pregano, in realtà non inten-
dono farlo (Price 1984). Anzi, Dan Sperber ci ha offerto un'in-
terpretazione psicologica im prontata a uno straordinario soli-
psismo per cui, dal momento che è evidente che gli esseri so-
prannaturali non esistono, è assurdo interpretare i rituali reli-
giosi come dei tentativi di ottenere l'appoggio del divino (Sper-
ber 1975, p. 5). Persino Clifford Geertz si è spinto fino a negare
che le cerimonie di guarigione celebrate dai Navaho avessero
come scopo la cura dei malati. No, egli vorrebbe farci credere
che tali rituali servissero solamente a fornire «alla persona col­
POST SCRIPTUM: DIVINITÀ, RITUALI E SCIENZE SOCIALI 487

pita un lessico» per comunicare le proprie pene «al mondo


esterno» (Geertz 1966, pp. 19-20). E chi se ne importa se la ceri-
monia consiste quasi esclusivamente nel ripetere salmodie qua-
li: «Che il malato possa star bene»!
Il concetto che la religione non abbia a che vedere con la fede
in esseri divini è espresso anche in forme meno estreme. Robert
Bellah condannò la «confusione fra fede e religione» come un
esempio di «errore oggettivista», sostenendo che l'enfasi sulla fé-
de si ritrova solamente in «tradizioni religiose profondamente
influenzate dal pensiero greco - cristianesimo e islam» (Bellah
1970, p. 220). Egli contrappose queste religioni a quelle orientali,
ponendo la massima attenzione nel rilevare solamente quelle
forme in cui il soprannaturale era concepito non come un essere,
ma come un'«essenza», impersonale e passiva. Di conseguenza,
ciò che Bellah disse, in realtà, è che gli Dei non sono importanti
per le religioni senza Dei. E non capì neanche che le religioni pri-
ve di divinità non sono affatto importanti per la vita religiosa
orientale. Come ho ripetuto molto spesso, le fedi prive di Dei so-
no vissute solo da piccole élite intellettuali, e le forme popolari di
buddhismo, confucianesimo e taoismo abbondano di divinità.
Ovviamente, quando queste divinità sono molte e tutte di im-
portanza limitata, la centralità di una di esse, o anche di tutte in-
sieme, per la vita religiosa sarà assai modesta se paragonata a
quella dell'Unico Vero Dio. Dunque, Bellah percepì in maniera
indistinta e inconsapevole che il monoteismo differiva dal poli-
teismo, e che entrambi si differenziavano enormemente dalle re-
ligioni prive di divinità dei filosofi orientali e dei liberali occi-
dentali. Forse, con la sua opera, e in maniera non intenzionale,
Bellah dimostra proprio che le concezioni diverse del sopranna-
turale sono la base da cui dovrebbe partire tutta l'analisi compa-
rativa della religione o della magia.
E questo, ovviamente, l'argomento che ho sviluppato in tutti
i capitoli precedenti, così come in Unico vero Dio. Il fatto che il so-
prannaturale, e non il rituale, sia l'aspetto essenziale della reli-
gione può essere dimostrato in diversi modi, piuttosto specifici e
chiari. Partendo ad esempio dall'interrogativo sul motivo per cui
488 A GLORIA DI DIO

ci sono delle differenze in merito alla precisione necessaria alla


corretta celebrazione dei rituali.

Precisione rituale

Quando una magia fallisce, di solito si presume che l'errore


stia nell'esecuzione imprecisa e disattenta degli incantesimi e
nello svolgimento non perfetto dei rituali. La stessa supposizio-
ne vale per gran parte delle azioni rituali svolte in nome delle
piccole divinità del politeismo. D'altra parte, benché esista un
modo corretto per celebrare i rituali, nelle grandi religioni mo-
noteiste ci si preoccupa poco della precisione: nessun vero catto-
lico penserà mai che la transustanziazione non avvenga durante
una Messa se il sacerdote sbaglia qualche parola o il loro ordine.
Anzi, la gran parte degli appelli a Yahweh, Jehovah o Allah ri-
chiedono un rituale minimo, consistendo più spesso in suppliche
piuttosto improvvisate da parte dei fedeli.
Recentemente, è stato raccolto un numero consistente di testi-
monianze antropologiche e sperimentali per spiegare il fatto che
la diversa importanza attribuita alla precisione rituale riflette le
differenti possibilità attribuite agli agenti soprannaturali ai qua-
li i rituali sono diretti (Barrett 2000 e 2002; Barrett, Lawson 2001;
Lawson, McCauley 1990). Quando, come nel caso della magia,
l'agente soprannaturale è un'entità inconsapevole o ima creatu-
ra soprannaturale di capacità molto limitata (come un demone o
un folletto), si ritiene che i rituali vadano celebrati con estrema
precisione, perché l'agente soprannaturale non ha la capacità di
conoscere le intenzioni di coloro che li eseguono e non riesce a
sorvolare sugli errori compiuti nella celebrazione rituale. Come
ha scritto Justin Barrett, è nei rapporti con le «divinità stupide»
che è richiesta la precisione rituale (Barrett 2002). Questa stessa
logica si applica, benché in misura leggermente minore, alle reli-
gioni basate su divinità «deboli». Anche queste non possono
prendere atto della volontà dei fedeli, ma solo dell'esecuzione
del rituale. Infatti, vi è un sostanziale elemento di obbligatorietà
POST SCRIPTUM: DIVINITÀ, RITUALI E SCIENZE SOCIALI 489

nelle interazioni con le piccole divinità, così come con le creatu-


re che a volte vengono invocate dalla magia (si veda Ylntroduzio-
né). Anche in questo caso, i rituali devono essere perfetti, altri-
menti l'agente soprannaturale non se ne sentirà vincolato. Al
contrario, gli Dei onnipotenti del monoteismo sono concepiti co-
me esseri pienamente consapevoli delle intenzioni di chi si ri-
volge loro (per Barrett, questi sono «Dei intelligenti»). Di conse-
guenza, i rituali sono molto meno importanti, e la precisione nel-
l'esecuzione è irrilevante quando gli esseri umani hanno a che
fare con divinità concepite come onniscienti - se il sacerdote sba-
glia, Jehovah sa cosa intende, e l'efficacia di una preghiera non
dipende da una recitazione precisa di una formula sacra.
Un'argomentazione ancora più decisiva contro il presunto
primato del rituale è quella che si basa su un attento esame del-
le affermazioni funzionaliste più popolari in tema di religione.

Dei, rituali e moralità

La funzione della religione è quella di sostenere l'ordine morale. Que-


sta dichiarazione classica, tramandata dai fondatori delle scienze
sociali, è considerata da molti come la più vicina a una «legge» che
lo studio delle scienze sociali della religione possieda.
Nelle sue Burnett Lections, W. Robertson Smith spiegò che
«persino nella sua forma più rozza la religione era una forza mo-
rale, e le potenze che gli uomini veneravano erano dalla parte
dell'ordine sociale e della legge morale; e la paura degli Dei era
un motivo per far rispettare le leggi della società, che erano an-
che le leggi della morale» (Smith 1889, p. 53). Émile Durkheim,
naturalmente, sostenne che la religione esiste perché unisce gli es-
seri umani in comunità morali, e benché anche la legge e le con-
suetudini disciplinino la condotta, la religione sola «si afferma
sul comportamento e sulla coscienza. Non detta solo le azioni, ma
anche idee e sentimenti» (Durkheim [1886] 1994, p. 21). E, secon-
do Bronislaw Malinowski, «ogni religione implica la ricompensa
della virtù e la punizione del peccato» (Malinowski 1935, p. viii).
490 A GLORIA DI DIO

In una forma o in un'altra, questa dichiarazione appare in


quasi tutti i testi introduttivi alla sociologia e all'antropologia
pubblicati. Ma è sbagliata. Per di più, non deriva nemmeno dai
fondatori di questi studi, per lo meno non in forma unanime! In-
fatti, il fondatore dell'antropologia britannica, Edward Tylor, e il
fondatore della sociologia inglese, Herbert Spencer, ebbero en-
trambi cura di precisare che solo alcuni tipi di religione hanno
delle implicazioni morali.
Tylor scrisse:

Ad alcuni può sembrare sorprendente, eppure l'evidenza sembra


giustificarlo, che quella fra moralità e religione sia una correlazio-
ne che appartiene solo in maniera rudimentale, o niente affatto, al-
le civiltà primitive. Il confronto tra le religioni arcaiche e le religio-
ni storiche mette in evidenza [...]un contrasto profondo nella loro
influenza pratica sulla vita umana [...] l'idea diffusa che il gover-
no morale delTuniverso sia un principio essenziale della religione
naturale semplicemente crolla in pezzi. L'animismo selvaggio è
quasi privo di quell'elemento etico che per la mentalità moderna è
il principale movente della religione pratica. Non, come ho detto,
che l'etica sia assente dalla vita delle [culture] inferiori [...] ma que-
ste leggi morali si fondano su una base di credenze e opinioni po-
polari, relativamente indipendente dalle credenze e dai riti animi-
stici che esistono accanto a loro. L'animismo minore non è immo-
rale, è amorale. (Tylor [1871] 1958, p. 446)

Anche Spencer osservò che molte religioni ignoravano la mo-


rale, e si spinse ancora oltre, suggerendo che alcune religioni in-
coraggiassero attivamente il crimine e l'immoralità: «Al momen-
to, in India, abbiamo dei predoni come i Domra, fra i quali il sue-
cesso di un furto viene sempre celebrato da un sacrificio in ono-
re della loro divinità principale, Gandak» (Spencer 1896, voi 2,
pp. 808-809).
Anche se poco conosciuta, questa diversa prospettiva è so-
pravvissuta fra gli antropologi. Nel 1922, J. P. Mills osservò che
la religione dei Lhota non includeva nessun codice morale:
POST SCRIPTUM: DIVINITÀ, RITUALI E SCIENZE SOCIALI 491

«Qualunque cosa sia a far sì che un numero così grande di Lho-


ta conduca una vita virtuosa, di certo non è la loro religione»
(Mills 1922, p. 121). Nel suo importante studio sui M anu della
Nuova Guinea, Reo Fortune confrontò gli aspetti morali della lo-
ro religione con quelli tipici della tribù, concordando sul fatto
che «Tylor ha assolutamente ragione nell'affermare che nelle re-
gioni più primitive del mondo la religione e la moralità sono in-
dipendenti» (Fortune 1935, p. 357). Anche Ruth Benedict sosten-
ne che stabilire sempre come regola generale l'esistenza di un le-
game tra religione e morale «significa falsare» la «storia delle re-
ligioni», e affermò che tale legame probabilmente era tipico solo
delle «religioni etiche superiori» (Benedict 1938, p. 633). Ralph
Barton riferì che gli Ifugao solevano imputare le loro pratiche
senza scrupoli ai loro Dei e che coglievano ogni occasione per in-
gannarli (Barton 1946). Peter Lawrence scoprì che i Garia della
Nuova Guinea non avevano alcuna concezione del «peccato» e
«nessuna idea di ricompense nel mondo a venire per le opere
buone» (Lawrence 1964). E Mary Douglas affermò categorica-
mente che non c'era una «relazione intrinseca tra la religione e la
morale: esistono primitivi che possono essere religiosi senza es-
sere morali, e morali senza essere religiosi» (Douglas 1975, p. 77).
L'osservazione di Tylor per cui non tutte le religioni sono il
fondamento dell'ordine morale dovrebbe essere ovvia per chiun-
que abbia un po' di familiarità con la mitologia greca e romana.
Gli Dei greco-romani erano piuttosto carenti dal punto di vista
morale (capitolo 1). Si credeva che facessero cose terribili gli uni
agli altri, e che non risparmiassero gli esseri umani - a volte so-
lo per divertimento. E benché fossero abbastanza propensi a pu-
nire gli esseri umani che non facevano i sacrifici loro dovuti, gli
Dei non avevano alcun interesse per il comportamento degli uo-
mini. Gli Dei greci e romani si occupavano solo degli affronti che
subivano da parte degli esseri umani. Per esempio, non esisteva-
no sanzioni divine per le giovani donne che avevano rapporti
sessuali prim a del matrimonio a meno che non si immergessero
nelle acque sacre riservate alle vergini (MacMullen 1981, p. 58).
Dal momento che Aristotele insegnava che gli Dei non potevano
492 A GLORIA DI DIO

curarsi dei comuni esseri um ani (MacMullen 1981, p. 53), non


poteva ritenere che la religione avesse la funzione di fondare e
legittimare l'ordine morale. Infatti, i filosofi classici avrebbero ri-
dicolizzato ima simile idea come una peculiarità di ebrei e cri-
stiani - e avrebbero avuto ragione (MacMullen 1981; Meeks 2000;
Stark 2007). Come si vedrà, l'ipotesi di ima funzione morale del-
la religione presuppone la particolare concezione di esseri so-
prannaturali, profondamente preoccupati per il comportamento
tenuto dagli esseri umani gli uni nei confronti degli altri. Una si-
mile concezione degli Dei si trova in molte delle maggiori reli-
gioni mondiali, comprese l'ebraismo, il cristianesimo, l'islam e
l'induismo. Ma sembra essere quasi del tutto assente nelle im-
magini del soprannaturale prevalenti in gran parte dell'Asia, e in
generale nelle religioni animiste e popolari.
Ne consegue, quindi, che il comportamento morale degli in-
dividui sarebbe influenzato dalla fede religiosa solamente in quel-
le società in cui le organizzazioni religiose dominanti forniscono
una chiara e coerente espressione agli imperativi morali divini.
Così, per esempio, se fossero disponibili dei dati a tal proposito,
essi dovrebbero dimostrare che chi frequentava i templi in epo-
ca greco-romana non era più attento ai codici morali prevalenti di
chi era negligente nella pratica religiosa. Come ha sottolineato
Tylor, ciò non significa che le società dell'antichità non avessero
dei codici morali, ma solo che essi non avevano come fonda-
mento la religione. Di conseguenza l'efficacia morale delle reli-
gioni varia a seconda dell'interesse morale dei loro Dei.
Le essenze divine prive di consapevolezza non sono in grado
di dare dei comandamenti o dei giudizi morali. Dunque, le con-
cezioni del soprannaturale sono irrilevanti per l'ordine morale, a
meno che non si tratti di esseri - per di più dotati di consapevo-
lezza e desideri. In altre parole, solo degli esseri possono deside-
rare dagli esseri umani un comportamento morale. Ma nemmeno
questo è sufficiente. Gli Dei possono ratificare l'ordine morale so-
lo se sono interessati e informati sugli esseri umani, e solo se agi-
scono per il loro bene. Inoltre, per promuovere la virtù tra gli uo-
mini, gli Dei devono essere virtuosi, vale a dire devono preferire il
POST SCRIPTUM: DIVINITÀ, RITUALI E SCIENZE SOCIALI 493

bene al male. Infine, gli Dei sono tanto più efficaci nel promuove-
re i precetti morali quanto maggiore è la loro potenza - maggiore
è la varietà delle loro competenze e il raggio d'azione della loro
influenza. Degli Dei onnipotenti e onniscienti che governano l'in-
tero universo sono il deterrente ultimo contro il male.
Da questa analisi si traggono due conclusioni. In primo luo-
go, gli effetti della religiosità sulla morale individuale dipendono
da immagini di Dei come esseri dotati essi stessi di consapevolez-
za e moralmente interessati; la religiosità basata su divinità im-
personali o amorali non influenza le scelte morali. In secondo luo-
go, la partecipazione a riti e rituali religiosi ha poco o nessun ef-
fetto indipendente sulla moralità dei praticanti.
Di recente, per validare queste mie conclusioni, ho condotto
un elaborato studio di ricerca basato su dati riferiti agli Stati Uni-
ti e ad altre 33 nazioni (Stark 2001). I risultati si sono rivelati eoe-
renti con la mia teoria e l'hanno convalidata in modo decisivo.
In ciascuna delle 27 nazioni della cristianità, maggiore è l'im-
portanza attribuita dalla gente a Dio, minore è la probabilità che:
si approvi l'acquisto di beni che si sanno rubati; non si dica di
aver accidentalmente danneggiato un'auto in un parcheggio; si
fumi marijuana. Il rapporto fra religione e moralità è altrettanto
stretto sia nei paesi protestanti sia in quelli cattolici, ed è indi-
pendente dai livelli medi, più o meno alti, di frequentazione del-
le chiese. Anzi, la partecipazione ai servizi domenicali (ima mi-
sura dell'attività rituale) era correlata solo debolmente alle atti-
tudini morali. In altre parole, Dio è importante, il rituale no.
Risultati simili si ottengono anche analizzando le nazioni mu-
sulmane, dove l'importanza attribuita ad Allah è fortemente cor-
relata alla moralità, mentre la frequentazione della moschea non
ha alcun effetto su di essa. Anche in India gli Dei sono impor-
tanti, ma la frequentazione dei templi non ha alcun effetto rile-
vabile sulla moralità. In Giappone, invece, dove gli Dei sono nu-
merosi, di potenza limitata e non particolarmente interessati al
comportamento morale degli uomini, la religione è irrilevante
per la moralità - la venerazione, la frequentazione dei templi, la
preghiera e la meditazione non hanno alcun effetto morale. Né le
494 A GLORIA DI DIO

divinità e i templi hanno qualche influenza sulla moralità in Ci-


na, dove però la preghiera ha una sua importanza, benché non
nel senso che le diamo noi! In altre parole, più pregano, più i ci-
nesi si dimostrano tolleranti nei confronti dell'immoralità. Per-
sonalmente, ritengo che ciò sia dovuto al fatto che in Cina la
«preghiera» implica raramente un rapporto duraturo e profon-
damente sentito con un Dio, e significa solamente una richiesta
di favori a divinità poco potenti. Essendo tale, la preghiera ten-
de a rappresentare per i cinesi un'attività egocentrica e utilitari-
stica, e consiste nel passare rapidamente da un Dio all'altro sul-
la base dei risultati ottenuti, o addirittura nel bastonare la statua
del Dio che non li ha ascoltati (Chen 1995; Green 1998; Lang,
Ragvold 1993). Vista sotto questa luce, una domanda sulla pre-
ghiera ha la probabilità di selezionare coloro che in un certo sen-
so difettano di coscienza sociale.
Questi risultati dimostrano che, di per se stessi, riti e rituali
hanno poco o nessun impatto sul maggiore effetto universal-
mente attribuito alla religione - la conformità all'ordine morale.
Quindi, sembra necessario correggere nel modo seguente la «leg-
ge» che collega religione e moralità: le immagini di Dei come esseri
consapevoli, potenti e moralmente interessati hanno la funzione di so-
stenere l'ordine morale.

Conclusione

Durkheim commise evidentemente un grande errore quando


rifiutò gli Dei come un mero epifenomeno religioso. Purtroppo il
suo errore ha avuto delle gravi conseguenze, diffuse e durevoli,
poiché presto la sua divenne l'unica prospettiva sociologica, una-
nimemente accettata, secondo la quale la religione consiste sol-
tanto in riti e rituali, che hanno esclusivamente una funzione di
integrazione sociale e di «consacrazione» delle norme etiche del-
la comunità. A posteriori, sembra incredibile che un simile con-
cetto sia stato subito accettato e che così a lungo nessuno lo abbia
messo in dubbio. Spogliata del suo lessico funzionalista, l'argo­
POST SCRIPTUM: DIVINITÀ, RITUALI E SCIENZE SOCIALI 495

mentazione basilare sembra essere stata questa: dal momento che


«noi» sappiamo che gli Dei non esistono, non possono essere lo-
ro gli oggetti reali della religione - la verità lapalissiana per cui le
cose sono reali nella misura in cui la gente le ritiene tali non si è
mai fatta strada in quest'area delle scienze sociali.
Liberiamoci, dunque, ima volta per sempre dell'idea che la
religione abbia a che vedere solamente con il rituale. Gli Dei so-
no l'aspetto fondamentale delle religioni 1. E questo vale anche
per le religioni prive di divinità, poiché questa loro mancanza di
Dei spiega la loro incapacità di avere un grande seguito. Non è
stata certo «la sapienza orientale» a dare vita alla scienza, né la
meditazione zen ha mosso i cuori delle persone contro la schia-
vitù. Allo stesso modo, la scienza non è stata l'opera di secolari-
sti occidentali, e nemmeno di deisti; fu l'impresa di devoti ere-
denti in un Dio attivo, consapevole e Creatore. E fu la fede nella
bontà di questo stesso Dio e nella missione di Gesù Cristo a spin-
gere altri devoti cristiani a porre fine alla schiavitù, prim a nel-
l'Europa medievale e poi nel Nuovo Mondo.
In questo senso, almeno, la civiltà occidentale fu davvero un
dono di Dio.

1Ciò non significa, comunque, che gli effetti delle concezioni di Dio superi-
no sempre quelli della partecipazione religiosa, se non altro perché il voto o
la fertilità possono essere più un risultato dell'esposizione «sociale» a un de-
terminato gruppo che il prodotto di un'influenza puramente «religiosa».
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Indice dei nomi

Abelardo, Pietro, 110 Aston, Margaret


Abrissel, Roberto d', 71-73 Agostino, sant', 53, 55-57,109,197,
Adriano, papa, 94 231,303,427, 430
Adriano IV, papa, 73 Augusto, imperatore romano, 302
Agassiz, Louis, 230 Auping, John A., 450,452
Agobardo, sant', 304 Averroè, Ibn Rushd, 206
Ailly, Pierre d', 164 Azzolini, fra' Girolamo, 314-315
Alberto di Sassonia, 184-185
Alberto Magno, 86,190 Bacon, Francis, 213
Albright, William Foxwell, 427 Bainton, Roland Herbert, 118,135
Alcidamante, 429 Barberini, Matteo cardinale (Urba-
Adalberto, 65-67 no νίΠ), 216-217, 219,436-437
Alessandro IV, papa, 74,312 Barbour, Ian, 261
Alessandro VI, papa, 93 Barlow, Jerome, 119
Alessio, sant', 79 Barrett, Justin, 488-489
Allport, Gordon W., 30 Bartholin, Thomas, 359
Amboise, d' cardinale, 150 Barton, Ralph, 491
Anastasio I, papa, 50 Bateson, William, 241
Anseimo, sant', 432 Batilde, santa, 432
Aristotele, 102, 170, 175, 182, 189- Battista, don Gian, 315
191, 201-202,204, 207-208,218,427, Baumer, Franklin L., 220
429, 491 Bayly, Robert, 280
Arnaldo da Brescia, 72 Beard, Charles, 301,454
Asbury, Francis, 453 Beda il Venerabile, 57,164,304
Ashworth, John, 478 Beecher, Lyman, 449
Asimov, Isaac, 213 Bekker, Balthasar, 379
548 A GLORIA DI DIO

BeU, Eric T., 225 185,190, 207


Bellah, Robert, 487 Burkert, Walter, 33
Benedetto, san, 59-60 Burley, Walter, 182
Benedetto VITI, papa, 50 Burr, George Lincoln, 294
Benedetto IX, papa, 50, 61
Benedetto ΧΠ, papa, 95 Caietano, cardinale, 112
Benedict, Ruth, 16-17,491 Caligola, imperatore romano, 302
Bentley, Richard, 222, 224 Calvino, Giovanni, 87-88, 123-124,
Ben-Yehuda, Nachman, 282,285-287 126-130,172,189, 215,232, 365,430
Bernardo di Chiaravalle, santo, 72, Cantar, Norman F., 397,434-435
76 Caponetto, Salvatore, 137
Bernardo di Tiron, 71 Carlo II, re d'Inghilterra, 210
Besant, Annie, 246 Carlo V, sacro romano imperatore,
Biot, Jean-Baptiste, 224 123,132,151,192,327,329,399,437
Bird, Steven, 259 Carlo X, sacro romano imperatore,
Blackbum, Robin, 438 356-357
Bloch, Marc, 169,175, 396-397 Carlo XI, re di Spagna, 330,357
Boas, Franz, 388,390 Cartesio (Descartes, René), 186,
Bodin, Jean, 298,381, 403 205, 208
Bonaventura, san, 197, 207 Caterina d'Aragona, 123
Bonifacio, san, 66,303 Catone il Vecchio, 393
Bonifacio VIII, papa, 92,150, 320 Celso, 191
Boorstin, Daniel, 173-174 Chadwick, Owen, 105,131,151
Boyle, Robert, 210, 215, 296 Chamey, Geoffroi de, 313
Braudel, Femand, 158 Chazan, Robert, 65, 68
Brewster, David, 224 Cristiano ΠΙ, re di Danimarca, 153,
Briggs, Robin, 275, 286, 307, 331, 359
374, 377 Cristina, regina di Svezia, 379
Brix, H. James, 250, 252 Crisippo, 203
Brondsted, Johannes, 142 Cicerone, 190
Brun, Geoffrey, 131 Clarkson, Thomas, 459,461,465
Bruno, vescovo di Toul, 62 Clemente I, papa, 231
Bruno, Giordano, 171, 296 Clemente ΙΠ, papa, 74
Bryan, William Jennings, 252-254 Clemente VI, papa, 83
Buber, Martin, 261 Cohen, I. Bernard, 186
Buckle, Henry Thomas, 174 Cohn, Norman, 82, 84, 278, 283,
Buddha, 36 292, 298-299, 316
Budé, Guillaume, 208 Colbert, Jean-Baptiste, 407
Burckhardt, Jacob, 220, 294 Colish, Marcia L., 87,187
Buridano, Giovanni, 170, 182-183, Collins, Randall, 211
INDICE DEI NOM I 549

Colombo, Cristofero, 68, 104, 163- Donato, vescovo di Cartagine, 54-


166,173,180,191,193,216,228,404 55
Condorcet, Antoine de, 465,473 Douglas, Mary, 491
Conduitt, Catherine, 223 Drescher, Seymour, 462
Constable, Giles, 73 Dunn, Richard S., 333,416
Costantino, imperatore romano, Durant, Will, 107
49,51,53-54,58 Durkheim, Émile, 15, 20, 288, 484-
Copernico, Niccolò, 10, 169, 181- 485,489,494
182,185-187,192,202, 207, 212, 232 Dworkin, Andrea, 271
Coulton, Geoffrey G., 294
Cragg, Gerald R., 225 Edoardo VI, re d'Inghilterra, 122,
Craven, Avery O., 454 364
Crosby, Alfred W., 180 Einstein, Albert, 261-262
Crusius, martiri, 353 Eldredge, Niles, 235,243-244
Currie, Elliot, 291 Elisabetta I, regina d'Inghilterra,
Curtin, Philip, 405 122-123,362
Curtis, Edward, 388 Elkins, Stanley M., 414
Empedocle, 170
Dahmus, Joseph, 397 Engerman, Stanley L., 415, 438
Dalok, Elena, 280 England, John, vescovo, 451
Daly, Mary, 271 Enrico, monaco, 72
Dana, James Dwight, 230 Enrico II, re d'Inghilterra, 76
Darrow, Clarence, 253 Enrico ΠΙ, re germanico, 62
Darwin, Charles, 169,233-252,255- Enrico IV, re d'Inghilterra, 63, 89,
256 152
Davies, Norman, 271,396 Enrico VIII, re d'Inghilterra, 96,98,
Davis, David Brion, 408, 414-415, 118,122,132,153,329
424,448,456-457,475-478 Erasmo, Desiderio, 103
Dawkins, Richard, 166, 234-235, Erikson, Kai, 288
246 Estrange, Ewen C. 1', 362
De La Ramée, Pierre, 208 Euclide, 170,189
Del Col, Andrea, 136 Eugenio III, papa, 72-73
Democrito, 170 Eugenio IV, papa, 93,434
Dennett, Daniel C., 244 Euripide, 429
Desmond, Adrian, 251-252 Evennett, H. O., 156
Dickens, Arthur G., 118,122
Diderot, Denis, 167,473 Farei, Guillaume, 127
Diodoro, 393 Felice III, papa, 50
Dionigi il Piccolo, 182 Ferdinando, re di Spagna, 10, 69,
Donald, Leland, 390 123,136,151
550 A GLORIA DI DIO

Filemone, 429 Giovanni XII, papa, 61


Filippo, re di Francia, 150 Giovanni XIX, papa, 50
Filippo II, re di Francia, 78 Giovanni ΧΧΠ, papa, 313, 320
Filippo IV, re di Francia, 291, 313, Giovanni di Sacrobosco, 164
320 Girolamo, san, 100
Filone di Alessandria, 431 Giulio Π, papa, 94, 97,105
Finley, Moses I., 392,395,415 Giustiniano, imperatore romano,
Finney, Charles Grandison, 449, 43
452 Gladstone, William, 249,251
Fish, Simon, 119 Gianvili, Joseph, 296
Fisher, John, vescovo, 121 Goldschmidt, Richard, 242
Fletcher, Richard, 49 Gordon, Mary L., 394
Fogel, Robert William, 415,479 Gould, Stephen Jay, 235, 239, 243-
Forsyth, John, 451 245
Fortune, Reo, 491 Grant, Edward, 165,194,468
Foscarini, Paolo Antonio, 232 Gray, Asa, 245-246
Fox, Charles, 460 Gregorio Magno, papa, 51, 57, 59,
Francesco I, re di Francia, 132,150 304
Franklin, Benjamin, 448 Gregorio VII, papa, 63,152
Frederick, elettore tedesco, 112-113 Gregorio IX, papa, 74
Freud, Sigmund, 298,486 Gregorio XIV, papa, 417
Fried, Morton, 389 Gregorio XVI, papa, 451,457
Fromageau, Germain, 403 Gruber, Howard, 238
Guglielmo di Ockham, 182
Galeno, 191 Guglielmo il Conquistatore, 279,
Galileo (Galileo Galilei), 172, 186, 432
208, 216-219 Gustavo I, re di Svezia, 154, 356
Galton, Francis, 255-256 Gutenberg, Johannes, 101
Garrison, William Lloyd, 449-450,
474 Haeckel, Ernst, 248
Gay, Peter, 220-221, 408,472 Halley, Edmund, 216
Geertz, Clifford, 486 Hamilton, Patrick, 364
Genovese, Eugene, 438 Hammond, John, 452
Gerdil, Giacinto cardinale, 442 Hansen, Joseph, 296
Gibbon, Edward, 103,167,174, 391 Harris, Marvin, 411, 414
Giovanna, d'Arco, 279 Haskell, Thomas, 479
Giovanni VI, re di Portogallo, 470 Hayes, Carlton, 96
Giovanni X, papa, 60 Helfenstein, Sebastian von, conte,
Giovanni XI, papa, 50, 60 350
INDICE DEI NOM I 551

Helfenstein, Ulrich von, conte, 350- Jaki, Stanley, 204, 206


351, 371 James, Edwin O., 33
Helper, Hinton Rowan, 474 James, William, 13
Hirschi, Travis, 289 Johansen, Jens Christian V., 358
Hobbes, Thomas, 166,297,308,472 Johnson, Benton, 30
Hoffer, Eric, 234 Johnson, Paul, 41,101
Holbach, d', barone, 225 Johnson, Samuel, 473
Hooke, Robert, 208
Hooker, J. D., 250 Kamen, Henry, 172,375
Hopkins, Matthew, 362-363 Katz, Steven T., 285,318
Horsley, Samuel, 223 Keamey, Hugh F., 211
Hoyle, Fred, 244 Kelley, Dean, 31
Hughes, Pennethome, 271 Keplero, Giovanni, 186,193, 208
Huizinga, Johan, 102 Keynes, Geoffrey, 226-227
Hume, David, 48, 220-221, 225, Keynes, John Maynard, 227
472-473 Kieckhefer, Richard, 316,320-322
Hus, Jan, 25, 27, 87, 89-90,101, 111, Kingdon, Robert M., 128,130-131
113,189 Knox, John, 364-365
Husayn, 44-45
Hutchinson, Francis, 292 Lafayette, marchese di, 465
Hutton, Charles, 223 Lambert, Malcolm, 67, 80,101
Huxley, Julian Lang, Graeme, 200
Huxley, Thomas Henry, 233, 235, Lao-Tzu, 11
240,245-252 Laplace, Pierre, 220
Hyslop, Theo B., 272 Larner, Christina, 291
Las Casas, Bartolomé de, 441
Ibn Qudama, 44 La Tour, Imbert de, 95
Ildebrando (papa Gregorio VII), 63 Lazanby, George, 121
Ildegarda di Bingen, 164,305 Lea, Henry Charles, 272, 293, 339,
Innocenzo I, papa, 50 370, 377
Innocenzo II, papa, 73 Le Bon, Gustave, 298
Innocenzo III, papa, 74,78,100,312 Lecky, William E. H294 ‫״‬
Innocenzo Vili, papa, 93, 433 Lefèvre d'Étaples, Jacques, 117,126
Innocenzo XII, papa, 215 Leff, Gordon, 80-81
Ippolito, 39-41,43 Leone V, papa, 60
Ireneo, 40 Leone VI, papa, 60
Irvine, William, 249 Leone IX, papa, 62,65, 74
Isabella, regina di Spagna, 69,123, Leone X, papa, 94, 104, 106-107,
136,151 112,115,150
552 A GLORIA DI DIO

Lemer, Robert, 81 Maria, regina di Scozia, 330, 365


Le Roy Ladurie, Emmanuel, 134 Maria I, la sanguinaria, regina d'In-
Leuba, James, 256-257 ghilterra, 122,330,362,364
Levack, Brian R, 274, 332, 334,349, Mather, Cotton, 318
362,375,377 Massimilla, 43
Libanio, 394 Mayr, Ernst, 242
Libano, 51 Medici, Lorenzo de' (vedi Lorenzo
Lincoln, Abraham, 454 de' Medici)
Lindberg, David C., 203 Mellito, abate, 57,304
Linneo, Carolus, 236, 238 Meltzer, Milton, 398
Locke, John, 220,472 Mendel, Gregor, 241
Lorenzo de' Medici, 94,190 Mensurio, vescovo di Cartagine, 53
Luigi XIV, re di Francia, 134, 330, Mersenne, Marino fra', 211
374,407 Merton, Robert Κ., 209-213
Luigi Filippo, re di Francia, 466-467 Middleton, John, 15-16
Loyola, Ignazio, 108,126 Midelfort, H. C. Erik, 300, 318,324,
Lucas, J. R., 247, 251 331, 349-351,353,368
Lucio III, papa, 79, 312 Mills, J. P., 490
Lutero, Martin, 10,25,27,63,72,77, Mirabeau, conte di, 472
84, 87-89, 91-92, 94, 101, 103-104, Molay, Jacques de, 313
106-109,111-117,119,124,153,187, Mondino de' Luzzi, 191
189, 208, 215, 329, 332, 334,350 Montano, 42-43
Lyell, Charles, 250 Monter, E. William, 324, 331, 341,
376
Macfarlane, Alan, 287 Montesquieu, barone, 472
McFarlane Κ. B., 89 More, Henry, 296-297
McSheffrey, Shannon, 89 More, sir Thomas, 121
Magellano, Ferdinando, 165 Morgan, Thomas Hunt, 241
Malinowski, Bronislaw, 15,489 Mosè, 231,430,443,453
Malpighi, Marcello, 215 Mu'awiya, vescovo, 44
Maometto, 8,44-45,68,380,443
Map, Walter, 79 Noéttes, Lefebvre des, 178
Marcione, 26,41-42, 81 Noyes, John Humphrey, 449
Margherita, regina di Scozia, 123
Marozia, 60 Oldcastle, sir John, 89
Martello, Carlo, 176 Olson, Everett C., 254-255
Martin, Benjamin, 221 Omero, 32-33
Martino V, papa, 91 O'Neil, Mary R, 314, 343, 347
Marx, Karl, 247, 255, 392 Orazio, 190
INDICE DEI NOM I 553

Oresme, Nicola d', 183-185, 190, Roberto d')


194, 207 Rodney, Walter, 402
Orfeo, 33 Rodolfo II, Sacro Romano Impera-
Ormisda, 50 tore, 330
Ormsby, Eric, 44 Rohner, Evelyn, 389
Ozment, Steven, 139 Rohner, Ronald, 389
Rosen, George, 285, 298
Paley, William, 229-230,473 Rousseau, Jean-Jacques, 220
Paolo II, papa, 93 Roye, William, 119
Paolo III, papa, 433,435-436 Ruiz de Montoya, Antonio, 439
Paracelso, 216, 296 Rush, Benjamin, 448
Parmenide, 203 Russell, Bertrand, 195,199
Pasquale II, papa, 64 Russell, Jeffrey Burton, 5, 18, 65,
Pastor, Ludwig, 94 165, 281, 331
Pearson, Karl, 256
Pedro I del Brasile, 470 Sagan, Cari, 166
Pellett, Thomas, 223 Saint-Simon, Claude-Henri de, 221
Pemberton, John, 448 Salahi, M. A., 400
Pictet, Frangois Jules, 239 Salazar Frias, Alonso de, 344, 377
Pio II, papa, 93,434 Salm, Werner von, conte, 372
Pio VII, papa, 451 Sarton, George, 260-261
Pirenne, Henri, 175 Scaliger, Joseph, 213
Pitagora, 33 Schachner, Nathan, 188
Pitt, William, 459-460,465 Schwartz, Jeffrey, 245
Platone, 175,189-190,201-204, 207- Scopes, John Thomas, 252-253
208,428-429 Scot, Reginald, 376-377
Plinio il Giovane, 395 Segai, Ronald, 400
Plinio il Vecchio, 302,393 Seneca, 126
Poliakov, Léon, 65 Senofane, 32, 395
Polkinghome, John, 262 Sergio III, papa, 50, 60
Popper, Karl, 254 Servada, Catarina, 280
Price, Simon R. F., 486 Serveto, Michele, 172
Priscilla, 43 Sewall, Samuel, 381,445,449
Shapiro, Barbara ]., 212
Radcliffe-Brown, Alfred R., 485 Shaw, George Bernard, 246
Ray, John, 210 Shea, William, 218
Reinhard, Anna, 125 Sigismondo d'Ungheria, re, 90-91
Robbins, Rossell Hope, 293, 376 Silverio, papa, 50
Roberto d'Abrissel (vedi Abrissel, Singer, Charles, 192
554 A GLORIA DI DIO

Sisto IV, papa, 93-94,110,434 Tommaso, d'Aquino, san, 86, 102-


Smith, Adam, 48,311,396,472,474- 103,164,182,197,433
475 Townes, Charles, 262
Smith, Preserved, 102 Tracy, James, 25-26,134
Smith, W. Robertson, 489 Trenchard, John, 30
Socrate, 201 Trethowan, W. H., 292
Sofia, regina di Boemia, 90-91 Trevor-Roper, Hugh, 158, 272, 294-
Sonthonax, Léger Félicité, 464 295
Spartaco, 396 Tuchman, Barbara, 83
Spee, Friedrich von, 378-379 Turgot, Anne-Robert-Jacques Tur-
Spencer, Herbert, 17-18,484,490 got, 473
Sperber, Dan, 290,486 Tylor, Edward, 490-492
Spitz, Lewis W., 145-146 Tyndale, William, 119
Sprenger, Jacob, 318 Tyndall, John, 247
Stanley, Steven, 235,239
Stefano VII, papa, 60 Urbano II, papa, 64,69, 71
Stukeley, William, 224 Urbano Vili, papa, 216, 219, 436-
Swanson, Guy E., 145-149 437
Sykes, Arthur Ashley, 223 Ussher, James, vescovo, 252
Szathmary, Eórs, 245
Vaca, Francisco, 344, 375,379
Tacito, 302,394 Valdo (o Valdesio), 79,100
Tannenbaum, Frank, 413-414 Valla, Lorenzo, 103
Temperley, Howard, 463-464,475 Van Buren, Martin, 451
Tertulliano, 41,43,196 Vesalio, Andrea, 192-193,228
Thatcher, Margaret, 396 Virgilio, 190
Teodosio, imperatore romano, 51 Virgilio di Salisburgo, vescovo, 164
Teofilatto, 60 Vitale di Mortain, 71
Teuda, 66-67 Vittore ΠΙ, papa, 64
Thomas, Keith, 292, 305, 363, 374, Vogt, Joseph, 391
379 Voltaire, 103,167,220-221,225,472
Thomasius, Christian, 379 Vries, Hugo de, 241
Tiberio, imperatore romano, 302
Tillich, Paul, 19, 285,426 Wadstrom, sir Harry, 413
Tinh, Tran Tarn, 34 Wallace, Alfred Russel, 240, 246
Tocqueville, Alexis de, 466 Wallace, Anthony F. C., 260
Tolomeo, 185-186 Weber, Max, 17,28-29,158,209,234
INDICE DEI NOMI 555

Webster, Charles, 198 Wulfstan, san, 432


Weeks, Elizabeth, 281 Wuthnow, Robert, 152
Wesley, John, 458,463,468 Wyclif, John, 26, 87-88, 90, 96,100-
Weyer, Johan, 376 101, 111, 189
White, Lynn, 176,180
Whitehead, Alfred North, 195-196, Xavier, Francis, 126
199-200
Wickramasinghe, Chandra, 244 Yahuda, A. S., 226,260-261
Wilberforce, Samuel, 249,251,459 Yerkes, Royden Keith, 486
Wilberforce, William, 459,461
Williams, Eric, 475-476 Zenone, 203
Willis, Deborah, 284 Zufuga, Diego de, 213
Wolsey, cardinale, 123 Zwingli, Ulrich, 117, 124-125, 329,
Woolman, John, 445-446,451 350
Indice

5 Ringraziamenti
7 Introduzione. Le dimensioni del soprannaturale

A GLORIA DI DIO
25 1. La Verità di Dio: sette e riforme inevitabili
163 2. L'Opera di Dio: le origini religiose della scienza
269 3 .1 Nemici di Dio: una spiegazione della caccia
alle streghe in Europa
385 4. La Giustizia di Dio: il peccato della schiavitù

483 Post scriptum: divinità, rituali e scienze sociali

497 Bibliografia
547 Indice dei nomi

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