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BREVISSIMA INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

2. FREGE: SENSO E DENOTAZIONE

Gottlob Frege fu un logico interessato alla questione dei fondamenti della matematica. Nel 1892 ha scritto uno dei
saggi più importanti della filosofia, Uber Sinn und bedeutung dove Sinn sta per senso e Bedeutung sta per
denotazione, due nozioni che catturano diversi aspetti della nozione teorica di significato. Frege utilizza la “descrizione
definita” per identificare qualcuno attraverso una descrizione. Per esempio: “l’autore di Capitani coraggiosi” identifica
un individuo, in questo caso Rudyard Kipling. La denotazione è quest’ultimo, mentre il senso è il modo in cui la frase
descrive e ci presenta Rudyard. La frase “il vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1907” ha la stessa
denotazione della precedente ma il senso è differente. Il valore di verità dell’enunciato (è vero o falso) dipende dalla
denotazione della descrizione, non dal senso. Nelle frasi “l’autore di Capitani coraggiosi era astemio” e “il vincitore del
premio Nobel per la letteratura nel 1907 era astemio”, in questo caso il valore è lo stesso, anche se ci è sconosciuto. Il
motivo è che sono veri se l’individuo che funge da soggetto grammaticale era astemio ed è falso se l’individuo non era
astemio. Anche se hanno lo stesso valore di verità hanno un diverso contenuto informativo, un diverso senso. La
denotazione per Frege è rilevante per determinare il valore di verità dell’enunciato; il senso è il modo di presentare la
denotazione che concorre a determinare i pensieri espressi e secondo il filosofo è necessario che un nome lo abbia.
Anche ai predicati si applicano le nozioni di senso e denotazione. Le frasi “essere fiorentino” e “essere nato nella città
in cui nacque Dante” hanno la stessa denotazione, sono vere per lo stesso individuo e contribuiscono allo stesso modo
alla determinazione del valore di verità; tuttavia, i loro sensi sono diversi perché i pensieri sono diversi. Per Frege il
senso non indica qualcosa di psicologico perché i pensieri in realtà sono oggetti che esistono e sono quello che sono
indipendentemente da ciò che accade nella mente della gente. Secondo il filosofo ognuno di noi è in grado di
comprendere un’infinità di enunciati ma non di apprendere singolarmente i sensi di questi ultimi; ma i sensi hanno
una natura “composizionale” poiché perveniamo al pensiero che un enunciato esprime partendo dai sensi delle parole
e quindi componendoli. Accade lo stesso anche per le denotazioni poiché possiamo ottenere la denotazione mettendo
insieme le denotazioni dei costituenti dell’espressione. Frege riscontra tuttavia delle difficoltà in queste idee: tra
queste, il “principio di sostituibilità”: se un’espressione A è ottenuta da un’espressione B sostituendo un’espressione C
con un’espressione D – e se C e D hanno la stessa denotazione – allora anche A e B hanno la stessa denotazione.
Questo principio talvolta viene violato: esempio: “Nicla crede che Roma abbia più abitanti del Cairo” e “Nicla crede
che Kant fosse sposato”, quest’ultima è ottenuta sostituendo “Roma ha più abitanti del Cairo” con “Kant era sposato”.
Queste ultime due asserzioni hanno lo stesso valore di verità e la stessa denotazione; ci si potrebbe aspettare che
anche le prime due li abbiano ma non è garantito. Secondo Frege si tratta di un “errore”, poiché verbi come il verbo
“credere” nelle due asserzioni viola il principio di sostituibilità e rende la sua denotazione “indiretta”.

3. FORMA GRAMMATICALE E FORMA LOGICA

Frege è diffidente verso il linguaggio, crede infatti che la filosofia abbia il compito di svelare gli inganni che hanno
origine dall’uso della lingua. È per questo che elabora la sua “ideografia”, un linguaggio artificiale che non va sostituito
a quello ordinario dell’uso quotidiano, ma che viene utilizzato nei casi in cui ci sia bisogno di maggiore chiarezza, per
esempio nelle dimostrazioni matematiche. Frege crede che il linguaggio ordinario sia inaffidabile perché una stessa
espressione può avere a seconda dei contesti sensi e denotazioni diverse ed esprimere pensieri diversi. Questa idea è
stata affrontata anche da Bertrand Russell nel 1905 in “On Denoting” il cui tema centrale è la discrepanza tra forma
grammaticale e forma logica. Consideriamo la descrizione definita “l’attuale re di Francia”: ha un senso ma non una
denotazione poiché in Francia non c’è un re. In “l’attuale re di Francia è calvo” si ripete il difetto del linguaggio
ordinario di permettere la costruzione di espressioni con un senso ma senza denotazione poiché questo sarà vero se
l’individuo denotato cade sotto il concetto denotato dal predicato e falso se non cade. Russell è d’accordo con la teoria
di Frege ma sostiene che il problema sta nel fatto che la forma grammaticale dell’asserzione induce a credere che
questa non abbia valore di verità e che quindi le descrizioni definite sono “simboli incompleti” cioè unità grammaticali
alle quali non corrispondono unità logiche. Russell sostiene infine che l’analisi dell’asserzione “C’è un individuo che
regna attualmente in Francia e costui è calvo e, se qualcuno regna attualmente in Francia, è l’unico a farlo” non è priva
di valore di verità ma è falsa!

4. IL TRACTATUS DI WITTGENSTEIN

L’ingannevolezza del linguaggio è trattata anche da Ludwing Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922)
che criticava i filosofi inconsapevoli del limite del dicibile e che per questo avevano scritto cose insensate. Una filosofia
giusta avrebbe dovuto denunciare tali insensatezze e Wittgenstein lo fa in modo originale. Infatti, egli ha formulato
tesi sul linguaggio nel momento stesso in cui ha dichiarato che non fosse possibile farlo sensatamente. All’interno del
Tractatus, divide le proposizioni in due classi: elementari, cioè non contengono altre proposizioni come loro parti
costituenti e sono immagini di stati di cose; complesse, cioè non sono elementari ma che sono funzioni di verità delle
proposizioni elementari. Per stati di cose il filosofo intende gli stati di cose possibili, non necessariamente che siano
parte della realtà. Un’immagine è un fatto, uno stato di cose sussistente; affinché un fatto I sia immagine di uno stato
di cose S bisogna che i due siano in “corrispondenza biunivoca” e che il modo in cui gli oggetti di I sono correlati
rispecchi il modo in cui siano correlati gli oggetti di S. Per esempio: alcune automobiline che rappresentano le posizioni
di automobili nella realtà per ricostruire un incidente -> ciascuna automobilina deve essere associata a una e una sola
automobile vera e viceversa. Wittgenstein vede le proposizioni elementari come un complesso di nomi correlati fra
loro: a ciascun nome corrisponde un oggetto e il modo in cui i nomi sono correlati rispecchia un modo in cui
potrebbero essere correlati gli oggetti corrispondenti ai nomi. Per quanto riguarda senso e denotazione crede che le
proposizioni abbiano un senso ma non una denotazione e che la sua verità o falsità dipende dal sussistere o meno
dello stato di cose di cui è immagine. D’altra parte, vede le proposizioni complesse come funzioni di verità delle
proposizioni semplici, quindi per stabilire il suo valore di verità dobbiamo conoscere i valori di verità delle proposizioni
elementari in essa contenute; per esempio: per “Maria non fuma” dobbiamo conoscere il valore di verità di “Maria
fuma” e se questo è vero allora la prima è falsa. Wittgenstein ha definito questa proposizione una “contraddizione”,
contrapponendole alle “tautologie” che coincidono con le “verità logiche”: è il caso della proposizione “p o non-p” che
è sempre vera, sia se la proposizione “p” è vera, sia se è falsa perché sono proposizioni analitiche che non possono
essere confermate dall’esperienza e quindi “non dicono nulla”. Entrambe sono prive di senso, ovvero a differenza
delle proposizioni dotate di senso non sono utili per descrivere ciò che accade nel mondo. In questa prospettiva,
conoscere il senso di una proposizione equivale a sapere che cosa deve succedere affinché la proposizione sia vera:
comprendere un enunciato è lo stesso che conoscerne le “condizioni di verità”.

5. IL VERIFICAZIONISMO NEOPOSITIVISTICO

Wittgenstein formula quello che è stato definito “principio di verificazione”: il significato di una proposizione è il
metodo della sua verificazione. È stata accettata sin da subito dai neopositivisti, i quali concepivano la verificazione in
modo empirico, ovvero consisteva nel possedere un metodo per verificare una proposizione e ciò avrebbe garantito la
conoscenza del valore di verità. Sembrava fornire loro un criterio semplice per distinguere le proposizioni sensate da
quelle insensate, cioè quelle per cui non potevano essere stabiliti dati empirici per giudicarle vere o false. Tuttavia è
stato anche dimostrato che si possono conoscere le condizioni di verità di un enunciato anche senza possedere un
metodo per la sua verificazione. Per esempio: Gianni non sa come stabilire se “la Luna ha un diametro di più di tremila
chilometri”. Questa per lui dovrebbe essere priva di significato oppure possiamo sostenere che Gianni sa benissimo
come procedere per capire se è vera o falsa se riteniamo che comprendere un enunciato equivalga a conoscere le
condizioni di verità. Tuttavia, il principio di verificazione cominciò a conoscere i suoi difetti, quali l’inadeguatezza a
rendere conto del significato delle proposizioni scientifiche, poiché le proposizioni che enunciano leggi di natura non
possono mai escludere nuove osservazioni che le smentiscono e quindi in principio non possono essere verificate.

6. IL SECONDO WITTGENSTEIN E LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO ORDINARIO

Frege, Russell e Wittgenstein sono interessati al linguaggio come mezzo per descrivere la realtà, per trasmettere
conoscenze, in particolare a quello artificiale. Nelle Ricerche filosofiche (1953) subentra un “secondo” Wittgenstein
che ora rivolge l’attenzione al linguaggio ordinario utilizzato concretamente. Egli è convinto che per conoscere il
funzionamento delle proposizioni dobbiamo capire come le impieghiamo nella pratica. Il linguaggio viene definito
come un complesso di “giochi linguistici”: come i giochi, così le pratiche del linguaggio sono estremamente varie e,
come i giochi, hanno esistenza non necessaria ma contingente. In tal senso mette in evidenza il fatto che parlare un
linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Dunque, per chiarire il significato di un’espressione dobbiamo
esplicitare le mosse del gioco che con questa espressione possiamo compiere. Lo stesso Wittgenstein si rende conto
che questo modo sembra ignorare ciò che dovrebbe essere lo scopo di un filosofo, ovvero elaborare un apparato
concettuale che consenta di parlare in modo unitario e sistematico. Per questo, formula un’obiezione mettendola in
bocca a un imaginario interlocutore il quale sostiene di non aver compreso cosa sia l’essenziale del giuoco linguistico e
che in tal modo avrebbe ignorato la forma generale della proposizione e del linguaggio. Il filosofo risponde affermando
che ne è consapevole, ma che è sicuro che tali fenomeni siano imparentati l’uno con l’altro e per questo possiamo
definirli tutti “linguaggi”. Wittgenstein, tuttavia, si rende conto che non esistono proprietà comuni a tutte le attività,
anzi esistono giochi in cui si vince o si perde, altri dove ciò non è possibile, altri sono divertenti oppure no e così via. In
un centro senso, le varie somiglianze si sovrappongono e si incrociano, proprio come una famiglia, e ciò accade per i
giuochi ma anche per il linguaggio. Ciò che distingue il “secondo” Wittgenstein delle Ricerche filosofiche dal “primo”
del Tractatus è soprattutto l’“antiessenzialismo”: con il “primo” bisogna sforzarsi di andare al di là della molteplicità
delle forme grammaticali e degli usi per cogliere ciò che è essenziale per raffigurare i fatti del mondo con il linguaggio,
mentre con il “secondo” non esiste un’essenza del linguaggio e proprio la convinzione che esista è la causa degli
equivoci che una buona filosofia dovrebbe risolvere. Una componente essenziale dell’”antiessenzialismo” è
l’”antimentalismo”: egli crede che nessuno stato mentale possa predeterminare il modo corretto di applicare una
regola in tutti i casi possibili, dato che un individuo può seguire una regola solo in quanto membro di una comunità e
quindi per il giudizio dato dagli altri e non perché pensa all’accordo tra il suo comportamento e i suoi stati mentali. La
tesi di Wittgenstein è affascinante perché cede il posto all’idea che il punto di partenza migliore per affrontare un
problema filosofico consista in una meticolosa ricognizione del modo in cui si usano le espressioni nel linguaggio
ordinario; tuttavia, in pochi credono sia impossibile mettere ordine nel caos degli usi linguistici.

7. MONDI POSSIBILI

Nel 1947 il filosofo Rudolf Carnap pubblica un libro intitolato Meaning and Necessity in cui al centro pone la
“semantica dei mondi possibili”-> Carnap rielabora l’idea wittgensteniana di condizioni di verità. Nel Tractatus egli
aveva stabilito che le condizioni di verità di un enunciato si identificano con l’insieme delle combinazioni del sussistere
e non sussistere di stati di cose che rendono l’enunciato vero. Carnap sostituisce la nozione di stato di cose con quella
risalente a Leibniz di “mondo possibile” suggerendo di ridefinire le condizioni di verità come l’insieme dei mondi
possibili in cui l’enunciato è vero, ovvero come “intensione” (estensione è il valore di verità). Carnap identifica la
forma “Necessariamente E” vera se E è vero in tutti i mondi possibili e la forma “è possibile che E” vera se E è vero in
almeno un mondo possibile (la necessità= verità in tutti i mondi; la possibilità= verità in almeno un mondo). Gli
enunciati veri in tutti i mondi possibili sono gli enunciati che esprimono verità logiche e anche se non ci dicono nulla
sul mondo, ci mostrano come funziona il linguaggio e sono chiamati enunciati “analitici”. Tuttavia, è opportuno fare
delle osservazioni poiché egli non facendo differenza tra verità logiche e analitiche non si riferisce solo agli enunciati
“piove o non piove” (verità logica) o “nessuno scapolo è sposato” (analitica). Il suo merito è stato anche quello di aver
spiegato come mai gli enunciati modali violano il “principio di sostituibilità” di Frege. Prendendo in considerazione (1).
“Necessariamente 3+3 = 6” e (2). “Necessariamente in Australia ci sono i canguri”, possiamo sostituire (3). “3+3=6”
con (4). “in Australia ci sono canguri”, eppure otteniamo due valori di verità diversi perché la prima proposizione è
vera, la seconda è falsa. Carnap sostiene che, anche se i due elementi sostituiti (3) e (4) hanno lo stesso valore di
verità, hanno diverse intensioni, ovvero sono diversi gli insiemi dei mondi possibili in cui i due enunciati sono veri,
poiché (3) è vera in tutti i mondi possibili, (4) solo in alcuni.

8. LO SCETTICISMO SEMANTICO DI QUINE

Quine è stato una delle personalità di maggior rilievo nell’ambito della filosofia analitica nella seconda metà del 900.
In Two Dogmas of Empiricism (1951), egli si scaglia contro due dogmi: il primo è quello delle verità analitiche e verità
sintetiche e il secondo è l’idea che associamo a ogni enunciato un insieme di esperienze che spingono a considerarlo
vero o falso. Per quanto riguarda il primo, egli che non possiamo dare una definizione soddisfacente alle verità
analitiche, anzi egli denuncia la circolarità di cui si era parlato in merito alla sinonimia (“Nessun maschio adulto non
sposato è sposato” e “nessuno scapolo è sposato”) poiché la sinonimia a sua volta non può essere definita se non
presupponendo la nozione di analiticità. Per quanto riguarda il secondo, crede che se ci fossero buone ragioni per
accettare che si possa stabilire una volta per tutte quali dati empirici sanciscano la verità e falsità degli enunciati, allora
si potrebbe dire che gli enunciati analitici siano. Quelli la cui verità è sancita da ogni sorta di dati empirici possibili. Ma
anche in questo caso, il secondo dogma risulta privo di fondamenta solide poiché l’esperienza pone dei vincoli sui
valori di verità che possiamo assegnare alle proposizioni. Sicuramente molti filosofi sono convinti che la nozione di
analiticità sia legittima, però nessuno crede più che si possa liquidare il fatto che le verità matematiche sono
analitiche. Nel 1960 Quine pubblica Word and Object nel quale propone una tesi chiamata “indeterminatezza della
traduzione”: tutte le volte che è possibile tradurre da un linguaggio in un altro, è possibile farlo in modi diversi, poiché
esistono “manuali di traduzione” diversi, ognuno dei quali è corretto ma che traducono un’espressione in modi diversi.
Ecco che subentra la cosiddetta “traduzione radicale”-> un linguista entra in contatto con i membri di una tribù che
parla una lingua diversa dalle altre e ha il compito di creare un manuale per tradurre la loro lingua basandosi soltanto
sulle sue osservazioni circa le situazioni in cui si trova. Si suppone che il linguista abbia constatato che i membri della
tribù sono disposti a dire “Gavagai!” in tutte le situazioni in cui vedono un coniglio. La traduzione sarà allora “coniglio”;
ma, la traduzione potrebbe anche essere “parte non staccata di coniglio”. Quine allora pensa che probabilmente
entrambe le traduzioni possono essere mantenute e quindi ci saranno due diversi manuali di traduzioni, corretti ma
“incompatibili” perché indicano due cose diverse. Tuttavia, in tal senso le traduzioni possibili sono infinite. Allora egli
aderisce a una concezione comportamentistica del linguaggio secondo la quale una lingua è un sistema di disposizioni
al comportamento verbale cioè come i parlanti sono disposti a reagire verbalmente alle diverse stimolazioni possibili,
senza nessun significato nascosto. Per questo, un manuale che tiene conto di tutte le disposizioni del comportamento
verbale è adeguato e corretto. La tesi dell’”indeterminatezza della traduzione” è paradossale perché se è lecito
tradurre “gavagai” con “coniglio” ma anche con “parte non staccata di coniglio” allora è lecito dire sia che “gavagai” si
riferisce ai conigli, sia che si riferisce alle parti non staccate di coniglio. Quindi, Quine crede che questa tesi diventi una
“inscrutabilità del riferimento”: non possiamo stabilire in maniera corretta e univoca a cosa si riferiscono i termini del
linguaggio. Nell’esempio di “gavagai” l’inscrutabilità deriva dal fatto che possiamo tradurre un’espressione di una
lingua con due o più espressioni di un’altra lingua pur avendo estensione diversa.

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