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Marta Sordi

SA N T ’A M B R O G IO
£ LA TR AD IZIO N E DI ROMA

Institutum Patristicum Augustinianum


Via Paolo VI, 25 - 00193 Roma
2008
PRESENTAZIONE

Sono raccolti in questo volume alcuni tra i numerosi scritti che Marta
Sordi ha dedicato alla figura storica di Ambrogio, il grande padre della
Chiesa, che sul finire del IV secolo fu vescovo a Milano, la città che era
in Occidente la più importante tra le sedi imperiali.
Tali scritti rappresentano una piccola ma significativa parte della
produzione scientifica della professoressa Sordi, che da quasi sessantanni
(la sua prima pubblicazione è del 1950!) impegna instancabilmente intel­
ligenza e dottrina nello studio della storia antica, etnisca, greca, romana
rep ubblicana, im periale e tardoantica, particolarm ente privilegiata
quest’ultima, anche per adesione ideale, lungo il versante dei rapporti tra
il potere e le istituzioni tradizionali di Rom a e la nuova realtà del
Cristianesimo.
Docente per decenni nell’Università Cattolica, in aule e biblioteche site
nei m onumentali edifici che sono parte dello stesso complesso architet­
tonico della veneranda basilica che di Ambrogio conserva i resti mortali,
Marta Sordi ha mirato, nei suoi saggi ambrosiani, a m ettere soprattutto in
luce la forte tradizione romana, di cui il santo patrono di Milano fu
strenuo custode e nella quale seppe innestare col vigore che lo contrad­
distinse lo spirito e la forza innovativa del messaggio cristiano.
Come i precedenti Scrìtti di storia greca, Scritti di storia romana (Milano
2002, Vita e Pensiero) e Impero romano e Cristianesimo (Roma 2007, Istituto
Patristico Augustinianum ), anche questo volume, che libenti animo
offriamo all'illustre Maestra, vuol essere un segno di gratitudine da parte
dei discepoli e dell’intera comunità scientifica nei confronti di chi,
studiando e insegnando, ha offerto - e continua ad offrire! - un raro
esempio di alto rigore intellettuale e morale e di generoso impegno
didattico.
Ed anche questa volta siamo grati a padre Mario Mendoza, che ha
voluto accogliere la nuova pubblicazione nella prestigiosa collana
deU’Istituto religioso romano, che nel suo titolo reca il nobile nom e del
più insigne discepolo di Ambrogio.

Domenico Lassandro - Giuseppe Zecchini


I.
L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA
E AL PAGANESIMO

Delineare l’atteggiamento di Ambrogio di fronte a Roma e alla sua


tradizione civile e religiosa è cogliere in una personalità di eccezione, che
per molti aspetti può assumere un valore paradigmatico, l’incontro e lo
scontro tra l ’impero romano con la sua realtà politica, le sue tradizioni,
la sua ‘cultura’, e il cristianesimo. E domandarsi, sia pure circoscrivendo
il problema ad un caso concreto, se e in che misura il cristianesimo si sia
posto nella vita dell’impero su di una linea di continuità o esclusivamente
su di una linea di rottura; se un rom ano della classe dirigente, un romano
cioè pienam ente consapevole delle tradizioni politiche e culturali della sua
civiltà, potesse convertirsi sinceram ente al cristianesimo conservandosi
nello stesso tempo fedele a quelle tradizioni o se la conversione per essere
autentica dovesse presupporre il rinnegam ento di tutto un modo di vita
e di tutto un patrimonio ideologico1.
La scelta di Ambrogio per una problematica di questo tipo non è
semplicemente di occasione: egli può costituire al contrario, com e dicevo
prima, un caso tipico, paradigmatico. Appartenente ad una famiglia di
antica nobiltà romana, che già alla fine del III secolo aveva tra i suoi
m embri prefetti e consoli2, figlio di un alto funzionario im periale3,

* Ambrosius Episcopiis, Atti del congresso intemazionale di studi ambrosiani n


XVI centenario della elevazione di sant’Ambrogio alla cattedra episcopale
(Milano, 2-7 dicembre 1974), a cura di G. Lazzari, I, Milano 1976, pp. 203-229.

1 È il problema di fondo impostato da A. Momigliano, Il cristianesimo e la


decadenza dell’impero, in R conflitto fra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino
1968 (trad. it.), pp. 6 e 10. Il Momigliano si domanda se sia possibile notare una
frattura nello sviluppo della storia sociale e intellettuale dell’Europa e risponde
riaffermando il diretto rapporto fra il trionfo del cristianesimo e la decadenza
dell’impero romano.
2 Lo afferma Ambrogio stesso, a proposito di una vergine della sua famiglia,
Sotere, che subì il martirio sotto Diocleziano (exhort. virg. 12,82).
3 Paul. Med. vita Ambr. 3,1 posito in admìmstratione praefecturae Gattiarum patre
eius. L’espressione di Paolino, che viene di solito interpretata attribuendo al padre
8 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

impegnato egli stesso, al pari del fratello Satiro, nell'amministrazione


dell’impero, come consularis, cioè com e governatore con funzioni di
giurisdizione di una provincia italiana4, legato da vincoli di amicizia e
addirittura di parentela con le grandi famiglie della nobiltà romana,
cristiana e pagana5, Ambrogio rivela nella sua cultura di base, centrata su
Virgilio e su C icerone6, com e nei suoi giudizi sulla storia del passato, la
tipica formazione mentale dei senatori romani del suo tem po7 e le stesse
‘deformazioni’ di tendenza che li distinguevano8. Divenuto vescovo di
Milano in seguito ad una elezione popolare, nella quale è forse possibile
riconoscere u n ’abile manovra politica del prefetto Probo e dell’impe­
ratore Valentiniano I, interessati ad avere un uomo sicuro ed energico in
una delle più importanti sedi dell’O ccidente9, Ambrogio assunse la sua
nuova carica com e un impegno fedele davanti a Dio e nel giro di pochi

di Ambrogio la prefettura delle Gallie (vd. J.R. Palanque, Saint Ambroise et l’empire
romain, Paris 1933, p. 4), è intesa da A. Paredi (S. Ambrogio e la sua età, Milano 1960,
p. 3 e n. p. 18) con l’attribuzione al padre di Ambrogio di una delle più alte
funzioni di quella prefettura. Per il problema, che è connesso con la data di
nascita di Ambrogio (339-340, secondo il Palanque ed altri - vd. F.H. Dudden,
The Life and Times of S. Ambrose, Oxford 1935, p. 2 - 333-334, secondo il Paredi
ed altri), vd. il commento al passo in questione di M. Pellegrino, Paolino da Milano,
Vita di S. Ambrogio, Roma 1961, pp. 52 s. (con ulteriore bibliografìa).
4 Paul. Med. vita Ambr. 5,1 consularitatis suscepit insignia, ut regeret Liguriam
Aemiliamque provincias.
5 Per le parentele e le amicizie di Ambrogio vd. Palanque, Saint Ambroise...
op. cit., pp. 6 s.; F. Paschoud, Roma Aetema, Neuchàtel 1967, pp. 188 s.
6 Sulla cultura di Ambrogio fondata su Cicerone e Virgilio, vd. Palanque, Saint
Ambroise... op. cit, pp. 6, 135 e 185; sul ciceronianismo di Ambrogio in particolare,
vd. L. Alfonsi, «Vet. Chr.» 20, 1966, pp. 83 ss.; per la dipendenza di Ambrogio da
Virgilio vd. infra, n. p. 18. Per la cultura filosofica di Ambrogio e il suo plato­
nismo vd. P. Courcelle, L ’humanisme chrétien de Saint Ambroise, «Orpheus» 9, 1962,
pp. 21 ss. e ora in Recherches sur Saint Ambroise {Vies anciennes, culture, iconographié),
Paris 1973, su cui vd. anche L.F. Pizzolato, «Aevum» 48, 1974, pp. 500 ss.
7 Sulla formazione culturale della nobiltà romana, cristiana e pagana, fon­
damentalmente simile, vd. L. Gagé, Les classes sodales dans l’empire romain, Paris
1971, p. 393.
8 Caratteristici sono certi giudizi sulla storia romana: la condanna delle sedi­
zioni dei populares (Lepido e Sertorio) nell’ultimo secolo della repubblica e, so­
prattutto, di Cesare (inpsalm. 45 enar. 21,10); l’alta stima per il senato (hex. 5,21,66;
cfr. ib. 16,55); il duro giudizio su Gallieno (ep. 18,7).
9 Sulla parte avuta dal prefetto Probo e dall’imperatore Valentiniano I nell’ele­
zione ‘popolare’ di Ambrogio, vd. ora C. Corbellini, Sesto Petronio Probo e l’elezione
episcopale di Ambrogio, « Rend. Ist. Lomb.» 19, 1975, pp. 181-189.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 9

anni ne accrebbe il prestigio con la sua attività lucidissima ed instancabile


e con la fama della sua santità.
Che cosa resta in Ambrogio vescovo del bagaglio ideale del consularis
romano? Come si pose questo vescovo cristiano di fronte alla realtà
politica e alle tradizioni civili dello stato romano che aveva servito fino agli
anni della sua maturità com e funzionario imperiale, di fronte a quel mos
maiorum che costituiva per la m entalità rom ana un criterio discriminante
di giudizio ed un patrimonio irrinunciabile? C’è un passo AeWep. 18
del 384 che sintetizza assai bene, a mio avviso, il complesso atteggiamento
di Ambrogio davanti alle tradizioni romane: immaginando, sulle tracce di
Simmaco, che sia Rom a stessa a rivolgere la parola agli imperatori, egli
contesta l’affermazione di Simmaco secondo cui il mos di Roma si
identifica nella fedeltà alle caerimoniae avitae e secondo cui era stato
l’antico cultus a sottomettere il mondo: aliis ego disciplinis orbem subegt... Non
in fibris pecudum sed in viribus bellatorum tropea victoriae sunt... Militabat
Camillus, qui sublata Capitolio signa, caesis Tarpeiae rupis triumphatoribus,
reportavit: stravit virtus quos religio non removit. Quid de Atilio loquar, qui
militiam etiam mortis impendit? Africanus non inter Capitolii aras, sed inter
Hannibalis acies triumphum invenit. Ambrogio rifiuta di identificare Roma
con la sua tradizione religiosa {quid mihi veterum exempla profertis? Odi ritus
Neronum ...); afferma anzi che la religione pagana, lungi dall’essere carat­
terizzante per il popolo rom ano era la sola cosa che accomunava Roma
con i barbari (hoc solum habebam in commune cum barbaris, quia Deum antea
nesciebam). Ma nell’atto stesso in cui rigetta come vana, superata, anacro­
nistica, non specifica del mos rom ano la religione dei padri, afferma la
continuità della nuova Roma, che non arrossisce longaeva converti e che
non ha vergogna ad meliora transire, con le disciplinae, cioè con i mores, con
cui la vecchia Roma aveva sottomesso il mondo: la virtus di Camillo, la
militia di Regolo, l’esperienza militare di Scipione. E questa la tradizione
( non annorum canities... sed momm) che Ambrogio ritiene degna di lode.
Rifiuto della tradizione religiosa di Rom a e fedeltà piena alla sua
tradizione politica, militare e civile, identificata neU’autentico mos maiorum
di Roma: questa è la posizione che risulta dall’epistola 18 e che mi sembra
caratterizzare il pensiero di Ambrogio su Roma.
Esaminerò ora separatamente i due aspetti di questo pensiero e gli
atteggiamenti ad essi connessi. Innanzitutto, l ’atteggiamento di Ambrogio
di fronte alla tradizione politica di Roma. L ’ammirazione per l’antica
repubblica, manifestata da Ambrogio nella lettera 18, non è un espediente
di occasione escogitato per rispondere a Sim m aco10: essa tom a, qualche

10 Contro R. Klein, Symmachus, Darmstadt 1971, p. 126, n. 8.


10 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

anno più tardin, in un contesto organico, nel famoso passo déìl'Esamerone


dedicato alle gru (hex. 5,15,50 ss.). Il tipo di costituzione (politia) che egli
descrive è, per gli animali com e per gli uomini, naturalis (cfr. ib. 52 =
a natura accepta) è fondata sulla voluntas libera, non coacta atque servilis12.
Il principio che la governa è l’assunzione in com une del labor com
della dignitas13, l’avvicendamento rigoroso degli oneri e degli o n o ri14, la
solidarietà fra governanti e governati: potestas e servitium sono ugualmente
in funzione del bene comune ed impongono im a devotio tanto fida quanto
più libera, escludendo ogni desertio. L ’ideale repubblicano dell’avvicenda­
m ento delle cariche e della loro tem poraneità si com bina con l’orrore
pure repubblicano per il potere detenuto oltre termini leciti ed assume,
nel rimpianto per il pulcherrimus rerum status15 ormai obliterato, concetti e
toni sallustiani: sed postquam dominandi libido vindicare coepit indebitas et
susceptas nolle deponere potestates... coepit etiam ipsa laboris functio durius
sustineri16. Non c ’è dubbio che il modello qui proposto è quello dell’antica
repubblica romana: antiquae hoc rei publicae munus et instar liberae civitatis
(ib. 52). Questo è generalm ente riconosciuto ed è sentito com e il segno
dell’originalità di Ambrogio rispetto al suo modello, B asilio17. E non c ’è
dubbio che, al pari di Sallustio nel famoso prologo della Catilinaria, anche

11 L’Esamerone comprende, come è noto, discorsi pronunziati da Ambrogio


durante la settimana santa di un anno fra il 386 e il 390 (il Palanque, Saint
Ambroise... op. cit., p. 519, indica come data il 19-24 aprile del 387; anche L. Cracco
Ruggini, R Vescovo Ambrogio e la Historìa Augusta, in Atti del colloquio patavino sulla
H.A., Roma 1963, p. 76, pensa alla primavera del 387).
12 Cfr. hex. 5,51 voluntaria sorte.
13 Cfr. ib. 52 ut communis esset labor, communis dignitas.
14 Cfr. ib. 52 nemini labor gravis, quem dignitas secutura relevaret.
15 Ib. 52 hic erat pulcherrimus rerum status, nec insolescebat quisquam perpetua
potestate, nec diuturno servitio frangebatur.
161 codici più antichi hanno, al posto di indebitas, indeptas: il senso del passo
sarebbe il seguente: «ma dopo che la libidine del potere cominciò a difendere
le cariche raggiunte e a non voler più lasciare quelle ottenute...» (cfr. trad. di
G. Coppa, in S. Ambrogio, Opere, Torino 1969, p. 302).
17 Per la trasposizione dell’episodio delle gru rispetto a quello delle api,
operata da Ambrogio nei confronti del suo modello Basilio di Cesarea, E i; -cf|v
é^afjiiepov 8,3 ss., in modo da cogliere il rapporto cronologico esistente nella storia
romana fra repubblica e impero, vd. J. Béranger, Etude sur Saint Ambroise, in Etudes
de Lettres, Lausanne, Faculté de Lettres, V, 1962, pp. 47 ss. e, ora, in Principatus,
Genève 1973, pp. 303 ss. Per l’inserimento, da parte di Ambrogio, di puntuali
osservazioni sulla vita del suo tempo, vd. Cracco Ruggini, R vescovo Ambrogio,
CLTt. CÌrtmf pp. 70 ss.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 11

Ambrogio trasfigura nel rimpianto l’antica repubblica ed attribuisce ad


essa, ad ima attuazione storica contingente, i caratteri dello stato perfetto,
ideale, secondo natura: m a proprio qui sta, a mio avviso, l’interesse della
posizione politica di Ambrogio. Egli non colloca il suo stato ideale in ima
mitica età dell’oro anteriore alla storia, né lo prospetta com e un dover
essere fuori della storia, ma lo ritiene attuato in un passato storico che la
libido dominandi ha storicamente obliterato, ma di cui un vigoroso impegno
morale può rendere possibile una nuova attuazione. Ne derivano alcune
caratteristiche fondamentali che distinguono Ambrogio dalla maggior
parte degli scrittori ecclesiastici dell’antichità: innanzitutto il suo interesse
per la politica non è mai puramente strumentale, ma autentico, profondo,
basato su convinzioni di principio che fondano in unità organica la
tradizione rom ana e l’ispirazione cristiana; in secondo luogo, la fiducia
nella possibilità di un’attuazione storica dello stato ideale si traduce
naturalmente in impegno morale e politico in vista di questa attuazione
nel presente; infine l’assunzione di questo impegno, che Ambrogio non
scinde mai dai suoi doveri di Vescovo, comporta un'adeguazione realistica
dell’ideale vagheggiato alla situazione storica del presente. Per Ambrogio
V antiqua respublica era stata un pulcherrimus status rerum: ma egli vive sotto
l’impero ed accetta l’impero com e una realtà storica su cui esercitare il
suo impegno. La libertas che egli vede realizzata nell’antica repubblica può
essere salva anche sotto l’im pero se questo sa accettare i limiti necessari
della potestas e quella integrazione di potestas e di servitium in funzione del
bene com une che, al di là della unità o della pluralità del comando,
costituiscono la caratteristica della politia a natura accepta. L ’esempio è
fornito, nello stesso Esamerone (5,21,66 ss.), dalla società delle api sub rege...
liberae (ib. 67). La solidarietà che unisce questa società è assoluta: le api
hanno in com une le leggi, la fatica, il cibo, il lavoro. Tutti sono obbligati
da un solo vincolo: non alteri ius esse, quod alius sibi intellegat non licere; sed
quod liceat, licere omnibus; et quod non liceat omnibus non licere.
In questa società rigorosamente egualitaria il potere supremo è affidato
ad un rex, scelto non in base alla sorte, né alla successione dinastica, né
all’elezione della moltitudine, m a a chiari segni di natura, la grandezza e
la bellezza del corpo e, soprattutto, la mansuetudo morum. E Ambrogio
spiega: sunt enim leges naturae non scriptae litteris, sed impressae moribus; ut
leniores sint qui maxima potestate potiuntur (ib. 68). Il segno dell’elezione
naturale e divina del rex è la mansuetudo morum: la concezione ellenistica
e cesariana della clementia si fonde spontaneamente con il precetto
cristiano della misericordia. Anche il regnum dunque può essere per
Ambrogio secondo natura ed anche nel regnum la. fida devotio verso la maxima
potestas può non essere incompatibile con la libertas. La terminologia che
Ambrogio adotta per esprimere le due form e di governo, l’antiqua respu-
12 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

blica e il regnum, è identica: ideo nulla desertio quia devotio naturalis, ideo tuta
custodia quia voluntas libera - aveva detto delle gru (ib. 50); licet positae sub
rege, sunt tamen liberae. Nam et praerogativam iudicii tenent et fidae devotionis
affectum - dice delle api (ib. 68). In effetti un regnum così concepito è
anch’esso, secondo la terminologia romana, res publica, perché fondato
sulla com unione di tutti nei diritti e nei doveri. Le idee di Ambrogio sullo
stato e sulla Ubertas non sono di per sé né esclusive né originali: le varianti
che Ambrogio introduce nella descrizione, derivata dal suo modello greco,
Basilio, della società delle gru e delle api, derivano tutte dalla sua
formazione culturale, tipica di un uomo della classe dirigente romana:
reminiscenze anche letterali di Virgilio e di Plinio sono particolarmente
sensibili nel passo relativo alle api e sono state giustamente rilevate18;
evidente è pure l’origine stoica, di quello stoicismo più o m eno consa­
pevole che costituiva naturaliter il bagaglio ideologico di ogni uomo
politico rom ano, dell’insistenza am brosiana sulla uguaglianza e sul
carattere comunitario dello stato ideale.
L ’originalità vera di Ambrogio, e, insieme, la prova che le sue idee sullo
stato non sono sfoggi eruditi di occasione o vuota ripetizione di luoghi
comuni vanno cercate nello sviluppo coerente e personalissimo che, delle
sue affermazioni teoriche, Ambrogio dà con la sua condotta pratica e, in
particolare, con gli atteggiamenti da lui assunti di fronte al potere
imperiale, che si rivelano, ad un attento esame, l’attuazione consapevole
del rapporto libertas,/potestas, teorizzato nei suoi scritti.
Una prima occasione per ricordare all’imperatore i limiti della sua
potestas è offerta ad Ambrogio dalla già ricordata relatio di Simmaco del
384: l’epistola 17, indirizzata dal vescovo a Valentiniano II quando il testo
esatto della relatio non gli era ancora noto, inizia con una chiara delimi­
tazione dei poteri imperiali: cum omnes homines, qui sub ditione Romana sunt
vobis militent imperatoribus terrarum, et principibus, tum ipsi vos omnipotenti Deo
et sacrae fidei militatis. E più avanti (ib. 13) egli non esita a minacciare
all’imperatore u n’aperta resistenza se egli cedesse alle pressioni pagane.
Il pensiero di Ambrogio si precisa ancor più nella questione delle
basiliche, del 385-386. Nella lettera a M arcellina19 Ambrogio riferisce la
risposta all’ordine imperiale di consegnare agli ariani la chiesa: la potestas

leCfr. in particolare Verg. georg. 4,149 s.; Plin. nat. 11,4,11 ss. Sulle remini­
scenze classiche, da Seneca, ma soprattutto da Virgilio, dell’episodio delle api,
vd. L. Alfonsi in «Vet. Chr.» 2, 1965, pp. 129 ss.
19 Ep. 20,19 Nec mihi fas tradere; nec tibi accipere, Imperator, expedit, domum D
existimas auferendam? AUegatur imperatori licere omnia, ipsius esse universa. Respondeo:
Noli te gravare, imperator, ut putes te in ea, quae divina sunt, imperiale aliquod ius habere.
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dell’imperatore trova il suo limite nella potestas di Dio a cui l’imperatore


stesso è subditus ed al quale deve il suo impero. Ma Ambrogio si spinge
più oltre: neppure la domus di un privato potrebbe essere iure violata dal
principe. Egli respinge dunque l ’affermazione dei cortigiani imperiali
secondo cui imperatori licere omnia. Su questo punto Ambrogio tom a con
molta chiarezza nella lettera indirizzata nel 386 allo stesso Valentiniano
(ep. 21,9) ricordandogli le leggi da lui fatte: quod cum praescripsisti aliis,
praescripsisti et tibi: leges enim imperatorfert, quas primus ipse custodiat. L ’impe­
ratore è tenuto dunque dalle sue leggi al pari dei suoi sudditi e non può
essere lecito a lui ciò che è illecito ad altri. E il vincolo comune che
obbliga tutti nell’ideale regnum delle api dell’Esamerone, contem poraneo o
di poco posteriore a questa lettera; ma qui Ambrogio completa l’idea
dell 'Esamerone. la validità della legge umana dipende dalla sua conformità
alla legge divina20. Solo in quanto aderente alla legge divina e naturale la
legge positiva può inspirare fìdem e non extorquere timidis commutationem.
Come la devotio naturalis delle gru e Infida devotio delle api così la fides degli
uomini è possibile solo quando la maxima potestas non impone il suo
arbitrio ma aderisce essa stessa alle leggi della Natura e di Dio e lascia
spazio adeguato alla libertas. Lo scontro con Teodosio per la sinagoga di
Callinico permette nel 388 ad Ambrogio di precisare ulteriormente la sua
idea del rapporto fra libertas e potestas nell’impero. Non intendo qui
discutere il contenuto delle richieste di Ambrogio nel 388, che per molti
aspetti possono lasciare perplessi. Mi interessa invece richiamare l’atten­
zione sulla im portanza ch e A m brogio an n ette alla libertas dicendi
n ell’epistola 40, indirizzata a Teodosio per la faccenda di Callinico, come
nella più famosa epistola 51, indirizzata nel 390 allo stesso imperatore per
il massacro di Tessalonica, e n ell’epistola 57 indirizzata nel 392 ad Eugenio
per invitarlo a non cedere di fronte alle rinnovate richieste dei pagani.
L ’epistola 40 è, da questo punto di vista, la più interessante. Dopo aver
pregato l’imperatore di ascoltarlo patienter, Ambrogio aggiunge {ep. 40,2):
Sed neque imperiale est libertatem dicendi negare, neque sacerdotale, quod sentias,
non dicere. Nihil enim in vobis imperatoribus tam populare et tam amabile est quam
Ubertatem etiam in iis diligere, qui obsequio militiae vobis subditi sunt. Siquidem
hoc interest inter bonos et malos principes, quod boni libertatem amant, servitutem
improbi. Sul dovere specialissimo dei sacerdotes di conservare questa Ubertas
e sul dovere degli im peratori di ascoltarli, Ambrogio insiste a lungo nella

Noli te extollere sed si vis diutius imperare, esto Deo subditus (cfr. ep. 12,10 dei 379 a
Graziano divino electe indicio; cfr. ep. 24,3).
20 Ep. 21,10 legem enim tuam nollem esse supra Dei legem. Dei lex nos docuit qu
sequamur; humanae leges hoc docere non possunt.
14 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

stessa lettera: niente è per un sacerdos più pericoloso davanti a Dio e più
vergognoso davanti agli uomini, quam quod sentiat non Ubere denuntiare. Et
tamen, si in causis reipublicae loquar, quamvis etiam illic iustitia servanda sit, non
tanto adstringar metu, si non audiar: in causa vero Dei quem audies si sacerdotem
non audies?... Quis tibi verum audebit dicere si sacerdos non audeat?
La Ubertas dicendi dei sacerdos diventa così per Ambrogio il banco di
prova di un potere legittimo e non tirannico e il presidio ultimo di tutte
le libertà: il dovere di non tacere per paura, anche in causis reipublicae,
quando la iustitia è chiamata in causa, ma soprattutto in causa D à, il dovere
di richiamare sempre alla maxima potestas i limiti che ad essa im pone la
legge divina e naturale diventa il leitmotiv di tutti gli interventi di
Ambrogio di fronte agli im peratori21. La Ubertas dicendi, la vecchia
icappT|(ria della democrazia greca, diventa il mezzo attraverso il quale
l’imperatore romano, da autocrate legibus solutus, al quale tutto è lecito per
potestatem, tom a ad essere, com e il rex delle api celebrato nell’Esamerone,
com e il biblico David esaltato da Ambrogio negli scritti esegetici22, il
princeps dell’ideale augusteo, in nom e del quale l’opposizione senatoria
più illuminata aveva lottato coraggiosamente nel I secolo contro le involu­
zioni autocratiche di Nerone e dei Flavi.
Ancora una volta il vescovo Ambrogio pensa ed opera, con la forza
nuova che gli viene dal cristianesimo, nella migliore tradizione romana e
ridà vitalità a quella tradizione rinnovandola: alla luce di queste conside­
razioni anche la penitenza pubblica accettata da Teodosio nel 390, lungi
dall’apparire un colpo inflitto alla dignità dello stato rom ano e del potere
imperiale, si manifesta com e un modo di questo rinnovamento nella
continuità.
Lo rivela la calda ammirazione con cui Ambrogio ricorda nel discorso
in m orte di Teodosio agli inizi del 395 il gesto compiuto dall’im peratore2S.
Nella capacità della mamma potestas di riconoscere i suoi limiti in im a legge
superiore e di concedere alla libertà del vescovo e del cittadino il diritto
di richiamarla all’osservanza di questi limiti Ambrogio aveva colto la
possibilità del regnum di restare res pubUca. Questo è il significato, altissimo,
della lode che Ambrogio rivolge a Teodosio dopo la sua morte: tale lode
presuppone infatti quella coesistenza fra l’accettazione lealistica (la fida
devotio) di un potere supremo e la conservazione da parte del suddito della
libertas che Ambrogio aveva teorizzato com e essenziale ad im a Ubera civitas
nell’Esamerone e che aveva vissuto nelle due prese di posizione di fronte

21 Cfr. ep. 51,3; 57,1; 6,9.


22 In psaim. 118 serm. 16,32.
23 Obit. Theod. 34.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 15

al potere imperiale. L ’assoggettamento spontàneo dell’imperatore ai


doveri di tutti restituisce infatti dignità all’ubbidienza dei sudditi, intesa
come adesione volontaria e quindi libera ai suoi com andi24. La legge
fondamentale di un com portam ento civile resta così per Ambrogio la
devozione di tutti al bene com une, la solidarietà di tutti di fronte allo stato
come res publica: essa com porta la necessità di sacrificare i sentimenti e gli
interessi privati, com e egli ricorda perentoriam ente al giovane imperatore
Onorio, desideroso di accompagnare in O riente le spoglie del padre
Teod osio25 e com e, prima, aveva sperimentato in se stesso, quando al
tempo della m orte del fratello Satiro, aveva ringraziato Dio quia in hoc
omnium metu, cum omnia motibus sint sint barbaricis, communem maerorem
privato dolore transegi et in me conversum est quidquid timebamus in omnibus26.
La solidarietà civica assume cosi, spontaneamente, i caratteri della carità
cristiana, com e n ell’episodio della vendita dei vasi sacri per riscattare i
prigionieri e restituire i mariti alle mogli, i figli ai genitori, i cittadini alla
patria27 e com e nell’episodio dell’espulsione dei peregrini da Roma durante
im a carestia, nel quale lo sdegno di Ambrogio per la rottura egoistica della
solidarietà e la sua convinzione religiosa che misericordia numquam desti­
tuitur sed adiuvatur, si fondono spontaneam ente con considerazioni
politiche e socioeconom iche di estremo realism o28. Lo stesso vale per la
condanna del prestito ad interesse su cui è imperniato il de Tobia del 389 c.:
anche in questo caso la condanna morale e religiosa dell’usura, che ha
una lunga tradizione precedente sia negli scrittori romani, da Catone a
Cicerone a Tacito, sia nella letteratura biblica ed ecclesiastica (e, soprat­

24 Le osservazioni che Ambrogio svolge in questo senso commentando l’epi­


sodio biblico della sete di David (Apoi. Dav. 7,34 exercuit etiam subditos ad virtutis
offidum, ut etiam per pericula regali imperio voluntarii milites obtemperarent) appaiono
lo sviluppo coerente delle osservazioni deWEsamerone sulla tuta custodia quia
voluntas libera delle gru (5,15,51) o sulla loro assunzione voluntaria sorte del labor.
25 Obit. Theod. 55 Nec hoc quidem tibi laboriosum, nisi te teneret res publica, quam boni
imperatores et parentibus et filiis praetulerunt. Denique ideo te imperatorem pater fecit,
Dominus confirmavit, ut non soli militares patri sed omnibus imperares.
26De excessu fratris sui Satyri 1,1. Satiro era morto nel 378, l’anno della sconfitta
di Adrianopoli, mentre si temeva dalle Alpi l’invasione degli Alamanni Lenziesi
(cfr. Paredi, 5. Ambrogio... op. cit, p. 239). Secondo il Palanque (Saint Ambroise...
op. cit., p. 488), invece, l’opera è del 375 e l’accenno riguarda la minaccia dei
Quadi e dei Sarmati.
27 Off. 2,15,70; 28,136.
28 Off. 3,7,45 ss. e, in particolare, 50. Su questo episodio riferibile forse alle
carestie del 376 o del 384 vd. Ruggini, Economia e società nell’Italia annonaria, Milano
1961, pp. 116 ss.
16 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

tutto, in Basilio), ma che raggiunge in Ambrogio una singolare intransi­


genza, si associa e si integra nello scritto del vescovo di Milano con una
sensibilità acuta dei problemi econom ici e sociali del suo tempo: ad un
prestito ad interesse destinato non a rilanciare attività produttive ma a
risolversi in un dispendioso allargamento dei consumi, Ambrogio si
oppone in nome, insieme, delle sue convinzioni religiose e dell’interesse
com une, suggeritogli forse dalla competenza amministrativa acquisita
negli anni della sua consularitasM.
Con la coscienza sempre presente in Ambrogio della necessità della
solidarietà di tutti al servizio del bene com une si spiega infine l’attenzione
che egli concede costantemente nei suoi scritti al problema militare e a
quello della difesa dell’impero dai barbari. Nel già citato passo dell’jBjo-
merone (5,15,52) la decadenza dell’antica repubblica è in stretto rapporto
con la mutata concezione della militia: posteaquam militia non ius commune
coepit esse sed, servitus. Ed Ambrogio deplora la negligenza con cui si
svolgono negli accampamenti i turni di guardia, l’indisciplina e l’incuria
con cui si accettano i servizi pericolosi imposti dall’imperatore. In diretta
connessione con questa valutazione della storia del passato e delle presenti
difficoltà dell’impero si pone nella lettera 18 la celebrazione, dalla quale
appunto siamo partiti, delle disciplinae con cui l’antica Roma aveva sotto­
messo il mondo. La virtù che Ambrogio esalta in Camillo, in Attilio
Regolo, in Scipione è l’antica disciplina militare romana, fatta di fortezza,
di vigilanza, di resistenza alla fatica, di dedizione alla causa comune, di
fides. Se dalla respublica ideale delle gru si passa al regnum ideale delle api,
il discorso non cambia: la vita dell’alveare è descritta com e quella di un
accampamento ordinato e vigilante (hex. 5,21,69) ed è esaltata la fedeltà
delle api che regem suum summa protectione defendunt et perire pro eo pulchrum
putant (ib. 71). La stessa fedeltà, che ha come condizione e contropartita
la devozione dell’imperatore all’utile comune, è chiesta per il presente da
Ambrogio ai soldati dell’im pero30.
Il richiamo all’antica disciplina militare è collegato in Ambrogio con
la percezione accorata dei difficili problemi della difesa dell’impero: pochi
scrittori ecclesiastici si manifestano così personalmente coinvolti com e lui
nelle vicende temporali dell’impero romano. L ’uso della prima persona

29 Sul significato politico ed economico del de Tobia vd. ora M. Giaccherò,


Ambrosii de Tobia, Genova 1968, in particolare pp. 71 e 80; per la data (389 c.)
ib. p. 15.
30 Obit. Theod. 6 ss. Fides militum imperatoris perfecta est aetas; est enim perfecta aetas
ubi perfecta est virtus. Reciproca haec: quia et fides imperatoris militum virtus est...
Theodosii fides... fuit vestra victoria: vestra fides filiorum eius fortitudo sit.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 17

plurale mi sembra estremamente significativo nel ricordo della sconfitta di


Adrianopoli e nel preannuncio della vittoria di Graziano sui G oti31 come
nell’accenno alle fortificazioni preparate sulle Alpi prima della morte di
Valentiniano I I 32. Il lealismo di Ambrogio verso l’impero, la sua parteci­
pazione alle sorti tem porali dello stato di cui è cittadino, è parte
integrante del suo cristianesimo, è un aspetto della sua carità. L ’antico
rimprovero che il pagano Celso muoveva nel II secolo ai cristiani, di
mancare di solidarietà e quindi di amore nei riguardi della società umana
e dello stato di cui facevano parte, appare confutato alla radice dalla
concezione politico-religiosa di Ambrogio.
Alla luce di questa concezione si spiega anche l’atteggiamento di
Ambrogio verso i barbari, che sarebbe anacronistico e antistorico, oltre
che ingiusto, definire razzista: com e in genere i Romani, Ambrogio non
è razzista. Essere barbaro non significa per lui appartenere ad una specie
inferiore dell’umanità, ma non appartenere all’ordinam ento civile e
politico di R om a33.
L ’orrore per i barbari che minacciano i confini dell’impero e ne
devastano le terre uccidendo, distruggendo, violentando34, non deriva in

31 Fid. 2,16,139 quod, qui perfidiae alienae poenam excipimus, fidei catholicae in te
vigentis habituri sumus auxilium. Su questo passo e sulla sua datazione vd. ora
G. Gottlieb, Ambrosius von Mailand und Kaiser Gratian, Gòttingen 1973, pp. 12 ss.
(e p. 25): dopo Adrianopoli, ma quando la situazione era già migliorata.
32 Obit. Valent. 4 Nos adhuc murum Alpibus addere parabamus.
33II barbaro può in ogni momento divenire romano e divenire cristiano e
nessuna prevenzione esiste in questo caso nei suoi confronti. Da questo punto di
vista 0 barbaro è semplicemente un uomo come tutti gli altri e a lui è dovuta come
a tutti la carità del vescovo Ambrogio, come al tempo dell’occupazione delle
basiliche, quando i soldati goti, mandati da Valentiniano per costringere
Ambrogio alla consegna, si unirono ai fedeli: ep. 20,31. Per l’atteggiamento dei
cristiani di quest’epoca verso i barbari vd. EA. Thompson, E cristianesimo e i barbari
del Nord, in Momigliano, U conflitto..., pp. 67 s. (pp. 70 e 76 l’episodio di Fritìgild
regina dei Marcomanni e i suoi contatti con Ambrogio). Sul patriottismo romano
di Ambrogio, che condiziona l’atteggiamento verso i barbari, vd. Palanque, Saint
Ambroise... op. cit., pp. 330 ss.
34 In fid. 2,16,140 Ambrogio ricorda a Graziano le violenze dell’invasione gotica
nelle terre della Tracia, della Dacia ripense, della Mesia, della Valeria Panno­
niorum e la minaccia portata alla stessa Italia; in ep. 24,8, del 387, egli ricorda a
proposito del suo discorso a Massimo barbarorum auxilia et turmas translimitanas che
l’usurpatore, barbarorum stipatus agminibus, minacciava imperio Romano... et Italiae.
Contro i barbari la natura stessa sembra aver fornito un muro (hex. 2,3,12: il Reno
Romani memorandus adversus feras gentes murus imperii); per il muro sulle Alpi,
obit. Valent. 4.
18 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

Ambrogio da un antagonismo etnico, ma dall’idea stessa che egli ha


dell’impero romano com e res publica potenzialmente universale, destinata
a garantire un ordinato e libero vivere umano sulla terra, aperto come
la Chiesa a tutti gli uomini ed interlocutore unico, sul piano comunitario,
della Chiesa.
I confini visibili dell’uno e dell’altra sono pressoché coincidenti, e
essere al di fuori dell’uno significa di fatto, nella maggior parte dei casi,
essere fuori anche dall’altra. La conversione dell’impero al cristianesimo
ha rafforzato, secondo Ambrogio, questa funzione unica, insostituibile
di R om a35.
La lotta di Ambrogio verso ciò che ancora resta del paganesimo nello
stato romano, la sua intransigenza totale verso ciò che Rom a « ha ancora
in comune con i barbari», per riprendere una delle affermazioni della
lettera 18 da cui siamo partiti, vanno forse considerate un aspetto, solo in
apparenza paradossale, della fedeltà di Ambrogio a Rom a e alla sua
tradizione politica.
Non c ’è dubbio che nella lotta contro il paganesimo Ambrogio ebbe,
in O ccidente, una parte decisiva: nell’impero cristiano fino ad Ambrogio,
infatti, la polem ica fra cristianesimo e paganesimo, fra i seguaci della
vecchia religione di Stato e quelli della nuova religione degli imperatori,
non aveva raggiunto, alm eno in Occidente, l’asprezza che aveva caratte­
rizzato ad Atene ed in altre regioni deH’O riente l ’azione di Giuliano e
degli intellettuali a lui legati36. In O riente ciò che estraniava la vecchia
aristocrazia dal cristianesimo e la teneva lontana da esso era, più ancora
che la fedeltà ai vecchi riti, la religione della cultura, la ambizione di poter
conquistare con la ragione quella Verità e quella salvezza che il cristia­
nesimo proponeva alla fe d e 37: in O riente l’opposto di cristiano era "EM.r|v,
cioè l’uomo formato dalla cultura greca, dalla filosofia, in contrasto con
la gente com une, semplice e fideista. In Occidente l’opposto di cristiano
era, al tempo di Ambrogio, gentilis e diventerà presto paganus, cioè l’uomo
dei villaggi, della campagna ancora fedele ai vecchi riti, abbandonati dagli

55 Sull’atteggiamento verso i barbari di Orosio, affine a quello di Ambrog


vd. E. Corsini, Introduzione alla storia di Orosio, Torino 1968, p. 186 n. 90.
36 Sulla critica alla politica religiosa di Giuliano negli ambienti pagani più
moderati vd. ora L. Cracco Ruggini, Simboli di battaglia ideologica nel tardo ellenismo,
Pisa 1972, pp. 48 ss. (cfr. anche p. 18 sulla convivenza e la tolleranza nel IV secolo
in Occidente e anche in Oriente di cristiani e pagani anche all’intemo degli stessi
nuclei familiari).
37 H.I. Marrou, Sinesio di Cirene, in Momigliano, Il conflitto..., p. 157.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 19

abitanti delle città. I ‘pagani’ delle classi dirigènti, della vecchia classe
senatoria, in particolare, preferivano usare nei riguardi del cristianesimo
un linguaggio conciliante, che tendeva a m ettere in evidenza i punti di
accordo più che quelli di divergenza: si insisteva sul summus deus della
religiosità solare, sulla Provvidenza della divinitas, sulla sua onniscienza e
onnipotenza. E il linguaggio dei Panegirici costantiniani com e del de rebus
bellicis; è, in fondo, anche il linguaggio di Simmaco, che in nome del
mistero che avvolge la divinità giustifica il pluralismo dei culti. A questa
concezione della divinità sincretistica e agnostica Ambrogio oppone
n ell’episodio già ricordato del 384, com e negli scontri più tardi in
occasione dei rinnovati tentativi al tempo di Valentiniano II, di Teodosio
e di Eugenio, u n ’intransigenza assoluta: sarebbe erroneo tuttavia attribuire
a questa intransigenza la proibizione legale del paganesimo in cui
sboccherà la legislazione antipagana di Teod osio38. Per intendere nel suo
autentico significato la posizione di Ambrogio nella lotta antipagana, è
opportuno esaminare brevemente le varie tappe della legislazione teodo-
siana contro il paganesimo.
Dopo la tolleranza di Gioviano e di Valentiniano I la politica repressiva
attuata già da Costanzo contro il paganesim o39 era stata ripresa con
decisione in O riente da Teodosio: è del 21 dicembre del 381 un editto
pubblicato a Costantinopoli nel quale si sottopone a giudizio velut vesanus
et sacrilegus chi abbia partecipato a sacrifìci diurni o notturni e sia entrato
per l’esecuzione huvuscemodi sceleris in un tempio e si ammonisce: castis
deum precibus excolendum, non diris carminibus profanandum40.
La definizione di chi compie atti di culto pagani com e vesanus richiama
l’editto di Tessalonica41 emesso dallo stesso Teodosio il 27 febbraio del
380: tale editto colpisce specialmente gli eretici, ma riguarda cunctos populos
quos clementiae nostrae regit temperamentum: a tutti i sudditi dell’impero,
quindi implicitamente anche ai pagani, l’editto impone di seguire la fede
quam Petrum apostolum tradidisse Romanis religio... declarat. Né l’editto di

38 La politica ecclesiastica di Teodosio non è spiegabile con l’influenza di


Ambrogio (vd. W. Ensslin, Die Religionspolitik des Kaisers Theodosius, Mùnchen 1953).
Anche per Graziano studi recenti tendono a ridurre o almeno a ritardare l’inizio
della influenza di Ambrogio (cfr. Gottlieb, Ambrosius von Mailand..., passim). Per
una diversa impostazione del problema vd. ora P. Nautin, Les premières relations
d’Ambroise avec l’empereur Gratien, in Ambroise de Milan, Dix études rassemblées par
Y.M. Duval, Paris 1974.
39 Cod. Theod. 16,10,2; 4,5,6.
40 Cod. Theod. 16,10,7 (indirizzato al prefetto del pretorio Floro).
41 Cod. Theod. 16,1,2 dementes vesanosque.
20 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

Tessalonica né quello di Costantinopoli42 sono nati certam ente dalle


pressioni di Ambrogio, che a quell’epoca non aveva nessuna influenza su
Teodosio. Essi appaiono invece la ripresa della drastica politica antipagana
di Costanzo ed obbediscono alla logica che la repressione religiosa aveva
sempre assunto nella tradizione romana, non solo durante l’impero
cristiano, ma anche e soprattutto durante l ’impero pagano e la repubblica:
il culto da reprim ere è assimilato alla magia e chi lo pratica è vesanus ac
sacrilegusM. La repressione si proclama dunque diretta non contro la
religione ma contro una perversione della religione, contro im a profa­
nazione colpevole e pericolosa per lo stato.
Non m anca n ell’editto del 380 neppure l ’appello, consueto alla
m entalità romana, alla tradizione patria: presentando la religione di stato
innanzitutto com e la religio tradita dall’apostolo Pietro ai Romani,
Teodosio si richiama al mos maiorum, in nom e del quale la repressione
diventa legittima. Sulla linea degli editti del 380 e del 381 appaiono gli
editti, pure teodosiani, del 391 e del 392i4: la novità è costituita dall’esten­
sione a tutto l’impero, anche all’O ccidente, delle misure già valide per
l’Oriente, e dalla minuzia giuridica con cui sono descritte le colpe ed è
prevista la repressione in tutti gli ambienti e in tutte le classi. Il contenuto
(divieto di tutti i sacrifici, di ogni atto di culto pagano, dell’ingresso nei
templi) è identico e identico è lo spirito che li anim a45. Gli atti tradizionali
della pietà pagana diventano colpe violatae religionis-, l’esecuzione di un
sacrificio o la consultazione delle viscere costituiscono una colpa contro
lo stato (un delitto di maiestas) anche se la consultazione non riguarda
direttamente la salutem prindpum, in quanto basta ad, criminis molem l’aver
voluto natura ipsius leges rescindere, inlicita perscrutari, occulta reeludere, inter­
dicta temptare46. La term inologia usata riecheggia quella che l ’antica
legislazione romana, dal senatoconsulto de Bacchanalibus all’editto di
Diocleziano contro i Manichei, aveva adottata per colpire le superstizioni

42 Né quello del 20 marzo 382 indirizzato al dux dell’Osroene: Cod. Theod.


16,10,8. Lo stesso può dirsi dell’editto del 385 (Cod. Theod. 16,10,9).
43 Sulla repressione della magia presente in molte pratiche pagane e sulla
assimilazione nella legislazione del IV secolo di paganesimo e magia vd. AA. Barb,
La sopravvivenza delle arti magiche, in Momigliano, E conflitto..., pp. 113 ss. (in parti­
colare pp. 122 ss.).
44 Cod. Theod. 16,10,10 del 24 febbraio 391, emesso a Milano; Cod. Theod. 16,11
del 16 giugno 391 emesso ad Aquileia; ib. 10,12 dell’8 novembre 392 emesso a
Costantinopoli.
45 E>. 10,10 nemo se hostiis polluat... profano ritui; 10,11 polluta loca sacrilegus...', 10,12
secretiore piaculo.
46 E>. 10,12,1 ad exemplum maiestatis reus.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 21

straniere, le pratiche magiche e la divinazione illecita, i torbidi riti contro


la natura e la tradizione che era nefas praticare.
La stretta dipendenza delle misure teodosiane del 391-392 da quelle del
580-381 induce ad escludere che l’azione di Ambrogio sia stata determi­
nante n ell’adozione di tali misure anche se, com e è noto, gli anni dopo
la penitenza per l’eccidio di Tessalonica sono quelli in cui l’influenza del
vescovo sull’im peratore appare massima e se il primo degli editti del 391
fu deciso proprio a Milano. In realtà la lotta di Ambrogio contro il
paganesimo si muove, anche a livello politico, su di una linea diversa da
quella di Teodosio e dei suoi predecessori (salvo forse Graziano, le cui
misure, note solo attraverso la controversia fra Simmaco e Ambrogio,
riflettono l’ispirazione di quest’ultim o). Docum ento fondamentale del
pensiero di Ambrogio su questo punto restano naturalmente le due
notissime lettere a Valentiniano II (la 17 e la 18) sulla petizione presentata
da Simmaco nel 384; in un certo senso, però, più significativa mi sembra
l ’epistola 57 ad Eugenio della fine del 392, o del 39347, nella quale
Ambrogio stesso riassume i suoi interventi presso il potere politico contro
i pagani dal 384 al 392. E interessante osservare che in questa sintesi
retrospettiva ciò che costituisce per il vescovo il nucleo essenziale delle
richieste pagane, di quella del 384 a Valentiniano II, come di quelle del
388 a Teodosio e poi ancora a Valentiniano in Gallia e, ora, ad Eugenio
e della sua opposizione a queste richieste, non è la restaurazione
dell’altare della Vittoria e dei culti pagani in genere, ma la restituzione ai
templi dei privilegi e dei beni confiscati48.
L ’insistenza con cui una legatio ufficiale del senato romano aveva
continuato a chiedere, dal 384 al 392, nonostante le leggi imperiali contro
i sacrifici e il culto pagano, la restituzione ai collegi sacerdotali romani e
ai templi dei beni confiscati da Graziano nel 382 rivela che la persecuzione
del paganesimo com e pratica religiosa non si era ancora posta, almeno per
l ’O ccidente, in modo concreto e che gli em inenti membri pagani del
senato, lungi dal tem ere le pesanti condanne previste dalle leggi teodo­
siane per chi praticava i sacrifici proibiti ed entrava a scopo di culto nei
templi, ritenevano ancora di poter riottenere, dagli imperatori cristiani, i

47 Per i rapporti fra Ambrogio ed Eugenio vd. Palanque, Saint Ambroise...,


pp. 264 ss. Per la datazione al 393 dell’ep. 57 a Eugenio vd. ora R. Klein, Die
Kaiserbrìefe des Ambrosius, «Athenaeum» 48, 1970, pp. 370 s.
48 Ib. 2 ut templis, quae sublatafuerant, reddi iuberet, ib. 6 etfortasse dicatur, imperator
auguste, quia ipse non templis reddideris... Te imperante petierunt legati ut templis
redderes... Per le vicende della statua e dell’altare della Vittoria vd. H A Pohlsander,
Victory: thè Story of Statue, «Historia» 18, 1969, pp. 588 ss.
22 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

privilegi detenuti in passato ed ora perduti. È proprio nei riguardi di


questo tentativo di ricuperare antiche posizioni di prestigio (e non in
funzione di una repressione poliziesca del culto pagano) che Ambrogio
interviene presso Eugenio e ricorda di essere intervenuto presso Valen­
tiniano II e presso Teodosio: ib. 2 dedi libellos imperatoribus duos (le lettere
17 e 18) quibus significavi sumptus sacrificiorum christianos viros non posse
reddere. Ciò che lo aveva spinto a non tacere con Valentiniano e poi con
Teodosio lo spinge a non tacere ora con Eugenio (ib. 1): è inutile pertanto
che quest’ultimo tenti di aggirare l ’ostacolo con una finzione giuridica,
donando personalmente ai senatori pagani, praecellentibus in re publica, sed
gentilis observantiae viris (ib. 6) i beni che essi hanno chiesto per i templi.
Non sumus scrutatores vestrae liberalitatis, nec aliorum commodorum inxndi, sed
sumus interpretes fidei (ib. 8).
Anche l’imperatore, per quanto grande sia Y imperatoria potestas, è deo
subditus (ib. 8) e deve pertanto negare ciò che è in iniuria sacrae legis
(ib. 7). E in nom e del timore dovuto a Dio prima che all’imperatore che
Ambrogio si sente costretto a parlare usando di quella Ubertas, che è
dovere fondamentale dei sacerdotes, ma anche di tutti coloro qui vobis
militent (ib. 1; 6; 9). Tornano qui le idee che abbiamo detto caratteristiche
della concezione ambrosiana del rapporto potestas/Ubertas. Vale la pena di
rilevare ora che, oltre alla concezione di fondo che accom una tutte le
prese di posizione di Ambrogio di fronte al potere imperiale, comune
appare da un certo punto di vista anche il contenuto concreto di questi
interventi, da quello contro Simmaco nel 384 allo scontro con Valenti­
niano e Giustina per le basiliche nel 385-386, all’affare di Callinico nel 388,
all’opposizione ad Eugenio nel 392-393: ciò che spinge Ambrogio all’in­
transigenza e che lo induce a chiedere agli imperatori cristiani u n ’intran­
sigenza assoluta, in nom e della fedeltà dovuta a Dio, e a minacciare, in
caso di infedeltà la massima pena ecclesiastica, è, in tutti questi casi, la
concessione, da parte di cristiani, di vantaggi o di benefici a culti diversi
da quello cattolico. Questo significa consensum aliquem colendis idolis et
profanis caerimoniarum cultibus exhibere ed Ambrogio si meraviglia che
qualcuno abbia potuto sperare che un imperatore cristiano potesse pagare
le spese sacrificiorum profanorum, perché questo non può avvenire senza un
sacrilegio48.

49 Ep. 17,2. Ambrogio si meraviglia; ib. 3 quomodo aMquibus in spem venerit, qu


debeas... ad usus... sacrificiorum profanorum praebere sumptum. Te imperatore - scrive a
Valentiniano (ib. 9) - hoc petitur et postulatur ut aram iubeas elevari, sumptum sacrificiis
profanis dari? Sed hoc non potest sine sacrilegio decerni. Per questo se Valentiniano
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 23

La libertà di religione non è in questione sècondo Ambrogio: anzi, è


proprio in nom e di questa libertà e per la fedeltà che ciascuno, anche
l ’imperatore, deve alla propria fede, che egli chiede nel 384 a Valentiniano
di non accettare le richieste dei pagani: invitum non cogitis colere, quod nolit:
hoc idem vobis liceat, Imperator, et unusquisque patienter ferat, si non extorqueat
imperatori, quod moleste ferret, si ei extorquere cuperet imperator. Ed Ambrogio
aggiunge: neppure i pagani apprezzano chi tradisce: libere enim debet
unusquisque fidele mentis suae et servare propositum50. Anche nel 302, rievo­
cando l ’azione com piuta da Simmaco nel 384, Ambrogio riconosce
lealm ente la sua coerenza di pagano: functus est ille partibus suis pro studio
et cultu suo. Ed aggiunge subito: utique etiam ego episcopus partes meas debui
recognoscere51.
Il discorso di Ambrogio non ignora quindi il valore della tolleranza
(«nessuno può essere costretto ad adorare quello che non vuole
adorare»), né misconosce il valore della fedeltà di ciascuno alle proprie
convinzioni religiose.
La sua intransigenza è proprio lo sviluppo coerente della fedeltà alla
verità conosciuta, di una fedeltà che egli afferma doverosa per sé come per
gli altri. Ogni concessione positiva fatta aU’errore e alla menzogna è per
lui tradimento e complicità. Per questo nel 385-386 egli non può cedere
agli Ariani le basiliche che gli sono richieste da Valentiniano e da
Giustina52; per questo nel 388 egli pone tutto il suo impegno per ottenere
da Teodosio la revoca del decreto che imponeva ai cristiani di Callinico
la ricostruzione a loro spese della sinagoga da loro incendiata53.

cedesse, sarebbe scomunicato (ib. 14): munera tua non quaerit Ecclesia, quia tempia
gentilium muneribus adomasti.
50 Ep. 17,7; cfr. 18,10.
51 Ep. 57,2.
52 Ep. 20, 8 respondi si a me peteret quod meum esset, id est fundum meum, argentum
meum... me non refragaturum... Verum ea quae divina imperatoriae potestati non esse
subiecta. Sui presunti diritti degli ariani e di Aussenzio non può accettare neppure
un arbitrato di estranei, magari gentili o giudei, quibus traderemus de Christo
triumphum, si de Christo iudicium committeremus (Ep. 21,10).
53 Se i cristiani di Callinico, infatti, impauriti dall’editto, obbedissero ad esso
offrendo ut de suis facultatibus reparetur synagoga, o se il comes Orientis, in ottem­
peranza all’editto, de Christianorum censu exaedificari iubeat, habebis Imperator, comitem
prevaricatorem... erit... locus Iudaeorum perfidiae factus de exuviis Ecclesiae. Così si
potrebbe scrivere su di esso: Templum impietatis factum de manubiis Christianorum
(ep. 40,9-10). Il Dudden, The Life... op. cit., p. 378, vedeva nella vicenda di Callinico
il trionfo del fanatismo, e di fanatismo accusa Ambrogio anche il Klein,
Symmachus, pp. 124-125. L’episodio in effetti è tale da lasciare sconcertata la
24 M a r t a s o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

Ambrogio non chiede dunque persecuzioni contro i pagani (come non


ne chiede contro gli ebrei e contro gli ariani) e non impegna su atti
positivi di ostilità ai culti non cristiani e non cattolici gli imperatori
cristiani; gli editti di condanna contro il paganesimo non sono il frutto
delle pressioni di Ambrogio anche se le motivazioni dalle quali essi
partono riflettono spesso i concetti e le valutazioni di Am brogio64. Egli
chiede invece una rottura decisa fra lo stato cristiano ed ogni culto e
religione che non sia quella dei cristiani ortodossi; chiede il rifiuto ad altri
culti di ogni concessione, sia a titolo di privilegio sia a titolo di risarci­
mento: su questo punto la sua intransigenza è assoluta ed egli esige dagli
im peratori cristiani im a fedeltà senza compromessi alle loro convinzioni
religiose55. Ambrogio del resto non sollecita dallo stato per i Cristiani e
per la Chiesa quei sussidi e quei privilegi che sono tolti ai pagani; egli li
ritiene anzi pericolosi56 e non si lamenta neppure delle leggi restrittive nei
riguardi del clero cristiano57. Ciò che egli vuole è la fine di ogni neutralità,
è la rottura dello stato romano con la religione tradizionale di Roma,
divenuta ormai per l’imperatore - è Simmaco che lo dice nella famosa
relatio (16) - una aliena religio. Ma è proprio qui il punto focale della
divergenza: per Simmaco il paganesimo è ancora la religione di Rom a58,
anche se l’imperatore segue una religione diversa. Com e ha mostrato con

mentalità moderna: il Paschoud, pp. 192-193, osserva (in polemica con C. Morino,
Chiesa e stato veUa dottrina di S. Ambrato, Roma 1963) che non si può scusare
Ambrogio semplicemente dimostrando che l’intervento era nella logica della sua
dottrina. Per essere inteso storicamente, però, tale intervento non può essere
valutato al di fuori della linea di comportamento di Ambrogio, dei suoi giudizi,
della sua mentalità. E l’essenza di tale linea di comportamento non è, a mio avviso,
la richiesta dì una persecuzione contro gli avversari (siano essi ariani o pagani o
ebrei) ma la sottrazione ad essi di uno spazio politico e il rifiuto di ogni
concessione positiva.
54 Ep. 18,10 suis... sacrilegiis; Cod. Theod. 16,10,7 e 10,11 sacrilegus; ep. 18,8 ipsi
philosophi vestii... riserunt (del culto divino reso a pietre); Cod. Theod. 16,10,12,2
ridiculo exemplo; ep. 18,7: contro i sacrifìci cruenti gregis innoxii; Cod. Theod. 16,10,12,1
insontem victimam.
55 Ep. 17,4 Reposcantur haec a consorte superstitionis: Christianus imperator aram solius
Christi didicit honorare.
56Ep. 17,4; cfr. 18,12 ss. e specialmente 15.
57 Neppure nel momento della sua massima influenza (dal 391 in poi)
Ambrogio chiede mai a Teodosio la revoca degli editti del 390 sfavorevoli, dal
punto di vista economico, al clero cristiano (cfr. Palanque, Saint Ambroise... op. cit.,
pp. 250 ss.).
58 Symm. Rei. 3,13 Romanas religiones; ib. 8 Romanis caerimoniis.
I. L ’ATTEGGIAMENTO DI AMBROGIO DI FRONTE A ROMA E AL PAGANESIMO 25

il suo esempio lo stesso Valentiniano I, pater iUe vestrae clementiae pur


avendo egli seguito alias religiones has servavit imperio (ib. 8). Per Ambrogio,
invece, la svolta religiosa deve essere irreversibile e non riguarda solo
l’imperatore ma Roma e il suo impero: i tempi nuovi sono «tem pi
cristiani»59. Egli non ammette che la petizione di Simmaco abbia avuto
l’appoggio di quella venerabile istituzione che è il senato romano e la
presenta come la manovra di una minoranza pagana che usurpa un nomen
communeM.
Dicevo, concludendo la prima parte della mia ricerca, che, in un certo
senso, è proprio la fedeltà senza sottintesi alla tradizione politica di Roma
che induce Ambrogio ad un rifiuto totale ed intransigente di ogni traccia
di paganesimo che ancora offusca ai suoi occhi la realtà dell’impero
romano-cristiano e che ne minaccia l ’unità. In effetti, anche se l ’afferma­
zione può apparire paradossale, Ambrogio attacca con una decisione
maggiore di ogni altro ecclesiastico del suo tempo la religione tradizionale
di Roma, proprio perché è Rom ano e non ammette scissioni all’in­
terno dello stato rom ano né ammette riserve alla sua personale fedeltà a
questo stato.
Riprendendo ora il problem a iniziale, se e in quale misura un romano
della classe dirigente, un rom ano cioè pienamente consapevole delle
tradizioni politiche e culturali della sua civiltà, potesse convertirsi since­
ram ente al cristianesimo senza rinnegare integralm ente tutto il suo
patrimonio ideologico; in altre parole, se e in quale misura il cristianesimo
abbia rappresentato una rottura definitiva nella storia del mondo antico
e sia da considerare il principale fattore di dissoluzione nell’impero
romano, io credo che il ‘caso’ di Ambrogio che ho cercato di analizzare
possa perm ettere una risposta, naturalmente circoscritta, come è stata
circoscritta l’analisi, ma non per questo m eno illuminante. Parlare di una
rottura di continuità storica fra la vecchia Roma pagana e la nuova,
cristiana, non ha senso per Ambrogio, perché soggetto della conversione
al Dio che «prim a non conosceva» com e del rifiuto dei vecchi dei è

59 Ep. 17,10 temporibus vestris, hoc est, christianis temporibus.


60 Ep. 17,10 Pauci gentiles communi utuntur nomine. I cristiani, per Ambrogio
(ib. 9), sono la maggioranza ormai anche nella curia: su questa affermazione,
esagerata secondo A. Chastagnol, La préfecture urbaine à Rome... op. cit., Paris 1960,
p. 160, deliberatamente capziosa per F. Canfora, Simmaco e Ambrogio, Bari 1970,
p. 174 n. 10, vd. ora G. Lo Menzo Rapisarda, La personalità di Ambrogio nelle
epistole XVII e XVIII, « Orpheus » 20, 1973, pp. 19 ss. (con ampia bibliografia).
La conclusione della Rapisarda è che la maggioranza del senato era costituita
da indecisi.
26 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a tr a d itio n e d i Ro m a

sempre e soltanto Roma, la Rom a di Camillo, di Regolo, di Scipione, che,


divenuta grande per disciplinae che il cristianesimo non le chiede di
rinnegare, è disposta al mutamento ( longaeva convertì} purché questo
significhi ad meliora transire. Con questa affermazione dell’epistola 18 il
cristiano Ambrogio, assai più del suo avversario Simmaco, è sulla linea
della più pura tradizione romana, sulla linea di com portam ento che già
nel II secolo a.C. il greco Polibio coglieva con ammirazione e stupore
com e caratteristico dei Romani « buoni quant’altri mai a mutare costumi
e ad imitare il m eglio» (6,25,11); che Sallustio, per bocca di Cesare,
riteneva tipico dei maiores a cui neque... superbia obstabat quominus aliena
instituta, si modo proba erant, imitarentur ( Cat. 51,37); che Livio, per bocca
dell’antico tribuno Canuleio, aveva individuato com e forza motrice della
storia di Roma: Quis dubitat quin in aeternum urbe condita, in immensum
crescente, nova imperia, sacerdotia, iura gentium hominumque instituantur?
(4,4,4); che l’imperatore Claudio, seguendo il suo maestro Livio, aveva
teorizzato e tradotto in atto politico nel celebre discorso per l’ammissione
in senato dei notabili Galli (ILS 212).
Nella storia di Rom a la capacità di assimilare il nuovo, purché questo
significhi ad meliora transire, è tradizione; il rinnovamento nella continuità
per una città in aeternum condita è il segno vitale della salute di un corpo
in immensum crescente. Nella linea di questo progresso, assimilabile al
processo naturale per cui la luce del sole rischiara le tenebre che prima
avvolgevano il mondo e le messi vengono a maturazione col procedere
delle stagioni, si pone per Ambrogio la conversione di Roma al cristia­
nesimo con cui essa, dopo aver respinto le credenze anticamente in vigore,
ha a buon diritto preferito il vero.
II.
DA AMBROGIO AL BOCCACCIO: L ’ANELLO SIM BOLO
DELLA FEDE

Sunto: L’A. mostra la dipendenza del motivo dell’anello simbolo della fede
di Ruperto di Deutz da Ambrogio e cerca i tramiti del passaggio di questo
motivo dalla parabola alla controversia dottrinale e dalla controversia alla
novellistica.

Una recente pubblicazione1 ha proposto all’attenzione degli studiosi


un interessante testo di Ruperto di Deutz, abate benedettino del X II se­
colo, VAnulus seu dialogus inter Christianum et Iudaeum; il titolo del dialogo,
che si inserisce nella controversia dottrinale fra Cristiani e Giudei iniziatasi
con il Dialogo di Giustino martire con T rifo n e2, prolungatasi nel tardo
antico ed attualissima nel X II secolo negli ambienti impegnati nella
ricerca di una ratio disputandi per fidem e per rationem3, è spiegato dallo
stesso Ruperto, alla fine del I libro del dialogo e alla fine del III a
conclusione di tutta l’opera.
Nosti illam parabolam Domini mei? domanda il cristiano all’ebreo
(1,713 ss.) - e continua ricordando la parabola del figliol prodigo: Homo
quidam ait, habuit filios duos, et dicit adulescentior ex illis patri: Pater da mihi
portionem substantiae quae me contingit et reliqua.
E subito spiega: Ego et tu sumus illi duo filii; etenim unus Deus nos creavit,
unus Adam ambos nos genuit. Ecce tu foris stas prae ira et indignatione, quia pater
meus salvum me recepit, et non tris introire pariterque epulari. Ego autem ingredior
ad te et rogo ut ingrediaris, ostendens tibi stolam primam, quam pater in lavacro
mihi dedit cum anulo fidei et calciamentis scientiae veritatis. Accipe mecum hunc

* « Rend. Ist. Lomb.» 114, 1980, pp. 116-122.


1 M.L. Arduini, Ruperto di Deutz e la controversia fra cristiani ed Ebrei nel sec. XII,
Roma 1979 (con testo critico Ae\YAnulus seu dialogus inter Christianum et Iudaeum
a cura di Rh. Haacke).
2 Su questo testo e i dialoghi che lo precedettero vd. ora G. Otranto, Esegesi
biblica e storica in Giustino, Bari 1979, pp. 21 ss., secondo il quale 0 dialogo appare
particolarmente congeniale ai rapporti fra Cristiani ed Ebrei.
3Arduini, op. cit., pp. 61 ss.
28 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

anulum, admitte fidelem sermonem, istum, quem quoniam de fide est, anulum
nuncupare placuit, et stola ista induere et calciamentis istis mecum calciare.
L ’immagine è ripresa dal Cristiano nella conclusione del dialogo
(3,668 ss.): Age nunc ut dixi, noli stare foris, nec invideas stolae et calciamentis
et anulo, fidei signaculo, quae mihi paenitenti filio pater dedit, sed veni intus et
esto socius gaudii, particeps convivii. Quod si non facis expetabo et sustinebo
indignationem tuam, donec egressus pater ipse te roget, et interim dicam ad gloriam
eiusdem patris: anulus meus mihi, anulus meus mihi.
L ’immagine dell’anello del prodigo simbolo della fede piace a Ruperto
e compare in altre sue opere, a cui nelle note al testo critico da lui curato
rinvia puntualmente Rh. H aacke4; è sfuggita invece a questo studioso,
che pure ha colto le numerose dipendenze di Ruperto dai Padri Latini
(da S. Gerolamo a S. Agostino, a Cassiano, Cassiodoro, Gregorio Magno)
e perfino da autori classici, com e Lucano e Plotino, la dipendenza di
questa immagine (fondam entale per Ruperto, che ritiene di dover
intitolare anulum, quoniam de fide est, il suo dialogo) da S. Ambrogio: è
Ambrogio, infatti, che in due passi, nel de Poenitentia 2,3,13 ss. e nella
expositio evangelii sec. Lucam 7,224 ss. legge la parabola del fìgliol prodigo
in chiave simbolica, identificando nell’anello (ib. 231) il segno della fede
e nel figlio minore e penitente i cristiani provenienti dal paganesimo.
Nel de Poenitentia (2,3,13) affermando contro i Novaziani la possibilità
della penitenza, Ambrogio commenta la parabola del Prodigo ed osserva
tra l’altro (ib. 18): tam cito veniam meretur, ut venienti et adhuc longe posito
occurrat pater et osculum tribuat... stolam proferri iubeat, quae vestis est nuptialis,
quam si qui non habuerit a convivio nuptiali excluditur: det anulum in manu
eius, quod est fidei pignus, et sancti spiritus signaculum; calceamenta deferri
praecipiat...
E in Lue. 7,231 lo stesso Ambrogio, dopo aver richiamato il valore
simbolico dell’anello signaculum della fede, spiega che bisogna duos fratres
istos... referre ad populos duos, ut sit adulescentior populus ex gentibus...5.
Ciò che colpisce nel confronto fra i due passi di Ambrogio e i due passi
di Ruperto è l ’identità dei concetti (la parabola del prodigo intesa come
anticipazione, sia del sacramento della penitenza, sia del rapporto col
padre dei cristiani provenienti dalle genti e degli ebrei; l’anello assunto
com e fidei signaculum) e l’identità delle espressioni verbali:

4 Rh. Haacke, in op. dt., pp. 204 e 242. L’immagine dell’anello come simbolo
della fede è frequente del resto nel Medioevo.
5 Sul signaculum in Ambrogio vd. sacr. 3,8; myst. 42; su questo problema,
vd. A. Caprioli, Battesimo e confermazione in S. Ambrogio. Studio storico sul Signaculum,
in Miscellanea Figini, Venegono 1964, pp. 49-57.
II. D a A m b r o g io a l B o c c a c c i o : l ’a n e l l o s im b o lo d e l l a f e d e 29

Ambros. in Lue. duos fratres istos... referre ad populos duos ut sit ADULE­
SCENTIOR populus ex gentibus.
Rupert. 1, cit.: filios duos, et didi ADULESCENTIOR et illis... Ego et tu sumus
iUi duo filii.

Ambros. De paenit quae vestis est nuptialis, quam si quis non habuerit
A CONVIVIO nuptiali excluditur.
Rupert. 3 , cit.: esto... particeps CONVIVII...

Credo pertanto che l’immagine dell’anello com e simbolo della fede


(che è tanto piaciuta a Ruperto da suggerirgli il titolo del suo dialogo, in
quanto pegno sicuro che, al di là di qualsiasi controversia, il cristiano
conserva della verità della sua fede e del rapporto col padre) derivi a
Ruperto di Deutz dalla lettura di Ambrogio, e in particolare, dalla lettura
del de Poenitentia, da cui dipende anche l’assimilazione del cristiano del
Diàlogo al filius paenitens, e dell’expositio evangelii sec. Lucam, da cui deriva
l’identificazione, fondamentale per Ruperto, dei due figli della parabola
con i cristiani e con gli ebrei.
Nata da una suggestione di Ambrogio, l’immagine dell’anello, come
simbolo della fede consegnato dal padre ad im o dei suoi figli, ha avuto,
proprio in seguito al suo inserimento nella secolare controversia dottrinale
fra le due fedi monoteistiche, quella giudaica e quella cristiana, un
singolare destino, contribuendo a trasferire la controversia dal genere
letterario del dialogo a quello della novellistica.
C’è in effetti una novella medioevale, quella delle tre anella, di cui si
è supposto finora u n’origine ebraica e musulmana e una diffusione dalla
Spagna nel resto deU’Europa6, e che invece va posta in rapporto, a mio
avviso, con I’Anulus di Ruperto.
Nella versione a noi giunta nel Novellino (nov. 73), del X III secolo, il
Saladino, desideroso di estorcere denaro ad un ricco ebreo, « domandollo
qual fosse la miglior fede »; per cavarsi d’impaccio l’interrogato narrò che
un padre avendo tre figli ed un anello prezioso, che ciascuno di essi voleva
avere, chiamò un orafo e fece fare due copie identiche dell’anello, così
perfette che nessuno poteva riconoscere quello vero ad eccezione del
padre. Diede poi in segreto a ciascuno dei figli un anello e ciascuno
credette di avere quello vero. E niuno ne sapeva il vero, altri che il Padre
loro». La conclusione che il saggio ebreo propone al Saladino è una
risposta al quesito iniziale: « E così è delle fedi, messere. Le fedi sono tre:

6 G. Favati, Il Novellino, Genova 1970, p. 295; sul motivo novellistico dei


anelli, vd. E. Hermes, Die drei Ringe, Góttingen 1964.
30 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

il Padre che le diede sa la migliore e i figliuoli (ciò siamo noi) ciascuno


la sua crede avere buona».
È nota la fortuna che ebbe più tardi la novella: ripresa dal Boccaccio
nella terza novella della prima giornata del Decam erone, quella di Melchi-
sedech Giudeo, essa giunse fino al Lessing nella sua ultima opera di poesia
Nathan der Weise, del 1779, nella quale il Tem plare, il Musulmano e
l’Ebreo, com e i tre figli della leggenda, hanno l’anello miracoloso, e il
miracolo nasce dall’anima di chi lo possiede, perché scendendo in sé si
scopre fratello con gli altri uomini.
Con il Lessing il significato originario della novella medioevale non è
più riconoscibile; nel testo del Novellino, invece, com e in quello del
Boccaccio, l’argomentazione del saggio Giudeo m antiene ancora qualche
contatto con quella di Ruperto: Ego et tu sumus illi duo filii - dice Ruperto
- etenim unus Deus nos creavit, unus Adam ambo nos genuit. E il Novellino:
« E il Padre che le diedi (le fedi) sa la migliore, e li figliuoli (ciò siamo
noi) ciascuno la sua crede avere buona». Il Boccaccio, in modo ancor più
esplicito, conserva il rapporto tra la novella e la controversia, la
«quistione»: «Delle tre leggi alli tre popoli date da Dio Padre, delle quali
la quistion proponesti: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge et i suoi
comandamenti si crede avere a fare; ma chi se l’abbia, com e delli anelli,
ancora ne pende la quistione».
Vale la pena di domandarsi com e l’immagine dell’anello simbolo della
fede, derivato a Ruperto dalla lettura di Ambrogio, sia giunto fino al
Novellino e al Boccaccio.
Anche se la cultura dell’autore del Novellino fu certam ente assai vasta,
sem bra im probabile la conoscenza diretta di Ruperto da parte di
quest’ultimo. E probabile invece che egli abbia attinto ad un modello
intermedio, lo stesso che sta alla base, com e ritiene il Favati1, dell’anonima
composizione francese Le dis dou mai aniel.
Si tratta di un testo poetico del X III secolo, appartenente ad u n ’area
geografica (il nord della Fran cia)s, assai vicina a quella originaria di Ru­
perto, che era venuto a Deutz, in Germania, dal monastero di S. Lorenzo,
alle porte di L iegi9. In questo testo il Saladino non com pare, m a solo un

7 Secondo il Favati (op. cit., p. 87) il Novellino dipende per la nov. 73 dallo
stesso testo « che fu alla base sia del Le dis dou mai aniel sia del Gesta Romanorum».
8 II testo, in francese del nord, è stato pubblicato da Ad. Tobler (Lipsia 1871);
ebbe una seconda edizione nel 1884 ed una terza nel 1912. Una versione tedesca
dello stesso testo è stata pubblicata da G. Gròber, in Festchrift Tobler, 1905, pp. 1-11.
Nel testo si parla fra l’altro dei signori dell’Artois e delle Fiandre.
9Arduini, op. cit., p. 17.
II. D a Am b r o g i o a l B o c c a c c io : l ’a n e l l o s im b o l o d e l l a f e d e 31

vecchio padre, e i suoi tre figli, malvagi i primi due, virtuoso il terzo: a
questo solo il padre dà l’anello vero, m entre agli altri dà quelli falsi.
L ’identificazione del figlio più fervane con il popolo cristiano (come in
Ambrogio e in Ruperto), del figlio maggiore con i Musulmani e del
secondo figlio con gli Ebrei, è esplìcita. Per l’equazione del figlio minore
col popolo cristiano e per l'affermazione che lui solo ha l’anello vero il
poema francese rivela una vicinanza certam ente maggiore del Novellino
e del Boccaccio all’Anulus di Ruperto e potrebbe dipendere direttamente
da esso. In ogni caso, al di là dell’identificazione del tramite immediato,
che è sempre difficile da stabilire per un racconto novellistico che ebbe
fin dall’inizio molta fortuna e molte versioni, mi sembra importante
cogliere il tramite ideale attraverso il quale il passaggio da Ruperto al
Boccaccio, avvenne.
La prima tappa di questo cammino, iniziato con l’interpretazione
simbolica che Ambrogio dà della parabola evangelica e dell’anello, è
costitu ita d all’in serim en to, op erato da R uperto, d ella parabola e
dell’anello simbolo della fede, in una controversia condotta perfidem et per
rationem fra le due grandi fedi m onoteistiche, la giudaica e la cristiana, in
una quistione, com e direbbe il Boccaccio. La seconda tappa è l ’allarga­
m ento della disputa ad un terzo interlocutore: ciò avviene nello stesso
X II secolo, pochi decenni dopo Ruperto, per opera di Pietro Abelardo,
che introduce accanto all’ebreo e al cristiano un filosofo10.
La presenza alla disputa di un filosofo non è in se stessa una novità
e deriva probabilm ente a Pietro Abelardo da un testo tardo antico del
V secolo, nel quale il filosofo rappresentava il paganesim o11; ma nel
dialogo di Abelardo il filosofo proviene dalle terre musulmane e completa
il quadro delle tre fedi monoteistiche che appare ormai stabilizzato nelle
novelle del X III secolo e nel Boccaccio e che giunge fino al Lessing.
Nel suo volume su Ruperto M.L. Arduini osserva che l’insorgere
dell’idea di Crociata provoca il progressivo attenuarsi della controversia
razionale che nell’X I secolo e nella prima m età del X II secolo aveva avuto
una ricca fioritura12: in realtà è proprio il clima delle Crociate, con lo
scontro, ma anche con l’incontro da esse reso più frequente delle tre
grandi civiltà monoteistiche, che favorisce il passaggio della diatriba dottri-

10 Sul dialogo di Pietro Abelardo del 1140-1141 vd. Arduini, op. cit., pp. 101 ss.
11 L. Cracco Ruggini, Pagani, ebrei e cristiani: odio sociologico e odio teologico nel
mondo antico, in Atti XXVI Settimana di studio del Centro italiano di Studi sull’Alto
Medioevo: Gli Ebrei neU’Atto Medioevo, Spoleto 1980, pp. 3-117.
12Arduini, op. cit., p. 11.
32 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADITIONE D I ROMA

naie e teologica alla problematica popolare e semplificata della novella:


questa è la terza tappa, e la più ricca di sviluppi, del nostro cammino.
Nella versione francese del Le dis dou mai aniel l ’antagonismo dei
cristiani con i musulmani (ricordati com e il fratello maggiore e il più
malvagio) e con gli ebrei è molto vivo: siamo lontani dal contrasto
civilmente e razionalmente pacato del dialogo di Ruperto, in cui la
coscienza della fratellanza con l’ebreo com e figli di un unico padre è
sempre presente nelle argomentazioni del cristiano; nella versione del
Novellino e del Boccaccio, invece, il Saladino, protagonista musulmano
della III crociata, temuto per il suo valore e ammirato per la sua cortesia,
diventa anche il protagonista della novella, che, n ell’affermazione della
fratellanza davanti all’unico Dio e Padre com une dei tre popoli in lotta,
sembra auspicare il superamento dello spirito di crociata.
Nei passaggi e nelle trasformazioni successive subite dal motivo iniziale,
anche l’anello della fede cambia progressivamente significato: pegno
assoluto di certezza in Ambrogio, esso diventa in Ruperto pegno oggettivo
di certezza in una disputa tra fratelli; trasformatosi n ell’anonimo autore
francese nel segno della condanna dei fratelli malvagi e della elezione del
fratello buono, diventa il pegno di una certezza soltanto soggettiva nel
Novellino, per il quale il giudizio ultimo sulla disputa spetta solo a Dio
Padre; il Boccaccio mantiene questa impostazione, accentuando però lo
scetticismo sul valore di una disputa sempre aperta e mai risolvibile e il
Lessing dà al motivo dell’anello la dimensione puramente orizzontale
deU’umanitarismo illuministico.
Nato nel contesto di una parabola e ricco di tutta la sua pregnanza
simbolica, il motivo dell’anello tom a così alla novellistica, ma conserva in
essa tutta la ricchezza dei simboli, capaci di esprimere i grandi problemi
dello spirito umano.
III.
MAGNO MASSIMO E L ’ITALIA SETTENTRIONALE

Magno Massimo, generale di orìgine spagnola, com e afferma esplici­


tamente Zosimo (4,35,3 ’iprip t ò yévoi; e cfr. Pacat, paneg. II [12] ,31,1 e
38,3), e comandante degli eserciti rom ani di Britannia, fu, da questi stessi
eserciti, acclamato im peratore ed opposto a Graziano, che per suo
esplicito o implicito comando fu ucciso in Gallia da Andragazio, a cui
Massimo stesso aveva affidato l’inseguimento del rivale, il 25 agosto del 383.
Sconfitto da Teodosio nel 388 m entre, dopo aver costretto alla fuga
Valentiniano II, fratello e successore di Graziano, tentava di impossessarsi
di tutta la parte occidentale dell’impero, fu messo a morte dallo stesso
Teodosio ad Aquileia (Oros. hist. 7,35,5; Zosim. 4,46,3). L ’Italia setten­
trionale fu interessata due volte dall’azione di Massimo: la prima, nel
periodo immediatamente successivo all’uccisione di Graziano; la seconda,
nel periodo immediatamente precedente alla campagna che terminò con
la m orte dell’usurpatore e poi nel corso della campagna stessa. Solo in
questa ultima occasione, l’Italia settentrionale fu invasa direttamente da
Massimo. Più che degli aspetti militari io intendo però occuparmi degli
aspetti politici dell’azione di Massimo e dei rapporti stabiliti dall’usur-
patore con l ’Italia settentrionale. Bisogna dire subito che le fonti
storiografiche, in particolare Orosio e Zosimo, da cui in gran parte
derivano i cronisti più tardi, passano con molta rapidità dalla prima fase
dell’azione di Massimo alla seconda e saldano, e questo vale soprattutto
per Orosio, l’uccisione di Graziano del 383 con l’espulsione di Valenti­
niano dall’Italia e la sua fuga in O riente, che avvennero solo al tempo
dell’invasione del 387-388 (cfr. Oros. hist. 7,34,10). Le notizie e le sugge­
stioni più interessanti ci vengono invece dagli autori contemporanei, in
particolare da una lettera di Ambrogio, l’epistola 30 Faller (= 24 Maur.)
indirizzata a Valentiniano II (la cui data oscilla, com e vedremo, fra il 384
e il 386) e il Panegirico di Pacato a Teodosio, scritto subito dopo la vittoria
del 388 (paneg. II dell’edizione del Mynors, X II dell’edizione del G alletier).

* «Ant altoadriatiche » 22, 1982, pp. 51-65.


34 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

1. Massimo e l’Italia settentrionale nel 383-384


La m inaccia di u n ’invasione dell’Italia settentrionale da parte di
Massimo si profilò subito dopo l’uccisione di Graziano, avvenuta, come si
è già detto, nella tarda estate del 383. La minaccia si dissolse poi, almeno
provvisoriamente, con una tripartizione dell’impero, che, riconoscendo a
Massimo la Gallia (con la Spagna e la B ritannia), lasciava a Valentiniano
l ’Italia, l ’Africa e l’illirico (m om entaneam ente occupato nel 383 da
Teodosio) e a quest’ultimo l’O riente. Come e quando si giunse a questa
tripartizione, che la ripresa delle ostilità da parte di Massimo rimise in
discussione nel 387, è oggetto di controversia. Che un foedus ci fu è
attestato esplicitamente, oltre che dal cronografo del 452 (Chron. min. I,
p. 616), dal contem poraneo Pacato (paneg: 30,2), che parla della rottura
da parte di Massimo di questo foedus al tempo della campagna del 387-388,
e da Zosimo (4,44,1), secondo il quale, nel 387, prima di partire contro
Massimo per la campagna che ne determ inò la definitiva sconfitta,
Teodosio era favorevole a K o t à t ò icpótepov a x f j n a xfjv àp%f|v eiq &7iavTcu;
8iT|pxÌCT0ai. D ’altra parte, la menzione di Massimo a fianco di Valentiniano
e di Teodosio in iscrizioni provenienti dalle regioni sottoposte fino al 387
a Valentiniano, com e l’Africa (C. V ili, 11025 = ILS 787, C. V ili, 26267) e
l ’Italia (C. XIV, 4410, di Ostia) e certam ente anteriori al 3871 e la
coniazione di m onete col nom e di Massimo da parte della zecca di
Costantinopoli e di m onete col nom e di Teodosio da parte della zecca di
Treviri2 conferm ano che per un certo periodo, fra il 383 e il 387, Massimo
fu riconosciuto come collega dai due imperatori legittimi. Del momento
del riconoscimento parlano Zosimo ed Ambrogio, riferendolo però il
primo al solo Teodosio, il secondo al solo Valentiniano. Zosimo (4,37,1 ss.)
riferisce che subito dopo l ’uccisione di Graziano, Massimo, sentendosi
ormai sicuro del potere, inviò a Teodosio u n ’ambasceria, non per
chiedere perdono di quel che aveva fatto a Graziano, ma per sollecitare
pace, concordia e alleanza contro tutti i nem ici dei Romani, dichiarandosi
pronto alla guerra se la sua proposta fosse stata respinta. Zosimo aggiunge
(ib. 3) che Teodosio accettò « che Massimo fosse imperatore e che compa­
risse con lui nelle immagini ed ottenesse i titoli imperiali, preparando di
nascosto la guerra contro di lui, cercando di batterlo (KaTacTpaTtyyt&v)
con ogni sorta di attenzioni, di lusinghe». Ambrogio, nella lettera già
citata (ep. 30 Faller), riferendo a Valentiniano i risultati della seconda
ambasceria da lui svolta presso Massimo in una data che dovremo deter­

1 Su queste iscrizioni vd. ora D. Vera, I rapporti fra Magno Massimo, Teodosio e
Valentiniano II nel 383-384, «Athenaeum» 53, 1975, pp. 270 s. e n. 16.
2 D. Vera, art. cit., p. 271 n. 17.
m . M a g n o M a s s im o e l ’I t a l ia s e t t e n t r io n a l e 35

m inare, accenna abbastanza ampiamente (3-8) ad una prima legatio da lui


svolta per conto dello stesso Valentiniano presso il medesimo Massimo nel
periodo immediatamente successivo alla m orte di Graziano e certamente
anteriore aH’invem o del 383-384 {ib. 7): ricorda che la sua legatio doveva
trattare la pace (ib. 7 de pace nobis legationem commissam) ed ammette che
questa pace fu da lui chiesta per Valentiniano com e per un inferiore
(ib. 3 tunc ut inferiori petebam). Ambrogio ottenne allora che Massimo
accettasse la pace (ib. 6 ut paci acquiesceres) e rinunciasse ad invadere l’Italia
con il suo esercito (ib. 4 e 6). Più tardi, al tempo della seconda ambasceria,
Massimo accuserà Ambrogio e Bautone (il Franco transrenano che era
allora a fianco di Valentiniano com e comes e com e magister peditum) di
averlo ingannato con le sue promesse e di avergli impedito di passare con
l ’esercito le Alpi in un m om ento in cui nessuno avrebbe potuto resistergli.
Le promesse che Ambrogio nega di aver fatto nella prima legazione
riguardavano la venuta di Valentiniano stesso a Treviri per mettersi sotto
la protezione dell’usurpatore (ib. 7): Ambrogio aveva spiegato che un viag­
gio deU’imperatore fanciullo (Valentiniano nel 383 aveva solo 12-13 anni)
attraverso le Alpi nel cuore deU’invem o era sconsigliabile ed aveva
dichiarato di essere stato inviato per trattare la pace e non per promettere
quel viaggio (ib. 7 de pace nobis legationem, non de adventu eius promissionem).
Del resto, egli osserva (ib. 6), durante la sua missione in Gallia aveva
incontrato il comes Vittore (da identificare secondo alcuni c o n , Flavio
Vittore, figlio di Massimo, secondo altri con un altro personaggio dello
stesso nome) che Massimo stesso aveva inviato a Valentiniano ut pacem
rogaret, cosicché quest’ultimo fu prìus pacem a te rogatus, quam postularet
(ib. 6). Ad un riconoscim ento dato, sia pure contro voglia, di Valentiniano
a Massimo subito dopo l’uccisione del fratello accenna anche Socrate
(H .E. 5,16; cfr. Ruf. H .E. 3,15).
Il confronto fra Zosimo ed Ambrogio non permette di stabilire se le
trattative condotte n ell’autunno-inverno del 383 fra Valentiniano e
Massimo di cui parla Ambrogio, siano anteriori o posteriori all’ambasceria
di Massimo a Teodosio di cui parla Zosimo: certo esse sono anteriori
alla tripartizione concordata fra i tre imperatori che escludeva sia la
minaccia di Massimo di invadere l ’Italia settentrionale e di occupare le
terre di Valentiniano, sia la pretesa di Massimo di avere Valentiniano alla
sua corte.
Sul momento in cui questa tripartizione avvenne i moderni sono divisi:
secondo l’ipotesi del Seeck 3 , recepita con favore dalla maggiore parte

3 O. Seeck, Gesch. des Unterg. der Antiken Welt, Stoccarda 1920, pp. 196
pp. 513 ss.
36 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

degli studiosi dell’età teodosiana4, l’accordo avvenne intom o al 31 agosto


del 384, quando secondo la subscriptio di Cod. Theod. 12,1,107, Teodosio si
trovava a Verona: nel corso di un incontro fra Teodosio, che sarebbe
venuto per questo n ell’Italia settentrionale, e Valentiniano, che si tro­
vava a Milano il 21 maggio (Cod. Theod. 6,5,2) e ad Aquileia il 26 ottobre
(Cod. Theod. 6,30,6) sarebbe stata raggiunta u n’intesa per il riconosci­
m ento com une di Massimo (qualcuno parla addirittura di patto di
V erona), in base al quale a Teodosio sarebbe rimasto l ’O riente, a Valen­
tiniano la prefettura d’Italia e a Massimo sarebbe stata riconosciuta la
prefettura gallica.
Il fatto che Teodosio, che l ’8 luglio del 384 si trovava ad Eraclea
Macedonia (Cod. Theod. 10,20,11) e il 16 settembre dello stesso anno era
già a Costantinopoli (Cod. Theod. 7,8,3), si trovasse il 31 agosto a Verona,
ha destato di per sé qualche dubbio: già gli editori del Codex proponevano
la sostituzione di Beroae a Verona e nella subscriptio5; lo Ensslin6 ha supposto
che Teodosio si fosse recato a Milano e che si trovasse a Verona nel viaggio
di ritorno; il Vera, infine, ritiene una forzatura la conciliazione fra la
presenza di Teodosio a Verona il 31 agosto e quella dello stesso a
Costantinopoli due settimane dopo e considera errata la subscriptio della
legge di V erona7: secondo la ricostruzione proposta da questo studioso,
l’incontro al vertice del 384 non ci fu e l’accordo tripartito fu il frutto, da
una parte, dei riconoscim enti unilaterali che la corte di Milano e quella
di Costantinopoli avevano dato già alla fine del 383 a Massimo, dall’altra,
della energia e della decisione con cui Teodosio, n ell’estate del 384, si
rivelò pronto a fronteggiare una rinnovata m inaccia di invasione di
Massimo. La decisione di Teodosio di marciare contro Massimo nel 384
sarebbe attestata, oltre che dai preparativi nascosti di guerra ricordati
da Zosimo nel passo sopra citato, anche da un oscuro accenno dell’ora­
zione XV III di Temistio, deU’invem o del 384-385, ad «un inizio di
spedizione militare verso il R en o» (ib. 220 d) da parte di Teodosio, in cui,
osserva il Vera (cit., pp. 291 s.), «R eno è sinonimo di Gallia e Gallia qui

4 Cfr. A. Piganiol, L ’empire Chrètien, Parigi 1947 (II ed. a cura di A. Chastagnol,
del 1972), pp. 245 e 269; J.R. Palanque, L ’empereur Maxime, in AA.W., Les empereurs
romains d’Espagne, Parigi 1965, p. 258; A. Lippold, Theodosius der Grosse, Stoccarda
1968, pp. 29 s. (e in «Historia» 17, 1968, p. 228).
5 Già il Godefroy ad Cod. Theod. loc. cit. avanzava questa lezione: cfr. D. Vera,
art. cit., p. 268, n. 3.
6 In RE, VII, A 2 (1948) coll. 2211.
7 D. Vera, art. cit., pp. 275 ss.
I I I. M a g n o M a s s im o e l ’I t a l ia s e t t e n t r io n a l e 37

significa Massimo » 8; in quanto alla seconda minaccia di invasione (dopo


quella del 383) da parte di Massimo, il Vera ritiene di trovare una traccia
nel Panegirico di Pacato (30,2) ad un secundum... vexillum latrocinii civilis
(cit. p. 299) e nella seconda missione di Ambrogio a Treviri, che egli data
nella primavera del 384 (ib. p. 297).
Io credo che il Vera abbia ragione nel rifiutare le conclusioni tratte d
Seeck dalla subscriptio di Cod. Theod. 12,1,107 (Dat. prid. Kal. Sept. Veronae
Richomere et Clearcho conss.), non tanto in nom e della generica possibilità
di una imprecisione in fatto di luoghi nom i e date del Codice Teodosiano
(ib. 271), imprecisione che, una volta ammessa, potrebbe valere anche per
la successiva data costantinopolitana, ma per la probabilità reale, già
ipotizzata dal Godefroy, di uno scambio fra Veronae e Beroae. Uno scambio
simile, estremamente facile nel passaggio dal greco al latino e viceversa,
è avvenuto, com e ha dimostrato di recente il Dusanic9, nella storiografìa
dello stesso IV secolo, neirindicazione del luogo della morte di Filippo
l’Arabo, che Giovanni Antiocheno, attingendo a Dexippo, faceva morire
correttam ente a Beroa, di ritorno da una campagna vittoriosa contro gli
Sciti, m entre la tradizione latina del IV secolo (Aurelio Vittore, Eutropio)
lo faceva perire a Verona. Nel caso di Teodosio, che si trovava ad Eraclea
nel giugno-luglio del 384 (cfr. supra), la sosta a Beroa, situata a mezza
strada fra Eraclea e Adrianopoli, verso la fine di agosto dello stesso anno,
non esige complesse spiegazioni.
Tolto di mezzo il presunto incontro di Verona e ogni collegamento di
tale incontro, di cui nessuna fonte parla, con il 31 agosto del 384, resta da
spiegare perché Massimo, che neU’autunno/invem o del 383 pretendeva la
tutela di Valentiniano e ne esigeva la venuta a Treviri, abbia rinunciato a
tale pretesa nel 384 ed abbia lasciato alla corte di Milano quella autonomia
che n ell’estate del 384, al tempo della controversia per l’altare della
Vittoria, e poi nell’autunno, quando Bautone affrontò i Sarmati, appare

8 II testo greco o'(a noo Kai f| jtpd>Tr| fjv éKoxpàxeia xe Kal óp|xf| èia tòv 'Pfjvov
(ed. Downey I, p. 318) significa letteralmente: «Tale fu ad es. anche la prima
spedizione militare e il movimento verso il Reno». Il Vera (art. cit., p. 291, n. 69)
spiega di aver tradotto «quell’inizio di spedizione militare» perché traducendo
«prima spedizione » bisognerebbe supporre l’esistenza, già neH’invemo del 385, di
una seconda spedizione contro Massimo. A preparativi di Teodosio contro
Massimo pensa anche, in base al passo di Temistìo, B. Saylor Rodgers, Merobaudes
and, Maximus in Gaul, «Historia» 30, 1981, p. 104, secondo la quale, peraltro,
Teodosio era stato all’inizio consenziente con Massimo e non del tutto innocente
neH’eliminazione di Graziano (art. cit., p. 103).
9 S. Dusanic, The End of thè Philippi, « Chiron » 6, 1976, pp. 427 ss.
38 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

piena e senza tim ori10. Concordo con il V era nel ritenere che la
tranquillità di cui gode Valentiniano nel 384 dipende dalla decisione,
manifestata da Teodosio, di non tollerare sconfinamenti da parte di
Massimo nell’Italia settentrionale e nelle regioni controllate dallo stesso
Valentiniano: è quello che risulta anche da Socrate (H .E. 5,11-12) e da
Zosimo (4,37), quando parlano di preparativi di guerra da parte di
Teodosio e che emerge anche dal Cronografo del 452 (Chron. Min. I
p. 646), quando dice che Massimo si accordò con Valentiniano «per
timore dell’imperatore Teodosio».
Credo però che il riconoscim ento di Massimo da parte di Teodosio e
la manifestazione da parte di quest’ultimo della volontà di non tollerare
sconfinamenti siano stati contem poranei e che il riconoscim ento sia stato
fin dall'inizio, nel 383 o nel 384, subordinato al rispetto delle sfere di
influenza reciproche: non mi pare infatti che ci sia spazio nelle fonti per
affermare un mutamento formale di Teodosio nei riguardi di Massimo
fra il 383 e il 384. La debolezza rivelata da Valentiniano nel momento
immediatamente successivo alla morte del fratello si spiega con la lonta­
nanza di Teodosio e con la sua impossibilità o non disponibilità a
intervenire: di qui il temporeggiare di Ambrogio e di Bautone e la ricerca
di scuse (l’inverno) per rinviare lo spostamento del fanciullo Valentiniano
al di là delle Alpi e il suo affidarsi alla tutela dell’usurpatore. Con la
primavera del nuovo anno e con il delinearsi della posizione di Teodosio
e della sua disponibilità a intervenire, anche la posizione della corte di
Milano si rafforzò. Può darsi che l’oscuro accenno di Temistio alla
progettata spedizione renana dell’im peratore di O riente si riferisca effet­
tivamente a questo momento: esso non implica però da parte di Teodosio
un assenso dato precedentem ente senza contropartita all’usurpatore delle
Gallie; in quanto al secundum vexillum di Pacato, non credo che esso si
riferisca ad una spedizione progettata da Massimo nel 384 e non attuata,
ma a momenti diversi della spedizione realm ente attuata nel 387-388:
Pacato afferma infatti di ritenere provvidenziale il fatto che l’usurpatore,
qui sub nomine pacis ludere et primi sceleris luerari quiescendo potuisset (30,2) -
e qui il riferimento alla pace seguita dopo l’uccisione di Graziano, il
primum scelus, mi sembra esplicito - secundum tertiumque vexillum latrocinii

10 Secondo J.R. Palanque, Saint Ambroise et l Empire romain, Parigi 1933, p. 5


la controversia va posta dopo il raccolto del grano e prima della vendemmia. Il
Vera (art. cit., p. 273, n. 23) ne deduce che Valentiniano era a Milano nel luglio/
agosto del 384 e che era appena arrivato da Aquileia il 9 settembre (data della
legge da lui emanata in quella città). Per la spedizione di Bautone in Pannonia
contro i Sarmati, la fonte è Simmaco Rei. 47 (cfr. Vera, art. dt. 273 n. 24).
IH. MAGNO MASSIMO E L’ITALIA SETTENTRIONALE 39

civilis attolleret et superatis Alpibus Cottis Iulia quoque claustra laxaret... La


seconda e la terza iniziativa di guerra civile dopo l’uccisione di Graziano
si concretizzano qui nel superamento effettivo, e non soltanto minacciato,
delle Alpi Cozie, e poi (quoque) nella apertura dei varchi delle Alpi Giulie
( Iulia... claustra laxaret)-, si tratta cioè di due diversi m omenti deU’ultima
campagna, quella del 387-388 con la quale gli eserciti di Massimo
passarono prima attraverso le Alpi Cozie, nellTtalia settentrionale con­
tro V alentiniano11, e poi, contro Teodosio, al di là delle Alpi Giulie,
nell'illirico. Si tratta, credo, dell’attuazione della m inaccia prospettata
da Ambrogio nella lettera a Valentiniano (ep. 30 Faller = 24 Maur.),
nella quale il vescovo riferisce all’im peratore i risultati della sua se­
conda missione a Treviri presso Massimo, destinata ufficialm ente a
chiedere all’usurpatore gallico (ib. 9) la restituzione del corpo di Graziano
(cfr. anche Ambros. obit. Valent. 28 e 39 e Paul. Med. vita Ambr. 19,1).
La datazione di questa lettera mi sembra ora decisiva per illuminare la
rottura che portò alla guerra civile.

2. Massimo e l’Italia settentrionale fra il 386 e il 387-388


Importantissima com e docum ento storico, la lettera (e la missione che
essa riferisce) è estremamente controversa per la sua datazione, che alcuni
collocano nel 384, altri nel 385, nel 386, nel 387. Alla radice dell’incertezza
ci sono la data del processo e della condanna dei Priscillianisti (che alcuni
collocano nel 384 ed altri nel 385-386) e la data della minaccia di invasione
dell’Italia settentrionale, di cui dobbiamo appunto occuparci12.
L ’incontro di Ambrogio con Massimo appare fin dall’inizio turbato
dalle recriminazioni di quest’ultimo sulla parte avuta da Ambrogio nella
prima legazione, deU’autunno/invem o del 383-384 (3-8) e sui rapporti
esistenti fra la corte di Valentiniano e Teodosio (11), oltre che dalla presa

11 Anche E. Stein, Histoire du bas Empire, I, 1, 1959, pp. 204 s. colloca nel 387 il
superamento da parte di Massimo delle Alpi Cozie.
12 Sulla bibliografìa e sullo status quaestionis vd. J.R. Palanque, L ’empereur
Maxime, op. cit., pp. 259 ss.; D. Vera, art. cit., pp. 276 e 296 s. sembra propendere
per il 384; J.F. Matthews ( Western Aristocracies and Imperiai Court, a.D. 364-425,
Oxford 1975, p. 180 n. 6), data la missione di Ambrogio nel tardo 385 o nel primo
386. Alla stessa data colloca tale missione B. Saylor Rodgers, art. cit, p. 94, n. 34.
Sul processo e la condanna dei Priscillianisti (che era in atto al tempo della
missione di Ambrogio a Treviri, vd. ora J. Van Smith, comm. a Vita Martini, 16,1
e 20,3-4, nell’edizione Vite dei Santi a cura di Crist. Mohrmann, della Fondazione
Lorenzo Valla, Milano 1975 e J.M. Blàzques Martìnez, in Primera Reunion Gallega
des estudios clasicos, Santiago de Campostela 1981, pp. 230 s.).
40 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

di posizione di Ambrogio nei riguardi dei vescovi presenti a Treviri per il


processo, tuttora in atto, contro i Priscillianisti (12), e si conclude con
l’espulsione di Ambrogio dalla Gallia e con il preannuncio di un attacco
imminente da parte di Massimo, da cui Valentiniano - dice Ambrogio -
farà bene a guardarsi (13).
Qualcuno ha osservato che il modo con cui Ambrogio accosta le due
missioni suggerisce di non distanziarle troppo fra loro (cfr. Paredi,
S. Ambrogio e la sua età, Milano, 1960, 354; cfr. anche Vera, cit., 297), ma
l’osservazione non è, a mio avviso, decisiva: a parte infatti che l’intervallo
di tre anni non appare in ogni caso troppo lungo perché le recriminazioni
di Massimo, valide nel 384, avessero ancora un significato nel 386, il
resoconto che Ambrogio dà delle due missioni in obit. Valent. 28 (scritto
dopo la morte del giovane imperatore nel 392) sembra m arcare tra le due
missioni un intervallo assai più lungo dei pochi mesi che intercorre­
rebbero tra di esse, se la seconda si fosse svolta nella primavera del 384:
le parole di Ambrogio sembrano infatti sottolineare una differenza tra la
prima missione, affidata a lui da Giustina quando l’im peratore era un
bambino (nel 383 Valentiniano aveva 13 anni: ego te suscepi parvulum, cum
legatus ad hostem tuum pergerem; ego Iustinae maternis traditum manibus
amplexus sum e la seconda, in cui tuus iterum legatus repetivi Gattias, in cui
Valentiniano appare ormai, almeno dal punto di vista formale, fuori da
ogni tutela. Si sa che nella tradizione romana la maggiore età si aveva con
la toga virile, tra i 14 e i 16 anni: il 386, quando Valentiniano aveva 16 anni,
sembrerebbe da questo punto di vista una data preferibile alla primavera
del 384, quando Valentiniano era ancora parvulus.
Io credo però che l’ambientazione cronologica della lettera (e del
missione) debba venire soprattutto dalla comprensione della situazione
politica che la lettera sottintende: non c ’è dubbio che la lettera rivela una
forte tensione fra Ambrogio e la corte di Valentiniano: ciò che lo induce
a scrivere subito all’imperatore, durante il viaggio, prima ancora del suo
ritorno, è il timore ne cuiusquam sermo veri prius vana intexeret, quam reditus
meus integra et sincerae veritatis expressa signaculo manifestaret (1).
Ambrogio ha dei nem ici a corte e ci tiene a sottolineare la sua fides
(1 superioris legationis meae fides; cfr. anche 5 e 6). A prima vista am­
bedue le date finora indicate si adattano a questo timore: se la lega­
zione e la lettera fossero della primavera del 384, alla vigilia dello scontro
con Sim maco per l ’altare della Vittoria, gli avversari di Ambrogio
sarebbero i pagani della corte, primo fra tutti il magister militum Bautone,
che nella controversia appoggiò Simmaco (ep. extra coll. 10,3 = Maur. 57;
obit. Valent. 19) e contro il quale, allora, Ambrogio polemizzò apertamente
(ep. 72 Faller = Maur. 17).
III. MAGNO MASSIMO E L’ITALIA SETTENTRIONALE 41

Ma nella lettera che stiamo studiando Ambrogio parla di Bautone con


la massima stima e ne elogia la devotio verso il suo imperatore (6) e, quel
che più conta, tende a sottolineare che lui e Bautone sono stati insieme
oggetto degli attacchi di Massimo proprio per la loro fedeltà a Valenti­
niano nella prima legazione. 4 quoniam me lusistis tu et ille Bauto...
O ra è interessante osservare che in una lettera alla sorella deH’aprile
del 386, scritta subito dopo la controversia per le basiliche, mentre la
tensione era ancora viva e la corte accusava il vescovo di essere un tyrannus,
cioè un usurpatore e un ribelle per aver fomentato la resistenza del
popolo, Ambrogio allude, usando il presente, a queste lamentele di Mas­
simo a proposito della sua prima legazione: ep. 76 Faller, 23 (= Maur. 20) :
Non hoc Maximum dicere, quod tyrannus ego sim Valentiniani, qui se meae
legationis obiectu queritur ad Italiam non potuisse transire...?
Al tempo della controversia delle basiliche le lamentele di Massimo per
la prima legazione erano dunque attuali. Ciò non significa però che fosse
già avvenuto con lui il duro scontro della seconda legazione, documentato
dalla lettera che stiamo studiando: al contrario, in una lettera del marzo
del 386 a Valentiniano, di poco anteriore a quella alla sorella e sempre
relativa alla questione delle basiliche, Ambrogio, dopo aver ribadito,
contro la corte fìloariana, la sua fedeltà al concilio di Nicea, lascia
intendere con abilità che la sua posizione è condivisa da Teodosio e da
Massimo (ep. 75 Faller = Maur. 21,14 Quamfidem etiam parens clementiae tuae
Theodosius beatissimus imperator et sequitur et probavit. H anc fidem Galliae
tenent, hanc Hispaniae cum pia divini Spiritus confessione custodiunt) e che una
sfida alla fede nicena lascerebbe politicam ente isolato Valentiniano.
L ’accenno a Massimo, fatto attraverso la Gallia e la Spagna, poste allora
sotto il suo governo, è m olto cauto, data la tensione in quel mom ento già
esistente fra la corte di Milano e l’usurpatore di Treviri, ma non per
questo m eno importante: l’apprezzamento religioso in esso contenuto
(cum pia divini Spiritus confessione) è assolutamente incompatibile con la
situazione determ inatasi fra Ambrogio e Massimo dopo la seconda
legazione, finita con l’accusa a Massimo di essere l’assassino di Graziano
e con il rifiuto di Ambrogio di comunicare con i vescovi fedeli all’usur-
patore e colpevoli con lui delle violenze contro i Priscillianisti. Esso rivela
al contrario che, nonostante le recriminazioni di Massimo sulla parte avuta
da Ambrogio e da Bautone nella prima legazione, i rapporti fra l’usur-
patore di Treviri e il vescovo di Milano erano, nella primavera del 386,
ancora buoni, o, alm eno, non ancora gravemente compromessi. Sono
proprio questi rapporti fra Ambrogio e il ‘cattolico’ Massimo (col quale
il vescovo di Milano aveva già trattato con successo nel 383) a spiegare,
insieme, l ’invio a Massimo dello stesso Ambrogio, subito dopo la con­
42 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

clusione della controversia per le basiliche, e la preoccupazione che la


nostra lettera rivela da parte di Ambrogio di cautelarsi contro l ’ostilità
della corte.
In effetti, nonostante la vittoria riportata da Ambrogio nella contro­
versia del 386 e la decisione di Valentiniano di porre fine il 2 aprile
all’assedio delle basiliche e di revocare le misure repressive precedente-
m ente decise, la polem ica con l ’imperatrice Giustina che Ambrogio
chiama nella lettera dell’aprile a Marcellina (ep. 76 Faller = 20 Maur.)
femina, Jezabel, Erodiade, adultera, continua durissima e la tensione con la
corte resta massima: l’accusa di ribellione, di « tirannide » di cui Ambrogio
si giustifica nella ep. 76, culmina con le palesi minacce dell’eunuco
Calligono, praepositus cubiculi (ib. 28 caput tibi tolló) e con la fiera rispo­
sta del vescovo (ib. ego enim patiar quod episcopi, tu facies quod spadonis).
La tensione era ancora viva dopo il 19 giugno dello stesso 386 ed è
rivelata dalla lettera che, dopo tale data, Ambrogio scrive ancora alla
sorella per narrarle la scoperta dei corpi dei martiri SS. Protasio e Gervasio
(ep. 77 Faller = 22 Maur., 10): tales milites habeo... videant stipatores meos;
talibus me armis ambiri non nego. Milites, stipatores, arma sottintendono
l ’accusa di ribellione, tuttora presente. In questa atmosfera, la decisione
di inviare a Massimo proprio Ambrogio, anche se giustificata dal successo
della precedente legazione, rivela la speranza, di una parte almeno della
corte, di cogliere in fallo il vescovo, di poterne dimostrare il tradimento
a favore dell’usurpatore, che Teodosio continua, peraltro, a non disco­
noscere form alm ente com e Augusto.
La tensione che la lettera rivela e anche l’insistenza con cui Ambrogio
calca la mano in essa sul suo dissenso con Massimo e sulla lealtà da lui
dimostrata verso Valentiniano, non si spiega nel 384, m entre si spiega
pienamente nel 386 o nel 387. Io credo pertanto che la seconda legazione
di Ambrogio e la lettera che la riferisce, siano da datare, com e ha giu­
stamente sostenuto il Palanque, nel 386 (dopo, aggiungerei, il 19 giugno),
nell’imminenza della guerra che Massimo sferrò contro Valentiniano,
costringendolo a fuggire a Tessalonica, e che provocò l’intervento di
Teodosio e la sconfitta e la morte di Massimo. Credo inoltre che il
processo contro i Priscillanisti, non ancora concluso al m om ento della
presenza a Treviri di Ambrogio (12 ad necem petebant), fosse in atto nel 386:
com e appunto risulta dal fatto che il prefetto del pretorio Evodio, che
condusse il processo, era, al tempo di esso, console (Sulp. Mart. 20,3).
Alla luce della datazione qui proposta diventa pienam ente significativa
l’esortazione che Ambrogio rivolge a Valentiniano al term ine della sua
relazione sulla seconda ambasceria (ep. 30,13): vale Imperator et esto tutior
adversus hominem pads involucro bellum tegentem. Il pacis involucro di
I I I. M a g n o M a s s im o e l ’I t a l ia s e t t e n t r io n a l e 43

Ambrogio ricorda da vicino il sub nomine pacis con cui Pacato (Paneg. 30,2)
introduce il racconto dell’ultima spedizione di Massimo. Esso si adatta
anche alla versione che Zosimo (4,42 ss.) fornisce delle ultime trattative tra
Massimo e Valentiniano. Massimo, egli dice, si preparava a passare le Alpi
e ad invadere l’Italia, perché voleva spogliare il giovane Valentiniano di
tutto l’impero, ma riteneva pericolosi i passaggi delle Alpi per la strettezza
e l’asprezza dei luoghi e per le paludi che si trovavano ai loro piedi; per
questo, approfittando di u n ’am basceria che V alentiniano gli aveva
mandato da Aquileia per chiedergli (42,3) n ep ì Pe(3aunépa<; eipfjvT|<;
àa<pàXei,av, ricorse all’inganno e passò segretamente le Alpi con il suo
esercito, seguendo lo stesso ambasciatore inviatogli da Valentiniano, il siro
Donnino e le truppe che gli aveva affidato, a titolo di alleanza, per
fronteggiare un attacco di barbari dalla Pannonia. L ’ambasceria di
Donnino proviene da Aquileia, dove Valentiniano si era già recato, abban­
donando Milano; essa inoltre deve trattare «una pace più sicura» ed è
certam ente posteriore all’ambasceria di Ambrogio, che avvisava l ’impe­
ratore dei preparativi di Massimo e lo esortava ad essere vigilante (esto
tutior). Non c ’è dubbio che l ’iniziativa militare fu tutta di Massimo: Pacato
(loc. cit.) dice che fu provvidenziale che Massimo, che sub nomine pacis era
rimasto impunito del primo delitto, la uccisione di Graziano, sollevasse
egli stesso secundum tertiumque vexillum latrocinii civilis così da imporre a
Teodosio, che per parte sua serbava ancora fedeltà al patto iniziale (tibi...
servanti adhuc veniae fidem ), la necessità di vincere (vincendi necessitatem).
Zosimo conferm a pienam ente Pacato per quel che riguarda l’iniziativa
di Massimo e la decisione di Teodosio di ricorrere alla guerra civile solo
quando fu costretto a fa r lo 13. E certo invece ch e l ’intervento di
quest’ultimo avvenne solo nel 388, dopo circa un anno dall’ingresso di
Massimo n ell’Italia settentrionale. Il passaggio di Massimo avvenne dalle
Alpi Cozie (Pacato, loc. cit. superatis Alpibus Cottis) e la sua marcia non
sembra aver trovato ostacoli fino ad Aquileia, da dove, spaventato T(p
ai<pvU5t<p Valentiniano fuggì con la madre e il resto della corte a Tessa-
lonica (Zosim. 4,43,1).
Dell’azione svolta da Massimo in Italia nel 387 (e in Africa: cfr. Pacat.
38,2) prima dell’intervento di Teodosio, sappiamo ben poco: qualche
contributo alla comprensione di questo oscuro periodo potrebbe forse
darlo lo studio dell’epigrafia di Magno Massimo, la cui titolatura è peraltro

13 Zosim. 4,4 4 ,1 tòicvei Jipòg tòv 7tóXe(XOV... £<pacncev 8eiv Jtpótepov SiaKip
KéioOai... Ka?à xò Tipóxepov axfj|xa. Certamente tendenzioso è invece Zosimo
nell’attribuzione della decisione di Teodosio di intervenire alle nozze con Galla.
44 M a r t a s o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

ancora in discussione14. Qualche spunto interessante è stato suggerito di


recente dalla Ruggini a proposito della politica religiosa dell’imperatore
Massimo, che fino al 386 si era atteggiato a cattolico e a intransigente
custode dell’ortodossia nicena, dopo la scomunica a lui lanciata come
Itaciano da Ambrogio nel 38615, vide coagularsi intorno a sé « le frange
religiose estranee al riconsolidato blocco fra ortodossia e impero teodo-
siano » e, in particolare, la nobiltà pagana16 e gli ebrei, che si rivolsero con
successo a Massimo per l’incendio di una sinagoga a Rom a (Ambr. ep. 40
Faller = 23 Maur.) e che subirono, forse per rappresaglia per la loro fedeltà
all’usurpatore, l’incendio di una sinagoga in Aquileia dopo la morte di
quest’ultim o17.
L ’intervento di Teodosio, accuratamente preparato nel corso del 387,
si manifestò in tutta la sua potenza nel 388: il racconto di Pacato, scritto
subito dopo i fatti e più dettagliato delle altre fonti, riceve una sostanziale
conferm a da Zosimo (4,45,4 e 4 6 ,2 )18 e da Orosio (7,35). Quest’ultimo
insiste sul modo quasi miracoloso con cui Teodosio riuscì a sfuggire alla
sorveglianza di Massimo (che si trovava ad Aquileia, ib. 3) e del suo comes
Andragazio, che aveva fortificato tutti i passaggi delle Alpi e dei fiumi
(.Alpium ac flum inum ), ma che si aspettava un attacco dal mare e fu preso
alla sprovvista quando Teodosio improvisus adveniens passò le Alpi (Giulie)
vacuas (cfr. il laxaret claustra di Pacato) e arrivò ad Aquileia. Al passaggio
teodosiano delle Alpi (Appennini nel testo), m entre Andragazio era
impegnato sul mare e Massimo era ad Aquileia e non si aspettava l’attacco,
accenna anche Zosimo (4,46,1-2). Dobbiamo ricorrere invece al Panegirico
di Pacato per la descrizione della marcia di Teodosio n ell’Illirico e per la

14 Sul complesso problema dell’epigrafìa di Magno Massimo vd. P. Meloni, Un


nuovo miliario sardo e le iscrizioni di Magno Massimo, « Stud. Sard.» 12-13, 1952-1953,
pp. 509 ss.; L. Braccesi, Una nuova testimonianza su Magno Massimo, « La Par. del
Pass.» 121, pp. 279 ss.; M. Guidi, Ancora su Magno Massimo, «S. Oliv.» 18, 1970,
pp. 3 ss. Per la titolatura di Massimo sulle monete, vd. ora F. Barbieri, in Settima
Miscellanea greca e romana, Roma 1980, p. 548, n. 35.
15 Paul. Med. vita Ambr. 19,1; cfr. L. Cracco Ruggini, Ambrogio e le opposizioni
anticattoliche, «Augustinianum» 14, 1974, p. 445, n. 111.
16 Socr. H.E. 5,14 ad a. 388; Symm. epp. 2,30 e 31 del 389; cfr. L. Cracco Ruggini,
art. cit., p. 445, n. 112.
17 Cfr. L. Cracco Ruggini, art. cit., p. 445, n. 114. Su queste vicende la Ruggini
toma in II vescovo Cromazio e gli Ebrei di Aquileia, in «Ant. Altoadr.» 12, 1977,
pp. 364 ss.
18 Zosimo parla di Appennini; secondo A. Grilli, Il mito del fiume Akylis,
«Rend. Ist. Lomb.» 113, 1979, pp. 21 s. con tale termine Zosimo indica i monti
Tauri e Karawanken.
III. M a g n o M a s s im o e l ’I t a l ia s e t t e n t r io n a l e 45

descrizione delle vittorie a Siscia sulla Sava (34,1) e sul fratello di Massimo,
M arcellino (35,2 ss .)19. Era l’estate del 388 (35,2), quando le truppe vitto­
riose di Teodosio giunsero a Em ona (37,1 ss.), liberandola dall’occupa­
zione e superando le Alpi, m entre Massimo in fuga (38,1 ss.) si rifugiava
in Aquileia (38,4). L ’inseguimento fu rapidissimo e senza ostacoli ( ib. 39,2,
con evidente esagerazione: spatio lucis unius Illyrico continuavit Aquileiam;
ib. 40,1; dalle Alpi Giulie non ci furono combattimenti ma solo trionfi),
e la vittoria ebbe sia da parte pagana che cristiana interpretazioni mi­
racolose 20.
Catturato vivo, Massimo subì un breve processo davanti a Teodosio e
fu poi ucciso dai soldati, che lo sottrassero con violenza all’imperatore
incerto e disposto a graziarlo (Pacat. paneg. 44,2), mentre Valentiniano
recuperava il suo trono, fino alla prossima usurpazione.
Così, malinconicamente, si concludeva la sorte di un usurpatore in cui
molti autori antichi, sia cristiani che pagani, videro un uomo degno di
essere imperatore (Oros. hist. 7,34,9 vir quidem strenuus et probus atque
Augusto dignus nisi contra sacramenti fidem per tyrannidem emersisset), che la
tradizione celtica, ricordandone le vittorie sui Britanni, o trasfigurò in una
specie di eroe locale, predecessore e prototipo del leggendario A rtù21 e
di cui, infine, i barbari - e questa è la lode più alta che la tradizione
parzialmente ostile tributa a Massimo - avevano paventato perfino il nome
(Oros. hist. 35,4) : hostem illum Magnum Maximum, trucem et ab immanissimis
quoque Germanorum gentibus tributa ac stipendia solo terrore nominis exigentem.

19 La seconda battaglia avvenne in prossimità di Emona (Pacat. paneg. 37,1).


E. Stein, op. cit., p. 207 colloca la battaglia a Poetovio.
20 Pacat. paneg. 39,4 s. (con il ricordo dei Castores)' cfr. L. Cracco Ruggini,
Simboli di battaglia ideologica nel tardo ellenismo, Pisa 1972, pp. 92 ss. Per una
confutazione polemica dell’interpretazione pagana degli aspetti miracolosi della
campagna, vd. Aug. civ. 5,26, secondo il quale nella lotta con Massimo, Teodosio
non si lasciò ingannare da curiosità sacrileghe o illecite, ma mandò a consul­
tare in Egitto un santo eremita, Giovanni; ed ebbe da lui « l’annunzio certissimo
della vittoria».
21 Cfr. C.E. Stevens, Magnus Maximus in British history, « Ét. Celt.» 3, 1938,
pp. 86 ss.; M. Guidi, art. cit., p. 5 (sul «sogno di Massimo», in cui Magno Massimo
è ricordato come Maxim Wlegig (Wlegig = capo locale).
IV.
AUGUSTINUS, DE CIV. D EI V,23
E I TENTATIVI DI RESTAURAZIONE PAGANA
DURANTE L ’INVASIONE GOTICA DEL V SECOLO

In un famoso passo del V libro del de civitate Dei, scritto come è noto
nel 415 *, Agostino, dopo aver polemizzato con i pagani che, praeteritarum
rerum ignari, quidam etiam dissimulatores scientiae suae (5,22), accusavano i
tempi cristiani di tutte le sventure, ricorda ( ib. 23) che all’epoca in cui
Radagaiso con più di 100.000 uomini minacciava Roma e stava per essere
mirabiliter sconfitto, a lui, che si trovava allora a Cartagine, fu riferito (nobis
apud Carthaginem dicebatur), che i pagani credevano e diffondevano
vantandosi (credere, spargere, iactare) che il barbaro, protetto e difeso
dall’amicizia degli dei, ai quali offriva sacrifici ogni giorno, non poteva
essere vinto dai Romani a cui la religione cristiana impediva di fare i
sacrifici. La stessa notizia compare anche nel serm. 105,10, in cui Agostino
associa, com e in dv. 5,23, il ricordo del pagano Radagaiso e quello del
cristiano Alarico e della diversa conclusione delle due spedizioni del 406
e del 410.
Orosio che scrive intorno al 417, anche se la raccolta del materiale
da lui elaborato è probabilm ente anteriore alla stessa pubblicazione del
de civitate Dei*, associa, al pari di Agostino, il ricordo dei due avvenimenti,
accenna ai discorsi dei pagani su Radagaiso e sulla sua invincibilità a causa
dei sacrifici, che i Romani non facevano più, ed aggiunge che, m entre il
barbaro si avvicinava a Roma, fit omnium paganorum in urbe concursus...
magnis querellis ubique agitur, et continuo de repetendis sacris celebrandisque
tractatur, feruent tota Urbe blasphemiae (7,37,6-7). Dopo aver parlato della
vittoria di Stilicone e dei Rom ani sui .m onti fiesolani afferma infine che,
se Dio non fosse provvidenzialmente intervenuto (ib. 13), non solum paganis

* «Augustinianum» 25, 1985, pp. 205-210.


1 F. Fabbrìni, Paolo Orosio uno storico, Roma 1979, p. 76, n. 13.
2 E. Corsini, Introduzione alle Storie di Orosio, Torino 1968, pp. 33 ss. afferma che
Orosio usò il materiale di Agostino. Diversamente F. Fabbrini, op. cit., pp. 75 ss.,
a cui rimando anche per una nuova impostazione del problema della data di
composizione dell’opera di Orosio (pp. 58 ss.).
48 M a r t a s o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R om a

residuis de instaurando cultu idolorum esset indubitata persuasio, sed etiam


Christianis periculosa confusio, cum et hi terrerentur praeiudicio et illi confirma­
rentur exemplo.
Il confronto fra il passo di Agostino e quello di Orosio sembra rivela
che nel 406 a Roma, in occasione della minaccia di Radagaiso, non ci fu
soltanto un’attiva propaganda pagana sul valore degli antichi sacrifìci e sui
danni che venivano dal loro abbandono, m a che si verificavano anche
concreti tentativi di restaurazione pagana (paganorum... concursus... de
repetendis sacris celebrandisque tractatui), di fronte ai quali i cristiani si
mostrarono incerti o conniventi, anche se poi, di fatto, i sacrifici non
furono compiuti.
Ad un episodio di questo genere alludono, dipendendo probabilmente
dalla stessa fonte, Olim piodoro3, Sozomeno (H .E. 9,6) e, con aggiunte,
Zosimo (5,41), che riferiscono però il fatto non al 406, al tempo di
Radagaiso, ma al 408-409, al tempo del primo attacco a Roma di Alarico.
Dice Zosimo che, mentre Roma era assediata, alcuni vennero a Roma
dall’Etruria e offrirono al prefetto urbano, che era allora Pompeiano, di
ripetere per Roma quello che avevano fatto per N am i, liberandola con
tuoni e lampi dai barbari. Pompeiano, convinto dell’utilità delle sacre
cerimonie, parlò con Innocenzo, allora vescovo di Roma, che, antepo­
nendo la salvezza della città alla propria fede, permise le cerim onie, ma
a patto che fossero celebrate di nascosto. Poiché gli Etruschi dissero che
i loro riti avrebbero giovato alla città solo se fossero stati compiuti
pubblicamente (8r||iocrig) e se il senato fosse salito in Campidoglio e là e
nelle piazze della città avesse compiuto ciò che era conveniente, nessuno
osò partecipare alle cerim onie religiose secondo l’uso patrio e si decise di
rinviare a casa loro quelli che erano venuti dalPEtruria, intavolando invece
trattative con i barbari.
N ell’episodio riferito da Zosimo e da Sozomeno, com e in quello
riferito da Agostino e da Orosio, l’avvicinarsi a Rom a dei Goti provoca un
tentativo, da parte dei pagani, di ripristinare gli antichi culti; in ambedue
i casi il tentativo non ha effetto, ma la resistenza dei cristiani è timida e
impacciata. Sia Agostino ed Orosio da una parte, sia Zosimo e la fonte

3 Su Olimpiodoro probabile fonte comune di Zosimo e di Sozomeno, rel


vamente a questo episodio, vd. A. Chastagnol, La préfecture urbaine sous le Bas
Empire, Paris 1960, p. 166; Y. Matthews, Olympiodoros of Thebes and thè HisUny of thè
West, «Joum. Rom. Stud.» 60, 1970, pp. 79 ss.; F. Paschoud, Cinq études sur Zosime,
Paris 1975, pp. 139 ss. crede di rintracciare in Zosim. 4,59 e 5,37,40-41 una fonte
unica, occidentale, usata da Eunapio e da Olimpiodoro e caratterizzata dall’af­
fermazione della necessità di sacrifìci pubblici, a spese dello stato.
IV . A u g u s t in u s , D e Civ . De i V ,23 e i t e n t a t i v i d i r e s t a u r a z i o n e p a g a n a 49

pagana, com une a Zosimo e a Sozomeno daH’altra, avevano certamente


interesse a datare l’episodio nel mom ento in cui effettivamente lo datano:
alla vigilia di uno scampato pericolo, nel racconto di Agostino e di Orosio,
per i quali la sconfìtta inflitta dal cristiano Sdlicone al pagano Radagaiso,
nonostante i sacrifici di quest’ultimo, diventava una conferm a dell’inutilità
dei sacrifici tradizionali; alla vigilia di un disastro terribile per Roma,
inutilm ente rimandato con umilianti trattative, nel racconto di Zosimo e
della sua fonte pagana, il cui scopo era di dimostrare che l’abbandono dei
sacrifìci pubblici agli dei tradizionali era stato causa di rovina per Roma.
Ma la ricchezza di particolari e di ricordi di prima mano che gli autori
collegano, nell’uno e nell’altro caso, con la datazione da loro prescelta
rende improbabile l’ipotesi di un unico episodio, anticipato dal 408 al 406
da Agostino e da Orosio, o posticipato dal 406 al 408 da Zosimo e dalla
sua fonte. Agostino, che scrive solo pochi anni dopo Alarico, afferma che
il tentativo compiuto dai pagani al tempo di Radagaiso gli era stato riferito
m entre si trovava a Cartagine e sembra collegarlo con un preciso ricordo
personale; Zosimo conosce il nom e del prefetto urbano Pompeiano, sotto
il quale l ’episodio degli Etruschi si verificò, e la prefettura urbana di
Pompeiano spetta al periodo fra il dicembre del 408 e il febbraio del 4094.
E probabile pertanto che si tratti veramente di due distinti tentativi
compiuti in Rom a per ottenere la restaurazione del culto pubblico,
compiuti dai pagani nel 406 e nel 408-109. Sappiamo del resto che le
argomentazioni che Agostino ed Orosio pongono in bocca ai pagani dei
tempo di Radagaiso e di Alarico, secondo cui le sventure che ora colpivano
Roma e il suo impero erano l’effetto dell’abbandono della religione
tradizionale e del trionfo del cristianesimo, non erano nuove, né nel 406
né nel 408: le conosceva già Ammiano per il IV secolo e le confutava con
espressioni stranamente simili a quelle che, pochi anni più tardi, userà
Agostino: Amm. 31,5,11 ss. (per il 376 d.C.): negant antiquitatum ignari,
tantis malorum tenebris offusam aliquando fuisse rem publicam, sed falluntur...
Nel 406 e nel 408, di fronte all’avanzata dei Goti, i pagani chiesero
dunque la restaurazione del culto pubblico: ciò che accomuna i due
episodi, al di là di una improbabile reduplicazione, è il fatto che l’im o e
l ’altro riguardano in qualche modo l’Etruria e rivelano come in questa
regione, centro della più antica tradizione religiosa del mondo romano,
si fosse concentrata la resistenza pagana e com e in essa, d’altra parte, il
Cristianesimo avesse bisogno di manifestare la sua forza. Nel 406 la
‘miracolosa’ vittoria di Stilicone su Radagaiso era avvenuta in Etruria e

4 A Chastagnol, op. cit., pp. 166 s.


50 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

dall’Etruria vennero nel 408 coloro che pretendevano di salvare, con riti
pagani, la stessa Roma.
Gli uomini venuti dall’Etruria del racconto di Zosimo sono chiara­
mente haruspices fulguratores, una branca dell ’ etnisca disciplina attestata
dalle epigrafi (TLE 697) e fondata sulla conoscenza dei libri fulgurales e
sulla interpretazione e l’espiazione (procuratio) dei prodigi manifestati
attraverso i fulmini, uno degli aspetti più caratteristici dell’aruspicina:
Etruria da caelo tacta dice Cicerone (div. 1,41,92), che ricorda per bocca del
fratello Quinto la convinzione diffusa che l’Etruria non può in fulgoribus
errare (ib. 18,35). La consultazione pubblica degli haruspices fulguratores in
caso di edifici colpiti dal fulmine è ancora attestata in ima costituzione di
Costantino dell’8 marzo 321 (Cod. Theod. 16,10,1 si quid de palatio nostro aut
ceteribus operibus degustatum fulgore esse constiterit, retento more veteris obser­
vantiae quid portendat, ab haruspicibus requiratur)-, l ’azione degli aruspici
doveva essere però pubblica, com e risulta da due altre costituzioni del 319
(Cod. Theod. 9,16,1-2), m entre quella privata e segreta era da Costantino
punita con la m orte5.
Questo è, probabilmente, il vero senso della richiesta degli aruspici nel
408, che la fonte pagana di Zosimo ha interpretato come una rivendica­
zione dell’efììcarìa esclusiva del culto pubblico e della sua restaurazione.
U n ’indubbia estensione delle ‘com petenze’ degli aruspici è la loro pretesa
di poter salvare, e di avere già salvato, una città, attirando sui nemici la
folgore distruttrice: un miracolo di questo tipo era stato in effetti celebrato
dall’apologetica cristiana e attribuito alla preghiera dei soldati cristiani
della legione XIIFulminata nella guerra contro i Quadi al tempo di Marco
Aurelio: in seguito a tale fatto, la Fulminata (portatrice del fulmine)
sarebbe stata chiamata Fulminans (lanciatrice del F u lm in e)6. La pretesa
degli aruspici rivela così il suo carattere ‘concorrenziale’ nei riguardi del
cristianesimo.
Lo scontro fra il cristianesimo e gli aruspici era in effetti cominciato nel
III secolo, al tempo di Alessandro Severo, quando erano stati gli aruspici,
secondo la Historia Augusta (Lampr. Alex. 43,7) ad impedire all’imperatore
il riconoscimento della nuova religione, e nelle grandi persecuzioni di

5 Cod. Theod. 9,16,1 superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum
proprium exercere, ib. 9,16,2 qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras publicas
adque delubra et consuetudinis vestrae celebrate sollemnia: nec enim prohibemus praeteritae
usurpationis officia libera luce tractari. Su queste disposizioni vd. ora L. De Giovanni,
Costantino e il mondo pagano, Napoli 1977, pp. 23 ss.
6 Sul miracolo della Fulminata, vd. M. Sordi, Le monete di Marco Aurelio con
Mercurio e la pioggia miracolosa, «Ann. Ist. It. Num.» 5-6, 1958-1959, pp. 41-55.
IV . AUGUSTINUS, D E CIV. D EI V ,23 E I TENTATIVI DI RESTAURAZIONE PAGANA 51

Decio e di Valeriano, che all’Etruria erano particolarmente e in modo


diverso collegati. Il conflitto era divenuto poi diretto con la persecuzione
di Diocleziano quando, secondo Lattanzio (mori. pers. 10,1-4) l’epurazione
militare, che della grande persecuzione era stata la prima avvisaglia, era
stata provocata da una denunzia degli aruspici. Con il trionfo del cristia­
nesimo la pratica dell 'etnisca disciplina era stata la prima fra le pratiche
pagane ad essere colpita da Costantino e le già citate costituzioni del 319
e del 321 (Cod. Theod. 9,16,1-2 e 16,10,1) avevano sancito la condanna di
essa nella sua form a privata, tollerandone l’esercizio solo nella forma
pubblica, ma degradandola nello stesso tempo al rango di superstizione.
In effetti, fin dal III secolo, gli aruspici avevano m antenuto e rafforzato i
legami con quelle forze che esprimevano la tendenza alla conservazione
dei valori etico religiosi rom an i7; con l’Etruria presentano un indubbio
rapporto nel IV e nel V secolo le fazioni e le famiglie più attaccate al
paganesimo tradizionale, com e quella dei Ceionii Decii, il cui capo è un
Cecina (Cecina Decio Acinazio Albino) e sono esponenti personaggi dal
nom e chiaram ente etrusco com e Rufìo Agripnio Antonio Volusiano8.
Alla luce dell’importanza che Vetrusco disciplina aveva assunto nell’ulti­
m a resistenza pagana al cristianesimo e della forza che il paganesimo aveva
ancora in Etruria tra la fine del IV e gli inizi del V secolo si capisce
l’insistenza della propaganda cristiana sul manifestarsi, nel cuore stesso
della vecchia Etruria, di fatti miracolosi.
Si è visto che Agostino e Orosio insistono sul carattere straordinar
(mirabiliter) della vittoria riportata dalle forze rom ane sulle orde di
Radagaiso sui m onti fiesolani; ancor più interessante mi sembra però la
testimonianza di Paolino, che nella vita di Ambrogio, scritta dopo pochi
anni dalle vicende, ricorda di avere saputo da una nobile signora
fiorentina, Pansophia, che alla vigilia della vittoria di Stilicone, Ambrogio,
il quale a Firenze aveva abitato al tempo della invasione di Eugenio ed
aveva compiuto prodigi e miracoli (Paul. Med. vita Ambr. 28), era apparso
ad uno dei cittadini curri iam de se penitus desperassent viri civitatis ipsius e gli
aveva promesso alio die salutem illis adjuturam (Paul. Med. vita Ambr. 50,2).
Questa notizia aveva dato coraggio ai Fiorentini e, il giorno dopo, la
vittoria di Stilicone su Radagaiso aveva conferm ato la profezia di
Ambrogio. Le apparizioni di Ambrogio a Firenze erano del resto, secondo

7 L. De Giovanni, op. cit., pp. 30 ss.


8 G. Zecchini, La politica religiosa di Aedo, « Contr. Ist. St. Ant.» 7, Milano
1981, pp. 250 ss.; su Litorio, amico dei Ceioni e i sacrifìci pagani vd. Id., Aedo.
L ’uliima difesa dell’Ocddente romano, Roma 1983, pp. 220 s.; sui Ceionii-Decii vedi ib.,
pp. 144-145; 158-159; 242-250.
52 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

10 stesso Paolino che appoggia qui la sua affermazione sulla testimonianza


del vescovo di Firenze Zenobio, assai numerose e, secondo la promessa
che egli stesso aveva fatto ai Fiorentini prima di m orire di visitarli spesso,
11 santo era stato visto frequenter pregare presso l’altare della basilica da lui
fondata (ib. 50,1).
La sequenza di miracoli dispiegati in Firenze attorno alla prestigiosa
figura di Ambrogio culmina nel 406 nella sconfitta di Radagaiso, conter­
ritum divinitus in Faesulanos montes, com e dice Orosio (hist. 7,37,13) e sine
proelio victum (ib. 15). Nel 408 i cultori dell’etnisca disciplina paesano al
contrattacco e sembrano decisi a contrapporre alle vittorie sine proelio
celebrate dai Cristiani prodigi della stessa natura: essi si vantano infatti di
avere già salvato con tuoni e lampi u n ’altra città dell’Italia centrale
(Nami) e si offrono di ottenere gli stessi effetti per Roma.
Unica condizione, la celebrazione pubblica (8T||i,o<TÌgt) dei loro riti
tradizionali. In effetti, com e si è visto, questa era la condizione che
Costantino aveva posto alla pratica dell’aruspicina nelle due costituzioni
del 319 (Cod. Theod. 9,16,1 e 2). Nella interpretazione di Zosimo e della sua
fonte, ma anche, com e risulta da Agostino e da Orosio, nelle richieste
avanzate dai pagani nel 406, la condizione era diventata un argomento per
affermare la necessità della restaurazione di un culto pubblico pagano
n ell’impero cristiano.
V.
LA CONCEZIONE POLITICA DI AMBROGIO

1. Nel De obitu Theodosii del 395 (39 ss.) Ambrogio traccia per la prim
volta la storia dell’im pero cristiano, fornendone una lettura teologica:
dopo aver detto che il defunto Teodosio, m entre Massimo e Eugenio sono
all’inferno, è accolto nella luce del cielo, ricorda che egli si ricongiunge
là con Graziano, suo predecessore n ell’impero, con i figli che la m orte gli
aveva strappato, Graziano e Pulcheria, con la moglie Flaccilla e con
Costantino, che, pur avendo ricevuto alla fine della vita il battesimo, quod
primus imperatorum credidit et post se hereditatem fid ei principibus dereliquit,
magni meriti locum repperit (ib. 40) inde reliqui principes Christiani, praeter unum
IuUanum, qui salutis suae reliquit auctorem, dum philosophiae se dedit errori. Inde
Gratianus et Theodosius (ib. 51).
Ambrogio è il primo a fare un bilancio della svolta religiosa com e svolta
determinante nella storia d ell’im pero: dopo di lui le catastrofi militari e
politiche degli inizi del V secolo porteranno pagani e cristiani a interro­
garsi sul significato di questa svolta, ch e sarà al centro delle polem iche,
che troveranno una risposta nella storia di Orosio e del de civitate Dei
di S. Agostino \ Al tempo di Ambrogio, dopo la sconfìtta di Adrianopoli
del 378, l ’accusa ai Cristiani di avere rotto la pax deorum e di avere tolto
all’impero la protezione divina, serpeggiava già (com e rivela l’intervento
di Simmaco suH’altare della V ittoria), m a essa poteva essere confutata, con
serena obiettività, anche da un pagano intelligente e non fazioso com e lo
storico Ammiano M arcellino (31,5,11 s.); nel 395, inoltre, il ricordo di
Adrianopoli era lontano e il regno del grande Teodosio, vincitore di
Massimo e di Eugenio e restauratore della sicurezza dei confini dall’in-
com bente m inaccia barbarica, permetteva di tracciare dell’impero cri-

* I Cristiani e l’impero nel TV secolo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antic
Atti del convegno (Macerata, 17-18 dicembre 1987), a cura di G. Bonamente e
A. Nestori, Macerata 1988, pp. 143-154.

1 Su questa polemica vd. Aug. civ. 5,22 ss.; Oros. hist. 7,37,13 e passi
cfr. M. Sordi, Augustinus, De civ. Dei V, 23 e i tentativi di restaurazione pagana durante
l’invasione gotica del V secolo, « Augustinianum » 25, 1985, pp. 205-210.
54 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e la t r a d iz io n e d i R oma

stiano ormai quasi secolare, un quadro non fallimentare neppure dal


punto di vista militare e politico.
Ma in questo contesto Ambrogio, che pure non sottovaluta mai gli
aspetti militari della difesa dell’impero, mostra di considerare le guerre e
le vittorie sugli usurpatori e sui barbari solo com e il tributo, doloroso ma
necessario e per questo meritorio, pagato dall’im peratore al suo dovere di
principe, com e il giogo e il peso che Cristo rende suave et leve (ib. 51):
(Teodosio) portavit iugum grave... quando infusis Romano imperio barbaris,
suscepit imperium. Portavit iugum grave, ut tyrannos Romano imperio dimoveret:
sed quia hic in labore, ibi in requie (ib. 53).

a) L ’attenzione di Ambrogio, che nello stesso De obitu Theodosii e


altri passi delle sue opere insiste sul carattere divino di quelle vittorie2, si
concentra qui su un altro aspetto, più profondo, dell’impero cristiano,
sulla natura stessa del potere di cui gli im peratori dispongono, e collega
la rinnovata vitalità di questo potere con la vittoria della croce. I paragrafi
41-51 del De obitu Theodosii sono dedicati, pressoché integralmente, alla
narrazione del ritrovamento della croce da parte di Elena e all’esplica­
zione dei simboli della corona e del morso per le briglie che essa forgiò
con i chiodi della croce. L ’esegesi biblica di Ambrogio (40 e 48), secondo
cui il chiodo trasformato da Elena in morso per le briglie del cavallo di
Costantino avrebbe rappresentato il com pim ento della profezia di
Zaccaria (14,20 in ilio die erit, quod super frenum equi, sanctum Domino
omnipotenti), appariva ridicola, anche se pia, a Gerolamo (in Zach. 14,20)
severo filologo e biblista rigoroso. Ma il pensiero che Ambrogio trasmette
attraverso la sua versione del ritrovamento della croce e dei chiodi
trasformati in morso per le briglie e in corona (che tanta parte ebbero poi
nella leggenda medioevale) e attraverso la sua fantasiosa esegesi della
profezia di Zaccaria è degno a mio avviso della massima attenzione e rivela
la meditazione sulla natura del potere dell’antico consularis romano
divenuto vescovo cristiano.
La versione del ritrovamento della croce (45 s.) è la stessa che, dopo
la morte di Teodosio, nel 402-403, accoglie Rufino (H .E. 1,7 s.): ci sono, in
ambedue, le notizie sugli scavi condotti sul Calvario, sul ritrovamento delle
tre croci e dell’iscrizione posta da Pilato, sul miracolo che permette il
riconoscimento certo della vera croce. Ma Rufino racconta il miracolo con
ricchezza di particolari, spiegando che fu il vescovo di Gerusalemme

2 Sulla probabile origine ambrosiana del motivo della vittoria incrue


vd. ora G. Zecchini, S. Ambrogio e le origini del motivo della vittoria incruenta,
« Riv. Stor. Ch. It.» 38, 1984, pp. 390 ss.
V . L a c o n c e z io n e p o l it ic a d i A m b r o g io 55

Macario a suggerire ad Elena una specie di giudizio di Dio e a portare le


tre croci presso il letto di una donna prossima alla morte, che fu risanata
dal tocco della vera croce, m entre Ambrogio accenna in modo molto
oscuro e allusivo allo stesso miracolo (ib. 46 pertendit tamen ad cubile veritatis,
lignum refulsit et gratia emicuit). Ambrogio non è pertanto la fonte di
Rufino, ma l’uno e l’altro dipendono probabilm ente da una fonte
comune, che riassumono in modo indipendente3. Ambrogio tace, in
questo riassunto, il particolare, noto a Rufino e già a Eusebio (V.C. 3,26),
della statua di V enere posta dai pagani sul Calvario e la parte di Macario,
vescovo di Gerusalemme (Eus. ib. 29 s.), ma insiste invece deliberatamente
sulle umili origini di Elena bona stabularia (ib. 42), sottolineate dalle fonti
pagane (cfr. Zosim. 2,8,2), ma taciute da Rufino, proprio per potere
affermare, polem icam ente, che illam Christus de stercore levavit ad regnum
(ib.), e attribuisce poi, a più riprese, allo Spirito Santo, e non a interme­
diari umani, com e appunto Macario, l’ispirazione che condusse Elena a
ritrovare la croce e a riconoscerla (ib. 41; 43; 45; 46). Questa duplice
sottolineatura, dell’umiltà di Elena e dell’azione in lei dello Spirito,
permette ad Ambrogio di sviluppare il confronto fra Elena e Maria. Come
Maria, infatti, essa vince il demonio: ib. 44 illa quasi sancta Dominum gestavit,
ego crucem eius investigabo; illa generatum docuit, ego resuscitatum... dice di sé
Elena prima del ritrovamento; ed Ambrogio continua, dopo avere fatta
allusione al miracolo della donna risanata: ib. 46 et quia iam feminam
visitaverat Christus in Maria, Spiritus in Helena visitavit. Ed ancora (ib. 47),
dopo la decisione di Elena di forgiare i chiodi in corona ed in morso:
visitata est Maria, ut Evam Uberaret; visitata est Helena, ut imperatores redime­
rentur. Con Maria è stata redenta l ’umanità, con Elena l’impero.

b) La redenzione dell’impero e degli imperatori è dunque il significa


di tutto Vexcursus ambrosiano sul ritrovamento della croce e della strana
esegesi ambrosiana della profezia di Zaccaria: usando infatti la corona e
il freno fatti con i chiodi della croce, con cui Elena imperanti filio divini
muneris quaesivit auxilium (ib. 41), Costantino fidem transmisit ad posteros
reges. Principium itaque credentium imperatorum sanctum est, quod super frenum
(ib. 47): ex illo fides, ut persecutio cessaret, devotio succederet.
Enunciato il principio che sta alla radice della grande svolta, Ambrogio
lo chiarisce e lo sviluppa: il par. 48 del De obitu Theodosii è a mio avviso

3 Tutta la vicenda del ritrovamento della croce, collegata con la ricerca


santo sepolcro della eusebiana Vita Constantini, 3,25 ss., ha uno sviluppo nella
letteratura armena, in cui lo Ps. Lerubna attribuisce a Patronicia figlia di Claudio
il ritrovamento della croce e i miracoli con esso connessi (FHGV, pp. 1319 ss.).
56 M a r t a S o r d i , s a n t ’A m b b o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

fondamentale per com prendere la concezione ambrosiana del nuovo


impero romano-cristiano e la concezione stessa ch e Ambrogio ha del
Potere, nei suoi rapporti con Dio, da cui deriva, e con i sudditi, sui quali
viene esercitato. «Agì sapientemente Elena nel porre la croce sul capo dei
re: ut crux Christi in regibus adoretur. Non inscientia ista, sed pietas est, cum
defertur sacrae redemptioni. Bonus itaque Romani clavus imperi, qui totum regti
orbem, ac vestit principum frontem, ut sint praedicatores, qui persecutores esse
consueverunt. Recte in capite clavus, ut ubi sensus est, ibi praesidium. In vertice
corona, in manibus habena. Corona de cruce, ut fides luceat; habena quoque de
cruce, ut potestas regat. Sitque vasta moderatio non iniusta praeceptio. Habeant hoc
etiam principes Christi sibi Uberatitate concessum, ut ad imitationem Domini
dicatur de imperatore Romano: Posuisti in capite eius coronam de lapide pretioso
(Ps. 20,3). L ’imperatore rom ano diventa così, in qualche modo, un alter
Christus, un vicario di Cristo.
Sulla base dell’autorità degli Apostoli, per i quali ogni potere legittimo
viene da Dio, i Cristiani avevano riconosciuto anche agli imperatori pagani
un’investitura divina: «N oi - diceva Tertulliano n ell’Apologetico (32,2) —
veneriamo negli imperatori il giudizio di Dio, che li mise a capo delle
genti»; e, più avanti (ib. 33,1): «Cesare è maggiormente nostro che vostro,
perché è stabilito al potere dal nostro Dio».
Ma Ambrogio non si limita a riconoscere l’origine divina del potere
imperiale: nella croce posta sul capo degli imperatori egli coglie la fede,
in Cristo morto e risorto, il riconoscim ento da parte dei grandi della terra
di Colui che era stato ucciso: cui regna famulantur, cui servit potestas (ib. 49).
Il motivo del potere com e servizio, caro alla migliore tradizion
romana (statio principis), anche se spesso obliterato nella prassi, riaffiora
qui con un significato nuovo, non solo perché il servizio degli imperatori
agli uomini è tutto fondato sul servizio a D io 4, m a anche perché qui
l’investitura divina all’im peratore è collegata con la croce di Cristo, il re
crocifisso, il redentore risorto.
È attraverso il simbolo del chiodo trasformato in morso, che Ambrogio
coglie questo nuovo significato del servizio e la differenza col passato
pagano del potere degli im peratori cristiani: ib. 50 quare sanctum supra
frenum, nisi ut imperatorum insolentiam refrenaret, comprimeret licentiam tyran­
norum... Quae Neronum, quae Caligularum, caeterorumque probra competimus,
quibus non fuit sanctum supra frenum ?

4 L’imperatore è servo di Dio: cfr. Ambr. obit. Valent. 52 (servo tuo Valentinian
obit. Theod. 36 (servo tuo Theodosio). Il motivo è ripreso e spiegato da Agostino
(ep. 185,5,19; cfr. L. De Giovanni, Il libro XVI del codice teodosiano, Napoli 1985,
pp. 79-80).
V . LA CONCEZIONE POLITICA DI AMBROGIO 57

Il morso che costringe le mascelle dei cavalli fa sì che se non agnoscere


reges, ut regerent sibi subditos (ib. 51). Il nuovo rapporto con Dio fonda così
anche un nuovo rapporto degli imperatori con i sudditi, un nuovo stile
di governo. Redime l’im pero dal male: prona enim, potestas ferebatur in
vitium... Ignorabant Deum, restrinxit eos crux Domini et revocavit a lapsu
impietatis. L ’ignoranza di Dio si traduce naturalmente, per Ambrogio, in
insolenza e in arbitrio.

c) La redenzione dell’im pero è anche la redenzione di Roma: le paro


del De obitu Theodosii, scritto nel 395, si saldano spontaneamente con quelle
scritte nel 384 dallo stesso Ambrogio a Valentiniano nella ep. 18 Maur.
(= 73 Faller), in cui, rispondendo a Simmaco e alla sua personificazione
di Roma, addolorata per la perdita degli antichi dei, Roma stessa afferma
(ib. 7) : non erubesco cum toto orbe longaeva converti... Nullus pudor est ad meliora
transire. Hoc solum habebam in commune cum barbaris quia deum antea
nesciebam.
Nel testo dei 384, com e in quello, di undici anni più tardo, dei 395, la
differenza fra V antea e il nunc è data dal superamento dell’ignoranza di
Dio (imperatores ignorabant Deum... Roma deum nesciebat) nella fede, un
superamento che si iscrive nella logica cristiana della conversione, ma
che si presenta anche in continuità con la tradizione rom ana del muta­
m ento in melius5.

2. In questo mutamento in melius dei governanti illuminati dalla fed


e disposti ad accettare il « morso » della croce di Cristo, che frena l’inso­
lenza degli imperatori e comprime la licenza dei tiranni, Ambrogio
ricupera e ripropone, rinnovato dal cristianesimo, un altro motivo caro
alla tradizione politica rom ana e familiare alla sua formazione senatoria,
quello della Ubertas, che, assai prima che nel De obitu Theodosii, egli aveva
avuto modo di sviluppare in altre opere e, in particolare, nell 'Esamerone e
nelle lettere agli imperatori.

a) N ell’Esamerone, scritto probabilm ente nella primavera del 387®,


motivo della libertas si presenta in un contesto organico nei due passi

5 Su questo tema vd. M. Sordi, Passato e presente nella politica di Roma, in AA.W.,
Aspetti e momenti del rapporto passato presente, Milano 1977, pp. 141 ss.
6 Per la data vd. J.R. Palanque, Saint Ambrmse et l'empire"romain, Paris 1933,
p. 519; L. Cracco Ruggini, Il vescovo Ambrogio e l’H .A., in Atti Coll. Patavino sulla
H.A., Roma 1963, p. 76.
58 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

famosi delle costituzioni delle gru (5,15,50 ss.) e delle api (ib. 21,66 ss.), in
cui l’originalità di Ambrogio rispetto a Basilio, suo modello, si manifesta
anche nella anticipazione (destinata a cogliere il rapporto cronologico
esistente nella storia rom ana tra repubblica e im pero) dell’episodio delle
gru su quello delle ap i7. Il principio che governa la costituzione a natura
accepta delle gru è l’assunzione com une del labore della dignitas, il rigoroso
avvicendamento degli oneri e degli onori: potestas e servitium sono ugual­
mente in funzione del bene com une e fondano, con la solidarietà fra
governanti e governati, una devotio tanto più fida quanto più libera, e tale
da escludere ogni desertio. Hic erat pulcherrimus status rerum; nec insolescebat
quisquam perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Non c ’è dubbio
(e Ambrogio è esplicito: antiquae hoc rei publicae munus) che il modello qui
proposto è quello deU’antica repubblica romana, fondata sulla tempora­
neità e l’avvicendamento delle cariche e sulla condanna di ogni potere
tenuto, a causa della dominandi libido, oltre i termini leciti, e non c ’è
dubbio che Ambrogio trasfigura qui, con toni quasi sallustiani, l’antica
repubblica, attribuendo ad essa, nel rimpianto, i caratteri dello stato
perfetto, secondo natura8.
Ma Ambrogio non si ferm a al rimpianto: egli vive sotto l’impero ed
accetta l’impero, con la sua perpetua potestas, com e una realtà storica su cui
esercitare il suo impegno per un mutamento in melius. La Ubertas che
l ’antiqua res publica aveva realizzato può essere salva anche con l’impero,
se questo accetta i limiti necessari della potestas e quella integrazione di
potestas e di servitium in funzione del bene com une che costituisce il segno
distintivo della politia a natura accepta, dello stato ideale.
Nella società delle api, sub rege liberae (ib. 21,67), leggi, fatica, cibo,
lavoro sono in comune: il principio a cui tutti sono obbligati è non alteri
ius esse, quod alius sibi intellegat non licere; sed quod liceat, licere omnibus; et quod
non liceat omnibus non licere.
In questa società rispettosa dell’uguaglianza, il potere supremo è
affidato a un rex, scelto non in base alla sorte, né alla successione dinastica,
né all’elezione della moltitudine, ma a chiari segni di natura, la grandezza
e la bellezza del corpo e, soprattutto, la mansuetudo morum, segno dell’ele­
zione naturale e divina. Affiorano in questo testo di Ambrogio, con le

7 Basii. Caes. Eli; -tf|V èi;af||iepov, 8,3 ss.; cfr. J. Béranger, Étude sur Saint Ambroise,
in Etudes de Lettres, Lausanne, Fac. de Lettres, V ,'1962, pp. 47 ss. e in Principatus,
Genève, 1973, pp. 303 ss.
8 Cfr. M. Sordi, L ’atteggiamento di Ambrogio di fronte a Roma e al paganesimo, in
Ambrosius Episcopus, I, 1974, pp. 207 ss.
V . LA CONCEZIONE POLITICA DI AMBROGIO 59

reminiscenze di Virgilio e di P linio9, echi della contem poranea ideologia


imperiale teodosiana, che si ritrovano significativamente nel Panegirico del
pagano Pacato (X II [2] ,6,2 ss. e 12,1 ss.) del 389 e giungono fino al
cristiano Orosio ( hist. 7,34,2 ss.). La scelta di Teodosio da parte di
Graziano, avvenuta al di fuori della successione dinastica, in un momento
di pericolo per l’impero, viene accostata, in Pacato com e in Orosio, a
quella di Traiano, spagnolo com e Teodosio, da parte di Nerva, e
ripropone l ’ideale, caro alla tradizione senatoria, della «scelta del
m igliore». Con il riaffiorare del motivo della «scelta del m igliore», in
contrasto con una concezione patrimoniale dello stato, si ripresenta anche
l’identificazione, mai del tutto obliterata nella storia di Roma, dell’impero
con res publica: ed è sintomatico che proprio com e res publica l’impero
appaia negli stessi anni in Pacato, secondo il quale la res publica personi­
ficata chiede a Teodosio di accettare l’impero (ib. 11,3 rei publicae verbis)
e in Ambrogio (obit. Theod. 55), che chiede ad O norio in nome della res
publica quam boni imperatores et parentibus et filiis praetulerunt, di non accom­
pagnare a Costantinopoli il corpo del padre (cfr. anche Oros. 7,34,2).

b) Ma nelYEsamerone il segno della elezione naturale e divina del


delle api non è genericam ente, com e in Pacato, virtus e forma, ma, come
si è visto, mansuetudo morum: sunt enim leges naturae non scriptae litteris, sed
impressae moribus, ut leniores sint qui maxima potestate fruuntur (ib. 68). La
concezione ellenistica e rom ana della clementia, che anche altrove
Ambrogio riconosce spontaneam ente a molti magistrati pagani10, si fonde
qui e si arricchisce nel precetto cristiano della misericordia, che a più
riprese Ambrogio ritiene nel De obitu Theodosii il m erito fondamentale di
Teodosio (ib. 12; 13; 26; 52; cfr. anche ep. 51,12 Maur. ut qui pietatis inauditae
exemplum eras, qui apicem clementiae tenebas) e che, sempre nel De obitu
Theodosii, egli giudica il segno distintivo di un imperatore cristiano (ib. 12):
si magnum est misericordem et fidelem quemcumque hominem invenire, quanto
magis imperatorem, quem potestas ad ulciscendum impellit, sed revocat tamen ab
ultione miseratio? Quid praestantius fide imperatoris, quem non extollat potentia,
superbia non erigat, sed pietas inclinet ?

9Verg. georg. 4,149 s.; Plin. nat. 11,4,11 s. Sulle reminiscenze classiche nell’epi­
sodio delle api deWEsamerone ambrosiano vd. L. Alfonsi, L ’ecphrasis ambrogiana nel
libro delle api vergiUano, «Vet. Chr.» 2, 1965, pp. 129-138.
10 Nella lettera a Studio (25 Maur. = 50 Faller, 3) egli osserva: scio tamen plerosque
gentilium gloriari solitos, quod incruentam de administratione provinciali securim reve­
xerint. Si hoc gentiles, quid Christiani facere debent? Su questo problema vd. M. Sordi,
La lettera di Ambrogio a Studio, in Polyanthema. Studi di Lett. cristiana antica offerti a
S. Costanza, VII, Messina 1988.
60 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

L ’accostamento della misericordia e della fides ripropone i simboli della


corona e del morso e il superamento, attraverso la conoscenza di Dio, di
un Dio crocifisso, della insolenza e della superbia insite nel potere: la
potestas dell’imperatore cristiano è una potestas che sa accettare e ricono­
scere i propri limid, anche se resta maxima: ut leniores sint qui maxima
potestate fruuntur.

3. Il riconoscimento dei limiti del potere imperiale non mancava ne


migliore tradizione romana, secondo la quale l’im peratore era secondo
rispetto alla divinità suprema (Hor. carrn. 1,12,51 s. cfr. Tertull. Apoi. 30,1)
e ben sapeva, con Tiberio (Tac. ann. 4,38,1), di «essere un mortale, che
svolgeva funzioni di un mortale, adempiendo il dovere di principe». Ma
nella prassi le cose andavano spesso diversamente e la ideologia teocratica
di matrice ellenistica era giunta a teorizzare, con la divinità del sovrano,
l’identificazione della legge con la sua volontà: invano la tradizione senato­
ria aveva cercato di ricordare la differenza tra principato e dominato e che
non est princeps super leges sed leges super principem (Plin. paneg. 65,1). Ancora
n ell’impero cristiano il pagano Temistio (Or. 16,23) ricordava all’impe­
ratore «T u sei la legge vivente e superiore alle leggi scritte».
Quel controllo che, nei m om enti migliori del principato, aveva
esercitato sull’imperatore il Senato, con il suo consenso e il suo dissenso,
lo esercita ora, secondo Ambrogio, la libertas dicendi del vescovo: natural­
m ente questa libertas si rivolge soprattutto ai problemi morali e religiosi
più che a quelli politici. Non c ’è dubbio però che anche i problemi morali
e religiosi acquistano facilmente una valenza politica.
Le idee sullo stato e sull’impero che abbiamo trovato espresse neH’Esa-
merone e nel De obitu Theodosii le ritroviamo così, sviluppate in modo
coerente e personalissimo, nelle lettere di Ambrogio agli im peratori e,
soprattutto, negli atteggiamenti da lui assunti davanti al potere imperiale.
U na prima occasione per ricordare all’imperatore i limiti del suo potere
è offerta ad Ambrogio dalla richiesta avanzata a Valentiniano II dal
prefetto di Rom a Simmaco nel 384 di restaurare l’altare della Vittoria e di
restituire ai collegi sacerdotali pagani i loro privilegi. In questa occasione,
dopo aver ricordato che tutti gli uomini che fanno parte dell’impero
romano obbediscono all’imperatore, ma quest’ultimo deve obbedire a
Dio, Ambrogio non esita a minacciare a Valentiniano u n ’aperta resistenza
se egli cederà alle pressióni pagane11. Il pensiero di Ambrogio si precisa

11 Ep. 17 Maur. = 72 Faller, 13.


V . LA CONCEZIONE POLÌTICA DI AMBROGIO 61

nella controversia per le basiliche del 385-386, quando lo stesso Valenti­


niano, spinto dalla madre Giustina, di tendenza fìloariana, aveva chiesto
al vescovo di consegnare agli ariani alcune basiliche cattoliche di Milano.
Ambrogio rifiuta ricordando all’im peratore che il suo potere trova un
limite nel potere di Dio al quale egli stesso è soggetto e al quale deve il
suo impero: non solo dunque egli non può rivendicare diritti sulla casa
di Dio, ma non può, in base al diritto, violare neppure la casa di un
privato; non è vero quello che affermano i cortigiani imperiali imperatori
licere omnia12. Su questo concetto fondam entale Ambrogio insiste nello
stesso 386 scrivendo a Valentiniano II: quod cum praescripsisti aliis, praescri­
psisti et tibi; leges enim imperator fert, quam primus ipse custodiat13, secondo la
regola del principato civile, ricordata da Plinio a T raian o14, per cui il
principe non è al di sopra delle leggi, ma è sottoposto ad esse egli stesso.
Ma la legge, per Ambrogio, non ha il suo criterio in se stessa: l’idea che
abbiamo visto espressa n eìl’Esamerone a proposito della società delle api
trova in questa lettera, di poco anteriore zW’Esamerone stesso, una appli­
cazione e una esplicitazione: legem tuam nollem esse supra Dei legern15. Solo
la conform ità della legge positiva alla legge divina e naturale può solle­
citare una spontanea e leale adesione e non estorcere la sottomissione
della paura. E la devotio di cui Ambrogio parla per le gru e per le api,
possibile solo quando la massima potestas lascia spazio adeguato alla libertas.
Lo scontro del 388 con Teodosio per la sinagoga di Callinico, indipen­
dentem ente dagli aspetti per noi discutibili della posizione assunta da
Ambrogio nella controversia, gli permette di precisare ulteriormente la
sua idea del rapporto fra libertà e potere n ell’impero: neque imperiale est
libertatem dicendi denegare, neque sacerdotale quod sentiat non dicere... siquidem
hoc interest inter bonos et malos principes, quod boni Ubertatem amant, servitu­
tem improbi16. Sul dovere specialissimo dei vescovi di m antenere questa
libertà e degli imperatori di ascoltarli, Ambrogio insiste a lungo: niente è
per un vescovo più pericoloso davanti a Dio e più vergognoso davanti agli
uomini di non dichiarare liberam ente quello che pensa: et tamen si in
causis reipublicae loquar, quamvis etiam illic iustitia servanda sit, non tanto
astringar metu si non audiar: in causis vero Dei, quem audies, si sacerdotem non
audies... ? (ep. 40,4).

12Ep. 20 Maur. = 76 Faller, 19. Si tratta, di una lettera alla sorella Marcellina,
in cui Ambrogio riferisce un suo discorso all’imperatore.
13Ep. 21 Maur. = 75 Faller, 9.
14 Cfr. anche Plinio, paneg. 65,1.
15Ep. 21 Maur. = 75 Faller, 10.
16Ep. 40 Maur. = 73 Faller, 2.
62 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

La libertà di parola del vescovo diventa così per Ambrogio il banco di


prova di un potere legittimo e non tirannico, il presidio ultimo di tutte
le libertà; il dovere di non tacere per paura, il dovere di ricordare sempre
al Potere i limiti che ad esso impone la legge divina e naturale, diventa
il motivo dominante delle prese di posizione di Ambrogio davanti al
potere imperiale. Finora abbiamo visto casi in cui era coinvolto il rapporto
fra Stato e Chiesa; nel caso di Tessalonica, dell’agosto del 390, in cui la
repressione imperiale per una grave violazione dell’ordine pubblico si era
rivolta indiscriminatamente e in modo esorbitante contro colpevoli e
innocenti, la Chiesa non era direttamente coinvolta, ma la stessa iustitia,
che anche in causis rei publicae... servanda est. Di fronte all’orrore suscitato
dal massacro, Ambrogio scrisse di suo pugno a Teodosio una lettera
privata, di cui a quanto sembra evitò la pubblicazione sin dopo la morte
dell’im peratore17, che testimonia, insieme, quella libertà di fronte al
potere che egli riteneva dovere irrinunciabile di un vescovo, e la delica­
tezza profonda dell’amico e del pastore, per il quale il peccatore,
imperatore o privato, resta pur sempre un uomo da ricondurre a Dio.
La situazione era in effetti molto pericolosa: non si trattava di chiedere
semplicemente una misura di clemenza o la revoca di una disposizione
non ancora attuata, ma di indurre l’imperatore a riconoscersi colpevole,
davanti a Dio e davanti agli uomini, di un atto da lui compiuto nell’eser­
cizio dello stesso potere imperiale. Ambrogio era pienam ente consapevole,
quando scrisse a Teodosio, del rischio che stava correndo; trovò la forza
di correre tale rischio solo perché ritenne che esso fosse un dovere davanti
a Dio: «contro di me si sarebbe accumulata l ’odiosità del crim ine se
nessuno avesse osato dirti che era necessaria la riconciliazione col nostro
Dio... Sei un uomo e, in quanto tale, hai subito una tentazione: ora vincila.
Il peccato non si cancella che con le lacrime e con la penitenza... Se tu
fossi presente in Chiesa, non ardirei offrire il sacrificio. Se non è lecito
offrirlo quando si è sparso il sangue di un solo innocente, sarà forse lecito
quando si è sparso quello di molti?... Offrirai il tuo sacrificio quando ne
avrai ricevuta la facoltà, quando la tua vittima sarà gradita a Dio. Non
sarebbe meglio per me avere il favore dell’im peratore, per potermi
comportare com e tu desideri, se le circostanze lo permettessero?... Ma il
tuo favore mi m eriterebbe il castigo... E Dio infatti il quale dice di
preferire che non si offrano sacrifici, ma che si adempia la sua volontà...
Se credi, acconsenti: se, ripeto, credi, accogli quanto io dico; se non cre.di
perdona quanto ho fatto, perché prima di ogni cosa io cerco Dio».

17Ep. 51 Maur. = extra coll. 11 Faller.


V . L a c o n c e z io n e p o l it ic a d i A m b r o g io 63

Teodosio cedette e definì attraverso un funzionario della corte le


modalità della riconciliazione, che avvenne, com e è noto, nel Natale
del 390, a Milano. Il potere imperiale non uscì umiliato dall’episodio
del 390: nel De obitu Theodosii, da cui siamo partiti, davanti al figlio Onorio
e ai soldati reduci dalla vittoria del Frigido, Ambrogio, n ell’atto stesso in
cui sollecita la fedeltà degli eserciti ai figli giovanissimi dell’imperatore
defunto, esprime con accenti di autentico calore umano la sua ammira­
zione per il gesto compiuto allora dall’imperatore: «H o amato quest’uo­
mo che preferiva chi lo rimproverava a chi lo adulava. Egli abbassò fin
nella polvere ogni insegna regale che gli spettava, pianse pubblicamente
nella chiesa il suo peccato, che pure lo aveva colto di sorpresa, perché altri
lo aveva male informato e tra le lacrime implorò il perdono. Mentre i
privati si vergognano di fare pubblica penitenza, lui che era l’imperatore
non se ne vergognò e in seguito non ci fu più giorno in cui non provasse
rincrescim ento per quell’errore».
N ella capacità del potere supremo di riconoscere i suoi limiti,
Ambrogio aveva colto la possibilità, per il regnum, di restare res publica:
questo è il significato della lode che Ambrogio rivolge a Teodosio dopo
la sua morte. Essa presuppone la coesistenza fra l’accettazione lealistica di
un potere supremo e la conservazione da parte dei sudditi di una libertas
che li m antiene civesr. è questo l ’ideale politico che Ambrogio aveva
teorizzato nei suoi scritti e che aveva vissuto nelle sue prese di posizione
davanti al potere imperiale. Nell’attuazione di questa difficile libertà egli
aveva attinto alla forza che gli veniva dalla fede, ma non aveva rinnegato
nulla della tradizione politica e culturale nella quale era stato formato.
La libertas che Ambrogio sente com e dovere fondamentale del vescovo è,
integrata dalla nuova spiritualità cristiana e arricchita dai valori sopran­
naturali ch e da questa derivano, la libertas in nom e della quale
l ’opposizione senatoria più illuminata, fedele alla concezione augustea del
principato, pur nel rimpianto dell’antica repubblica, aveva contrastato con
tutte le sue forze, fino alla rinuncia della vita, l’involuzione autocratica e
teocratica di Nerone e di Domiziano.
In Ambrogio, consularis ed episcopus, la continuità fra vecchio e nuovo,
fra tradizione politica di Rom a e rinnovamento religioso cristiano, si attua
senza rotture e senza compromessi.
VI.
MILANO AL TEMPO DI AGOSTINO

Agostino fu a Milano fra il 384 e il 387: la Milano di Agostino è la


Milano di Ambrogio e della dinastia dei Valentiniani, la Milano capitale
dell’O ccidente.
L ’importanza di Milano era venuta crescendo n ell’impero nel corso del
III secolo d.C., quando, con la ripresa della m inaccia barbarica sull’Italia
e con il susseguirsi delle usurpazioni, caratteristiche dell’anarchia militare,
Milano, che era il più importante nodo stradale dietro le Alpi, era
divenuta « città di frontiera» e il suo territorio, in qualche caso, addirittura
campo di battaglia, com e al tempo di A ureolo1 e di Aureliano2. La
funzione militare della città determ inò, alla fine del III secolo, sotto la
tetrarchia, la sua scelta com e sede imperiale. Nel 291, dal II Panegirico di
M am ertino3, sappiamo che a Milano c ’era già un palatium, imperiale, il
modo in cui l ’ingresso di Diocleziano e di Massimiano è descritto dal
panegirista rivela però che Milano, pur essendo occasionalmente sede
degli imperatori, non aveva in nessun modo sostituito Roma e ne era
soltanto, come Treviri in Gallia, Sirmium n ell’illirico, Serdica e Nicome­
dia in O riente, la succursale più comoda: ad essa, beatissima per eos dies,
Rom a concede generosam ente, secondo il panegirista, similitudinem maie-
statis suae*.
La stessa funzione avvertiamo nella menzione del Panegirico anonimo
del 313, a proposito dell’ingresso di Costantino a Milano nel 312, nel corso
della campagna contro Massenzio, quando l’entusiasmo mostrato dai
Milanesi per il giovane im peratore fa esclamare al panegirista: non
Transpadana provincia videbatur recepta, sed Roma5, in cui si avverte ancora

* Agostino a Milano. Il battesimo. Agostino nelle terre di Ambrogio (22-24 aprile 198
Palermo 1988, pp. 13-22.
1Treb. Claud. 5,3.
2Vopisc. Aurei. 18,3.
3 Paneg. Ili (11).
i Ib. 11-12.
5 Paneg. IX (12) ,7,5.
66 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

tutta la distanza fra una città ‘provinciale’, anche se importante, e quella


che era Yurbs per eccellenza.
La situazione non sembra essere cambiata nelle due menzioni di
Lattanzio6 a proposito dell’incontro di Costantino con Licinio nel 313 per
l’accordo, da cui scaturì la decisione che è nota com e « editto di Milano »,
e per le nozze di Costanza e resta valida almeno sino a Costanzo: nel 354,
reduce da una spedizione transalpina, l’imperatore si ferm a a Milano ad
hiberna’ e vi resta fino al 356, sia per gli Alamanni, sia per i postumi della
rivolta di Magnenzio e per altre sospette usurpazioni8.
Questa situazione non sorprende: con Costantino l’impero era tornato
nelle mani di un solo im peratore e l’alternativa a Rom a era Costantinopoli
e non Milano.
La vera svolta si avverte con Valentiniano, che nel 365 divide l’impero
con il fratello Valente: diviso palatio, ut potiori placuerat, Valentinianus
Mediolanum, Constantinopolim Valens discessit9. Fonte pressoché unica per le
vicende di Milano tra Costanzo e Valentiniano è Ammiano Marcellino, che
a Milano era stato personalmente, a fianco di Ursicino, al tempo di
Costanzo10 e che particolari toponomastici di Milano mostra di conoscere
anche per il periodo posteriore.
Con l’avvento di Valentiniano, Milano sembra avere sostituito Roma
almeno di fatto: i processi del tempo di Valentiniano e di Graziano, anche
quelli che riguardano province lontane, si celebrano a Milano, non a
R om a11: questo spiega, fra l ’altro, perché con Agostino vengono a Milano
dall’Africa amici desiderosi di approfondire gli studi di giurisprudenza e
di fare carriera politica12. Ci si può domandare - e intendo approfondire
questo in altra sede - perché Valentiniano Augustus potior, abbia scelto
Milano piuttosto che Costantinopoli: qui mi limito a ricordare che Valen­
tiniano era stato a Milano subito dopo la m orte di Giuliano, a fianco
degli emissari mandati da Gioviano in Occidente per prevenire possibili
ribellioni da parte di elem enti giulianei13. E probabile pertanto che
l’importanza politica (e non soltanto militare) di Milano sia maturata nel

6Lact. mori. pers. 45,1 e 48,2.


7Amm. 14,10,16.
8 Amm. 14,11,5; 15,1,2; 2,8; 3,1 e 11; 5,17; 16,7,2.
9Amm. 26,5,4.
10 Cfr. oraj. Matthews, Ammianus HìstoricalEvolutìon, in B. Croke - A.M. Emmet,
History and Historians in Late Antiquity, Sidney 1983, p. 34.
11Amm. 27,7,5; 28,6,30.
12Aug. conf. 6,10.
13Amm. 25,8,9 ss.
V I. MILANO AL TEMPO DI AGOSTINO 67

periodo di Giuliano, che a Milano era stato prima del suo Cesarato, a
Milano aveva ricevuto da Costanzo l’investitura a Cesare e che nella zona
di Milano aveva fatto svolgere un’attiva propaganda nel 360-361 da Iovino,
al tempo della sua marcia contro Costanzo14. Certo è che solo con
Valentiniano e con la sua dinastia Milano diventa capitale effettiva: della
Milano della tetrarchia, com e si è già visto, Mamertino aveva detto che
Rom a le aveva concesso, solo per qualche giorno, similitudinem maiestatis
suaels; della Milano dei Valentiniani e di Teodosio Ausonio, che dedica
alla città dieci versi del suo Ordo urbium nobilium16, dice che «tutto in essa
eccelle per grandezza di form e quasi gareggiando» ( velut aemula) e che
non la opprime la vicinanza di Rom a ( nec iuncta premit vicinia Romae).
Nella breve presentazione di Ausonio, Milano è una città ricca, abitata da
una popolazione viva, umanamente e culturalmente {facunda virorum
ingenia et mores laeti), con case belle e numerose, bei porticati ornati di
statue, un circo, un teatro, term e, templi; cinta di mura e dotata di una
zecca. Gli scavi dell'ultimo trentennio hanno rivelato dell’epoca di Milano
capitale, le Term e Erculee, costruite da Massimiano fuori delle mura
orientali della città e di cui è stata ritrovata nella zona di corso Europa la
palestra oltre al frigidarium, un grande granaio costruito per le esigenze
civili e militari della città, del tipo di quelli ritrovati ad Aquileia e a Treviri,
e conservato in un sotterraneo in via dei Bossi, una parte del muro
orientale del circo; delle mura, oltre alla torre poligonale detta di Massi­
miano, nel cortile del Museo archeologico, resta una mezza torre, più
antica, della Porta Ticinensis in un edificio privato del C arrobbio17; uno
studio recente sull’asse di Via Torino (cardine m inore dell’impianto
urbano connesso col Foro) ha illuminato tutta la zona che nell’età di
Milano capitale assunse grande importanza soprattutto per la corrispon­
denza con Ticinum (Pavia) e ha conferm ato la localizzazione delle
Palatinae arces di A usonio18, nel settore occidentale della città.
La piena affermazione nel corso del IV secolo del cristianesimo contri­
buisce in questo periodo allo sviluppo della città, con il concentrarsi degli
edifici del cosiddetto gruppo episcopale (chiese, battisteri, residenza del

14 Conto di tornare su questo problema in una relazione che sto preparando


per il convegno su Milano capitale deU’Impero romano [vd. infra, n. XI].
15Paneg. III (11),12,2.
16Auson. ardo 35-45. Su Ausonio vd. ora F. Della Corte, Tre antichi elogi di
Milano, «RIL» 119, 1985 (ed. 1988), pp. 29 ss.
17 Cfr. M. Mirabella Roberti, Milano Romana, in Conferenze di Archeologia e
storia, Gambolò 1986, pp. 72 ss.
18AAW ., Milano ritrovata. L ’asse di via Torino, Milano 1986, 103 ss.; 131.
68 M a r t a s o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

vescovo, edifici annessi) n ell’area dell’attuale Piazza Duomo, all’interno


delle mura e appena fuori delle mura, con l ’im ponente complesso di
San Lorenzo, di probabile committenza im periale19.
Le opere di Ambrogio ci inform ano di altri aspetti dell’urbanistica di
Milano e degli immediati dintorni e del lusso della società milanese:
1’ep. 12 Faller (= 30 Maur.) a Ireneo, probabilmente diacono della chiesa
m ilanese, prendendo spunto dal rim provero del p rofeta Aggeo a
Zorobabele, esorta ad abbandonare il lusso, accenna agli ipogei, i famosi
criptoportici, usati in età rom ana com e terrapieni e costruzioni di ville,
illuminati da feritoie e decorati da mosaici e da pitture, freschi d’estate e
temperati d’inverno e destinati al passeggio, ricorda la tendenza del suo
tempo a coniungere villam ad villam, e colpisce, attualizzando il monito di
Isaia, il moltiplicarsi delle abitazioni voluttuarie.
Tale fenom eno è conferm ato dagli scavi, che attestano la presenza di
ville sui colli intorno a Milano nel IV secolo20, e dallo stesso Agostino, che
ricorda le terme annesse alla villa di Cassiciacum21, anche se lamenta poi,
in un altro passo22, la scarsa illuminazione. Ancora Ambrogio, n ell’ep. 15
Faller (= 69 Maur.) al medesimo Ireneo, condanna l’uso dei ricchi di avere
servi coperti di monili e con i capelli arricciati23 e nel de Tobia parla di
vasellame d ’argento, artisticamente lavorato24: la splendida patera di
Parabiago conferma l’esistenza di autentici tesori nelle ville dei ricchi
milanesi del IV secolo.
Il prestito a interesse, che il de Tobia attesta com e largamente diffuso
nella città al tempo di Ambrogio, e il conseguente indebitam ento
appaiono spesso finalizzati (ed è questo che il vescovo condanna partico­
larmente) a consumi voluttuari di unguenti e di spezie (ib. 5,17), a mense
imbandite di cibi stranieri e squisiti, a vesti intessute d ’oro e di seta25.
Accanto ai grandi proprietari terrieri, abituati al lusso di una vita
fastosa, l’ep. 76 Faller di Ambrogio (= 20 M aur.), scritta a Marcellina
nell’aprile del 386, rivela la presenza di un ricco ceto di mercatores, che

19 M. Davide, in Milano Ritrovata, art. cit., p. 133.


20 L. Cracco Ruggini, Economia e società dell'Italia annonaria, Milano 1961,
pp. 88 e 93.
21 Aug. beat. vit. 2,12.
22Aug. ord. 1,3,6.
23 Ib. 7 calamistratos et torquatos.
24 Ib. 3,10 frangam propter te argentum paternum, quod fabrefacti est.
25 Ib. 5,19. Cfr. M. Giaccherò, Ambrosii, de Tobia, Genova 1965, pp. 68 ss., che
collega il monito di Ambrogio con la situazione di Milano e dell’impero nel
IV secolo.
V I. M il a n o a l t e m p o d i A g o s t in o 69

l’imperatore aveva cercato di staccare da Ambrogio con esose tassazioni in


occasione della questione delle basiliche.
Sul piano culturale la vitalità di Milano nella seconda metà del IV se­
colo è rivelata dalla presenza, attestata dalle stesse opere di Am brogio26,
e conferm ata dai contatti avuti a Milano da Agostino27, di un «circolo
neoplatonico», nel quale erano rappresentati sia cristiani, sia pagani.
Non intendo soffermarmi su questo punto, che verrà affrontato e
dibattuto da altri in questa stessa sede.
A proposito della presenza in Milano di ambienti neoplatonici pagani
vorrei però richiamare ancora la famosa patera di Parabiago, che, con
l ’episodio centrale del carro di Cibele con Attis e i coribanti e la complessa
simbologia cosm ica e m itraica, rivela chiaram ente, l’ispirazione del
neoplatonismo giulianeo al quale si deve il rifiorire, nel IV secolo, del
culto della madre degli Dei: essa è da collegare, secondo uno studio
recen te28, con le festività cibeliche suscitate da Virio Nicomaco Flaviano
nel 394 e con il dono di avori e di argenti da parte di Simmaco all’im­
peratore Eugenio. Alla presenza in Milano del culto di Cibele ci riportano
- a quanto sembra - anche il ricordo di u n ’iscrizione frammentaria trovata
presso S. Lorenzo29, la comparsa del simbolo cibelico della pigna in
antiche raffigurazioni di M ilano80, e il bassorilievo della Madonna Idea,
attualmente conservato nei Musei d ’Arte antica del Castello Sforzesco e
riconosciuto dagli studiosi com e un segno di continuità nel Medioevo dei
culti orientali diffusi nellTm pero rom an o31.
In questa Milano, urbanisticamente im ponente, culturalmente e social­
m ente viva, politicamente importante, Agostino venne nel 384, su richiesta
della corte, che aveva sollecitato l’invio, da parte del prefetto di Roma, che
era allora Simmaco, di un maestro di retorica, con trasferimento pagato
a spese pubbliche ( conf. 5,13); Agostino stesso dice che si era dato da fare,
con gli amici Manichei, perché Simmaco scegliesse proprio lui: lo scontro
fra Ambrogio e Simmaco per l’altare della Vittoria era da poco avvenuto

26 P. Courcelle, Noveaux aspects du platonismi chez Saint Ambroise, « Rev. Ét.


Lat.» 34, 1956, pp. 220-239.
27A Solignac, Le cercle milanais, in St. Angustiti. Les Confessioris, II, Paris 1962,
pp. 529 ss.
28 L. Musso, Manifattura suntuaria e committenza pagana nella Roma del IV secolo.
Indagine sulla lanx dì Parabiago, Roma 1983, pp. 147 s.; cfr. P.E. Arias, L ’anfora
argentea di Porto Baratti, Roma 1986, p. 83, n. 168.
29 M.L. Gatti Perer, in Milano Ritrovata, p. 54 e p. 96, n. 59.
30 M.L. Gatti Perer, ib. pp. 52 ss. (fig. 18).
31 R.R. Cassanelii, in Milano ritrovata, pp. 381 ss.
70 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R oma

ed è probabile che il famoso prefetto sia stato ben lieto di mandare a


Milano un eloquente Manicheo, per creare imbarazzi al suo amico e
avversario vescovo. A Milano, dove Agostino svolse le funzioni di retore
imperiale, pronunziando il 1 gennaio del 385 un elogio per Bautone
(c. Petil. 3,25,30) e preparando, forse per il 22 novembre dello stesso anno,
in occasione dei Decennalia dell’imperatore, un Panegirico per Valenti­
niano I I 32 del tipo certam ente di quelli a noi giunti di Mamertino, di
Pacato e di altri anonimi panegiristi imperiali, egli ebbe contatti frequenti
con ambienti della corte. T ra gli amici influenti Agostino ricorda, nelle
Confessioni, Romaniano (6,14) e Pom iciano, africano anche lui (8,6), il cui
racconto della conversione a Treviri di due alti funzionari al m onache­
S i m o , contribuì decisamente, oltre al racconto di Simpliciano sulla conver­
sione del retore Vittorino (8,2), alla conversione di Agostino stesso e al suo
abbandono della professione.
Il periodo del soggiorno di Agostino a Milano è un periodo di grave
tensione politica: dopo l’uccisione di Graziano, nella tarda estate del 383,
il pericolo di un’invasione di Magno Massimo, l’usurpatore di Treviri, si
era profilato subito per l ’Italia settentrionale. NeH’invem o del 383-384
Ambrogio aveva dovuto recarsi per conto dello stesso Valentiniano presso
Massimo per trattare la pace, che egli aveva ottenuto, insieme alla rinuncia
di Massimo ad invadere l’Italia col suo esercito (Ambr. ep. 30 Faller, 3-8),
m en tre l ’accordo di Massimo con Teod osio, con la tripartizione
dell’impero che riconosceva a Massimo la Gallia, con la Spagna e la
Britannia, a Valentiniano l’Italia, l’Aftica e l ’illirico, m omentaneamente
occupato da Teodosio e a quest’ultimo l’Oriente, risolveva provvisoria­
m ente la controversia, permettendo al magister peditum di Valentiniano,
Bautone, di occuparsi nell’autunno del 384, dei Sarmati (Symm. Rei. 47),
in Pannonia. Nel corso del 386 la tensione fra Magno Massimo e Valen­
tiniano tornò a manifestarsi e dopo una seconda legazione di Ambrogio
a Treviri in data posteriore al 19 giugno del 386 **, Massimo sferrò, nel 387,
il suo attacco contro Valentiniano, occupando l ’Italia, costringendo
l’imperatore a fuggire a Tessalonica, e provocando, nel 388, l’intervento
di Teodosio, che portò alla sconfìtta e alla morte dello stesso Massimo.
Di questi avvenimenti che coinvolsero da vicino Ambrogio e che
sconvolsero la corte di Milano e tutta l’Italia settentrionale, Agostino, che

32 P. Courcelle, Recherches sur les Confessioris de St. Augustin, Paris 1950, pp. 80 ss.;
cfr. anche D. Vera, Lo scandalo edilizio di Cyriades e Auxentius e i titolari della
praefectura urbis dal 383 al 387, « Stud. Doc. Hist. Iur.» 44, 1978, p. 64.
33 M. Sordi, Magno Massimo e l’Italia Settentrionale, «Ant. Altoadr.» 22 (= Aquileia
nel IV sec., I, Udine 1982), pp. 58 ss.
V I. MILANO AL TEMPO DI AGOSTINO 71

pure aveva con la corte rapporti abbastanza stretti e che per colpa di
Massimo non potè poi partire nell’estate del 387 per l’Africa e fu costretto
a rinviare la sua partenza a dopo la m orte dell’usurpatoreM, non parla
nelle Confessioni: la storia di Agostino resta la storia di u n ’anima, a cui non
solo gli avvenimenti politici restano estranei, ma perfino i grandi fatti che
toccarono durante il suo soggiorno a Milano la vita della Chiesa milanese
fanno, almeno apparentemente, solo da sfondo: tale fu il memorabile
scontro di Ambrogio con la corte per le basiliche, che Monica madre di
Agostino visse in tutta la sua intensità, ma al quale Agostino stesso dedica,
nelle Confessioni (9,7) solo poche righe: « Il popolo devoto vegliava in
Chiesa pronto a m orire con il proprio vescovo, Tuo servo. Là passava le
sue ore in preghiera mia madre, tra le più zelanti nel vegliare».
B en diversa risonanza ha ovviamente l ’episodio nel ricordo di
Ambrogio, che ce ne inform a sia nel sermo contra Auxentium, sia in due
lettere del suo epistolario, l'ep. 75 Faller (= 21 Maur.) all’imperatore
Valentiniano del marzo del 386 e V ep. 76 Faller (= 20 Maur.) alla sorella
M arcellina dell’aprile del medesimo anno. Dalla fine del 384 era ospite
della corte Mercurino Aussenzio, vescovo ariano di Durosturum che, dopo
essere stato deposto da Teodosio, cercava di riorganizzare a Milano la sua
Chiesa. Ad una prima richiesta della corte di cedere im a basilica agli
ariani, fatta all'inizio del 385, Ambrogio aveva opposto un rifiuto; dopo
una pausa, dovuta anche al m om entaneo allontanamento della corte da
Milano ad Aquileia, una costituzione imperiale del 23 gennaio 38635
ripropose in m aniera perentoria la richiesta, proclamando la libertà di
culto per gli ariani e minacciando la pena di morte a chi tentasse di
impedirla anche con suppliche. La basilica nella quale gli ariani avrebbero
dovuto esercitare la loro «libertà di culto» era la Basilica Porziana,
identificata da alcuni con San Vittore al Corpo, da altri con S. Lorenzo.
Ambrogio occupò la basilica col popolo, intrattenendolo con i suoi inni
e le sue omelie e sostenendo con esso l’assedio da parte dei soldati.
Nella lettera a Valentiniano II, Ambrogio rifiuta di discutere la contro­
versia nel consistorium e cita una disposizione di Valentiniano I, secondo
cui, in questioni riguardanti la religione, i sacerdoti dovevano essere
giudicati solo da sacerdoti {ib. 5); Aussenzio e i giudici da lui scelti
vengano pure in chiesa, ascoltino insieme col popolo, e se il popolo, dopo
averli ascoltati, riterrà Aussenzio e i suoi superiori ad Ambrogio, segua
pure la sua fede {ib. 6). In realtà il popolo ha già scelto {ib. 7) ed

34Aug. c. Petil. 3,25,30.


36 Cod. Theod. 16,1,4 su cui vd. ora L. De Giovanni, Il libro XVI del codice
teodosiano, Napoli 1985, pp. 34 ss.
72 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

Ambrogio non può andare nel Concistoro, perché sia i Vescovi (proba­
bilm ente quelli delle città vicine, di cui A m brogio aveva chiesto
l’appoggio), sia il popolo non glielo permettono: essi sostengono che le
discussioni riguardanti la religione devono farsi nell’assemblea, davanti al
popolo (ib. 17). «D ’altra parte - egli conclude (ib. 20) - io non posso
mettermi a questionare a palazzo, perché io gli intrighi di palazzo, né li
cerco, né li conosco».
La lettera a Marcellina è dell’aprile e, essendo scritta alla sorella, ci
conserva della vicenda e della sua conclusione una versione certam ente
m eno ufficiale, ma più immediata e colorita: il problem a non riguardava
ormai più solo la basilica Porziana, che era fuori delle mura, ma la basilica
nuova, che si trovava entro le mura ed era la maggiore. La basilica nova
(distìnta dalla vetus, che sorgeva vicino al battistero di Santo Stefano,
n ell’area del Duomo) è identificata ormai con S. Tecla, presso lo stesso
Duomo. Alla richiesta dell’autorità di consegnare la basilica, Ambrogio
aveva risposto « che un vescovo non può cedere un tempio che appartiene
a Dio ». Il giorno dopo venne anche il prefetto del pretorio e fece opera
di persuasione «perché almeno ci ritirassimo dalla basilica Porziana. Ma
il popolo protestò a gran voce, cosicché il prefetto se ne dovette andare,
dicendo che avrebbe fatto rapporto all’imperatore ». Nei giorni successivi
a questo intervento del prefetto la tensione aumentò: la domenica,
m entre, durante la messa, gli inviati della corte stendevano le cortine nella
basilica nova, per indicarne la requisizione, un sacerdote degli ariani,
Castulo, fu aggredito e sequestrato dalla folla e liberato solo per l’inter­
vento di Ambrogio. Durante la settimana santa del 386 la corte cercò di
staccare il popolo da Ambrogio colpendo con multe altissime i commer­
cianti, ma le m inacce riuscirono solo ad esasperare la protesta popolare.
La situazione poteva da un m omento all’altro sboccare in un massacro:
«io inorridivo - scrive Ambrogio alla sorella - sapendo che erano stati
spediti degli armati ad occupare la basilica; durante la requisizione poteva
avvenire qualche scempio, che avrebbe avuto com e conseguenza la rovina
di tutta la cittadinanza. Chiedevo al Signore la grazia di non sopravvivere
al rogo di una città così grande, anzi al rogo di tutta l’Italia». E affronta
direttamente, con l’autorità dell’antico consolare, i soldati Goti: « l’auto­
rità di Roma vi ha presi al suo servizio, perché diveniste complici di
pubblici disordini?» (ib. 9).
All’alba del m ercoledì santo ( l e aprile del 386), m entre la basilica nova
era circondata dalle truppe e il popolo si era riversato in massa in tutte
e due le basiliche (la nova e la vetus) , per ascoltare le letture, la resistenza
dei soldati comincia a vacillare e si viene a sapere che alcuni di essi hanno
informato l’im peratore che gli avrebbero obbedito solo se l’avessero visto
con i cattolici alle sacre funzioni (ib. 11); poi ordinatam ente, molti di loro
V I. M il a n o a l t e m p o d i A g o s t in o 73

com inciano ad unirsi al popolo, dichiarando che èrano venuti per pregare
e non per usare le armi. La corte esasperata accusa Ambrogio di usurpa­
zione politica: è questo il significato del termine tyrannus del paragrafo 22
della lettera a Valentiniano. Al giovedì santo, improvvisamente, mentre
Ambrogio legge il libro di Giona e ricorda che Dio aveva allontanato la
distruzione che sovrastava Ninive, giunge la notizia che l’imperatore aveva
dato ordine ai soldati di lasciare la basilica e di fare restituire ai mercanti
le somme, che erano stati condannati a pagare; il popolo esulta, scoppiano
gli applausi. I soldati facevano a gara nel comunicarsi la notizia e si
precipitavano verso l’altare baciandosi e recando il segno della pace
(paragrafo 26 della lettera a Marcellino). «Allora compresi - conclude
Ambrogio scrivendo alla sorella e riprendendo il ricordo del libro di
Giona - che il Signore aveva ucciso il verme antelucano, affinché tutta la
città fosse salva».
Se dell’occupazione delle basiliche Agostino parla solo com e di un
antefatto del suo battesimo ( conf. 9,7: « era passato un anno o poco più da
quando Giustina aveva preso a perseguitare il tuo Am brogio») e come
dell’occasione per l ’introduzione a Milano «dell’uso di cantare inni e
salmi al modo degli orientali» (ib. 7,15), il ritrovamento dei corpi dei
martiri Protasio e Gervasio, avvenuto poco dopo quello scontro, nel
giugno del 386, sembra aver lasciato una traccia più viva, sia in conf. 9,7,16,
sia in serm. 286,4 e 318 sia in civ. 22,8: nelle Confessioni egli parla degli
indem oniati e di un cieco che dai martiri furono guariti; in dv. della
guarigione del cieco, in un passo teso a dimostrare che i miracoli
avvengono ancora, ed alcuni, com e appunto quello di Milano, sotto gli
occhi di molti. Nella descrizione della scoperta e dei miracoli nelle
Confessioni Agostino si apre, in modo insolito, alla sottolineatura della
situazione politica: «li avevi conservati incorrotti per tanti anni e al
m om ento opportuno li portasti alla luce per domare la rabbia di ima
fem m ina regale» - dice introducendo il racconto della scoperta - e
«la regina tua nem ica non giunse a impegnarsi nell’atto di fede che
l ’avrebbe salvata, tuttavia m oderò il suo furore persecutorio » dice conclu­
dendo il resoconto dei miracoli. E, subito dopo: «grazie a te, mio Dio!
Ma com e hai potuto guidare la mia m em oria così da poterti lodare anche
per questi fatti, tanto grandi, m a che stavo per dimenticare e tralasciare? ».
L ’urto di Ambrogio con l’imperatrice Giustina, ancora in atto al
m om ento della scoperta e della deposizione dei martiri (17-19 giugno del
386), nonostante la felice, per Ambrogio, conclusione della controversia
delle basiliche, è l’unico avvenimento politico da cui la memoria di
A gostino sem bra rim asta im pressionata nella rievocazione del suo
soggiorno a Milano e della storia tutta interiore della sua conversione.
Esso è in effetti al centro del racconto che Ambrogio dà dell’episodio della
74 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

scoperta dei corpi dei martiri nella lettera alla sorella (ep. 22 Maur. =
77 Faller) ed è al centro, anche se il nom e di Giustina non è mai
pronunziato, dei discorsi che Ambrogio stesso ricorda di aver pronunziato
davanti al popolo in quella occasione e che riferisce alla sorella (ib. 3 ss.):
nel primo di essi Ambrogio ringrazia il Signore Gesù « perché in questo
tempo in cui la Chiesa ha bisogno di maggiori difese (praesidia maiora) ha
suscitato l’aiuto di tali martiri (tales nobis sanctorum martyrum spiritus
excitasti): cognoscant omnes quales ego propugnatores requiram, qui propugnare
possint, impugnare non soleant. Tali sono i difensori che desidero, tali i
soldati che ho, non saeculi milites, sed milites Christi. Nullam de talibus invidiam
Umeo, quorum quo maiora eo tutiora patrocinia sunt. Horum etiam ilUs ipsis qui
mihi eos invideant opto presidia. Veniant ergo et videant stipatores meos, talibus
me armis ambiri non nego (ib. 10). Il linguaggio che Ambrogio usa qui
utilizza la terminologia consueta del discorso politico: si parla di invidia,
nel senso classico di ostilità politica, di praesidia, di milites, di stipatores. Per
chi tiene presente l’accusa di tyrannus (di usurpatore) rivolta dalla corte
ad Ambrogio pochi mesi prima per avere organizzato l’occupazione e la
resistenza popolare nelle basiliche occupate, queste affermazioni hanno
im a risonanza polemica precisa. Ed ancora (ib. 11): aperuit oculos nostros
Dominus, videmus auxilia quibus sumus saepe defensi; non videbamus haec, sed
habebamus tamen... patronos habebamus et nesciebamus. I motivi polemici
ritornano nel discorso successivo, al mom ento della depositio (ib. 15 ss.),
in cui l’accenno ripetuto alla presenza massiccia del popolo milanese
(ib. 15 sanctitatis vestrae celebritatem... 16 celebritate vestra, ecc.) si accoppia a
quello dell’invidia che questa celebritas suscita nei ‘soliti’ avversari (qui solent
invident) e della negazione opposta da questi avversari ai meriti dei martiri
e ai loro miracoli: qui il paragone fra l’atteggiamento degli ariani milanesi
e quello dei giudei e dei demoni davanti ai miracoli di Cristo diventa
palese (16 ss.).
Paolino (vita Ambr. 15,2) spiega che gli ariani della corte di Giustina
andavano dicendo che Ambrogio stesso si era procurato col denaro
uomini che si fingessero indemoniati. Nel suo secondo discorso, registrato
nella stessa lettera alla sorella, Ambrogio sembra ben consapevole di
queste critiche e le confuta. Si sa che molti moderni, condividendo le
critiche degli ariani, hanno tacciato di demagogia, o addirittura di truffa,
il comportamento di Ambrogio in questa occasione: tanto più mi pare
importante, nella sua eccezionalità, la testimonianza di Agostino: egli
ricorda che al m omento dei fatti non era ancora convertito (confi 9,7:
«allora non correvo ancora dietro a te » ); ricorda ancora, in un passo
precedente, che egli ammirava Ambrogio, ma lo riteneva «un uomo
soddisfatto secondo lo spirito del mondo, dal mom ento che era oggetto
di onori da parte dei potenti... delle sue speranze, delle sue lotte contro
V I. MILANO AL TEMPO DI AGOSTINO 75

le tentazioni di grandezza, del suo gioioso gusto per il tuo pane che
ruminava nel segreto del cuore, nulla immaginavo o sapevo» ( conf. 6,3).
Acuto intellettuale e dotato di vivo senso critico, egli non era facile preda
degli entusiasmi delle folle e non era, d ’altra parte, sensibile, dopo la
conversione, alle alterne vicende della politica umana. Eppure, non per
caso, egli serba il ricordo, tutto religioso, di quegli eventi e vede quel
contrasto politico illuminato di luce interiore.
Ciò che colpisce nel ricordo di Agostino è che egli non ignora la
perfetta tempestività politica di quel ritrovamento e di quei miracoli
(com e non la ignora né la oscura A m brogio), ma ne accetta, nonostante
e anzi proprio in concomitanza con l’importanza politica, l’autentico
carattere miracoloso e proprio in contesti, quello delle Confessioni, in cui
la politica risulta indifferente, e quello del de civitate Dei e del sermo 286,
che è estremam ente critico nei riguardi dei m iracoli36. La testimonianza
di Agostino, che era a Milano al tempo dei fatti, com e quella di Paolino,
che scrivendo dopo la m orte di Ambrogio, ricorda che il cieco allora
risanato prestava ancora servizio (vita Ambr. 14,2) nunc usque... in eadem
basilica quae dicitur Ambrosiana, escludono a mio avviso il sospetto della
manipolazione e ridanno, all’intesa di Ambrogio col suo popolo, e alla
coscienza che egli rivela, di un aiuto divino, tutto il loro valore. Fu nella
Milano di Ambrogio, in im a chiesa in cui l’intesa fra Vescovo e popolo era
stata esaltata da una resistenza com une ad un ordine ingiusto nella
certezza dell’aiuto divino, che avvenne la conversione di Agostino.
Si è detto prima che a quell’avvenimento memorabile e unico nella
storia della Chiesa milanese, che fu l’occupazione delle Basiliche e lo
scontro con Giustina, Agostino dedica solo poche righe. E interessante
però osservare com e Agostino, che non ritiene particolarmente signifi­
cativi per la sua conversione i suoi incontri personali e privati con
Ambrogio, da quello iniziale, in cui il Vescovo lo accolse con benevolenza
al suo arrivo ( conf. 5,13), a quelli frequenti, per le strade, in cui Ambrogio
si congratulava con lui per la pietà di sua madre (6,2), o addirittura a
quelle famose attese sulla soglia del Vescovo intento a leggere (6,3), dia
invece una im portanza decisiva ai suoi incontri pubblici con il vescovo, in
mezzo alla folla: quando lo ascoltava con assiduità «m entre conversava
pubblicam ente» (5,13), o quando «lo ascoltava con gioia nei suoi discorsi
al popolo, m entre spiegava che la lettera uccide, lo spirito vivifica» (6,4)
o, infine, quando, non ancora convertito, piangeva a dirotto durante il

36 Sul sermo 286 di Agostino e il suo atteggiamento verso i miracoli, vd. ora
A. Isola, L ’esegesi biblica del sermo 286 di Agostino, «Vet. Chr.» 23, 1986, p. 270.
76 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

canto degli inni (9,7), all’epoca, appunto, delle famose veglie durante
l ’occupazione delle basiliche.
Qualche studioso moderno ha posto l’occupazione delle basiliche,
come l’intervento di Ambrogio nella questione di Callinico, fra gli atteg­
giamenti con cui Ambrogio umiliò il potere dello stato.
A mio avviso, se la presa di posizione di Ambrogio per Callinico resta
discutibile, la resistenza da lui opposta alla corte nella controversia delle
basiliche deve essere valutata in modo tutto diverso.
Lo stato non aveva il diritto in nom e di un’equivoca libertà di culto per
tutti, di dare agli ariani le chiese dei cattolici. Il diritto rom ano, sempre
attento al diritto di proprietà, era chiaro su questo punto: e lo aveva
dimostrato l’impero pagano, quando, dopo aver concesso ai cristiani la
libertà di culto e di riunione con Gallieno, aveva restituito alla Grande
Chiesa, con Aureliano, la «casa della chiesa» occupata abusivamente
dall’eretico Paolo di Samosata. Ambrogio, che proprio nel 386 aveva rotto
la com unione con i vescovi della Gallia fautori di Magno Massimo,
colpevoli di avere sollecitato il braccio secolare contro gli eretici priscil-
lianisd (ep. 80 Faller), e che disapprovava il ricorso allo stato per punire
colpe interne alla chiesa, era perfettam ente coerente nel rifiutare ogni
invadenza dello stato nella vita della comunità cristiana. La lotta per le
basiliche fu una lotta per la libertà e il popolo milanese visse questa lotta
accanto al suo vescovo. In questa intensa atmosfera religiosa e umana
maturò la conversione di Agostino.
VII.
I RAPPORTI FRA AMBROGIO E IL PANEGIRISTA PACATO

Sommaire. —L’Auteur cherche de demontrer l’existence des rapporto entre


le panegyriste payen Pacatus et Saint Ambroise.

La fede religiosa di Latinio Drepanio Pacato, che nell’estate del 389


pronunziò a Rom a un Panegirico in onore di Teodosio, è stata oggetto
di discussione fra i m oderni, la maggioranza dei quali, e probabil­
m ente con ragione, lo ritiene pagano1. In effetti, anche se egli parla
degli dei del paganesimo com e di rappresentazioni poetiche o pitto­
riche (paneg. X II [2] ,39,1 germana illa pictorum poetarumque commenta
Victoriam finxere pinnatam) o com e di antiche credenze (ib. 39,4 olim
severi credidere maiores Castoras geminos... nuntiasse victoriam) o, franca­
m ente, com e di favole (ib. 44,5 vulgata illa famularum argumenta despicite,
Herculeos labores et Indicos Liberi triumphos...) e se, in qualche passo no­
m ina la divinità al singolare e con particolare solennità (ib. 30,1 tandem
in nos oculos deus retulit et... ad mala nostra respexit, 39,4 cur non tuae
publicaeque vindictae confessam aliquam immortalis dei curam putemus
adnisamf), l’insistenza sul Fato e sulla Fortuna (paneg. 8,1; 9,1; 11,4; 18,4;
27,3; 40,3-4 e passim) e sulla divinità dell’imperatore sembrano escludere
che Pacato possa essere un cristiano, anche tiepido: in particolare, in
paneg. 4,5, l ’afferm azione della superiorità della Spagna, patria di
Teodosio, su Creta, Deio, Tebe, che avevano dato i natali, secondo la
tradizione pagana, a Giove, ad Apollo, ad Ercole, con la significativa
conclusione (fidem constare nescimus auditis, deum dedit Hispania quem
videmus), rivela nell’autore un fondamentale e consapevole scetticismo
religioso: Pacato rifiuta fidem ... auditis ed è solo disposto a credere al dio

* «Rend. Ist. Lomb.» 122, 1988, pp. 93-100.


1 Ritengono pagano Pacato A. Gùldenpenning (A. Gùldenpenning - J. Ifla
Der Kaiser Theodosius der Grosse, 1878, p. 17); O. Seeck (Gesch. des Uhtergangs der
Antiken Welt, V, 1919, p. 227), e, in particolare, con un’ampia argomentazione,
A. Lippold (Herrscherideal und Tradìtionsverbundenheit ini Panegyricus des Pacatus,
«Historia» 17, 1968, pp. 244ss.). Lo ritiene cristiano, anche se tiepido, F. Grinda,
Der Panegyricus des Pacatus, diss., Strassburg 1916, p. 50.
78 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R om a

che vede, l ’im peratore2. Fondamentalmente scettico e sostanzialmente


indifferente ad ogni arcanum caeleste (ib. 6,3 sive... sive... sive... parcam
arcanum caeleste rimari) il gallico Pacato è amico di Ausonio e di Simmaco,
del quale riecheggia, ma senza averne la religiosità, l ’invito a fermarsi
davanti al mistero, ed è com e loro fedele alla tradizione politica e culturale
di R om a3.
Concordo dunque con coloro che ritengono Pacato un pagano: un
pagano tradizionalista, ma scettico, uno di quei pagani che erano disposti
ad accettare l’impero cristiano e che lo servivano nelle cariche politiche
antiche e nuove: nel 390 fu proconsul Africae e nel 392 fu, a quanto sembra,
comes rerum privatarum,4.
Ciò che gli studiosi moderni, che si sono occupati della religiosità di
Pacato, non hanno preso in considerazione è, invece, a m e sembra, la
singolare coincidenza di alcuni atteggiamenti da lui assunti nel suo
Panegirico a Teodosio con alcune affermazioni di Ambrogio in lettere
precedenti di pochi mesi o di pochi anni al Panegirico.
Innanzitutto il giudizio sui processi contro i Priscillianisti, presenta nel
Panegirico di Pacato e nella seconda lettera a Studio del 386 o 3875
importanti convergenze:

2 Già Tertulliano osservava che i pagani temevano più Caesarem... quam


ipsum de Olympo Iovem. Et merito si sciatis. Quis enim ex viventibus quilibet non
mortuo potior? (Tertull. Apol. 28,2-3).
3 Per i rapporti con Ausonio vd. Lippold, art. cit., p. 228, n. 2; sui rapporti
con Simmaco, attestati nelle lettere 9,61 e 64 dell’epistolario di Simmaco, vd. ora
S. Roda, Commento storico del l. IX dell’epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1981,
pp. 194-195 e 196-197.
4 Per il proconsolato d’Africa del 390 vd. Cod. Theod. 9,2,4 del 4 febbraio 390;
per la funzione di comes rei privatae presso Teodosio del 393 vd. Cod. Theod. 9,42,13
del 12 giugno 393; cfr. PLRE s.v. Latinius Drepanius Pacatus, p. 272; J.F. Mattews,
Gallìc Supporters of Theodosius, «Latomus 30», 1971, pp. 1078ss.; Roda, op. cit.,
pp. 194-195.
5 Per la data e il significato delle due lettere a Studio vd. M. Sordi, La lettera
di Ambrogio a Studio e il problema dalla pena di morte, in Polyantema. Studi offerti a
Salvatore Costanza, Studi Tardoantichi VII, 1988, pp. 275 ss. Un atteggiamento
analogo si trova anche nella ep. 24 Maur. (= 30 Faller), 12 di Ambrogio sulla
seconda ambasceria a Massimo (su cui vd. infra). Sulla posizione di Pacato e di
Ambrogio verso Massimo per la questione dei Priscillianisti vd. anche J. Ziegler
(Haltung der Gegenkaiser, «Frankf. Althist. Stud.» 10, 1970, pp. 79-80), che non
collega però l’atteggiamento dei due personaggi.
V II. I RAPPORTI FRA AMBROGIO E IL PANEGIRISTA PACATO 79

Pacat. paneg. 29,3 Ambr. ep. 26 Maur. (= 68 Faller), 3


Quid hoc maius poterat intendere Sed vehementior facta est (la quaestio
accusator sacerdos? Fuit enim, fuit et hoc della pena di morte), postea quam
delatorum genus, qui nominibus antistites, episcopi reos criminum, gravissimorum in
re vera autem satelUtes atque adeo carnifi­ publicis iudiciis accusare, alii et urguere
ces, non contenti miseros avitis evolvisse usque ad gladium supremamque mortem,
patrimoniis calumniabantur in sangui­ alii accusationes huiusmodi et cruentos
nem,...-, quin etiam, cum iudiciis capitali­ sacerdotum triumphos probare coeperunt.
bus adstitissent... pollutas poenali contactu
manus ad sacra referebant et caerimo­
nias quas incestaverant mentibus etiam
corporibus impiabant.

La disapprovazione e la condanna per i vescovi gallici che avevano


accusato davanti al tribunale di Magno Massimo i seguaci di Priscilliano
si manifestano con gli stessi particolari: sia Pacato che Ambrogio stigma­
tizzano il fatto che 1’ accusator sia un sacerdos, anzi un vescovo (antistes), che
l ’accusa avvenga nei pubblici tribunali (iudiciis capitalibus - in publicis
iudiciis), che persegua la condanna a morte dei rei (in sanguinem... usque
ad gladium)-, ambedue considerano un sacrilegio e una contaminazione
tale comportam ento (pollutas... manus ad sacra referebant... cruentos sacer­
dotum triumphos).
La sintonia fra Pacato e Ambrogio è tanto più significativa in quanto
sia per Pacato che per Ambrogio i Priscillianisti sono rei di una colpa reli­
giosa: nimia relìgio et diligentius culla divinitas dice Pacato (29,2); devios licet
a fide, considera Ambrogio i Priscillianisti (ep. 24 Maur. [= 30 Faller], 12).
Il secondo punto di contatto riguarda l’uccisione, da parte di Magno
Massimo, di Vallione, fedele collaboratore di Graziano: ricordato in un
passo del Panegirico e nella lettera 24 Maur. col resoconto della seconda
ambasceria di Ambrogio a Massimo, del 386®.

Pacat. paneg. 28,4 Ambr. ep. 24 Maur., 11 (=30 Faller)


... vestrum, Vallio triumphalis et trabea- Quos - inquit - occidi? Respondi ei:
te Merobaudes, recordetur interitum; Vallionem; at quem virum, qualem
quorum alter post amplissimos magi- bellatorem! Haecine fuit iusta causa
stratus... vita sese abdicare compulsus exitii, quod imperatori suo fidem ser-
est... Sed in illos fortasse speciales vavit?... Sed si ipse sibi vim non
putaretur habuisse odiorum causas tyran- intulisset, iusseram eum deduci Cabyllu-
nus; steterat uterque in acie Gratiani et num et ibi vivum exuri. Respondi: Ergo
Gratianus utrumque dilexerat. propterea et illum creditum est quod

6 Sulla data della seconda ambasceria di Ambrogio a Massimo vd. M. Sor


Magno Massimo e l’Italia Settentrionale, «Ant. Altoadr.» 22, 1982, pp. 51 ss.
80 M a r t a S o r d i , Sa jn t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

eum occideris. Quis autem sibi par­


cendi putaret, cum occisus sit bellator
strenuus...

Pacato e Ambrogio non si limitano ad accusare Massimo per la morte


di Vallione, che tutti e due riconoscono essere stata un suicidio, sia pure
imposto, ma concordano anche nel riconoscere ironicam ente come
speciales causas odiorum e insta causa exitii la fedeltà di Vallione a Graziano
( steterat... in acie Gratiani - imperatori suo fidem servavit) e i suoi meriti militari
( Vallio triumphalis - qualem bellatorem... bellator strenuus).
Identica è pure in Pacato e in Ambrogio l’accusa a Massimo di
nascondere le sue intenzioni aggressive sotto parole di pace: Pacat. SO,2 sub
nomine pacis - Ambr. ep. 24 Maur. (= 30 Faller), 13 pacis involucro.
Contatti profondi esistono infine fra la descrizione della vittoria di
Teodosio su Massimo nel 388, presente nel Panegirico di Pacato e nella
lettera di Ambrogio a Teodosio per la vicenda di Callinico del 388:

Pacat. paneg. 32,3-5. Ambr. ep. 40 Maur. (= 74 Faller), 22


Postremo populis barbarorum ultro­ Ego (Christus) exercitum tuum ex
neam tibi operam ferre voventibus multis indomitis convenam nationibus
commilitii munus (sic Lassandro 1992) quasi unius gentis fidem et tranquillita­
indulges... O res digna memoratu! Ibat tem et concordiam servare praecepi.
sub ducibus vexillisque Romanis hostis ib. Frumentum non habebas ad exerci­
aliquando Romanus... tus alimoniam, ipsorum hostium manu
Gothus ille et Chunus et Halanus patefeci tibi portas.
respondebat ad nomen et alternabat ib. Ego ipsum usurpatorem imperii ita
excubias et notari infrequens verebatur. vinxi ac mentem eius ligavi, ut cum
Nullus tumultus, nulla confusio, nulla haberet adhuc fugiendi copiam tamen
direptio ut a barbaro erat. Quin, si cum omnibus suis tamquam metuens
quando difficilior frumentaria res fuis­ ne quis tibi periret ipse se clauderet.
set, inopiam patienter ferebat...
38,1 ss. Ibat interim Maximus ac te post
terga respectans in modum amentis
attonitus avolabat... 4) ita ille ipso quo
agitabatur metu adligatus in oppidum
semet Aquileiense praecipitat... ne poe­
nam... differret...
40,3 Sed si illa (Fortuna) dicat: Ego
properationem militum iuvi, ego fugam
hostium praepedivi, ego Maximum in
muros coegi...

Sia Pacato che Ambrogio sottolineano la disciplina ‘rom ana’ del­


l’esercito barbarico di Teodosio e il felice superamento delle difficoltà
V II. I RAPPORTI FRA AMBROGIO E IL PANEGIRISTA PACATO 81

n ell’approvigionamento; ambedue attribuiscono all'intervento sopranna­


turale (alla Fortuna, Pacato, a Cristo, A m brogio), l’accecam ento di
Massimo che, rifugiandosi in Aquileia, facilitò la vittoria di Teodosio; è
interessante la sequenza ego, ego, ego, con cui Pacato riferisce il vanto della
Fortuna rispetto alle Virtutes, riecheggiando la stessa sequenza ego, ego, ego,
con cui Ambrogio attribuisce a Cristo la rivendicazione della vittoria.
Ma c ’è di più: Ambrogio, facendo parlare Cristo, rimprovera a
Teodosio la sua ingratitudine (ep. 40,22 ego ergo te triumphare feci de inimico
tuo et tu de plebe mea das meis inimids triumphum)-, in Pacato le virtutes
dell’im peratore (la Constantia, la Patientia, la Prudentia, la Fortitudo)
contendono con la Fortuna: Quid tibi debemus, Fortuna, quam fedm us? e,
dopo la risposta della Fortuna, che rivendica i suoi meriti, il panegirista
conclude che la res publica è debitrice sia alle virtutes che alla Fortuna, ma
che l’imperatore deve mostrarsi grato alla Fortuna: 41,1 sed nec tu debitam
gratiam benefidi infitiator abiuras; nam et si per te confeceris quae volebas, per
Fortunam tamen plus adeptus es quam volebas. Ancora im a volta, sia pure in
chiave paganeggiante, Pacato concorda fondamentalmente con Ambrogio.
I contatti fra i due autori riguardano tutte le vicende di Magn
Massimo, dall’inizio del suo governo in Gallia alla sua morte, e sono così
evidenti da non poter essere spiegati se non con la dipendenza dell’uno
dall’altro (o di ambedue da una fonte comune) o con la conoscenza
reciproca.
Sembra da escludere che Ambrogio dipenda da Pacato, perché scrive
prima di lui; sembra pure improbabile che Pacato abbia conosciuto le
lettere di Ambrogio, che, anche se scritte prima, furono pubblicate molto
più tardi; non sembra d’altra parte che si possa semplicemente postulare
la dipendenza com une dalla versione ufficiale dei fatti, diffusa dalla corte
teodosiana: una spiegazione di questo tipo potrebbe forse bastare per
l ’importanza attribuita alla felidtas quasi miracolosa di certe circostanze
della campagna contro Massimo, com e la disciplinata ubbidienza di
migliaia di barbari o l’accecam ento dell’usurpatore, che invece di fuggire
si chiuse da solo nella trappola di Aquileia; non basta invece per l’accusa
mossa a Massimo per il suicidio imposto al grazianeo Vallione, né, soprat­
tutto, per le durissime critiche rivolte ai vescovi antipriscillianisti, colpevoli
di avere intentato ai loro avversari processi davanti al tribunale di Massimo
con l ’accusa di manicheismo, perché anche Teodosio, nello stesso 389,
poco prima del discorso di Pacato, sferrò un forte attacco contro il
M anicheism o7. Ambedue questi avvenimenti, il suicidio e i processi,

7Cfr. Cod.Theod. 16,5,18 del 17 giugno 389 (su cui vd. Lippold, art. dt.,
p. 238, n. 65).
82 M a r t a s o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

riguardavano inoltre l’ambiente gallico, estraneo a Teodosio, che aveva


fino ad allora governato l’O riente, ma ben noto sia a Pacato sia ad
Ambrogio, che, nato a Treviri da un governatore delle Gallie, era stato
incaricato a più riprese di missioni presso Magno Massimo.
Mi domando se non dobbiam o cercare proprio in Gallia, negli
ambienti della corte di Massimo, l’occasione per im a conoscenza diretta
da parte di Pacato di Ambrogio. Pacato dichiara di essere venuto a
Roma ab ultimo Galliarum recessu, qua litus Oceani candentem, excipit solem
(paneg. 2,1) e dichiara che tornerà in Gallia, al term ine della sua felix
peregrinatio: Quae reversus urbibus Galliarum, dispensabo miracula (ib. 47,5).
AI centro del Panegirico i capp. 23-29 sono dedicati ai mali della Gallia sotto
Massimo: unde igitur ordiar nisi de tuis, mea GalMa, malis? (24,4). All’inizio
della lunga enumerazione il panegirista intercede per gli innocenti fautori
di Massimo, per coloro che hanno servito l’usurpatore, convinti che egli
fosse d’accordo con Teodosio8. Il passo è degno di attenzione: nolo tamen
usquequaque miserorum velfactum onerare velfatum qui, dum carnifici purpurato
tua se et adfinitate etfavore iactanti infeliciter credunt, gravissimum omnium nefas
fecerunt adfectu innocenti (24,1). Pacato intercede qui per la classe dirigente
gallica, alia quale egli stesso appartiene, che nei cinque anni del governo
di Massimo gli era stata fedele: la cautela con cui affronta l’argomento
(24,2 intellego quam difficilem in locum scopulosumque devenerim) rivela fino a
qual punto egli si senta coinvolto; lo stesso coinvolgimento rivela all’inizio
il ricordo della tristis illa facundiae anciUantis necessitas... cum gratis agebant
dolentes et tyrannum non praedicasse tyrannidis accusatio vocabatur (paneg. 2,3).
Il retore Pacato, che Teodosio promuoverà nel 390 al proconsolato
d’Africa, era stato probabilmente fra coloro che in Gallia, negli anni del
governo di Massimo, avevano sperimentato la necessità di piegare la loro
eloquenza al servizio del tiranno e che erano stati poi perdonati da
Teodosio per l’appoggio dato allo stesso tiranno; al pari di Simmaco, del
resto, e di molti eminenti pagani di Rom a9.
Ambrogio, che si impegnò a fondo, alcuni anni più tardi, dopo la
vittoria di Teodosio su Eugenio, per ottenere il perdono del vincitore per
i seguaci dell’usurpatore10, aveva già sperimentato, nel 390, la forza della

8 Sull’accordo di Teodosio con Massimo vd. anche Zosim. 4,44; cfr. D. Vera,
I rapporti fra Magno Massimo, Teodosio e Valentiniano, «Athenaeum» 53, 1975,
pp. 267 ss.
9 Per la grazia concessa a Simmaco, vd. A Lippold, s.v. Theodosius, RE (1972),
col. 43.
10Ambr. ep. 61 Maur. (= extra coll. 2 Faller), 7 e ep. 62 Maur. (= extra
coll. 3), 1 ss.
VII. I RAPPORTI FRA AMBROGIO E IL PANEGIRISTA PACATO 83

sua intercessione presso Teodosio (ep. 51 Maur. [= Faller, extra coll.], 11,1)
dulcis mihi recordatio est et beneficiorum, quae crebris meis intercessionibus summa
gratia in alios contulisti): è probabile che tale intercessione si sia esplicata
in gran parte a favore di molti comites di Massimo, con i quali, al tempo
della sua seconda legazione a Treviri, Ambrogio aveva avuto rapporti,
proprio a proposito dei Priscillianisti (ep. 24 Maur. [= 30 Faller], 12 cum
de eo (il vescovo Igino) convenirem comites eius).
L ’identità di giudizi e di valutazioni che il confronto fra le lettere di
Ambrogio e il Panegirico di Pacato sembra rivelare potrebbe pertanto
dipendere da una conoscenza reciproca del vescovo di Milano e del retore
gallico e da rapporti personali stabiliti fra i due al tempo della seconda
legazione o dopo la vittoria di Teodosio.
In qualsiasi m om ento la conoscenza fra Pacato e Ambrogio sia
avvenuta, mi pare che i significativi contatti rilevati nelle valutazioni del
vescovo di Milano e del panegirista gallico sulle vicende di Massimo
dimostrino che questa conoscenza ci fu e che Pacato non esitò a farsi
portavoce di idee e di giudizi di Ambrogio in un momento in cui
Teodosio, irritato con Ambrogio per la faccenda di Callinico, lo teneva
accuratamente lontano dalle sue decisioni e al di fuori del suo comitatus11.
Se teniamo conto della centralità che ha nel testo di Pacato la difesa dei
miseri che furono fedeli a ll’usurpatore, credendolo appoggiato da
Teodosio (dei 47 capitoli in cui è diviso per noi il Panegirico, tale difesa
occupa esattamente l’inizio del cap. 24), e dell'insistenza con cui Pacato
ritorna sullo stesso concetto verso la fine del Panegirico, quando fa
confessare a Massimo prigioniero di avere simulato il favore di Teodosio,
quod aliter non potuisset adlicere militum societatem nisi auctoramenti tui se
finxisset auctorem (ib. 43,6), dobbiamo concludere che il senso vero di tutto
il Panegirico e dell’encomiastica esaltazione del vincitore Teodosio è un
appassionato appello alla clem enza verso i vinti partigiani di Massimo e,
nello stesso tempo, una coraggiosa giustificazione di coloro che il ricono­
scimento concesso da Teodosio a Massimo e la sua lentezza nell’interve-
nire avevano indotto a ritenere Teodosio stesso favorevole all'usurpatore
delle Gallie.
In questo appello alla clemenza e n ell’esperienza del disagio suscitato
dal sospetto di una connivenza fra l’Augusto di O riente e l’usurpazione
gallica (Ambrogio stesso esprimerà questo disagio più tardi, nel caso di
E u g en io )12 , vanno cercati a mio avviso i motivi dell’intesa fra il retore
pagano e il vescovo di Milano.

11Ambr. ep. 51 Maur. (= extra coll. 11 Faller), 2.


12Ambr. ep. 53 Maur. (= 25 Faller), 1 ss.
V ili.

LA LETTERA DI AMBROGIO A STUDIO E IL PROBLEMA


DELLA PENA DI MORTE

L ’epistolario di Ambrogio, vescovo di Milano, è una fonte di grande


importanza soprattutto per i rapporti fra lo stato e la chiesa, quali si
rivelano attraverso le lettere agli imperatori, e per la storia della chiesa,
quale emerge dalle lettere ai colleghi nell’episcopato e ai membri del
clero milanese; di grande interesse appare tuttavia l’epistolario anche per
i rapporti con i corrispondenti laici, quasi tutti m embri della classe
dirigente imperiale, perché ci manifesta, non solo il caratteristico scambio
di officia fra i membri dell’aristocrazia rom ana1, ma anche la concretezza
di Ambrogio e la sua capacità di risolvere con esperto equilibrio e con
carità profonda i casi della vita pratica2 e di prendere posizione con
autorevole duttilità e vivo senso della tradizione di fronte ai problemi
nuovi, che l’esistenza di un impero cristiano poneva alla coscienza del
cred en te3.
La lettera a Studio (ep. 50 Faller = 25 M aur.), che dal testo si rivela un
governatore di provincia4 e che sembra da identificare con il comes rei
privatae di questo nom e attestato a Costantinopoli nel 401 e con il prae­
fectus urbis Constantinopolitanae del 4045, è una di queste: essa risponde ad

* Polyanthema. Studi offerti a Salvatore Costanza, « Studi Tardoantichi » 7, 19


pp. 275-283.
1 Cfr. ep. 47 Faller (a Polibio); ep. 60 Faller (ad Antonio).
2 Come l’ep. 35 Faller a Sisinnio, riconciliato col figlio e con la nuora; la
ep. 58 Faller a Paterno, alto funzionario di Teodosio, invitato a rispettare le
disposizioni di quest’ultimo e a non imporre al figlio Cinegio un matrimonio con
una consanguinea; come l'ep. 45 Faller a Taziano, a cui vengono fatti presenti i
vantaggi della promozione del suo avversario Rufino, che non potrà più a causa
di essa interferire in un processo.
3 Su queste lettere vd. J.R. Palanque, Saint Ambroise et l’empire Romain, Parigi
1933, pp. 544 ss.
4J.P. Mazières, Les lettres d'Ambroise de Milan à Irénée, «Pallas» 26, 1979,
pp. 108 s.
5 Cfr. PLRE, I, 1971, p. 859; II, 1980, p. 1036; cfr. Mazières, art. cit., pp. 108 s.
86 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

una domanda sulla liceità, per un giudice cristiano, di pronunziare


sentenze capitali: domanda non oziosa, dice Ambrogio (ib. 2 non otiose
sciscitandum putasti), in quanto da un lato ci sono le esigenze della
misericordia cristiana, dall’altro c ’è l’autorità di S. Paolo, che legittima l’uso
della spada (Rom. 13,4) da parte del giudice (Dei enim vindex est in eos qui
male agunt ib. 1).
La soluzione di Ambrogio, che, com e vedremo, ritorna con coerenza
nel resto della sua opera, è lineare e nello stesso tempo complessa e
non si limita alla legittimazione della condanna pur nel consiglio dell’in­
dulgenza6: 1’auctoritas dell’Apostolo (ib. 1-2) e la tradizione della Chiesa
(ib. 9 maiores... priores) non perm ettono al vescovo di avere dei dubbi sulla
liceità dell’uso delle pene più gravi, simboleggiate dalla spada, contro i
colpevoli.
Per questo Ambrogio, dopo aver osservato che ci sono alcuni eretici
(ib. 2 nam sunt, extra Ecclesiam tamen)7, che escludono dalla comunione
coloro che pronunziano sentenze capitali, dichiara che egli non osa far
questo, per rispetto ah’auctoritas dell’Apostolo. Tuttavia ritiene degni di
lode coloro che, dopo aver pronunziato una sentenza capitale, sponta­
neam ente si astengono dalla com unione e conclude: ib. 3 vides igitur quid
auctoritas tribuat, quid studeat misericordia. Excusationem habebis si feceris:
laudem si non feceris. Ed aggiunge che anche molti pagani si vantano quod
incruentam de administratione provinciali securim revexerint.
L ’episodio evangelico dell’adultera, che Gesù salvò dalla lapidazione
(Ioh. 8,3 ss.), riferito e commentato in questa lettera (ib. 4-7), è il modello
di comportamento a cui Ambrogio rinvia Studio (ib. 8 habes quod sequaris),
m a ribadendo che, nella tradizione della Chiesa, la decisione della
clemenza, al pari dell’espiazione del sangue versato con l’autoesclusione
dai sacramenti, deve essere im a scelta volontaria, non u n ’imposizione di
legge (ib. 9 maluerunt igitur priores nostri, ut in voluntate magis abstinentis,
quam in necessitate sit legis).
La tradizione ecclesiastica riteneva infatti che il timore della spada
servisse a trattenere lo scelerum furor, la negazione della com unione ai
giudici che nell’esercizio delle loro funzioni avessero condannato un
delinquente poteva infatti sembrare la vendetta della pena inflitta al
colpevole (criminosorum vindicata poena). L ’episodio dell’adultera è al
centro anche di un’altra lettera di Ambrogio, la ep. 68 Faller (= 26 M aur.),

6 Cfr. J. Gaudemet, Droit sécuUer et droit da l’église chez Ambroise, in Ambrosius


Episcopus, I, Milano 1976, p. 309; Y.M. Duval, Ambroise de son élection à sa amsécration,
in Ambrosius Episcopus, II, op. cit., p. 261.
7 Secondo J.R. Palanque (op. cit., pp. 342 s.) si tratta dei Novaziani.
vm. l a lettera d i Am b r o g io a s t u d i o e i l p r o b l e m a d e l l a p e n a d i m o r t e 87

che, per il riferim ento iniziale ad una superior epistula, nella quale
Ambrogio aveva risposto alla quaestiuncula del destinatario, e per l’impor­
tanza che in essa assume l ’episodio dell’adultera, ricordato fin dal
paragrafo 2 e poi ripreso in quelli successivi, sino alla conclusione (20), era
stata collocata dai Maurini e dal Migne immediatamente dopo la lettera
a Studio e ritenuta indirizzata a lui com e quella; siccome però tutti i
manoscritti portano com e destinatario della lettera Irenaeo e non Studio,
si era concluso che Studius Irenaeus vocati potuerit8. Questa spiegazione, che
già il Palanque riteneva fantasiosa e inaccettabile9, è stata di recente
respinta dal Mazières10, secondo il quale, m entre Studio è certam ente un
magistrato, interessato alla questione della pena di m orte a causa della sua
funzione, il destinatario della lettera in questione è chiamato all’inizio
della lettera e nel saluto finale filius e va ritenuto pertanto un membro del
clero m ilanese, da identificare appunto con quell’Ireneo che, con
Oronziano, è uno dei corrispondenti abituali di Ambrogio e che, come
lui, faceva parte del clero di Milano e proveniva probabilm ente dal
giudaismo. La superior epistola a cui Ambrogio si riferisce, sarebbe l'ep. 67
Faller (= 80 M aur.), che alcuni manoscritti riferiscono a Bellicio, altri a
Ireneo e che gli editori precedenti (e lo stesso Palanque) hanno ricono­
sciuto a Bellicio, m a che il Mazières ritiene invece indirizzata a Ireneo:
il legame fra le due lettere sarebbe rivelato dal fatto che ambedue hanno
al centro un episodio del Vangelo di S. Giovanni, quello del cieco nato
(Ioh. 9,1 ss.) la ep. 67 Faller, quello dell’adultera (Ioh. 8,1 ss.) Yep. 68.
Prescindendo dalla possibilità di errori neU’indicazione del destina­
tario nei manoscritti (possibilità che lo scambio stesso fra Bellicio e Iraeneo
nei manoscritti della ep. 67 Faller non permette di escludere neppure per
la ep. 68 Faller), io ritengo che si possa certam ente escludere, sulla base
del contenuto delle due lettere, che la ep. 68 Faller sia rivolta allo stesso
personaggio a cui è indirizzata la ep. 67 Faller. Non è facile vedere come
l’episodio del cieco nato, sviluppato nella ep. 67, possa essere considerato
una risposta alla quaestiunculam quam proposuisti, di cui Ambrogio parla in
ep. 68,1; la ep. 67, infatti, non risponde a nessuna domanda, ma incita al
battesimo, servendosi, appunto, dell’episodio del cieco nato: ib. 67,6 accede
et tu ad Siloam... Veni ad baptismum, tempus ipsum adest.
Essa riprende in effetti quell’invito al Battesimo che aveva già rivolto
a Bellicio quando, convalescente da una grave malattia, aveva cominciato

8 Cfr. PL, 16, p. 1042.


9J.R. Palanque, Deux correspondants de Saint Ambroise, «Rev. Et. Lat.» 11, 1933,
pp. 157 s.
10 Mazières, art. cit., pp. 108 ss.
88 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

a credere in Cristo, la ep. 9 Faller (= 79 Maur). Il parallelo fra la caecitas


e V aegritudo giustifica nella ep. 67,2 Faller (= 80 Maur.) la trattazione in
questa seconda epistola dell’episodio evangelico del cieco nato e conferma
l’attribuzione di ambedue le lettere allo stesso destinatario, che era stato
ammalato, mentre la decisione del neo convertito di accostarsi alla fede
spiega il frater di 67,1 e tifili di 67,9, combinato con l ’invito ad essere, come
il cieco, discepolo di Cristo (ib. tu sis - inquiunt - discipulus eius). Io credo
pertanto che l’epistola 67 Faller debba essere collegata con Vep. 9 Faller
e ritenuta, al pari di quella, indirizzata a Bellicio.
La ep. 68 - che riprende e approfondisce con l’episodio dell’adultera
la risposta alla quaestiuncula quam, proposuisti, a cui Ambrogio aveva già
risposto superiore epistula, e che è tutta centrata sul presunto conflitto fra
Legge e Grazia, sul quale i Giudei vogliono costringere Cristo a prendere
posizione e sulla distinzione fra assoluzione e correzione, fra colpa e
colpevole - sembra effettivamente indirizzata allo stesso destinatario della
ep. 50 Faller sulla liceità della pena di morte. Non si oppone a questa
conclusione il fatto che il destinatario della ep. 68 sia chiamato filius (1; 20),
perchè si è visto che questa affettuosa espressione non è esclusivamente
rivolta a membri del clero, ma anche al catecum eno Bellicio. Il fatto
dunque che Studio sia un laico ed un magistrato, di cui peraltro Ambrogio
ha già riconosciuto nella lettera precedente (50,1) purae affectum mentis,
non impedisce al vescovo, commosso di fronte al suo desiderio di una
risposta più piena (68,1 tamen aliquid plenius requirenti Ubi), di venire
incontro a questo desiderio, non solo con im a risposta più esplicita, ma
anche con una cordialità più manifesta: vale, fili, et nos dilige, ut filius; quia
nos te, ut parentes, diligimus (68,20) n.
Mi sembra pertanto che Yep. 68 Faller debba essere ritenuta immedia­
tamente successiva alla ep. 50 Faller e destinata allo stesso personaggio,
Studio, governatore di una provincia imperiale e interessato, per dovere
di ufficio, al pensiero di Ambrogio sulla posizione di un magistrato
cristiano di fronte al problem a delle esecuzioni capitali. Le conseguenze
di questa conclusione sono due: 1) Yep. 68 ci fornisce un sicuro elemento
di datazione per ambedue le lettere; 2) Yep. 68 deve essere tenuta presente,

11 La lettera a Studio termina: vale et nos dilige; quia nos quoque te diligim
(ep. 50 Faller, 9). J.R. Palanque (Saint Ambroise, art. cit., pp. 478 s.) dice che il tono
non è affettuoso e rivela in Studio un corrispondente solo occasionale. L’osser­
vazione mi lascia perplessa. Vale la pena di ricordare che anche lo Studio prefetto
urbano del 404 fu in corrispondenza con eminenti ecclesiastici (a lui è indirizzata
una lettera di S. Giovanni Crisostomo (Ioh. ep. 197).
v r a . L a l e t t e r a d i Am b r o g io a S t u d io e i l p r o b l e m a d e l l a p en a d i m o r t e 89

insieme con Yep. 50, per definire il pensiero di Ambrogio di fronte alla
pena di morte.

1) Per quel che riguarda la datazione, la ep. 68 Faller è scritta, come


risulta con chiarezza dal paragrafo 3 e com e è ammesso da tutti12, sotto
l’impressione dei processi contro i Priscillianisti, condotti a Treviri da
Magno Massimo con l’appoggio e per l’istigazione di alcuni vescovi della
Gallia e della Spagna: questi processi erano in atto al tempo della seconda
legazione di Ambrogio presso Magno Massimo, di cui Ambrogio stesso fa
il resoconto a Valentiniano nell’q!». 30 Faller (= 24 Maur.) e che io ritengo
da datare nel 386-387, certo dopo il giugno del 3861S. L ’atteggiamento di
condanna assunto da Ambrogio nei riguardi di quei vescovi che perse­
guitavano a m orte i Priscillianisti (qui aliquos, devios Ucet afide, ad necem
petebant ep. 30,12) corrisponde esattamente a quello che egli assume nella
ep. 68,3 nei riguardi degli stessi vescovi (ep. 68,3 posteaquam episcopi reos
criminum, gravissimorum in publicis iudidis accusare, alii et urgere usque ad
Radium supremamque mortem, alii accusationes huiusmodi et cruentos triumphos
probare coeperunt) e perm ette di collocare la lettera 68 nello stesso periodo
della seconda legazione di Ambrogio a Massimo. L ’ep. 50, di cui Yep. 68 è
la ripresa, è di poco anteriore alla presa di posizione di Ambrogio di
fronte ai processi di Treviri: presumibilmente essa fu scritta prima dello
scandalo provocato nel vescovo di Milano daH’atteggiamento dei vescovi
gallici e spagnoli, dalla cui com unione egli si astenne durante la visita a
Massimo: nella ep. 68,3 egli scrive infatti che la quaestio, che egli intende
riprendere nella seconda lettera a Studio, vehementior facta est posteaquam
episcopi, ecc.

2) Furono dunque i processi capitali che, sulla base delle accuse di


alcuni vescovi, si celebrarono nel 386 contro i Priscillianisti e che si
conclusero con sentenze capitali, a indurre Ambrogio a riprendere, con
Studio, il problem a già dibattuto, della liceità, per un cristiano, di pronun­
ziare sentenze capitali. Il problem a im postato da Studio era qui
com plicato dal fatto che a sollecitare delle sentenze capitali da tribunali
dello stato erano, con le loro accuse, non semplici cristiani, ma vescovi, e
ch e le accuse erano di natura religiosa, trattandosi di eretici (aliquos, devios
licet a fide) : è contro questa interferenza che Ambrogio assimila all’atteg­
giamento assunto dai Giudei davanti a Gesù nel caso dell’adultera (ep. 68,3
quid enim aliud isti dicunt, quam dicebant Iudaei reos criminum legibus esse

12 Cfr. da ultimo Mazières, art. dt., pp. 107 s.


13 Sul problema vd. ora M. Sordi, Magno Massimo e Vitalia settentrionale,
«Ant. Altoadr.» 22, 1982, pp. 58 ss. (con bibliografìa).
90 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R om a

publicis puniendos; et ideo accusari etiam a sacerdotibus in publicis iudiciis


oportuisse, quos asserunt secundum leges oportuisse puniri), che Ambrogio
prende nettam ente posizione nella sua lettera. Il giudizio di Cristo si
esercita nella Chiesa (ib. 4) ed è condono del peccato, non assoluzione del
crimine: emendavit ream non crimen absolvit (ib. 19). Etenim cum reus occiditur
persona magis, quam culpa punitur: ubi vero culpa deponitur, absolutio personae
est poena peccati (ib.).

Ambrogio, che è disposto a ritenere lecita, anche se possibilmente da


evitare, la pena di morte comminata da un tribunale di stato per colpe
comuni, non ammette che la Chiesa faccia intervenire lo stato per colpe
religiose e che dei vescovi portino degli eretici di fronte ai pubblici
tribunali, com e avevano fatto alcuni vescovi della Gallia e della Spagna di
fronte a Magno Massimo a Treviri.
Dovere del sacerdote resta quello di impedire, se possibile, l’esecuzione
delle condanne capitali: nel de officiis ministrorum (2,21,102) del 389-390,
fra gli atti che danno stima ad un sacerdote Ambrogio ricorda si de
potentis manibus eripias inopem, de morte damnatum eruas, m a aggiunge su­
bito: quantum sine perturbatione fieri potest; ne videamur iactantiae magis causa
facere, quam misericordiae, et graviora inferre vulnera, dum levioribus mederi
desideramus.
L ’aggiunta mi sembra estremamente significativa: il dovere cristiano
della misericordia non deve entrare in conflitto con la legittima auctoritas
dello stato, il quale ha da Dio il compito di pimire il male. Questo
compito, che la Chiesa aveva riconosciuto all’im pero pagano, essa lo
riconosce ovviamente anche all’im pero cristiano, ammettendo la liceità
della difesa contro il nem ico in guerra e della repressione armata contro
il violatore della legge nella vita civile: nella ep. 58 Faller (= 60 Maur.) a
Paterno, Ambrogio invita a chiamare le cose col loro nome: hostem ferire
victoria est, reum aequitas, innocentem homicidium.
L ’ aequitas, com e lo ius, è term ine che ha particolare riferim ento con
gli atti compiuti daU’autorità e collegati direttamente col p o tere14. E la
realtà della colpa dell’accusato che discrimina la giustizia dall’omicidio
anche nell’esercizio del potere statale: uccidere un colpevole è aequitas,
uccidere un innocente è homicidium. N ell’é^. 2,11 Faller (= 51 Maur.) scritta
nel 390 a Teodosio dopo l’eccidio di Tessalonica, Ambrogio ricorda la
colpa di David (ib. 10): quia etsi rex erat, peccabat tamen si ocdderet innocentem.
E aggiunge (ib. 12) qui apicem clementiae tenebas, qui singulos nocentes non

14 Sul concetto di aequitas vd. ora G. Belloni, s.v. aequitas, in LIMC, I, Zùric
Mùnchen 1981, pp. 240-243.
V i n . LA LETTERA DI AMBROGIO A STUDIO E IL PROBLEMA DELLA PENA DI MORTE 91

patiebaris periclitari, tot periisse non doleas innocentes. Per questo Ambrogio
non potrà offrire il sacrifìcio della messa alla presenza di Teodosio,
colpevole di avere ucciso degli innocenti: ib. 13 an quod in unius innocentis
sanguine non licet, in multorum licet? non puto.
Qualche volta si accusa Ambrogio di avere indebolito l’autorità dello
stato imponendo la penitenza pubblica ad un imperatore romano;
qualche volta ancora lo si critica per aver assimilato troppo poco lo spirito
nuovo del Vangelo, accettando la legittimità della pena di morte e della
guerra. In realtà Ambrogio è perfettamente coerente sia con la tradizione
religiosa della Chiesa che con la tradizione giuridica romana: l’intransi­
genza con cui egli chiede a Teodosio la penitenza per il massacro di
Tessalonica, nato da un moto d’ira al di fuori di ogni legittima applica­
zione della legge e di ogni valutazione di innocenza e di colpa, è pari al
rispetto che egli manifesta per i diritti e i doveri dello stato nell’esercizio
anche armato della sua funzione in difesa del bene comune: è in nome
di questi diritti-doveri, non per compromesso con lo stato, ma per
profonda convinzione, corroborata dall’autorità dell’apostolo e dalla tradi­
zione della Chiesa, che egli ritiene che non si debba chiedere allo stato,
anche se governato da cristiani, la misericordia, quando ciò può provocare
turbamenti dell’ordine e quando tale richiesta porterebbe danni maggiori
di quelli che si vogliono evitare. Questa posizione di rigorosa fedeltà ai
principi e di illuminato realismo è, insieme, il frutto dell’esperienza
politica e pastorale di Ambrogio, consularis ed episcopus, e della sua fede
profonda e rappresenta la testimonianza sempre attuale dell’antico
vescovo di Milano.
IX.
PENA DI M O RTE E «BRACCIO SECOLARE»
NEL PENSIERO DI AMBROGIO

1. L ’epistolario ambrosiano contiene due lettere ad un magistra


Studio, che costituiscono u n ’importante testimonianza sul pensiero di Am­
brogio sulla pena di morte: si tratta delle lettere 25 e 26 Maur. (= 50 e
68 Faller). Per la seconda lettera, in realtà, il destinatario indicato dai
manoscritti è Ireneo, ma per il riferim ento ad una superior epistula nella
quale Ambrogio aveva già dato una risposta e per l’importanza che in essa
assume l’episodio dell’adultera, già trattato nella lettera a Studio, essa è
stata ritenuta da tutti gli editori (i Maurini, il Migne ed ora il Faller)
indirizzata allo stesso Studio. Il tentativo abbastanza recente del M azières1
di negare questa connessione facendo di Ireneo il destinatario dell’ep. 26
Maur. (68 Faller) e di identificare la superior epistula con 1'ep. 80 Maur.
(= 67 Faller) indirizzata secondo alcuni manoscritti (e la maggior parte
degli editori) a Bellicio, secondo altri manoscritti (e secondo il Mazières)
a Ireneo, mi sembra destituita di fondam ento: non mi pare infatti che si
possa vedere n ell’episodio del cieco nato, sviluppato nella lettera a Bellicio
(Iren eo ), una risposta alla quaestiuncula quam proposuisti di cui Ambrogio
parla in ep. 26,1 Maur. (= 68,1 Faller) : la ep. 80 Maur. (= 67 Faller), infatti,
non risponde a nessuna domanda, m a incita al battesimo e si serve, per
questo, dell’ episodio del cieco nato; essa va collegata pertanto con l’invito
al battesimo che Ambrogio aveva già rivolto a Bellicio, convalescente di
im a grave malattia, nell ’ep. 79 Maur. (= 9 Faller). Ma su questo problema,
che ho trattato ampiamente in un altro articolo2, non intendo tornare ora.
La lettera 26 Maur. (= 68 Faller) è certam ente diretta a Studio e rappre-

* Metodologie della ricerca sulla tarda antichità, Atti del primo convegno dell’A
sociazione di studi tardoantichi (Napoli, ottobre 1987), a cura di A Garzya, Napoli
1989, pp. 179-187.
1 Cfr. J.P. Mazières, Les lettres d’Ambroise de Milan à Irénée, «Pallas» 26, 1979,
pp. 108 ss.
2 Cfr. M. Sordi, La lettera di Ambrogio a Studio e il problema della pena di morte,
in Polyantema. Studi offerti a Salvatore Costanza, Studi Tardoantichi VII, 1988,
pp. 275-283.
94 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

senta una risposta più ampia e articolata alla quaestiuncula posta da Studio
nella superior epistula (che è la 25 Maur. = 50 Faller): cioè alla questione
della liceità per un cristiano di pronunziare e di eseguire sentenze di
morte. La natura della domanda permette forse l’identificazione del
personaggio, che al mom ento della lettera doveva essere un governatore
di provincia, fornito dello iure gladii: egli può pertanto essere identificato
con l’omonimo comes rei privatae, attestato nel 401 a Costantinopoli, che
nel 404 fa praefectus urbis Constantinopolitanae3.

2. La data della seconda lettera (ep. 26 Maur. = 68 Faller) può esse


fissata con una certa sicurezza grazie alla polem ica del paragrafo 3 contro
i vescovi antiprisciUianisti: sed vehementior facta est (la quaestio del para­
grafo 2), posteaquam episcopi reos criminum gravissimorum in publicis iudiciis
accusare, alii et urguere usque ad gladium supremamque mortem, alii accusationes
huiusmodi et cruentos sacerdotum triumphos probare coeperunt.
I processi a Treviri contro i Priscillianisti erano in corso, davanti
Magno Massimo, al tempo della seconda missione di Ambrogio presso
l’usurpatore, che è certam ente posteriore al 19 giugno del 386 4; la
conclusione di essi spetta al 386 o al 3875, prima dell’estate. La secon­
da lettera, suggerita dall’impressione suscitata in Ambrogio da quella
esecuzione, provocata con le loro accuse da vescovi (cruentos sacerdotum
triumphos), deve essere quindi posteriore all’esecuzione (estate-autunno
del 386 o inizi del 387). La prima lettera, d’altra parte, non deve essere
lontana di m olto nel tempo dalla seconda, che si presenta, come si
è visto, come un supplemento di risposta alla quaestiuncula della superior
epistula: anche la prima lettera, pertanto, deve appartenere al 386 ed è
forse anteriore alla missione di Ambrogio a Treviri, nella quale egli
ebbe modo di affrontare e di scomunicare i vescovi accusatori dei Pri­
scillianisti.

3 Cfr. PLRE, I, Cambridge 1971, p. 859; II, 1980, p. 1036; Mazières, art. cit.,
pp. 108 s.
4 Cfr. M. Sordi, Magno Massimo e l’Italia settentrionale, in Aquileia nel IV secolo,
I, 1982, pp. 61 s. Al 386, ma prima dell’occupazione delle basiliche, collocano
la missione di Ambrogio J. Palanque, in AA.W., Les empereurs romains dEspagne,
Paris 1965, I, pp. 259 ss.; A.R. Birley, Magnus Maximus and thè Persecution of Heresy,
« Bull. Ryl. Libr.» 66, 1983, pp. 30 ss.
6 Cfr. Birley, art. cit., p. 33 s.; J.M. Blàzquez Martinez, in AA.W., Espa
Romana, II, Madrid 1982, pp. 473 ss. (a cui rinvio per ima ampia esposizione di
tutto il problema dei Priscillianisti).
I X . P e n a d i m o r t e e « b r a c c io s e c o l a r e » n e l p e n s ie r o d i A m b r o g io 95

Il 386 è un anno importante nella vita di Ambrogio: un anno inizia


con la controversia con la corte per le basiliche, che culminò nella
settimana santa, con l ’occupazione delle basiliche stesse da parte del
Vescovo e del popolo, assediati dai soldati, e con la vittoria del Vescovo,
che fu però accusato dagli ambienti della corte di essere tyrannus, cioè di
usurpazione politica.
Poco dopo la metà di giugno, al tempo del rinvenimento del corpo dei
martiri Protasio e Gervasio, la tensione durava ancora ed essa era in atto
anche al tempo della missione di Ambrogio presso Massimo, che fu forse
un modo, per gli ambienti vicini a Giustina, di mettere alla prova la lealtà
del vescovo o, più ancora, un tentativo di coglierlo in fallo6. In questo
clima vanno dunque collocate le due lettere a Studio.

3. La reazione di Ambrogio alla condanna a morte dei Priscillianis


che m etterem o più avanti in rapporto con l’atteggiamento generale di
Ambrogio di fronte alla pena di morte, coincide non solo con quella di
S. Martino (Sulp. = Sev. Chron. 2,49) e di Papa Silicio (Coll. Avellana ep. 39
CSEL, 35,88-90)7 m a anche con quella del pagano Pacato nel Panegirico a
Teodosio (paneg. X II [2], 29,2-3) del 389, che dopo aver lamentato la pena
inflitta in quella occasione anche a delle donne, osserva: Quid, hoc maius
poterat intendere accusator sacerdos? Fuit enim, fuit et hoc delatorum genus qui
nominibus antistites, re vera autem satellites atque ideo carnifices, non contenti
miseros avitis evoluisse patrimoniis calumniabantur in sanguinem et vitas
premebant reorum iam pauperum; quin etiam, cum iudiciis capitalibus adstitissent,
cum gemitus et tormenta miserorum auribus ac luminibus hausissent, cum lictorum
arma cum damnatorum frena tractassent, pollutas poenali contactu manus ad
sacra referebant et caeremonias quas incestuaverant mentibus etiam corporibus
impiabant.
Ciò che colpisce nel confronto fra il testo della lettera ambrosiana e
quello del panegirista pagano è lo scandalo suscitato in ambedue dall’ac-
cusator sacerdos, dall’insistenza di un’accusa portata sino ad gladium
supremamque mortem (Ambr.), in sanguinem et vitas (Pacat.), di fronte a
tribunali (iudiciis capitalibus, in Pacato, in publicis iudiciis, in Ambrogio) da
vescovi (episcopi Ambr. antistites Pacat.). I cruentos sacerdotum triumphos di

6 Cfr. M. Sordi, Magno Massimo... art. cit., pp. 61 ss.


7 Sull’atteggiamento di Martino e di Papa Silicio, la cui lettera ci è nota
solo attraverso la risposta di Massimo, cfr. Blàzquez Martinez, art. cit., pp. 473 s.;
cfr. Birley, art. cit., pp. 32-36.
96 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

Ambrogio e le pollutas poenali contactu manus che contaminano per Pacato


i sacra, rivelano nel vescovo di Milano e nel panegirista imperiale
un’identità di sentire sull’inconciliabilità fra l’atto religioso e l’esercizio
della violenza, anche di quella che nasce da un legittimo giudizio dello
Stato. Di questa inconciliabilità, presente alla coscienza di cristiani e di
pagani, e certamente coesistente, almeno nei pagani, con l’ammissione
della piena liceità della pena di morte da parte dello Stato, dobbiamo
tener conto per valutare pienamente la complessa posizione di Ambrogio
di fronte alla pena di morte nelle due lettere a Studio.

4. La sostanza della risposta di Ambrogio è tutta contenuta nel p


mo paragrafo della prima lettera: l’incertezza nasce da una parte da quod
est commissum vobis (ai magistrati) propter custodiam legum, dall’altra prop­
ter misericordiam et gratiam, ma cessa naturalmente davanti alla aposto-
licam... auctoritatem «quia non sine causa gladium portat qui iudicat; dei
enim vindex est in eos qui male agunt» (ep. 25 Maur., 1), L ’affermazio­
ne di Paolo nella lettera ai Romani (13,4) basta dunque per Ambro­
gio per dirimere la questione sulla liceità della pena di m orte nei ri­
guardi dei colpevoli: in u n ’altra lettera, quella a Paterno (anch’egli
funzionario dello Stato), Ambrogio invita a chiamare le cose col loro
nome, hostem ferire victoria est, reum aequitas, innocentem homicidium (ep. 60
Maur. = 58 Faller, 1) ed afferma chiaramente e senza equivoci che uccidere
un colpevole è aequitas, un term ine che al pari dello ius ha particolare
riferimento con gli atti compiuti dall’autorità n ell’esercizio del suo potere
legittim o8.
E il peso dell 'auctoritas apostoli è ribadito subito dopo, quando, nella
stessa prima epistola a Studio (ep. 25 Maur., 2), dopo aver ricordato che
alcuni eretici (extra ecclesiam tamen), forse i Novaziani9 negano la
com unione a coloro qui in aliquos capitalem sententiam ferendam aestimaverunt
e che alcuni sponte se abstinent et laudantur, dichiara di sentirsi legato
dall’autorità apostolica e atenus... ut his communionem non audeamus negare.
Su questo pensiero egli ritorna alla fine della lettera, dopo avere proposto
l ’esempio della misericordia, attraverso l’episodio dell’adultera, che Gesù
corregge, ma non condanna (ib. 9): et ideo maiores (cioè gli Apostoli)
maluerunt indulgentiores esse àrea vudices, ut dum gladius eorum timetur, repri­
meretur scelerum furor, non incitaretur; quod si negaretur communio, videretur

8 Cfr. G. Belloni, s.v. aequitas, in LIMC, I, Zurich-Mùnchen 1981, p. 241.


9 Novaziani o Montanisti, secondo F. Heim, Le thème de «la victoire sans combat»
chex. Ambroise, in Dix Etudes rassemblées par Y.M. Duval, Paris 1974, p. 277.
I X . P e n a d i m o r t e e « b r a c c io s e c o l a r e » n e l p e n s ie r o d i A m b r o g io 97

cnminosorum vindicata poena. Maluerunt igitur priores nostri, ut in voluntate


magis abstinentis quam in necessitate sit legis10.
La preoccupazione che Ambrogio coglie alla radice della liceità che la
tradizione apostolica riconosce alla pena di morte è che la negazione di
questa liceità diventi un incitam ento allo scelerum furor, per lui, pertanto,
pronunziare ed eseguire la pena di morte contro un colpevole resta lecito,
anche per un magistrato cristiano. Negare la com unione ad un magistrato
che si trovi in queste condizioni apparirebbe la vendetta della pena inflitta
ai colpevoli, che resta, com e è detto nella lettera a Paterno, un atto di
aequitas. Egli ritiene, invece, giusto e lodevole che rimanga nel giudice
cristiano, che sia stato costretto a pronunziare e ad eseguire una sentenza
di morte, la ripugnanza del sangue versato e che questa ripugnanza si
esprìma nella rinuncia (naturalmente temporanea) alla comunione. Il
pensiero di Ambrogio resta lo stesso nel 389-390, al tempo della compo­
sizione del de officiis ministrorum: fra gli atti che danno stima ad un
sacerdote egli pone la salvezza di un condannato a morte (2,21,102):
si... de morte damnatum eruas. Ma aggiunge subito: quantum sine perturbatione
fieri potest; ne videamur iactantiae magis causa facere, quam misericordiae, et
graviora inferre vulnera, dum levioribus mederi desideramus. II passo mi sembra
degno di attenzione: l ’insistenza di un sacerdote per strappare un
condannato alla morte potrebbe non nascere dalla misericordia, ma dalla
vanità e da una volontà di sfida contro l’autorità legittima dello Stato
(iactantia): in questo caso Ambrogio dichiara decisamente che il tentativo
deve essere abbandonato perché turba l’ordine e infligge graviora vulnera,
m entre si propone levioribus mederi. La m orte di un colpevole è dunque un
vulnus levius, un male minore rispetto all’ordine voluto da Dio, per il quale
il sangue umano non deve essere versato, che non la negazione dell’au­
torità legittima dello Stato nella funzione che esso ha da Dio stesso di
reprim ere lo scelerum furor e di punire i colpevoli. Ambrogio precorre di
qualche anno, con questa affermazione, im a norm a del codice teodosiano
(11,36,31) del 392, che vieta ai giudici di lasciarsi distogliere dalla debitae
severitati da interventi episcoporum, vel clericorum, vel populi. Non è giusto
infatti sottrarre alla pena dovuta qui pacem publicam actuum perturbatione
confusam rebelli pertinacia miscuerunt.
Il rifiuto, affermato dal de officiis, di ogni iactantia verso lo Stato, anch
in atti che possono avere apparenza di misericordia, mi sembra molto
importante nel pensiero di un vescovo che, com e appunto Ambrogio, è

10 Lo Heim (art. dt., p. 279) assimila l’atteggiamento assunto da Teodosio do


la battaglia del Frigido a quello suggerito, con l’astensione volontaria dalla
comunione, da Ambrogio ai giudici.
98 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

stato spesso accusato di avere umiliato l’autorità dello Stato. Questo rifiuto
è fermissimo in Ambrogio anche al tempo della famosa lettera a Teodosio
per la strage di Tessalonica, nel 390: la colpa di cui egli chiede qui la
penitenza a Teodosio, non è quella di avere ucciso dei colpevoli, ma degli
innocenti: ep. 51 Maur. (2,11 Faller), 12 qui apicem clementiae tenebas, qui
singulos nocentes non patiebaris periclitari, tot petiisse non doleas innocentes.
Risparmiare dei colpevoli è clementia, anche se può essere aequitas l’ucci­
derli. Solo uccidere degli innocenti homicidium est.
L ’aderenza alla legge rom ana nella distinzione fra colpevoli e inno­
centi resta presente anche in un altro passo, contrastato ed oscuro pure
nel testo, della stessa prima lettera a Studio (ep. 25 Maur., 3): nec tarnen
nocentes (ma la maggior parte dei manoscritti ha innocentes) adterere squalore
carcerìs et absolvere plus quasi sacerdos probabo; potest enim fieri, ut causa cognita,
recipiatur ad sententiam reus, qui postea aut indulgentiam sibi petat aut certe sine
gravi severitate - quod quidam ait - «habitet in carcere» (Cic. leg. agr. 2,37,101).
II passo è stato accostato dagli editori di Ambrogio ad una costituzione
del 380, emanata da Costantinopoli coi nom i di Graziano, Valentiniano II
e Teodosio, contro le lunghe carcerazioni preventive (Cod. Theod. 9,3,6)
de his quos tenet carcer id aperta definitione sancimus, ut aut convictum velox
poena subducat aut Uberandum custodia diuturna non maceret... Non c ’è
dubbio che 1’ adterere squalore carcerìs di Ambrogio corrisponde esattamente
al custodia diuturna... maceret della costituzione; l’espressione di Ambrogio
sembra riferirsi, come nella costituzione, ad un m om ento anteriore alla
causa cognita, cioè alla celebrazione del processo e alla sua conclusione.
L ’alternativa posta dopo la cognitio appare però diversa: m entre nella
costituzione del 380 essa è la liberazione dell’accusato se innocente o la
sua rapida esecuzione (velox: poma) se colpevole, Ambrogio vede in alter­
nativa o la richiesta di grazia o il carcere perpetuo e sembra pertanto
partire dall’ipotesi della colpevolezza dell’accusato « riportato in tribunale
per la sentenza». In sostanza, combinando la norm a contro la lunga
carcerazione preventiva (che può colpire innocenti o colpevoli) e l ’ipotesi
della colpevolezza dell’accusato, egli vuole suggerire che, anche in questo
caso, si può pimire il colpevole evitando la pena di morte. Scio tamen —egli
conclude - plerosque gentilium gloriari solitos, quod incruentam de administra-
tione provinciali securim revexerint. Si hoc gentiles, quid Christiani facere debent ?

5. L ’accenno alla securis incruenta dei governatori pagani e al valo


romano della clementia conferm a, com e l ’accordo di Ambrogio e di Pacato
sugli accusatores sacerdotes, la sostanziale concordanza fra la tradizione
giuridica rom ana e l’atteggiamento che, sulla pena di m orte, Ambrogio
I X . P e n a d i m o r t e e « b r a c c io s e c o l a r e » n e l p e n s ie r o d i A m b r o g i o 99

attìnge alla tradizione apostolica: il cristianesimo.perfeziona nella carità,


ma non contraddice ciò che il sentimento romano del giusto aveva
suggerito, secondo u n ’affermazione di Cristo, relativa alla legge giudaica,
che Ambrogio ricorda in questa stessa lettera (ib. 4): non veni legem solvere,
sed implere. La risposta al si hoc gentiles, quid Christiani facere debent? viene per
Ambrogio dall’incontro di Gesù con l’adultera e dall’altemativa prete­
stuosa risolta da Gesù con il suo comportamento: ut si absolveret eam,
videretur legem solvere... si damnaret, videretur adversum finem venisse propositi
sui (ib. 4). Con le parole rivolte agli accusatori e alla donna Gesù non
damnat quasi redemptio, corrigit quasi vita, quasi fons abluit (ib. 7). Ed Ambro­
gio conclude: Habes quod sequaris. Potest enim fieri, ut ille criminosus possit
habere spem correctionis... (ib. 8).
Fine della legge è dunque per Ambrogio la correctio, non la damnatio;
la damnatio, però, non può essere rifiutata in assoluto ut... scelerum furor non
incitaretur (ib. 9); cosi l’invito alla misericordia non deve trasformarsi in
iactantia e la scomunica inflitta al giudice, com e vorrebbero alcuni eretici,
non deve fare apparire criminosorum vindicata poena.

6. La condanna a morte dei Priscillianisti per opera di Magno Massim


verso la fine del 386 o nei primi mesi del 387 induce Ambrogio a
riprendere il problem a con una seconda lettera, partendo proprio dall’al-
temativa ( tergiversatio) in cui Gesù era stato posto dai Giudei davanti
all’adultera: ut si contra legem absolveretur, contra legem prolata domini Iesu
sententia teneretur, si damnata esset ex lege, vacare Christi videretur gratia
(ep. 26 Maur., 2 e 11 = 68 Faller).
Il problema non è più qui quello della liceità della pena di mor
(o, almeno, non è più soltanto questo), ma quello della liceità, anzi del
dovere per dei sacerdotes, di reos criminum gravissimorum in publicis iudiciis
accusare (ib. 3). L ’atto compiuto dai vescovi della Gallia presso Magno
Massimo viene infatti teorizzato da coloro che lo approvano: reos criminum
legjibus esse publicis puniendos et ideo accusari eos etiam sacerdotibus in publicis
iudiciis oportuisse, quos asserunt secundum leges oportuisse puniri. L ’accento è
posto qui su legibus publicis... in publicis iudiciis... secundum leges e sui
presunto dovere (puniendos, accusari oportuisse, oportuisse puniri) dell’accusa
e della pena anche da parte dei sacerdoti (etiam a sacerdotibus). Contro
questa teorizzazione di un comportamento, e non solo contro l’atto dei
vescovi gallici, che egli aveva già mostrato di disapprovare al tempo della
sua missione presso Magno Massimo, evitando di aver rapporti con loro
(ep. 24 Maur., 12 = 30 Faller: cum videret me abstinere ab episcopis... qui aliquos,
devios licet a fide, ad necem petebant), Ambrogio prende posizione nella
100 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

seconda lettera a Studio (ep. 26 Maur., 3) sed vehementior (quaestio) facta est
posteaquam... alii accusationes huismodi... probare coeperunt.
La differenza teorica e pratica n ell’atteggiamento che Ambrogio
assume verso i vescovi accusatori di crimini capitali in publicis iudiciis e i
giudici dello Stato, che in publicis vudidis pronunziano sentenze capitali,
è radicale: mentre egli non osa, in base all’autorità apostolica, scomu­
nicare i giudici cristiani che abbiano pronunziato ed eseguito una
sentenza capitale, egli nega senz’altro la sua com unione ai vescovi che
accusano di crimini capitali degli eretici ( devios licet a fide) in publids iudiciis
ed assimila ai Giudei, che vollero m ettere in difficoltà Cristo interpel­
landolo sull’adultera, coloro che approvavano il com portam ento di
quei vescovi.
La differenza può stupire chi conosce la decisione con cui Ambrogio
combattè, in tutta la sua vita, contro altri eretici, gli Ariani, e l’intransi­
genza con cui egli negò allo stato ogni concessione verso di essi. In realtà,
è proprio l’atteggiamento assunto da Ambrogio verso gli Ariani, e nello
stesso 386, al tempo della controversia per le basiliche, che permette di
illuminare pienamente la posizione di Ambrogio e ne rivela l’intima
coerenza.
Invitato da Valentiniano II a presentarsi nel concistoro per discutere,
con giudici da lui scelti, la controversia con Aussenzio Mercurino, il vesco­
vo ariano di Durosturum a cui Giustina voleva cedere una basilica cattolica,
Ambrogio rifiuta, in nom e di una disposizione di Valentiniano I, di
sottostare a giudici laici e dichiara che in causa fidei i vescovi non possono
sottostare all’imperatore: veniant piane, si qui sunt, ad Ecclesiam: audiant cum
populo, non ut quisquam iudex resideat, sed ut unusquisque de suo affectu habeat
examen... (ep. 21 Maur., 6 = Faller).
I vescovi gallici che avevano sottoposto al giudizio di Magno Massim
gli eretici Priscillianisti, camuffando l’accusa di eresia con quella di
Manicheismo, colpito dalle leggi dello stato, avevano dunque deviato da
un principio che per Ambrogio era fondamentale, facendo intervenire
lo Stato in una controversia che era de fide e per la quale il luogo
appropriato era solo la chiesa: questo spiega l’importanza della discus­
sione sulle qualitates locorum nella seconda lettera a Studio (ep. 26 Maur.,
4 ss. = 68 Faller). Gesù parla in porticu Salomonis hoc est sapientiae... ut in
tempio dei... in gazophylado, che va inteso com e conlatio fidelium (ib. 4).
Diverso è l’ordine della legge e quello della grazia e a quest’ordine
appartiene la Chiesa.
Ambrogio, che è disposto ad ammettere in nom e della legittima
autorità dello Stato e del suo dovere di reprim ere lo scelerum furor, la
I X . P e n a d i m o r t e e « b r a c c io s e c o l a r e » n e l p e n s ie r o d i Am b r o g i o 101

permanenza della pena di m orte in un im pero cristiano, non è disposto


ad ammettere l’uso del braccio secolare per colpire i devios de fide11.
La conclusione dell’episodio dell’adultera nella seconda lettera a
Studio riprende il motivo della correzione, già presente nella prima, ma
lo arricchisce di nuovi elem enti (ep. 26 Maur. = 68 Faller): Addidit (Jesus)
autem deviae: vade, et amodo vide ne pecces. Emendavit ream, non crimen absolvit.
Etenim severiore sententia culpa damnatur, si unusquisque crimen suum oderit et
in se incipiat condemnare delictum. Etenim cum reus occiditur, persona magis
quam culpa punitur, ubi vero culpa deponitur, absolutio personae est poena
peccati... ex quo te Christus redemit, corrigat gratia, quam poena non emendaret,
sed plecteret.
L ’uso di devia, per l’adultera, com e per i Priscillianisti, nella lettera a
Valentiniano (licet devios a fide) sottolinea l’analogia col problema del
processo contro gli eretici da cui Ambrogio prende qui le mosse: la
distinzione fra colpa e persona, fra errore e errante, ha qui, più che in un
processo puramente penale, tutto il suo peso ed Ambrogio può libera­
m ente m ettere in evidenza la coesistenza fra la redemptio e la correctio della
persona ad opera della grazia e la poena peccati e conciliare l’intransigenza
delle sue battaglie per la fede con le esigenze della carità.

11 Su questo punto Agostino segue alla lettera Ambrogio (ep. 100,2): ut eti
occidi ab eis eligamus («dagli eretici»), quam eos occidendos vestris iudidis ingeramus.
Per il riconoscimento, da parte degli imperatori cristiani, del dovere dei vescovi
di perdonare i nemici della Chiesa e della necessità dello Stato di intervenire senza
aspettare denunce cfr. Cod. Theod. 16,2,31 (del 409 d.C.) su cui L. De Giovanni,
Chiesa e Stato nel Codice Teodosiano, Napoli 1980, pp. 44 ss.
X.
LA TRADIZIONE B E L L ’INVENTIO CRUCIS IN AMBROGIO
E IN RUFINO

1. I paragrafi 40-53 del De obitu Theodosii, pronunziato da Ambrog


davanti alla corte e ai soldati nel 395, aU’indomani della morte dell’im­
peratore, sono destinati quasi integralm ente alla narrazione del ritrova­
m ento della croce da parte di Elena e alla esplicazione dei simboli della
corona e del morso che essa forgiò per Costantino con i chiodi della
croce: alcuni studiosi hanno ritenuto che tutta la digressione sia u n ’ag­
giunta dello stesso Ambrogio al discorso, ricavata da altri discorsi da lui
pronunziati, scritta sotto l’impressione della grave situazione provocata
n ell’impero dalla morte di Teod osio1.
Prescindendo dal problema strettamente letterario dell’origine della
digressione, io ho cercato di dimostrare, in un precedente lavoro2,
l’importanza che assume nel pensiero di Ambrogio la tradizione dell’rà-
ventio crucis da parte di Elena e dell’uso da lei fatto dei chiodi della croce:
è la redenzione dell’impero e degli imperatori il significato di tutto
Vexcursus ambrosiano e della strana esegesi di Zaccaria 14,20 a proposito
del frenum equi, che appariva ridicola a Gerolamo (comm. ad h e.). Il
chiodo trasformato in corona diventa il clavus Romani imperi, qui totum regit
orbem, (48) e non è insolentia, ma pietas. Nasce una nuova «teologia»
dell’impero: recte in capite clavus, ut ubi sensus est, ibi sit praesidium. In vertice

* « Riv. Stor. Chiesa in Italia » 44, 1990, pp. 1-9.


Testo della relazione tenuta a Concordia il 18 maggio 1990 nel corso del
convegno intemazionale Esegesi e storia in Rufino di Concordia.
1L. Laurand, L ’oraison funèbre de Théodose par saint Ambroise, «Rev. Hist.
Eccl.» 17, 1921, pp. 349-350; C. Favez, L ’episode de l’invention de la croix dans l’oraison
funebre de Théodose par saint Ambroise, « Rev. Et. Lat.» 10, 1932, p. 423.
2 Cfr. M. Sordi, La concezione politica di Ambrogio, in I Cristiani e l’impero nel
IV secolo, a cura di G. Bonamente e A Nestori, Macerata 1988, pp. 143 s. Anche il
Favez (L ’épisode, art. cit., pp. 427 s.) collega la digressione di Ambrogio con la
volontà di limitare l’arbitrio che poteva nascere dall’onnipotenza dell’imperatore;
cfr. anche G. Bonamente, Potere politico e autorità religiosa, ecc., Roma 1979, pp. 86 s.
(Italia sacra, 30).
104 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a tr a d itio n e d i R o m a

corona, in manibus habena. Corona de cruce, ut fides luceat, habena quoque de


cruce ut potestas regat. Il nuovo rapporto con Dio fonda un nuovo rapporto
con i sudditi e salva gli imperatori cristiani dalla tentazione tirannica
deU’arbitrio del potere che travolse molti dei loro colleghi pagani. E
proprio l’importanza che Ambrogio attribuisce al ritrovamento della croce
e dei chiodi che mi induce ad approfondire il confronto fra la versione
dell 'inventio in Ambrogio e quella del suo contem poraneo Rufino: tanto
più che, se quella di Ambrogio nel 395 è per noi la più antica testimo­
nianza della tradizione che attribuisce ad Elena il ritrovamento, Rufino,
che scrive nel 402, è, insieme a Paolino da Nola, che ne parla in im a lettera
a Sulpicio Severo, certam ente posteriore al 397, la fonte più ampia a noi
giunta sulla notizia. Diversa è innanzitutto nei tre autori l ’impostazione del
racconto: in Ambrogio (obit. Theod. 40) esso è introdotto dalla volontà di
spiegare il compimento nell’impero cristiano della profezia di Zaccaria
(Zach. 14,20 in ilio die erit quod supra frenum equi est sanctum Domino
omnipotenti) e il significato dei divini muneris auxilia che Elena cercò per
il figlio imperatore perché inter proelia non temesse i pericoli; in Paolino
(ep. 31,4) il racconto è collegato con la descrizione di un pellegrinaggio
a Gerusalemme e delle sacrileghe sovrapposizioni con cui pagani ed ebrei
avevano nascosto per secoli i luoghi santi e in particolare il Golgota; in
Rufino (H .E. 1,7) è inserito nella storia dei rapporti fra Costantino e la
chiesa. Diverso è pertanto anche il centro dell’attenzione, che per
Ambrogio è costituito dall’uso dei chiodi da parte di Elena; per Paolino
dal sacrilego nascondimento della croce prima del ritrovamento; per
Rufino dalla virtù di Elena, madre di Costantino.
La diversità dell’impostazione non oscura però l’identità della versione
a cui i tre autori attingono: tutti e tre sanno che il Golgota era coperto
da costruzioni profane (un tempio di Venere per Paolino e per Rufino;
opere con cui il demonio aveva cercato di nascondere il luogo, secondo
Ambrogio); tutti e tre sanno che Elena visitò i luoghi santi e cercò la croce
« per ispirazione divina » (guidata dallo Spirito Santo, per Ambrogio) ; tutti
e tre sanno che, dopo aver fatto scavare, trovò tre croci e che si trovò
nell’incertezza su quale fosse la croce del Signore; tutti e tre attribuiscono
ad un miracolo (il risanamento di u n’ammalata, toccata con la croce,
secondo Ambrogio e Rufino, la resurrezione di un morto, grazie alla stessa
croce, per Paolino) il riconoscim ento della vera croce.
Non c ’è dubbio quindi che i tre autori attingono ad una stessa
tradizione; essa deve essere certam ente anteriore ad Ambrogio perché il
confronto fra le tre versioni dimostra che né Paolino né Rufino hanno
attinto ad Ambrogio né dipendono l’uno dall’altro: le differenze infatti
sono altrettanto significative delle somiglianze: secondo Ambrogio, per
riconoscere la vera croce fra le tre ritrovate, Elena, spinta dallo Spirito
X . L a t r a d i z i o n e b e l l ’in v e n t io c r u c is i n A m b r o g io e i n R u f in o 105

Santo, rilegge il Vangelo e trova che la croce di Cristo era quella di mezzo;
vicino ad essa trova poi anche il titulus, con la scritta di Pilato e con questa
sola croce fa la prova, preso il cubile veritatis, ed ottiene il miracolo (ib. 46):
Lignum refulsit et gratia emicuit, ut, quia iam feminam visitaverat Christus in
Maria, Spiritus in Helena feminam visitaret. Secondo Paolino (ib. 5) Elena
interroga sin dall’inizio sapienti cristiani ed ebrei e, dopo aver ritrovato le
tre croci, ispirata da Dio, cerca un cadavere ed accosta ad esso, una dopo
l’altra, le tre croci e solo con la terza ottiene il miracolo; secondo Rufino
(ib. 7 s.), dopo aver trovato le tre croci e il titulus posto da Pilato, Elena
si rivolge a Macario, vescovo di Gerusalemme, ed è lui che, dopo aver
pregato, avvicina le tre croci ad una donna di famiglia illustre che era
ammalata e ottiene, con la terza, il miracolo. Si sa che Macario era vescovo
di Gerusalemme al tempo delle visite di Costantino e di Elena (nel 326)
e che a lui si rivolse effettivamente Costantino per la costruzione delle sue
basiliche (Socrate H E . 1,17,3).
E probabile pertanto che nella versione originaria Macario avesse ima
parte notevole nella scoperta di Elena, la parte che egli ha effettivamente
in Socrate (1,17), in Sozomeno (2,1), in Teodoreto (1,18), ed è probabile
anche che a lui alluda Paolino, quando parla di dotti cristiani consultati
da Elena. L ’accenno dello stesso Paolino ai dotti giudei potrebbe essere
la prima menzione della parte avuta nel ritrovamento dall’ebreo Giuda
Ciriaco, ricordato più tardi da Sozomeno (H .E. 2,1).
La sostituzione dello Spirito Santo all’intermediario umano (Macario)
della versione originaria può bene essere una innovazione di Ambrogio,
che nom ina a più riprese lo Spirito in tutta la vicenda (ib. 43; 45; 47),
così da portare avanti la sua assimilazione di Elena a Maria: visitata est
Maria, ut Evam liberaret; visitata est Helena ut imperatores redimerentur (ib. 47).
È certo, in ogni caso, che è Rufino a conservarci la versione originaria,
non Ambrogio: il racconto che Ambrogio dà del miracolo della donna
risanata, infatti, si riduce ad una semplice allusione estremamente sintetica
e sarebbe praticamente incom prensibile (ib. 46 pertendit ad cubile veritatis:
lignum refulsit et gratia emicuit), se non potessimo confrontarlo con la
versione di Rufino, che racconta ordinatamente la vicenda.
Ma la divergenza più grave e più interessante fra Ambrogio e Rufino
è costituita dall’uso fatto da Elena di uno dei chiodi della croce (Paolino,
su questo punto, non dice niente). Ambrogio e Rufino sono infatti
d’accordo nella trasformazione in morso per il cavallo di uno (o di alcuni)
dei chiodi della c ro ce3: dell’altro Ambrogio dice che fu trasformato in

3 Per il significato del morso già nel mondo grèco, vd. ora E. Villari, E cha&
come spkragis del tiranno, «Civ. Cl. Crist.» 9, 1988, pp. 117s.
106 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

diadema (ib. 47 de uno clavo frenos fieri praecepit, de altero diadema intexuit...
misit... filio suo Constantino diadema gemmis insignitum, quas pretiosior ferro
innexas crucis redemptionis divinae gemma connecteret... 48 in vertice corona...
Posuisti in capite eius coronam de lapide pretioso... Ps. 20,3). Rufino, invece
(H .E. 1,8) dice che il secondo chiodo fu trasformato in elmo: «Portò al
figlio anche i chiodi con i quali il corpo del Signore era stato affisso.
Di alcuni di questi egli compose i freni di cui si sarebbe servito in caso di
guerra, e degli altri si dice (fertur) che ornasse il suo elmo (galeam),
destinato anch’esso a fini bellici ». Si è visto che anche secondo Ambrogio,
Elena, cercando la croce, voleva trovare per il figlio divini muneris auxilia
perché egli fosse saldo e sicuro inter proelia, è quindi probabile che, anche
in questo caso, la versione originaria fosse quella di Rufino (che troviamo
anche in Socrate, in Sozomeno e in Teodoreto) e che in essa si parlasse
di elmo e non di corona.
Anche qui la variante di Ambrogio è estremamente significativa: perché
l’elmo era solo l’elmo di Costantino e riguardava solo la sua sicurezza,
m entre il diadema (o corona) era la corona degli im peratori romano­
cristiani: clavus Romani imperi, qui totum regit orbem (ib. 48); era la corona
di Teodosio e dei suoi figli.
A questo punto la tradizione dell’ inventio crucis si incontra con la
teologia politica di Ambrogio e con la storia dell’impero romano-cristiano:
credo pertanto interessante, visto che abbiamo identificato, al di là del
racconto di Ambrogio, im a tradizione comune più antica a cui attìngono
indipendentemente Rufino e Paolino e di cui Rufino ci conserva forse la
versione originaria (ed è qui l’importanza del nostro), domandarmi
quando questa tradizione si sia formata.

2. Della scoperta della croce Eusebio, che pure ricorda nel de V


Constantini 3,26 ss., i lavori compiuti dall’imperatore sul Calvario con
l’assistenza di Macario, vescovo di Gerusalemme (ib. 29 s.), con la de­
molizione del tempio di Venere, che vi era stato costruito, e con la
costruzione di una basilica, non parla. L ’ argumentum e silentio, si sa, non
è sufficiente per affermare che la croce non fu ritrovata in quella
occasione: è interessante osservare, però, che VItinerarium Burdigalense,
che appartiene a quanto sembra al 3334, descrive per i pellegrini la ba­
silica costruita iussu Constantini a Gerusalemme sul Golgota (594,1 ss.
Wesseling), ma non accenna alla croce, tra le reliquie che i pellegrini
possono venerare.

4 Per la data del 333 vd. B. Altaner - A. Stiber, Patrologie, Freiburg 19667, p. 245.
X . LA TRADIZIONE DELL.1INVENTIO CRUCIS IN AMBROGIO E IN RUFINO 107

La prima menzione del ritrovamento della cróce si trova negli scritti di


Cirillo, vescovo di Gerusalemme dal 348: n ell’epistula ad Constantium, scritta
per informare l’im peratore dell’apparizione miracolosa di una croce nel
cielo di Gerusalemme, fra il Golgota e il m onte Oliveto, alla Pentecoste
del 351, Cirillo ricorda che sotto Costantino (ib. 3, in PG 33,351 p, 1166)
xò acoTrjpiov tou oTCtupoD £óX.ov èv lepoauMijiOii; T|8pT|Tai Tfjq 0e(ag %ò$\ioq
x<p koMó»; £t|touvti rf|v eùaépeiav xéóv &noK8KepU|j.|iévov àyuov tójkdv
7tapao%oóoT|(; Tf|v eupecnv.
L ’uso del maschile esclude che, nella versione di Cirillo, il ritrovamento
della croce fosse attribuito ad Elena; l’affermazione di Cirillo però è
ugualmente importante, perché rivela che, m eno di 15 anni dopo la morte
di Costantino, negli ambienti ecclesiastici di Gerusalemme si era certi del
ritrovamento della croce, sotto Costantino, da collocare, probabilmente,
fra il 333 e il 337. Lo stesso Cirillo, a più riprese, afferma nelle sue
Catechesi5, che frammenti della croce, erano stati portati com e reliquie in
tutto il mondo.
Nei pellegrinaggi successivi al 351, in particolare nell’Itinerarium Egeriae
del 381-3846 e nel resoconto del viaggio di Paula del 385 dell 'Epitaphium
Sanctae Paulae di G erolam o7, il legno della croce ritrovata è oggetto di
venerazione per i fedeli: nell’Itinerarium Egeriae (ed. Franceschini 1958) si
descrive la cerim onia compiuta dal vescovo «in Golgotha»: affertur loculus
argenteus deauratus, in quo est lignum sanctum crucis... ponitur in mensa tam
lignum crucis quam titulus (ib. 37,1); nell'Epithaphium Sanctae Paulae (9,2)
Gerolamo ricorda che Paula prostrata ante crucem, quasi pendentem Dominum
cerneret, adorabat. Tutti gli Itinerari successivi ricordano la croce, come
m eta venerata dei pellegrini8: di Elena gli Itinerari non parlano per il
ritrovamento della croce, fatta eccezione per il de situ terrae Sanctae di
Teodosio (31), che dà anche il giorno del ritrovamento: Inventio Sanctae
crucis, quando inventa est ab Helena matre Constantini XVII Kal. Octobris...
Concludendo la prima parte di questa ricerca si può affermare che la
tradizione del ritrovamento della croce sotto Costantino è molto antico,
visto che era già nota al vescovo di Gerusalemme nel 351: questa tradizione

5 PG 33, Cat. 4,10,57; 10,19,146; 13,4,184.


6 Per la datazione vd. P. Devos, La date du voyage dEgérie, « An. Boll.» 85, 1967,
pp. 165-194; cfr. G. Milani, Studi suU’Itinerarium Egeriae, «Aevum» 43, 1969, p. 447
e «Contr. Ist. St. Ant.» 9, 1983, p. 34, n. 3.
7 Per il viaggio in Oriente di Paula nel 385 vd. Ch. Mohrmann, in Vite dei Santi.
In memoria di Paola, Milano 1975, pp. XXXVIII s.
8Vd. anche Itin. Antonini Plac. 20 del 560-570 d.C. (su cui vd. C. Milani,
Itinerarium Antonini Piacentini, Milano 1977, pp. 246 s. [testo] e p. 278 [comm.]).
108 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

però, attribuiva il ritrovamento ad un personaggio anonimo, alla cui pietà


la grazia divina lo aveva concesso, forse l’anonim o ebreo di cui parla
Sozomeno (H .E. 2,1), che dette origine alla leggenda di Giuda Ciriaco:
Ambrogio è il primo a parlare di Elena, m a è certo che Ambrogio non ha
inventato questa attribuzione, che è nota anche a Paolino e a Rufino, e
risale alla versione originaria a cui tutti e tre si riferiscono, una versione
certam ente posteriore al 351 e anteriore al 395®.

3. Ambrogio è anche il primo a parlare dell’uso fatto da Elena d


chiodi: ma anche qui non ha inventato tale uso, perché, com e abbiamo
visto, esso è noto anche a Rufino, a Socrate, a Teodoreto e a Sozomeno
e doveva far parte della versione com une, quella che abbiamo datato
fra il 351 e il 395 e che attribuiva ad Elena il ritrovamento. Egli si limita,
come abbiamo già detto, a cambiare l ’elmo in corona (con le conseguenze
a cui abbiamo accennato e su cui ritornerem o). Vorrei aggiungere che
neppure in questo caso egli può avere inventato: se in un discorso
ufficiale, pronunziato di fronte alla corte e ai soldati, egli dice che la
corona degli imperatori rom ani è forgiata intorno ad un chiodo della
croce, ciò significa che al tempo di Teodosio si riteneva che questo fosse
vero. E certo però che la trasformazione di uno dei chiodi della croce in
corona (o diadema) era esclusa dalla versione di Cirillo, nella cui lettera
a Costanzo del 351 le corone celesti più grandi e di origine divina con cui
Costanzo è onorato dall’apparizione della croce nel cielo di Gerusalemme
{ep. ad, Constantium 2,351: alle |iei£o<n 0eó0ev cxeqxivoK; ènoopavioi?, sono
contrapposte le corone d’oro e di gemme (xpixyeKoAÀVjTOu; CT-tecpàvoiq
M9oi<; SiaoYeaTàxon; JteTtouaÀjiévau;) con cui altri incoronano l’imperatore,
doni presi dalla terra e che com e tutte le cose della terra finiscono (xù yàp
ànò T ifo y f t e 5copoó|ieva x é ^ o i ; 2%ei t t ) v yfjv).
Mi domando anzi se l ’idea di utilizzare uno dei chiodi della croce
venerata a Gerusalemme per una corona gemmata del tipo di quella
descritta da Ambrogio non sia venuta proprio da questo passo di Cirillo:
dalla volontà di dare alla corona dell’impero romano, un carattere sacro,
religioso, non puramente terreno. Se questo è vero, l ’idea deve essere nata
in un periodo posteriore al formarsi della leggenda di Elena, che sostituì,
dopo il 351, la tradizione gerosolimitana, che attribuiva il ritrovamento

9 Accanto alle tradizioni che attribuivano a Elena o a Ciriaco il ritrovame


della croce c’era anche una tradizione, quella dello Ps. Lerubna, che attribuiva a
Patronicia, figlia di Claudio, lo stesso merito (FHG 5, p. 1319 s).
X . L a t r a d i z i o n e b e l l 'in v e n t io c r u c is dm A m b r o g io e in R u f in o 109

della croce ad un pio, ma anonim o personaggio, e deve essersi presentata


come la ripresa e l ’approfondimento della linea adottata con l’introdu­
zione di Elena: la lin ea cioè della ufficializzazione della versione
dell’ inventio e del suo inserim ento n ell’ideologia imperiale. Attribuendo
ad Elena (e non ad un ignoto) il ritrovamento della croce, tale ritrova­
m ento veniva a configurarsi com e im o dei tanti meriti di Costantino e
della sua dinastia, un segno della predilezione divina per la dinastia stessa:
questo è il significato che tutto l’episodio ha in Rufino, che conserva la
versione originaria di esso. L ’elmo e il morso forgiati con i chiodi della
croce devono dare a Costantino la sicurezza in battaglia, la certezza
dell’aiuto divino contro ogni pericolo, secondo la concezione romana
dell’alleanza con la divinità, che appare alla radice della conversione dello
stesso Costantino. Così concepita, la leggenda del ritrovamento della croce
da parte di Elena e della sua utilizzazione dei chiodi com e elmo e come
morso, appare difficilmente scindibile dalla dinastia di Costantino: essa
deve essersi form ata alla corte di Costanzo, dopo il 351. Questo spiega la
rilevanza che la leggenda aveva a Costantinopoli, la città di Costantino:
Socrate (H .E. 1,17,9), che per il resto attinge da Rufino, aggiunge un
particolare inedito, da lui udito dagli abitanti stessi della città, secondo cui
un fram mento della croce, inviato da Elena a Costantino, era stato
nascosto da lui nella sua statua posta su di una grande colonna di porfido,
nel foro di Costantinopoli, perché la città da lui fondata fosse sicura
per sem pre10.
Nella versione accolta da Ambrogio, invece, uno dei chiodi della croce
viene utilizzato non per l’elmo, m a per la corona, la corona dell’impero
romano: il legame con Costantino e la sua dinastia passa in seconda linea
e Costantino stesso è importante solo perché primus imperatorum credidit
(obit. Theod. 40), perché è colui che inaugura la serie degli imperatori
cristiani. In questa visione Elena assume un significato nuovo: Ambrogio
non esita ad accettare su di essa le notizie sprezzanti di fonte pagana
(ib. 41 stabulariam hanc primo fuisse asserunt, cfr. Zosimo 2,8,2), per poter
insistere sulla sua umiltà (ib. 42 illam Christus de stercore levavit ad regnum),

10 Su questa statua di Costantino, dedicata il 26 novembre del 328 e sotto


quale sarebbe stato nascosto anche il Palladio vd. L. Cracco Ruggini, Vettio Agorio
Pretestato e la fondazione sacrale di Costantinopoli, in Miscellanea in onore di E. Manni,
Roma 1979, p. 602, n. 26 (con bibliografìa); sulla tradizione costantinopolitana dei
santi chiodi è significativo il Iuramentum Vigilii, in Cane. Univ. Constant, sub
Iustiniano habitum (553 d.C.), Actio VII, e J. Straub, in Acta Conciliorum Oecumeni-
corum, IV, I, Berolini 1971, pp. 198 s.
110 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

che lo Spirito solo, senza intermediari umani, eleva alla grazia, e per poter
proporre il paragone con Maria. Come Maria è la madre dell’umanità
redenta, così Elena diventa la madre dell’impero cristiano: ib. 41 magna
foemina, quae multo amplius invenit quod imperatori conferret, quam quod ab
imperatore acciperet.

4. La corona di cui Ambrogio parla non è un oggetto leggendario, ch


Costantino ha posseduto, ma di cui non esiste più traccia: è il clavus
Romani imperii, la corona de cruce che vestit principum frontem, (ib. 48), la
corona di Teodosio, di cui Ambrogio celebra la m em oria davanti alla corte
di Milano e che descrive: diadema gemmis insignitum, quas pretiosior ferro
innexas crucis redemptionis divinae gemma connecteret (ib. 47). Una corona,
dunque, di gemme (e di oro, probabilmente, com e quella descritta da
Cirillo) n, ma con un cerchio di ferro, aH’intem o, che le tiene connesse,
un cerchio di ferro che Ambrogio dice più prezioso di ogni gemma,
perché è il chiodo della croce di Cristo. La descrizione di Ambrogio
sembra la descrizione della famosa corona ferrea, conservata nel Tesoro
del Duomo di Monza: di essa la tradizione medioevale, che compare per
la prima volta nella Cronaca di Iohannes Codagnellus del 123012, dice che
Teodorico fu a Milano per 15 anni, gerens... regnum Liguriae que postea
dictum est regnum Italiae. Cuius corona estferrea a viris ferocibus dicta, e si trova
ora nella basilica di Monza; ad cuius memoria et ad regni Italie coronam
suscipiendam Romani imperatores usque in hodiernum diem ibidem ferream
coronam suscipiunt.
Ciò che colpisce, in mezzo agli errori e alle invenzioni, è il ricordo
della «Liguria che è ora Italia», collegato con Milano, che si trovava,
appunto, al centro, nel IV secolo d.C., della Liguria et Aemilia: anche la
comparsa di Milano nella storia di Teodorico, che governò in realtà a
Ravenna, è, a mio avviso, significativa, perché a Milano, sede della corte
alla fine del IV secolo, doveva trovarsi la corona descritta da Ambrogio.
La possibilità che ci sia una continuità fra la corona ferrea di Monza e
la corona di Teodosio e della sua dinastia, mi sembra degna di consi­
derazione.

11 Cirillo di Gerusalemme, rivolgendosi a Costanzo nella lettera citata (PG


XXXIII, 351,2), dice che altri incoronavano l’imperatore con corone di pietre
preziose, ma che egli, dandogli la notizia dell’apparizione in cielo della croce, lo
incoronava |iel£ocx 0eó0ev axepàvon; éaoopavion;.
12 Su questo testo vd. R. Elze, Die mere Krone in Monza, in MGH, Schriften XIII,
2, 1955, p. 467.
X . LA TRADIZIONE DELL’INVENTIO CRUCIS IN AMBROGIO E IN RUFINO 111

L ’oggetto, che il cronista del 1230 non descrive e di cui spiega strana­
m ente l’origine del nom e {ferrea a viris ferocibus dicta), è descritto in un
inventario del Tesoro del Duomo di Monza sin dal 1353: item una alia
corona auri cum uno circulo ferri, et cum quindecim lapidibus pretiosis intus. Essa
è la terza di un gruppo di quattro corone d’oro, attestate a Monza già in
un inventario del secolo precedente e di cui una risulta scomparsa nel
14961S. Essa doveva trovarsi là già nel IX secolo, quando si parla, per
Berengario I, di una corona aurea cum Ugno Domini1*: anche in questo caso,
il ricordo del chiodo è confuso con quello del legno, ma l’oggetto al quale
si fa riferim ento sembra lo stesso. Ciò che mi sembra certa è la continuità,
nella struttura e nel significato, della corona descritta da Ambrogio alla
fine del IV secolo e della corona assunta da Berengario alla fine del IX
e dagli imperatori del Sacro rom ano impero per il regno d’Italia.

13 Per le quattro corone, vd. Elze, Die eisere Krone, p. 451. Lo stesso Elze è
tornato sul problema nel 1974 (Die Agilulfkrone des Schatz von Monza, in Hist. Forsch.
f. W. Schlesinger, a cura di H. Beumann, Kóln-Wien 1974, pp. 348 s.) e in un
congresso tenuto a Milano nel 1978 (Per la storia del tesoro delle corone di Monza,
in Atti del VI Congresso Intemazionale deU’Alto Medioevo, II, Spoleto 1980, pp. 393 s.,
in cui dimostra l’autenticità (precedentemente negata) della corona votiva
di Agilulfo, attribuibile agli inizi del VII secolo (p. 397 s.), rubata e poi fusa a
Parigi nel 1804.
14Per questo testo vd. Elze, Die eisere Krone, p. 464.
XI.
COME MILANO DIVENNE CAPITALE

Milano fu una delle capitali dell’im pero romano dal 285 al 402, dalla
tetrarchia al trasferimento della corte a Ravenna. Nonostante l’indubbia
importanza che Milano assunse in questi 120 anni n ell’impero romano, le
notizie che le fonti ci danno per questo periodo su Milano non sono
molte: fra il 291 e il 313 abbiamo due m enzioni nei Panegirici Latini, im a
per il 291 (paneg. III [11],11-12) e una per il 313 (paneg: X II [9],7,5 e 8),
due in Zosimo, per il 306 (11,10,1) e per il 313 (11,17,2), una in Orosio
(7,25,14) per il 305, due in Lattanzio (mori. pers. 45,1-2; 48), ambedue per
il 313. In totale, sette menzioni, di fronte alle dodici, tutte di Ammiano e
tutte relative al periodo p er noi coperto dalla storia di Ammiano, tra il 354
e il 378. Dal 374 al 397 le notizie su Milano sono più numerose, ma sono
collegate quasi tutte con Ambrogio.
È chiaro che, a causa della documentazione sempre lacunosa di cui
disponiamo per la storia antica, queste cifre non sono molto indicative e
il silenzio non significa affatto scarsa importanza. Tuttavia la distribuzione
nelle fonti delle m enzioni di Milano non è priva di significato: fatta
eccezione per Ammiano, sul quale ci soffermeremo tra poco, e per le
notizie relative ad Ambrogio o provenienti da Ambrogio, la cui connes­
sione con Milano non ha bisogno di essere qui richiamata, le altre fonti
non concedono a Milano capitale più importanza di quanta non ne
concedano le fonti relative agli anni immediatamente precedenti alla
tetrarchia, alla Milano di Gallieno, ricordata a più riprese dalla Storia
Augusta, da Orosio e da Zosimo per le uccisioni di Valeriano il giovane,
di Gallieno stesso e di A u reolo1, di Aureliano, quando la città fu saccheg­
giata dai M arcom anni2, di Tacito, sotto il cui regno la Storia Augusta
colloca una lettera del senato ai M ilanesi3, di Caro, a proposito

* L ’impero romano-cristiano. Problemi politici, religiosi, culturali, a cura di M. Sor


Roma 1991, pp. 33-45.
Testo della relazione tenuta a Milano nel corso del convegno su Milano Capitale
dell’impero romano, nel giugno del 1987.
1 Cfr. Oros. hist. 7,22,13; Zosim. 1,40,1; Treb. Valer. 8,3; Gali. 14,9; Claud. 5,3.
2Vopisc. Aurelian. 18,3 (ma si tratta degli Alamanni e degli Iutungi).
3Vopisc. Tac. 18,6.
114 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

dell’origine milanese dell’ im peratore e dell’uso da lui fatto di rose di


produzione m ilanese4.
Nei quindici anni che dividono la morte di Gallieno da Caro (267-282),
Milano, che non era ancora capitale, è ricordata almeno nove volte,
rispetto alle sette in cui è ricordata, nei 22 anni tra il 291 e il 313, quando
la città era ormai «capitale».
In effetti gli anni fra Gallieno e Caro e, soprattutto, gli anni fra
Gallieno e Aureliano, sono gli anni in cui la necessità di combattere gli
usurpatori (alle porte dellTtalia, com e Postumo, o addirittura nello stesso
territorio e nella stessa regione di Milano, com e Aureolo, oltre alle
invasioni barbariche, che spinsero le loro devastazioni fino in prossimità
di Milano) costrinsero gli im peratori a stabilire nella città il loro quartìer
generale, preparando appunto la sua promozione a capitale.
E interessante però che Zosimo, il quale scriveva in O riente nella
seconda m età del V secolo, parlando per la prima volta di Milano a
proposito appunto di Gallieno (1,40,1), senta il bisogno di spiegare ai suoi
lettori, per evitare confusioni con la Mediolanum della Gallia, che Milano
era una città d’Italia (èv Me8ioXdv<p t Q jcóAs i Trj èm Tf|v TraMav) e che, pur
trattando fatti a proposito dei quali Ammiano ricorda Milano, ometta
integralmente la menzione della città. Su questo particolare ho intenzione
di ritornare più avanti; qui intendo invece porre un problema, che a
questo punto mi pare legittimo: in che senso e com e Milano fu capitale
dell’impero?
Nel 291 con il Panegirico di Mamertino III (11),11-12 sappiamo che a
Milano c ’era un palatium imperiale: il modo con cui l ’ingresso di Diocle­
ziano e Massimiano è descritto dal panegirista rivela però che Milano, pur
essendo occasionalmente sede del governo imperiale, non aveva in alcun
modo sostituito Roma e ne era soltanto la ‘succursale’ più comoda, perché
più vicina alle frontiere: a Milano beatissima per eos dies, Roma concede, per
alcuni giorni, similitudinem maiestatis suae. Identica è ancora la funzione
della città nel Panegirico anonimo del 313, che ci descrive l’ingresso di
Costantino in Milano all’inizio della campagna contro Massenzio del 312
(X II [9] ,7 ,5 )5: la gratulatio principum civitatis, il plausus populi, la securitas
delle madri e delle vergini che non dovevano temere la licenza e gli arbitri
di un imperatore di cui ammiravano la bellezza. Dalla gioia di tutti - dice
il panegirista —non Transpadana provincia videbatur recepta, sed Roma: Milano
restava dunque nel 312 una città « provinciale », non paragonabile in alcun
modo con Roma, anche se nel 305, com e ci fa sapere Orosio (7,25,14), a

4Vopisc. Car. 4,6 e 17,3.


5 Cfr. anche Theodoret. H £ . 2,12.
X I . C o m e M il a n o d iv e n n e c a p it a l e 115

Milano Massimiano aveva abdicato (m entre Diocleziano faceva lo stesso a


Nicomedia) e se nel 306 da Milano era partito Severo, inviato da Galerio
contro Massenzio (Zosim. 2,10,1).
Anche la scelta di Milano nel 313 per l’incontro fra Costantino e Lici­
nio per gli accordi da cui scaturì il famoso « editto » (Lact. mort. pers. 48)
e per le nozze di Costanza sorella di Costantino con lo stesso Licinio
(Zosim. 2,17,2), fu, in fondo, solo im a scelta di comodo, di una sede
imperiale di fortuna, a mezza strada fra i due imperatori interessati.
Con l ’avvento al potere di Costantino, di Milano non si parla più per
un pezzo; fin dal 324, con l ’inizio della costruzione di Costantinopoli,
l’alternativa a Roma diventa la città degli stretti, non Milano.
È con Costanzo (e con l ’inizio della parte a noi conservata di Ammiano
M arcellino), che si tom a a parlare di Milano com e sede imperiale:
l ’usurpazione di Magnenzio e la rinnovata pressione degli Alamanni
ricreano la situazione del tempo di Gallieno e costringono per alcuni
anni l’imperatore a fissare il suo quartier generale a Milano: in questa
città Costanzo tom a ad hibema nel 354 e nel 355 (Amm. 14,10,6 e 15,4,13);
qui giunge nella reggia la notizia dell’esecuzione del Cesare Gallo
(Amm. 15,1,2) nel 354-355, m entre a Comum, oppidum Mediolano vicinum, si
rifugia Giuliano (15,3,1); qui vengono condotti e giustiziati gli oppositori
di Costanzo (15,3,11); qui giunge la notizia della presunta usurpazione di
Silvano (15,5,17) e viene convocato in regiam il consilium. Da Milano
Giuliano Cesare parte nel novembre del 355, dopo le nozze con Elena, per
la Gallia (15,8; 17) e a Milano, in consistorium, viene ancora nel 356-357
Marcello, per accusare lo stesso Giuliano (16,7,2).
Ma nel 357 Costanzo parte per Roma (16,10) e poi per lTllirico e
l’O riente, e di Milano, per qualche anno non si parla più. Nonostante
l’interesse dedicato a Milano da Ammiano, che a Milano era venuto al
seguito di Ursicino, a fianco del quale egli si trovava sin dal 354 (14,9,1)
- e questo spiega la ricchezza di informazioni e la vivacità con cui egli
parla del consilio secunda vigilia convocato nel 355, alla notizia dell’usurpa­
zione di Silvano (15,5,17), nella cui repressione Ursicino ebbe una parte
im portante6 - la città appare ancora in questo periodo una sede imperiale
di fortuna, un quartier generale dove c ’erano gli hibema dell’imperatore,
non più importante di altre città «di frontiera», dove, al pari di Milano,
sono attestate una regia e un palatium, com e Sirmium, ad esempio, o
Serdica, o Treviri.

6 Cfr. J. Matthews, Ammianus Historìcal Evolution, in B. Croke - A. Sid


Emmett, History and Historians in Late Antiquity, Sidney-Oxford-New York-Paris-
Frankfurt 1983, p. 34. |
116 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

In base allo stesso Ammiano sembra invece di poter cogliere l’inizio di


un mutamento di qualità (se così si può dire) nel 363, quando Gioviano,
eletto in Persia dopo la m orte di Giuliano, manda il notarius Procopio e
il militans tribunus Memorido ad, tractus Illyricus... et Galliarum, per annun­
ziare la morte di Giuliano e il suo avvento al potere (Amm. 25,8,8 ss.):
l’ordine di Gioviano era di cercare a Sirmium Lucilliano, che era suo
suocero e che si era ritirato lì, di consegnargli le insegne del comando
supremo della cavalleria e della fanteria e di spingerlo a recarsi in fretta
a Milano res firmaturum andpites et (quod magis metuebatur), si casus novi
quidam exurgerent, opponendum.
Lettere segrete per Lucilliano lo invitavano inoltre a condurre con sé
persone fidate e a sostituire Malarico a Iovino nella funzione di armorum
magister per la Gallia, a diffondere la voce che la spedizione partica era
finita bene (procinctum Parthicum exitu prospero terminatum) e a tornare
rapidamente (ib. 10-12). La risposta arrivò a Gioviano poco tempo dopo,
mentre da Tarso cercava di raggiungere la Cappadocia: Procopio e
M em orido raccon taron o quod Lucillianus Mediolanum ingressus cum
Seniaucho et Valentiniano tribunis, quos duxerat secus, cognito quod Malarichus
recusavit suscipere magisterium, effuso cursu petierat Remos (25,10,6). Qui la falsa
notizia che Giuliano era ancora vivo provocò fra i soldati un tumulto in
cui Lucilliano e Seniauco furono uccisi, m entre Valentiniano (il futuro
imperatore) si salvò a stento. In mezzo a queste tristi notizie Gioviano ebbe
però anche una notizia lieta: Iovino e l ’esercito delle Gallie accettavano la
sua elezione.
Nella missione svolta in O ccidente, per conto di Gioviano, da Procopio
e da Memorido, assicurarsi Milano aveva evidentemente una importanza
politica fondamentale: qui Lucilliano doveva andare con persone di sua
fiducia (ed egli condusse Valentiniano) res firmaturum andpites; qui doveva
prepararsi a fronteggiare eventuali opposizioni si casus novi quidam
exurgerent (quod magis metuebatur). I casus novi sono attesi (e temuti) dalla
parte di Iovino e dell’esercito delle Gallie: fondamentale nella missione di
Lucilliano a Milano sembra infatti la sostituzione di Malarico a Iovino.
Il messaggio di Gioviano a Lucilliano e la m orte di Lucilliano son
narrati anche da Zosimo (3,35,1-2), ma in m aniera alquanto diversa:
secondo Zosimo, Gioviano mandò il suocero Lucilliano agli eserciti della
Pannonia e mandò insieme a lui Procopio e Valentiniano, per annunziare
la morte di Giuliano e la sua elezione a imperatore: « m a i Batavi lasciati
a custodire Sirmio, non appena udirono tali notizie, uccisero Lucilliano
che annunziava mali tanto grandi, senza tenere in nessun conto la sua
parentela con l’im peratore; lasciarono libero Procopio, per rispetto a
Giuliano, del quale era parente; Valentiniano invece sfuggì alla m orte».
X I . C o m e M il a n o d iv e n n e c a p it a l e 117

A parte l’erronea identificazione del notariùs Procopio, inviato da


Gioviano con Lucilliano, con l’usurpatore Procopio, parente di Giuliano,
che tutti gli studiosi m oderni ritengono una confusione di Zosimo7, ciò
che colpisce nel confronto fra la notizia di Ammiano e quella di Zosimo
è l’ambientazione, da parte di Zosimo, a Sirmio e in Pannonia di fatti che
Ammiano colloca a Milano e nelle Gallie. I Remi sono sostituiti dagli
ausiliari Batavi stanziati a Sirmio, che anche Ammiano ricorda al servizio
di Giuliano fin dal 360 (20,1,3 e 4,2) e che troviamo ancora impegnati
contro gli Alamanni nel 365-366 (Amm. 27,1,6). Sia in Ammiano che in
Zosimo però causa dell’uccisione di Lucilliano è la fedeltà dei Remi e dei
Batavi, cioè, in definitiva, degli ambienti gallicani, a Giuliano, di cui non
gradiscono (o non credono) la notizia della morte: sia in Ammiano che
in Zosimo, inoltre, il motivo della missione, è informare l’Óccidente
(Illiria, Italia e Gallia, in Ammiano; Illirico, in Zosimo), della morte di
Giuliano e prepararlo alla successione di Gioviano. Il Soraci8 insiste
soprattutto sulla necessità di Gioviano di fare accettare all’opinione
pubblica rom ana (più che ai soldati, che anelavano alla fine della guerra)
la pace svantaggiosa fatta con la Persia. Eutropio, che pure dà un giudizio
positivo di Gioviano, ritiene necessariam quidem sed ignobilem (10,17,1-3) la
pace di Gioviano con Sapore e la spiega con il timore di Procopio, suo
com petitore n ell’impero (dum aemulum imperii veretur) 9.
Che la giustificazione della pace conclusa in O riente fosse uno degli
aspetti della missione inviata da Gioviano in O ccidente, è detto aperta­
m ente da Ammiano (25,8,12 rumores... diffundere... procinctum Parthicum exitu
prospero terminatum)', non c ’è dubbio però che, fatta eccezione per la
missione a Milano, di cui Ammiano è l’unica fonte e il cui significato resta
per il m om ento oscuro, oggetto principale della missione, a Sirmio come
in Gallia, era assicurarsi la fedeltà degli eserciti occidentali, notoriamente
fedeli alla m em oria di Giuliano. L ’elezione di Gioviano era stata il
risultato, com e poi quella di Valentiniano, dell’accordo della fazione
e palatio Constantii, capeggiata da Arinteo e da Vittore, e di quella mili­
tare gallicana, capeggiata da Nevitta, Dagalaifo e dai prindpes Gallorum

7 A. Piganiol, L ’empire Chrétien, Paris 1947, p. 147, n. 128; M. Waas, Germanen in


roemischen Dienst, diss., Bonn, 1965, p. 110; R. Soraci, L ’imperatore Gioviano, Catania
1968, p. 39, n. 29; F. Paschoud, Zosime, Histoire NouveUe, II, Paris 1971, p. 236, n. 103;
P. Grattarola, L ’usurpaxione di Procopio, «Aevum» 60, 1986, p. 87.
8 Soraci, op. cit., p. 36.
9 Su questo problema vd. ora G. Bonamente, Giuliano l’Apostata e il Breviarium
di Eutropio, Roma 1986, p. 112.
118 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

(Amm. 25,5,2)10 ed era stata accolta con gioia dagli eserciti impegnati
sul fronte persiano solo perché - è ancora Ammiano (25,5,6) che lo
dice - la somiglianza del nom e di Gioviano con quello di Giuliano aveva
fatto loro credere «ch e Giuliano fosse di nuovo vivo». Si com prende in
questo clima com e Gioviano possa essersi lasciato convincere da coloro
(cfr. Amm. 25,7,10 adulatorum globus) che gli suggerivano di tem ere il
nom e stesso di Procopio in quanto parenti di Giuliano e da lui, secondoi
im a voce (Amm. 23,3,2) designato com e suo successore u; secondo costoro,
se Procopio, conosciuta la morte di Giuliano, fosse tornato con l’esercito
ancora intatto che aveva al suo comando, avrebbe potuto tentare un colpo
di stato senza ostacoli ( novas res... facile moliturum, 25,7,10). Il timore
manifestato da Gioviano con l ’invio di Lucilliano a Milano n ell’eventualità
che si manifestassero casus novi (Amm. 25,8,9) e il timore prospettato allo
stesso principe, poco prima, in Persia, dal globus adulatorum di un colpo
di stato meditato dal giulianeo Procopio (res novas... moliturum), fanno
pensare che i casus novi previsti da Gioviano per l’O ccidente fossero della
stessa natura di quelli minacciati per l’O riente da una eventuale iniziativa
di Procopio e che egli paventasse anche a Milano u n ’usurpazione
giulianea. Si sa che l’usurpazione di Procopio divenne palese, in realtà, j
solo più tardi e che non andò oltre la regione di Costantinopoli12. Le
simpatie e il rimpianto per Giuliano, che esistevano ancora in Gallia e che
provocarono l’uccisione di Lucilliano, giustificavano però i sospetti di
Gioviano.
Qui si ripropone il problema dell’invio di Lucilliano a Milano: era a
Milano, e non in Gallia, che Lucilliano, con le persone di sua fiducia da
lui scelte (e fra queste, com e si è visto, c ’era Valentiniano), avrebbe dovuto
res firmare andpites (25,8,9). Milano era sospettata dunque com e il centro
politico di una eventuale insurrezione, com e un centro di simpatie
giulianee, capace di trasmettere la rivolta degli eserciti e, nello stesso
tempo, il luogo in cui la rivolta poteva essere prevenuta.

10 Cfr. ora V. Neri, Ammiano MarceUino e l’elezione di Valentiniano, «Riv. st. angl.
am.» 15, 1985, p. 155 e n. 15; la matrice religiosa dei due partiti è sostenuta da
J. Fontaine, Ammien Marcellin, Livres XXIII-XXV, II, Paris 1979, p. 245, n. 606,
secondo il quale la prima fazione era cristiana, l’altra probabilmente pagana;
invitano invece a non sopravvalutare la componente religiosa G. Wìrth, Jovian,
Festschrift Th. Klauser, Mùnster 1984, p. 355, n. 4 e V. Neri, art. cit., pp. 155-156
e n. 13.
11 II Neri (art. cit., pp. 161 ss.), ritiene che la voce dell’investitura, vera o falsa
che fosse, circolasse già al momento della morte di Giuliano.
12 Su questo vd. ora Grattarola, art. d t, pp. 82 ss.
X I. C o m e M il a n o d iv e n n e c a p it a l e 119

In effetti Giuliano era stato a Milano e a Como nel 354 e nel 355; a
Milano era stato proclamato Cesare ed aveva sposato Elena. A Milano
esistevano, nella seconda m età del IV secolo, ambienti neoplatonici: la
documentazione sul «circolo m ilanese» riguarda soprattutto personaggi
cristiani ed è relativa all’epoca della venuta a Milano di Agostino, poste­
riore di circa 20 anni alla m orte di Giuliano. La formazione del « circolo »
risale però in qualche modo, con Simpliciano, all’epoca della conversione
a Roma di Vittorino, cioè al 355, e la presenza a Milano di neoplatonici
cristiani non esclude, anzi presuppone, quella di neoplatonici pagani.
Diventa interessante, alla luce della presenza in Milano di ambienti
neoplatonici cristiani e pagani, la famosa patera di Parabiago, che riflette
la teologia neoplatonica giulianea e il pensiero espresso da Giuliano nella
« Madre degli Dei » e nell’orazione ad « Elios Re ». La datazione proposta
da ultimo per la patera è il 394, al tempo della venuta a Milano di Eugenio:
m a anche ammettendo tale data, la permanenza nel paganesimo milanese
di idee giulianee 30 anni e più dopo la morte di Giuliano mi sembra degna
della massima attenzione13.
Ma i timori di Gioviano dovevano rivolgersi, più che agli ambienti
intellettuali, agli ambienti militari.
Nel 360, quando Giuliano era stato nom inato Augusto, e poi nel 361 al
tempo della sua contrapposizione a Costanzo, Giuliano non era passato da
Milano e neppure dallTtalia nella sua marcia verso l’illirico, ma aveva
mandato in Italia, dividendo le forze a scopo di propaganda, quo diffusi per
varia opinionem numeri praeberent immensi (Amm. 21,8,2) per itinera nota
quosdam properaturos cum lavino et Iovio. Il migliano di Agliate, con la dedica
P r o s a l( u t e ) D.N. C l(a u d i) Iu l(ia n i) p er(p etu i) sem(per) A u g (u sti)
e con il rovesciamento e l’erasione del nom e di Costanzo della dedica,
precedente di pochi mesi, per Costanzo e Giuliano Augusti14, riv,ela che
Iovino, per raggiungere la Postumia e Aquileia, era passato per Milano ed
aveva svolto u n ’intensa propaganda per Giuliano. Si è visto che tra gli
obbiettivi dell’invio di Lucilliano c ’era quello di sostituire Malarico a
Iovino e che, nonostante il fallimento di questo obbiettivo per il rifiuto di

13 Per il neoplatonismo milanese vd. P. Courcelle, Noveaux aspects du platonis


chez Saint Ambroise, « Rev. Et. Lat.» 34, 1956, pp. 226 ss.; A. Solignac, Le cerde
milanais, in St. Augustm, Les Confessions, II, Paris 1962, pp. 529 ss. Per la datazione
della patera di Parabiago al 394 vd. L. Musso, Manifatture suntuarie e committenza
pagana, Roma 1983, pp. 147 s.; cfr. P.E. Arias, L ’anfora argentea di Porto Baratti, Roma
1986, p. 82 e n. 168.
141. Bitto, Alcune osservazioni sulla colonna miliaria di Agliate, « Epigraphica » 32,
1970, pp. 180 ss.
120 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R oma

M alarico, i tim ori di Gioviano su Iovino si rivelarono infondati e


quest’ultimo proclamò la sua fedeltà al nuovo imperatore. Io credo che
le preoccupazioni di Gioviano su Milano siano da collegare proprio con
le preoccupazioni per Iovino, che dopo essere stato m agister equitum di
Giuliano (21,8,3 e 12,8-3) nel 361 era stato da Giuliano stesso provectus
(insieme ad altri fra cui Nevitta) nel medesimo 361, era divenuto m agister
equitum per Illyricum (22,3,1) ed era nel 363 m agister armorum per GalUas
(25,8,11 e 10,8-9; cfr. 26,5,2 prom otus a Iu lian o per GalUas m agister armorum).
Malarico, che Gioviano avrebbe voluto sostituire a Iovino nel 363 come
m agister armorum e al quale per mezzo di Lucilliano aveva già mandato le
insegne del potere (cfr. 25,8,11 m issis insignibus) era stato coinvolto,
sebbene innocente, nel 355, nella presunta congiura di Silvano contro
Costanzo e si trovava a Milano, com e gentiUum rector (25,5,6), quando a
Milano, con Ursicino, si trovava anche Ammiano; quest’ultimo dice che
nel 363 Malarico viveva ancora in Italia ex fam iliaribu s negotiis (25,8,11) ed
è probabile che fosse rimasto appunto a Milano: la speranza di Gioviano
nel 363 era ut et dux m eriti celsioris (lamini), ideoque suspectus, abiret e medio et
homo inferioris spei ad sublim iora provectus, auctoris sui nutantem adhuc statum
studio fundaret ingenti (25,8,11). Malarico avrebbe dovuto costituire in
Italia e a Milano un punto di appoggio contro le eventuali m ene in Gallia
di Iovino.
Ammiano, che nel 355 era stato a Milano e che nel 363 si trovava in
O riente a franco di Gioviano (26,8,4), al tempo della missione di Procopio
e di Memorido, era in grado di essere bene informato delle intenzioni del
principe e del complesso gioco che stava alla base di quella missione. Alla
luce dell’importanza che Milano aveva avuto nei piani di Gioviano, piani
dei quali Valentiniano era stato partecipe a fianco di Lucilliano, si può ora
capire la scelta che, per la prima volta nella storia, fu fatta di Milano com e
vera capitale dell’impero da Valentiniano stesso.
Giunto al potere grazie alle stesse fazioni costanziana e gallicana che
avevano portato al potere Gioviano15 e che contribuirono con il loro
accordo a liquidare la politica e l ’eredità di G iuliano16, Valentiniano
associò nell’impero a Costantinopoli, il 27 marzo del 365, il fratello Valente
(Amm. 26,4,3) e si avviò con lui verso l’O ccidente, in un mom ento in cui
tutte le frontiere erano minacciate, in Gallia, in Rezia, in Pannonia, in
Tracia, in Africa e in Armenia (ib. 5). Dopo avere spartito con lui, in base
alla propria scelta (ib. 5,2 cuius arbitrio res gerebatur), i comites (Iovino e
Dagalaifo restarono con Valentiniano, m entre Vittore, Arinteo e Lupicino

15Philostor. H E. 8, 8; Eunap. fr. 30; Zon. 13,15. Cfr. Neri, art. dt., p. 153.
16 E questo spiega, per il Neri, certe omissioni di Ammiano (art. d t, p. 163).
X I . C o m e M il a n o d iv e n n e c a p it a l e 121

seguirono Valente) e i numeri militares, Valentiniano entrò con il fratello


a Sirmio e diviso palatio ut potìori placuerat, Valentinianus Mediolanum,
Constantinopolim Valens discessit (ib. 5,4). II diviso palatio si presta a inter­
pretazioni diverse: alcuni intendono l ’espressione com e divisione delle
sedi im periali17, m entre per altri, che tengono conto del significato che
palatium ha generalm ente in Ammiano (di palazzo im periale e di
personale della corte, ma non di sede im periale), e che danno pieno
valore alla precedente spartizione dei comites, pensano invece ai palatini1*.
La diversa interpretazione del diviso palatio non cambia però, a mio avviso,
la sostanza della scelta, che fu, per Valentiniano, Augustus potior, l’Occi-
dente e, specificamente, Milano e non Sirmio o Treviri. Da questo
m om ento, e per tutto il regno di Valentiniano e della sua dinastia, Milano
è la vera capitale dell’Occidente, in alternativa con Costantinopoli, ma ad
essa certam ente superiore, visto che era stata scelta dall’Augusto più
im portante19.
Nella scelta di Valentiniano influirono probabilmente, oltre ai motivi
di politica in tern a p reced entem ente esaminati, anche la pressione
barbarica, degli Alamanni sulle Gallie e sulle Rezie, dei Sarmati e dei
Quadi sulle Pannonie: al centro delle strade militari, Milano era pressoché
equidistante dal fronte del Reno e da quello del Danubio, che Valenti­
niano riteneva in quel m om ento i più pericolosi, anche se poi lo
sfondamento si verificò, com e è ben noto, proprio nel settore orien­
tale, ad Adrianopoli: ma questo avvenne, solo dopo la m orte di Valenti­
niano, nel 378.
Ai fronti del Reno e del Danubio Valentiniano pensava ancora al
tempo della proclamazione ad Augusto del giovanissimo Graziano nel 367
(27,6,10 e 12) e, in prossimità del Danubio, a Brigetio, egli morì nel 375
dopo aver associato il figlio di 4 anni Valentiniano II, che si trovava nella
vicina villa di Murocincta con la madre Giustina (20,10,4). Spesso abban­
donata dall’im peratore per le continue campagne militari, Milano resta
però, nel 365 com e nel 377, la sede dei processi celebrati sotto la nuova
dinastia (27,7,5 e 28,6,30): un particolare, relativo all’esecuzione in Milano
di alcuni funzionari ritenuti innocenti dalla popolazione, permette a
Ammiano Marcellino di conservarci un dato toponomastico della città

17 Così ad es. J.C. Rolfe, nella traduzione inglese della Loeb.


18 Così mi suggerisce gentilmente in una lettera V. Neri.
19 E interessante osservare che anche la zecca di Milano funziona in modo
regolare e con continuità solo con Valentiniano I: cfr. O. Ulrich Bansa, Moneta
Mediolanensis, Venezia 1949, p. 15; cfr. AA.W., La zecca e la moneta di Milano, a cura
del Comune di Milano e della Regione Lombardia, Milano 1983, p. 16.
122 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

(la designazione di ad Innocentes dato dai Cristiani al luogo dove i giusti­


ziati erano stati sepolti) ed una annotazione cronologica preziosa: nunc
usque, con cui Ammiano (27,7,5) rivela la sua conoscenza della situazione
milanese fino oltre il 378.
La conferm a di ciò che emerge da Ammiano, che si rivela peraltro la
fonte più informata su Milano, ce la fornisce il confronto fra l’immagine
di Milano « capitale » fornitaci da Mamertino nel 291 e quella fornitaci da
Ausonio negli ultimi decenni del IV secolo: per Mamertino la Milano di
Massimiano era solo una capitale provvisoria, a cui Rom a prestava per
qualche giorno con Vadventus degli imperatori, similitudinem maiestatis suae
(paneg. Ili [11] ,12,2) ; della Milano dei Valentiniani Ausonio, che dedica ad
essa dieci versi nel suo Ordo urbium nobilium (35 ss.) dice che « tutto in essa
eccelle per grandezza di forme quasi gareggiando (velut aemula): e non la
opprime la vicinanza di Roma (nec iuncta premit vicinia Romae) ».
La Milano dei Valentiniani è anche la Milano di Ambrogio: e non è
certam ente un caso la coincidenza fra la massima espansione della Chiesa
milanese e la massima importanza politica della città.
La centralità di Milano n ell’impero durante la dinastia dei Valentiniani
trova la sua manifestazione più piena negli scritti di Ambrogio e, in
particolare, nel suo epistolario: da queste lettere, che riguardano Milano
o che partono da Milano, emerge un quadro di vita quotidiana e di
situazioni concrete, che illuminano spesso meglio delle fonti storiche e
ufficiali, la società di Milano capitale. Particolare interesse per illuminare
il problema che stiamo esaminando, hanno però le lettere agli imperatori,
e non solo quelle a Valentiniano II (per la questione dell’altare della
Vittoria - che viene risolto a Milano e non a Roma - per la controversia
sulle basiliche e per i rapporti con l’usurpatore di Treviri, Magno
Massimo) che riguardano tutte la parte occidentale dell’impero, ma quelle
a Teodosio, per la faccenda di Callinico e il massacro di Tessalonica, che
interferiscono addirittura in questioni concernenti la parte orientale; le
lettere indirizzate a corrispondenti laici, quasi tutti m embri della classe
dirigente dell’impero, com e Studio, un magistrato preoccupato della
liceità per un cristiano di pronunziare ed eseguire la pena di morte; come
Paterno, un alto funzionario di Teodosio, invitato a rispettare le disposi­
zioni dell’imperatore e a non imporre al figlio il m atrimonio con una
consanguinea; come Taziano, a cui vengono fatti presenti i vantaggi della
promozione a prefetto di O riente del suo nem ico Rufino; le lettere agli
altri vescovi, non solo d’Italia, (com e quella a Siagrio vescovo di Verona
per la vergine Indicia, al vescovo Marcello, coinvolto in un processo per
la divisione dei beni, a Vigilio, vescovo di Trento, alle chiese dell’Emilia,
per la data della Pasqua, e di Vercelli, per una controversia interna), ma
X I . C o m e m e l a n o d iv e n n e c a p it a l e 123

anche della parte orientale, com e Teofilo vescovo di Alessandria per lo


scisma di Antiochia, al clero di Tessalonica ed Anisio successore di Acolio.
L ’elenco m i pare significativo perché rivela il raggio di azione
‘m ondiale’ della Chiesa milanese negli ultimi decenni del IV secolo, un
raggio di azione che dipende certam ente dall’eccezionale personalità di
Ambrogio, ma che non si intende pienam ente se non si inquadra nella
situazione pure eccezionale che Milano aveva assunto con la dinastia dei
Valentiniani.
XII.
CRISTIANESIMO E PAGANESIMO DOPO COSTANTINO

Nel De obitu Theodosii del 395 Ambrogio, parlando deU’incontro in cielo


di Teodosio con Costantino, coglie, nelle sue linee fondamentali, la storia
dell’impero cristiano: « Costantino, a cui la grazia del battesimo, anche se
in fin di vita, aveva rimesso tutti i peccati, poiché fu il primo degli
im peratori a credere e lasciò dopo di sé agli altri principi l’eredità della
fede, ottenne un posto di. grande m erito» (ib. 40). La trasformazione,
voluta da Elena, dei chiodi della Croce da lei rinvenuta in corona per il
figlio e in morso per il suo cavallo1, fece sì che, da allora, «la croce di
Cristo venisse adorata n ei re » (ib. 48) e santificò l ’impero romano
(«buono è pertanto il chiodo dell’im pero Romano, che governa l’intero
m ondo»: ib. 4 8 )2, m ettendolo al sicuro dalla licenza dei tiranni (ib. 50):
«di là derivano gli altri principi cristiani, fatta eccezione per il solo
Giuliano, che abbandonò l ’autore della sua salvezza per darsi all’errore
della filosofia. Di là Graziano e Teodosio» (ib. 51).
Nel bilancio ch e Ambrogio traccia della svolta determ inata dalla
conversione di C ostantino n ella storia d ell’im pero, l ’attenzione si
concentra tutta, naturalm ente, sul carattere religioso della svolta stessa:
nella croce posta sul capo degli imperatori viene colta la fede in Cristo

* L ’impero romano-cristiano. Problemi politici, religiosi, culturali, a cura di M. Sor


Roma 1991, pp. 121-137.
1 La digressione dei paragrafi 41-53 del De obitu Theodosii, è ritenuta un’ag­
giunta posteriore dello stesso Ambrogio da L. Laurand, L ’oraisonfunebre de Théodose
par saint Ambroise, «Rev. Hist. Eccl.» 17, 1921, pp. 349 ss. (che ritiene la digressione
sul ritrovamento della croce proveniente da altri discorsi) e da Ch. Favez, L ’épi-
sode de l’invention de la Croix dans l’oraison funebre de Théodose par Saint Ambroise,
« Rev. E t Lat.» 10, 1932, pp. 423 ss. (che ritiene invece l’aggiunta inscindibile dal
discorso per la morte di Teodosio e dettata dalla gravità della situazione politica).
Sulle fonti dell’episodio, che è presente anche in una lettera di Paolino a Sulpicio
Severo (ep. 31,4) e in un passo di Rufino (H.E. 1,7) vd. M. Sordi, La traditone
dell’inventio crucis, « Riv. Stor. Ch. It.» 44, 1990, pp. 1 ss.
2 Su questo passo vd. M. Sordi, La concezione politica di Ambrogio, in I Cri­
stiani e l’impero nel IV secolo, a cura di G. Bonamente e A. Nestori, Macerata 1988,
pp. 143 ss.
126 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

morto e risorto, nel morso che stringe le mascelle dei cavalli viene colto
il freno che il potere imperiale deve imporsi nella sottomissione a Colui
«a cui servono i regni e a cui è sottomesso ogni potere» (ib. 49).
Dall’ignoranza di Dio nascono per Ambrogio l’insolenza e l’arbitrio del
potere (ib. 51 «il potere si lasciava trascinare nel vizio e si contaminavano,
alla maniera delle bestie, a causa della volubile passione. Ignoravano Dio,
ma la croce li tirò indietro e li trattenne dalla caduta n ell’empietà» ib. 51).
Allo stesso modo, undici anni prima, rispondendo a Simmaco durante la
controversia per l’Altare della Vittoria, Ambrogio aveva fatto dire a Roma:
«Questo solo avevo in com une con i barbari, che prima non conoscevo
D io» (Ep. 18 Maur. = 73 Faller, 7).
La differenza fra il prima e il dopo nasce, nella lettera del 384 com e nel
discorso del 395, dal superamento nella fede dell’ignoranza di Dio: resta
però intatta l’idendtà dei soggetti del mutamento (Rom a e l’im pero), di
cui si ribadisce la continuità nella conversione, con la logica profonda­
m ente rom ana del mutamento in melius, nel passo già citato della lettera
ambrosiana Roma dice: «n on arrossisco di convertirmi da vecchia, con
tutto il mondo. Non c ’è nessuna vergogna nel passare a cose migliori » 9.
La Roma cristiana di Ambrogio non rinnega nessuna delle disciplinae
con cui aveva sottomesso il mondo: il valore militare di Camillo, la
suprema lealtà di Regolo, l’acutezza strategica di Scipione (ib.). La vittoria
è un dono, non una dea, è concessa per il merito delle legioni, non per
la forza dei riti religiosi (ib. 30). Dei maiores l’impero cristiano rifiuta
soltanto gli dei impotenti. A Simmaco, che chiede agli imperatori cristiani
di lasciare a Roma i suoi dei, Ambrogio può rispondere, capovolgendo, e
nello stesso tempo ricuperando, con piena consapevolezza, la concezione
rom ana della pax deorum su cui l’impero di Roma si era sempre fondato4:
«Voi scongiurate gli im peratori per ottenere la pace per i vostri dei, noi
chiediamo a Cristo la pace per gli stessi im peratori» (ib. 8).
L ’atteggiamento di Ambrogio, che tanta parte ebbe n ell’ultimo scontro
fra cristianesimo e paganesimo, ci permette di impostare questo scontro
dall’unico punto di vista che appare storicamente corretto: quello della

3 Sulla presenza in Ambrogio della concezione romana del mutamento in


melius e della teoria della innovazione nella continuità già presente in Sallustio,
in Cicerone, in Livio e nell’imperatore Claudio, rimando a quanto ho scritto in
Passato e Presente nella politica di Roma, in AAW ., Aspetti e momenti del rapporto fra
Passato e Presente, Milano 1977, pp. 141 ss.
4 Sul concetto di pax deorum, vd. M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella
storia di Rama, «Contr. Ist St. Ant.» 11, 1985, pp. 146 ss.
xn. C r is t ia n e s im o e p a g a n e s im o d o p o C o s t a n t in o 127

mentalità dei Romani del IV secolo, condivisa dà pagani e da cristiani, e


della tradizione politica dell’impero, non quello delle idee moderne sulla
tolleranza e sul dialogo fra religioni diverse.

1. Il primo aspetto dello scontro fra Cristianesimo e Paganesimo


nell’im pero cristiano riguarda la legislazione imperiale sul paganesimo
(e, per converso, quella di Giuliano contro il cristianesimo) nel periodo
fra il cosiddetto editto di Milano e i primi decenni del V secolo. La libertà
religiosa, che questo editto concede nel testo ben noto riportato da
Lattanzio (mori. pers. 48,2: « p er concedere ai Cristiani e a tutti la libera
facoltà di seguire la religione voluta da ciascuno, affinché qualsiasi entità
divina si trovi in cielo possa essere placata e propizia a noi e a tutti coloro
che si trovano sotto il nostro governo ») non è il risultato di un concordato
fra lo Stato ed una com unità religiosa, ma l’alleanza che l’im pero stipula
con la divinità per la propria salvezza, presentando ad essa la sottomissione
di un culto senza impedimenti e chiedendone protezione, pace e perdono
(pacem et veniam, secondo la formula di preghiera attestata di Cicerone,
Rab. perà. 2,5). La libertà religiosa e la scelta di coscienza che l’editto
accetta e incoraggia non nascono dal riconoscim ento di un diritto del
singolo, m a dalla natura stessa dell’atto religioso, dalle condizioni che lo
rendono accetto alla divinità, per cui un voto è valido solo se è sciolto
libens mento, secondo la form ula epigrafica, giustamente e volentieri. E il
diritto della divinità di essere adorata com e vuole che fonda il diritto del
singolo di adorare liberam ente la divinità che vuole e di non essere
costretto ad adorare contro la sua volontà, secondo un principio che i
Romani conoscevano bene (Tert. Scap. 2,2 dice: «non è proprio di ima
religione costringere alla religione, che deve essere spontanea e non
imposta con la forza»), anche se spesso l’avevano violato nelle persecu­
zioni dei primi tre secoli.
Il cosiddetto «editto di M ilano», riconoscendo ai Cristiani la pien
libertà religiosa per ottenere all’impero la protezione della divinità, è
dunque sulla linea della tradizione romana; la svolta fondamentale che
esso rappresenta si manifesta però quando, proprio per ottenere questa
protezione, concede la libertà di seguire la religione che vogliono «ai
cristiani e a tutti», nom inando per primi (ed esplicitamente solo) i
Cristiani fra tutte le religioni dell’im pero e preparando, in modo
implicito, il passaggio del Cristianesimo da religione perseguitata a nuova
religione dello stato romano.
Nella logica di questo riconoscim ento e alla luce della necessità,
avvertita dallo stato, di assicurarsi il favore della divinità riconosciuta e la
128 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

sua « alleanza », si intendono le misure legislative, che già sotto Costantino,


e poi sotto i suoi successori escluso Giuliano, colpiscono i vari aspetti del
culto pagano. Queste misure si volgono innanzitutto, secondo una tradi­
zione costante anche nell’impero pagano, contro le pratiche magiche e
divinatorie, che erano ritenute anche prima del cristianesimo superstizioni
illecite: la novità consiste però n ell’estensione del concetto di supersti­
zione e di magia all’etnisca disciplina e agli aruspici, che avevano svolto
nella repubblica e n ell’impero pagano funzioni ufficiali e che avevano
avuto una parte determinante nelle persecuzioni anticristiane.
Lo scontro fra il cristianesimo e gli aruspici era com inciato infatti nel
III secolo al tempo di Severo Alessandro, quando, secondo la Historia
Augusta (Lampr. Alex. 43,7), erano stati proprio gli aruspici ad impedire
al principe il riconoscimento della nuova religione; esso era continuato
nelle persecuzioni di Decio e di Valeriano, che all’Etruria erano intima­
m ente collegati, e nella grande persecuzione di Diocleziano, quando
l’epurazione militare, che della persecuzione era stato l’inizio, era co­
m inciata in base ad una denunzia degli aruspici (Lact. mort. pers. 10,1-4).
Si capisce pertanto perché l’aruspicina sia stata la prima fra le pra­
tiche pagane ad essere colpita da Costantino: le costituzioni del 319
(Cod. Theod. 9,16,1 s.) e del 321 (Cod. Theod. 16,10,1) ne avevano sancito la
condanna nella sua form a privata, tollerandone l’esercizio nella forma
pubblica retento more veteris observantiae5.
Nel IV e nel V secolo gli aruspici mantengono e rafforzano i loro
rapporti con le fazioni e con le famiglie dell'aristocrazia pagana: di chiara
origine etnisca sono Cecina Decio Acinazio Albino, capo della fazione dei
Ceionii-Decii, e Rufìo Agripnio Antonio Volusiano6. L ’importanza che
1’ etnisca disciplina aveva assunto nell’ultima resistenza pagana e la forza che
il paganesimo aveva ancora in Etruria agli inizi del V secolo d.C. spie
l’insistenza della propaganda religiosa cristiana e pagana sul verificarsi di
miracoli clamorosi in questa regione: l ’intervento di Ambrogio nella
vittoria di Stilicone su Radagaiso, nel 406, preannunciata il giorno prima

5 Sulla condanna degli aruspici da parte di Costantino vd. L. De Giovan


Costantino e il mondo pagano, Napoli 1983, pp. 54-56 e, ora, G. Hàrtel, Bemerukungen
zur Religions politik Konstantins, « Klio » 71, 1989, pp. 377 ss.; sul rapporto fra aruspici
e neoplatonismo, la filosofìa dominante in questo periodo fra i pagani, vd. ora
S. Montero Herrero, Neoplatonismo y haruspicina, « Gerion » 6, 1988, pp. 69 ss., che
preannuncia un suo volume su Emperadores y Haruspices, pp. 193-408 (di cui questo
articolo è un capitolo).
6G. Zecchini, La politica religiosa di Aezio, «Contr. Ist. St. Ant.» 7, 1981,
pp. 250 ss., e Id., Aezio, Roma 1983, pp. 144 ss., pp. 158 ss., pp. 242 ss.
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ai Fiorentini dal santo vescovo, morto da quasi dièci anni (Paul. Med. vita
Ambr. 50,2), e il carattere miracoloso di questa vittoria, avvenuta presso
Fiesole (Aug. civ. 5,23; Oros. hist. 7,37,13), da una parte; l’affermazione
degli aruspici venuti dall’Etruria di poter liberare Roma dall’attacco gotico
del 408-109, com e già avevano in passato liberato N ami, attirando sui
nem ici la folgore distruttrice (Zosim. 5,41), dall’altra7.
La sovrapposizione, che troviamo attuata nella condanna costanti­
n ian a degli aruspici, del con cetto di superstizione con quello di
paganesimo tradizionale e ufficiale si verifica, forse già per lo stesso
Costantino, certo per suo figlio Costanzo, anche nella definizione di
superstitio data dai sacrifici pagani e nel conseguente divieto: in una
costituzione del 341, indirizzata al vicario di Italia, Madaliano, Costanzo
scrive: cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. E promette ven­
detta contro chiunque, contra legem divi principis parentis nostri et hanc no­
strae mansuetudinis iussionem, oserà sacrificia celebrare (Cod. Theod. 16,10,2)8.
Il divieto è conferm ato dallo stesso Costanzo nel 342 (Cod. Theod. 16,10,3),
e nel 356 (Cod. Theod. 16,10,4 e 6). In quest’ultima costituzione è proibito
anche il culto delle immagini.
Il divieto cade naturalmente con Giuliano e non viene rinnovato d
Gioviano e da Valentiniano I, ma si ripresenta con Teodosio in ima
costituzione em anata a Costantinopoli nel 381 contro i sacrifìci diurni e
notturni per conoscere il futuro (Cod. Theod. 16,10,7) e poi, sempre più
deciso, contro ogni sacrificio pagano, nella costituzione emanata a Milano
nel 391 da Valentiniano II e Teodosio (Cod. Theod. 16,10,10), in quelle
em anate dallo stesso Teodosio ad Aquileia pochi mesi dopo (ib. 16,10,11)
e ancora a Costantinopoli nel 392 (ib. 16,10,12) e ribadite dai figli nel 395
(ib. 16,10,13) e nel 415 (ib. 16,10,20)9.
In questi testi il divieto riguarda ormai ogni form a di culto pagano,
pubblico o privato, diurno o notturno; riguarda la venerazione delle
immagini, l’accensione di lumi votivi, l ’offerta di incenso e di corone.

7 Su questo episodio vd. M. Sordi, Augustinus De dv. Dei, V,23 ecc., «Augusti-
nianum » 25, 1985, pp. 205 ss.
8 Sul provvedimento di Costantino vd. T.D. Barnes, Constantines Prohibition of
Pagan Sacrifrice, «Am. Joum . Phil.» 105, 1984, pp. 69 ss. Sul problema vd. anche
L. De Giovanni, op. cit., pp. 137 ss. (con bibliografìa); Id., Il libro XVI del Codice
Teodosiano, Napoli 1985, p. 128. Sul concetto di superstitio e sull’attribuzione a
Costante o a Costanzo del provvedimento del 343 vd. ora M.R. Salzman, Superstitio
in thè Codex Theodosianus, «Vet. Chr.» 41, 1987, pp. 179 ss.
9 Su tutte queste disposizioni vd. De Giovanni, Il libro XVI, op. dt., pp. 128 ss.
ISO M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

Fra le proibizioni, rimaste inapplicate, di Costanzo, e la lotta a fondo


contro il paganesimo che gli im peratori cristiani dichiarano agli inizi degli
anni Ottanta del IV secolo e portano a termine con Teodosio e con i suoi
figli, qualche cosa di nuovo è certam ente successo: innanzitutto la restau­
razione pagana di Giuliano, con misure vessatorie nei riguardi dei
Cristiani, che lo stesso Ammiano Marcellino, pur essendo pagano, disap­
prova10; poi, e la cosa merita tutta la nostra attenzione, la svolta impressa
al rapporto fra stato rom ano e paganesimo da Graziano, con la rinuncia
al pontificato massimo.
È di questa rinuncia, del significato che essa ebbe e delle conseguenze
che comportò che dobbiamo ora occuparci.

2. Grazieino fu il primo fra gli imperatori cristiani a rinunciare


pontificato massimo, che da Augusto in poi faceva dell’imperatore il capo
della religione dello stato: la sola fonte che parla di questa rinuncia è il
pagano Zosimo (IV,36 ss.), che la ricorda in connessione con la uccisione
di Graziano stesso (25 agosto 283) sul ponte di Lugudunum in Gallia
(l’attuale Lione).
Con im o dei suoi caratteristici errori geografici, Zosimo confonde
Lugudunum con Singidunum (Belgrado) e collega la m orte sul ponte
(ib. 35,6), con la derivazione dal nom e di ponte del titolo di pontifex,
lasciando intendere che fu il rifiuto di Graziano a provocare la sua morte.
Dopo aver affermato che tutti gli altri imperatori, al m om ento di
insediarsi al potere, avevano preso dai pontefici anche la veste sacerdotale
ed accettata la proclamazione a pontefice massimo, Zosimo dichiara che
questo avvenne anche dopo che l ’impero era passato a Costantino e poi
a tutti gli altri suoi successori fino a Valentiniano I e a Valente: ib. 36,5
« I pontefici dunque, com e al solito, offrirono la veste a Graziano, che però
la respinse, pensando che non fosse lecito per un cristiano, portare
quell’abbigliamento ».

10 Amm. 25,4,19-20 (su cui vd. P. Grattarola, Ammiano Marcellino fra reazio
pagana e cristianesimo, «Aevum» 55, 1981, p. 92, n. 165). Sulla restaurazione pagana
di Giuliano, intesa come sostituzione dell’ellenismo al Cristianesimo nel ruolo di
culto di stato vd. PA. Athanassiadi Fowden, fuUan and Hellenism (An Intellectual
Biography), Oxford 1981, p. 123. Da questa concezione di Giuliano derivano, oltre
all’editto sull’educazione, anche le innovazioni di Giuliano nel campo della
teologia politica e il suo tentativo di organizzare una chiesa pagana (ib. 191). In
effetti l’ellenismo di Giuliano più che un’eredità culturale è una religione ed
appare una mescolanza di neoplatonismo e di suggestioni orientali derivate dalla
teurgia e dagli Oracoli Caldaici.
xn. C r is t ia n e s im o e p a g a n e s im o d o p o C o s t a n t in o 131

Sulla data del rifiuto Zosimo non dà indicazioni precise: secondo la


prassi consueta, che egli conosce e ricorda, l ’offerta da parte del collegio
dei pontefici avveniva norm alm ente all’inizio del regno dell’imperatore:
nel caso di Graziano, che era stato associato nell’impero dal padre
Valentiniano I nel 367, ma che di fatto aveva assunto il potere solo alla sua
morte, nel novembre del 375, il pontificato massimo doveva essergli stato
conferito subito dopo questa data. Se il rifiuto avvenne, come afferma
Zosimo, al m om ento dell’offerta, tale rifiuto va posto nel 376n. Ma
Ausonio, scrivendo fra il 380 e il 382, chiama ancora Graziano pontifex12 e
Zosimo stesso, com e si è visto, collega il rifiuto con la morte, che Graziano
subì nel 383.
Il rifiuto di Graziano deve essere dunque posto fra i 380 e il 383: è sta
dimostrato che l ’influenza di Ambrogio su Graziano, che non c ’è ancora
al tempo del de Fide, del 378-379, è ormai in atto al tempo del de Spiritu
Sancto, che è del 381ls. La rinuncia di Graziano al pontificato massimo, con
la rottura che essa com porta fra l’impero e il paganesimo (il quale restava,
finché l’im peratore rimaneva capo della religione, la religione ufficiale
dell’impero, anche se disprezzata com e superstitio dall’imperatore stesso)
riflette il pensiero di Ambrogio. Caratteristica del pensiero di Ambrogio
era, infatti, com e abbiamo visto, l’accettazione più cordiale della tradi­
zione politica di Roma, nel rifiuto più rigoroso della sua tradizione
religiosa14. Anche se Ambrogio non fu, com e lui stesso afferma {ep. 57
Maur. = extra coll. 10 Faller, 2), il diretto ispiratore delle misure prese da
Graziano nel 382 nei riguardi del paganesimo, con l’eliminazione dal
senato dell’ara della Vittoria e con la revoca dei privilegi concessi ai collegi
sacerdotali pagani, è certo che queste misure furono la conseguenza
immediata e diretta della rinuncia di Graziano al pontificato massimo e
della fine della finzione, che era implicita n ell’assunzione di tale carica
da parte dell’im peratore e che faceva del paganesimo la religione uffi­
ciale, pubblica, dell’impero romano. Solo questa finzione, la dissimulatio di
cui parla Simmaco (Rei. 3,3) e che contesta Ambrogio (ep. 17,2 Maur. =

11 Così appunto suggerisce F. Paschoud, Cinq études sur Zosime, Paris 1976,
pp. 65 ss. (che colloca il rifiuto in occasione dei Decennalia).
12Auson. Orai. Act. 7,35. Sul problema del rifiuto di Graziano vd. J.R. Palanque,
L ’empereur Gratien, ecc. «Byzantìon» 8, 1933, pp. 41 ss.; Marcello Fortina, L ’impe­
ratore Graziano, MilanoTorino 1953, p. 214.
13 Sul problema vd. P. Nautin, Les premieres relations d’Ambroise avec l’empereur
Gratien, in Dix études... pour Y.M. Duval, Paris 1974, pp. 237 s.
14 Cfr. M. Sordi, Ambrogio di fronte a Rama e al paganesimo, in Ambrosius Episcopus,
a cura di G. Lazzari, Milano 1976, I, pp. 203 ss.
132 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

72 Faller), poteva perm ettere allo stesso Simmaco nel 383 di presentare
ancora come Rom anae religiones (ib. 13) i culti del paganesimo e di offrire
a imperatori cristiani la protezione degli antichi dei: ib. 19 vos defendant,
a nobis colantur.

a) La famosa controversia per l ’altare della Vittoria, punto centrale


momento paradigmatico dello scontro fra paganesimo e cristianesimo nel
IV secolo, nasce in definitiva dalla pretesa del paganesimo di essere ancora
la religione ufficiale di Rom a e dalla dura reazione dei Cristiani di fronte
a questa pretesa15.
L ’altare della Vittoria si trovava nella Curia sin dal 29 a.C., insieme alla
statua della dea, proveniente da Taranto; durante la sua visita a Roma
del 357 (Amm. 16,10,13 ss.), Costanzo aveva per primo rimosso l’altare
(Symm. Rei. 3,5-6; Ambros. ep. 18 = 73 Faller; 32 M aur.); in seguito però,
forse sotto Giuliano, il senato aveva ripristinato nella sua collocazione
originaria l’altare (con la statua); esso fu rimosso nuovamente solo nel 382
da Graziano (Symm. Rei. 3,20; Ambros. ep. 17 Maur., 10 = 72 Faller), che
non ricevette neppure gli inviati del senato venuti per protestare.
Dopo la morte di Graziano, nel 383, i pagani tornarono all’attacco con
il suo fratello e successore, il fanciullo Valentiniano II. Guidò in questa
occasione la legazione senatoria, e pronunziò la famosa R elatio m , uno dei
più illustri esponenti dell’aristocrazia pagana, Q. Aurelio Simmaco,
prefetto urbano del 384 e poi console del 391, legato sia agli ambienti
pagani più intransigenti, che aderivano, oltre che all’ etrusca disciplina,
anche ai culti misteriosofìci di origine orientale, com e Vezio Agorio
Pretestato, sia agli ambienti pagani tradizionali, a cui faceva capo il cugino
Vìrio Nicomaco Flaviano16; diversamente da quest’ultimo il tradizionalista
Simmaco manteneva ottimi rapporti anche con i Cristiani, come rivela la

16 Sul problema deU’altare della Vittoria la bibliografìa è molto vas


vd. F. Canfora, Simmaco e Ambrogio, Bari 1970; P. Grattarola, Ara Deae, «Rend.
Ist. Lomb.» 112, 1978, pp. 21 ss.; D. Vera, Commento Storico alle relationes di Q. Aure­
lio Simmaco, Pisa 1981, pp. 12 ss.; M. Lauria, De ara Victoriae, « Stud. Doc. Hist. Iur.»
50, 1984, pp. 235 ss. Nel 1986, in occasione del 1600® anniversario del conflitto, è
stato inoltre dedicato a Simmaco un colloquio a Ginevra (Symmaque, Paris 1986)
pubblicato da F. Paschoud.
16 Su questi legami vd. Vera, op. cit., p. XL. Su Pretestato, a cui fu prob
bilmente indirizzato il Carmen adversus paganos, generalmente ritenuto rivolto
contro Flaviano, vd. L. Cracco Ruggini, Il paganesimo romano tra religione e politica
(384-394 d.C.): per una reinterpretazione del Carmen contra paganos, « Mem. Acc. Line.»
8/23, Roma 1979.
xn. C r i s t ia n e s im o e p a g a n e s im o d o p o C o s t a n t in o 133

sua amicizia con Sesto Petronio Probo e lo stesso A m brogio17, e, per le sue
doti diplomatiche e le sue capacità oratorie, era in grado di farsi ascoltare
alla corte di Valentiniano II, in cui, accanto alla madre, l’ariana Giustina,
giocava un ruolo im portante il pagano Bautone, magister militum dell’im­
peratore.
Al di là dell’invito ad una concordia religiosa fondata sulla comune
ignoranza del mistero (ib. 10 uno itinere non potest perveniri ad tam grande
secretum) Simmaco insiste sull’unanimità del senato e sul dovere degli im­
peratori, anche cristiani, di non rinnegare i culti di Roma (ib. 3 vos amicum
triumphis patrocinium nolite deserere. Cunctis potentia ista votiva est; nemo
colendam neget, quam profitetur optandam). Il Boissier ha ragione quando
scrive18 che i pagani non volevano la tolleranza (anche se sembravano
chiederla), ma il riconoscim ento che l’unica religione pubblica era ancora
quella pagana. La risposta di Ambrogio, che poi determinò la presa di
posizione di Valentiniano II e il m antenim ento delle disposizioni di
Graziano, si articola in due m omenti distinti. In un primo tempo egli
risponde genericam ente alle richieste di Simmaco, di cui conosce l ’esi­
stenza, ma non conosce il tenore, e chiede che gli sia inviata copia della
relazione (è Yep. 17 Maur. = 72 Faller); in un secondo momento, ricevuta
la relazione, egli le confuta puntualmente con la ep. 18 Maur. (73 Faller).
Al centro (ib. 4-7) c ’è la famosa personificazione di Roma, che, ribattendo
le parole attribuitele da Simmaco (Rei. 3,9 ss.), nega di dovere ai suoi
antichi dei la sua grandezza. Ma soprattutto Ambrogio contesta la pretesa
di Simmaco di rappresentare la religione dello stato rom ano: ib. 22 hoc est,
fidelissimi principes, quod ferre non possumus, quia exprobrant nobis vestro se
nomine diis suis supplicare et vobis non mandantibus sacrilegium immane
committunt dissimulationem pro consensu interpretantes. La presenza in un
senato in cui sono numerosi i Cristiani di un altare pagano con i suoi riti
e i suoi sacrifici è in realtà una grave limitazione alla libertà religiosa dei
Cristiani: Etiamne in communi ilio concilio non erit communis condicio? (ib. 31).

b) Con la fine del paganesimo com e religione di stato, sancita da


rinuncia di Graziano al pontificato massimo, è strettamente collegata
anche la cessazione dei finanziamenti ai culti pagani e degli emolumenti
attribuiti ai collegi sacerdotali pagani, fra cui quello delle Vestali.

17 Per le lettere di Simmaco ad Ambrogio, vd. M. Forlin Patrucco - S. Roda,


Le lettere di Simmaco ad Ambrogio, in Ambrosius Episcopus, op. cit., Milano 1976,
pp. 284 ss.
18 G. Boissier, La fin du Paganisme, Paris 1891, II, p. 291 (trad. ital. La fine del
mondo pagano, Milano 1989, p. 290).
134 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

Simmaco lamenta che la cassa dello stato si arricchisca a svantaggio dei


sacerdoti (Rei. 3,12) e si domanda se un così piccolo guadagno possa
compensare l’im popolarità che ne deriva. Ma il problem a non era
econom ico, ma di principio: i sacerdoti e le vergini cristiane non
chiedevano finanziamenti dallo stato e i pagani non potevano pretendere
alimenta publica per i loro sacerdoti (Ambr. ep. 18 = 73 Faller, 13). Qui la
risposta di Ambrogio ha certam ente buon gioco sulla richiesta di
Simmaco: egli può ricordare, infatti, le misure restrittive da poco adottate
dagli im peratori nei riguardi del clero cristiano, sia per quel che
riguardava l’esonero dai munera curialia, sia per quel che riguardava le
donazioni e i lasciti testam entari19: tali misure, egli dice, sono state accolte
di buon animo dalla Chiesa: et nemo conqueritur (ib. 13).

c) Più complesso è il problem a della confisca dei beni immobili d


templi che accompagnò, nei provvedimenti di Graziano del 382, la revoca
dei finanziamenti statali ai collegi sacerdotali pagani: Symm. Rei. 3,13
agros etiam virginibus et ministris deficientium voluntate legatos fiscus retentat.
In questo settore Ambrogio non può invocare la reciprocità del tratta­
m ento, perché i beni immobili lasciati in testamento o donati alla Chiesa
non erano stati confiscati (Ambr. ep. 18 Maur., 15). Egli può soltanto
richiamare le confische subite dalla Chiesa nelle persecuzioni degli
imperatori pagani, e, soprattutto, ricordare che i beni posseduti dalla
Chiesa erano destinati al m antenim ento dei poveri (ib. 16 possessio ecclesiae
sumptus est egenorum), ciò che non era mai avvenuto con i beni dei templi
pagani quia non religiose utebantur his quae religionis iure defenderent*°.
Egli aggiunge inoltre che solo i beni immobili erano stato oggetto di
confisca, mentre i doni e i legati testamentari in beni mobili ai templi e
ai sacerdozi pagani erano stati lasciati (ib. 16). E stato osservato che,
m entre in età repubblicana, la ricchezza dei templi e dei collegi veniva
prevalentemente dagli ex voto e dai donativi e non dalle rendite fondiarie,
nel IV secolo avveniva il contrario, cosicché togliere ai pagani le rendite
dei fondi significava condannare il culto pagano all’interruzione31 ed
aveva il sapore di im a beffa.
L ’argomento lascia qualche perplessità: il paganesimo aveva ancora in
quest’epoca, oltre che numerosi seguaci nelle campagne (e di questo

19 Cod. Theod. 12,1,104 (del 383): cfr. De Giovanni, Il libro XVI, op. cit., pp. 60
e 63; Cod. Theod. 16,2,20 del 370 e 16,2,22 del 372: cfr. De Giovanni, ib., pp. 40 s.
20 L’osservazione di Ambrogio sembra ricalcare quella di Tertulliano sui collegi
pagani in Apoi. 39.
21 G. Bodei Giglioni, Pecunia fanatica, « Riv. Stor. It.» 89, 1977, p. 33; cfr. Vera,
Commento, op. cit., p. 46.
xn. C r is t ia n e s im o e p a g a n e s im o d o p o C o s t a n t in o 135

parleremo più avanti), l’appoggio delle grandi famiglie dell’aristocrazia


romana, i cui lasciti e i cui doni in denaro o in preziosi, avrebbero potuto
supplire alle rendite dei fondi confiscati dallo stato. Le misure finanziarie
di Graziano non sarebbero dunque bastate in ogni caso a stroncare il
paganesimo se questo avesse avuto im a sua autentica vitalità religiosa,
com e le misure, non solo finanziarie, m a anche penali, non avevano
impedito la diffusione e la vittoria del cristianesimo durante le grandi
persecuzioni del III e degli inizi del IV secolo. Viene fatto piuttosto di
pensare alla obiezione che l’autore pagano della vita di Alessandro Severo
nella Storia Augusta (Lampr. Alex. 43,6) fa opporre dai consulentes sacra,
certam ente gli aruspici, all’imperatore che voleva, com e già prima di lui
Adriano, erigere un tempio a Cristo e accoglierlo fra gli dei: omnes
Christianos futuros, si id fecisset, et tempia reliqua deserenda.
Risolta da Valentiniano II nel 384 con la rimozione dell’altare della
Vittoria dalla curia e con il m antenim ento delle misure di Graziano sulle
rendite e sulle confische, la controversia si ripresentò nel 389 e nel 390
con nuove richieste dei pagani a Teodosio e allo stesso Valentiniano
(Ambr. ep. 57 Maur., 4-5 = extra coll. 10 Faller), da essi peraltro respinte,
e con la restituzione ai templi dei beni confiscati sotto form a di doni ai
richiedenti da parte dell’usurpatore Eugenio nel 393 (Ambr. ib. 6 s.). Dopo
la sconfìtta militare subita al Frigido dal partito pagano nel 394 il distacco
dello stato rom ano dall’antica religione ufficiale, che le misure di
Graziano avevano sancito, appare ormai definitivo.

3. L ’insistenza con cui nel decennio fra il 384 e il 394, l’opposizio


pagana tom a all’attacco, presso gli im peratori cristiani, con le sue richieste
sul culto pubblico, in un m om ento in cui, almeno nelle masse cittadine,
il paganesimo era ormai certam ente minoritario, rivela l ’influenza che il
paganesimo manteneva nella classe dirigente dell’impero. Si è visto che
Simmaco attribuisce la richiesta relativa all’altare della Vittoria nel 382
com e nel 384 al senato unanime. L ’affermazione di Simmaco (Rei. 3,2 nulla
est hic dissensio voluntatum) è certam ente falsa: Ambrogio dice che già
nel 382 Papa Damaso gli aveva inviato un libello, da lui inoltrato a
Graziano, in cui i senatori cristiani negavano di avere dato il loro consenso
alla richiesta dei pagani e dichiaravano che non sarebbero più entrati
nella curia se l’altare fosse stato in essa ricollocato (ep. 17 Maur., 10 =
72 Faller). Anche se i pagani non formavano la totalità del senato di Roma,
è certo però che essi ne erano i membri più prestigiosi e più influenti.
In effetti l’adesione palese e impegnata al paganesimo non fu mai discri­
minante, agli occhi degli im peratori cristiani, e non impedì loro di
136 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

conferire alla vecchia e nuova aristocrazia cariche importanti: nel 384, al


tempo della controversia con Ambrogio, Simmaco era prefetto urbano,
Pretestato era prefetto del pretorio per l’Italia, Bautone era magister
militum, Vìrio Nicomaco Flaviano, che nel 393 fu prefetto del pretorio con
l’usurpatore Eugenio, lo era stato già precedentem ente nel 383 nel 390 con
gli imperatori legittimi; Arbogaste, che con lui appoggiò Eugenio e si
suicidò dopo il Frigido, era stato magister militum sin dal 38522.
Fu proprio l’importanza delle cariche che i capi dell’opposizione
pagana rivestivano sotto gli imperatori cristiani che trasformò l’usurpa­
zione del cristiano Eugenio, appoggiato dai pagani Virio Nicomaco
Flaviano ed Arbogaste, in im a vera e propria guerra di religione e la
battaglia del Frigido, nell’ultimo disperato tentativo del paganesimo di
imporsi con la forza nell’impero: Agostino (civ. 5,26) ricorda le statue di
Giove che i pagani avevano innalzato in quella occasione sui passi alpini,
Orosio (hist. 7,35,12) e Rufino (2,33) ricordano l’impegno che essi posero
nel ripristino dei sacrifici e nella consultazione degli aruspici.
Con la sconfitta militare dei pagani e con il perdono concesso da
Teodosio (sollecitato anche da Ambrogio: cfr. ep. 61 e 62 Maur. = extra
coll. 2 e 3 Faller) ai seguaci superstiti dei vinti, il paganesimo perde ogni
forza politica: sopravvive invece la polem ica intellettuale, che si ripresenta,
al tempo delle invasioni di Radagaiso e di Alarico nel 406 e nel 408 e poi
nel sacco di Rom a del 410, con l’accusa ai Cristiani di aver provocato la
rovina dell’impero con la fine imposta al culto pubblico23.

4. Con le drammatiche vicende del V secolo, quello che era stato u


conflitto culturale, politico e militare, diventa, da parte pagana e da
parte cristiana, giudizio sulla storia. Le argomentazioni che Agostino nel
De civitate Dei e Orosio attribuiscono ai pagani del tempo di Radagaiso e
di Alarico, secondo cui le sventure che colpivano Rom a e il suo impero
erano la conseguenza dell’abbandono della religione tradizionale e del
trionfo del cristianesimo, non erano nuove nel 406, nel 408 e nel 410: si
erano già presentate dopo la sconfìtta di Adrianopoli nel 378 e un pagano
onesto come Ammiano Marcellino le aveva confutate con argomenti assai
simili a quelli che useranno Agostino ed Orosio (31,5,11): Negant antiqui­
tatum ignari, tantis malorum tenebris offusam aliquando fuisse rem publicam, sed
falluntur recentium stupore confixi. Zosimo, che scrive agli inizi del VI secolo,

22 PLRE I, s.v. Virius Nicomachus Flavianus 15, pp. 347 s.


23 M. Sordi, Augustinus De civ. Dei, V, 23, art. cit., pp. 205 ss.
X I I. C r is t ia n e s im o e p a g a n e s im o d o p o C o s t a n t in o 137

ma attinge a fonti dei primi decenni del V, Eunapio e O lim piodoro24,


imposta la sua Storia nuova com e una storia della decadenza dell’impero
romano, provocata dall’abbandono della celebrazione dei giuochi se­
colari e del culto pubblico (2,7,1) e dalla conversione di Costantino (2,29)
fonte di ogni empietà. La historìa adversus, cioè la storia polemica o
apologetica, non è u n’invenzione della storiografia cristiana e di Orosio,
che, rispondendo intorno al 417 ad accuse di questo tipo, intitolò la sua
opera Historia adversus paganos; essa è l ’espressione di un dibattito
ideologico che percorre il IV e il V secolo e corrisponde, da parte pagana
e da parte cristiana, ad un sistema dottrinario coerente: Orosio esalta la
m onarchia di Augusto, cond annata da Zosimo, esalta il ruolo di
Costantino, condannato da Zosimo, ragiona con falsificazioni cronolo­
giche, com e Zosimo, annunzia all’impero romano una felicità sempre più
grande, m entre Zosimo ne annunzia la perdizione. Orosio risponde,
insomma, puntualmente, ad un attacco anticristiano del tipo di quello che
più tardi troviamo in Zosim o25.

5. Dopo la battaglia del Frigido non si può più parlare di un’opposi­


zione delle classi dirigenti al cristianesimo, che non sia quella puramente
intellettuale del discorso storico o filosofico o della rievocazione letteraria.
Ormai sconfìtta nelle città, la resistenza del paganesimo al cristianesimo
si sposta nelle campagne, dove i vecchi culti m antengono i loro seguaci
e le tradizioni religiose conservano una loro vitalità. E se nelle città è
qualche volta la furia di Cristiani fanatici a scatenarsi contro i pagani
(com e nel caso di Ipazia, massacrata ad Alessandria nel 415), nelle
campagne è soprattutto contro i Cristiani che si manifesta la violenza dei
seguaci del paganesimo: famoso è il caso dei martiri della Val di Non,
attestata da fonti contem poranee, com e le lettere di Vigilio vescovo di
Trento a Simpliciano vescovo di Milano e a Giovanni Crisostomo vescovo
di Costantinopoli, di poco posteriori al 29 maggio del 397, quando Sisinio,
Martirio ed Alessandro erano stati uccisi dai rustici abitanti della valle, per
non aver voluto partecipare alla lustratio dei cam pi26. Nel processo che ne
seguì l ’imperatore aderì alla richiesta della Chiesa che gli uccisori, impri­

24 F. Paschoud, Cinq études..., art. àt., pp. 139 s.


25 F. Paschoud, La polemica prowidenziaMsta in Orosio, in AA.W., La storia
ecclesiastica, Messina 1980, pp. 131 ss..
26 Su queste lettere vd. I. Rogger, Problemi filologici relativi alle due lettere di
S. Basilio, in AAW ., I martiri della Val di Non, Bologna 1985, pp. 149 ss. e E. Mene-
stò, Le lettere di S. Vigilio, ib., pp. 151 ss.
1S8 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

gionati, non fossero messi a morte, com e attesta Agostino, in una lettera
del 411-112 (ep. 139, 2 NBA, 22 pp. 198-200). Lo stesso Agostino in u n’altra
lettera (ep. 50 NBA, 21, p. 412) ricorda che n ell’estate del 399 a Suffetula
in prossimità di Cartagine, sessanta cristiani erano stati uccisi perché era
stata abbattuta una statua di Ercole. Dall’Africa numerose iscrizioni del
IV e V secolo conservano il nom e di cristiani messi a morte dai pagani in
fatti di sangue e venerati com e m artiri27.
Fra la fine del IV e gli inizi del VI secolo la trasformazione del
paganesimo tradizionale da religione delle classi dirigenti in religione
delle campagne, secondo una delle interpretazioni del vocabolo, che lo fa
derivare appunto da pagus, distretto rustico, appare compiuta: ne è indizio
significativo la trasformazione degli aruspici, che della religione tradi­
zionale erano stati una delle istituzioni più prestigiose e contro i quali gli
im peratori cristiani avevano indirizzato, com e si è visto, la prima condanna
legale. Nell’episodio già ricordato, testimoniato da Zosimo (5,41) e da
Sozomeno (H .E. 9,6), che derivano qui, con ogni probabilità, dalla stessa
fonte, Olim piodoro28, gli aruspici venuti dalTEtruria nel 408-409 offrirono
al prefetto urbano, Pompeiano, e poi allo stesso papa, Innocenzo, di
liberare Roma dall’assedio di Alarico attirando su di esso i fulmini dal
cielo. Invitati a celebrare i loro riti di nascosto, essi risposero che tali riti
avrebbero giovato alla città solo se fossero stati compiuti pubblicamente e
se il senato fosse salito in Campidoglio ed avesse compiuto, là e nelle
piazze di Roma, ciò che era conveniente, secondo l’uso patrio. Non
avendo potuto ottenere ciò, gli aruspici se ne tornarono in Etruria. Questi
aruspici che trattano con dignità col prefetto urbano e perfino con il
pontefice cristiano sono ancora gli esponenti della vecchia aruspicina, a
cui l’aristocrazia pagana dà ancora il suo appoggio e la sua protezione.
Anche Procopio sulla guerra Gotica (IV,21) parla nel VI secolo, n ell’im­
minenza della spedizione di Narsete, di im a profezia di aruspici venuti
dalla Toscana, ma si tratta ormai di rozzi contadini, a cui nessuno presta
attenzione.
L ’antica religione è ormai m orta per sempre e sopravvive come
folklore.

27 D. Mazzoleni, Riferimenti epigrafici alle persecuzioni del IV e V secolo, in I martiri


della Val di Non, op. cit., pp. 117 ss.
28A. Chastagnol, La prefetture urbaine sous le bas Empire, Paris 1960, p. 166.
XIII.
TOLLERANZA E INTOLLERANZA NEL MONDO ANTICO

1. Al dì fuori del campo religioso, la tolleranza si presenta com


accettazione del diverso e nasce dalla presa di coscienza della relatività del
giudizio umano. C’è un passo di Cornelio Nepote (che scrive al tempo di
Cesare) che esprime molto lucidamente questa presa di coscienza: nella
Vita di Epaminonda, dovendo parlare dell’educazione alla musica, alla
danza e alla filosofìa del grande tebano, invita innanzitutto i lettori ne alie­
nos mores ad suos referant, neve ea quae ipsis leviora sunt pari modo apud ceteros
fuisse arbitrentur (Epam. 1,1). Secondo il costume romano, infatti - egli
contìnua - la musica è estranea all’immagine dell’uomo politico (scimus
abesse a persona principis), la danza è addirittura considerata un vizio. Per
i Greci invece queste cose sono degne di lode {ib. 1,2-3). E, dopo aver
ricordato l’eccellenza raggiunta dal giovane Epaminonda nelle varie disci­
pline, conclude che queste, secondo il nostro modo di giudicare (ad no­
stram consuetudinem) sono cose di poco peso e piuttosto degne di disprezzo,
ma in Grecia, almeno in quel tempo, erano di grande gloria (ib. 2,3).
Nel m ondo antico l’attaccam ento alla propria tradizione, al mos
maiorum o alla synetheia è discriminante e il nuovo è visto con diffidenza:
in ambedue le lingue della cultura innovare significa sovvertire l’ordine
costituito (res novas moliri, neoterizein), m ettere in pericolo l ’ordine
pubblico. Il m ondo antico non è tollerante. Non lo sono certam ente i
Greci presso i quali il concetto di barbaro, che indicava all’inizio solo il
parlante lingua diversa dal greco, senza particolare accentuazione di
disprezzo, viene assumendo sempre più, nel V e nel IV secolo, il significato
di un’inferiorità morale e razziale. Certamente più aperta appare la
mentalità dei Romani, consapevoli di essere essi stessi il frutto di un
incontro fra genti diverse per sangue, per lingua, per costumi: u n ’unità di
natura politica e morale, non etnica, capace di integrare il novum e
Y alienum, perché non estraneo a republica nostra e on esto1.

* La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, a cura di M. Sin


Milano 1991, pp. 1-12.
1 M. Sordi, R mito troiano e l’eredità etrusco di Roma, Milano 1989, pp. 9
(e passim).
140 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e la tr a d iz io n e d i R o m a

2. In che misura questa diversità di atteggiamento si palesa di fron


al fatto religioso? Dal punto di vista religioso il mondo greco e il mondo
romano sono fondati sulla pluralità di dei, una pluralità in se stessa
inesauribile ed aperta potenzialmente a qualsiasi acquisizione, sia at­
traverso l’identificazione sincretistica di dei di altri popoli con i propri
(si pensi al rapporto stabilito già in età m olto antica fra il Melquart fenicio,
l’Eracle greco e l’Èrcole etrusco-romano), sia attraverso l’indicazione
onnicomprensiva di dei e di dee senza nome, di cui si vuole esorcizzare
l’ira per ogni involontaria dim enticanza2.
Sarebbe però un errore ritenere che là dove il divino si presenta come
im a pluralità di dei e dove non c ’è posto per il concetto di ortodossia, non
ci sia possibilità di intolleranza; e sarebbe anche erroneo ritenere che
l’assenza di dogmi rivelati e la pluralità degli dei escludano un certo
concetto di ortodossia, intesa in senso lato com e discriminazione del vero
dal falso in fatto di credenze relative alla divinità e del conveniente dallo
sconveniente in fatto di culto. Lo rivelano i processi per empietà che si
celebrarono poco prima della guerra del Peloponneso3 nella democratica
Atene contro gli amici di Pericle, Anassagora soprattutto, e, nel 399, nella
democrazia restaurata, contro Socrate. Nel caso di Anassagora, Plutarco
(Per. 32,1) ci conserva lo psefisma di Diopeite con cui si stabiliva che gli
empi dovevano essere perseguiti con Veisanghelia, cioè dovevano essere
giudicati dal popolo: esso colpiva xoìx; zò. Qàa |if| vo|i(£ovxou; Xóyouq Jtepì
tc ò v |iexap<nò>v SiSàmcovrai;, colpiva cioè « coloro che non credevano agli
dei e alla loro esistenza » 4 e che insegnavano discorsi sulle regioni (sulle
cose) celesti. In quanto a Socrate, l ’imputazione rivoltagli da Meleto fu,
secondo Platone (Eutifr. 2b), di essere «facitore di dei, di creare dei nuovi
e di non credere ai vecchi » (òg Kaivoix; Jtoioùvxa Seoùg, xoìx; S’àpxaiou^ où
vo|i(£ovxa). In ambedue i casi ciò che gli accusatori colpiscono è la
credenza (o la non credenza) e non solo l’estrinsecazione di questa
credenza nell’insegnamento: il «n on credere agli dei» del decreto di
Diopeite e il « non credere ai vecchi dei » dell’accusa di Meleto coprono
in definitiva una stessa colpa6. Anche nell’editto contro i Manichei del
297 d.C. (Mos. et Rom. Legum Collatio, 15,3 ss.) si afferma che maximi criminis

2R. Muth, Vom Wesen roemischer Religio, «Auf. Nied. Ròm. Welt» 16, 1978, 1,
pp. 290 ss.; L. Troiani, La religione e Cicerone, «Riv. Stor. It.» 96, 1984, pp. 930 ss.
3 Su questi processi, cfr. L. Prandi, I processi contro Fidia, Aspasia, Anassagora e
l’opposizione a Pericle, «Aevum» 51, 1977, pp. 10 ss.
4 Così E. Dérenne, Les procès d’impiété aux philosophes, Liège 1930, pp. 217 ss.
5 Prandi, art. dt., p. 19.
x n i . T o l l e r a n z a e in t o l l e r a n z a n e l m o n d o a n t ic o 141

est retractare quae semel ab antiquis statuta et definita suum statum et cursum
tenent ac possident. Alla fine del III secolo d.C., com e nel V secolo a.C.,
criterio di verità è l’antichità di una dottrina: ciò che una volta è stato
definito come vero e approvato dal consenso dei buoni è vero per sem­
pre, dice Diocleziano, e non è fas per una nova religio criticare una vetus.
La continuità nel m ondo antico, dalla Grecia classica al tardo impero, di
questo atteggiamento si coglie nel più famoso processo religioso celebrato
nel mondo rom ano prima del Cristianesimo, il processo de Bacchanalibus
del 186 a.C. E vero che in questo caso la repressione non scattò diretta-
m ente da motivi religiosi, m a anche e soprattutto dal sospetto di stupra,
di flagitia, di una coniuratio contro lo Stato6. Con tutto ciò appare signi­
ficativa l’esortazione con cui, secondo Livio (39,15,2), uno dei consoli del
186 cercò di calmare gli scrupoli religiosi che la repressione di un culto
divino, sia pure straniero, poteva suscitare nei Romani: hos esse deos, quos
colere venerari precarique maiores vestri instituissent, non illos qui pravis et externis
religionibus captas mentes velut furialibus stimulis ad amne scelus et ad omnem
libidinem agerent.
Criterio sicuro di ortodossia è, ancora una volta, l’antichità della
tradizione, la scelta dei maiores. Eppure, anche nella convinzione che il
culto perseguitato sia un culto privo di ogni validità o addirittura folle
(furialibus stimulis) e pericoloso (ad omne scelus et ad omnem libidinem), resta
chiaro nei Romani il timore ne fraudibus humanis vindicandis divini iuris
aliquid immixtum violemus (ib. 39,16,7) cosicché il Senato, alla fine, concede
a chi ritiene di non poter om ettere il culto proibito sine religione et piaculo
di ottenere il permesso dal pretore urbano per celebrarlo in gruppi di non
più di cinque persone. Ciò che nell’atteggiamento romano appare diverso
dall’atteggiamento greco è la collocazione di tutto il problema sul piano
del diritto, del diritto della divinità: ne divini iuris aliquid violemus, dice il
console liviano. E Tiberio, rifiutando nel 25 d.C. il culto imperiale offer­
togli dalla Spagna, chiede agli dei che gli conservino sino alla fine della
vita quietam et intelUgentem humani divinique iuris mentem (Tac. ann. 4,38).
L ’impostazione giuridica che il rom ano dà al suo rapporto con la
divinità nasce dal concetto ispiratore di tutta la religiosità romana, dal
concetto di pax deorum ed è ciò che differenzia il modo rom ano di
comportarsi di fronte al nuovo in campo religioso dal modo greco.
Nel caso dei Baccanali, è proprio il diritto della divinità di essere
adorata come vuole, anche al di là delle tradizioni fissate dai maiores, che

6 Sulla repressione dei Baccanali, cfr. ora A. Luisi, La lex Maenia e la repressione
dà Baccanali, «Contr. Ist. St. Ant.» 8, 1982, pp. 179 ss. (ivi bibl. p. 182, n. 13).
142 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

induce consoli e Senato, già agli inizi del II secolo e prima dell’influenza
della filosofìa greca, a prendere in considerazione la coscienza dei singoli:
si quis tale sacrum sollemne et necessarium duceret. I decreti ateniesi colpiscono
direttamente il nomizein, la credenza cioè dei singoli e, quindi la loro
coscienza; il Senato rom ano scopre la libertà di coscienza dei singoli nel
mom ento stesso in cui esercita la sua repressione, e la scopre fondata nel
diritto della divinità, sullo ius divinum da non violare.

3. Nel mondo romano il principio della tolleranza o, meglio ancor


quello della libertà religiosa, nasce direttamente dallo stesso ceppo da cui
nascono l’intolleranza e la persecuzione, dalla concezione cioè della pax
deorum, è questa concezione, credo, che vale la pena di ch iarire7.
La locuzione pax deorum, conservata solitamente nella form a arcaica di
pax divom o pax deum, è certam ente antica ed è forse all’origine del
concetto stesso di pax, la cui radice, la stessa di pangere, conficcare, è un
unicum tra le radici che nelle altre lingue indoeuropee (escluse le lingue
italiche) hanno prodotto il concetto di p ace8, e sembra da collegare con
l’uso che Livio (7,3) dice di origine etnisca e conosce presente a Volsinii,
nel tempio di Nortia, di pangere clavum nella cella di Minerva del tempio
Capitolino; il rito, compiuto annualmente alle idi di settembre, serviva a
contare gli anni ed era ripetuto eccezionalmente com e piaculum in caso
di pestilenza. Il chiodo, conficcato nel giorno sacro a Giove della luce
continuata (Macr. Sat. 1,15,15-16), doveva significare per i Rom ani
dell’ultima m onarchia etnisca im a sorta di alleanza con la divinità (vien
fatto di pensare all’arcobaleno dell’alleanza noetica), un pegno della
assistenza divina e della stabilità assicurata a Rom a da tale continuata
assistenza. Il motivo della luce ritorna in effetti anche nella solenne
preghiera che Cicerone pronuncia nella Pro Rabirio perdueU. reo (2,5) per
ottenere la pax deorum.
Alla pax deomm si collega, oltre al rito del conficcam ento del chiodo,
anche la noncupatio votorum, la cerim onia con cui in età imperiale la res

1 Sul concetto di pax demum rinvio ai miei studi: Pax deomm e libertà religi
in Atti del V Colloquio giudirico, Pont Univ. Later., Roma 1985, pp. 341 ss. e in Pax
deovum, «Contr. Ist. St. Ant.» 11, 1985, pp. 146 ss. Per l’origine etnisca dell’uso di
clavum pangere, cfr. LA. Foresti, Zur Zeremonie der Nagelschlagung in Rom und in
Etmrien, «Am. Joum . Anc. Hist.» 4, 1979, pp. 144 ss.
8 Cfr. C. Milani, Note alla terminologia della pace, «Contr. Ist. St. Ant» 11, 19
pp. 25 ss. ( cantra, ma senza argomenti, I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo
antico, «Mem. Acc. Se. Tor.» 13, 1989, p. 20, n. 8).
X I I I . TOLLERANZA E INTOLLERANZA NEL MONDO ANTICO 143

publica invocava, tramite i consoli e lo stesso principe, all’inìzio dell’anno,


salvezza dagli dei e aeternitas a Rom a (Plin. paneg. 67,5): egit cum dis ipso te
auctore, Caesar, res publica... quasi pacisceris cum dis. L ’affermazione che la
salvezza dello Stato dipende da questa « alleanza con la divinità » implica
la convinzione di una radicale dipendenza dell’uomo dalla divinità ed un
atteggiamento autenticam ente e profondam ente religioso: nel discorso
che Livio attribuisce a Camillo dopo la catastrofe gallica, i Romani sono
invitati a meditare sulle vicende degli ultimi anni e a constatare che omnia
prospera evenisse sequentibus deis, adversa spernentibus (Liv. 5,51,5). Una conce­
zione religiosa di questo tipo doveva avere conseguenze sul piano pratico
e poteva anche essere abilm ente strumentalizzata nei confronti degli
avversari di turno: con argom enti di questo genere e con il timore di
rompere la pax deorum furono com battute da parte patrizia le antiche lotte
contro i plebei, ritenuti colpevoli di turbare gli auspici pubblici e privati
(ib. 4,2,5 e 6,2-3) e accusati a più riprese, com e i grandi consoli del
III secolo a.C., Flaminio, Varrone, Marcello, di neglegentia deorum9; di
accuse analoghe, e di provocare con la loro empietà catastrofi naturali e
disfatte militari, furono accusati nel II e nel III secolo d.C. i Cristiani
(Tertull. Apoi. 40,2; Cypr. Dernetr. 3,1). II motivo si ripresenta agli inizi del
V secolo d.C., quando Rom a stessa subisce l’occupazione barbarica e i
pagani ne attribuiscono il motivo ob hoc solum, quod creditur Christus et colitur
Deus, idola autem minus coluntur (Oros. 1, prol. 9).
Fonte di intolleranza e di persecuzione, la pax deorum rende però anche
possibile - com e si è già detto - la tolleranza e, addirittura, la libertà
religiosa: si è già visto com e la preoccupazione di violare aliquid divini iuris
e di rom pere pertanto la pax deorum induca nel 186 a.C. il Senato a
riconoscere il diritto di coloro che non si sentono in coscienza di inter­
rom pere i culti proibiti. U n atteggiamento analogo ricompare in quel
docum ento fondam entale che è l’editto di Serdica del 311 d.C. (Lact. mori,
pers. 34): in esso Galerio rivendica innanzitutto com e giusto il suo
programma di iuxta leges veteres et publicam disciplinam Romanorum cuncta
corrigere, ed erige, secondo la consuetudine, il mos maiorum a supremo
criterio di verità e di m orale, condannando coloro che avevano abban­
donato i veterum instituta, che i loro stessi padri avevano stabilito; però
è subito dopo costretto ad am m ettere il fallimento di questo programma

9 Cfr. M. Caltabiano, La morte del console Marcello, « Contr. Ist. St. Ant» 3, 19
pp. 65 ss. e 75; Id., Motivi polemici nella tradizione storiografica relativa a C. Flaminio,
« Contr. Ist. St. Ant.» 4, 1976, pp. 102 ss.; G. Zecchini, La figura di Terenzio Vairone,
«Contr. Ist. St. Ant» 4, 1976, pp. 118 ss.
144 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

e a constatare che, perseverando molti nel loro proposito, non solo


gli dei sono stati trascurati, ma neppure il Dio dei Cristiani ha rice­
vuto - a causa della persecuzione - il suo culto. Per questo, sfinito dalla
malattìa, egli permette ut denuo sint Christiani... e invita questi ultimi a
deum, suum orare prò salute nostra et rdpublicae et sua (ib. 34,4-5): chiede cioè
la pace del Dio dei Cristiani ed invita questi ultimi a chiederla per lui e
per l’impero.
Diverso per quel che concede, non la sola libertà di culto, ma anche
la restituzione dei luoghi di culto confiscati, non la semplice tolleranza,
ma la piena libertà religiosa, è il cosiddetto editto di Milano (ib. 48).
L ’atteggiamento religioso di fondo è però lo stesso, la volontà di ristabilire
la pax deorum, o, meglio, la pax divinitatis, individuata sin dall’inizio con
un termine abbastanza generico, da permettere un incontro non polemico
fra il politeismo pagano, la religiosità solare, le varie teorie filosofiche e
il monoteismo cristano e giudaico: (ib. 1) Cum... universa quae ad commoda
et securitatem publicam pertinerent in tractatu haberemus, haec... vel in primis
ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebantur. A questa
premessa fondamentale segue la concessione della libertà religiosa: ut
daremus et christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam
quisque voluisset, quo quicquid divinitatis est in sede caelesti nobis et omnibus qui
sub nostra potestate sunt constituti, placatum et propitium possit existere. La
libertà religiosa dell’editto di Milano non risulta da un concordato
concluso fra l’impero e una comunità religiosa, ma è ancora una volta
l’alleanza che lo Stato stipula con la divinità, presentando ad essa la
sottomissione di un culto senza impedimenti e chiedendo perdono, prote­
zione, aiuto, tutto ciò che va appunto sotto il concetto di pax. Nell’editto
di Milano, com e già in quello di Serdica, l ’impero, restituendo ai Cristiani
e a tutti la liberam potestatem, sequendi religionem quam quisque voluisset, vuole
correggere la neglegentia di cui l ’impero stesso si era reso colpevole verso
il Dio dei Cristiani ostacolandone il culto. Pur nella fragilità che deriva alla
‘definizione’ di Milano dai molteplici condizionamenti storici, tale defini­
zione ci rivela im a concezione della libertà religiosa che non nasce dallo
scetticismo razionalistico, ma dal riconoscim ento, caratteristico della tradi­
zione romana e già colto da Cicerone nel De natura deorum (3,93)10 della
incompetenza dello Stato a decidere, in quanto Stato, la natura teologica
della divinità; rivela una concezione dello Stato che è insieme religiosa e
aconfessionale, per la quale il problem a del rapporto con la divinità è

10 Sull’agnosticismo di Cicerone (nelTaffermazione da lui attribuita a Co


sull’oscurità della natura degli dei), cfr. Troiani, art. cit., p. 922.
X I II . TOLLERANZA E INTOLLERANZA NEL MONDO ANTICO 145

problem a polìtico fondam entale ed è compito primo dello Stato assicurare


alla divinità un culto senza impedimenti, ma per la quale la determina­
zione di questo rapporto è affidato alla libera coscienza dei singoli o alle
discussioni dei filosofi, non per disprezzo e indifferenza del fatto religioso,
ma per riconoscim ento esplicito, da parte dello Stato, dei propri limiti.

4. Diversamente dall’editto di Serdica, in cui la libertà dell’atto di cul


è sentito come un arbitrio (Lact. mort. pers. 34,2 prò arbitrio suo atque ut isdem
erat libitum), la libera potestas di cui parla il cosiddetto editto di Milano
risponde meglio alla convinzione, radicata da età antichissime nel mondo
rom ano, per cui condizione intrinseca della validità di ogni atto religioso
è la libertà con cui è compiuto: una convinzione che si esprime nella
formula epigrafica, attestata già in età arcaica e comunissima in età
imperiale, che troviamo nello scioglimento di ogni voto: votum solvit
libens merito.
Vorrei tornare però su un altro aspetto, che a me sembra importante,
della definizione di Milano: è l’ignoranza - e il riconoscimento esplicito
di tale ignoranza - sulla natura della divinità, insieme alla volontà altret­
tanto esplicita di ottenere il favore di questa divinità - qualunque essa sia
- che impone allo Stato rom ano l’accettazione delle diverse scelte religiose
che le coscienze dei singoli, liberam ente, possono compiere.
Sulla linea di questo pluralismo religioso, garantito dall’impossibilità
per l’uomo di giungere uno itinere ad tam grande secretum (Symm. Rei. 3,10)
si pone, accogliendo influenze neoplatoniche e porfìriane (e riprendendo
un tema della diatriba religiosa del IV se co lo )11 Q. Aurelio Simmaco nella
Relazione a Valentiniano II sull’altare della Vittoria: «è giusto infatti
ritenere, egli osserva, quicquid omnes colunt, unum putari». In realtà,
chiedendo agli imperatori di m antenere nella Curia l’altare della Vittoria
e di conservarlo al centro del culto del Senato, Simmaco insiste sul dovere
degli imperatori, anche cristiani, di non rinnegare gli antichi culti di
Roma: al di là dell’invito ad una concordia fondata sulla comune igno­
ranza del mistero, il nom e che Simmaco dà alla tolleranza da lui chiesta
al nuovo impero cristiano, è quello di dissimulatio (ib. 3,3) si exemplum non
fa d t religio veterum, fadat dissimulatio proximorum.
Si è creduto di vedere in questo appello12 un sincero richiamo,
n ell’ottica pagana, alla classica concezione romana della separazione fra

11 D. Vera, Commento storico alle Relationes di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1981,


pp. 40 ss.
12Vera, op. cit., p. 28.
146 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R om a

religio publica e credenze personali, fra culto divino, teso al bene della
comunità (religio) e convinzioni limitate alla sfera personale (philosophia).
In realtà, com e ha ben visto il Boissier13, i pagani non volevano la
tolleranza anche se sembravano chiederla, ma il riconoscim ento che
Tunica religione pubblica era ancora e soltanto quella pagana.
La risposta di Ambrogio, che poi determinò la presa di posizione di
Valentiniano II e il m antenim ento delle disposizioni di Graziano, si
articola in due momenti distinti: dopo aver risposto genericam ente in un
primo tempo chiedendo copia della Relazione di Simmaco, Ambrogio, rice­
vuta questa Relazione, la confuta puntualmente con Yep. 18 (= 73 Faller).
Al centro (ib. 4-7) c ’è la famosa personificazione di Rom a che, ribattendo
le parole attribuitegli da Simmaco (Rei. 3,9 ss.), nega di dovere la sua
grandezza agli antichi dei. Ma soprattutto Ambrogio contesta la pretesa
di Simmaco di rappresentare la religione dello Stato rom ano (ep. 22).
« E questo che non possiamo sopportare, o fedelissimi principi, che essi ci
rinfaccino le suppliche che rivolgono, a nom e vostro, ai loro dei (vestro...
nomine diis suis) e che commettano, senza che voi abbiate dato loro
l ’incarico, un grave sacrilegio dissimulationem pro consensu interpretantes».
L ’ignoranza della divinità, irraggiungibile uno itinere secondo l ’affer­
mazione di Simmaco, è un argomento che Ambrogio rifiuta (ib. 8):
« Quello che voi ignorate, noi lo conosciamo dalla voce di Dio e quello che
voi cercate attraverso ipotesi, noi lo conosciamo con certezza ex ipsa
sapientia Dei et ventate». II vostro comportamento e il nostro sono diversi:
vos pacem diis vestris ab imperatoribus obsecratis, nos ipsis imperatoribus a Christo
pacem rogamus.
La concezione rom ana della pax deorum è qui integralm ente rece­
pita nella pax Christi: ma, nel m om ento in cui viene accolta dalla tradi­
zione romana la necessità di un culto teso al bene anche politico della
comunità, si recepiscono anche le contraddizioni che questa religiosità
politica porta con sé e la tendenza a sollecitare l’intervento dello Stato
contro ogni ostacolo che minaccia la pax, l’alleanza tra la divinità e la
comunità politica.
L ’‘intolleranza’ degli imperatori romano-cristiani nasce dalla loro
adesione alla concezione rom ana della religione politica, intesa come
politica verso la divinità. La convinzione dei Cristiani di possedere con
certezza, grazie alla rivelazione, la verità sulla divinità, impedisce natural­
m ente quelle resipiscenze nella persecuzione a cui la consapevolezza della
propria ignoranza e il timore di offendere il diritto di qualche divinità

13 G. Boissier, La fin du paganisme, II, Paris 1881, p. 291 (trad. i t 1989, p. 29).
X I I I . TOLLERANZA E INTOLLERANZA NEL MONDO ANTICO 147

sconosciuta costringeva i loro predecessori pagani: Essa frena però anche


l’asprezza della persecuzione. Nonostante la durezza dei divieti imposti ai
sacrifìci e ai riti pagani nelle costituzioni imperiali da Costantino a
Teodosio e ai suoi figli e, nonostante l’asprezza delle pene proposte ai
trasgressori, non solo non ci furono, per opera dello Stato cristiano14,
martiri pagani, ma non fu neppure ostacolata la carriera politica dell’ari­
stocrazia pagana. Anche le misure finanziarie di Graziano nel 382, con la
sospensione dei privilegi e dei finanziamenti concessi dallo Stato ai collegi
sacerdotali pagani, non sarebbero bastate a stroncare il paganesimo, se
questo avesse avuto una sua autentica vitalità religiosa, com e le misure,
non solo finanziarie m a penali, non avevano impedito la diffusione e la
vittoria del cristianesimo durante le grandi persecuzioni del III e degli inizi
del IV secolo. Viene fatto piuttosto di pensare alla obiezione che l’autore
pagano della Vita di Alessandro nella Historia Augusta (43,6) fa opporre dai
consulentes sacra all’imperatore che voleva erigere un tempio a Cristo ed
accoglierlo tra gli dei: omnes Christianos juturos, si id fecisset, et tempia reliqua
deserenda.
Si aggiunga l’ostilità che la Chiesa mostra, anche nei suoi membri più
intransigenti, com e Ambrogio, all’uso del braccio secolare in questioni
religiose: nelle due lettere a Studio sulla pena di morte, il vescovo di
Milano, che è disposto ad am mettere, in nom e della legittima autorità
dello Stato e del suo dovere di reprim ere lo scelerum furor, la permanenza
della pena di m orte in.un impero cristiano, non è disposto ad ammettere
l’intervento dello Stato nella punizione dei devios de fide10.
Agostino segue alla lettera Ambrogio e dichiara (ep. 100,2) ut etiam
occidi ab eis eligamus, quam cos occidendos vestris iudiciis ingeramus. Gli
imperatori cristiani appaiono talmente consapevoli del dovere dei ve­
scovi di perdonare i nem ici della Chiesa che prospettano, in certi casi,
la necessità dello Stato di intervenire senza aspettare formali denunzie
(Cod. Theod. 16,2,31 del 409 d .C .)16.

5. Concludendo: in un m ondo in cui la pax deorum o la pax divinita


era considerata il prim o interesse dello Stato, la vittoria del Cristianesimo
non portò - né poteva portare, avendo i Cristiani recepito la concezione

14D caso di Ipazia, uccisa a furor di popolo ad Alessandria, non coinvolse


lo Stato.
15 Sulle lettere di Ambrogio a Studio (ep. 25 e 26 Maur. = 50 e 68 Faller),
cfr. M. Sordi, Pena di morte e braccio secolare, in Metodologia della ricerca nella tarda
antichità, Napoli 1989, pp. 179 ss.
16Cfr. L. De Giovanni, Chiesa e Stato nel Codice teodosiano, Napoli 1980, pp. 44 ss.
148 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

rom ana dello Stato, fondata appunto sull’alleanza con la divinità - ad una
maggior tolleranza.
L ’unica possibilità di tolleranza dello Stato antico nasceva dalla consa­
pevolezza della sua ignoranza sulla natura della divinità. Venendo meno
questa coscienza di ignoranza, la tolleranza poteva configurarsi solo come
dissimulatio (ed è la linea che suggerisce Sim m aco), com e finzione di non
vedere il male.
Bisogna dire subito però che i pagani suggerivano questa linea solo ora
che erano rimasti minoranza e la suggerivano con l’intenzione - tutta la
controversia dell’altare della Vittoria lo dimostra - che la religio publica
restasse quella pagana.
La soluzione poteva forse venire, m antenendo fissi i due cardini del
modo rom ano di concepire la religione (l’importanza per la comunità e
non solo per i singoli del fatto religioso e la necessità, per la validità stessa
dell’atto religioso, che esso fosse Ubero), dall’approfondimento del limite
inerente alla competenza religiosa dello Stato in quanto Stato. E la
posizione del cosiddetto editto di Milano, in cui da una parte è affermata
l’importanza per lo Stato della religione, dall’altra si affida alla coscienza
dei singoli la scelta di questa religione e l’esplicitazione dell’atto religioso.
Ma il sottile equilibrio dell’editto di Milano appare già infranto vivente
Costantino. Ad onore dell’impero romano-cristiano si può dire che, se
- in linea di principio - non fu più tollerante dell’impero romano-pagano
e moltiplicò proibizioni minacciose contro i culti pagani, non provocò, a
differenza di quello, vittime umane ed applicò in campo religioso quella
dissimulatio, quella finzione di non vedere ciò che per principio proibiva,
che, in un settore così delicato, dove il summum ius rischiava di divenire
summa iniuria, era profondamente connaturata con quel formidabile
connubio di senso del diritto e di senso del concreto, che era nella
migliore tradizione rom ana (Veli. 2,114,3-4).
XIV.
DALL’ELMO DI COSTANTINO ALLA CORONA FERREA

La tradizione relativa inventio crucis è passata nel IV secolo attraverso


fasi successive: nella V.C. (2,26 ss.) Eusebio conosce i lavori compiuti da
Costantino a Gerusalemme e sul Calvario, m a non parla del ritrovamento
della croce; nessun accenno alla croce com e reliquia troviamo del resto
neppure n ell’Itinerarium Burdigalense, databile verso il 333. Della venera­
zione della Croce com e m eta privilegiata parlano invece tutti i pellegri­
naggi in Terra Santa dal 380 in poi, in particolare, VItinerarium Egeriae
del 381-384 circa e YEpitaphium Sanctae Paulae del 385.
Il ritrovamento della croce deve essere avvenuto pertanto fra il 333 e
il 380 circa: ad esso allude infatti, in tuia lettera all’imperatore Costanzo
del 351, il vescovo di Gerusalemme, Cirillo (PG. 33,351, p. 1166). In questa
lettera, scritta per annunciare la miracolosa comparsa di una croce nel
cielo alla Pentecoste di quello stesso anno, il vescovo ricorda che « il santo
legno della croce era stato trovato a Gerusalemme sotto Costantino»,
avendo la grazia divina concesso il ritrovamento dei luoghi santi che erano
nascosti Ko&àg ^r)xoóvu Tf|v eòaépeiav.
L ’uso del maschile x<p koM 5<; ^titoùvti sembra escludere che Cirillo
attribuisse ad Elena il ritrovamento: anche ammettendo che l’espressione
possa essere resa con un generico « a chi cercava » e non con « a colui che
cercava», il ricorso ad un anonim o e l’accenno alla «ricerca» delYeusebeia
fanno pensare piuttosto ad una persona originariamente estranea alla
fede. Sappiamo da Paolino (ep. 31,5) che per individuare il luogo dove la
croce era sepolta si ricorse, oltre che a Cristiani pieni di dottrina e di
santità, anche a dotti Giudei (de Iudaeis peritissimos) ed un testo apo­
crifo noto già a Sozomeno (H .E. 2,1) e poi a Gregorio di Tours (Hist.
Frane. 1,36) parlava dell’ebreo Ciriaco, più tardi convertito e martire.
L ’anonimo « cercatore della pietà » a cui la grazia divina aveva concesso il
ritrovamento potrebbe essere stato, nella versione più antica, proprio
questo Ciriaco o un suo ignoto predecessore.

* Costantino il Orande, a cura di G. Bonamente e F. Fusco, Macerata 199


pp. 883-892.
150 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

Al tempo dell’episcopato di Cirillo in Gerusalemme, dunque, si sapeva


già del rinvenimento della croce e lo si attribuiva all’epoca di Costantino,
m a non se ne ascriveva il merito all’imperatrice Elena.
Il primo ad attribuire ad Elena il ritrovamento della croce è Ambrogio
nel De obitu Theodosii del 395 (41 ss.): il confronto fra il resoconto che
dell’impresa di Elena dà Ambrogio con quello che ne dà Paolino nella già
citata lettera a Sulpicio Severo, scritta dopo il 397 (ep. 31), e con quello
di Rufino nella Storia Ecclesiastica (H .E. 1,7 ss.), scritta nel 402, permette di
rilevare, pur nella diversità di impostazione per tre autori e nelle diffe­
renze particolari, l’identità della versione a cui tutti e tre attingono:
il modo estremamente sintetico con cui Ambrogio allude al miracolo
(la guarigione di un’ammalata) che permise il riconoscim ento della vera
croce fra le tre ritrovate sul Calvario, rivela senza possibilità di dubbi che
egli conosceva la versione più ampia e dettagliata che ritroviamo in
Rufino. Rufino, che scrive alcuni anni dopo Ambrogio, ma non dipende
da Ambrogio, ci conserva dunque, con più fedeltà di Ambrogio, la
versione originaria. Questo è facilm ente comprensibile se si tiene conto
del fatto che, mentre per Ambrogio e per Paolino l’impresa di Elena è
oggetto di un excursus (che serve all’uno, per mostrare il compimento
n ell’impero romano-cristiano della profezia di Zaccaria relativa al frenum
equi con la trasformazione, voluta appunto da Elena, dei chiodi della croce
in morso per il cavallo di Costantino e in corona-diadema per il suo capo,
all’altro, per illustrare un pellegrinaggio a Gerusalemme), Rufino ne
inserisce il racconto, in modo organico, nella storia dei rapporti fra
Costantino e la C hiesa1.
Ho accennato precedentem ente a differenze particolari fra i tre autori:
la più importante è, a mio avviso, quella esistente fra Ambrogio e Rufino
nell’utilizzazione dei chiodi della croce ritrovata: ambedue concordano
nella trasformazione di uno (o di alcuni) di tali chiodi in un morso per
il cavallo, il frenum equi. Per quel che riguarda l ’altro, Rufino, seguito da
Socrate (H .E. 1,17), da Sozomeno (H .E. 2,1) e da Teodoreto (H .E. 1,18)

1 Per una più ampia trattazione di questo problema vd. M. Sordi, La tradiz
dell’inventio crucis in Ambrogio e in Bufino, « Riv. Stor. Ch. It.» 44, 1990, pp. 1 ss.
Un confronto puntuale fra Ambrogio, Rufino e Paolino è presente anche in
F.E. Consolino, E significato deU’inventìo crucis nel De obitu Theodosii, «Ann. Fac. Lett
Siena» 5, 1984, pp. 161 ss., che non pensa però ad una fonte comune più antica
di Ambrogio, ma ad un collegamento fra Ambrogio ed Eusebio. Ad una fonte
anteriore al 395 pensa S. Heid, Der Ursprung der Helenalegende im Pilgerbetrieb
ferusalems, «Jahrb. Ant. Christ.» 32, 1989, pp. 41 ss. che cerca l’origine della
leggenda di Elena negli ambienti gerosolimitani.
XIV. D a l l ’e l m o d i C o s t a n t i n o a l l a c o r o n a f e r r e a 151

parla di un elm o (H .E. 10,8): (Helena) clavos quoque, quibus corpus domini­
cum fuerat affixum, portat ad filium. E x quibus iUe frenos composuit, quibus
uteretur ad bellum, et ex aliis galeam nihilominus belli usibus aptam fertur
armasse. Ambrogio parla invece, a più riprese, di diadema o di corona:
(obit. Theod. 47) de uno davo frenos fieri praecepit, de altero diadema intexuit
(cfr. ib. 48 in vertice corona).
Che nella versione originaria si parlasse di elmo e non di corona
sembra conferm ato dal fatto che anche per Ambrogio Elena, cercando la
croce, voleva assicurare al figlio divini muneris auxilium, quo inter proelia
quoque tutus assisteret et periculum non timeret (obit. Theod. 41).
L ’accenno all’uso bellico dei doni (inter proelia) rende indubbiamente
più probabile la trasformazione dei chiodi in elmo che in corona: tale
trasformazione appare anche più strettam ente collegata all’ideologia
costantiniana della vittoria.
La versione che attribuiva ad Elena (e non ad un ignoto personaggio)
il ritrovamento della croce e la trasformazione dei chiodi in morso per le
briglie e in elm o, la versione cioè che ritroviamo allo stato puro in Rufino,
sembra nata all’intem o della dinastia costantiniana e destinata alla sua
glorificazione e ne riflette l’ideologia. La simbologia del freno e dell’elmo,
da usare ambedue in guerra, aderisce fedelm ente alla mentalità di
Costantino, che si era fritto rappresentare sin dall’inizio, in una sua statua,
con in mano «il trofeo della passione salvatrice» (Eus. H E . 9,9,10 s.), che
aveva fatto rappresentare il monogramma di Cristo (che era nello stesso
tempo una croce) sugli scudi dei suoi soldati (Lact. moti. pers. 44,5), che
il monogramma della croce aveva posto sull’elmo nelle sue monete.
L ’idea di alleanza con la divinità, di u n ’alleanza che si manifesta
soprattutto nella protezione divina in guerra, è collegata strettamente con
l’azione di Elena e con i suoi doni, destinati a sancire l ’alleanza del Dio
dei Cristiani con Costantino e la sua dinastia. Ma poiché non possiamo
attribuire all’epoca di Costantino la nascita della ‘leggenda’ di Elena, che
Cirillo ignora ancora nel 351, dobbiamo pensare, per l’attribuzione a
Elena del ritrovamento della croce e dei doni del morso e dell’elmo,
all’epoca di Costanzo, fra il 351 e il 361.
Nella versione di Ambrogio, invece, con la trasformazione dell’elmo in
corona, il motivo della croce ritrovata non è più collegato con il solo
Costantino e con la sua dinastia, ma, al di là dell’apostasia dell’ultimo
Costantinide, Giuliano, con tutti i successori cristiani di Costantino.
Possiamo dunque riconoscere tre fasi distinte, nella cronologia e nel
significato, nella tradizione sull’ inventio crucis: la prima, che risale almeno
alla m età del IV secolo, è rappresentata dalla testimonianza di Cirillo,
vescovo di Gerusalemme, e rivela tale ritrovamento già avvenuto nel 351
152 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

ed avvenuto, secondo l’opinione allora corrente, al tempo di Costantino,


ma non ad opera di Elena. In questa fase della tradizione la trasforma­
zione dei chiodi della croce in oggetti usati dall’imperatore appare
escluso. Esclusa esplicitamente è, in particolare, l’utilizzazione dei chiodi
per ima corona: di una corona celeste, contrapposta alle corone terrene,
di oro e di gemme, che l ’imperatore porta sul capo, Cirillo parla, infatti
nella lettera a Costanzo, ma si tratta della visione della croce apparsa nel
cielo di Gerusalemme nella Pentecoste del 3512.
La seconda fase è quella rappresentata dalla fonte com une a Rufino,
a Paolino e allo stesso Ambrogio: tale fonte attribuisce ad Elena il
ritrovamento della croce e l’uso dei chiodi per un morso per le briglie e
per un elmo da inviare al figlio Costantino. Essa è certam ente più antica
del 395 e risale con ogni probabilità agli ambienti di Costanzo, desideroso
di attribuire alla propria dinastia un nuovo merito e una nuova gloria,
nella persona della nonna Elena.
La terza fase è rappresentata dal solo Ambrogio nel discorso del 395 e
sostituisce all’elmo una corona (o diadema). E interessante considerare il
racconto dell’ inventio crucis nel contesto dell’intero discorso ambrosiano:
esso costituisce il tema dell’ultima parte del discorso (41-53), quella parte
che era stata considerata in passato, forse a torto, u n’aggiunta dello stesso
autore, fatta al mom ento della redazione definitiva3.
In realtà essa rappresenta, invece, com e è stato giustamente osservato4,
la legittimazione del princeps christianus e costituisce il vero argomento
dell’intero discorso, sino a fare di esso una sintesi della teologia politica
della fine del IV secolo. A mio avviso, il significato di tutto l’excursus
ambrosiano (e della strana esegesi di Zaccaria 14,20 a proposito del frenum
equi) è la red enzione d ell’im pero e degli im p era to ri5. Il chiodo
trasformato in corona diventa «il chiodo dell’impero rom ano che regge

2 Cyrill. PG 33,351 (ep. ad Constant. 2: alle corone più grandi che vengono da
Dio sono contrapposte le corone di oro e di gemme variopinte con, cui altri,
incoronano l’imperatore, doni presi dalla terra, e che, come tutte le cose della
terra, finiscono). L’idea di utilizzare uno dei chiodi della croce per una corona
gemmata del tipo di quelle ‘terrene’, potrebbe essere venuta proprio da questo
passo di Cirillo.
3 Così L. Laurand, L ’araison funebre de Théodose par saint Ambroise, «Rev. Hist.
Eccl.» 17, 1921, pp. 349 s.; C. Favez, L ’épisode de l’invention de la croix dans l’oraison
funebre de Théodose par saint Ambroise, « Rev. Et. Lat.» 10, 1932, pp. 423 s.
4 Sul problema vd. G. Bonamente, Potere politico e autonomia religiosa, in Italia
Sacra I, voi. 30, Roma 1979, pp. 126 s., n. 125.
5 Cfr. M. Sordi, La concezione politica di Ambrogio, in I Cristiani e l’impero nel
IV secolo, Macerata 1988, p. 146.
X IV . D a l l ’e l m o d i C o s t a n t in o a l l a c o r o n a f e r r e a 153

l’intero mondo » (48) e non è insolentia, ma pietas: recte in capite clavus, ut


ubi sensus est, ibi sit praesidium. In vertice corona, in manibus habena. Corona
de cruce ut fides luceat, habena quoque de cruce, ut potestas regat (ib. 48).
Corona/diadem a, da una parte, morso dall’altra6, erano già nell’antica
Grecia simboli del potere: per Ambrogio il nuovo rapporto con Dio, che
la trasfigurazione di questi simboli mediante i chiodi della croce stabilisce,
fonda anche un nuovo rapporto fra l’imperatore e i sudditi e salva gli
imperatori cristiani dalla tentazione tirannica dell’arbitrio del potere, che
travolse molti dei loro predecessori pagani.
E il potere stesso, in quanto tale, coronato e nello stesso tempo frenato
dai simboli della passione di Cristo, a ricevere freno e temperamento dalla
disciplina ecclesiale, cosicché è proprio il buon uso del potere a costituire
la legittimazione autentica dell’im peratore cristiano7.
Per questo il dono che Elena fa a Costantino non è più soltanto un
dono personale, ma vestit principum frontem (ib. 48); è un dono che
Costantino trasmette ( transmisit,), insieme alla fede, ad posteros reges (ib. 47).
Il m erito di Costantino, per Ambrogio, è appunto questo (ib. 40): quod
primus imperatorum credidit et post se hereditatem fidei principibus dereliquit.
Questo motivo, che caratterizza l ’inizio dell’excursus sull’inventio crucis,
ricom pare puntualmente alla fine di esso (ib. 51): Ignorabant Deum,
restrinxit eos crux Domini... susceperunt frena devotionis et fidei... Inde, reliqui
principes Christiani, praeter unum Iulianum, qui salutis suae auctorem reliquit...
Inde Gratianus et Theodosius (ib. 51).
Eredità nella fede e legittimità nella successione imperiale - che non
è semplice successione dinastica (ne resta fuori il costantinide Giuliano),
ma successione negli stessi simboli di potere e di fede - appaiono così
strettamente e indissolubilmente collegate: con la trasformazione del
chiodò in corona nasce l’im pero rom ano cristiano. Anche se Ambrogio è
il primo (e anche l’unico) a parlare della trasformazione del chiodo in
corona, e anche se tale trasformazione assume un’importanza fonda-
m entale nella sua concezione teologica della funzione dell’impero, è a
mio avviso estremamente improbabile che essa sia una sua invenzione.
Il De obitu Theodosii è un discorso ufficiale, pronunziato di fronte a
corte di Milano e ai soldati; e Ambrogio non parla di una corona
immaginaria, ma della corona di Teodosio e di Onorio, della corona
dell’impero rom ano, del clavus Romani imperii qui totum regit orbem ac vestit
prìndpum frontem (ib. 48) e di cui, com e del frenum, egli fornisce una

6 Per il morso simbolo del potere nell’antica Grecia, vd. E. Villari, R chali
come sphragis del tiranno, «Civ. Cl. Crist.» 9, 1988, pp. 117ss.
7Bonamente, op. cit., p. 97; p. 125; p. 133.
154 M a r t a s o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

descrizione precisa: ib. 47 De uno clavo frenos fieri praecepit (sdì. Helena), de
altero diadema intexuit... Misit itaque filio suo Constantino diadema gemmis
insignitum, quas pretiosior ferro innexas crucis redemptionis divinae gemma
connecteret. Misit et frenum. Utroque usus est Constantinus et fidem transmisit ad
posteros reges.
La precisione della descrizione della corona-diadema (una corona di
gemme e, probabilmente d’oro, com e quelle - puramente terrene -
descritte da Cirillo di Gerusalemme, ma con un cerchio di ferro, all’in­
terno, più prezioso di ogni gemma) e la natura del discorso e dell’am­
biente in cui il discorso è fatto (la corte di Milano) presuppongono non
solo ima manipolazione della versione originaria che parlava di elmo e
non di corona, ma anche un uso nuovo e reale, ben noto a Milano, dei
chiodi della croce ritrovata (di quella cioè che si riteneva la vera croce),
le cui reliquie, come sappiamo dallo stesso C irillo8, erano ormai diffuse
in tutto il mondo e a cui gli imperatori potevano facilm ente avere accesso.
È interessante osservare che a Milano si trova tuttora viene venerato col
nom e di Santo Chiodo uno dei due doni di Elena a Costantino, il frenum,
cioè il morso per le briglie di cui parla Ambrogio. La prima notizia di esso
risale ad un documento del 18 gennaio 1389, ma la giustificazione che il
documento riporta per le offerte alla Basilica di Santa Tecla, «perché
cattedrale metropolitana e perché vi era riposto ab antiquo uno dei Santi
Chiodi con cui fu crocifisso il Salvatore », rivela che l’oggetto venerato in
Santa Tecla (da cui il 20 marzo del 1461 fu trasportato solennem ente nella
nuova cattedrale, il Duomo, dove si trova attualmente) era ritenuto
presente in Milano dall’antichità9. Senza discutere qui l’autenticità della
reliquia, vale la pena di osservare che con Milano è collegata anche la
famosa «corona ferrea» dal primo cronista che ne parla, Iohannes
Codagnellus nel 123010: egli dice infatti che a Milano fu per 15 anni
Teodorico, gerens regnum Liguriae, que postea dictum est regnum Italiae. Cuius

8 PG 33, Cat. 4,10,57; 10,19,146; 13,4,184.


9 II documento si trova nel Registro di Provvisione, che contiene gli Atti dal
1389 al 1397 ed è conservato nell’archivio storico civico di Milano; esso è
pubblicato da A. Tamborini, Un’insigne reliquia della Passione nel Duomo di Milano,
Milano 1933, pp. 26 s.; cfr. F. Ruggeri, Il santo chiodo venerato nel Duomo di Milano,
Milano 19892, p. 8. Allo stesso Ruggeri, op. dt., p. 11 rinvio per le ulteriori notizie
sul chiodo e il suo spostamento da S. Teda all’attuale cattedrale. Per le ipotesi
avanzate dagli studiosi sul modo in cui il chiodo era giunto a Milano, vd. Tam­
borini, op. dt., pp. 34 ss.
10 Per questo testo vd. R. Elze, Die eiseme Krone in Monza, «MHG», Schrif-
ten XIII, 2, 1955, p. 467.
X IV . DALL’ELMO DI COSTANTINO ALLA CORONA FERREA 155

corona est ferrea a viris ferocibus dicta. La corona ferrea si trova attualmente
a Monza, nel tesoro del Duomo, nei cui inventari essa è attestata almeno
dal X III secolo: per questo, pure in mezzo a errori e a confusioni, appare
significativa l’am bientazione a Milano del regno di Teodorico, che in
realtà governò a Ravenna, proprio in rapporto alla famosa corona (del cui
nom e «ferrea» il cronista ha ormai perduto il significato) e in rapporto
alla sede della corte, ch e nella seconda m età del IV secolo d.C. era
appunto Milano. Altrettanto significativa mi pare la menzione della
Liguria, al centro della quale provincia Milano si trovava nel IV secolo.
La corona ferrea, che è in realtà una corona d’oro, composta di sei
pezzi rettangolari uniti da cerniere e ornati di gemme e di brillanti, con
alTintem o un circolo di ferro che la tradizione ritiene im o dei chiodi della
croce, è, negli inventari, la terza di un gruppo di quattro corone, fra cui
quella di Teodolinda del V II secolo, quella di Agilulfo, pure del VII, ma
scomparsa nel 1804, ed u n’altra, già scomparsa nel 1496 n; essa fu usata nel
IX secolo per l’incoronazione di Berengario I e servi per le incoronazioni
dei re di Italia, Ottone I, Ottone III, e gli imperatori Enrico IV, Corrado
di Franconia e Federico Barbarossa e poi ancora di Carlo IV, Sigismondo,
Carlo V. Con questa corona fu incoronato nel 1805 Napoleone I e nel 1838
Ferdinando I 12.
Prescindendo dalle tradizioni medioevali e dalle vicende successive,
non c ’è dubbio che im a corona-diadema e un morso per le briglie, forgiati
con quelli che si ritenevano i chiodi della vera croce di Cristo, si trovavano
a Milano, in quanto sede della corte imperiale, alla fine del IV secolo ed
erano ufficialmente considerati, proprio com e avvenne più tardi, ai tempi
di Berengario e degli Ottoni e, poi, degli imperatori del sacro Romano
Impero, i simboli del potere dellTm pero Romano-Cristiano. Anche se la
corona ferrea a noi conservata non è quella di cui parla Ambrogio, è certo,
a mio avviso, che ne è la diretta discendente.
Ho detto precedentem ente che la terza fase della tradizione sull’m-
ventio crucis, quella attestata dal solo Ambrogio con la sostituzione della
corona-diadema all’elmo, non può essere u n ’invenzione di Ambrogio e
che appare invece collegata con la reale utilizzazione, da parte dei
successori cristiani di Costanzo, di un chiodo della croce per una corona.

11 Per le quattro corone del tesoro di Monza vd. Elze, op. cit., p. 451; per
l’autenticità della corona di Agilulfo e la sua datazione al VII secolo, vd. lo stesso
Elze, Per la storia del tesoro delle corone di Monza, in Atti del VI Congr. Interri. dell’Alto
Medioevo, Spoleto 1980, pp. 393 ss.
12 Per la corona ferrea e le sue vicende, vd. R. Bombelli, Storia della coronaferrea
dei re d’Italia, Firenze 1870; C.G. Mor, s.v. corona, in E.I., pp. 450 s.
156 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e la tr a d iz io n e d i R o m a

Questa utilizzazione appare anche collegata con la corte di Milano e con


la nuova importanza di Milano com e capitale dell’impero: io credo, anzi,
che la trasformazione del chiodo in corona, che nel discorso di Ambrogio
diventa legittimazione degli imperatori cristiani, vada addirittura collegata
con la scelta di Milano com e capitale da parte di Valentiniano I e con la
decisione dello stesso Valentiniano di dare inizio ad im a nuova dinastia,
la prima dinastia cristiana dopo la scomparsa di quella di Costantino.
Milano era stata residenza im periale sin dal tempo della prima
tetrarchia, sotto la quale è attestata la presenza, nella città padana, di un
palatium}*. Anche Costanzo aveva avuto occasione fra il 354 e il 357 di
tenere i suoi quartieri invernali a Milano, per fronteggiare l’usurpazione
di Magnenzio e la rinnovata pressione degli Alam anni14.
Da Milano Giuliano era partito nel 355 com e Cesare per le Gallie, dopo
le nozze con Elena e intorno a Milano egli aveva svolto, per mezzo di
Iovino, la sua propaganda nel periodo della lotta con Costanzo15, al punto
che Gioviano, dopo la sua elezione, nel 363, proprio a Milano aveva inviato
il suocero Lucilliano e, con lui, il tribuno militare Valentiniano, il futuro
imperatore, per conferm are res ancipites e per opporsi a eventuali insur­
rezioni si casus novi quidam exurgerent (Amm. 25,8,8 s.).
Divenuto imperatore, Valentiniano scelse Milano com e sua capitale,
affidando al fratello Valente Costantinopoli: dopo aver associato il fratello
nel potere, infatti, il 27 marzo del 365, e dopo avere spartito con lui, in
base alla propria scelta (Amm. 26,5,2), i comites e i numeri militares, entrò
con lui a Sirmio e diviso palatio ut potiori placuerat, Valentinianus Medio­
lanum, Constantinopolim Valens discessit (ib. 5,4).
Da questo m omento, e per tutto il regno di Valentiniano e della sua
dinastia, Milano fu la vera capitale dell'O ccidente in alternativa con
Costantinopoli, ma ad essa certam ente superiore, visto che era stata scelta
dall ’Augustus potior.
E interessante osservare che la tradizione costantinopolitana collegava
i riti di fondazione della città da parte di Costantino con l’inserimento di
frammenti della croce, inviati da Elena al figlio, nella statua posta sulla

13 Paneg. XI (III), 11-12 per il 291 (si tratta del Panegirico di Mamertino).
14Amm. 14,10,6 e 15,4,13 per il ritorno di Costanzo ad hibema nel 354 e 355.
15 Per Giuliano a Milano, vd. Amm. 15,8,17, per la sua partenza per le Gallie
dopo le nozze con Elena. Per la campagna propagandistica di Iovino nell’Italia
settentrionale, vd. Amm. 21,8,2. Sul problema della scelta di Valentiniano rinvio
al mio articolo, Come Milano divenne capitale, in AA.W., L ’impero romano Cristiano,
Roma 1991, pp. 33 ss.
X IV . D a l l ’ e l m o d i C o s t a n t in o a l l a c o r o n a f e r r e a 157

colonna di porfido nel foro di Costantinopoli perché assicurasse la prote­


zione alla città (Soz. H .E. 1,17,9)16.
E dunque probabile che la decisione di utilizzare im o dei chiodi della
croce per la corona imperiale e di portarla a Milano insieme al morso per
la briglia, sia strettam ente collegata con la scelta di Milano da parte di
Valentiniano I e con la sua decisione di fare di essa la capitale della sua
dinastia. La corona e il morso erano il simbolo del potere imperiale:
l ’accostamento dei segni della Passione di Cristo ai segni del potere
rom ano mirava, com e si è visto, alla legittimazione sacrale dell’impero.
La trasformazione dell’elm o di Costantino nella corona ferrea segnò
così il passaggio dalla dinastia cristiana di Costantino all’impero romano
cristiano com e istituzione17.

16 Su questa statua di Costantino, dedicata il 26 novembre del 328 sotto la quale


sarebbe stato nascosto anche il Palladio, vd. L. Cracco Ruggini, Vettio Agorio
Pretestato e la fondazione sacrale di Costantinopoli, in Miscellanea in onore di E. Manni,
Roma 1979, p. 602, n. 26 (con bibliografìa).
17 Questa conclusione conferma la spiegazione data dah’excursus di Ambrogio
da W. Steidle, Die Leichenrede des Ambrosius fu r Kaiser Theodosius, «Vet. Chr.» 31,
1978, pp. 96 ss. Cfr. anche Consolino, art. cit., pp. 176-179 che oltre ad una
fondazione dell’impero come istituzione pensa alla giustificazione della pietà
cristiana come diritto al regno.
XV.
I RAPPORTI DI AMBROGIO CON GLI IMPERATORI
DEL SUO TEMPO

Alcuni studi recenti \ screditando sistematicamente la testimonianza di


Ambrogio e le fonti di tradizione nicena, tendono a ridimensionare i
rapporti intensi e, in alcuni casi, addirittura confidenziali e affettuosi, che
Ambrogio intrattenne con tutti gli im peratori del suo tempo, da Valen­
tiniano I a Teodosio; io credo al contrario che, a dare pieno significato
a questa testimonianza, sia soprattutto la funzione di effettiva capitale
dell’Occidente che, per tutto il periodo dell’episcopato di Ambrogio, dal
374 al 397, Milano ebbe n ell’impero. La città era divenuta sede occasionale
degli imperatori fin dall’epoca della tetrarchia, ma allora si era trattato
solo di una scelta di comodo, a causa della sua maggior vicinanza alle
frontiere, per i quartieri invernali dell’esercito imperiale; invece, nel 365,
Milano fu scelta com e sua capitale da Valentiniano I che, com e potior
Augustus, lasciò al fratello Valente Costantinopoli2: fu dunque con Valen­
tiniano che Milano sostituì Rom a com e sede della corte imperiale e che
il suo vescovo divenne il vescovo della capitale dell’impero. Che poi, di
fatto, la corte abbia risieduto stabilmente a Milano solo per pochi anni,
con Valentiniano II e Giustina, fìa il 383 e il 387, e nel 388-389 con
Teodosio, e che Valentiniano I sia stato spesso impegnato in azioni di
guerra, che Graziano, per ragioni militari, sia rimasto per lo più in Gallia,
e che Teodosio nel 389 si sia allontanato quasi subito da Milano, per
tornarvi a più riprese per brevi periodi, serve semmai a spiegare perché
i m om enti in cui il rapporto tra il vescovo e gli imperatori raggiunge il suo

* Nec timeo morì, Atti del congresso intemazionale di studi ambrosiani n


XVI centenario della morte di Sant’Ambrogio (Milano, 4-11 aprile 1997), a cura
di L.F. Pizzolato e M. Rizzi, Milano 1998, pp. 107-118.

1 Cfr. N.B. McLynn, Ambrose of Milan, Berkeley-Los Angeles 1994; D.H. Wil­
liams, Ambiose of Milan and thè End of thè Arian-Nicene Conflids, Oxford 1995.
2Amm. 26,5,4. Sulla scelta di Milano da parte di Valentiniano I cfr. M. Sordi,
Come Milano divenne capitale, in AAW ., L ’impero romano cristiano, Roma 1991,
pp. 33 ss.
160 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e la t r a d iz io n e d i R o m a

culmine, nel contrasto o nell’intesa, siano quelli in cui l’imperatore risiede


a Milano o si prepara a ritornare a Milano: la m inaccia di non accogliere
in chiesa l’imperatore, che Ambrogio usa a più riprese (nel 384 con
Valentiniano II, per la controversia sull’altare della Vittoria, nel 390 con
Teodosio, per la strage di Tessalonica, nel 392 con Eugenio), è resa
possibile solo dalla finizione particolarissima che Milano aveva ormai
nell’im pero3.
Che Teodosio, quando si insediò a Milano dopo la vittoria su Magno
Massimo nel 388, non fosse abituato a questo tipo di minaccia da parte dei
vescovi di Costantinopoli e dell’O riente, dove la Corte interveniva, senza
consultare i vescovi, nella vita della Chiesa4, è u n ’altra questione e
dipende dal diverso rapporto che l ’O riente ebbe sempre nell’impero col
potere politico (e spiega semmai perché Costantino abbia cercato, dopo
la sua conversione, di crearsi una nuova capitale oltre a Rom a): Ambrogio
sentì la libertas dicendi come il suo dovere maggiore e per esercitarlo
utilizzò la sua autorità fissando al potere dei limiti precisi e rivendi­
cando la competenza esclusiva del vescovo nelle questioni religiose {ep. 72
Faller 7,74,27). Questa rivendicazione della competenza episcopale in
materia di religione, associata al timore di abusi e di interferenze da parte
del potere, nasce probabilmente proprio dalla formazione di Ambrogio,
che giunse all’episcopato dalla carriera politica e non da ambienti eccle­
siali e si spiega cosi l’esperienza stessa della sua elezione. Le fonti
antiche parlano, com ’è noto, di u n’acclamazione popolare, seguita alla
voce di un bam bino5, che avrebbe salutato vescovo Ambrogio, quando
quest’ultimo, com e consularis dell’Aemilia et Liguria, era entrato in chiesa
per riportare l’ordine nei tumulti dopo la m orte del vescovo ariano
Aussenzio. Il sospetto che l’acclamazione popolare sia stata provocata dagli
agentes in rebus mescolati alla folla e che l’elezione sia stata in realtà

3 Per la minaccia di Ambrogio agli imperatori di non accoglierli in chiesa, si


vedano ep. 72 Faller, 13; ep. extra coll. 11,13; 10,2. Per la sosta di Teodosio a Milano
fra l’autunno del 388 e la primavera del 389 si veda McLynn, Ambrose of Milan,
p. 295; p. 297; nella primavera del 389 anche Valentiniano II partì per la Gallia
(ib. p. 309).
4 Secondo il McLynn, Ambrose of Milan, op. àt., p. 297, il ‘monopolio’ che
Ambrogio aveva stabilito a Milano sulla vita cristiana era molto differente dalla
situazione di Costantinopoli, dove Teodosio e la corte potevano permettersi le
proprie pratiche di pietà senza consultare il vescovo. Il fatto che a Costantinopoli
non ci fosse bisogno di ‘consultare il vescovo locale’ per controllare la vita della
comunità cristiana non mi sembra un segno della libertà della Chiesa.
5 Rufino (HJE. 11) parla di populi [...] clamor et vox una; Paolino, vita Ambr. 6
di vox infantis in populo.
X V . I r a p p o r t i d i A m b r o g i o c o n g l i im p e r a t o r i d e l s u o t e m p o 161

preparata da Petronio Probo, prefetto del pretorio dell’Italia, dell'illirico


e dell’Africa, che inviando Ambrogio com e consularis in Aemilia et Liguria
lo aveva esortato a comportarsi non ut iudex sed ut episcopus (Paul. Med. vita
Ambr. 8) e, indirettam ente, voluta da Valentiniano stesso, che, informato
della scelta popolare si rallegrò quod iudices a se directi ad sacerdotium
peterentur (ib. 8), appare pienam ente legittim o6: fedele alla sua politica di
assicurare a tutti piena libertà religiosa (Cod. Theod. 9,16,9), il cattolico
Valentiniano, finché Aussenzio era stato vivo, non aveva voluto destituirlo,
nonostante le sollecitazioni di alcuni vescovi, ma approfittò ben volentieri
della sua m orte per assicurare la successione ad un uomo di sua fiducia,
cattolico ma estraneo alle dispute teologiche, graditissimo agli ambienti
ecclesiastici rom ani (la consacrazione di Marcellina, sorella di Ambrogio,
era stata presieduta da Papa Liberio).
Ambrogio ricorda a più riprese (off. 1,2; paenit. 2,73) la sua resistenza
contro l’elezione e Paolino (vita Ambr. 7-9) riferisce gli espedienti con cui
cercò di impedirla. Cedette solo quando Valentiniano gli promise di non
interferire nel suo episcopato, com e ricorda egli stesso a Valentiniano II
nel 386 al tempo della controversia per le basiliche: taceo quia pater pietatis
tuae quietem futuram spopondit si electus susciperet sacerdotium (ep. 75 Faller =
21 Maur., 7) e, in prima persona conclude: hanc fidem secutus sum promis­
sorum. Il McLynn sostiene che non ci fu nessuna promessa, ma solo
l’accettazione, da parte di Valentiniano, dell’awenuta elezione7. L ’affer­
mazione di Ambrogio (spopondit, promissorum) però non è equivoca e solo
la pregiudiziale diffidenza del McLynn per ogni affermazione di Ambrogio
spiega il suo sospetto. Al contrario io ritengo che proprio l’esperienza
diretta e personale delle interferenze imperiali abbiano contribuito a
stimolare in Ambrogio la volontà e l’esercizio della resistenza e a convin­
cerlo della necessità di im a rigorosa distinzione.
Dei rapporti di Ambrogio con Valentiniano I, che m orì nel 375 solo un
anno dopo la sua elezione a vescovo, non sappiamo niente ma a Valen­
tiniano I Ambrogio si riferisce a più riprese con onore rivolgendosi al
figlio, Valentiniano II, esortandolo a seguirne l’esempio e a mantenerne
la legislazione: cosi nel 384, al tempo della controversia sull’altare della
Vittoria (ep. 72 Faller = 17 Maur., 16) e nel 386, al tempo della controversia

6 Così C. Corbellini, Sesto Petronio Probo e l’elezione episcopale di Ambrogio, « Rend.


Ist Lomb.» 109, 1975, pp. 181 ss.
7 II McLynn, Ambrose of Milan, op. cit., pp. 47 ss., oltre a negare l’impegno di
Valentiniano, che sarebbe solo il fraintendimento di un rescritto col quale
l’imperatore accettava la legittimità di Ambrogio, non crede neppure alla
resistenza di Ambrogio e al suo tentativo di evitare l’elezione.
162 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

sulle basiliche (ep. 75 Faller = 21 Maur., 2; 3) in cui cita testualmente ima


disposizione dell’imperatore: in causa fidei vel ecclesiastici alicuius ordinis eum
iudicare debere qui nec munere impar sit nec iure dissimilis.
Con il successore di Valentiniano I, Graziano, i rapporti di Ambrogio
furono invece particolarmente intensi già all’indomani della sconfìtta di
Valente ad Adrianopoli: anche se il de fide del 378-379 segna l’inizio del
rapporto, ma non dell’influenza del vescovo sul giovane imperatore,
questa influenza sembra essere ormai certa al tempo del de Spiritu Sancto,
che è del 3818: fra il 380 e il 383 si colloca la rinuncia di Graziano al
pontificato massimo9 che comporta la rottura definitiva fra l’impero e il
paganesimo, che restava in qualche modo la religione ufficiale di Roma,
finché l’imperatore ne era ufficialmente il capo. La rinuncia di Graziano,
che, primo fra gli imperatori cristiani, rifiutò l’offerta della veste ponti­
ficale e la carica, riflette il pensiero di A m brogio, caratterizzato
dall’accettazione più cordiale della tradizione politica di Roma, nel rifiuto
più rigoroso della sua tradizione religiosa14. Anche se il vescovo non fu il
diretto ispiratore delle misure antipagane prese da Graziano nel 382
(è Ambrogio stesso a negarlo, ep. extra coll. 10 Faller = 57 Maur., 2), con
la rimozione dalla curia dell’altare della Vittoria e con la revoca dei
privilegi concessi ai collegi sacerdotali pagani, appare certo che queste
misure furono la conseguenza diretta del rifiuto deciso da Graziano del
pontificato massimo e della fine della finzione, che era implicita nell’as­
sunzione da parte dell’imperatore cristiano di tale carica, della dissimulatio
(Ambr. ep. 72 Faller = 17 Maur., 2), a cui dopo la m orte di Graziano si
appellerà Simmaco (Rei. 3,3), presentando com e Romanae religiones (ib. 13)

8 Cfr. P. Nautin, Les premieres relations d’Ambroise avec l’empereur Gratien, in


Y.-M. Duval (éd.), Ambroise de Milan. XVf centenaire de son élection episcopale, Études
Augustmiennes, Paris 1974, pp. 237 ss.; cfr. McLynn, Ambrose ofMilan, pp. 98 ss., che
accetta l’impostazione del Nautin per il de fide, ma nega, a mio avviso a torto,
l’influenza di Ambrogio su Graziano al tempo del de Spiritu Sancto, spostando
l’inizio di tale influenza al tempo del Concilio di Aquileia. Sulle difficoltà di
Ambrogio con Graziano al tempo del de fide, si veda ora Williams, Ambrose of
Milan... op. cit., cap. V.
9 Zosimo (4,36 ss.) ricorda la rinuncia in connessione con l’uccisione di
Graziano nell’agosto del 383. E Ausonio, che scrive fra il 380 e il 382, chiama
ancora pontifex Graziano in Grat. Act. 7,35. Sul problema si vedano J.R. Palanque,
L ’empereur Gratien, « Byzantion » 8,1933, pp. 41 ss.; M. Fonina, L ’imperatore Gradano,
Milano-Torino 1953, p. 214; M. Sordi, Cristiani e pagani dopo Costantino, in AAW .,
L ’impero... op. cit., pp. 127-129.
10 Cfr. M. Sordi, Ambrogio di fronte a Roma e al paganesimo, in G. Lazzari
(a cura di), Ambrosius Episcopus, I, Milano 1976, pp. 203 ss.
X V . I RAPPORTI DI AMBROGIO CON GLI IMPERATORI DEL SUO TEMPO 163

i culti tradizionali del paganesimo e offrendo agli imperatori cristiani la


protezione degli antichi dei (ib. 19 vos defendant a nobis colantur).
La controversia sull’altare della Vittoria fu l’occasione, per Ambrogio,
per un forte intervento su Valentiniano II, successo, ancora fanciullo, al
fratello Graziano. Fonti principali per questa vicenda sono, come è noto,
le lettere 72 e 73 Faller (= 17 e 18 Maur.) indirizzate nel 384 da Ambrogio
a Valentiniano, e il riassunto che Ambrogio stesso fa di tutta la questione
in u n ’altra lettera (ep. extra coll. 10 Faller = 57 Maur.) indirizzata nel 392
all’im peratore Eugenio, oltre alla Relatio H I di Simmaco. Uno studio
recen te11 ha mostrato - e io credo con buoni argomenti - l’importanza
che ha per la ricostruzione della decisione dell’imperatore, u n’altra opera
di Ambrogio, il De obitu Valentiniani, del luglio 392, in cui il vescovo,
facendo parlare l’im peratore, presentato, in mezzo al concistorio che era
favorevole alle richieste dei pagani, com e un nuovo Daniele, gli attri­
buisce, com e argomenti, la fedeltà alle decisioni del padre e del fratello
e 1’obsequium [...] salutis auctori, più che alla parens Roma. La ripresa di uno
dei motivi dominanti della Relatio di Simmaco, la preghiera di Roma
personificata di riavere i suoi culti, e la contem poranea ripresa di im o dei
motivi di Ambrogio della prima delle due lettere del 384 (la fedeltà
dinastica alle decisioni di Valentiniano I e di Graziano) sembrano riferire
la risposta di Valentiniano alla controversia del 384; la sottigliezza diplo­
matica della risposta, im prontata a considerazioni politiche più che a
irruenza profetica (e in contrasto col paragone di Daniele) inducono la
M oroni a ritenere che questo testo ci conservi la risposta ufficiale che il
giovane Valentiniano dette a Simmaco e al senato nel 384, ubbidendo ai
suggerimenti di Ambrogio. Risolta nel 384 con il mantenim ento delle
misure di Graziano, la controversia si ripresentò con nuove richieste dei
pagani a Teodosio e allo stesso Valentiniano nel 389 e nel 390; respinte da
questi imperatori tali richieste furono rivolte nel 392 anche all’usurpatore
Eugenio, che le soddisfece restituendo ai richiedenti, sotto forma di doni
personali, i beni confiscati dei templi; solo dopo la sconfìtta militare di
Eugenio e dei pagani al Frigido nel 394, il distacco dell’impero dall’antica
religione ufficiale appare orm ai definitivo. In effetti, ciò che i pagani
avevano cercato di ottenere con le loro richieste agli imperatori cristiani
fra il 384 e il 394, non era la tolleranza, ma il riconoscim ento che l’unica
religione pubblica era ancora quella tradizionale12: col pretesto di una

11 B. Moroni, Il conflitto per l’altare della Vittoria, «Rend. Ist. Lomb.», 1996.
12 G. Boissier, La fine del paganesimo, trad. it., 1989, p. 290; cfr. Sordi, Cristiani
e pagani... op. cit., pp. 129 ss. Non tiene conto di questo chi ancora oppone un
164 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e la tr a d iz io n e d i R o m a

concordia religiosa fondata sulla com une ignoranza del mistero, Simmaco
(Rei. 3,10) aveva insistito sull’unanimità del senato e sul dovere degli
imperatori, anche cristiani, di non rinnegare i culti di Rom a (Rei. 3,3).
Ambrogio, che in un primo m om ento aveva risposto solo generica­
m ente alle richieste di Simmaco non conoscendone il tenore, in un
secondo momento, ottenuto il testo della Relatio, le confutò puntual­
mente: al centro della seconda lettera (ep. 73 Faller = 18 Maur., 4-7) è la
famosa personificazione di Roma che rifiuta la preghiera attribuitale da
Simmaco, negando di dovere agli antichi dei le sue vittorie. Ma soprattutto
ciò che Ambrogio rifiuta è l’affermazione di Simmaco secondo cui la
religione tradizionale è ancora la religio publica dell’impero romano: ep. 73
(= 18), 22 hoc est fidelissimi principes, quod ferre non possumus, quia exprobrant
nobis vestro se nomine diis suis supplicare et vobis non mandantibus sacrilegium
immane committunt dissimulationem pro consensu interpretantes. La libertà
religiosa dei Cristiani è gravemente limitata dalla presenza in un senato,
in cui essi sono numerosi, di un altare pagano con i suoi sacrifici e i suoi
riti (ep. 73 Faller = 18 Maur., 31). Simmaco aveva attribuito al senato
unanime la richiesta della restaurazione dell’altare della Vittoria (Rei. 3,2);
questa unanimità era certamente falsa, visto che già nel 382 Papa Damaso
aveva inviato ad Ambrogio un libello, in cui i senatori cristiani negavano
di aver dato il loro consenso alla richiesta dei pagani (ep. 72 Faller =
17 Maur., 10). Non c ’è dubbio però che l’insistenza con cui negli anni fra
il 384 e il 394 l’opposizione pagana tornò a chiedere agli imperatori
cristiani il ripristino del culto pu bblico, rivela l ’influenza ch e il
paganesimo manteneva nella classe dirigente. Anche se i pagani non
formavano la totalità del senato è certo che essi ne erano ancora i membri
più prestigiosi e influenti. L ’adesione palese e impegnata alla religione
tradizionale infatti non fu mai discriminante nell’impero cristiano e la
vecchia e nuova aristocrazia rivestì in esso cariche importanti: nel 384
Simmaco era prefetto di Roma, Pretestato prefetto del pretorio, Bautone
magister equitum: in questa situazione la decisione del fanciullo Valenti­
niano, di resistere alle pressioni di un concistoro favorevole alle richieste
dei pagani, fu un gesto di coraggio (e di questo Ambrogio dà affettuo­
samente atto all’imperatore dopo la sua morte nel 392) e una grande
vittoria di Ambrogio.
Parlando del giovane Valentiniano ormai defunto nel 392, Ambrogio
preferirà ricordare la sua ferm a presa di posizione nei riguardi dei pagani
nel 384, piuttosto che lo scontro per le basiliche nel 385-386: più che con

Simmaco ‘conciliante’ ad un Ambrogio ‘intransigente’: si veda F. Lipani, La contro­


versia sull’ara Victoria, «Atene e Roma» 41, 1996, p. 78.
X V . I RAPPORTI DI AMBROGIO CON GLI IMPERATORI DEL SUO TEMPO 165

Valentiniano, lo scontro fu in effetti con la madre di lui, l’imperatrice


Giustina (l'impia materdì Ruf. H .E. 2,17) e con gli ariani, più precisamente,
gli omeisti, seguaci del concilio di Rimini, della corte di Milano: non sono
però d’accordo con la recen te impostazione del McLynn, che vede nelle
vicende del 385-386 non «u n a collisione fra Chiesa e Stato, ma solo un
conflitto fra gruppi rivali » 13, e che si ostina a chiamare « congregazione
di Am brogio» la Chiesa milanese riunita in tom o al suo vescovo, soprav­
valutando - io credo - ciò che ancora rimaneva, al di fuori della corte,
del vecchio clero om eista fedele al predecessore di Ambrogio. Vescovo
dal 374, Ambrogio aveva avuto tutto il tempo per eliminare nel clero
milanese ogni residuo di omeismo; in quanto al popolo, che era stato con
lui fin da principio, esso si strinse compatto in questa occasione intorno
al suo vescovo e non soltanto, com e ritiene il McLynn (ib. 203), perché
questo si era fatto portavoce di u n ’opposizione politica. Il valore religioso
e spirituale di questa intesa di Ambrogio col suo popolo è rivelato, a mio
avviso, da im a fonte insospettabile di sottintesi politici, l’Agostino delle
Confessioni, che dell’occupazione delle basiliche fu testimone a Milano,
poco prima della sua conversione. Agostino, che allo scontro di Ambrogio
con Giustina dedica solo poche righe (conf. 9,7: «era passato un anno o
poco più da quando Giustina aveva preso a perseguitare il tuo Ambro­
g io »), ricorda invece com e decisivi per la sua conversione gli incontri con
Am brogio in mezzo al suo popolo, quando lo ascoltava «m en tre
conversava pubblicam ente» (ib. 5,13), quando lo ascoltava con gioia «nei
suoi discorsi al popolo», m entre spiegava che «la lettera uccide, lo spirito
vivifica» (ib. 6,4), quando egli stesso, non ancora convertito, piangeva a
dirotto durante il canto degli inni e « il popolo devoto vegliava in chiesa,
pronto a m orire col suo vescovo» (ib. 9,7).
Lungi dal rappresentare lo scontro fra due comunità cristiane rivali
esistenti a Milano da tem po, la vicenda che culminò con l’occupazione
delle basiliche ebbe origine con la venuta a Milano, come ospite della
corte, alla fine del 384, di Mercurino Aussenzio, vescovo omeista di
Durosturum, deposto da Teodosio, con la richiesta, già nel 385, da parte
della corte, della cessione di una basilica, e col rifiuto di Ambrogio.
Alla fine del 385 la corte, che nel frattempo era andata ad Aquileia,
tornò a Milano e il 23 gennaio del 386 una costituzione imperiale
(Cod. Theod. 16,1,4) proclam ò la libertà di culto, minacciando la pena di
morte a chi avesse tentato di impedirla con raggiri. La basilica in cui gli

13 McLynn, Ambrose of Milan... op. cit., p. 220. Per la sua ricostruzione de


vicenda delle basiliche si veda ib. pp. 170 ss. Sul revival degli Omeisti a Milano
nel 386-387 cfr. Williams, Ambrose of Milan... op. cit., cap. VII.
166 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R om a

ariani avrebbero dovuto esercitare la loro libertà di culto era la Por­


ziana, fuori delle mura, la cui identificazione (San Vittore al Corpo o
San Lorenzo) resta del tutto incerta, m a che il McLynn propende
senz’altro ad identificare con San Lorenzo, insistendo sulla sua origine di
mausoleo imperiale e di cappella di Palazzo, che avrebbe reso legittima la
richiesta dell’imperatore e illegittimo il rifiuto di A m brogio14. Anche se la
fonte pressoché unica della vicenda resta Ambrogio (con il sermo contra
Auxentium e due lettere, quella a Valentiniano del marzo 386 [ep. 75 Faller
= 21 Maur.] e quella alla sorella Marcellina [ep. 76 Faller = 20 Maur.]
dell’aprile dello stesso anno, quando la controversia si era, almeno
apparentemente, conclusa con la rinuncia dell’im peratore), la ricostru­
zione che Ambrogio dà della sequenza dei fatti e delle sue prese di
posizione appare degna di fede, sia perché, soprattutto nella lettera a
Marcellina, che è strettamente confidenziale, Ambrogio presenta ovvia­
m ente il suo punto di vista, ma non ha alcun motivo per m entire, sia
perché egli non oscura mai, con le reazioni della corte, le accuse che gli
furono mosse. Nella lettera a Valentiniano c ’è il famoso rifiuto di
Ambrogio di discutere la controversia nel consistorium, alla presenza
dell’imperatore, dopo avere scelto, al pari di Aussenzio, dei giudici. Ma
Ambrogio cita una disposizione di Valentiniano I, secondo cui in questioni
riguardanti la religione i sacerdoti devono essere giudicati solo da
sacerdoti e conclude: « io non posso m ettermi a questionare nel Palazzo,
perché io gli intrighi del Palazzo né li cerco né li conosco». Dalla lettera
a Marcellina che della vicenda sino alla sua conclusione ci conserva una
versione colorita e certam ente non ufficiale risulta che nel periodo
immediatamente precedente alla Pasqua del 386 l’ordine di consegna
riguardava non più soltanto la basilica Porziana, ma anche la basilica nova,
che si trovava entro le mura ed era la maggiore: Ambrogio aveva risposto
che un vescovo non può consegnare un tempio che appartiene a Dio
(è il motivo della traditio). Il prefetto del pretorio fece opera di persua­
sione « perché almeno ci ritirassimo dalla Porziana, m a il popolo protestò,
cosicché il prefetto del pretorio si ritirò dicendo che avrebbe fatto
rapporto all’imperatore ». Durante la Settimana Santa, dopo gli incidenti
scoppiati nella basilica nova mentre gli inviati della corte stendevano le
cortine per indicare la requisizione della basilica, la corte cercò di scorag­
giare il popolo colpendo con multe altissime i comm ercianti, m a riuscì
solo ad aumentare la tensione e la protesta popolare. Il m ercoledì santo

14 Così McLynn, Ambrose of Milan, op. cit., p. 176; 190. Ma per la datazione
San Lorenzo al V secolo si veda ora M. Sannazzaro, Considerazioni sul cimitero
milanese ad Martyres, «Aevum» 70, 1996, p. 84 e n. 20 con bibliografìa.
xv. i r a p p o r t i d i Am b r o g i o c o n g l i im p e r a t o r i d e l suo t e m p o 167

( l 2 aprile del 386), m entre la basilica nova era assediata dalle truppe e lo
stesso Ambrogio col popolo si trovava bloccato nella vetus, la tensione
divenne estremamente grave; alcuni ragazzi, per scherzo, strapparono le
cortine, una parte dei soldati dopo aver avvertito l’imperatore che lo
avrebbero obbedito solo se lo avessero visto con i cattolici alle sacre
funzioni, si im i al popolo che occupava le basiliche, e, dalla corte, partì
contro Ambrogio l’accusa di essere un usurpatore (tyrannus). Il giovedì
santo, improvvisamente, m entre Ambrogio leggeva il libro di Giona,
giunse la notizia che l ’im peratore aveva dato ordine ai soldati di togliere
il blocco ed aveva fatto restituire ai commercianti le somme confiscate.
«Allora compresi - conclude Ambrogio riprendendo il libro di Giona -
che il Signore aveva ucciso il verme antelucano, affinché tutta la città
fosse salva».
Lo scontro con la corte era finito con la vittoria di Ambrogio, ma
la pacificazione era solo apparente: l’urto con Giustina era ancora in
atto al tempo della scoperta e della deposizione dei martiri (17-19 giugno
del 386), che Ambrogio, nella lettera alla sorella (ep. 77 Faller = 22 Maur.)
ricorda com e praesidia maiora, propugnatores [...] qui propugnare possint,
impugnare non soleant [...] stipatores meos. Per essi egli non teme l’invidia:
la terminologia consueta del discorso politico trova la sua piena spiega­
zione nell’accusa di essere un tyrannus (usurpatore) che la corte aveva
poco prima rivolto ad Ambrogio per avere organizzato la resistenza
popolare nelle basiliche occupate. In questa atmosfera polem ica si
intende, a mio avviso, la seconda ambasceria affidata dalla corte ad
Ambrogio presso Magno Massimo,5. Magno Massimo, di origine spagnola,
m a comandante degli eserciti rom ani in Britannia, era stato da questi stessi
eserciti acclamato imperatore nel 383 ed era stato responsabile dell’ucci­
sione di Graziano, compiuta da Andragazio nello stesso 383. Ambrogio,
com e risulta da una sua lettera a Valentiniano II (ep. 30 Faller = 24 Maur.)
e da un passo del De obitu Valentiniani (28), scritto nel 392, era stato due
volte in missione da Massimo: n ell’autunno del 383, subito dopo la morte
di Graziano, per trattare la pace con l’usurpatore e ottenere che non
invadesse l’Italia col suo esercito, e in un secondo m omento, che alcuni
datano nel 384, altri fia il 385 e il 38616: io credo che la collocazione

15 Sulla data della seconda missione di Ambrogio presso Massimo si veda


M. Sordi, Magno Massimo e l’Italia settentrionale, «Ant. Altoadr.» 22, 1982, pp. 51 ss.;
pp. 58 ss.
16 Cfr. A. Paredi, S. Ambrogio e la sua età, Milano 1960, p. 354; D. Vera, I rapporti
fra Magno Massimo, Teodosio e Valentiniano II nel 383-384, «Athenaeum» 73, 1975,
pp. 270 ss. e p. 297. Anche il McLynn sembra propendere per il 384. Al tardo 385
168 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m br o g io e la tr a d iz io n e d i R om a

cronologica della missione debba tener conto della situazione politica che
la lettera 30 Faller (il nostro docum ento più interessante) sottintende: essa
rivela infatti una forte tensione fra Ambrogio e la corte imperiale e il
timore di accuse (ib. 1): ne cuiusquam sermo veri prius vana intexeret, quam
reditus mens integra et sincera ventatis expressa signaculo manifestaret. Ambrogio
sa di avere dei nem ici a corte e previene le accuse sottolineando la sua
fides, rivelata già dalla sua prima ambasceria (ib. 1;5;6).
La stima che in questa lettera Ambrogio rivela per Bautone e l’elogio
della sua devotio verso l’im peratore e, soprattutto, il fatto che lui e Bautone
sono accomunati dall’accusa di Massimo per averlo ingannato nella prima
legazione (ib. 4 e 6), contribuiscono ad escludere che la tensione fosse con
i pagani della corte, irritati per la controversia dell’altare della Vittoria del
384. Le lamentele di Massimo per la prima legazione erano invece attuali
n ell’aprile del 386, al tempo del conflitto per le basiliche (ep. 76 Faller,
23 = 20 Maur.), anche se, a quell’epoca, i rapporti fra Ambrogio e Mas­
simo non erano ancora compromessi, cosicché Ambrogio poteva la­
sciare intendere a Valentiniano che la sua posizione era condivisa, oltre
che da Teodosio, anche dalle Gallie e dalle Spagne, cioè da Massimo
stesso (ep. 75 Faller, 14 = 21 Maur.). La tensione rivelata dall’ep. 30 Faller
(= 24 Maur.) e l’insistenza con cui Ambrogio parla del suo dissenso con
Massimo e della sua fides nei riguardi di Valentiniano, non si spiegano nel
384, ma si spiegano assai bene nel 386, dopo il conflitto per le basiliche,
o addirittura, nel 387, nell’imminenza della guerra che Massimo mosse
contro Valentiniano costringendolo a rifugiarsi a Tessalonica e a solle­
citare l’intervento di Teodosio: si capisce, alla luce di questa datazione,
l’esortazione a Valentiniano con cui Ambrogio conclude la sua lettera:
vale imperator et esto tutior adversus hominem pacis involucro bellum tegentem
(ep. 30,13), che può essere accostato al sub nomine pacis con cui Pacato, nel
suo Panegirico, scritto nel 389, dopo la vittoria di Teodosio su Massimo e
la m orte di quest’ultimo, introduce il racconto dell’ultima spedizione
dell’usurpatore.
Questo non è d’altra parte l ’unico punto di contatto fra la lettera di
Ambrogio e il pensiero di Latinio Drepanio Pacato: la condanna dei
vescovi gallici per le loro accuse ai Priscillianisti davanti al tribunale di
Massimo si manifesta con argomentazioni molto simili nella lettera a
Valentiniano sulla seconda legazione (ep. 30 Faller, 12), nella seconda

o al 386 pensa invece J.F. Matthews, Western Aristocrades, Oxford 1975, p. 180, n. 6.
Su tutto il problema si vedaJ.R. Palanque, L ’empereur Maxime, in AA.W., Les empe-
reurs romains dEspagne, Paris 1965, pp. 259 ss.
X V . I r a p p o r t i d i A m b r o g i o c o n g l i im p e r a t o r i d e l s u o t e m p o 169

lettera a Studio (che è pure del 386-387: ep. 68 Faller = 26 Maur., 3) e nel
Panegirico di Pacato a Teodosio (Pan. 2 9 ,3 )17.
Ambrogio, che nella prima lettera a Studio (ep. 50 Faller = 25 Maur.),
che lo aveva interrogato sulla liceità per un magistrato cristiano di pronun­
ciare sentenze capitali, aveva risposto raccomandando di non applicare la
pena di morte, m a aveva anche aggiunto di non poter scomunicare chi
l’avesse applicata, com e volevano gli eretici, per rispetto àeW auctoritas
dell’Apostolo (san Paolo), nella seconda lettera riprende il problem a per
condannare quei vescovi che sollecitavano sentenze capitali da tribunali
dello stato contro i Priscillianisti, anche se eretici (devios licet afide) e per
assimilarli a quei Giudei che volevano la lapidazione dell’adultera; lo stesso
scandalo nei riguardi dell 'accusator sacerdos si avverte nel pagano Pacato
(Pan. 29,3). Identità di vedute fra Ambrogio e Pacato si avverte nello
sdegno per la m orte di Vallione, fedele collaboratore di Graziano,
costretto al suicidio da Massimo (Pacat. Pan. 28,4; Ambr. ep. 30 Faller,
11 = 24 Maur.) e nella descrizione della vittoria di Teodosio su Massimo
e degli aspetti miracolosi di questa vittoria, di cui il vincitore deve essere
grato a Cristo (Ambr. ep. 74 Faller, 22 = 40 Maur.) o alla Fortuna (Pacat.
Pan. 32,3 ss.)18.
I contatti anche verbali fra Ambrogio e il panegirista pagano sono co
precisi che mi hanno in d otto19 a postulare una conoscenza diretta fra i
due, im a conoscenza che potrebbe risalire proprio alla seconda legazione
di Ambrogio in Gallia. I paragrafi centrali del Panegirico di Pacato, che era
un maggiorente gallico, sono dedicati ai mali della Gallia e all’interces­
sione per gli innocenti fautori di Massimo (23-29), ingannati dal ritardo di
Teodosio e convinti forse di una sua connivenza con l’usurpatore.
Ambrogio, che si im pegnerà a fondo nel 394 dopo il Frigido, per ottenere
il perdono di Teodosio per i fautori di Eugenio, nel 390, al tempo di
Tessalonica, aveva già avuto modo di sperimentare l ’efficacia della sua
intercessione presso Teodosio (ep. extra coll. 11 Faller, 11 = 51 Maur.).
È probabile che tale intercessione sia stata esercitata soprattutto a favore
dei comites di Massimo, che Ambrogio aveva conosciuto al tempo della sua
missione presso l’usurpatore e fra i quali doveva trovarsi anche Pacato.
Questo spiega perché Pacato abbia esitato a farsi portavoce di idee e di
giudizi di Ambrogio in un periodo in cui Teodosio, adirato con Ambrogio

17 Cfr. M. Sordi, I rapporti tra Ambrogio e il panegirista Pacato, « Rend. Ist.


Lomb.» 122, 1988, pp. 93 ss.
18 L'ep. 74 Faller è dedicata alla questione della sinagoga di Callinico, su cui
si veda ora McLynn, Ambrose of Milan, op. cit., pp. 298 ss.
19 Cfr. supra n. 17.
170 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

per la questione di Callinico, lo teneva all’oscuro delle sue decisioni


(Ambr. ep. extra coll. 11 Faller, 2 = 51 Maur.).
Siamo arrivati così alla strage di Tessalonica e alla penitenza che ne
seguì. Il McLynn, che si occupa ampiamente della vicenda, dei disordini
nell'illirico, che avevano preceduto i tumulti nel circo di Tessalonica, nella
quale Buterico perse la vita, e del precedente di Antiochia (Ambrose of
Milan, 316 ss.), osserva che per la strage e la penitenza di Teodosio non
ci sono fonti alternative a quelle cristiane (ib. 328) e sottolinea la trasfor­
mazione, ad opera di Ambrogio, di un evento politico in una lezione di
morale, concludendo che, grazie ad Ambrogio, che si rivelò un super
impresario dell’impero cristiano, la catastrofe fu trasformata in un trionfo
per le pubbliche relazioni dell’im peratore (ib. 323; 330). Questa impres­
sione potrebbe avere una certa validità se della strage e della penitenza di
Teodosio avessimo soltanto la versione del De obitu Theodosii, che il vescovo
pronunziò nel 395, di fronte alla corte e ai soldati, dopo la morte
dell’imperatore. Nel De obitu, che ci conserva il primo bilancio della svolta
religiosa di Costantino e della storia dell’impero rom ano cristiano, da
Costantino «ch e primo fra gli imperatori credette e lasciò dietro di sé
l’eredità della fede» a Graziano e a Teodosio (40-51), il ricordo della
strage e della penitenza imperiale non viene diplomaticamente oscurato,
com e indegno della maestà dell’im peratore, ma viene anzi portato in
piena luce, diventa motivo di lode per l’umiltà di un imperatore che al
pari del biblico David aveva saputo sottomettersi a Dio, riconoscere il pro­
prio peccato e chiederne il perdono (27); il caso di Teodosio si inquadra
così, perfettamente, nel racconto dell 'inventio crucis che occupa l’ultima
parte del discorso e illumina il motivo del potere incoronato e frenato, che
scaturisce dall’utilizzazione dei chiodi della croce ritrovata e che costi­
tuisce per Ambrogio la differenza fra l’impero cristiano e quello pagano2#.
Ma il De obitu, scritto cinque anni dopo i fatti, è un ripensamento di
essi in chiave di teologia politica: ben diversa era la situazione del 390,
quando Ambrogio, informato dell’eccidio in un periodo in cui Teodosio,
irritato per il suo intervento sulla vicenda di Callinico, lo teneva lontano

20 Cfr. M. Sordi, Dall’elmo di Costantino alla corona ferrea, in G. Bonamente


F. Fusco (a cura di), Costantino il grande, Macerata 1993, pp. 883 ss. Sull’mira «io
crucis si vedano ora V. Neri, La figura di Costantino negli scrittori latini cristiani deU’età
di Onorio, in Simblos. Scritti di Storia Antica, 1, Bologna 1995, pp. 243 ss. e C. Curti,
L ’inventio crucis nell’epistola 31 di Paolino di Nola, «Orpheus» 17, 1996, pp. 337 ss. e,
molto brevemente, M. Biermann, Die Leichenreden des Ambrosius von Mailand,
Stuttgart 1995, pp. 185-188 (secondo cui la leggenda di Elena è stata introdotta in
funzione della citazione di Zaccaria).
X V . I r a p p o r t i d i A m b r o g i o c o n g u im p e r a t o r i d e l s u o t e m p o 171

dalle sue decisioni, sentì solo com e un duro dovere'l’esplicazione di quella


Ubertas dicendi, che egli aveva sempre affermato com e diritto-dovere del
vescovo e che proprio al tempo della vicenda di Callinico aveva più
chiaramente esplicitato: Quid tibi verum audebit dicere si sacerdos non audeat?
(ep. 74 Faller = 40 Maur., 4). Nella lettera del 390 la Ubertas dicendi perde
però ogni torto rivendicativo e diventa il com pim ento umile, m a fermo,
di un impegno al quale non è lecito sottrarsi (ep. extra coll. 11 Faller,
17 = 51 Maur. si crederis sequere, si, inquam, agnosce quod dico, si non credis
ignosce quod facio, in quo Deum praefero).
La teatralità che il McLynn crede di poter riconoscere in questo
intervento di Ambrogio è del tutto assente da questa lettera, dal suo inizio,
che com incia col ricordo di una vecchia amicizia, aH’affermazione del
paragrafo 14: postremo scribo manu mea quod solus legas.
Ambrogio è ben consapevole del pericolo che corre e scrive con
discrezione e con tim ore: la colpa commessa da Teodosio era stata una
colpa personale, m a non era la colpa di un privato, m a di un imperatore.
Haec ideo scripsi non ut te confundam sed ut [ ...] tollas hoc peccatum de regno
tuo (ib. 11). Come nel caso di Filippo l’Arabo, che, primo fra gli impe­
ratori cristiani, secondo u na notizia di Eusebio (H .E . 6,34), aveva
confessato il suo peccato e si era messo fra i penitenti (per avere
organizzato, a quanto sembra, la sommossa militare che aveva provocato
la morte di Gordiano III), così, nel caso di Teodosio, la colpa dell’impe­
ratore non riguardava in modo specifico la morale cristiana, m a era
riconosciuta tale anche dai pagani (che, a proposito di Costantino,
avevano accusato il Cristianesimo di concedere un facile perdono a colpe
inespiabili) e riguardava in modo specialissimo la gestione del potere
imperiale. La Ubertas dicendi del sacerdos diventa qui veramente il banco di
prova di un potere non tirannico, il presidio ultimo della libertà. Il do­
vere di ricordare alla maxima potestas i limiti che ad essa impone la legge
divina e naturale diventa il filo conduttore di tutti gli interventi di
Ambrogio davanti agli imperatori: ci ritroviamo così di fronte al motivo
dominante del De obitu Theodosii, il motivo del potere coronato e frenato
dai chiodi della croce, grazie al quale l’imperatore romano-cristiano da
autocrate legibus solutus, al quale tutto è lecito per potestatem, tom a ad
essere, com e il rex delle api celebrato nell 'Esamerone, com e il biblico David
degli scritti esegetici, non solo l’imperatore devoto, misericordioso, fedele
(obit. Theod. 12), m a anche il princeps che antepone la res publica agli
interessi e agli affetti più cari (ib. 55), che non è super leges, ma sopra il
quale sono le leggi (Plin. Pan. 65,1; cfr. 24,4) secondo l’ideale augusteo e
traianeo. Ancora una volta il vescovo Ambrogio pensa e opera, con la forza
nuova che gli viene dal Cristianesimo, nella miglior tradizione romana e
la rinnova dandole vitalità.
XVI.
LA M ORTE DI TEO D O SIO E IL DE OBITU THEODOSII
DI AMBROGIO

Teodosio m orì a Milano nel gennaio del 395 e nel De obitu Theodosii,
il discorso funebre pronunziato davanti alla corte e ai soldati, Ambrogio
tracciò per la prima volta, in chiave teologica, la storia deU’impero
cristiano.
Ma non sul problem a della difesa militare e della stabilità politica che
Ambrogio - che pure non sottovaluta i problemi militari e politici
dell’impero e che considera le guerre un tributo doloroso, ma neces­
sario e per questo m eritorio, pagato da Teodosio al suo dovere di
imperatore, com e il giogo che Cristo rende suave et leve (ib. 51) - si
sofferma nel suo bilancio del primo secolo dell’impero cristiano. Egli
attira invece l’attenzione sulla natura stessa del potere che gli imperatori
possiedono e collega la rinnovata vitalità di questo potere con il ritrova­
m ento della croce. Tutto il racconto dell’ inventio crucis, che occupa
l’ultima parte del De obitu Theodosii, è stato considerato in passato1 u n ’ag­
giunta dello stesso autore, al m om ento della redazione definitiva; in realtà
esso rappresenta, com e è stato giustamente osservato2, la legittimazione
dell’im peratore cristiano e costituisce il vero argom ento dell’intero
discorso, così da fare di esso una sintesi della teologia politica della fine
del IV secolo: il significato di tutto l’excursus ambrosiano sull’inventio crucis
e della strana esegesi della profezia di Zaccaria, che appariva ridicolo al
filologo S. Girolamo, è la redenzione dell’impero e degli imperatori
ottenuta da Elena col dono divino al figlio Costantino dei chiodi della
croce, trasformati, l’uno in freno, l’altro (e qui è la variante più impor­
tante che la versione di Ambrogio dell’ inventio presenta rispetto a Paolino

* «Acta Class. Univ. Debreceniensis » 36, 2000, pp. 131-136.


1 L. Laurand , L ’oraison funèbre de Théodose par saint Ambroise, «Rev. Hist. Eccl.»
17, 1920, pp. 349-350; C. Favey, L ’épisode de l’invention de la croix, «Rev. Et. Lat.» 10,
1932, p. 423.
2 G. Bonamente, Potere politico e autonomia religiosa, voi. 30 della collana Italia
Scura, I, Roma 1979, pp. 126 s., n. 125.
174 M a r t a S o r d i , Sa n t ’A m b r o g io e l a tr a d iz io n e d i R o m a

e a Rufino, che parlano di e lm o )3 in corona. Forte dell’aiuto che gli veniva


da quei doni, Costantino fidem transmisit ad posteros reges (ib. 41). Ambrogio
chiarisce poi e sviluppa nei paragrafi successivi il principio che sta alla base
della grande svolta e rivela la sua concezione del Potere nei suoi rapporti
con Dio, da cui deriva e con i sudditi, sui quali viene esercitato. Partico­
larmente importante mi pare il par. 48: «Agì sapientemente Elena, che
pose la croce sulla testa dei re, affinché la croce di Cristo sia adorata nei
re. Non è insolenza questa, ma pietà... »: bonus itaque clavus Romani imperi
qui totum regit orbem, ac vestit principum frontem; ut sint praedicatores qui
persecutores esse consueverunt. Recte in capite clavus, ut ubi sensus est, ibi sit
praesidium. In vertice corona, in manibus habena. Corona de cruce, utfides luceat;
habena quoque de cruce ut potestas regat: sitque insta moderatio non iniusta
praeceptio.
Corona-diadema e morso erano stati, già nell’antica Grecia, simboli del
potere; l’immagine del clavus imperii era ben nota a Cicerone (Sest. 9,20).
In Ambrogio la trasformazione dei chiodi della croce in corona e in morso
fonda un nuovo rapporto del Potere con Dio e con i sudditi.
Il motivo del potere com e servizio, caro alla migliore tradizion
romana, anche se spesso obliterato nella prassi, riem erge con un signi­
ficato nuovo, che Ambrogio coglie soprattutto nel simbolo del chiodo
trasformato in morso: ib. 50 Quare sanctum supra frenum, nisi ut imperatorum
insolentiam refrenaret, comprimeret licentiam tyrannorum... dei Neroni, dei
Caligola, degli altri di cui sono note le gesta vergognose (probra). Il potere,
in quanto tale, coronato e, nello stesso tempo, frenato, dai simboli della
passione di Cristo, riceve così la sua autentica legittimazione nell’atto
stesso in cui accetta di rim anere nei limiti impostigli da Dio e di non
divenire arbitrio.
Per questo il dono di Elena a Costantino non è più un dono personale,
come l’elmo della versione più antica, ma vestit principum frontem (ib. 48);
è un dono che Costantino trasmette ad posteros reges (ib. 47). Eredità nella
fede e legittimità nella successione imperiale (che non è una successione
dinastica: tanto è vero che ne resta fuori il costantinide Giuliano) sono i
motivi dominanti che aprono e chiudono l’excursus sull’inventio crucis e
danno ad esso unità: con la trasformazione dei chiodi in morso e in
corona nasce l’impero romano-cristiano.
Il motivo del potere coronato e frenato, di un potere che riconosce
limiti che gli sono imposti dalla legge di Dio, da cui trae la sua legitti­

3 Cfr. M. Sordi, La tradizione dell’inventio crucis in Ambrogio e in Rufino, « R


Stor. Ch. It.» 46, 1990, pp. 1 ss.; Ead., Dall’elmo di Costantino alla corona ferrea, in
AA.W., Costantino il Grande, Macerata 1993, pp. 883 ss.
X V I. L a m o r t e d i T e o d o s i o e i l D e o b it u T h e o d o sii d i A m b r o g io 175

mazione, e che proprio per questo, non diventa arbitrio tirannico, è la


chiave di lettura di un avvenimento fondam entale nei rapporti fra
Ambrogio e Teodosio, la strage di Tessalonica e la penitenza che ne seguì.
In un discorso che è un altissimo elogio dell’imperatore defunto e che è
tenuto, come ho già detto, davanti alla corte e ai soldati, di cui sollecita
la lealtà verso i successori ancora fanciulli, in un discorso che ne celebra
le vittorie e le virtù, fra cui, non ultime, la clemenza, e la misericordia e
la giustizia (13-25) il ricordo della strage del 390 e della penitenza che ne
seguì non viene diplomaticamente oscurato, com e cosa indegna della
giustizia o della maestà dell’imperatore, ma viene anzi portato in piena
luce, diventa motivo di lode per l’umiltà di un imperatore che, al pari di
David, aveva saputo sottomettersi a Dio, riconoscere il proprio peccato e
chiederne perdono (ib. 27); esso ritorna nella sequenza incalzante (33 ss.)
che accompagna l’ingresso di Teodosio nella luce perpetua e nella
tranquillità senza fine (quella appunto da cui siamo partiti per la celebra­
zione dell’im pero cristiano e per V excursus dell’ inventio crucis) e nella quale
Ambrogio, riprendendo il tema del dilexi (ho amato) del salmo 116 (114)
con cui, nei parr. 17 ss. del De obitu legge in chiave biblica tutta la vita di
Teodosio, enum era i motivi dei suo affetto per l’imperatore: « Ho amato
quest’uom o» (33; 34; 35; 37). Nel paragrafo 34 anche il ricordo della
penitenza dopo la strage di Tessalonica diventa occasione di lode affet­
tuosa (ib. 34): «H o amato quest’uomo che preferiva chi lo rimproverava
a chi lo adulava... Egli abbassò fin nella polvere ogni insegna regale...
pianse il proprio peccato, che pure lo aveva colto di sorpresa perché altri
lo aveva male informato... M entre i privati si vergognano di far pubblica
penitenza, lui, che era l ’imperatore, non se ne vergognò e, in seguito, non
ci fu più un giorno in cui non provasse rincrescim ento per quell’errore.
E che dire del fatto che egli, dopo aver ottenuto una splendida vittoria
(quella del Frigido), tuttavia, poiché i nem ici erano stati abbattuti in
battaglia, volle astenersi dal partecipare con gli altri ai sacri misteri, fin
quando, col ritorno dei figli sani e salvi, non ebbe un segno del perdono
del Signore?».
Ambrogio accosta in questo passo due ‘penitenze’ di Teodosio nate
da situazioni e da motivi molto diversi: quella, necessaria e imposta, che
seguì alla strage di Tessalonica, un eccidio compiuto dopo ima sedizione
(e l’uccisione di un alto ufficiale teodosiano, Buterico), ma senza fare
alcuna distinzione fra colpevoli e innocenti, e quella del tutto volontaria,
che Teodosio liberam ente si impose con l’astensione dai sacramenti, dopo
la vittoria del Frigido e la strage, compiuta in guerra, dei suoi nemici:
Ambrogio è perfettam ente consapevole della differenza (nella lettera a
Paterno [58 Faller = 60 Maur.] egli invita a chiamare le cose col loro nome:
hostem ferire victoria est, reum aequitas, innocentem homicidium) e accosta i due
176 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R om a

episodi solo per mostrare la profondità del pentim ento di Teodosio e il


dolore che provocava in lui ogni spargimento di sangue anche legittimo.
Ambrogio non negava affatto all’imperatore il diritto di punire anche con
la morte gli autori di delitti o di sedizioni. Sebbene in off. 2,21,102 (di poco
anteriore ai fatti di Tessalonica: è del 389-390), egli ritenga dovere di un
sacerdos sottrarre con la sua intercessione alla morte i condannati, egli
aggiunge subito, nel medesimo contesto, che ciò va fatto sine perturbatione,
perché non sembri che sia fatto iactantiae magis causa quam misericordiae.
E nella lettera a Studio (ep. 50 Faller = 25 Maur.) del 387 o del 386
(al tempo dei processi contro i Priscillianisti)4, pur sconsigliando la pena
di morte, aveva ricordato che nella tradizione apostolica il timore della
spada serviva a trattenere lo scelerum furor e che negare la com unione ad
un giudice che avesse pronunziato una sentenza capitale, come volevano
certi eretici, sarebbe apparso com e la vendetta della pena inflitta al
colpevole ( criminosorum vindicata poena).
Ciò che rendeva particolarmente grave il fatto di Tessalonica (ep. extra
coll. 11 Faller = 51 Maur., 6 factum est in urbe Thessalonicensium quod nulla
memoria habet) è - dice nella stessa lettera del 390 (ib. 12) Ambrogio
all’imperatore - che tu, qui singulos nocentes non patiebaris periclitari, tot
perisse non doleas innocentes. Per questo Ambrogio non aveva potuto offrire
il sacrifìcio della messa alla presenza di Teodosio, colpevole di avere ucciso
degli innocenti: ib. 13 an quod in unius innocentis sanguine non licet, in
multo/rum licet; non puto. La colpa di Teodosio era stata una colpa
personale, ma non era la colpa di un privato, ma di un imperatore: ib. 11
haec ideo scripsi non ut te confundam, sed ut... tollas hoc peccatum de regno
tuo, tolles autem humiliando deo animam tuam. Homo es et tibi venit temptatio.
Vince eam.
La colpa di Teodosio era una colpa politica e pubblica: credo valga la
pena di ricordare un precedente spesso dimenticato della colpa e della
penitenza di un imperatore cristiano5: è il caso di Filippo l’Arabo che,
dopo aver organizzato, com e prefetto del pretorio, la sommossa militare
che uccise nel 244 Gordiano, volle secondo Eusebio (H .E. 6,34) entrare
in chiesa per partecipare ai riti della Pasqua, ma fu respinto dal Vescovo
(S. Babila secondo il Crisostomo) « finché egli non confessò il suo peccato

4 M. Sordi, La lettera di Ambrogio a Studio e il problema della pena di morte, « St


Tardoantichi» 7, 1989, pp. 275 ss.
6 Nega l’adesione al cristianesimo di Filippo G. Arca, Filippo VArabo, «R
Stor. Ch. It.» 53, 1990, pp. 383 ss. che ritiene Filippo solo filocristiano. Non mi
convince però, oltre al resto, la sua interpretazione del tcatéxei Xàyoq di Eusebio
(p. 397, n. 75).
X V I. L a m o r t e d i T e o d o s i o e i l D e o b it u T h e o d o sii d i A m b r o g io 177

(è^oiio^oYTiaaoSai) e non si mise fra i penitenti ». Nel caso di Filippo come


in quello di Teodosio la colpa dell’imperatore non riguardava in modo
specifico la morale cristiana, ma era riconosciuta tale anche dai pagani
(che, nel caso di Costantino, accusavano il cristianesimo di concedere un
facile perdono a colpe inespiabili) e toccava in modo specialissimo la
gestione del potere imperiale. E proprio il carattere politico e pubblico del
peccato e della penitenza di Teodosio, che rievocato in onore dell’impe­
ratore stesso nel De obitu giustifica e illumina il motivo del potere coronato
e frenato dell’excursus sull 'inventio crucis sul freno imposto ali’insolentia
imperatorum e alla licentia dei tiranni. Qualche volta si accusa Ambrogio di
avere indebolito l ’autorità dello stato imponendo la penitenza pubblica ad
un imperatore, qualche volta, invece, lo si critica per avere assimilato
troppo poco lo spirito nuovo del Vangelo, accettando la legittimità della
pena di morte e della guerra. In realtà Ambrogio è pienamente coerente
sia con la tradizione religiosa della Chiesa, sia con la tradizione giuridica
romana. L ’intransigenza, peraltro affettuosa e rispettosa con cui egli
chiese nel 390 la penitenza per il massacro di Tessalonica, compiuto per
un m oto di ira, al di là di ogni legittima applicazione della legge e di ogni
valutazione di innocenza e di colpa, è pari al rispetto che egli manifesta
per i diritti e i doveri dello stato nell’esercizio anche armato delle proprie
funzioni in difesa dei bene com u ne6. Ciò che Ambrogio contesta non è
il potere dell’im peratore, m a la pretesa dei cortigiani imperiali secondo
cui imperatori licere omnia. Questa presa di posizione, già presente nelle
lettere a Valentiniano II per l’altare della Vittoria, ritorna nella lettera allo
stesso Valentiniano II per la questione delle basiliche del 386; ritorna, con
la formulazione più ampia del dovere della libertas dicendi del vescovo nella
faccenda di Callinico (ep. 74 Faller = 40 Maur., 2): sed neque imperiale est
Ubertas dicendi negare neque sacerdotale quid sentiat non dicere... Siquidem hoc
interest inter bonos et malos principes, quod boni Ubertatem amant, servitutem
improbi. Ed ancora (ib. 4): quid tibi verum audebit dicere si sacerdos non audeat.
Nella lettera del 390 (51 Maur.) questo diritto/dovere della libertas dicendi
perde ogni tono rivendicativo e diventa il compimento umile ma fermo
di un dovere imprescindibile (ib. 17): si crederis sequere, si inquam, nosce quod
dico, si non credis ignosce quod facio, in quo deum praefero. La Ubertas dicendi
dei sacerdos diventa così per Ambrogio il banco di prova di un potere non
tirannico, il presidio ultimo della libertà; il dovere di ricordare alla maxima

6 La teatralità che N.B. McLynn, Ambrose of Milan, Berkeley-Los Angeles 19


pp. 316 ss. crede di cogliere nell’intervento di Ambrogio è del tutto assente in
questa lettera; cfr. M. Sordi, I rapporti di Ambrogio con gli imperatori dei suo tempo, in
AA.W., Nec timeo mori, Milano 1998, pp. 116 ss.
178 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

potestas i limiti che ad essa impone la legge divina e naturale diventa il filo
conduttore di tutti gli interventi di Ambrogio davanti agli imperatori.
La Ubertas dicendi diventa il mezzo grazie al quale l’im peratore romano
cristiano da autocrate legibus solutus al quale tutto è lecito per potestatem
tom a ad essere, come il rex delle api celebrato n ell'Esamerone, com e il
biblico David degli scritti esegetici, il princeps dell’ideale augusteo e
traianeo (Plin. Paneg. 65,1 non est princeps super leges sed leges super principem;
cfr. ib. 24,4). Ancora una volta il vescovo Ambrogio pensa all’opera con la
forza nuova che gli viene dal cristianesimo, nella migliore tradizione
rom ana e la rinnova ridandole vitalità.
Alla luce di questo pensiero la penitenza pubblica di Teodosio nel 390
non appare un colpo inflitto alla dignità del potere imperiale, m a un
modo di questo rinnovamento nella continuità. Lo rivela la calda ammira­
zione che abbiamo colto nel De obitu Theodosi. Nella capacità della maxima
potestas di riconoscere i suoi limiti in una legge superiore e di concedere
alla libertà del vescovo e del cittadino di richiamarla all’osservanza di
questi limiti, Ambrogio coglie la possibilità del regnum di restare res pubUca.
Questo è il significato della lode, altissima, che Ambrogio rivolge a
Teodosio dopo la sua morte.
INDI CI
a cura di
M a r ia S t e l l a , de T r iz io
INDICE DEI NOMI DI PERSONA

Abelardo (Pietro): 31 Boccaccio: 27, 30, 31, 32


Adamo (Adam): 27, 30 Buterico: 170, 175
Adriano: 135
Aggeo: 68 Caligola: 174, 56
Agilulfo: 155 Calligono: 42
Agostino: 28, 47, 48, 49, 51, 52, 53, 65, Callinico: 13, 22, 23, 61, 76, 80, 83,122,
66, 68, 69, 70, 71, 73, 74, 75, 76, 119, 170, 171, 177
136, 138, 147, 165 Camillo: 9, 16, 26, 126, 143
Alarico: 47, 48, 49, 136, 138 Canuleio: 26
Alessandro (martire): 137 Carlo IV: 155
Alessandro Severo: 50, 128, 135, 147 Carlo V: 155
Ambrogio (Ambrosius): passim Cassiano: 28
Ammiano: 49, 53, 66, 113, 114, 115, Cassiodoro: 28
116,117,118,120,121,122,130,136 Castores (gemini): 77
Anassagora: 140 Castulo: 72
Andragazio: 33, 44, 167, 182 Catone : 15
Anisio: 123 Cecina (Deciò Adnazio Albino): 51
Apollo: 77 Celso: 17
Apostoli: 56, 96 Cesare: 26, 139
Arbogaste: 136, Cibele: 69
Arinteo: 117,120 Cicerone: 8, 15, 50, 127, 142, 144, 174
Artù: 45 Ciriaco (Giuda): 105,108,149
Acolio: 123 Cirillo (vescovo): 107, 108, 110, 149,
Attilio Regolo: 9,16, 26,126 150, 151, 152, 154
Attis: 69 Claudio: 26
Aureliano: 65, 76, 113, 114 Codagnellus (Johannes) : 110,154
Aureolo: 65,113, 114 Coribanti: 69
Ausonio: 67, 78, 122, 131 Corrado di Franconia: 155
Aussenzio Mercurino: 71, 100, 160, C o sta n z a: 66, 115
161, 165, 166 Cristo (Christus, lesus) : 54, 55, 56, 57,
74, 80, 81, 88, 90, 99, 100, 101, 105,
Babila (San): 176 109,110,125,126,135,143,146,147,
Basilio: 10, 12, 16, 58 151, 153, 155, 157, 169, 173, 174;
Bautone ( magister militum) : 35, 37, 38, Gesù: 74, 86, 89, 96, 99, 100;
40, 41, 70, 133, 136, 164, 168 Signore: 104,106
Bellicio: 87, 88, 93 Costantino ( Constantinus) : 50, 51, 52,
Berengario I: 111, 155 53, 54, 55, 65, 66, 103,104, 105,106,
182 M a r t a S o r d i , Sa n t ’Am b r o g io e l a t r a d iz io n e d i R o m a

107.108.109.110.114.115.125.128, Federico Barbarossa: 155


129,130,137,147,148,149,150,151, Ferdinando I: 155
152,153,154,156,157,160,170,171, Filippo (l’Arabo): 37, 171, 176, 177
173, 174, 177 Flaccilla: 53
Costanzo ( Constandus): 19, 20, 66, 67, Flaminio (console): 143
107.108.109.115.117.119.120.129, Flaviano (Virio Nicomaco): 69, 132,
130, 132, 149, 151, 152, 155, 156 136
Fortuna: 77, 80, 81, 169
Dagalaifo: 117, 120
Damaso: 135, 164 Galerio: 115, 143
Daniele: 163 Gallieno: 8, 76, 113, 114, 115
David: 14, 90, 170, 171, 175, 178 Gallo: 115
Decio: 51, 128 Gerolamo: 28, 54, 103, 107
Dexippo: 37 Gervasio (San) : 42, 73, 95
Dio (Deus): 8, 13,14,15,19, 22, 25, 27, Gesù: vd. Cristo
30, 32, 47, 55, 56, 57, 60, 61, 62, 90, Giona: 167, 73
97, 105, 126, 143, 144, 146, 151, 153,
Giove: 77, 136, 142
166, 170, 171, 174, 177;
Giovanni (Antiocheno): 37
Signore: 72, 103, 104
Giovanni (Crisostomo): 137
Diocleziano: 20, 51, 65, 114, 115, 128,
Giovanni (San): 87
141
Gioviano: 19, 66, 116, 117, 118, 119,
Diopeite: 140
120, 129, 156
Dominus (Dio, Gesù) : 27,54,55,56,57,
Giuda Ciriaco: vd. Ciriaco
74, 99, 104, 107, 111
Giuliano: 18, 66, 67,115,116,117,118,
Domiziano: 63
119,120,125,127,128,129,130,132,
Donnino: 43
151, 153, 156, 174
Giustina: 22, 23, 40, 42, 61, 73, 74, 75,
Egeria (Egeria): 107, 149
95, 100, 121, 133, 159, 165, 167
Elena (Helma): 54, 55, 56, 103, 104,
Giustino (martire): 27
105,106,107,108,109,110,115,119,
125,149,150,151,152,153,154,156, Gordiano III: 171, 176
170, 173, 174 Graziano (Gratianus): 17, 21, 33, 34,
Elios (re): 119 35, 38, 39, 41, 43, 53, 59, 66, 70, 79,
80, 98, 121, 125, 130, 131, 132, 133,
Enrico IV: 155
134,135,146,147,153,159,162,163,
Epaminonda: 139 167, 169, 170
Eracle/Ercole: 77, 138, 140 Gregorio (di Tours): 149
Erodiade: 42 Gregorio (Magno): 28
Eugenio: 13, 19, 21, 22, 51, 53, 69, 82,
83, 119, 135, 136, 160, 163, 169 Idea (Madonna): 69
Eunapio: 137 Indicia (vergine): 122
Eusebio: 55, 106, 149, 171, 176 Innocenzo: 38, 48
Eutropio: 37, 117 Iovino: 67, 116, 119, 120, 156
Èva (Èva): 55, 105 Iovio: 119
Evodio: 42 Ireneo: 68, 87, 93
INDICE DEI NOMI DI PERSONA 183

Jezabel: 42 Oronziano: 87
Orosio: 33, 44, 47, 48, 49, 51, 52, 53, 59,
Lattanzio: 51, 66, 113, 127 113, 114, 136, 137
Liberio: 161 Ottone I: 155
Licinio: 66, 115 Ottone III: 155
Livio: 26, 141, 142, 143
Lucano: 28 Pacato: 33, 34, 37, 38, 43, 44, 59, 70, 77,
Lucilliano: 116, 117, 118, 119, 120, 156 78, 79, 80, 81, 82, 83, 95, 96, 98, 168,
Lupicino: 120 169
Pansophia: 51
Macario: 55, 105, 106 Paula (Sancta) : 107, 149
Madaliano: 129 Paolino: 51, 52, 74, 75, 104, 105, 106,
Magnenzio: 66, 115, 156 108, 125, 149, 150, 152, 161, 173
Malarico: 116, 119, 120 Paolo (di Samosata) : 76
Mamertino: 65, 67, 70, 114, 122 Paolo (San): 86, 96, 169
Marcellina: 12, 42, 68, 71, 72, 73, 161, Paterno: 90, 96, 97, 122, 175
166 Pericle: 140
Marcellino: 55 Pietro (San): 20
Marcello (console): 143 Pietro (Abelardo) vd. Abelardo
Marcello (vescovo): 115,122 Pilato: 54, 105
Marco Aurelio: 50 Platone: 140
Martino (San) : 95 Plinio (il Vecchio): 12, 59, 61
Martirio: 137 Plotino: 28
Massimiano: 65, 67, 114, 115, 122 Plutarco: 140
Massimo (Magno): 33, 34, 35, 36, 37, Polibio: 26
38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 53, 70, Pompeiano: 48, 49, 138
71, 76, 79, 80, 81, 82, 83, 89, 90, 94, Ponticiano : 70
95, 99, 100, 122, 160, 167, 168, 169 Priscilliano: 79
Melchisedech: 30 Probo (Sesto Petronio): 8, 133, 161
Meleto: 140 Procopio: 116, 117, 118, 120, 138
Melquart: 140 Protasio (San): 42, 73, 95
Memorido: 116, 120 Pulcheria: 53
Minerva: 142
Monica: 71 Quinto Cicerone: 50

Napoleone: 155 Rabirio: 143


Nepote: 139 Radagaiso: 47, 48, 49, 51, 52, 128, 136
Nerone: 9, 14, 56, 63, 174 Romaniano: 70
Nerva: 59 Rufino: 54, 55, 103, 104, 105, 106, 107,
Nevitta: 117, 120 108,109, 111, 122,136,150,151,152,
Nortia: 142 174
Rufìo Agripnio Antonio Volusiano:
Olimpiodoro: 48, 137, 138 51, 128
Onorio: 15, 59, 63, 153 Ruperto: 27, 28, 29, 30, 31, 32
184 M a r t a S o r d i , Sa n t 'Am b r o g io e la tr a d iz io n e d i R om a

Saladino: 29, 30, 32 98, 103, 106, 107, 108, 110, 122, 125,
Sallustio: 10, 26 129,130,135,136,147,153,159,160,
Sapore: 117 163,165,168,169,170,171,173,175,
Satiro: 8, 15 176, 177, 178
Scipione: 9, 16, 26, 126, Tertulliano: 56
Seniauco: 116 Tiberio: 60, 141
Sesto Petronio Probo: 133 Traiano: 59, 61
Siagrio: 122 Trifone: 27
Sigismondo: 155
Ursicino: 66, 115, 120
Signore vd. Dio, Gesù
Silvano : 115, 120
Valente: 66,120,121,130,156,159,162
Simmaco: 9, 12, 19, 21, 22, 23, 24, 25, Valentiniano: 8, 19, 25, 66, 67, 100,
26, 40,53, 57,60, 69,78, 82,126,131,
116,118,120,121,129,130,131,156,
132,133,134,135,136,145,146,148,
157, 159, 161, 162, 163, 166
162, 163, 164
Valentiniano II: 12, 13, 17, 19, 21, 22,
Simpliciano: 70, 119,137 23, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41,
Silicio (papa): 95 42, 43, 45, 57, 60, 61, 70, 71, 73, 89,
Sisinio: 137 98, 100, 101, 121, 122, 129, 132, 133,
Socrate (filosofo): 140 135,145,146,159,160,161,163,164,
Socrate (storico): 35, 38,105,106,108, 165, 166, 167, 168, 177
109, 150 Valeriano: 51, 113, 128
Sozomeno: 48, 49, 105, 106, 108, 138, Vallione: 79, 80, 81,169
149, 150 Varrone: 143
Stilicone: 47, 49, 51, 128 Vestali: 133
Studio: 78, 85, 86, 87, 88, 89, 93, 94, 95, Vezio Agorio Pretestato: 132,136,164
96, 98, 100, 101, 122, 147, 169, 176 Vigilio: 122, 137
Sulpicio Severo: 104, 150 Virgilio: 8, 12, 59
Vìrio Nicomaco Flaviano: 69, 132,136
Tacito: 15, 113 Vittore: 35, 117, 120
Taziano: 122 Vittorino: 70, 119
Temistio: 36, 38, 60
Teodoreto: 105, 106, 108, 150 Zaccaria: 54, 55,103,104,150,152,173
Teodosio: 13, 14, 15, 19, 20, 21, 22, 23, Zorobabele: 68
33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 41, 42, 43, Zosimo: 33, 34, 35,36, 38,43,44,48,49,
44, 45, 53, 54, 59, 61, 62, 63, 67, 70, 50, 52, 109, 113, 114, 116, 117, 130,
71, 77, 78, 80, 81, 82, 83, 90, 91, 95, 131, 136, 137, 138
INDICE DEI NOMI DI POPOLI E DI LUOGHI

Adrianopoli: 17, 37, 43, 121, 136, 162 Emilia (Aemilia): 110, 122, 160, 161
Africa: 34, 43, 66, 70, 71, 78, 82, 120, Europa: 29
138, 161 Emona: 45
Agliate: 119 Eraclea: 36, 37
Alemanni: 66, 115, 117, 121, 156 Etruria: 48, 49, 50, 51, 128, 129, 138
Alessandria: 123, 137 Etruschi: 48, 49
Alpi: 17, 35, 38, 39, 43, 44, 45, 65
Antiochia: 123, 170 Fiesole: 129
Appennini: 44 Firenze: 51, 52
Aquileia: 33, 36, 43, 44, 45, 67, 71, 80, Fiorentini: 51, 52, 129
81, 119, 129, 165
Franconia: 155
Armenia: 120
Frigido: 135, 136, 137, 163, 169, 175
Atene: 18, 140
Gallia: 21, 33, 34, 35, 36, 38, 40, 41, 65,
Batavi: 116, 117
70, 76,81,82, 83,89,90, 99,114,115,
Belgrado: 130
116,117,118,120,121,130,156,159,
Beroa: 36, 37 168, 169
Brigetio: 121
Germani: 45
Britanni: 45
Germania: 30
Britannia: 33, 34, 70, 167
Gerusalemme: 54, 55, 104, 105, 106,
Cabyllunum: 79 107, 108, 149, 150, 151, 152, 154
Calvario: 54, 55, 106, 149, 150 Golgota: 104, 106, 107
Campidoglio ( Capitolium): 9, 48, 138 Goti: 17, 48, 49, 80
Cappadocia: 116 Greci: 139
Cartagine: 47, 49, 138 Grecia: 139, 141, 153, 174
Cassidacum: 68
Chunus: 80 Halanus: 80
Como: 115, 119
Costantinopoli: 19, 20, 34, 36, 59, 66, Illirico: 34, 39, 44, 45, 65, 70,115, 116,
85, 94, 98, 109, 115, 118, 120, 121, 117, 119, 120, 161, 170
129, 137, 156, 157, 159, 160 Italia: 33, 34, 35, 36, 38, 39, 41, 43, 52,
Creta: 77 65, 68, 70, 72,110, 111, 114,117,119,
120, 122, 129, 136, 154, 155,161, 167
Danubio: 121
Delo: 77 Liguria: 110, 154, 155, 160, 161
Deutz: 27, 29, 30 Lione: 130
Durosturum: 71, 100, 165 Lugdunum: 130, 182
186 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADIZIONE D I ROMA

Macedonia: 36 Rezia: 120, 121


Marcomanni: 113 Rimini: 165
Milanesi: 65, 113
Milano (Mediolanum): 5, 8, 16, 21, Samosata: 76
36, 37, 38, 40, 41, 43, 61, 63, 65, 66, Sarmati: 37, 70, 121
67, 68, 69, 70, 71, 73, 75, 83, 85, 87, Sava: 45
89, 91, 96, 110, 113, 114, 115, 116, Sciti: 37
117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, Singidunum: 130
126, 127, 129, 137, 144, 145, 147, Sirmio (Sirmium): 65, 115, 116, 117,
148, 153, 154, 155, 156, 157, 159, 121, 156
160, 165, 173 Serdica: 65, 115, 143, 144, 145
Monza: 110, 111, 155 Siscia: 45
Murocincta: 121 Spagna: 29, 34, 41, 70, 77, 89, 90, 141,
168
Nami: 129 Suffetula: 138
Nicea: 41
Nicomedia: 65, 115 Taranto: 132
Ninive: 73 Tarpea: 9
Tarso: 116
Oceanus: 82 Tebe: 77
Oliveto: 107 Tessalonica: 13, 19, 20, 21, 42, 43, 62,
Osda: 34 70,90,91,98,122,123,160,168,169,
170, 175, 176, 177
Thessalonicenses: 176
Pannonia: 43, 70, 116, 117, 120, 121
Ticinum: 67
Parabiago: 68, 69, 119
Toscana: 138
Pavia: 67
Tours: 149
Peloponneso: 140
Tracia: 120
Persia: 116, 117, 118
Trento: 122, 137
Postumia: 119
Treviri: 34, 35, 37, 39, 40, 41, 42, 65, 67,
70, 82, 83, 89, 90, 94, 115, 121, 122
Quadi: 50, 121
Val di Non: 137
Ravenna: 110, 113, 155 Vercelli: 122
Remi: 116, 117 Verona: 36, 37, 122
Reno: 36,121 Volsinii: 142
INDICE GENERALE

Presentazione (Domenico Lassandro - Giuseppe Zecchini) ............................ 5

I. L’atteggiamento di Ambrogio di fronte a Roma e al paganesimo 7

II. Da Ambrogio al Boccaccio: l’anello simbolo della fede 27

III. Magno Massimo e l’Italia se tte n trio n a le ............................................. 33

IV. Augustinus, De Civ. Dei V,23 e i tentativi di restaurazione pagana


durante l’invasione gotica del V s e c o l o ............................................. 47

V. La concezione politica di Ambrogio 53

VI. Milano al tempo di Agostino.................................................................... 65

VII. I rapporti fra Ambrogio e il panegirista P a c a to .................................. 77

Vili. La lettera di Ambrogio a Studio e il problema della pena di morte 85

IX. Pena di morte e « braccio secolare » nel pensiero di Ambrogio . 93

X. La tradizione d ell’inventio crucis in Ambrogio e in Rufino . . 103

XI. Come Milano divenne c a p ita le ................................................... 113

XII. Cristianesimo e paganesimo dopo Costantino 125

XIII. Tolleranza e intolleranza nel mondo antico . 139

XIV. Dall’elmo di Costantino alla corona ferrea 149

XV. I rapporti di Ambrogio con gli imperatori del suo tempo 159

XVI. La morte di Teodosio e il De obitu Theodosii di Ambrogio . . . . 173


188 MARTA SORDI, SANT’AMBROGIO E LA TRADITIONE D I ROMA

Indici (Maria Stella de Trizio)


Indice dei nomi di p e r s o n a .................................................................... 181
Indici dei nomi di popoli e di lu o g h i................................................... 185

Indice generale...................................................................................................... 187

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