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FILOSOFIA 23 MARZO

Leibniz

Spinoza e Leibniz, grandi filosofi dell’età razionalistica, condividono lo stesso punto di partenza
filosofico ma giungono ad esiti diversi. Il punto di partenza è il problema tipico del 600 e dell’inizio
del 700 di giungere a un’inclusione e a una elaborazione metafisica della nuova immagine della
realtà prodotta dalla scienza della natura. Per Spinoza questa inclusione era avvenuta all’insegna
dell’idea di un ordine necessitante e universale pensato sul modello della razionalità matematica.
Tutto era quindi espressione di un ordine necessario, Dio stesso diventava l’ordine necessario in
cui si inerivano i fenomeni. In Leibniz, invece, c’è il tentativo di integrare e conciliare l’idea della
scienza della natura come ordine necessitante con la libertà individuale. Un ordine che quindi dia
spazio alla libertà di dispiegarsi.

Leibniz vive e opera nel contesto tedesco di Lipsia: è il tipico intellettuale costretto a muoversi tra
le corti per trovare mezzi di sostentamento, ma rappresenta anche il prototipo di
quell’intellettuale che si affermerà nel 700 disposto a rinnovare i sistemi giuridici e politici per
cercare di garantire la pace tra i popoli e le religioni. Egli è fondamentale anche per la sua figura di
organizzatore di cultura: fonda infatti l’Accademia di Berlino con lo scopo di rinnovare il sapere
tradizionale.

Il progetto di Leibniz cerca di reinterpretare i risultati della scienza moderna in una prospettiva
che lascia spazio alla possibilità di una libertà individuale. Interviene a chiarire i temi fondamentali
del dibattito culturale del tempo dovuti all’ambiguità del linguaggio naturale. A tal proposito, il
suo obiettivo era quello di creare una lingua universale dalla cui composizione ottenere tutti i
possibili concetti.
L’obiettivo di Leibniz, esposto nella Dissertatio de arte combinatoria, è quello di trovare un
metodo logico che matematizzi il pensiero eliminando da esso ciò che vi è di soggettivo e
riconducendo le operazioni mentali a una forma di calcolus ratiocinator (egli ammette
esplicitamente di aver subito l’influenza di Hobbes).
Per conseguire questi scopi occorre procedere nel modo seguente.
In primo luogo, l’intero contenuto del pensiero dev’essere ridotto a un numero definito di
«concetti semplici», da cui possano derivare tutti i concetti composti: si tratta di scoprire una
sorta di «alfabeto» concettuale che costituisca per il pensiero l’analogo di ciò che l’alfabeto
letterale rappresenta per la lingua e la scrittura.
In secondo luogo, Leibniz intende assegnare a ciascun concetto un «carattere», cioè un simbolo,
che lo rappresenti, in modo da poter operare sui simboli anziché sui concetti; nello stesso tempo
occorre ordinare i caratteri in modo che le loro relazioni corrispondano effettivamente a
quelle dei pensieri. Si tratta quindi di determinare la characteristica universalis, cioè la «lingua» del
pensiero con la sua struttura, per così dire, grammaticale e sintattica.

Leibniz ambisce a conferire al ragionamento filosofico il rigore proprio del ragionamento


matematico. Essendo fedele alla filosofia di Aristotele, Leibniz ritiene che il principio di verità del
pensiero sia il principio di identità. In base a questa logica, la verità sta nel fatto che la
combinazione dei concetti avvenga senza comportare alcuna contraddizione: la verità si fonda sui
principi di identità e di non contraddizione. Una proposizione è identica se in essa il predicato è
già contenuto nel soggetto: quando dico che un triangolo ha gli angoli interni uguali a due retti,
affermo un predicato (l’avere gli angoli interni uguali a due retti) che è già implicito nel soggetto,
in quanto è una proprietà che entra nella definizione del concetto di triangolo. Al principio
d’identità (A = A) è riconducibile anche il «principio di contraddizione» come sua variante negativa
(A non è = non A).

Le verità fondate sui princìpi di identità e contraddizione prendono il nome di «verità di ragione» e
hanno la prerogativa di essere necessarie e infallibili. Ma tali verità non si riferiscono
all’esperienza, non ci dicono quindi qualcosa di reale riguardante l’oggetto, ma esprimono solo
proprietà logiche. Accanto alle verità di ragione Leibniz colloca le «verità di fatto», le quali
concernono la realtà effettiva e sono contingenti, ovvero delle quali è sempre possibile il
contrario. Ad esempio, nella proposizione Cesare attraversò il Rubicone, si afferma che Cesare
attraversò il Rubicone ma anche che poteva non passarlo senza che ciò comportasse alcuna
contraddizione. Il fatto che Cesare abbia compiuto tale azione non deriva dall’essenza stessa di
Cesare, ma da una serie di circostanze che lo indussero a compiere l’impresa.

Le verità di fatto non si basano sui principi di identità e non contraddizione, ma sul principio di
ragion sufficiente, secondo il quale tutto ciò che accade ha una ragione perché sia cosi e non
altrimenti. Esse ci suggeriscono che la realtà non è necessaria, ma è aperta al contingente a
differenza dell’ordine necessario di cui parlava Spinoza.

Le verità di fatto, tuttavia, possono essere conosciute pienamente solo da Dio, il quale possiede
una conoscenza a priori a differenza dell’uomo che conosce pienamente solo a posteriori, ossia
dopo che i fatti si sono verificati concretamente. Per Dio non esiste la contingenza in quanto egli è
colui che crea la realtà e in cui verità di ragione e verità di fatto coincidono, a differenza dell’uomo
che ha una prospettiva contingente che tuttavia gli conferisce spazio di libertà.

La sostanza individuale e il concetto di forza

Il concetto di sostanza di Leibniz si contrappone da un lato al dualismo di Cartesio, che riduceva la


materia all’estensione e dall’altro al monismo di Spinoza, secondo il quale l’infinitezza degli
attributi conduceva all’unicità della sostanza.

La dottrina di Leibniz è invece fedele alla tradizione aristotelica che riconosce l’esistenza di
infinite sostanze individuali, ciascuna diversa dall’altra. Infatti, avendo come sua caratteristica
fondamentale l’individualità, non è possibile trovare due sostanze perfettamente uguali, poiché
anche la semplice differenza di luogo e di tempo comporta una diversa caratterizzazione.

La nozione di sostanza individuale esprime anch’essa un elemento ultimo, l’atomo che non può
essere diviso in altri elementi. Per definire il suo concetto di sostanza, Leibniz si rifà all’atomismo
di Democrito, secondo il quale gli atomi però vengono intesi come elementi materiali. La materia
è estesa e tutto ciò che esteso può essere divisibile. Per questo parlare di atomi materiali è una
contraddizione.

Per risolvere tale contraddizione Leibniz opera due importanti trasformazioni: da un lato critica la
fisica di Cartesio, che poggia sulla riduzione della materia corporea all’estensione rendendo
alcuni importanti fenomeni fisici, come l’impenetrabilità dei corpi o la loro forza d’inerzia (se i
corpi sono semplice estensione, non si capisce perché essi oppongano resistenza alla loro
traslazione). Per giustificare tali fenomeni Leibniz ritiene si debba presupporre nei corpi una
«forza», in virtù della quale essi resistono alla penetrazione da parte di altri corpi o al movimento
che altri corpi possono indurre in loro.

La vera essenza della materia è la forza. Essa può venire considerata sia come grandezza
puramente fisica ed essere inserita in una spiegazione meccanica che la veda come causa
efficiente di determinati effetti sia come un concetto metafisico che va al di là di ciò che è
percepibile con i sensi.

Dall’altro egli opera una trasformazione del modello atomistico, facendo diventare l’atomo
monade, ovvero da essere materiale a essere energetico.

Le monadi sono gli elementi costitutivi e indivisibili del reale, veri e propri atomi spirituali, dove
l’aggettivo spirituale sta ad indicare sostanze dotate di energia e capacità produttiva. Esse sono
innanzitutto centri di forza semplici, ovvero prive di parti e sono immateriali e prive di estensione
dato che l’estensione non possiede di per sé nessuna forza. Le monadi, inoltre, essendo create da
Dio, non possono disgregarsi per cause naturali, ma possono essere annientate solo dal loro
creatore. Ogni monade è un’entità in sé completa e autosufficiente che non può essere alterata da
modificazioni provenienti dall’esterno: per questo Leibniz afferma che le monadi non hanno
finestre attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire.

Ma, anche essendo chiuse in se stesse, le monadi sono sottoposte a modificazioni. Ma tali
modificazioni, non potendo pervenire dall’esterno, sono il risultato dell’attività interna della
monade. Questa attività interna della monade è la percezione, ovvero la capacità che la monade
ha di percepire le cose esterne. Ogni monade è un centro attivo di rappresentazione del mondo
perché ha in sé la rappresentazione del tutto. Il mondo quindi non è una realtà unica, ma è il frutto
delle infinite prospettive che ogni monade può percepire. Ecco perché essa è concepita come
«specchio dell’universo».
Leibniz riconosce, tuttavia, che l’attività percettiva che attribuisce alle monadi non è da intendersi
come attività consapevole: la rappresentazione cosciente è prerogativa solo di un particolare tipo
di monadi dotate di anima. Se tutte le monadi possiedono la capacità di percepire, cioè di avere
una rappresentazione delle cose, solo quelle superiori sono in grado di appercepire, cioè di
diventare coscienti di tale attività.

Esse formano pertanto una catena gerarchica, alla base della quale vi sono le monadi le cui
percezioni sono tanto oscure e confuse da non essere consapevoli.

Le monadi che costituiscono una particella di materia sono anch’esse, come tutte le altre, una
percezione dell’universo da un particolare punto di vista, da una particolare prospettiva: ma di
questa percezione esse non hanno alcuna consapevolezza.

Negli animali la coscienza del percepire si accompagna soltanto alla memoria, mentre negli
uomini essa è congiunta alla consapevolezza dell’identità del proprio io.

Il più alto livello di consapevolezza, e quindi di perfezione, è comunque raggiunto in Dio, che si
pone al vertice della scala gerarchica. Dio è la «monade delle monadi»: in lui non solo le percezioni
del mondo sono perfettamente chiare e distinte, ma si realizza anche l’unità di tutte le percezioni,
di tutti i punti di vista sull’universo espressi dalle singole monadi. Sotto questo aspetto Dio appare
anche come il fondamento di tutte le altre monadi, la «ragion sufficiente» della loro esistenza.

Secondo Leibniz esistono monadi che hanno la facoltà di «dominarne» altre, in quanto le loro
percezioni sono il fondamento della percezione di altre. Questo spiega la differenza che intercorre
tra la materia organica e quella inorganica. Ad esempio, l’«anima» è la monade che nell’uomo
come nell’animale fa sì che le diverse monadi componenti il corpo costituiscano un organismo che
obbedisce a un principio vitale unitario. Al contrario, nella materia inorganica manca una monade
dominante che riconduca le altre all’unità.

Anche all’interno delle monadi fornite di appercezioni, com’è ad esempio l’anima dell’uomo, ci
sono percezioni che non giungono alla coscienza di sé, come dimostrano il sonno o i casi di
manifesta incoscienza. L’anima dell’uomo ha infinite «piccole percezioni» di cui non è
consapevole, perché la loro intensità è troppo bassa per superare la soglia della coscienza.

La dottrina delle piccole percezioni inconsce è inoltre strettamente legata alla concezione
leibniziana della conoscenza. Il sapere della monade è quindi completamente innato ed è il
risultato di un passaggio delle percezioni oscure a quelle chiare e distinte.
In opposizione a Locke, Leibniz riprendeva così le tesi innatistiche di Cartesio introducendo
tuttavia un’importante correzione: le nozioni innate non sono latenti nella mente dell’uomo sin
dall’inizio nella loro interezza, ma devono essere esplicate secondo la legge di sviluppo interna
alla monade stessa.

Armonia prestabilita e teodicea

Nella visione di Leibniz ogni monade costituisce una prospettiva sull’universo che si accorda alle
prospettive di tutte le altre monadi. Sebbene le monadi non abbiano una influenza causale
reciproca, esse hanno un rapporto di strettissima interdipendenza dato da quella che Leibniz
definisce come armonia prestabilita. Per esporre tale dottrina, Leibniz si serve dell’esempio di due
orologi che camminano esattamente nello stesso modo, così da indicare sempre entrambi la
stessa ora.

La coincidenza tra i due orologi può essere spiegata in tre modi diversi: il primo modo è quello di
immaginare che i due orologi siano connessi in maniera tale da influenzarsi a vicenda, la seconda
spiegazione presuppone un abile orologiaio che interviene continuamente sugli orologi per
metterli al passo (questa è la proposta dell’occasionalismo di Geulincx e Malebranche, per i quali
l’accordo tra sostanze diverse è imputabile al continuo intervento straordinario di Dio), il terzo
caso suppone che entrambi gli orologi siano così precisi che, avendo ricevuto la stessa carica
indichino entrambi la stessa ora.

La dottrina dell’armonia prestabilita è l’accordo stabilito da Dio, secondo il quale all’atto della
creazione del mondo egli ha dato a ciascuna monade una legge di sviluppo che si armonizza con
quella di tutte le altre. Gli eventi che si verificano nel percorso di una monade corrispondono a
eventi analoghi in un’altra, in un accordo determinato in eterno.

Alla dottrina dell’armonia prestabilita è strettamente connessa quella secondo cui Dio ha creato il
migliore dei mondi possibili perché in lui non sono contenute soltanto le prospettive delle monadi
esistenti, ma anche quelle che non si sono mai realizzate.

In questo modo, Leibniz risolve così anche il problema della «teodicea», ovvero del male nel
mondo con l’esistenza e la bontà di Dio. Quando dice che il mondo in cui viviamo è il migliore dei
mondi possibili, egli non intende che esso sia immune da mali ma che in questo mondo si realizza
un rapporto tra bene e male che è necessario.
Esso è necesario perché Dio non poteva creare un mondo perfetto che sarebbe stato uguale a lui e
per questo ha creato il male che non è predominante sul bene ma è necessario affinchè il bene si
realizzi. Inoltre, lo stesso male può essere di due tipi.

Il male «metafisico» che come già aveva sostenuto Agostino – che esprime la differenza tra il
creato e il creatore, ovvero l’impossibilità che il mondo e l’uomo abbiano la stessa perfezione di
Dio.

Il male «morale» che nasce dall’imperfezione necessaria dell’uomo. Infatti, le percezioni e la


conoscenza umane, per quanto tendano alla perfezione, non possono mai raggiungere quella
chiarezza e distinzione assoluta che è propria di Dio soltanto: nell’uomo rimane dunque sempre
una sorta di confusione che sta all’origine di ogni errore e di ogni peccato.

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