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SA N T ’A M B R O G IO
£ LA TR AD IZIO N E DI ROMA
Sono raccolti in questo volume alcuni tra i numerosi scritti che Marta
Sordi ha dedicato alla figura storica di Ambrogio, il grande padre della
Chiesa, che sul finire del IV secolo fu vescovo a Milano, la città che era
in Occidente la più importante tra le sedi imperiali.
Tali scritti rappresentano una piccola ma significativa parte della
produzione scientifica della professoressa Sordi, che da quasi sessantanni
(la sua prima pubblicazione è del 1950!) impegna instancabilmente intel
ligenza e dottrina nello studio della storia antica, etnisca, greca, romana
rep ubblicana, im periale e tardoantica, particolarm ente privilegiata
quest’ultima, anche per adesione ideale, lungo il versante dei rapporti tra
il potere e le istituzioni tradizionali di Rom a e la nuova realtà del
Cristianesimo.
Docente per decenni nell’Università Cattolica, in aule e biblioteche site
nei m onumentali edifici che sono parte dello stesso complesso architet
tonico della veneranda basilica che di Ambrogio conserva i resti mortali,
Marta Sordi ha mirato, nei suoi saggi ambrosiani, a m ettere soprattutto in
luce la forte tradizione romana, di cui il santo patrono di Milano fu
strenuo custode e nella quale seppe innestare col vigore che lo contrad
distinse lo spirito e la forza innovativa del messaggio cristiano.
Come i precedenti Scrìtti di storia greca, Scritti di storia romana (Milano
2002, Vita e Pensiero) e Impero romano e Cristianesimo (Roma 2007, Istituto
Patristico Augustinianum ), anche questo volume, che libenti animo
offriamo all'illustre Maestra, vuol essere un segno di gratitudine da parte
dei discepoli e dell’intera comunità scientifica nei confronti di chi,
studiando e insegnando, ha offerto - e continua ad offrire! - un raro
esempio di alto rigore intellettuale e morale e di generoso impegno
didattico.
Ed anche questa volta siamo grati a padre Mario Mendoza, che ha
voluto accogliere la nuova pubblicazione nella prestigiosa collana
deU’Istituto religioso romano, che nel suo titolo reca il nobile nom e del
più insigne discepolo di Ambrogio.
di Ambrogio la prefettura delle Gallie (vd. J.R. Palanque, Saint Ambroise et l’empire
romain, Paris 1933, p. 4), è intesa da A. Paredi (S. Ambrogio e la sua età, Milano 1960,
p. 3 e n. p. 18) con l’attribuzione al padre di Ambrogio di una delle più alte
funzioni di quella prefettura. Per il problema, che è connesso con la data di
nascita di Ambrogio (339-340, secondo il Palanque ed altri - vd. F.H. Dudden,
The Life and Times of S. Ambrose, Oxford 1935, p. 2 - 333-334, secondo il Paredi
ed altri), vd. il commento al passo in questione di M. Pellegrino, Paolino da Milano,
Vita di S. Ambrogio, Roma 1961, pp. 52 s. (con ulteriore bibliografìa).
4 Paul. Med. vita Ambr. 5,1 consularitatis suscepit insignia, ut regeret Liguriam
Aemiliamque provincias.
5 Per le parentele e le amicizie di Ambrogio vd. Palanque, Saint Ambroise...
op. cit., pp. 6 s.; F. Paschoud, Roma Aetema, Neuchàtel 1967, pp. 188 s.
6 Sulla cultura di Ambrogio fondata su Cicerone e Virgilio, vd. Palanque, Saint
Ambroise... op. cit, pp. 6, 135 e 185; sul ciceronianismo di Ambrogio in particolare,
vd. L. Alfonsi, «Vet. Chr.» 20, 1966, pp. 83 ss.; per la dipendenza di Ambrogio da
Virgilio vd. infra, n. p. 18. Per la cultura filosofica di Ambrogio e il suo plato
nismo vd. P. Courcelle, L ’humanisme chrétien de Saint Ambroise, «Orpheus» 9, 1962,
pp. 21 ss. e ora in Recherches sur Saint Ambroise {Vies anciennes, culture, iconographié),
Paris 1973, su cui vd. anche L.F. Pizzolato, «Aevum» 48, 1974, pp. 500 ss.
7 Sulla formazione culturale della nobiltà romana, cristiana e pagana, fon
damentalmente simile, vd. L. Gagé, Les classes sodales dans l’empire romain, Paris
1971, p. 393.
8 Caratteristici sono certi giudizi sulla storia romana: la condanna delle sedi
zioni dei populares (Lepido e Sertorio) nell’ultimo secolo della repubblica e, so
prattutto, di Cesare (inpsalm. 45 enar. 21,10); l’alta stima per il senato (hex. 5,21,66;
cfr. ib. 16,55); il duro giudizio su Gallieno (ep. 18,7).
9 Sulla parte avuta dal prefetto Probo e dall’imperatore Valentiniano I nell’ele
zione ‘popolare’ di Ambrogio, vd. ora C. Corbellini, Sesto Petronio Probo e l’elezione
episcopale di Ambrogio, « Rend. Ist. Lomb.» 19, 1975, pp. 181-189.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 9
blica e il regnum, è identica: ideo nulla desertio quia devotio naturalis, ideo tuta
custodia quia voluntas libera - aveva detto delle gru (ib. 50); licet positae sub
rege, sunt tamen liberae. Nam et praerogativam iudicii tenent et fidae devotionis
affectum - dice delle api (ib. 68). In effetti un regnum così concepito è
anch’esso, secondo la terminologia romana, res publica, perché fondato
sulla com unione di tutti nei diritti e nei doveri. Le idee di Ambrogio sullo
stato e sulla Ubertas non sono di per sé né esclusive né originali: le varianti
che Ambrogio introduce nella descrizione, derivata dal suo modello greco,
Basilio, della società delle gru e delle api, derivano tutte dalla sua
formazione culturale, tipica di un uomo della classe dirigente romana:
reminiscenze anche letterali di Virgilio e di Plinio sono particolarmente
sensibili nel passo relativo alle api e sono state giustamente rilevate18;
evidente è pure l’origine stoica, di quello stoicismo più o m eno consa
pevole che costituiva naturaliter il bagaglio ideologico di ogni uomo
politico rom ano, dell’insistenza am brosiana sulla uguaglianza e sul
carattere comunitario dello stato ideale.
L ’originalità vera di Ambrogio, e, insieme, la prova che le sue idee sullo
stato non sono sfoggi eruditi di occasione o vuota ripetizione di luoghi
comuni vanno cercate nello sviluppo coerente e personalissimo che, delle
sue affermazioni teoriche, Ambrogio dà con la sua condotta pratica e, in
particolare, con gli atteggiamenti da lui assunti di fronte al potere
imperiale, che si rivelano, ad un attento esame, l’attuazione consapevole
del rapporto libertas,/potestas, teorizzato nei suoi scritti.
Una prima occasione per ricordare all’imperatore i limiti della sua
potestas è offerta ad Ambrogio dalla già ricordata relatio di Simmaco del
384: l’epistola 17, indirizzata dal vescovo a Valentiniano II quando il testo
esatto della relatio non gli era ancora noto, inizia con una chiara delimi
tazione dei poteri imperiali: cum omnes homines, qui sub ditione Romana sunt
vobis militent imperatoribus terrarum, et principibus, tum ipsi vos omnipotenti Deo
et sacrae fidei militatis. E più avanti (ib. 13) egli non esita a minacciare
all’imperatore u n’aperta resistenza se egli cedesse alle pressioni pagane.
Il pensiero di Ambrogio si precisa ancor più nella questione delle
basiliche, del 385-386. Nella lettera a M arcellina19 Ambrogio riferisce la
risposta all’ordine imperiale di consegnare agli ariani la chiesa: la potestas
leCfr. in particolare Verg. georg. 4,149 s.; Plin. nat. 11,4,11 ss. Sulle remini
scenze classiche, da Seneca, ma soprattutto da Virgilio, dell’episodio delle api,
vd. L. Alfonsi in «Vet. Chr.» 2, 1965, pp. 129 ss.
19 Ep. 20,19 Nec mihi fas tradere; nec tibi accipere, Imperator, expedit, domum D
existimas auferendam? AUegatur imperatori licere omnia, ipsius esse universa. Respondeo:
Noli te gravare, imperator, ut putes te in ea, quae divina sunt, imperiale aliquod ius habere.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 13
Noli te extollere sed si vis diutius imperare, esto Deo subditus (cfr. ep. 12,10 dei 379 a
Graziano divino electe indicio; cfr. ep. 24,3).
20 Ep. 21,10 legem enim tuam nollem esse supra Dei legem. Dei lex nos docuit qu
sequamur; humanae leges hoc docere non possunt.
14 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
stessa lettera: niente è per un sacerdos più pericoloso davanti a Dio e più
vergognoso davanti agli uomini, quam quod sentiat non Ubere denuntiare. Et
tamen, si in causis reipublicae loquar, quamvis etiam illic iustitia servanda sit, non
tanto adstringar metu, si non audiar: in causa vero Dei quem audies si sacerdotem
non audies?... Quis tibi verum audebit dicere si sacerdos non audeat?
La Ubertas dicendi dei sacerdos diventa così per Ambrogio il banco di
prova di un potere legittimo e non tirannico e il presidio ultimo di tutte
le libertà: il dovere di non tacere per paura, anche in causis reipublicae,
quando la iustitia è chiamata in causa, ma soprattutto in causa D à, il dovere
di richiamare sempre alla maxima potestas i limiti che ad essa im pone la
legge divina e naturale diventa il leitmotiv di tutti gli interventi di
Ambrogio di fronte agli im peratori21. La Ubertas dicendi, la vecchia
icappT|(ria della democrazia greca, diventa il mezzo attraverso il quale
l’imperatore romano, da autocrate legibus solutus, al quale tutto è lecito per
potestatem, tom a ad essere, com e il rex delle api celebrato nell’Esamerone,
com e il biblico David esaltato da Ambrogio negli scritti esegetici22, il
princeps dell’ideale augusteo, in nom e del quale l’opposizione senatoria
più illuminata aveva lottato coraggiosamente nel I secolo contro le involu
zioni autocratiche di Nerone e dei Flavi.
Ancora una volta il vescovo Ambrogio pensa ed opera, con la forza
nuova che gli viene dal cristianesimo, nella migliore tradizione romana e
ridà vitalità a quella tradizione rinnovandola: alla luce di queste conside
razioni anche la penitenza pubblica accettata da Teodosio nel 390, lungi
dall’apparire un colpo inflitto alla dignità dello stato rom ano e del potere
imperiale, si manifesta com e un modo di questo rinnovamento nella
continuità.
Lo rivela la calda ammirazione con cui Ambrogio ricorda nel discorso
in m orte di Teodosio agli inizi del 395 il gesto compiuto dall’im peratore2S.
Nella capacità della mamma potestas di riconoscere i suoi limiti in im a legge
superiore e di concedere alla libertà del vescovo e del cittadino il diritto
di richiamarla all’osservanza di questi limiti Ambrogio aveva colto la
possibilità del regnum di restare res pubUca. Questo è il significato, altissimo,
della lode che Ambrogio rivolge a Teodosio dopo la sua morte: tale lode
presuppone infatti quella coesistenza fra l’accettazione lealistica (la fida
devotio) di un potere supremo e la conservazione da parte del suddito della
libertas che Ambrogio aveva teorizzato com e essenziale ad im a Ubera civitas
nell’Esamerone e che aveva vissuto nelle due prese di posizione di fronte
31 Fid. 2,16,139 quod, qui perfidiae alienae poenam excipimus, fidei catholicae in te
vigentis habituri sumus auxilium. Su questo passo e sulla sua datazione vd. ora
G. Gottlieb, Ambrosius von Mailand und Kaiser Gratian, Gòttingen 1973, pp. 12 ss.
(e p. 25): dopo Adrianopoli, ma quando la situazione era già migliorata.
32 Obit. Valent. 4 Nos adhuc murum Alpibus addere parabamus.
33II barbaro può in ogni momento divenire romano e divenire cristiano e
nessuna prevenzione esiste in questo caso nei suoi confronti. Da questo punto di
vista 0 barbaro è semplicemente un uomo come tutti gli altri e a lui è dovuta come
a tutti la carità del vescovo Ambrogio, come al tempo dell’occupazione delle
basiliche, quando i soldati goti, mandati da Valentiniano per costringere
Ambrogio alla consegna, si unirono ai fedeli: ep. 20,31. Per l’atteggiamento dei
cristiani di quest’epoca verso i barbari vd. EA. Thompson, E cristianesimo e i barbari
del Nord, in Momigliano, U conflitto..., pp. 67 s. (pp. 70 e 76 l’episodio di Fritìgild
regina dei Marcomanni e i suoi contatti con Ambrogio). Sul patriottismo romano
di Ambrogio, che condiziona l’atteggiamento verso i barbari, vd. Palanque, Saint
Ambroise... op. cit., pp. 330 ss.
34 In fid. 2,16,140 Ambrogio ricorda a Graziano le violenze dell’invasione gotica
nelle terre della Tracia, della Dacia ripense, della Mesia, della Valeria Panno
niorum e la minaccia portata alla stessa Italia; in ep. 24,8, del 387, egli ricorda a
proposito del suo discorso a Massimo barbarorum auxilia et turmas translimitanas che
l’usurpatore, barbarorum stipatus agminibus, minacciava imperio Romano... et Italiae.
Contro i barbari la natura stessa sembra aver fornito un muro (hex. 2,3,12: il Reno
Romani memorandus adversus feras gentes murus imperii); per il muro sulle Alpi,
obit. Valent. 4.
18 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
abitanti delle città. I ‘pagani’ delle classi dirigènti, della vecchia classe
senatoria, in particolare, preferivano usare nei riguardi del cristianesimo
un linguaggio conciliante, che tendeva a m ettere in evidenza i punti di
accordo più che quelli di divergenza: si insisteva sul summus deus della
religiosità solare, sulla Provvidenza della divinitas, sulla sua onniscienza e
onnipotenza. E il linguaggio dei Panegirici costantiniani com e del de rebus
bellicis; è, in fondo, anche il linguaggio di Simmaco, che in nome del
mistero che avvolge la divinità giustifica il pluralismo dei culti. A questa
concezione della divinità sincretistica e agnostica Ambrogio oppone
n ell’episodio già ricordato del 384, com e negli scontri più tardi in
occasione dei rinnovati tentativi al tempo di Valentiniano II, di Teodosio
e di Eugenio, u n ’intransigenza assoluta: sarebbe erroneo tuttavia attribuire
a questa intransigenza la proibizione legale del paganesimo in cui
sboccherà la legislazione antipagana di Teod osio38. Per intendere nel suo
autentico significato la posizione di Ambrogio nella lotta antipagana, è
opportuno esaminare brevemente le varie tappe della legislazione teodo-
siana contro il paganesimo.
Dopo la tolleranza di Gioviano e di Valentiniano I la politica repressiva
attuata già da Costanzo contro il paganesim o39 era stata ripresa con
decisione in O riente da Teodosio: è del 21 dicembre del 381 un editto
pubblicato a Costantinopoli nel quale si sottopone a giudizio velut vesanus
et sacrilegus chi abbia partecipato a sacrifìci diurni o notturni e sia entrato
per l’esecuzione huvuscemodi sceleris in un tempio e si ammonisce: castis
deum precibus excolendum, non diris carminibus profanandum40.
La definizione di chi compie atti di culto pagani com e vesanus richiama
l’editto di Tessalonica41 emesso dallo stesso Teodosio il 27 febbraio del
380: tale editto colpisce specialmente gli eretici, ma riguarda cunctos populos
quos clementiae nostrae regit temperamentum: a tutti i sudditi dell’impero,
quindi implicitamente anche ai pagani, l’editto impone di seguire la fede
quam Petrum apostolum tradidisse Romanis religio... declarat. Né l’editto di
cedesse, sarebbe scomunicato (ib. 14): munera tua non quaerit Ecclesia, quia tempia
gentilium muneribus adomasti.
50 Ep. 17,7; cfr. 18,10.
51 Ep. 57,2.
52 Ep. 20, 8 respondi si a me peteret quod meum esset, id est fundum meum, argentum
meum... me non refragaturum... Verum ea quae divina imperatoriae potestati non esse
subiecta. Sui presunti diritti degli ariani e di Aussenzio non può accettare neppure
un arbitrato di estranei, magari gentili o giudei, quibus traderemus de Christo
triumphum, si de Christo iudicium committeremus (Ep. 21,10).
53 Se i cristiani di Callinico, infatti, impauriti dall’editto, obbedissero ad esso
offrendo ut de suis facultatibus reparetur synagoga, o se il comes Orientis, in ottem
peranza all’editto, de Christianorum censu exaedificari iubeat, habebis Imperator, comitem
prevaricatorem... erit... locus Iudaeorum perfidiae factus de exuviis Ecclesiae. Così si
potrebbe scrivere su di esso: Templum impietatis factum de manubiis Christianorum
(ep. 40,9-10). Il Dudden, The Life... op. cit., p. 378, vedeva nella vicenda di Callinico
il trionfo del fanatismo, e di fanatismo accusa Ambrogio anche il Klein,
Symmachus, pp. 124-125. L’episodio in effetti è tale da lasciare sconcertata la
24 M a r t a s o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a
mentalità moderna: il Paschoud, pp. 192-193, osserva (in polemica con C. Morino,
Chiesa e stato veUa dottrina di S. Ambrato, Roma 1963) che non si può scusare
Ambrogio semplicemente dimostrando che l’intervento era nella logica della sua
dottrina. Per essere inteso storicamente, però, tale intervento non può essere
valutato al di fuori della linea di comportamento di Ambrogio, dei suoi giudizi,
della sua mentalità. E l’essenza di tale linea di comportamento non è, a mio avviso,
la richiesta dì una persecuzione contro gli avversari (siano essi ariani o pagani o
ebrei) ma la sottrazione ad essi di uno spazio politico e il rifiuto di ogni
concessione positiva.
54 Ep. 18,10 suis... sacrilegiis; Cod. Theod. 16,10,7 e 10,11 sacrilegus; ep. 18,8 ipsi
philosophi vestii... riserunt (del culto divino reso a pietre); Cod. Theod. 16,10,12,2
ridiculo exemplo; ep. 18,7: contro i sacrifìci cruenti gregis innoxii; Cod. Theod. 16,10,12,1
insontem victimam.
55 Ep. 17,4 Reposcantur haec a consorte superstitionis: Christianus imperator aram solius
Christi didicit honorare.
56Ep. 17,4; cfr. 18,12 ss. e specialmente 15.
57 Neppure nel momento della sua massima influenza (dal 391 in poi)
Ambrogio chiede mai a Teodosio la revoca degli editti del 390 sfavorevoli, dal
punto di vista economico, al clero cristiano (cfr. Palanque, Saint Ambroise... op. cit.,
pp. 250 ss.).
58 Symm. Rei. 3,13 Romanas religiones; ib. 8 Romanis caerimoniis.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 25
Sunto: L’A. mostra la dipendenza del motivo dell’anello simbolo della fede
di Ruperto di Deutz da Ambrogio e cerca i tramiti del passaggio di questo
motivo dalla parabola alla controversia dottrinale e dalla controversia alla
novellistica.
anulum, admitte fidelem sermonem, istum, quem quoniam de fide est, anulum
nuncupare placuit, et stola ista induere et calciamentis istis mecum calciare.
L ’immagine è ripresa dal Cristiano nella conclusione del dialogo
(3,668 ss.): Age nunc ut dixi, noli stare foris, nec invideas stolae et calciamentis
et anulo, fidei signaculo, quae mihi paenitenti filio pater dedit, sed veni intus et
esto socius gaudii, particeps convivii. Quod si non facis expetabo et sustinebo
indignationem tuam, donec egressus pater ipse te roget, et interim dicam ad gloriam
eiusdem patris: anulus meus mihi, anulus meus mihi.
L ’immagine dell’anello del prodigo simbolo della fede piace a Ruperto
e compare in altre sue opere, a cui nelle note al testo critico da lui curato
rinvia puntualmente Rh. H aacke4; è sfuggita invece a questo studioso,
che pure ha colto le numerose dipendenze di Ruperto dai Padri Latini
(da S. Gerolamo a S. Agostino, a Cassiano, Cassiodoro, Gregorio Magno)
e perfino da autori classici, com e Lucano e Plotino, la dipendenza di
questa immagine (fondam entale per Ruperto, che ritiene di dover
intitolare anulum, quoniam de fide est, il suo dialogo) da S. Ambrogio: è
Ambrogio, infatti, che in due passi, nel de Poenitentia 2,3,13 ss. e nella
expositio evangelii sec. Lucam 7,224 ss. legge la parabola del fìgliol prodigo
in chiave simbolica, identificando nell’anello (ib. 231) il segno della fede
e nel figlio minore e penitente i cristiani provenienti dal paganesimo.
Nel de Poenitentia (2,3,13) affermando contro i Novaziani la possibilità
della penitenza, Ambrogio commenta la parabola del Prodigo ed osserva
tra l’altro (ib. 18): tam cito veniam meretur, ut venienti et adhuc longe posito
occurrat pater et osculum tribuat... stolam proferri iubeat, quae vestis est nuptialis,
quam si qui non habuerit a convivio nuptiali excluditur: det anulum in manu
eius, quod est fidei pignus, et sancti spiritus signaculum; calceamenta deferri
praecipiat...
E in Lue. 7,231 lo stesso Ambrogio, dopo aver richiamato il valore
simbolico dell’anello signaculum della fede, spiega che bisogna duos fratres
istos... referre ad populos duos, ut sit adulescentior populus ex gentibus...5.
Ciò che colpisce nel confronto fra i due passi di Ambrogio e i due passi
di Ruperto è l ’identità dei concetti (la parabola del prodigo intesa come
anticipazione, sia del sacramento della penitenza, sia del rapporto col
padre dei cristiani provenienti dalle genti e degli ebrei; l’anello assunto
com e fidei signaculum) e l’identità delle espressioni verbali:
4 Rh. Haacke, in op. dt., pp. 204 e 242. L’immagine dell’anello come simbolo
della fede è frequente del resto nel Medioevo.
5 Sul signaculum in Ambrogio vd. sacr. 3,8; myst. 42; su questo problema,
vd. A. Caprioli, Battesimo e confermazione in S. Ambrogio. Studio storico sul Signaculum,
in Miscellanea Figini, Venegono 1964, pp. 49-57.
II. D a A m b r o g io a l B o c c a c c i o : l ’a n e l l o s im b o lo d e l l a f e d e 29
Ambros. in Lue. duos fratres istos... referre ad populos duos ut sit ADULE
SCENTIOR populus ex gentibus.
Rupert. 1, cit.: filios duos, et didi ADULESCENTIOR et illis... Ego et tu sumus
iUi duo filii.
Ambros. De paenit quae vestis est nuptialis, quam si quis non habuerit
A CONVIVIO nuptiali excluditur.
Rupert. 3 , cit.: esto... particeps CONVIVII...
7 Secondo il Favati (op. cit., p. 87) il Novellino dipende per la nov. 73 dallo
stesso testo « che fu alla base sia del Le dis dou mai aniel sia del Gesta Romanorum».
8 II testo, in francese del nord, è stato pubblicato da Ad. Tobler (Lipsia 1871);
ebbe una seconda edizione nel 1884 ed una terza nel 1912. Una versione tedesca
dello stesso testo è stata pubblicata da G. Gròber, in Festchrift Tobler, 1905, pp. 1-11.
Nel testo si parla fra l’altro dei signori dell’Artois e delle Fiandre.
9Arduini, op. cit., p. 17.
II. D a Am b r o g i o a l B o c c a c c io : l ’a n e l l o s im b o l o d e l l a f e d e 31
vecchio padre, e i suoi tre figli, malvagi i primi due, virtuoso il terzo: a
questo solo il padre dà l’anello vero, m entre agli altri dà quelli falsi.
L ’identificazione del figlio più fervane con il popolo cristiano (come in
Ambrogio e in Ruperto), del figlio maggiore con i Musulmani e del
secondo figlio con gli Ebrei, è esplìcita. Per l’equazione del figlio minore
col popolo cristiano e per l'affermazione che lui solo ha l’anello vero il
poema francese rivela una vicinanza certam ente maggiore del Novellino
e del Boccaccio all’Anulus di Ruperto e potrebbe dipendere direttamente
da esso. In ogni caso, al di là dell’identificazione del tramite immediato,
che è sempre difficile da stabilire per un racconto novellistico che ebbe
fin dall’inizio molta fortuna e molte versioni, mi sembra importante
cogliere il tramite ideale attraverso il quale il passaggio da Ruperto al
Boccaccio, avvenne.
La prima tappa di questo cammino, iniziato con l’interpretazione
simbolica che Ambrogio dà della parabola evangelica e dell’anello, è
costitu ita d all’in serim en to, op erato da R uperto, d ella parabola e
dell’anello simbolo della fede, in una controversia condotta perfidem et per
rationem fra le due grandi fedi m onoteistiche, la giudaica e la cristiana, in
una quistione, com e direbbe il Boccaccio. La seconda tappa è l ’allarga
m ento della disputa ad un terzo interlocutore: ciò avviene nello stesso
X II secolo, pochi decenni dopo Ruperto, per opera di Pietro Abelardo,
che introduce accanto all’ebreo e al cristiano un filosofo10.
La presenza alla disputa di un filosofo non è in se stessa una novità
e deriva probabilm ente a Pietro Abelardo da un testo tardo antico del
V secolo, nel quale il filosofo rappresentava il paganesim o11; ma nel
dialogo di Abelardo il filosofo proviene dalle terre musulmane e completa
il quadro delle tre fedi monoteistiche che appare ormai stabilizzato nelle
novelle del X III secolo e nel Boccaccio e che giunge fino al Lessing.
Nel suo volume su Ruperto M.L. Arduini osserva che l’insorgere
dell’idea di Crociata provoca il progressivo attenuarsi della controversia
razionale che nell’X I secolo e nella prima m età del X II secolo aveva avuto
una ricca fioritura12: in realtà è proprio il clima delle Crociate, con lo
scontro, ma anche con l’incontro da esse reso più frequente delle tre
grandi civiltà monoteistiche, che favorisce il passaggio della diatriba dottri-
10 Sul dialogo di Pietro Abelardo del 1140-1141 vd. Arduini, op. cit., pp. 101 ss.
11 L. Cracco Ruggini, Pagani, ebrei e cristiani: odio sociologico e odio teologico nel
mondo antico, in Atti XXVI Settimana di studio del Centro italiano di Studi sull’Alto
Medioevo: Gli Ebrei neU’Atto Medioevo, Spoleto 1980, pp. 3-117.
12Arduini, op. cit., p. 11.
32 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADITIONE D I ROMA
1 Su queste iscrizioni vd. ora D. Vera, I rapporti fra Magno Massimo, Teodosio e
Valentiniano II nel 383-384, «Athenaeum» 53, 1975, pp. 270 s. e n. 16.
2 D. Vera, art. cit., p. 271 n. 17.
m . M a g n o M a s s im o e l ’I t a l ia s e t t e n t r io n a l e 35
3 O. Seeck, Gesch. des Unterg. der Antiken Welt, Stoccarda 1920, pp. 196
pp. 513 ss.
36 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
4 Cfr. A. Piganiol, L ’empire Chrètien, Parigi 1947 (II ed. a cura di A. Chastagnol,
del 1972), pp. 245 e 269; J.R. Palanque, L ’empereur Maxime, in AA.W., Les empereurs
romains d’Espagne, Parigi 1965, p. 258; A. Lippold, Theodosius der Grosse, Stoccarda
1968, pp. 29 s. (e in «Historia» 17, 1968, p. 228).
5 Già il Godefroy ad Cod. Theod. loc. cit. avanzava questa lezione: cfr. D. Vera,
art. cit., p. 268, n. 3.
6 In RE, VII, A 2 (1948) coll. 2211.
7 D. Vera, art. cit., pp. 275 ss.
I I I. M a g n o M a s s im o e l ’I t a l ia s e t t e n t r io n a l e 37
8 II testo greco o'(a noo Kai f| jtpd>Tr| fjv éKoxpàxeia xe Kal óp|xf| èia tòv 'Pfjvov
(ed. Downey I, p. 318) significa letteralmente: «Tale fu ad es. anche la prima
spedizione militare e il movimento verso il Reno». Il Vera (art. cit., p. 291, n. 69)
spiega di aver tradotto «quell’inizio di spedizione militare» perché traducendo
«prima spedizione » bisognerebbe supporre l’esistenza, già neH’invemo del 385, di
una seconda spedizione contro Massimo. A preparativi di Teodosio contro
Massimo pensa anche, in base al passo di Temistìo, B. Saylor Rodgers, Merobaudes
and, Maximus in Gaul, «Historia» 30, 1981, p. 104, secondo la quale, peraltro,
Teodosio era stato all’inizio consenziente con Massimo e non del tutto innocente
neH’eliminazione di Graziano (art. cit., p. 103).
9 S. Dusanic, The End of thè Philippi, « Chiron » 6, 1976, pp. 427 ss.
38 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a
piena e senza tim ori10. Concordo con il V era nel ritenere che la
tranquillità di cui gode Valentiniano nel 384 dipende dalla decisione,
manifestata da Teodosio, di non tollerare sconfinamenti da parte di
Massimo nell’Italia settentrionale e nelle regioni controllate dallo stesso
Valentiniano: è quello che risulta anche da Socrate (H .E. 5,11-12) e da
Zosimo (4,37), quando parlano di preparativi di guerra da parte di
Teodosio e che emerge anche dal Cronografo del 452 (Chron. Min. I
p. 646), quando dice che Massimo si accordò con Valentiniano «per
timore dell’imperatore Teodosio».
Credo però che il riconoscim ento di Massimo da parte di Teodosio e
la manifestazione da parte di quest’ultimo della volontà di non tollerare
sconfinamenti siano stati contem poranei e che il riconoscim ento sia stato
fin dall'inizio, nel 383 o nel 384, subordinato al rispetto delle sfere di
influenza reciproche: non mi pare infatti che ci sia spazio nelle fonti per
affermare un mutamento formale di Teodosio nei riguardi di Massimo
fra il 383 e il 384. La debolezza rivelata da Valentiniano nel momento
immediatamente successivo alla morte del fratello si spiega con la lonta
nanza di Teodosio e con la sua impossibilità o non disponibilità a
intervenire: di qui il temporeggiare di Ambrogio e di Bautone e la ricerca
di scuse (l’inverno) per rinviare lo spostamento del fanciullo Valentiniano
al di là delle Alpi e il suo affidarsi alla tutela dell’usurpatore. Con la
primavera del nuovo anno e con il delinearsi della posizione di Teodosio
e della sua disponibilità a intervenire, anche la posizione della corte di
Milano si rafforzò. Può darsi che l’oscuro accenno di Temistio alla
progettata spedizione renana dell’im peratore di O riente si riferisca effet
tivamente a questo momento: esso non implica però da parte di Teodosio
un assenso dato precedentem ente senza contropartita all’usurpatore delle
Gallie; in quanto al secundum vexillum di Pacato, non credo che esso si
riferisca ad una spedizione progettata da Massimo nel 384 e non attuata,
ma a momenti diversi della spedizione realm ente attuata nel 387-388:
Pacato afferma infatti di ritenere provvidenziale il fatto che l’usurpatore,
qui sub nomine pacis ludere et primi sceleris luerari quiescendo potuisset (30,2) -
e qui il riferimento alla pace seguita dopo l’uccisione di Graziano, il
primum scelus, mi sembra esplicito - secundum tertiumque vexillum latrocinii
11 Anche E. Stein, Histoire du bas Empire, I, 1, 1959, pp. 204 s. colloca nel 387 il
superamento da parte di Massimo delle Alpi Cozie.
12 Sulla bibliografìa e sullo status quaestionis vd. J.R. Palanque, L ’empereur
Maxime, op. cit., pp. 259 ss.; D. Vera, art. cit., pp. 276 e 296 s. sembra propendere
per il 384; J.F. Matthews ( Western Aristocracies and Imperiai Court, a.D. 364-425,
Oxford 1975, p. 180 n. 6), data la missione di Ambrogio nel tardo 385 o nel primo
386. Alla stessa data colloca tale missione B. Saylor Rodgers, art. cit, p. 94, n. 34.
Sul processo e la condanna dei Priscillianisti (che era in atto al tempo della
missione di Ambrogio a Treviri, vd. ora J. Van Smith, comm. a Vita Martini, 16,1
e 20,3-4, nell’edizione Vite dei Santi a cura di Crist. Mohrmann, della Fondazione
Lorenzo Valla, Milano 1975 e J.M. Blàzques Martìnez, in Primera Reunion Gallega
des estudios clasicos, Santiago de Campostela 1981, pp. 230 s.).
40 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
Ambrogio ricorda da vicino il sub nomine pacis con cui Pacato (Paneg. 30,2)
introduce il racconto dell’ultima spedizione di Massimo. Esso si adatta
anche alla versione che Zosimo (4,42 ss.) fornisce delle ultime trattative tra
Massimo e Valentiniano. Massimo, egli dice, si preparava a passare le Alpi
e ad invadere l’Italia, perché voleva spogliare il giovane Valentiniano di
tutto l’impero, ma riteneva pericolosi i passaggi delle Alpi per la strettezza
e l’asprezza dei luoghi e per le paludi che si trovavano ai loro piedi; per
questo, approfittando di u n ’am basceria che V alentiniano gli aveva
mandato da Aquileia per chiedergli (42,3) n ep ì Pe(3aunépa<; eipfjvT|<;
àa<pàXei,av, ricorse all’inganno e passò segretamente le Alpi con il suo
esercito, seguendo lo stesso ambasciatore inviatogli da Valentiniano, il siro
Donnino e le truppe che gli aveva affidato, a titolo di alleanza, per
fronteggiare un attacco di barbari dalla Pannonia. L ’ambasceria di
Donnino proviene da Aquileia, dove Valentiniano si era già recato, abban
donando Milano; essa inoltre deve trattare «una pace più sicura» ed è
certam ente posteriore all’ambasceria di Ambrogio, che avvisava l ’impe
ratore dei preparativi di Massimo e lo esortava ad essere vigilante (esto
tutior). Non c ’è dubbio che l ’iniziativa militare fu tutta di Massimo: Pacato
(loc. cit.) dice che fu provvidenziale che Massimo, che sub nomine pacis era
rimasto impunito del primo delitto, la uccisione di Graziano, sollevasse
egli stesso secundum tertiumque vexillum latrocinii civilis così da imporre a
Teodosio, che per parte sua serbava ancora fedeltà al patto iniziale (tibi...
servanti adhuc veniae fidem ), la necessità di vincere (vincendi necessitatem).
Zosimo conferm a pienam ente Pacato per quel che riguarda l’iniziativa
di Massimo e la decisione di Teodosio di ricorrere alla guerra civile solo
quando fu costretto a fa r lo 13. E certo invece ch e l ’intervento di
quest’ultimo avvenne solo nel 388, dopo circa un anno dall’ingresso di
Massimo n ell’Italia settentrionale. Il passaggio di Massimo avvenne dalle
Alpi Cozie (Pacato, loc. cit. superatis Alpibus Cottis) e la sua marcia non
sembra aver trovato ostacoli fino ad Aquileia, da dove, spaventato T(p
ai<pvU5t<p Valentiniano fuggì con la madre e il resto della corte a Tessa-
lonica (Zosim. 4,43,1).
Dell’azione svolta da Massimo in Italia nel 387 (e in Africa: cfr. Pacat.
38,2) prima dell’intervento di Teodosio, sappiamo ben poco: qualche
contributo alla comprensione di questo oscuro periodo potrebbe forse
darlo lo studio dell’epigrafia di Magno Massimo, la cui titolatura è peraltro
13 Zosim. 4,4 4 ,1 tòicvei Jipòg tòv 7tóXe(XOV... £<pacncev 8eiv Jtpótepov SiaKip
KéioOai... Ka?à xò Tipóxepov axfj|xa. Certamente tendenzioso è invece Zosimo
nell’attribuzione della decisione di Teodosio di intervenire alle nozze con Galla.
44 M a r t a s o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
descrizione delle vittorie a Siscia sulla Sava (34,1) e sul fratello di Massimo,
M arcellino (35,2 ss .)19. Era l’estate del 388 (35,2), quando le truppe vitto
riose di Teodosio giunsero a Em ona (37,1 ss.), liberandola dall’occupa
zione e superando le Alpi, m entre Massimo in fuga (38,1 ss.) si rifugiava
in Aquileia (38,4). L ’inseguimento fu rapidissimo e senza ostacoli ( ib. 39,2,
con evidente esagerazione: spatio lucis unius Illyrico continuavit Aquileiam;
ib. 40,1; dalle Alpi Giulie non ci furono combattimenti ma solo trionfi),
e la vittoria ebbe sia da parte pagana che cristiana interpretazioni mi
racolose 20.
Catturato vivo, Massimo subì un breve processo davanti a Teodosio e
fu poi ucciso dai soldati, che lo sottrassero con violenza all’imperatore
incerto e disposto a graziarlo (Pacat. paneg. 44,2), mentre Valentiniano
recuperava il suo trono, fino alla prossima usurpazione.
Così, malinconicamente, si concludeva la sorte di un usurpatore in cui
molti autori antichi, sia cristiani che pagani, videro un uomo degno di
essere imperatore (Oros. hist. 7,34,9 vir quidem strenuus et probus atque
Augusto dignus nisi contra sacramenti fidem per tyrannidem emersisset), che la
tradizione celtica, ricordandone le vittorie sui Britanni, o trasfigurò in una
specie di eroe locale, predecessore e prototipo del leggendario A rtù21 e
di cui, infine, i barbari - e questa è la lode più alta che la tradizione
parzialmente ostile tributa a Massimo - avevano paventato perfino il nome
(Oros. hist. 35,4) : hostem illum Magnum Maximum, trucem et ab immanissimis
quoque Germanorum gentibus tributa ac stipendia solo terrore nominis exigentem.
In un famoso passo del V libro del de civitate Dei, scritto come è noto
nel 415 *, Agostino, dopo aver polemizzato con i pagani che, praeteritarum
rerum ignari, quidam etiam dissimulatores scientiae suae (5,22), accusavano i
tempi cristiani di tutte le sventure, ricorda ( ib. 23) che all’epoca in cui
Radagaiso con più di 100.000 uomini minacciava Roma e stava per essere
mirabiliter sconfitto, a lui, che si trovava allora a Cartagine, fu riferito (nobis
apud Carthaginem dicebatur), che i pagani credevano e diffondevano
vantandosi (credere, spargere, iactare) che il barbaro, protetto e difeso
dall’amicizia degli dei, ai quali offriva sacrifici ogni giorno, non poteva
essere vinto dai Romani a cui la religione cristiana impediva di fare i
sacrifici. La stessa notizia compare anche nel serm. 105,10, in cui Agostino
associa, com e in dv. 5,23, il ricordo del pagano Radagaiso e quello del
cristiano Alarico e della diversa conclusione delle due spedizioni del 406
e del 410.
Orosio che scrive intorno al 417, anche se la raccolta del materiale
da lui elaborato è probabilm ente anteriore alla stessa pubblicazione del
de civitate Dei*, associa, al pari di Agostino, il ricordo dei due avvenimenti,
accenna ai discorsi dei pagani su Radagaiso e sulla sua invincibilità a causa
dei sacrifici, che i Romani non facevano più, ed aggiunge che, m entre il
barbaro si avvicinava a Roma, fit omnium paganorum in urbe concursus...
magnis querellis ubique agitur, et continuo de repetendis sacris celebrandisque
tractatur, feruent tota Urbe blasphemiae (7,37,6-7). Dopo aver parlato della
vittoria di Stilicone e dei Rom ani sui .m onti fiesolani afferma infine che,
se Dio non fosse provvidenzialmente intervenuto (ib. 13), non solum paganis
dall’Etruria vennero nel 408 coloro che pretendevano di salvare, con riti
pagani, la stessa Roma.
Gli uomini venuti dall’Etruria del racconto di Zosimo sono chiara
mente haruspices fulguratores, una branca dell ’ etnisca disciplina attestata
dalle epigrafi (TLE 697) e fondata sulla conoscenza dei libri fulgurales e
sulla interpretazione e l’espiazione (procuratio) dei prodigi manifestati
attraverso i fulmini, uno degli aspetti più caratteristici dell’aruspicina:
Etruria da caelo tacta dice Cicerone (div. 1,41,92), che ricorda per bocca del
fratello Quinto la convinzione diffusa che l’Etruria non può in fulgoribus
errare (ib. 18,35). La consultazione pubblica degli haruspices fulguratores in
caso di edifici colpiti dal fulmine è ancora attestata in ima costituzione di
Costantino dell’8 marzo 321 (Cod. Theod. 16,10,1 si quid de palatio nostro aut
ceteribus operibus degustatum fulgore esse constiterit, retento more veteris obser
vantiae quid portendat, ab haruspicibus requiratur)-, l ’azione degli aruspici
doveva essere però pubblica, com e risulta da due altre costituzioni del 319
(Cod. Theod. 9,16,1-2), m entre quella privata e segreta era da Costantino
punita con la m orte5.
Questo è, probabilmente, il vero senso della richiesta degli aruspici nel
408, che la fonte pagana di Zosimo ha interpretato come una rivendica
zione dell’efììcarìa esclusiva del culto pubblico e della sua restaurazione.
U n ’indubbia estensione delle ‘com petenze’ degli aruspici è la loro pretesa
di poter salvare, e di avere già salvato, una città, attirando sui nemici la
folgore distruttrice: un miracolo di questo tipo era stato in effetti celebrato
dall’apologetica cristiana e attribuito alla preghiera dei soldati cristiani
della legione XIIFulminata nella guerra contro i Quadi al tempo di Marco
Aurelio: in seguito a tale fatto, la Fulminata (portatrice del fulmine)
sarebbe stata chiamata Fulminans (lanciatrice del F u lm in e)6. La pretesa
degli aruspici rivela così il suo carattere ‘concorrenziale’ nei riguardi del
cristianesimo.
Lo scontro fra il cristianesimo e gli aruspici era in effetti cominciato nel
III secolo, al tempo di Alessandro Severo, quando erano stati gli aruspici,
secondo la Historia Augusta (Lampr. Alex. 43,7) ad impedire all’imperatore
il riconoscimento della nuova religione, e nelle grandi persecuzioni di
5 Cod. Theod. 9,16,1 superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum
proprium exercere, ib. 9,16,2 qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras publicas
adque delubra et consuetudinis vestrae celebrate sollemnia: nec enim prohibemus praeteritae
usurpationis officia libera luce tractari. Su queste disposizioni vd. ora L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano, Napoli 1977, pp. 23 ss.
6 Sul miracolo della Fulminata, vd. M. Sordi, Le monete di Marco Aurelio con
Mercurio e la pioggia miracolosa, «Ann. Ist. It. Num.» 5-6, 1958-1959, pp. 41-55.
IV . AUGUSTINUS, D E CIV. D EI V ,23 E I TENTATIVI DI RESTAURAZIONE PAGANA 51
1. Nel De obitu Theodosii del 395 (39 ss.) Ambrogio traccia per la prim
volta la storia dell’im pero cristiano, fornendone una lettura teologica:
dopo aver detto che il defunto Teodosio, m entre Massimo e Eugenio sono
all’inferno, è accolto nella luce del cielo, ricorda che egli si ricongiunge
là con Graziano, suo predecessore n ell’impero, con i figli che la m orte gli
aveva strappato, Graziano e Pulcheria, con la moglie Flaccilla e con
Costantino, che, pur avendo ricevuto alla fine della vita il battesimo, quod
primus imperatorum credidit et post se hereditatem fid ei principibus dereliquit,
magni meriti locum repperit (ib. 40) inde reliqui principes Christiani, praeter unum
IuUanum, qui salutis suae reliquit auctorem, dum philosophiae se dedit errori. Inde
Gratianus et Theodosius (ib. 51).
Ambrogio è il primo a fare un bilancio della svolta religiosa com e svolta
determinante nella storia d ell’im pero: dopo di lui le catastrofi militari e
politiche degli inizi del V secolo porteranno pagani e cristiani a interro
garsi sul significato di questa svolta, ch e sarà al centro delle polem iche,
che troveranno una risposta nella storia di Orosio e del de civitate Dei
di S. Agostino \ Al tempo di Ambrogio, dopo la sconfìtta di Adrianopoli
del 378, l ’accusa ai Cristiani di avere rotto la pax deorum e di avere tolto
all’impero la protezione divina, serpeggiava già (com e rivela l’intervento
di Simmaco suH’altare della V ittoria), m a essa poteva essere confutata, con
serena obiettività, anche da un pagano intelligente e non fazioso com e lo
storico Ammiano M arcellino (31,5,11 s.); nel 395, inoltre, il ricordo di
Adrianopoli era lontano e il regno del grande Teodosio, vincitore di
Massimo e di Eugenio e restauratore della sicurezza dei confini dall’in-
com bente m inaccia barbarica, permetteva di tracciare dell’impero cri-
* I Cristiani e l’impero nel TV secolo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antic
Atti del convegno (Macerata, 17-18 dicembre 1987), a cura di G. Bonamente e
A. Nestori, Macerata 1988, pp. 143-154.
1 Su questa polemica vd. Aug. civ. 5,22 ss.; Oros. hist. 7,37,13 e passi
cfr. M. Sordi, Augustinus, De civ. Dei V, 23 e i tentativi di restaurazione pagana durante
l’invasione gotica del V secolo, « Augustinianum » 25, 1985, pp. 205-210.
54 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e la t r a d iz io n e d i R oma
4 L’imperatore è servo di Dio: cfr. Ambr. obit. Valent. 52 (servo tuo Valentinian
obit. Theod. 36 (servo tuo Theodosio). Il motivo è ripreso e spiegato da Agostino
(ep. 185,5,19; cfr. L. De Giovanni, Il libro XVI del codice teodosiano, Napoli 1985,
pp. 79-80).
V . LA CONCEZIONE POLITICA DI AMBROGIO 57
5 Su questo tema vd. M. Sordi, Passato e presente nella politica di Roma, in AA.W.,
Aspetti e momenti del rapporto passato presente, Milano 1977, pp. 141 ss.
6 Per la data vd. J.R. Palanque, Saint Ambrmse et l'empire"romain, Paris 1933,
p. 519; L. Cracco Ruggini, Il vescovo Ambrogio e l’H .A., in Atti Coll. Patavino sulla
H.A., Roma 1963, p. 76.
58 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a
famosi delle costituzioni delle gru (5,15,50 ss.) e delle api (ib. 21,66 ss.), in
cui l’originalità di Ambrogio rispetto a Basilio, suo modello, si manifesta
anche nella anticipazione (destinata a cogliere il rapporto cronologico
esistente nella storia rom ana tra repubblica e im pero) dell’episodio delle
gru su quello delle ap i7. Il principio che governa la costituzione a natura
accepta delle gru è l’assunzione com une del labore della dignitas, il rigoroso
avvicendamento degli oneri e degli onori: potestas e servitium sono ugual
mente in funzione del bene com une e fondano, con la solidarietà fra
governanti e governati, una devotio tanto più fida quanto più libera, e tale
da escludere ogni desertio. Hic erat pulcherrimus status rerum; nec insolescebat
quisquam perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Non c ’è dubbio
(e Ambrogio è esplicito: antiquae hoc rei publicae munus) che il modello qui
proposto è quello deU’antica repubblica romana, fondata sulla tempora
neità e l’avvicendamento delle cariche e sulla condanna di ogni potere
tenuto, a causa della dominandi libido, oltre i termini leciti, e non c ’è
dubbio che Ambrogio trasfigura qui, con toni quasi sallustiani, l’antica
repubblica, attribuendo ad essa, nel rimpianto, i caratteri dello stato
perfetto, secondo natura8.
Ma Ambrogio non si ferm a al rimpianto: egli vive sotto l’impero ed
accetta l’impero, con la sua perpetua potestas, com e una realtà storica su cui
esercitare il suo impegno per un mutamento in melius. La Ubertas che
l ’antiqua res publica aveva realizzato può essere salva anche con l’impero,
se questo accetta i limiti necessari della potestas e quella integrazione di
potestas e di servitium in funzione del bene com une che costituisce il segno
distintivo della politia a natura accepta, dello stato ideale.
Nella società delle api, sub rege liberae (ib. 21,67), leggi, fatica, cibo,
lavoro sono in comune: il principio a cui tutti sono obbligati è non alteri
ius esse, quod alius sibi intellegat non licere; sed quod liceat, licere omnibus; et quod
non liceat omnibus non licere.
In questa società rispettosa dell’uguaglianza, il potere supremo è
affidato a un rex, scelto non in base alla sorte, né alla successione dinastica,
né all’elezione della moltitudine, ma a chiari segni di natura, la grandezza
e la bellezza del corpo e, soprattutto, la mansuetudo morum, segno dell’ele
zione naturale e divina. Affiorano in questo testo di Ambrogio, con le
7 Basii. Caes. Eli; -tf|V èi;af||iepov, 8,3 ss.; cfr. J. Béranger, Étude sur Saint Ambroise,
in Etudes de Lettres, Lausanne, Fac. de Lettres, V ,'1962, pp. 47 ss. e in Principatus,
Genève, 1973, pp. 303 ss.
8 Cfr. M. Sordi, L ’atteggiamento di Ambrogio di fronte a Roma e al paganesimo, in
Ambrosius Episcopus, I, 1974, pp. 207 ss.
V . LA CONCEZIONE POLITICA DI AMBROGIO 59
9Verg. georg. 4,149 s.; Plin. nat. 11,4,11 s. Sulle reminiscenze classiche nell’epi
sodio delle api deWEsamerone ambrosiano vd. L. Alfonsi, L ’ecphrasis ambrogiana nel
libro delle api vergiUano, «Vet. Chr.» 2, 1965, pp. 129-138.
10 Nella lettera a Studio (25 Maur. = 50 Faller, 3) egli osserva: scio tamen plerosque
gentilium gloriari solitos, quod incruentam de administratione provinciali securim reve
xerint. Si hoc gentiles, quid Christiani facere debent? Su questo problema vd. M. Sordi,
La lettera di Ambrogio a Studio, in Polyanthema. Studi di Lett. cristiana antica offerti a
S. Costanza, VII, Messina 1988.
60 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a
12Ep. 20 Maur. = 76 Faller, 19. Si tratta, di una lettera alla sorella Marcellina,
in cui Ambrogio riferisce un suo discorso all’imperatore.
13Ep. 21 Maur. = 75 Faller, 9.
14 Cfr. anche Plinio, paneg. 65,1.
15Ep. 21 Maur. = 75 Faller, 10.
16Ep. 40 Maur. = 73 Faller, 2.
62 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
* Agostino a Milano. Il battesimo. Agostino nelle terre di Ambrogio (22-24 aprile 198
Palermo 1988, pp. 13-22.
1Treb. Claud. 5,3.
2Vopisc. Aurei. 18,3.
3 Paneg. Ili (11).
i Ib. 11-12.
5 Paneg. IX (12) ,7,5.
66 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a
periodo di Giuliano, che a Milano era stato prima del suo Cesarato, a
Milano aveva ricevuto da Costanzo l’investitura a Cesare e che nella zona
di Milano aveva fatto svolgere un’attiva propaganda nel 360-361 da Iovino,
al tempo della sua marcia contro Costanzo14. Certo è che solo con
Valentiniano e con la sua dinastia Milano diventa capitale effettiva: della
Milano della tetrarchia, com e si è già visto, Mamertino aveva detto che
Rom a le aveva concesso, solo per qualche giorno, similitudinem maiestatis
suaels; della Milano dei Valentiniani e di Teodosio Ausonio, che dedica
alla città dieci versi del suo Ordo urbium nobilium16, dice che «tutto in essa
eccelle per grandezza di form e quasi gareggiando» ( velut aemula) e che
non la opprime la vicinanza di Rom a ( nec iuncta premit vicinia Romae).
Nella breve presentazione di Ausonio, Milano è una città ricca, abitata da
una popolazione viva, umanamente e culturalmente {facunda virorum
ingenia et mores laeti), con case belle e numerose, bei porticati ornati di
statue, un circo, un teatro, term e, templi; cinta di mura e dotata di una
zecca. Gli scavi dell'ultimo trentennio hanno rivelato dell’epoca di Milano
capitale, le Term e Erculee, costruite da Massimiano fuori delle mura
orientali della città e di cui è stata ritrovata nella zona di corso Europa la
palestra oltre al frigidarium, un grande granaio costruito per le esigenze
civili e militari della città, del tipo di quelli ritrovati ad Aquileia e a Treviri,
e conservato in un sotterraneo in via dei Bossi, una parte del muro
orientale del circo; delle mura, oltre alla torre poligonale detta di Massi
miano, nel cortile del Museo archeologico, resta una mezza torre, più
antica, della Porta Ticinensis in un edificio privato del C arrobbio17; uno
studio recente sull’asse di Via Torino (cardine m inore dell’impianto
urbano connesso col Foro) ha illuminato tutta la zona che nell’età di
Milano capitale assunse grande importanza soprattutto per la corrispon
denza con Ticinum (Pavia) e ha conferm ato la localizzazione delle
Palatinae arces di A usonio18, nel settore occidentale della città.
La piena affermazione nel corso del IV secolo del cristianesimo contri
buisce in questo periodo allo sviluppo della città, con il concentrarsi degli
edifici del cosiddetto gruppo episcopale (chiese, battisteri, residenza del
32 P. Courcelle, Recherches sur les Confessioris de St. Augustin, Paris 1950, pp. 80 ss.;
cfr. anche D. Vera, Lo scandalo edilizio di Cyriades e Auxentius e i titolari della
praefectura urbis dal 383 al 387, « Stud. Doc. Hist. Iur.» 44, 1978, p. 64.
33 M. Sordi, Magno Massimo e l’Italia Settentrionale, «Ant. Altoadr.» 22 (= Aquileia
nel IV sec., I, Udine 1982), pp. 58 ss.
V I. MILANO AL TEMPO DI AGOSTINO 71
pure aveva con la corte rapporti abbastanza stretti e che per colpa di
Massimo non potè poi partire nell’estate del 387 per l’Africa e fu costretto
a rinviare la sua partenza a dopo la m orte dell’usurpatoreM, non parla
nelle Confessioni: la storia di Agostino resta la storia di u n ’anima, a cui non
solo gli avvenimenti politici restano estranei, ma perfino i grandi fatti che
toccarono durante il suo soggiorno a Milano la vita della Chiesa milanese
fanno, almeno apparentemente, solo da sfondo: tale fu il memorabile
scontro di Ambrogio con la corte per le basiliche, che Monica madre di
Agostino visse in tutta la sua intensità, ma al quale Agostino stesso dedica,
nelle Confessioni (9,7) solo poche righe: « Il popolo devoto vegliava in
Chiesa pronto a m orire con il proprio vescovo, Tuo servo. Là passava le
sue ore in preghiera mia madre, tra le più zelanti nel vegliare».
B en diversa risonanza ha ovviamente l ’episodio nel ricordo di
Ambrogio, che ce ne inform a sia nel sermo contra Auxentium, sia in due
lettere del suo epistolario, l'ep. 75 Faller (= 21 Maur.) all’imperatore
Valentiniano del marzo del 386 e V ep. 76 Faller (= 20 Maur.) alla sorella
M arcellina dell’aprile del medesimo anno. Dalla fine del 384 era ospite
della corte Mercurino Aussenzio, vescovo ariano di Durosturum che, dopo
essere stato deposto da Teodosio, cercava di riorganizzare a Milano la sua
Chiesa. Ad una prima richiesta della corte di cedere im a basilica agli
ariani, fatta all'inizio del 385, Ambrogio aveva opposto un rifiuto; dopo
una pausa, dovuta anche al m om entaneo allontanamento della corte da
Milano ad Aquileia, una costituzione imperiale del 23 gennaio 38635
ripropose in m aniera perentoria la richiesta, proclamando la libertà di
culto per gli ariani e minacciando la pena di morte a chi tentasse di
impedirla anche con suppliche. La basilica nella quale gli ariani avrebbero
dovuto esercitare la loro «libertà di culto» era la Basilica Porziana,
identificata da alcuni con San Vittore al Corpo, da altri con S. Lorenzo.
Ambrogio occupò la basilica col popolo, intrattenendolo con i suoi inni
e le sue omelie e sostenendo con esso l’assedio da parte dei soldati.
Nella lettera a Valentiniano II, Ambrogio rifiuta di discutere la contro
versia nel consistorium e cita una disposizione di Valentiniano I, secondo
cui, in questioni riguardanti la religione, i sacerdoti dovevano essere
giudicati solo da sacerdoti {ib. 5); Aussenzio e i giudici da lui scelti
vengano pure in chiesa, ascoltino insieme col popolo, e se il popolo, dopo
averli ascoltati, riterrà Aussenzio e i suoi superiori ad Ambrogio, segua
pure la sua fede {ib. 6). In realtà il popolo ha già scelto {ib. 7) ed
Ambrogio non può andare nel Concistoro, perché sia i Vescovi (proba
bilm ente quelli delle città vicine, di cui A m brogio aveva chiesto
l’appoggio), sia il popolo non glielo permettono: essi sostengono che le
discussioni riguardanti la religione devono farsi nell’assemblea, davanti al
popolo (ib. 17). «D ’altra parte - egli conclude (ib. 20) - io non posso
mettermi a questionare a palazzo, perché io gli intrighi di palazzo, né li
cerco, né li conosco».
La lettera a Marcellina è dell’aprile e, essendo scritta alla sorella, ci
conserva della vicenda e della sua conclusione una versione certam ente
m eno ufficiale, ma più immediata e colorita: il problem a non riguardava
ormai più solo la basilica Porziana, che era fuori delle mura, ma la basilica
nuova, che si trovava entro le mura ed era la maggiore. La basilica nova
(distìnta dalla vetus, che sorgeva vicino al battistero di Santo Stefano,
n ell’area del Duomo) è identificata ormai con S. Tecla, presso lo stesso
Duomo. Alla richiesta dell’autorità di consegnare la basilica, Ambrogio
aveva risposto « che un vescovo non può cedere un tempio che appartiene
a Dio ». Il giorno dopo venne anche il prefetto del pretorio e fece opera
di persuasione «perché almeno ci ritirassimo dalla basilica Porziana. Ma
il popolo protestò a gran voce, cosicché il prefetto se ne dovette andare,
dicendo che avrebbe fatto rapporto all’imperatore ». Nei giorni successivi
a questo intervento del prefetto la tensione aumentò: la domenica,
m entre, durante la messa, gli inviati della corte stendevano le cortine nella
basilica nova, per indicarne la requisizione, un sacerdote degli ariani,
Castulo, fu aggredito e sequestrato dalla folla e liberato solo per l’inter
vento di Ambrogio. Durante la settimana santa del 386 la corte cercò di
staccare il popolo da Ambrogio colpendo con multe altissime i commer
cianti, ma le m inacce riuscirono solo ad esasperare la protesta popolare.
La situazione poteva da un m omento all’altro sboccare in un massacro:
«io inorridivo - scrive Ambrogio alla sorella - sapendo che erano stati
spediti degli armati ad occupare la basilica; durante la requisizione poteva
avvenire qualche scempio, che avrebbe avuto com e conseguenza la rovina
di tutta la cittadinanza. Chiedevo al Signore la grazia di non sopravvivere
al rogo di una città così grande, anzi al rogo di tutta l’Italia». E affronta
direttamente, con l’autorità dell’antico consolare, i soldati Goti: « l’auto
rità di Roma vi ha presi al suo servizio, perché diveniste complici di
pubblici disordini?» (ib. 9).
All’alba del m ercoledì santo ( l e aprile del 386), m entre la basilica nova
era circondata dalle truppe e il popolo si era riversato in massa in tutte
e due le basiliche (la nova e la vetus) , per ascoltare le letture, la resistenza
dei soldati comincia a vacillare e si viene a sapere che alcuni di essi hanno
informato l’im peratore che gli avrebbero obbedito solo se l’avessero visto
con i cattolici alle sacre funzioni (ib. 11); poi ordinatam ente, molti di loro
V I. M il a n o a l t e m p o d i A g o s t in o 73
com inciano ad unirsi al popolo, dichiarando che èrano venuti per pregare
e non per usare le armi. La corte esasperata accusa Ambrogio di usurpa
zione politica: è questo il significato del termine tyrannus del paragrafo 22
della lettera a Valentiniano. Al giovedì santo, improvvisamente, mentre
Ambrogio legge il libro di Giona e ricorda che Dio aveva allontanato la
distruzione che sovrastava Ninive, giunge la notizia che l’imperatore aveva
dato ordine ai soldati di lasciare la basilica e di fare restituire ai mercanti
le somme, che erano stati condannati a pagare; il popolo esulta, scoppiano
gli applausi. I soldati facevano a gara nel comunicarsi la notizia e si
precipitavano verso l’altare baciandosi e recando il segno della pace
(paragrafo 26 della lettera a Marcellino). «Allora compresi - conclude
Ambrogio scrivendo alla sorella e riprendendo il ricordo del libro di
Giona - che il Signore aveva ucciso il verme antelucano, affinché tutta la
città fosse salva».
Se dell’occupazione delle basiliche Agostino parla solo com e di un
antefatto del suo battesimo ( conf. 9,7: « era passato un anno o poco più da
quando Giustina aveva preso a perseguitare il tuo Am brogio») e come
dell’occasione per l ’introduzione a Milano «dell’uso di cantare inni e
salmi al modo degli orientali» (ib. 7,15), il ritrovamento dei corpi dei
martiri Protasio e Gervasio, avvenuto poco dopo quello scontro, nel
giugno del 386, sembra aver lasciato una traccia più viva, sia in conf. 9,7,16,
sia in serm. 286,4 e 318 sia in civ. 22,8: nelle Confessioni egli parla degli
indem oniati e di un cieco che dai martiri furono guariti; in dv. della
guarigione del cieco, in un passo teso a dimostrare che i miracoli
avvengono ancora, ed alcuni, com e appunto quello di Milano, sotto gli
occhi di molti. Nella descrizione della scoperta e dei miracoli nelle
Confessioni Agostino si apre, in modo insolito, alla sottolineatura della
situazione politica: «li avevi conservati incorrotti per tanti anni e al
m om ento opportuno li portasti alla luce per domare la rabbia di ima
fem m ina regale» - dice introducendo il racconto della scoperta - e
«la regina tua nem ica non giunse a impegnarsi nell’atto di fede che
l ’avrebbe salvata, tuttavia m oderò il suo furore persecutorio » dice conclu
dendo il resoconto dei miracoli. E, subito dopo: «grazie a te, mio Dio!
Ma com e hai potuto guidare la mia m em oria così da poterti lodare anche
per questi fatti, tanto grandi, m a che stavo per dimenticare e tralasciare? ».
L ’urto di Ambrogio con l’imperatrice Giustina, ancora in atto al
m om ento della scoperta e della deposizione dei martiri (17-19 giugno del
386), nonostante la felice, per Ambrogio, conclusione della controversia
delle basiliche, è l’unico avvenimento politico da cui la memoria di
A gostino sem bra rim asta im pressionata nella rievocazione del suo
soggiorno a Milano e della storia tutta interiore della sua conversione.
Esso è in effetti al centro del racconto che Ambrogio dà dell’episodio della
74 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a
scoperta dei corpi dei martiri nella lettera alla sorella (ep. 22 Maur. =
77 Faller) ed è al centro, anche se il nom e di Giustina non è mai
pronunziato, dei discorsi che Ambrogio stesso ricorda di aver pronunziato
davanti al popolo in quella occasione e che riferisce alla sorella (ib. 3 ss.):
nel primo di essi Ambrogio ringrazia il Signore Gesù « perché in questo
tempo in cui la Chiesa ha bisogno di maggiori difese (praesidia maiora) ha
suscitato l’aiuto di tali martiri (tales nobis sanctorum martyrum spiritus
excitasti): cognoscant omnes quales ego propugnatores requiram, qui propugnare
possint, impugnare non soleant. Tali sono i difensori che desidero, tali i
soldati che ho, non saeculi milites, sed milites Christi. Nullam de talibus invidiam
Umeo, quorum quo maiora eo tutiora patrocinia sunt. Horum etiam ilUs ipsis qui
mihi eos invideant opto presidia. Veniant ergo et videant stipatores meos, talibus
me armis ambiri non nego (ib. 10). Il linguaggio che Ambrogio usa qui
utilizza la terminologia consueta del discorso politico: si parla di invidia,
nel senso classico di ostilità politica, di praesidia, di milites, di stipatores. Per
chi tiene presente l’accusa di tyrannus (di usurpatore) rivolta dalla corte
ad Ambrogio pochi mesi prima per avere organizzato l’occupazione e la
resistenza popolare nelle basiliche occupate, queste affermazioni hanno
im a risonanza polemica precisa. Ed ancora (ib. 11): aperuit oculos nostros
Dominus, videmus auxilia quibus sumus saepe defensi; non videbamus haec, sed
habebamus tamen... patronos habebamus et nesciebamus. I motivi polemici
ritornano nel discorso successivo, al mom ento della depositio (ib. 15 ss.),
in cui l’accenno ripetuto alla presenza massiccia del popolo milanese
(ib. 15 sanctitatis vestrae celebritatem... 16 celebritate vestra, ecc.) si accoppia a
quello dell’invidia che questa celebritas suscita nei ‘soliti’ avversari (qui solent
invident) e della negazione opposta da questi avversari ai meriti dei martiri
e ai loro miracoli: qui il paragone fra l’atteggiamento degli ariani milanesi
e quello dei giudei e dei demoni davanti ai miracoli di Cristo diventa
palese (16 ss.).
Paolino (vita Ambr. 15,2) spiega che gli ariani della corte di Giustina
andavano dicendo che Ambrogio stesso si era procurato col denaro
uomini che si fingessero indemoniati. Nel suo secondo discorso, registrato
nella stessa lettera alla sorella, Ambrogio sembra ben consapevole di
queste critiche e le confuta. Si sa che molti moderni, condividendo le
critiche degli ariani, hanno tacciato di demagogia, o addirittura di truffa,
il comportamento di Ambrogio in questa occasione: tanto più mi pare
importante, nella sua eccezionalità, la testimonianza di Agostino: egli
ricorda che al m omento dei fatti non era ancora convertito (confi 9,7:
«allora non correvo ancora dietro a te » ); ricorda ancora, in un passo
precedente, che egli ammirava Ambrogio, ma lo riteneva «un uomo
soddisfatto secondo lo spirito del mondo, dal mom ento che era oggetto
di onori da parte dei potenti... delle sue speranze, delle sue lotte contro
V I. MILANO AL TEMPO DI AGOSTINO 75
le tentazioni di grandezza, del suo gioioso gusto per il tuo pane che
ruminava nel segreto del cuore, nulla immaginavo o sapevo» ( conf. 6,3).
Acuto intellettuale e dotato di vivo senso critico, egli non era facile preda
degli entusiasmi delle folle e non era, d ’altra parte, sensibile, dopo la
conversione, alle alterne vicende della politica umana. Eppure, non per
caso, egli serba il ricordo, tutto religioso, di quegli eventi e vede quel
contrasto politico illuminato di luce interiore.
Ciò che colpisce nel ricordo di Agostino è che egli non ignora la
perfetta tempestività politica di quel ritrovamento e di quei miracoli
(com e non la ignora né la oscura A m brogio), ma ne accetta, nonostante
e anzi proprio in concomitanza con l’importanza politica, l’autentico
carattere miracoloso e proprio in contesti, quello delle Confessioni, in cui
la politica risulta indifferente, e quello del de civitate Dei e del sermo 286,
che è estremam ente critico nei riguardi dei m iracoli36. La testimonianza
di Agostino, che era a Milano al tempo dei fatti, com e quella di Paolino,
che scrivendo dopo la m orte di Ambrogio, ricorda che il cieco allora
risanato prestava ancora servizio (vita Ambr. 14,2) nunc usque... in eadem
basilica quae dicitur Ambrosiana, escludono a mio avviso il sospetto della
manipolazione e ridanno, all’intesa di Ambrogio col suo popolo, e alla
coscienza che egli rivela, di un aiuto divino, tutto il loro valore. Fu nella
Milano di Ambrogio, in im a chiesa in cui l’intesa fra Vescovo e popolo era
stata esaltata da una resistenza com une ad un ordine ingiusto nella
certezza dell’aiuto divino, che avvenne la conversione di Agostino.
Si è detto prima che a quell’avvenimento memorabile e unico nella
storia della Chiesa milanese, che fu l’occupazione delle Basiliche e lo
scontro con Giustina, Agostino dedica solo poche righe. E interessante
però osservare com e Agostino, che non ritiene particolarmente signifi
cativi per la sua conversione i suoi incontri personali e privati con
Ambrogio, da quello iniziale, in cui il Vescovo lo accolse con benevolenza
al suo arrivo ( conf. 5,13), a quelli frequenti, per le strade, in cui Ambrogio
si congratulava con lui per la pietà di sua madre (6,2), o addirittura a
quelle famose attese sulla soglia del Vescovo intento a leggere (6,3), dia
invece una im portanza decisiva ai suoi incontri pubblici con il vescovo, in
mezzo alla folla: quando lo ascoltava con assiduità «m entre conversava
pubblicam ente» (5,13), o quando «lo ascoltava con gioia nei suoi discorsi
al popolo, m entre spiegava che la lettera uccide, lo spirito vivifica» (6,4)
o, infine, quando, non ancora convertito, piangeva a dirotto durante il
36 Sul sermo 286 di Agostino e il suo atteggiamento verso i miracoli, vd. ora
A. Isola, L ’esegesi biblica del sermo 286 di Agostino, «Vet. Chr.» 23, 1986, p. 270.
76 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
canto degli inni (9,7), all’epoca, appunto, delle famose veglie durante
l ’occupazione delle basiliche.
Qualche studioso moderno ha posto l’occupazione delle basiliche,
come l’intervento di Ambrogio nella questione di Callinico, fra gli atteg
giamenti con cui Ambrogio umiliò il potere dello stato.
A mio avviso, se la presa di posizione di Ambrogio per Callinico resta
discutibile, la resistenza da lui opposta alla corte nella controversia delle
basiliche deve essere valutata in modo tutto diverso.
Lo stato non aveva il diritto in nom e di un’equivoca libertà di culto per
tutti, di dare agli ariani le chiese dei cattolici. Il diritto rom ano, sempre
attento al diritto di proprietà, era chiaro su questo punto: e lo aveva
dimostrato l’impero pagano, quando, dopo aver concesso ai cristiani la
libertà di culto e di riunione con Gallieno, aveva restituito alla Grande
Chiesa, con Aureliano, la «casa della chiesa» occupata abusivamente
dall’eretico Paolo di Samosata. Ambrogio, che proprio nel 386 aveva rotto
la com unione con i vescovi della Gallia fautori di Magno Massimo,
colpevoli di avere sollecitato il braccio secolare contro gli eretici priscil-
lianisd (ep. 80 Faller), e che disapprovava il ricorso allo stato per punire
colpe interne alla chiesa, era perfettam ente coerente nel rifiutare ogni
invadenza dello stato nella vita della comunità cristiana. La lotta per le
basiliche fu una lotta per la libertà e il popolo milanese visse questa lotta
accanto al suo vescovo. In questa intensa atmosfera religiosa e umana
maturò la conversione di Agostino.
VII.
I RAPPORTI FRA AMBROGIO E IL PANEGIRISTA PACATO
7Cfr. Cod.Theod. 16,5,18 del 17 giugno 389 (su cui vd. Lippold, art. dt.,
p. 238, n. 65).
82 M a r t a s o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
8 Sull’accordo di Teodosio con Massimo vd. anche Zosim. 4,44; cfr. D. Vera,
I rapporti fra Magno Massimo, Teodosio e Valentiniano, «Athenaeum» 53, 1975,
pp. 267 ss.
9 Per la grazia concessa a Simmaco, vd. A Lippold, s.v. Theodosius, RE (1972),
col. 43.
10Ambr. ep. 61 Maur. (= extra coll. 2 Faller), 7 e ep. 62 Maur. (= extra
coll. 3), 1 ss.
VII. I RAPPORTI FRA AMBROGIO E IL PANEGIRISTA PACATO 83
sua intercessione presso Teodosio (ep. 51 Maur. [= Faller, extra coll.], 11,1)
dulcis mihi recordatio est et beneficiorum, quae crebris meis intercessionibus summa
gratia in alios contulisti): è probabile che tale intercessione si sia esplicata
in gran parte a favore di molti comites di Massimo, con i quali, al tempo
della sua seconda legazione a Treviri, Ambrogio aveva avuto rapporti,
proprio a proposito dei Priscillianisti (ep. 24 Maur. [= 30 Faller], 12 cum
de eo (il vescovo Igino) convenirem comites eius).
L ’identità di giudizi e di valutazioni che il confronto fra le lettere di
Ambrogio e il Panegirico di Pacato sembra rivelare potrebbe pertanto
dipendere da una conoscenza reciproca del vescovo di Milano e del retore
gallico e da rapporti personali stabiliti fra i due al tempo della seconda
legazione o dopo la vittoria di Teodosio.
In qualsiasi m om ento la conoscenza fra Pacato e Ambrogio sia
avvenuta, mi pare che i significativi contatti rilevati nelle valutazioni del
vescovo di Milano e del panegirista gallico sulle vicende di Massimo
dimostrino che questa conoscenza ci fu e che Pacato non esitò a farsi
portavoce di idee e di giudizi di Ambrogio in un momento in cui
Teodosio, irritato con Ambrogio per la faccenda di Callinico, lo teneva
accuratamente lontano dalle sue decisioni e al di fuori del suo comitatus11.
Se teniamo conto della centralità che ha nel testo di Pacato la difesa dei
miseri che furono fedeli a ll’usurpatore, credendolo appoggiato da
Teodosio (dei 47 capitoli in cui è diviso per noi il Panegirico, tale difesa
occupa esattamente l’inizio del cap. 24), e dell'insistenza con cui Pacato
ritorna sullo stesso concetto verso la fine del Panegirico, quando fa
confessare a Massimo prigioniero di avere simulato il favore di Teodosio,
quod aliter non potuisset adlicere militum societatem nisi auctoramenti tui se
finxisset auctorem (ib. 43,6), dobbiamo concludere che il senso vero di tutto
il Panegirico e dell’encomiastica esaltazione del vincitore Teodosio è un
appassionato appello alla clem enza verso i vinti partigiani di Massimo e,
nello stesso tempo, una coraggiosa giustificazione di coloro che il ricono
scimento concesso da Teodosio a Massimo e la sua lentezza nell’interve-
nire avevano indotto a ritenere Teodosio stesso favorevole all'usurpatore
delle Gallie.
In questo appello alla clemenza e n ell’esperienza del disagio suscitato
dal sospetto di una connivenza fra l’Augusto di O riente e l’usurpazione
gallica (Ambrogio stesso esprimerà questo disagio più tardi, nel caso di
E u g en io )12 , vanno cercati a mio avviso i motivi dell’intesa fra il retore
pagano e il vescovo di Milano.
che, per il riferim ento iniziale ad una superior epistula, nella quale
Ambrogio aveva risposto alla quaestiuncula del destinatario, e per l’impor
tanza che in essa assume l ’episodio dell’adultera, ricordato fin dal
paragrafo 2 e poi ripreso in quelli successivi, sino alla conclusione (20), era
stata collocata dai Maurini e dal Migne immediatamente dopo la lettera
a Studio e ritenuta indirizzata a lui com e quella; siccome però tutti i
manoscritti portano com e destinatario della lettera Irenaeo e non Studio,
si era concluso che Studius Irenaeus vocati potuerit8. Questa spiegazione, che
già il Palanque riteneva fantasiosa e inaccettabile9, è stata di recente
respinta dal Mazières10, secondo il quale, m entre Studio è certam ente un
magistrato, interessato alla questione della pena di m orte a causa della sua
funzione, il destinatario della lettera in questione è chiamato all’inizio
della lettera e nel saluto finale filius e va ritenuto pertanto un membro del
clero m ilanese, da identificare appunto con quell’Ireneo che, con
Oronziano, è uno dei corrispondenti abituali di Ambrogio e che, come
lui, faceva parte del clero di Milano e proveniva probabilm ente dal
giudaismo. La superior epistola a cui Ambrogio si riferisce, sarebbe l'ep. 67
Faller (= 80 M aur.), che alcuni manoscritti riferiscono a Bellicio, altri a
Ireneo e che gli editori precedenti (e lo stesso Palanque) hanno ricono
sciuto a Bellicio, m a che il Mazières ritiene invece indirizzata a Ireneo:
il legame fra le due lettere sarebbe rivelato dal fatto che ambedue hanno
al centro un episodio del Vangelo di S. Giovanni, quello del cieco nato
(Ioh. 9,1 ss.) la ep. 67 Faller, quello dell’adultera (Ioh. 8,1 ss.) Yep. 68.
Prescindendo dalla possibilità di errori neU’indicazione del destina
tario nei manoscritti (possibilità che lo scambio stesso fra Bellicio e Iraeneo
nei manoscritti della ep. 67 Faller non permette di escludere neppure per
la ep. 68 Faller), io ritengo che si possa certam ente escludere, sulla base
del contenuto delle due lettere, che la ep. 68 Faller sia rivolta allo stesso
personaggio a cui è indirizzata la ep. 67 Faller. Non è facile vedere come
l’episodio del cieco nato, sviluppato nella ep. 67, possa essere considerato
una risposta alla quaestiunculam quam proposuisti, di cui Ambrogio parla in
ep. 68,1; la ep. 67, infatti, non risponde a nessuna domanda, ma incita al
battesimo, servendosi, appunto, dell’episodio del cieco nato: ib. 67,6 accede
et tu ad Siloam... Veni ad baptismum, tempus ipsum adest.
Essa riprende in effetti quell’invito al Battesimo che aveva già rivolto
a Bellicio quando, convalescente da una grave malattia, aveva cominciato
11 La lettera a Studio termina: vale et nos dilige; quia nos quoque te diligim
(ep. 50 Faller, 9). J.R. Palanque (Saint Ambroise, art. cit., pp. 478 s.) dice che il tono
non è affettuoso e rivela in Studio un corrispondente solo occasionale. L’osser
vazione mi lascia perplessa. Vale la pena di ricordare che anche lo Studio prefetto
urbano del 404 fu in corrispondenza con eminenti ecclesiastici (a lui è indirizzata
una lettera di S. Giovanni Crisostomo (Ioh. ep. 197).
v r a . L a l e t t e r a d i Am b r o g io a S t u d io e i l p r o b l e m a d e l l a p en a d i m o r t e 89
insieme con Yep. 50, per definire il pensiero di Ambrogio di fronte alla
pena di morte.
14 Sul concetto di aequitas vd. ora G. Belloni, s.v. aequitas, in LIMC, I, Zùric
Mùnchen 1981, pp. 240-243.
V i n . LA LETTERA DI AMBROGIO A STUDIO E IL PROBLEMA DELLA PENA DI MORTE 91
patiebaris periclitari, tot periisse non doleas innocentes. Per questo Ambrogio
non potrà offrire il sacrifìcio della messa alla presenza di Teodosio,
colpevole di avere ucciso degli innocenti: ib. 13 an quod in unius innocentis
sanguine non licet, in multorum licet? non puto.
Qualche volta si accusa Ambrogio di avere indebolito l’autorità dello
stato imponendo la penitenza pubblica ad un imperatore romano;
qualche volta ancora lo si critica per aver assimilato troppo poco lo spirito
nuovo del Vangelo, accettando la legittimità della pena di morte e della
guerra. In realtà Ambrogio è perfettamente coerente sia con la tradizione
religiosa della Chiesa che con la tradizione giuridica romana: l’intransi
genza con cui egli chiede a Teodosio la penitenza per il massacro di
Tessalonica, nato da un moto d’ira al di fuori di ogni legittima applica
zione della legge e di ogni valutazione di innocenza e di colpa, è pari al
rispetto che egli manifesta per i diritti e i doveri dello stato nell’esercizio
anche armato della sua funzione in difesa del bene comune: è in nome
di questi diritti-doveri, non per compromesso con lo stato, ma per
profonda convinzione, corroborata dall’autorità dell’apostolo e dalla tradi
zione della Chiesa, che egli ritiene che non si debba chiedere allo stato,
anche se governato da cristiani, la misericordia, quando ciò può provocare
turbamenti dell’ordine e quando tale richiesta porterebbe danni maggiori
di quelli che si vogliono evitare. Questa posizione di rigorosa fedeltà ai
principi e di illuminato realismo è, insieme, il frutto dell’esperienza
politica e pastorale di Ambrogio, consularis ed episcopus, e della sua fede
profonda e rappresenta la testimonianza sempre attuale dell’antico
vescovo di Milano.
IX.
PENA DI M O RTE E «BRACCIO SECOLARE»
NEL PENSIERO DI AMBROGIO
* Metodologie della ricerca sulla tarda antichità, Atti del primo convegno dell’A
sociazione di studi tardoantichi (Napoli, ottobre 1987), a cura di A Garzya, Napoli
1989, pp. 179-187.
1 Cfr. J.P. Mazières, Les lettres d’Ambroise de Milan à Irénée, «Pallas» 26, 1979,
pp. 108 ss.
2 Cfr. M. Sordi, La lettera di Ambrogio a Studio e il problema della pena di morte,
in Polyantema. Studi offerti a Salvatore Costanza, Studi Tardoantichi VII, 1988,
pp. 275-283.
94 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA
senta una risposta più ampia e articolata alla quaestiuncula posta da Studio
nella superior epistula (che è la 25 Maur. = 50 Faller): cioè alla questione
della liceità per un cristiano di pronunziare e di eseguire sentenze di
morte. La natura della domanda permette forse l’identificazione del
personaggio, che al mom ento della lettera doveva essere un governatore
di provincia, fornito dello iure gladii: egli può pertanto essere identificato
con l’omonimo comes rei privatae, attestato nel 401 a Costantinopoli, che
nel 404 fa praefectus urbis Constantinopolitanae3.
3 Cfr. PLRE, I, Cambridge 1971, p. 859; II, 1980, p. 1036; Mazières, art. cit.,
pp. 108 s.
4 Cfr. M. Sordi, Magno Massimo e l’Italia settentrionale, in Aquileia nel IV secolo,
I, 1982, pp. 61 s. Al 386, ma prima dell’occupazione delle basiliche, collocano
la missione di Ambrogio J. Palanque, in AA.W., Les empereurs romains dEspagne,
Paris 1965, I, pp. 259 ss.; A.R. Birley, Magnus Maximus and thè Persecution of Heresy,
« Bull. Ryl. Libr.» 66, 1983, pp. 30 ss.
6 Cfr. Birley, art. cit., p. 33 s.; J.M. Blàzquez Martinez, in AA.W., Espa
Romana, II, Madrid 1982, pp. 473 ss. (a cui rinvio per ima ampia esposizione di
tutto il problema dei Priscillianisti).
I X . P e n a d i m o r t e e « b r a c c io s e c o l a r e » n e l p e n s ie r o d i A m b r o g io 95
stato spesso accusato di avere umiliato l’autorità dello Stato. Questo rifiuto
è fermissimo in Ambrogio anche al tempo della famosa lettera a Teodosio
per la strage di Tessalonica, nel 390: la colpa di cui egli chiede qui la
penitenza a Teodosio, non è quella di avere ucciso dei colpevoli, ma degli
innocenti: ep. 51 Maur. (2,11 Faller), 12 qui apicem clementiae tenebas, qui
singulos nocentes non patiebaris periclitari, tot petiisse non doleas innocentes.
Risparmiare dei colpevoli è clementia, anche se può essere aequitas l’ucci
derli. Solo uccidere degli innocenti homicidium est.
L ’aderenza alla legge rom ana nella distinzione fra colpevoli e inno
centi resta presente anche in un altro passo, contrastato ed oscuro pure
nel testo, della stessa prima lettera a Studio (ep. 25 Maur., 3): nec tarnen
nocentes (ma la maggior parte dei manoscritti ha innocentes) adterere squalore
carcerìs et absolvere plus quasi sacerdos probabo; potest enim fieri, ut causa cognita,
recipiatur ad sententiam reus, qui postea aut indulgentiam sibi petat aut certe sine
gravi severitate - quod quidam ait - «habitet in carcere» (Cic. leg. agr. 2,37,101).
II passo è stato accostato dagli editori di Ambrogio ad una costituzione
del 380, emanata da Costantinopoli coi nom i di Graziano, Valentiniano II
e Teodosio, contro le lunghe carcerazioni preventive (Cod. Theod. 9,3,6)
de his quos tenet carcer id aperta definitione sancimus, ut aut convictum velox
poena subducat aut Uberandum custodia diuturna non maceret... Non c ’è
dubbio che 1’ adterere squalore carcerìs di Ambrogio corrisponde esattamente
al custodia diuturna... maceret della costituzione; l’espressione di Ambrogio
sembra riferirsi, come nella costituzione, ad un m om ento anteriore alla
causa cognita, cioè alla celebrazione del processo e alla sua conclusione.
L ’alternativa posta dopo la cognitio appare però diversa: m entre nella
costituzione del 380 essa è la liberazione dell’accusato se innocente o la
sua rapida esecuzione (velox: poma) se colpevole, Ambrogio vede in alter
nativa o la richiesta di grazia o il carcere perpetuo e sembra pertanto
partire dall’ipotesi della colpevolezza dell’accusato « riportato in tribunale
per la sentenza». In sostanza, combinando la norm a contro la lunga
carcerazione preventiva (che può colpire innocenti o colpevoli) e l ’ipotesi
della colpevolezza dell’accusato, egli vuole suggerire che, anche in questo
caso, si può pimire il colpevole evitando la pena di morte. Scio tamen —egli
conclude - plerosque gentilium gloriari solitos, quod incruentam de administra-
tione provinciali securim revexerint. Si hoc gentiles, quid Christiani facere debent ?
seconda lettera a Studio (ep. 26 Maur., 3) sed vehementior (quaestio) facta est
posteaquam... alii accusationes huismodi... probare coeperunt.
La differenza teorica e pratica n ell’atteggiamento che Ambrogio
assume verso i vescovi accusatori di crimini capitali in publicis iudiciis e i
giudici dello Stato, che in publicis vudidis pronunziano sentenze capitali,
è radicale: mentre egli non osa, in base all’autorità apostolica, scomu
nicare i giudici cristiani che abbiano pronunziato ed eseguito una
sentenza capitale, egli nega senz’altro la sua com unione ai vescovi che
accusano di crimini capitali degli eretici ( devios licet a fide) in publids iudiciis
ed assimila ai Giudei, che vollero m ettere in difficoltà Cristo interpel
landolo sull’adultera, coloro che approvavano il com portam ento di
quei vescovi.
La differenza può stupire chi conosce la decisione con cui Ambrogio
combattè, in tutta la sua vita, contro altri eretici, gli Ariani, e l’intransi
genza con cui egli negò allo stato ogni concessione verso di essi. In realtà,
è proprio l’atteggiamento assunto da Ambrogio verso gli Ariani, e nello
stesso 386, al tempo della controversia per le basiliche, che permette di
illuminare pienamente la posizione di Ambrogio e ne rivela l’intima
coerenza.
Invitato da Valentiniano II a presentarsi nel concistoro per discutere,
con giudici da lui scelti, la controversia con Aussenzio Mercurino, il vesco
vo ariano di Durosturum a cui Giustina voleva cedere una basilica cattolica,
Ambrogio rifiuta, in nom e di una disposizione di Valentiniano I, di
sottostare a giudici laici e dichiara che in causa fidei i vescovi non possono
sottostare all’imperatore: veniant piane, si qui sunt, ad Ecclesiam: audiant cum
populo, non ut quisquam iudex resideat, sed ut unusquisque de suo affectu habeat
examen... (ep. 21 Maur., 6 = Faller).
I vescovi gallici che avevano sottoposto al giudizio di Magno Massim
gli eretici Priscillianisti, camuffando l’accusa di eresia con quella di
Manicheismo, colpito dalle leggi dello stato, avevano dunque deviato da
un principio che per Ambrogio era fondamentale, facendo intervenire
lo Stato in una controversia che era de fide e per la quale il luogo
appropriato era solo la chiesa: questo spiega l’importanza della discus
sione sulle qualitates locorum nella seconda lettera a Studio (ep. 26 Maur.,
4 ss. = 68 Faller). Gesù parla in porticu Salomonis hoc est sapientiae... ut in
tempio dei... in gazophylado, che va inteso com e conlatio fidelium (ib. 4).
Diverso è l’ordine della legge e quello della grazia e a quest’ordine
appartiene la Chiesa.
Ambrogio, che è disposto ad ammettere in nom e della legittima
autorità dello Stato e del suo dovere di reprim ere lo scelerum furor, la
I X . P e n a d i m o r t e e « b r a c c io s e c o l a r e » n e l p e n s ie r o d i Am b r o g i o 101
11 Su questo punto Agostino segue alla lettera Ambrogio (ep. 100,2): ut eti
occidi ab eis eligamus («dagli eretici»), quam eos occidendos vestris iudidis ingeramus.
Per il riconoscimento, da parte degli imperatori cristiani, del dovere dei vescovi
di perdonare i nemici della Chiesa e della necessità dello Stato di intervenire senza
aspettare denunce cfr. Cod. Theod. 16,2,31 (del 409 d.C.) su cui L. De Giovanni,
Chiesa e Stato nel Codice Teodosiano, Napoli 1980, pp. 44 ss.
X.
LA TRADIZIONE B E L L ’INVENTIO CRUCIS IN AMBROGIO
E IN RUFINO
Santo, rilegge il Vangelo e trova che la croce di Cristo era quella di mezzo;
vicino ad essa trova poi anche il titulus, con la scritta di Pilato e con questa
sola croce fa la prova, preso il cubile veritatis, ed ottiene il miracolo (ib. 46):
Lignum refulsit et gratia emicuit, ut, quia iam feminam visitaverat Christus in
Maria, Spiritus in Helena feminam visitaret. Secondo Paolino (ib. 5) Elena
interroga sin dall’inizio sapienti cristiani ed ebrei e, dopo aver ritrovato le
tre croci, ispirata da Dio, cerca un cadavere ed accosta ad esso, una dopo
l’altra, le tre croci e solo con la terza ottiene il miracolo; secondo Rufino
(ib. 7 s.), dopo aver trovato le tre croci e il titulus posto da Pilato, Elena
si rivolge a Macario, vescovo di Gerusalemme, ed è lui che, dopo aver
pregato, avvicina le tre croci ad una donna di famiglia illustre che era
ammalata e ottiene, con la terza, il miracolo. Si sa che Macario era vescovo
di Gerusalemme al tempo delle visite di Costantino e di Elena (nel 326)
e che a lui si rivolse effettivamente Costantino per la costruzione delle sue
basiliche (Socrate H E . 1,17,3).
E probabile pertanto che nella versione originaria Macario avesse ima
parte notevole nella scoperta di Elena, la parte che egli ha effettivamente
in Socrate (1,17), in Sozomeno (2,1), in Teodoreto (1,18), ed è probabile
anche che a lui alluda Paolino, quando parla di dotti cristiani consultati
da Elena. L ’accenno dello stesso Paolino ai dotti giudei potrebbe essere
la prima menzione della parte avuta nel ritrovamento dall’ebreo Giuda
Ciriaco, ricordato più tardi da Sozomeno (H .E. 2,1).
La sostituzione dello Spirito Santo all’intermediario umano (Macario)
della versione originaria può bene essere una innovazione di Ambrogio,
che nom ina a più riprese lo Spirito in tutta la vicenda (ib. 43; 45; 47),
così da portare avanti la sua assimilazione di Elena a Maria: visitata est
Maria, ut Evam liberaret; visitata est Helena ut imperatores redimerentur (ib. 47).
È certo, in ogni caso, che è Rufino a conservarci la versione originaria,
non Ambrogio: il racconto che Ambrogio dà del miracolo della donna
risanata, infatti, si riduce ad una semplice allusione estremamente sintetica
e sarebbe praticamente incom prensibile (ib. 46 pertendit ad cubile veritatis:
lignum refulsit et gratia emicuit), se non potessimo confrontarlo con la
versione di Rufino, che racconta ordinatamente la vicenda.
Ma la divergenza più grave e più interessante fra Ambrogio e Rufino
è costituita dall’uso fatto da Elena di uno dei chiodi della croce (Paolino,
su questo punto, non dice niente). Ambrogio e Rufino sono infatti
d’accordo nella trasformazione in morso per il cavallo di uno (o di alcuni)
dei chiodi della c ro ce3: dell’altro Ambrogio dice che fu trasformato in
3 Per il significato del morso già nel mondo grèco, vd. ora E. Villari, E cha&
come spkragis del tiranno, «Civ. Cl. Crist.» 9, 1988, pp. 117s.
106 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a
diadema (ib. 47 de uno clavo frenos fieri praecepit, de altero diadema intexuit...
misit... filio suo Constantino diadema gemmis insignitum, quas pretiosior ferro
innexas crucis redemptionis divinae gemma connecteret... 48 in vertice corona...
Posuisti in capite eius coronam de lapide pretioso... Ps. 20,3). Rufino, invece
(H .E. 1,8) dice che il secondo chiodo fu trasformato in elmo: «Portò al
figlio anche i chiodi con i quali il corpo del Signore era stato affisso.
Di alcuni di questi egli compose i freni di cui si sarebbe servito in caso di
guerra, e degli altri si dice (fertur) che ornasse il suo elmo (galeam),
destinato anch’esso a fini bellici ». Si è visto che anche secondo Ambrogio,
Elena, cercando la croce, voleva trovare per il figlio divini muneris auxilia
perché egli fosse saldo e sicuro inter proelia, è quindi probabile che, anche
in questo caso, la versione originaria fosse quella di Rufino (che troviamo
anche in Socrate, in Sozomeno e in Teodoreto) e che in essa si parlasse
di elmo e non di corona.
Anche qui la variante di Ambrogio è estremamente significativa: perché
l’elmo era solo l’elmo di Costantino e riguardava solo la sua sicurezza,
m entre il diadema (o corona) era la corona degli im peratori romano
cristiani: clavus Romani imperi, qui totum regit orbem (ib. 48); era la corona
di Teodosio e dei suoi figli.
A questo punto la tradizione dell’ inventio crucis si incontra con la
teologia politica di Ambrogio e con la storia dell’impero romano-cristiano:
credo pertanto interessante, visto che abbiamo identificato, al di là del
racconto di Ambrogio, im a tradizione comune più antica a cui attìngono
indipendentemente Rufino e Paolino e di cui Rufino ci conserva forse la
versione originaria (ed è qui l’importanza del nostro), domandarmi
quando questa tradizione si sia formata.
4 Per la data del 333 vd. B. Altaner - A. Stiber, Patrologie, Freiburg 19667, p. 245.
X . LA TRADIZIONE DELL.1INVENTIO CRUCIS IN AMBROGIO E IN RUFINO 107
che lo Spirito solo, senza intermediari umani, eleva alla grazia, e per poter
proporre il paragone con Maria. Come Maria è la madre dell’umanità
redenta, così Elena diventa la madre dell’impero cristiano: ib. 41 magna
foemina, quae multo amplius invenit quod imperatori conferret, quam quod ab
imperatore acciperet.
L ’oggetto, che il cronista del 1230 non descrive e di cui spiega strana
m ente l’origine del nom e {ferrea a viris ferocibus dicta), è descritto in un
inventario del Tesoro del Duomo di Monza sin dal 1353: item una alia
corona auri cum uno circulo ferri, et cum quindecim lapidibus pretiosis intus. Essa
è la terza di un gruppo di quattro corone d’oro, attestate a Monza già in
un inventario del secolo precedente e di cui una risulta scomparsa nel
14961S. Essa doveva trovarsi là già nel IX secolo, quando si parla, per
Berengario I, di una corona aurea cum Ugno Domini1*: anche in questo caso,
il ricordo del chiodo è confuso con quello del legno, ma l’oggetto al quale
si fa riferim ento sembra lo stesso. Ciò che mi sembra certa è la continuità,
nella struttura e nel significato, della corona descritta da Ambrogio alla
fine del IV secolo e della corona assunta da Berengario alla fine del IX
e dagli imperatori del Sacro rom ano impero per il regno d’Italia.
13 Per le quattro corone, vd. Elze, Die eisere Krone, p. 451. Lo stesso Elze è
tornato sul problema nel 1974 (Die Agilulfkrone des Schatz von Monza, in Hist. Forsch.
f. W. Schlesinger, a cura di H. Beumann, Kóln-Wien 1974, pp. 348 s.) e in un
congresso tenuto a Milano nel 1978 (Per la storia del tesoro delle corone di Monza,
in Atti del VI Congresso Intemazionale deU’Alto Medioevo, II, Spoleto 1980, pp. 393 s.,
in cui dimostra l’autenticità (precedentemente negata) della corona votiva
di Agilulfo, attribuibile agli inizi del VII secolo (p. 397 s.), rubata e poi fusa a
Parigi nel 1804.
14Per questo testo vd. Elze, Die eisere Krone, p. 464.
XI.
COME MILANO DIVENNE CAPITALE
Milano fu una delle capitali dell’im pero romano dal 285 al 402, dalla
tetrarchia al trasferimento della corte a Ravenna. Nonostante l’indubbia
importanza che Milano assunse in questi 120 anni n ell’impero romano, le
notizie che le fonti ci danno per questo periodo su Milano non sono
molte: fra il 291 e il 313 abbiamo due m enzioni nei Panegirici Latini, im a
per il 291 (paneg. III [11],11-12) e una per il 313 (paneg: X II [9],7,5 e 8),
due in Zosimo, per il 306 (11,10,1) e per il 313 (11,17,2), una in Orosio
(7,25,14) per il 305, due in Lattanzio (mori. pers. 45,1-2; 48), ambedue per
il 313. In totale, sette menzioni, di fronte alle dodici, tutte di Ammiano e
tutte relative al periodo p er noi coperto dalla storia di Ammiano, tra il 354
e il 378. Dal 374 al 397 le notizie su Milano sono più numerose, ma sono
collegate quasi tutte con Ambrogio.
È chiaro che, a causa della documentazione sempre lacunosa di cui
disponiamo per la storia antica, queste cifre non sono molto indicative e
il silenzio non significa affatto scarsa importanza. Tuttavia la distribuzione
nelle fonti delle m enzioni di Milano non è priva di significato: fatta
eccezione per Ammiano, sul quale ci soffermeremo tra poco, e per le
notizie relative ad Ambrogio o provenienti da Ambrogio, la cui connes
sione con Milano non ha bisogno di essere qui richiamata, le altre fonti
non concedono a Milano capitale più importanza di quanta non ne
concedano le fonti relative agli anni immediatamente precedenti alla
tetrarchia, alla Milano di Gallieno, ricordata a più riprese dalla Storia
Augusta, da Orosio e da Zosimo per le uccisioni di Valeriano il giovane,
di Gallieno stesso e di A u reolo1, di Aureliano, quando la città fu saccheg
giata dai M arcom anni2, di Tacito, sotto il cui regno la Storia Augusta
colloca una lettera del senato ai M ilanesi3, di Caro, a proposito
(Amm. 25,5,2)10 ed era stata accolta con gioia dagli eserciti impegnati
sul fronte persiano solo perché - è ancora Ammiano (25,5,6) che lo
dice - la somiglianza del nom e di Gioviano con quello di Giuliano aveva
fatto loro credere «ch e Giuliano fosse di nuovo vivo». Si com prende in
questo clima com e Gioviano possa essersi lasciato convincere da coloro
(cfr. Amm. 25,7,10 adulatorum globus) che gli suggerivano di tem ere il
nom e stesso di Procopio in quanto parenti di Giuliano e da lui, secondoi
im a voce (Amm. 23,3,2) designato com e suo successore u; secondo costoro,
se Procopio, conosciuta la morte di Giuliano, fosse tornato con l’esercito
ancora intatto che aveva al suo comando, avrebbe potuto tentare un colpo
di stato senza ostacoli ( novas res... facile moliturum, 25,7,10). Il timore
manifestato da Gioviano con l ’invio di Lucilliano a Milano n ell’eventualità
che si manifestassero casus novi (Amm. 25,8,9) e il timore prospettato allo
stesso principe, poco prima, in Persia, dal globus adulatorum di un colpo
di stato meditato dal giulianeo Procopio (res novas... moliturum), fanno
pensare che i casus novi previsti da Gioviano per l’O ccidente fossero della
stessa natura di quelli minacciati per l’O riente da una eventuale iniziativa
di Procopio e che egli paventasse anche a Milano u n ’usurpazione
giulianea. Si sa che l’usurpazione di Procopio divenne palese, in realtà, j
solo più tardi e che non andò oltre la regione di Costantinopoli12. Le
simpatie e il rimpianto per Giuliano, che esistevano ancora in Gallia e che
provocarono l’uccisione di Lucilliano, giustificavano però i sospetti di
Gioviano.
Qui si ripropone il problema dell’invio di Lucilliano a Milano: era a
Milano, e non in Gallia, che Lucilliano, con le persone di sua fiducia da
lui scelte (e fra queste, com e si è visto, c ’era Valentiniano), avrebbe dovuto
res firmare andpites (25,8,9). Milano era sospettata dunque com e il centro
politico di una eventuale insurrezione, com e un centro di simpatie
giulianee, capace di trasmettere la rivolta degli eserciti e, nello stesso
tempo, il luogo in cui la rivolta poteva essere prevenuta.
10 Cfr. ora V. Neri, Ammiano MarceUino e l’elezione di Valentiniano, «Riv. st. angl.
am.» 15, 1985, p. 155 e n. 15; la matrice religiosa dei due partiti è sostenuta da
J. Fontaine, Ammien Marcellin, Livres XXIII-XXV, II, Paris 1979, p. 245, n. 606,
secondo il quale la prima fazione era cristiana, l’altra probabilmente pagana;
invitano invece a non sopravvalutare la componente religiosa G. Wìrth, Jovian,
Festschrift Th. Klauser, Mùnster 1984, p. 355, n. 4 e V. Neri, art. cit., pp. 155-156
e n. 13.
11 II Neri (art. cit., pp. 161 ss.), ritiene che la voce dell’investitura, vera o falsa
che fosse, circolasse già al momento della morte di Giuliano.
12 Su questo vd. ora Grattarola, art. d t, pp. 82 ss.
X I. C o m e M il a n o d iv e n n e c a p it a l e 119
In effetti Giuliano era stato a Milano e a Como nel 354 e nel 355; a
Milano era stato proclamato Cesare ed aveva sposato Elena. A Milano
esistevano, nella seconda m età del IV secolo, ambienti neoplatonici: la
documentazione sul «circolo m ilanese» riguarda soprattutto personaggi
cristiani ed è relativa all’epoca della venuta a Milano di Agostino, poste
riore di circa 20 anni alla m orte di Giuliano. La formazione del « circolo »
risale però in qualche modo, con Simpliciano, all’epoca della conversione
a Roma di Vittorino, cioè al 355, e la presenza a Milano di neoplatonici
cristiani non esclude, anzi presuppone, quella di neoplatonici pagani.
Diventa interessante, alla luce della presenza in Milano di ambienti
neoplatonici cristiani e pagani, la famosa patera di Parabiago, che riflette
la teologia neoplatonica giulianea e il pensiero espresso da Giuliano nella
« Madre degli Dei » e nell’orazione ad « Elios Re ». La datazione proposta
da ultimo per la patera è il 394, al tempo della venuta a Milano di Eugenio:
m a anche ammettendo tale data, la permanenza nel paganesimo milanese
di idee giulianee 30 anni e più dopo la morte di Giuliano mi sembra degna
della massima attenzione13.
Ma i timori di Gioviano dovevano rivolgersi, più che agli ambienti
intellettuali, agli ambienti militari.
Nel 360, quando Giuliano era stato nom inato Augusto, e poi nel 361 al
tempo della sua contrapposizione a Costanzo, Giuliano non era passato da
Milano e neppure dallTtalia nella sua marcia verso l’illirico, ma aveva
mandato in Italia, dividendo le forze a scopo di propaganda, quo diffusi per
varia opinionem numeri praeberent immensi (Amm. 21,8,2) per itinera nota
quosdam properaturos cum lavino et Iovio. Il migliano di Agliate, con la dedica
P r o s a l( u t e ) D.N. C l(a u d i) Iu l(ia n i) p er(p etu i) sem(per) A u g (u sti)
e con il rovesciamento e l’erasione del nom e di Costanzo della dedica,
precedente di pochi mesi, per Costanzo e Giuliano Augusti14, riv,ela che
Iovino, per raggiungere la Postumia e Aquileia, era passato per Milano ed
aveva svolto u n ’intensa propaganda per Giuliano. Si è visto che tra gli
obbiettivi dell’invio di Lucilliano c ’era quello di sostituire Malarico a
Iovino e che, nonostante il fallimento di questo obbiettivo per il rifiuto di
15Philostor. H E. 8, 8; Eunap. fr. 30; Zon. 13,15. Cfr. Neri, art. dt., p. 153.
16 E questo spiega, per il Neri, certe omissioni di Ammiano (art. d t, p. 163).
X I . C o m e M il a n o d iv e n n e c a p it a l e 121
morto e risorto, nel morso che stringe le mascelle dei cavalli viene colto
il freno che il potere imperiale deve imporsi nella sottomissione a Colui
«a cui servono i regni e a cui è sottomesso ogni potere» (ib. 49).
Dall’ignoranza di Dio nascono per Ambrogio l’insolenza e l’arbitrio del
potere (ib. 51 «il potere si lasciava trascinare nel vizio e si contaminavano,
alla maniera delle bestie, a causa della volubile passione. Ignoravano Dio,
ma la croce li tirò indietro e li trattenne dalla caduta n ell’empietà» ib. 51).
Allo stesso modo, undici anni prima, rispondendo a Simmaco durante la
controversia per l’Altare della Vittoria, Ambrogio aveva fatto dire a Roma:
«Questo solo avevo in com une con i barbari, che prima non conoscevo
D io» (Ep. 18 Maur. = 73 Faller, 7).
La differenza fra il prima e il dopo nasce, nella lettera del 384 com e nel
discorso del 395, dal superamento nella fede dell’ignoranza di Dio: resta
però intatta l’idendtà dei soggetti del mutamento (Rom a e l’im pero), di
cui si ribadisce la continuità nella conversione, con la logica profonda
m ente rom ana del mutamento in melius, nel passo già citato della lettera
ambrosiana Roma dice: «n on arrossisco di convertirmi da vecchia, con
tutto il mondo. Non c ’è nessuna vergogna nel passare a cose migliori » 9.
La Roma cristiana di Ambrogio non rinnega nessuna delle disciplinae
con cui aveva sottomesso il mondo: il valore militare di Camillo, la
suprema lealtà di Regolo, l’acutezza strategica di Scipione (ib.). La vittoria
è un dono, non una dea, è concessa per il merito delle legioni, non per
la forza dei riti religiosi (ib. 30). Dei maiores l’impero cristiano rifiuta
soltanto gli dei impotenti. A Simmaco, che chiede agli imperatori cristiani
di lasciare a Roma i suoi dei, Ambrogio può rispondere, capovolgendo, e
nello stesso tempo ricuperando, con piena consapevolezza, la concezione
rom ana della pax deorum su cui l’impero di Roma si era sempre fondato4:
«Voi scongiurate gli im peratori per ottenere la pace per i vostri dei, noi
chiediamo a Cristo la pace per gli stessi im peratori» (ib. 8).
L ’atteggiamento di Ambrogio, che tanta parte ebbe n ell’ultimo scontro
fra cristianesimo e paganesimo, ci permette di impostare questo scontro
dall’unico punto di vista che appare storicamente corretto: quello della
ai Fiorentini dal santo vescovo, morto da quasi dièci anni (Paul. Med. vita
Ambr. 50,2), e il carattere miracoloso di questa vittoria, avvenuta presso
Fiesole (Aug. civ. 5,23; Oros. hist. 7,37,13), da una parte; l’affermazione
degli aruspici venuti dall’Etruria di poter liberare Roma dall’attacco gotico
del 408-109, com e già avevano in passato liberato N ami, attirando sui
nem ici la folgore distruttrice (Zosim. 5,41), dall’altra7.
La sovrapposizione, che troviamo attuata nella condanna costanti
n ian a degli aruspici, del con cetto di superstizione con quello di
paganesimo tradizionale e ufficiale si verifica, forse già per lo stesso
Costantino, certo per suo figlio Costanzo, anche nella definizione di
superstitio data dai sacrifici pagani e nel conseguente divieto: in una
costituzione del 341, indirizzata al vicario di Italia, Madaliano, Costanzo
scrive: cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. E promette ven
detta contro chiunque, contra legem divi principis parentis nostri et hanc no
strae mansuetudinis iussionem, oserà sacrificia celebrare (Cod. Theod. 16,10,2)8.
Il divieto è conferm ato dallo stesso Costanzo nel 342 (Cod. Theod. 16,10,3),
e nel 356 (Cod. Theod. 16,10,4 e 6). In quest’ultima costituzione è proibito
anche il culto delle immagini.
Il divieto cade naturalmente con Giuliano e non viene rinnovato d
Gioviano e da Valentiniano I, ma si ripresenta con Teodosio in ima
costituzione em anata a Costantinopoli nel 381 contro i sacrifìci diurni e
notturni per conoscere il futuro (Cod. Theod. 16,10,7) e poi, sempre più
deciso, contro ogni sacrificio pagano, nella costituzione emanata a Milano
nel 391 da Valentiniano II e Teodosio (Cod. Theod. 16,10,10), in quelle
em anate dallo stesso Teodosio ad Aquileia pochi mesi dopo (ib. 16,10,11)
e ancora a Costantinopoli nel 392 (ib. 16,10,12) e ribadite dai figli nel 395
(ib. 16,10,13) e nel 415 (ib. 16,10,20)9.
In questi testi il divieto riguarda ormai ogni form a di culto pagano,
pubblico o privato, diurno o notturno; riguarda la venerazione delle
immagini, l’accensione di lumi votivi, l ’offerta di incenso e di corone.
7 Su questo episodio vd. M. Sordi, Augustinus De dv. Dei, V,23 ecc., «Augusti-
nianum » 25, 1985, pp. 205 ss.
8 Sul provvedimento di Costantino vd. T.D. Barnes, Constantines Prohibition of
Pagan Sacrifrice, «Am. Joum . Phil.» 105, 1984, pp. 69 ss. Sul problema vd. anche
L. De Giovanni, op. cit., pp. 137 ss. (con bibliografìa); Id., Il libro XVI del Codice
Teodosiano, Napoli 1985, p. 128. Sul concetto di superstitio e sull’attribuzione a
Costante o a Costanzo del provvedimento del 343 vd. ora M.R. Salzman, Superstitio
in thè Codex Theodosianus, «Vet. Chr.» 41, 1987, pp. 179 ss.
9 Su tutte queste disposizioni vd. De Giovanni, Il libro XVI, op. dt., pp. 128 ss.
ISO M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a
10 Amm. 25,4,19-20 (su cui vd. P. Grattarola, Ammiano Marcellino fra reazio
pagana e cristianesimo, «Aevum» 55, 1981, p. 92, n. 165). Sulla restaurazione pagana
di Giuliano, intesa come sostituzione dell’ellenismo al Cristianesimo nel ruolo di
culto di stato vd. PA. Athanassiadi Fowden, fuUan and Hellenism (An Intellectual
Biography), Oxford 1981, p. 123. Da questa concezione di Giuliano derivano, oltre
all’editto sull’educazione, anche le innovazioni di Giuliano nel campo della
teologia politica e il suo tentativo di organizzare una chiesa pagana (ib. 191). In
effetti l’ellenismo di Giuliano più che un’eredità culturale è una religione ed
appare una mescolanza di neoplatonismo e di suggestioni orientali derivate dalla
teurgia e dagli Oracoli Caldaici.
xn. C r is t ia n e s im o e p a g a n e s im o d o p o C o s t a n t in o 131
11 Così appunto suggerisce F. Paschoud, Cinq études sur Zosime, Paris 1976,
pp. 65 ss. (che colloca il rifiuto in occasione dei Decennalia).
12Auson. Orai. Act. 7,35. Sul problema del rifiuto di Graziano vd. J.R. Palanque,
L ’empereur Gratien, ecc. «Byzantìon» 8, 1933, pp. 41 ss.; Marcello Fortina, L ’impe
ratore Graziano, MilanoTorino 1953, p. 214.
13 Sul problema vd. P. Nautin, Les premieres relations d’Ambroise avec l’empereur
Gratien, in Dix études... pour Y.M. Duval, Paris 1974, pp. 237 s.
14 Cfr. M. Sordi, Ambrogio di fronte a Rama e al paganesimo, in Ambrosius Episcopus,
a cura di G. Lazzari, Milano 1976, I, pp. 203 ss.
132 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a
72 Faller), poteva perm ettere allo stesso Simmaco nel 383 di presentare
ancora come Rom anae religiones (ib. 13) i culti del paganesimo e di offrire
a imperatori cristiani la protezione degli antichi dei: ib. 19 vos defendant,
a nobis colantur.
sua amicizia con Sesto Petronio Probo e lo stesso A m brogio17, e, per le sue
doti diplomatiche e le sue capacità oratorie, era in grado di farsi ascoltare
alla corte di Valentiniano II, in cui, accanto alla madre, l’ariana Giustina,
giocava un ruolo im portante il pagano Bautone, magister militum dell’im
peratore.
Al di là dell’invito ad una concordia religiosa fondata sulla comune
ignoranza del mistero (ib. 10 uno itinere non potest perveniri ad tam grande
secretum) Simmaco insiste sull’unanimità del senato e sul dovere degli im
peratori, anche cristiani, di non rinnegare i culti di Roma (ib. 3 vos amicum
triumphis patrocinium nolite deserere. Cunctis potentia ista votiva est; nemo
colendam neget, quam profitetur optandam). Il Boissier ha ragione quando
scrive18 che i pagani non volevano la tolleranza (anche se sembravano
chiederla), ma il riconoscim ento che l’unica religione pubblica era ancora
quella pagana. La risposta di Ambrogio, che poi determinò la presa di
posizione di Valentiniano II e il m antenim ento delle disposizioni di
Graziano, si articola in due m omenti distinti. In un primo tempo egli
risponde genericam ente alle richieste di Simmaco, di cui conosce l ’esi
stenza, ma non conosce il tenore, e chiede che gli sia inviata copia della
relazione (è Yep. 17 Maur. = 72 Faller); in un secondo momento, ricevuta
la relazione, egli le confuta puntualmente con la ep. 18 Maur. (73 Faller).
Al centro (ib. 4-7) c ’è la famosa personificazione di Roma, che, ribattendo
le parole attribuitele da Simmaco (Rei. 3,9 ss.), nega di dovere ai suoi
antichi dei la sua grandezza. Ma soprattutto Ambrogio contesta la pretesa
di Simmaco di rappresentare la religione dello stato rom ano: ib. 22 hoc est,
fidelissimi principes, quod ferre non possumus, quia exprobrant nobis vestro se
nomine diis suis supplicare et vobis non mandantibus sacrilegium immane
committunt dissimulationem pro consensu interpretantes. La presenza in un
senato in cui sono numerosi i Cristiani di un altare pagano con i suoi riti
e i suoi sacrifici è in realtà una grave limitazione alla libertà religiosa dei
Cristiani: Etiamne in communi ilio concilio non erit communis condicio? (ib. 31).
19 Cod. Theod. 12,1,104 (del 383): cfr. De Giovanni, Il libro XVI, op. cit., pp. 60
e 63; Cod. Theod. 16,2,20 del 370 e 16,2,22 del 372: cfr. De Giovanni, ib., pp. 40 s.
20 L’osservazione di Ambrogio sembra ricalcare quella di Tertulliano sui collegi
pagani in Apoi. 39.
21 G. Bodei Giglioni, Pecunia fanatica, « Riv. Stor. It.» 89, 1977, p. 33; cfr. Vera,
Commento, op. cit., p. 46.
xn. C r is t ia n e s im o e p a g a n e s im o d o p o C o s t a n t in o 135
gionati, non fossero messi a morte, com e attesta Agostino, in una lettera
del 411-112 (ep. 139, 2 NBA, 22 pp. 198-200). Lo stesso Agostino in u n’altra
lettera (ep. 50 NBA, 21, p. 412) ricorda che n ell’estate del 399 a Suffetula
in prossimità di Cartagine, sessanta cristiani erano stati uccisi perché era
stata abbattuta una statua di Ercole. Dall’Africa numerose iscrizioni del
IV e V secolo conservano il nom e di cristiani messi a morte dai pagani in
fatti di sangue e venerati com e m artiri27.
Fra la fine del IV e gli inizi del VI secolo la trasformazione del
paganesimo tradizionale da religione delle classi dirigenti in religione
delle campagne, secondo una delle interpretazioni del vocabolo, che lo fa
derivare appunto da pagus, distretto rustico, appare compiuta: ne è indizio
significativo la trasformazione degli aruspici, che della religione tradi
zionale erano stati una delle istituzioni più prestigiose e contro i quali gli
im peratori cristiani avevano indirizzato, com e si è visto, la prima condanna
legale. Nell’episodio già ricordato, testimoniato da Zosimo (5,41) e da
Sozomeno (H .E. 9,6), che derivano qui, con ogni probabilità, dalla stessa
fonte, Olim piodoro28, gli aruspici venuti dalTEtruria nel 408-409 offrirono
al prefetto urbano, Pompeiano, e poi allo stesso papa, Innocenzo, di
liberare Roma dall’assedio di Alarico attirando su di esso i fulmini dal
cielo. Invitati a celebrare i loro riti di nascosto, essi risposero che tali riti
avrebbero giovato alla città solo se fossero stati compiuti pubblicamente e
se il senato fosse salito in Campidoglio ed avesse compiuto, là e nelle
piazze di Roma, ciò che era conveniente, secondo l’uso patrio. Non
avendo potuto ottenere ciò, gli aruspici se ne tornarono in Etruria. Questi
aruspici che trattano con dignità col prefetto urbano e perfino con il
pontefice cristiano sono ancora gli esponenti della vecchia aruspicina, a
cui l’aristocrazia pagana dà ancora il suo appoggio e la sua protezione.
Anche Procopio sulla guerra Gotica (IV,21) parla nel VI secolo, n ell’im
minenza della spedizione di Narsete, di im a profezia di aruspici venuti
dalla Toscana, ma si tratta ormai di rozzi contadini, a cui nessuno presta
attenzione.
L ’antica religione è ormai m orta per sempre e sopravvive come
folklore.
2R. Muth, Vom Wesen roemischer Religio, «Auf. Nied. Ròm. Welt» 16, 1978, 1,
pp. 290 ss.; L. Troiani, La religione e Cicerone, «Riv. Stor. It.» 96, 1984, pp. 930 ss.
3 Su questi processi, cfr. L. Prandi, I processi contro Fidia, Aspasia, Anassagora e
l’opposizione a Pericle, «Aevum» 51, 1977, pp. 10 ss.
4 Così E. Dérenne, Les procès d’impiété aux philosophes, Liège 1930, pp. 217 ss.
5 Prandi, art. dt., p. 19.
x n i . T o l l e r a n z a e in t o l l e r a n z a n e l m o n d o a n t ic o 141
est retractare quae semel ab antiquis statuta et definita suum statum et cursum
tenent ac possident. Alla fine del III secolo d.C., com e nel V secolo a.C.,
criterio di verità è l’antichità di una dottrina: ciò che una volta è stato
definito come vero e approvato dal consenso dei buoni è vero per sem
pre, dice Diocleziano, e non è fas per una nova religio criticare una vetus.
La continuità nel m ondo antico, dalla Grecia classica al tardo impero, di
questo atteggiamento si coglie nel più famoso processo religioso celebrato
nel mondo rom ano prima del Cristianesimo, il processo de Bacchanalibus
del 186 a.C. E vero che in questo caso la repressione non scattò diretta-
m ente da motivi religiosi, m a anche e soprattutto dal sospetto di stupra,
di flagitia, di una coniuratio contro lo Stato6. Con tutto ciò appare signi
ficativa l’esortazione con cui, secondo Livio (39,15,2), uno dei consoli del
186 cercò di calmare gli scrupoli religiosi che la repressione di un culto
divino, sia pure straniero, poteva suscitare nei Romani: hos esse deos, quos
colere venerari precarique maiores vestri instituissent, non illos qui pravis et externis
religionibus captas mentes velut furialibus stimulis ad amne scelus et ad omnem
libidinem agerent.
Criterio sicuro di ortodossia è, ancora una volta, l’antichità della
tradizione, la scelta dei maiores. Eppure, anche nella convinzione che il
culto perseguitato sia un culto privo di ogni validità o addirittura folle
(furialibus stimulis) e pericoloso (ad omne scelus et ad omnem libidinem), resta
chiaro nei Romani il timore ne fraudibus humanis vindicandis divini iuris
aliquid immixtum violemus (ib. 39,16,7) cosicché il Senato, alla fine, concede
a chi ritiene di non poter om ettere il culto proibito sine religione et piaculo
di ottenere il permesso dal pretore urbano per celebrarlo in gruppi di non
più di cinque persone. Ciò che nell’atteggiamento romano appare diverso
dall’atteggiamento greco è la collocazione di tutto il problema sul piano
del diritto, del diritto della divinità: ne divini iuris aliquid violemus, dice il
console liviano. E Tiberio, rifiutando nel 25 d.C. il culto imperiale offer
togli dalla Spagna, chiede agli dei che gli conservino sino alla fine della
vita quietam et intelUgentem humani divinique iuris mentem (Tac. ann. 4,38).
L ’impostazione giuridica che il rom ano dà al suo rapporto con la
divinità nasce dal concetto ispiratore di tutta la religiosità romana, dal
concetto di pax deorum ed è ciò che differenzia il modo rom ano di
comportarsi di fronte al nuovo in campo religioso dal modo greco.
Nel caso dei Baccanali, è proprio il diritto della divinità di essere
adorata come vuole, anche al di là delle tradizioni fissate dai maiores, che
6 Sulla repressione dei Baccanali, cfr. ora A. Luisi, La lex Maenia e la repressione
dà Baccanali, «Contr. Ist. St. Ant.» 8, 1982, pp. 179 ss. (ivi bibl. p. 182, n. 13).
142 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a
induce consoli e Senato, già agli inizi del II secolo e prima dell’influenza
della filosofìa greca, a prendere in considerazione la coscienza dei singoli:
si quis tale sacrum sollemne et necessarium duceret. I decreti ateniesi colpiscono
direttamente il nomizein, la credenza cioè dei singoli e, quindi la loro
coscienza; il Senato rom ano scopre la libertà di coscienza dei singoli nel
mom ento stesso in cui esercita la sua repressione, e la scopre fondata nel
diritto della divinità, sullo ius divinum da non violare.
1 Sul concetto di pax demum rinvio ai miei studi: Pax deomm e libertà religi
in Atti del V Colloquio giudirico, Pont Univ. Later., Roma 1985, pp. 341 ss. e in Pax
deovum, «Contr. Ist. St. Ant.» 11, 1985, pp. 146 ss. Per l’origine etnisca dell’uso di
clavum pangere, cfr. LA. Foresti, Zur Zeremonie der Nagelschlagung in Rom und in
Etmrien, «Am. Joum . Anc. Hist.» 4, 1979, pp. 144 ss.
8 Cfr. C. Milani, Note alla terminologia della pace, «Contr. Ist. St. Ant» 11, 19
pp. 25 ss. ( cantra, ma senza argomenti, I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo
antico, «Mem. Acc. Se. Tor.» 13, 1989, p. 20, n. 8).
X I I I . TOLLERANZA E INTOLLERANZA NEL MONDO ANTICO 143
9 Cfr. M. Caltabiano, La morte del console Marcello, « Contr. Ist. St. Ant» 3, 19
pp. 65 ss. e 75; Id., Motivi polemici nella tradizione storiografica relativa a C. Flaminio,
« Contr. Ist. St. Ant.» 4, 1976, pp. 102 ss.; G. Zecchini, La figura di Terenzio Vairone,
«Contr. Ist. St. Ant» 4, 1976, pp. 118 ss.
144 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a
religio publica e credenze personali, fra culto divino, teso al bene della
comunità (religio) e convinzioni limitate alla sfera personale (philosophia).
In realtà, com e ha ben visto il Boissier13, i pagani non volevano la
tolleranza anche se sembravano chiederla, ma il riconoscim ento che
Tunica religione pubblica era ancora e soltanto quella pagana.
La risposta di Ambrogio, che poi determinò la presa di posizione di
Valentiniano II e il m antenim ento delle disposizioni di Graziano, si
articola in due momenti distinti: dopo aver risposto genericam ente in un
primo tempo chiedendo copia della Relazione di Simmaco, Ambrogio, rice
vuta questa Relazione, la confuta puntualmente con Yep. 18 (= 73 Faller).
Al centro (ib. 4-7) c ’è la famosa personificazione di Rom a che, ribattendo
le parole attribuitegli da Simmaco (Rei. 3,9 ss.), nega di dovere la sua
grandezza agli antichi dei. Ma soprattutto Ambrogio contesta la pretesa
di Simmaco di rappresentare la religione dello Stato rom ano (ep. 22).
« E questo che non possiamo sopportare, o fedelissimi principi, che essi ci
rinfaccino le suppliche che rivolgono, a nom e vostro, ai loro dei (vestro...
nomine diis suis) e che commettano, senza che voi abbiate dato loro
l ’incarico, un grave sacrilegio dissimulationem pro consensu interpretantes».
L ’ignoranza della divinità, irraggiungibile uno itinere secondo l ’affer
mazione di Simmaco, è un argomento che Ambrogio rifiuta (ib. 8):
« Quello che voi ignorate, noi lo conosciamo dalla voce di Dio e quello che
voi cercate attraverso ipotesi, noi lo conosciamo con certezza ex ipsa
sapientia Dei et ventate». II vostro comportamento e il nostro sono diversi:
vos pacem diis vestris ab imperatoribus obsecratis, nos ipsis imperatoribus a Christo
pacem rogamus.
La concezione rom ana della pax deorum è qui integralm ente rece
pita nella pax Christi: ma, nel m om ento in cui viene accolta dalla tradi
zione romana la necessità di un culto teso al bene anche politico della
comunità, si recepiscono anche le contraddizioni che questa religiosità
politica porta con sé e la tendenza a sollecitare l’intervento dello Stato
contro ogni ostacolo che minaccia la pax, l’alleanza tra la divinità e la
comunità politica.
L ’‘intolleranza’ degli imperatori romano-cristiani nasce dalla loro
adesione alla concezione rom ana della religione politica, intesa come
politica verso la divinità. La convinzione dei Cristiani di possedere con
certezza, grazie alla rivelazione, la verità sulla divinità, impedisce natural
m ente quelle resipiscenze nella persecuzione a cui la consapevolezza della
propria ignoranza e il timore di offendere il diritto di qualche divinità
13 G. Boissier, La fin du paganisme, II, Paris 1881, p. 291 (trad. i t 1989, p. 29).
X I I I . TOLLERANZA E INTOLLERANZA NEL MONDO ANTICO 147
rom ana dello Stato, fondata appunto sull’alleanza con la divinità - ad una
maggior tolleranza.
L ’unica possibilità di tolleranza dello Stato antico nasceva dalla consa
pevolezza della sua ignoranza sulla natura della divinità. Venendo meno
questa coscienza di ignoranza, la tolleranza poteva configurarsi solo come
dissimulatio (ed è la linea che suggerisce Sim m aco), com e finzione di non
vedere il male.
Bisogna dire subito però che i pagani suggerivano questa linea solo ora
che erano rimasti minoranza e la suggerivano con l’intenzione - tutta la
controversia dell’altare della Vittoria lo dimostra - che la religio publica
restasse quella pagana.
La soluzione poteva forse venire, m antenendo fissi i due cardini del
modo rom ano di concepire la religione (l’importanza per la comunità e
non solo per i singoli del fatto religioso e la necessità, per la validità stessa
dell’atto religioso, che esso fosse Ubero), dall’approfondimento del limite
inerente alla competenza religiosa dello Stato in quanto Stato. E la
posizione del cosiddetto editto di Milano, in cui da una parte è affermata
l’importanza per lo Stato della religione, dall’altra si affida alla coscienza
dei singoli la scelta di questa religione e l’esplicitazione dell’atto religioso.
Ma il sottile equilibrio dell’editto di Milano appare già infranto vivente
Costantino. Ad onore dell’impero romano-cristiano si può dire che, se
- in linea di principio - non fu più tollerante dell’impero romano-pagano
e moltiplicò proibizioni minacciose contro i culti pagani, non provocò, a
differenza di quello, vittime umane ed applicò in campo religioso quella
dissimulatio, quella finzione di non vedere ciò che per principio proibiva,
che, in un settore così delicato, dove il summum ius rischiava di divenire
summa iniuria, era profondamente connaturata con quel formidabile
connubio di senso del diritto e di senso del concreto, che era nella
migliore tradizione rom ana (Veli. 2,114,3-4).
XIV.
DALL’ELMO DI COSTANTINO ALLA CORONA FERREA
1 Per una più ampia trattazione di questo problema vd. M. Sordi, La tradiz
dell’inventio crucis in Ambrogio e in Bufino, « Riv. Stor. Ch. It.» 44, 1990, pp. 1 ss.
Un confronto puntuale fra Ambrogio, Rufino e Paolino è presente anche in
F.E. Consolino, E significato deU’inventìo crucis nel De obitu Theodosii, «Ann. Fac. Lett
Siena» 5, 1984, pp. 161 ss., che non pensa però ad una fonte comune più antica
di Ambrogio, ma ad un collegamento fra Ambrogio ed Eusebio. Ad una fonte
anteriore al 395 pensa S. Heid, Der Ursprung der Helenalegende im Pilgerbetrieb
ferusalems, «Jahrb. Ant. Christ.» 32, 1989, pp. 41 ss. che cerca l’origine della
leggenda di Elena negli ambienti gerosolimitani.
XIV. D a l l ’e l m o d i C o s t a n t i n o a l l a c o r o n a f e r r e a 151
parla di un elm o (H .E. 10,8): (Helena) clavos quoque, quibus corpus domini
cum fuerat affixum, portat ad filium. E x quibus iUe frenos composuit, quibus
uteretur ad bellum, et ex aliis galeam nihilominus belli usibus aptam fertur
armasse. Ambrogio parla invece, a più riprese, di diadema o di corona:
(obit. Theod. 47) de uno davo frenos fieri praecepit, de altero diadema intexuit
(cfr. ib. 48 in vertice corona).
Che nella versione originaria si parlasse di elmo e non di corona
sembra conferm ato dal fatto che anche per Ambrogio Elena, cercando la
croce, voleva assicurare al figlio divini muneris auxilium, quo inter proelia
quoque tutus assisteret et periculum non timeret (obit. Theod. 41).
L ’accenno all’uso bellico dei doni (inter proelia) rende indubbiamente
più probabile la trasformazione dei chiodi in elmo che in corona: tale
trasformazione appare anche più strettam ente collegata all’ideologia
costantiniana della vittoria.
La versione che attribuiva ad Elena (e non ad un ignoto personaggio)
il ritrovamento della croce e la trasformazione dei chiodi in morso per le
briglie e in elm o, la versione cioè che ritroviamo allo stato puro in Rufino,
sembra nata all’intem o della dinastia costantiniana e destinata alla sua
glorificazione e ne riflette l’ideologia. La simbologia del freno e dell’elmo,
da usare ambedue in guerra, aderisce fedelm ente alla mentalità di
Costantino, che si era fritto rappresentare sin dall’inizio, in una sua statua,
con in mano «il trofeo della passione salvatrice» (Eus. H E . 9,9,10 s.), che
aveva fatto rappresentare il monogramma di Cristo (che era nello stesso
tempo una croce) sugli scudi dei suoi soldati (Lact. moti. pers. 44,5), che
il monogramma della croce aveva posto sull’elmo nelle sue monete.
L ’idea di alleanza con la divinità, di u n ’alleanza che si manifesta
soprattutto nella protezione divina in guerra, è collegata strettamente con
l’azione di Elena e con i suoi doni, destinati a sancire l ’alleanza del Dio
dei Cristiani con Costantino e la sua dinastia. Ma poiché non possiamo
attribuire all’epoca di Costantino la nascita della ‘leggenda’ di Elena, che
Cirillo ignora ancora nel 351, dobbiamo pensare, per l’attribuzione a
Elena del ritrovamento della croce e dei doni del morso e dell’elmo,
all’epoca di Costanzo, fra il 351 e il 361.
Nella versione di Ambrogio, invece, con la trasformazione dell’elmo in
corona, il motivo della croce ritrovata non è più collegato con il solo
Costantino e con la sua dinastia, ma, al di là dell’apostasia dell’ultimo
Costantinide, Giuliano, con tutti i successori cristiani di Costantino.
Possiamo dunque riconoscere tre fasi distinte, nella cronologia e nel
significato, nella tradizione sull’ inventio crucis: la prima, che risale almeno
alla m età del IV secolo, è rappresentata dalla testimonianza di Cirillo,
vescovo di Gerusalemme, e rivela tale ritrovamento già avvenuto nel 351
152 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA
2 Cyrill. PG 33,351 (ep. ad Constant. 2: alle corone più grandi che vengono da
Dio sono contrapposte le corone di oro e di gemme variopinte con, cui altri,
incoronano l’imperatore, doni presi dalla terra, e che, come tutte le cose della
terra, finiscono). L’idea di utilizzare uno dei chiodi della croce per una corona
gemmata del tipo di quelle ‘terrene’, potrebbe essere venuta proprio da questo
passo di Cirillo.
3 Così L. Laurand, L ’araison funebre de Théodose par saint Ambroise, «Rev. Hist.
Eccl.» 17, 1921, pp. 349 s.; C. Favez, L ’épisode de l’invention de la croix dans l’oraison
funebre de Théodose par saint Ambroise, « Rev. Et. Lat.» 10, 1932, pp. 423 s.
4 Sul problema vd. G. Bonamente, Potere politico e autonomia religiosa, in Italia
Sacra I, voi. 30, Roma 1979, pp. 126 s., n. 125.
5 Cfr. M. Sordi, La concezione politica di Ambrogio, in I Cristiani e l’impero nel
IV secolo, Macerata 1988, p. 146.
X IV . D a l l ’e l m o d i C o s t a n t in o a l l a c o r o n a f e r r e a 153
6 Per il morso simbolo del potere nell’antica Grecia, vd. E. Villari, R chali
come sphragis del tiranno, «Civ. Cl. Crist.» 9, 1988, pp. 117ss.
7Bonamente, op. cit., p. 97; p. 125; p. 133.
154 M a r t a s o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a
descrizione precisa: ib. 47 De uno clavo frenos fieri praecepit (sdì. Helena), de
altero diadema intexuit... Misit itaque filio suo Constantino diadema gemmis
insignitum, quas pretiosior ferro innexas crucis redemptionis divinae gemma
connecteret. Misit et frenum. Utroque usus est Constantinus et fidem transmisit ad
posteros reges.
La precisione della descrizione della corona-diadema (una corona di
gemme e, probabilmente d’oro, com e quelle - puramente terrene -
descritte da Cirillo di Gerusalemme, ma con un cerchio di ferro, all’in
terno, più prezioso di ogni gemma) e la natura del discorso e dell’am
biente in cui il discorso è fatto (la corte di Milano) presuppongono non
solo ima manipolazione della versione originaria che parlava di elmo e
non di corona, ma anche un uso nuovo e reale, ben noto a Milano, dei
chiodi della croce ritrovata (di quella cioè che si riteneva la vera croce),
le cui reliquie, come sappiamo dallo stesso C irillo8, erano ormai diffuse
in tutto il mondo e a cui gli imperatori potevano facilm ente avere accesso.
È interessante osservare che a Milano si trova tuttora viene venerato col
nom e di Santo Chiodo uno dei due doni di Elena a Costantino, il frenum,
cioè il morso per le briglie di cui parla Ambrogio. La prima notizia di esso
risale ad un documento del 18 gennaio 1389, ma la giustificazione che il
documento riporta per le offerte alla Basilica di Santa Tecla, «perché
cattedrale metropolitana e perché vi era riposto ab antiquo uno dei Santi
Chiodi con cui fu crocifisso il Salvatore », rivela che l’oggetto venerato in
Santa Tecla (da cui il 20 marzo del 1461 fu trasportato solennem ente nella
nuova cattedrale, il Duomo, dove si trova attualmente) era ritenuto
presente in Milano dall’antichità9. Senza discutere qui l’autenticità della
reliquia, vale la pena di osservare che con Milano è collegata anche la
famosa «corona ferrea» dal primo cronista che ne parla, Iohannes
Codagnellus nel 123010: egli dice infatti che a Milano fu per 15 anni
Teodorico, gerens regnum Liguriae, que postea dictum est regnum Italiae. Cuius
corona est ferrea a viris ferocibus dicta. La corona ferrea si trova attualmente
a Monza, nel tesoro del Duomo, nei cui inventari essa è attestata almeno
dal X III secolo: per questo, pure in mezzo a errori e a confusioni, appare
significativa l’am bientazione a Milano del regno di Teodorico, che in
realtà governò a Ravenna, proprio in rapporto alla famosa corona (del cui
nom e «ferrea» il cronista ha ormai perduto il significato) e in rapporto
alla sede della corte, ch e nella seconda m età del IV secolo d.C. era
appunto Milano. Altrettanto significativa mi pare la menzione della
Liguria, al centro della quale provincia Milano si trovava nel IV secolo.
La corona ferrea, che è in realtà una corona d’oro, composta di sei
pezzi rettangolari uniti da cerniere e ornati di gemme e di brillanti, con
alTintem o un circolo di ferro che la tradizione ritiene im o dei chiodi della
croce, è, negli inventari, la terza di un gruppo di quattro corone, fra cui
quella di Teodolinda del V II secolo, quella di Agilulfo, pure del VII, ma
scomparsa nel 1804, ed u n’altra, già scomparsa nel 1496 n; essa fu usata nel
IX secolo per l’incoronazione di Berengario I e servi per le incoronazioni
dei re di Italia, Ottone I, Ottone III, e gli imperatori Enrico IV, Corrado
di Franconia e Federico Barbarossa e poi ancora di Carlo IV, Sigismondo,
Carlo V. Con questa corona fu incoronato nel 1805 Napoleone I e nel 1838
Ferdinando I 12.
Prescindendo dalle tradizioni medioevali e dalle vicende successive,
non c ’è dubbio che im a corona-diadema e un morso per le briglie, forgiati
con quelli che si ritenevano i chiodi della vera croce di Cristo, si trovavano
a Milano, in quanto sede della corte imperiale, alla fine del IV secolo ed
erano ufficialmente considerati, proprio com e avvenne più tardi, ai tempi
di Berengario e degli Ottoni e, poi, degli imperatori del sacro Romano
Impero, i simboli del potere dellTm pero Romano-Cristiano. Anche se la
corona ferrea a noi conservata non è quella di cui parla Ambrogio, è certo,
a mio avviso, che ne è la diretta discendente.
Ho detto precedentem ente che la terza fase della tradizione sull’m-
ventio crucis, quella attestata dal solo Ambrogio con la sostituzione della
corona-diadema all’elmo, non può essere u n ’invenzione di Ambrogio e
che appare invece collegata con la reale utilizzazione, da parte dei
successori cristiani di Costanzo, di un chiodo della croce per una corona.
11 Per le quattro corone del tesoro di Monza vd. Elze, op. cit., p. 451; per
l’autenticità della corona di Agilulfo e la sua datazione al VII secolo, vd. lo stesso
Elze, Per la storia del tesoro delle corone di Monza, in Atti del VI Congr. Interri. dell’Alto
Medioevo, Spoleto 1980, pp. 393 ss.
12 Per la corona ferrea e le sue vicende, vd. R. Bombelli, Storia della coronaferrea
dei re d’Italia, Firenze 1870; C.G. Mor, s.v. corona, in E.I., pp. 450 s.
156 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e la tr a d iz io n e d i R o m a
13 Paneg. XI (III), 11-12 per il 291 (si tratta del Panegirico di Mamertino).
14Amm. 14,10,6 e 15,4,13 per il ritorno di Costanzo ad hibema nel 354 e 355.
15 Per Giuliano a Milano, vd. Amm. 15,8,17, per la sua partenza per le Gallie
dopo le nozze con Elena. Per la campagna propagandistica di Iovino nell’Italia
settentrionale, vd. Amm. 21,8,2. Sul problema della scelta di Valentiniano rinvio
al mio articolo, Come Milano divenne capitale, in AA.W., L ’impero romano Cristiano,
Roma 1991, pp. 33 ss.
X IV . D a l l ’ e l m o d i C o s t a n t in o a l l a c o r o n a f e r r e a 157
1 Cfr. N.B. McLynn, Ambrose of Milan, Berkeley-Los Angeles 1994; D.H. Wil
liams, Ambiose of Milan and thè End of thè Arian-Nicene Conflids, Oxford 1995.
2Amm. 26,5,4. Sulla scelta di Milano da parte di Valentiniano I cfr. M. Sordi,
Come Milano divenne capitale, in AAW ., L ’impero romano cristiano, Roma 1991,
pp. 33 ss.
160 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e la t r a d iz io n e d i R o m a
11 B. Moroni, Il conflitto per l’altare della Vittoria, «Rend. Ist. Lomb.», 1996.
12 G. Boissier, La fine del paganesimo, trad. it., 1989, p. 290; cfr. Sordi, Cristiani
e pagani... op. cit., pp. 129 ss. Non tiene conto di questo chi ancora oppone un
164 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e la tr a d iz io n e d i R o m a
concordia religiosa fondata sulla com une ignoranza del mistero, Simmaco
(Rei. 3,10) aveva insistito sull’unanimità del senato e sul dovere degli
imperatori, anche cristiani, di non rinnegare i culti di Rom a (Rei. 3,3).
Ambrogio, che in un primo m om ento aveva risposto solo generica
m ente alle richieste di Simmaco non conoscendone il tenore, in un
secondo momento, ottenuto il testo della Relatio, le confutò puntual
mente: al centro della seconda lettera (ep. 73 Faller = 18 Maur., 4-7) è la
famosa personificazione di Roma che rifiuta la preghiera attribuitale da
Simmaco, negando di dovere agli antichi dei le sue vittorie. Ma soprattutto
ciò che Ambrogio rifiuta è l’affermazione di Simmaco secondo cui la
religione tradizionale è ancora la religio publica dell’impero romano: ep. 73
(= 18), 22 hoc est fidelissimi principes, quod ferre non possumus, quia exprobrant
nobis vestro se nomine diis suis supplicare et vobis non mandantibus sacrilegium
immane committunt dissimulationem pro consensu interpretantes. La libertà
religiosa dei Cristiani è gravemente limitata dalla presenza in un senato,
in cui essi sono numerosi, di un altare pagano con i suoi sacrifici e i suoi
riti (ep. 73 Faller = 18 Maur., 31). Simmaco aveva attribuito al senato
unanime la richiesta della restaurazione dell’altare della Vittoria (Rei. 3,2);
questa unanimità era certamente falsa, visto che già nel 382 Papa Damaso
aveva inviato ad Ambrogio un libello, in cui i senatori cristiani negavano
di aver dato il loro consenso alla richiesta dei pagani (ep. 72 Faller =
17 Maur., 10). Non c ’è dubbio però che l’insistenza con cui negli anni fra
il 384 e il 394 l’opposizione pagana tornò a chiedere agli imperatori
cristiani il ripristino del culto pu bblico, rivela l ’influenza ch e il
paganesimo manteneva nella classe dirigente. Anche se i pagani non
formavano la totalità del senato è certo che essi ne erano ancora i membri
più prestigiosi e influenti. L ’adesione palese e impegnata alla religione
tradizionale infatti non fu mai discriminante nell’impero cristiano e la
vecchia e nuova aristocrazia rivestì in esso cariche importanti: nel 384
Simmaco era prefetto di Roma, Pretestato prefetto del pretorio, Bautone
magister equitum: in questa situazione la decisione del fanciullo Valenti
niano, di resistere alle pressioni di un concistoro favorevole alle richieste
dei pagani, fu un gesto di coraggio (e di questo Ambrogio dà affettuo
samente atto all’imperatore dopo la sua morte nel 392) e una grande
vittoria di Ambrogio.
Parlando del giovane Valentiniano ormai defunto nel 392, Ambrogio
preferirà ricordare la sua ferm a presa di posizione nei riguardi dei pagani
nel 384, piuttosto che lo scontro per le basiliche nel 385-386: più che con
14 Così McLynn, Ambrose of Milan, op. cit., p. 176; 190. Ma per la datazione
San Lorenzo al V secolo si veda ora M. Sannazzaro, Considerazioni sul cimitero
milanese ad Martyres, «Aevum» 70, 1996, p. 84 e n. 20 con bibliografìa.
xv. i r a p p o r t i d i Am b r o g i o c o n g l i im p e r a t o r i d e l suo t e m p o 167
( l 2 aprile del 386), m entre la basilica nova era assediata dalle truppe e lo
stesso Ambrogio col popolo si trovava bloccato nella vetus, la tensione
divenne estremamente grave; alcuni ragazzi, per scherzo, strapparono le
cortine, una parte dei soldati dopo aver avvertito l’imperatore che lo
avrebbero obbedito solo se lo avessero visto con i cattolici alle sacre
funzioni, si im i al popolo che occupava le basiliche, e, dalla corte, partì
contro Ambrogio l’accusa di essere un usurpatore (tyrannus). Il giovedì
santo, improvvisamente, m entre Ambrogio leggeva il libro di Giona,
giunse la notizia che l ’im peratore aveva dato ordine ai soldati di togliere
il blocco ed aveva fatto restituire ai commercianti le somme confiscate.
«Allora compresi - conclude Ambrogio riprendendo il libro di Giona -
che il Signore aveva ucciso il verme antelucano, affinché tutta la città
fosse salva».
Lo scontro con la corte era finito con la vittoria di Ambrogio, ma
la pacificazione era solo apparente: l’urto con Giustina era ancora in
atto al tempo della scoperta e della deposizione dei martiri (17-19 giugno
del 386), che Ambrogio, nella lettera alla sorella (ep. 77 Faller = 22 Maur.)
ricorda com e praesidia maiora, propugnatores [...] qui propugnare possint,
impugnare non soleant [...] stipatores meos. Per essi egli non teme l’invidia:
la terminologia consueta del discorso politico trova la sua piena spiega
zione nell’accusa di essere un tyrannus (usurpatore) che la corte aveva
poco prima rivolto ad Ambrogio per avere organizzato la resistenza
popolare nelle basiliche occupate. In questa atmosfera polem ica si
intende, a mio avviso, la seconda ambasceria affidata dalla corte ad
Ambrogio presso Magno Massimo,5. Magno Massimo, di origine spagnola,
m a comandante degli eserciti rom ani in Britannia, era stato da questi stessi
eserciti acclamato imperatore nel 383 ed era stato responsabile dell’ucci
sione di Graziano, compiuta da Andragazio nello stesso 383. Ambrogio,
com e risulta da una sua lettera a Valentiniano II (ep. 30 Faller = 24 Maur.)
e da un passo del De obitu Valentiniani (28), scritto nel 392, era stato due
volte in missione da Massimo: n ell’autunno del 383, subito dopo la morte
di Graziano, per trattare la pace con l’usurpatore e ottenere che non
invadesse l’Italia col suo esercito, e in un secondo m omento, che alcuni
datano nel 384, altri fia il 385 e il 38616: io credo che la collocazione
cronologica della missione debba tener conto della situazione politica che
la lettera 30 Faller (il nostro docum ento più interessante) sottintende: essa
rivela infatti una forte tensione fra Ambrogio e la corte imperiale e il
timore di accuse (ib. 1): ne cuiusquam sermo veri prius vana intexeret, quam
reditus mens integra et sincera ventatis expressa signaculo manifestaret. Ambrogio
sa di avere dei nem ici a corte e previene le accuse sottolineando la sua
fides, rivelata già dalla sua prima ambasceria (ib. 1;5;6).
La stima che in questa lettera Ambrogio rivela per Bautone e l’elogio
della sua devotio verso l’im peratore e, soprattutto, il fatto che lui e Bautone
sono accomunati dall’accusa di Massimo per averlo ingannato nella prima
legazione (ib. 4 e 6), contribuiscono ad escludere che la tensione fosse con
i pagani della corte, irritati per la controversia dell’altare della Vittoria del
384. Le lamentele di Massimo per la prima legazione erano invece attuali
n ell’aprile del 386, al tempo del conflitto per le basiliche (ep. 76 Faller,
23 = 20 Maur.), anche se, a quell’epoca, i rapporti fra Ambrogio e Mas
simo non erano ancora compromessi, cosicché Ambrogio poteva la
sciare intendere a Valentiniano che la sua posizione era condivisa, oltre
che da Teodosio, anche dalle Gallie e dalle Spagne, cioè da Massimo
stesso (ep. 75 Faller, 14 = 21 Maur.). La tensione rivelata dall’ep. 30 Faller
(= 24 Maur.) e l’insistenza con cui Ambrogio parla del suo dissenso con
Massimo e della sua fides nei riguardi di Valentiniano, non si spiegano nel
384, ma si spiegano assai bene nel 386, dopo il conflitto per le basiliche,
o addirittura, nel 387, nell’imminenza della guerra che Massimo mosse
contro Valentiniano costringendolo a rifugiarsi a Tessalonica e a solle
citare l’intervento di Teodosio: si capisce, alla luce di questa datazione,
l’esortazione a Valentiniano con cui Ambrogio conclude la sua lettera:
vale imperator et esto tutior adversus hominem pacis involucro bellum tegentem
(ep. 30,13), che può essere accostato al sub nomine pacis con cui Pacato, nel
suo Panegirico, scritto nel 389, dopo la vittoria di Teodosio su Massimo e
la m orte di quest’ultimo, introduce il racconto dell’ultima spedizione
dell’usurpatore.
Questo non è d’altra parte l ’unico punto di contatto fra la lettera di
Ambrogio e il pensiero di Latinio Drepanio Pacato: la condanna dei
vescovi gallici per le loro accuse ai Priscillianisti davanti al tribunale di
Massimo si manifesta con argomentazioni molto simili nella lettera a
Valentiniano sulla seconda legazione (ep. 30 Faller, 12), nella seconda
o al 386 pensa invece J.F. Matthews, Western Aristocrades, Oxford 1975, p. 180, n. 6.
Su tutto il problema si vedaJ.R. Palanque, L ’empereur Maxime, in AA.W., Les empe-
reurs romains dEspagne, Paris 1965, pp. 259 ss.
X V . I r a p p o r t i d i A m b r o g i o c o n g l i im p e r a t o r i d e l s u o t e m p o 169
lettera a Studio (che è pure del 386-387: ep. 68 Faller = 26 Maur., 3) e nel
Panegirico di Pacato a Teodosio (Pan. 2 9 ,3 )17.
Ambrogio, che nella prima lettera a Studio (ep. 50 Faller = 25 Maur.),
che lo aveva interrogato sulla liceità per un magistrato cristiano di pronun
ciare sentenze capitali, aveva risposto raccomandando di non applicare la
pena di morte, m a aveva anche aggiunto di non poter scomunicare chi
l’avesse applicata, com e volevano gli eretici, per rispetto àeW auctoritas
dell’Apostolo (san Paolo), nella seconda lettera riprende il problem a per
condannare quei vescovi che sollecitavano sentenze capitali da tribunali
dello stato contro i Priscillianisti, anche se eretici (devios licet afide) e per
assimilarli a quei Giudei che volevano la lapidazione dell’adultera; lo stesso
scandalo nei riguardi dell 'accusator sacerdos si avverte nel pagano Pacato
(Pan. 29,3). Identità di vedute fra Ambrogio e Pacato si avverte nello
sdegno per la m orte di Vallione, fedele collaboratore di Graziano,
costretto al suicidio da Massimo (Pacat. Pan. 28,4; Ambr. ep. 30 Faller,
11 = 24 Maur.) e nella descrizione della vittoria di Teodosio su Massimo
e degli aspetti miracolosi di questa vittoria, di cui il vincitore deve essere
grato a Cristo (Ambr. ep. 74 Faller, 22 = 40 Maur.) o alla Fortuna (Pacat.
Pan. 32,3 ss.)18.
I contatti anche verbali fra Ambrogio e il panegirista pagano sono co
precisi che mi hanno in d otto19 a postulare una conoscenza diretta fra i
due, im a conoscenza che potrebbe risalire proprio alla seconda legazione
di Ambrogio in Gallia. I paragrafi centrali del Panegirico di Pacato, che era
un maggiorente gallico, sono dedicati ai mali della Gallia e all’interces
sione per gli innocenti fautori di Massimo (23-29), ingannati dal ritardo di
Teodosio e convinti forse di una sua connivenza con l’usurpatore.
Ambrogio, che si im pegnerà a fondo nel 394 dopo il Frigido, per ottenere
il perdono di Teodosio per i fautori di Eugenio, nel 390, al tempo di
Tessalonica, aveva già avuto modo di sperimentare l ’efficacia della sua
intercessione presso Teodosio (ep. extra coll. 11 Faller, 11 = 51 Maur.).
È probabile che tale intercessione sia stata esercitata soprattutto a favore
dei comites di Massimo, che Ambrogio aveva conosciuto al tempo della sua
missione presso l’usurpatore e fra i quali doveva trovarsi anche Pacato.
Questo spiega perché Pacato abbia esitato a farsi portavoce di idee e di
giudizi di Ambrogio in un periodo in cui Teodosio, adirato con Ambrogio
Teodosio m orì a Milano nel gennaio del 395 e nel De obitu Theodosii,
il discorso funebre pronunziato davanti alla corte e ai soldati, Ambrogio
tracciò per la prima volta, in chiave teologica, la storia deU’impero
cristiano.
Ma non sul problem a della difesa militare e della stabilità politica che
Ambrogio - che pure non sottovaluta i problemi militari e politici
dell’impero e che considera le guerre un tributo doloroso, ma neces
sario e per questo m eritorio, pagato da Teodosio al suo dovere di
imperatore, com e il giogo che Cristo rende suave et leve (ib. 51) - si
sofferma nel suo bilancio del primo secolo dell’impero cristiano. Egli
attira invece l’attenzione sulla natura stessa del potere che gli imperatori
possiedono e collega la rinnovata vitalità di questo potere con il ritrova
m ento della croce. Tutto il racconto dell’ inventio crucis, che occupa
l’ultima parte del De obitu Theodosii, è stato considerato in passato1 u n ’ag
giunta dello stesso autore, al m om ento della redazione definitiva; in realtà
esso rappresenta, com e è stato giustamente osservato2, la legittimazione
dell’im peratore cristiano e costituisce il vero argom ento dell’intero
discorso, così da fare di esso una sintesi della teologia politica della fine
del IV secolo: il significato di tutto l’excursus ambrosiano sull’inventio crucis
e della strana esegesi della profezia di Zaccaria, che appariva ridicolo al
filologo S. Girolamo, è la redenzione dell’impero e degli imperatori
ottenuta da Elena col dono divino al figlio Costantino dei chiodi della
croce, trasformati, l’uno in freno, l’altro (e qui è la variante più impor
tante che la versione di Ambrogio dell’ inventio presenta rispetto a Paolino
potestas i limiti che ad essa impone la legge divina e naturale diventa il filo
conduttore di tutti gli interventi di Ambrogio davanti agli imperatori.
La Ubertas dicendi diventa il mezzo grazie al quale l’im peratore romano
cristiano da autocrate legibus solutus al quale tutto è lecito per potestatem
tom a ad essere, come il rex delle api celebrato n ell'Esamerone, com e il
biblico David degli scritti esegetici, il princeps dell’ideale augusteo e
traianeo (Plin. Paneg. 65,1 non est princeps super leges sed leges super principem;
cfr. ib. 24,4). Ancora una volta il vescovo Ambrogio pensa all’opera con la
forza nuova che gli viene dal cristianesimo, nella migliore tradizione
rom ana e la rinnova ridandole vitalità.
Alla luce di questo pensiero la penitenza pubblica di Teodosio nel 390
non appare un colpo inflitto alla dignità del potere imperiale, m a un
modo di questo rinnovamento nella continuità. Lo rivela la calda ammira
zione che abbiamo colto nel De obitu Theodosi. Nella capacità della maxima
potestas di riconoscere i suoi limiti in una legge superiore e di concedere
alla libertà del vescovo e del cittadino di richiamarla all’osservanza di
questi limiti, Ambrogio coglie la possibilità del regnum di restare res pubUca.
Questo è il significato della lode, altissima, che Ambrogio rivolge a
Teodosio dopo la sua morte.
INDI CI
a cura di
M a r ia S t e l l a , de T r iz io
INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Jezabel: 42 Oronziano: 87
Orosio: 33, 44, 47, 48, 49, 51, 52, 53, 59,
Lattanzio: 51, 66, 113, 127 113, 114, 136, 137
Liberio: 161 Ottone I: 155
Licinio: 66, 115 Ottone III: 155
Livio: 26, 141, 142, 143
Lucano: 28 Pacato: 33, 34, 37, 38, 43, 44, 59, 70, 77,
Lucilliano: 116, 117, 118, 119, 120, 156 78, 79, 80, 81, 82, 83, 95, 96, 98, 168,
Lupicino: 120 169
Pansophia: 51
Macario: 55, 105, 106 Paula (Sancta) : 107, 149
Madaliano: 129 Paolino: 51, 52, 74, 75, 104, 105, 106,
Magnenzio: 66, 115, 156 108, 125, 149, 150, 152, 161, 173
Malarico: 116, 119, 120 Paolo (di Samosata) : 76
Mamertino: 65, 67, 70, 114, 122 Paolo (San): 86, 96, 169
Marcellina: 12, 42, 68, 71, 72, 73, 161, Paterno: 90, 96, 97, 122, 175
166 Pericle: 140
Marcellino: 55 Pietro (San): 20
Marcello (console): 143 Pietro (Abelardo) vd. Abelardo
Marcello (vescovo): 115,122 Pilato: 54, 105
Marco Aurelio: 50 Platone: 140
Martino (San) : 95 Plinio (il Vecchio): 12, 59, 61
Martirio: 137 Plotino: 28
Massimiano: 65, 67, 114, 115, 122 Plutarco: 140
Massimo (Magno): 33, 34, 35, 36, 37, Polibio: 26
38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 53, 70, Pompeiano: 48, 49, 138
71, 76, 79, 80, 81, 82, 83, 89, 90, 94, Ponticiano : 70
95, 99, 100, 122, 160, 167, 168, 169 Priscilliano: 79
Melchisedech: 30 Probo (Sesto Petronio): 8, 133, 161
Meleto: 140 Procopio: 116, 117, 118, 120, 138
Melquart: 140 Protasio (San): 42, 73, 95
Memorido: 116, 120 Pulcheria: 53
Minerva: 142
Monica: 71 Quinto Cicerone: 50
Saladino: 29, 30, 32 98, 103, 106, 107, 108, 110, 122, 125,
Sallustio: 10, 26 129,130,135,136,147,153,159,160,
Sapore: 117 163,165,168,169,170,171,173,175,
Satiro: 8, 15 176, 177, 178
Scipione: 9, 16, 26, 126, Tertulliano: 56
Seniauco: 116 Tiberio: 60, 141
Sesto Petronio Probo: 133 Traiano: 59, 61
Siagrio: 122 Trifone: 27
Sigismondo: 155
Ursicino: 66, 115, 120
Signore vd. Dio, Gesù
Silvano : 115, 120
Valente: 66,120,121,130,156,159,162
Simmaco: 9, 12, 19, 21, 22, 23, 24, 25, Valentiniano: 8, 19, 25, 66, 67, 100,
26, 40,53, 57,60, 69,78, 82,126,131,
116,118,120,121,129,130,131,156,
132,133,134,135,136,145,146,148,
157, 159, 161, 162, 163, 166
162, 163, 164
Valentiniano II: 12, 13, 17, 19, 21, 22,
Simpliciano: 70, 119,137 23, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41,
Silicio (papa): 95 42, 43, 45, 57, 60, 61, 70, 71, 73, 89,
Sisinio: 137 98, 100, 101, 121, 122, 129, 132, 133,
Socrate (filosofo): 140 135,145,146,159,160,161,163,164,
Socrate (storico): 35, 38,105,106,108, 165, 166, 167, 168, 177
109, 150 Valeriano: 51, 113, 128
Sozomeno: 48, 49, 105, 106, 108, 138, Vallione: 79, 80, 81,169
149, 150 Varrone: 143
Stilicone: 47, 49, 51, 128 Vestali: 133
Studio: 78, 85, 86, 87, 88, 89, 93, 94, 95, Vezio Agorio Pretestato: 132,136,164
96, 98, 100, 101, 122, 147, 169, 176 Vigilio: 122, 137
Sulpicio Severo: 104, 150 Virgilio: 8, 12, 59
Vìrio Nicomaco Flaviano: 69, 132,136
Tacito: 15, 113 Vittore: 35, 117, 120
Taziano: 122 Vittorino: 70, 119
Temistio: 36, 38, 60
Teodoreto: 105, 106, 108, 150 Zaccaria: 54, 55,103,104,150,152,173
Teodosio: 13, 14, 15, 19, 20, 21, 22, 23, Zorobabele: 68
33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 41, 42, 43, Zosimo: 33, 34, 35,36, 38,43,44,48,49,
44, 45, 53, 54, 59, 61, 62, 63, 67, 70, 50, 52, 109, 113, 114, 116, 117, 130,
71, 77, 78, 80, 81, 82, 83, 90, 91, 95, 131, 136, 137, 138
INDICE DEI NOMI DI POPOLI E DI LUOGHI
Adrianopoli: 17, 37, 43, 121, 136, 162 Emilia (Aemilia): 110, 122, 160, 161
Africa: 34, 43, 66, 70, 71, 78, 82, 120, Europa: 29
138, 161 Emona: 45
Agliate: 119 Eraclea: 36, 37
Alemanni: 66, 115, 117, 121, 156 Etruria: 48, 49, 50, 51, 128, 129, 138
Alessandria: 123, 137 Etruschi: 48, 49
Alpi: 17, 35, 38, 39, 43, 44, 45, 65
Antiochia: 123, 170 Fiesole: 129
Appennini: 44 Firenze: 51, 52
Aquileia: 33, 36, 43, 44, 45, 67, 71, 80, Fiorentini: 51, 52, 129
81, 119, 129, 165
Franconia: 155
Armenia: 120
Frigido: 135, 136, 137, 163, 169, 175
Atene: 18, 140
Gallia: 21, 33, 34, 35, 36, 38, 40, 41, 65,
Batavi: 116, 117
70, 76,81,82, 83,89,90, 99,114,115,
Belgrado: 130
116,117,118,120,121,130,156,159,
Beroa: 36, 37 168, 169
Brigetio: 121
Germani: 45
Britanni: 45
Germania: 30
Britannia: 33, 34, 70, 167
Gerusalemme: 54, 55, 104, 105, 106,
Cabyllunum: 79 107, 108, 149, 150, 151, 152, 154
Calvario: 54, 55, 106, 149, 150 Golgota: 104, 106, 107
Campidoglio ( Capitolium): 9, 48, 138 Goti: 17, 48, 49, 80
Cappadocia: 116 Greci: 139
Cartagine: 47, 49, 138 Grecia: 139, 141, 153, 174
Cassidacum: 68
Chunus: 80 Halanus: 80
Como: 115, 119
Costantinopoli: 19, 20, 34, 36, 59, 66, Illirico: 34, 39, 44, 45, 65, 70,115, 116,
85, 94, 98, 109, 115, 118, 120, 121, 117, 119, 120, 161, 170
129, 137, 156, 157, 159, 160 Italia: 33, 34, 35, 36, 38, 39, 41, 43, 52,
Creta: 77 65, 68, 70, 72,110, 111, 114,117,119,
120, 122, 129, 136, 154, 155,161, 167
Danubio: 121
Delo: 77 Liguria: 110, 154, 155, 160, 161
Deutz: 27, 29, 30 Lione: 130
Durosturum: 71, 100, 165 Lugdunum: 130, 182
186 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA
XV. I rapporti di Ambrogio con gli imperatori del suo tempo 159