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LEIBNIZ

Nei nuovi saggi sull’intelletto umano ci presenta la sua teoria della conoscenza, che
conclude il discorso sull’innatismo.
Insieme all’innatismo di Leibniz vediamo i modi di conoscenza e come l’uomo
conosce.
Leibniz lavora non sulla distanza tra idea e ideato, tra oggetto e rappresentazione, ma
lavora sull’immanenza della conoscenza alla realtà conosciuta. Va nella direzione
dell’identità (molto vicino a Spinoza).
Tutta la riflessione di Leibniz sul pensiero e sul corpo parte da un presupposto: esiste
una differenza sostanziale tra l’idea e il corpo. Apre un orizzonte ontologico ampio.
Il corpo è infinitamente divisibile, mentre l’idea, la monade, è semplice. Si tratta di
mettere la semplicità nel divisibile per rivelare il carattere infinito del corpo, la sua
spiritualità.

Tutta la riflessione leibniziana parte dalla riflessione matematica; c’è il passaggio


dalla quantità (corpo) alla qualità (monade) e in questo passaggio c’è il passaggio
dalla materia allo spirito.
Allo spirito non appartiene la quantità: nell’unità c’è il tutto e nel tutto c’è l’unità
(identità; la monade è l’intero mondo, il pensiero è la totalità dei pensieri e del
mondo).
Questa infinità e unità si rivela nel pensiero.
Dove Cartesio e Spinoza ragionano sul tema della corrispondenza tra pensiero ed
estensione, Leibniz parla di una corrispondenza dove salta il rapporto speculare: c’è
una relazione tra pensiero ed estensione diversa.
Esce dal filone della filosofia del 600’. Nasce da problemi cartesiani ed elabora un
modello diverso dal punto di vista ontologico.

Leibniz elabora anche una teodicea, una teoria del male. La teodicea è la riflessione
sul male, come il male si rapporta con Dio.

Leibniz mantiene uno stretto dialogo con Locke nei nuovi saggi sull’intelletto umano.

Leibniz pone l’attenzione sul conciliare i temi che la nuova filosofia cartesiana, il
nuovo empirismo lockiano, con elementi classici della riflessione scolastica e
aristotelica.
Leibniz non è un filosofo delle rotture, come Spinoza, ma è anche un filosofo della
continuità. È un grande sostenitore dell’unità della Chiesa dopo la riforma.
Leibniz è un uomo politico, costantemente impegnato in un’opera diplomatica presso
la corte di Hannover. Dal punto di visto ontologico-metafisico cerca di conservare le
inevitabili critiche che Cartesio e Spinoza hanno mosso all’idea di trascendenza. In
Cartesio Dio si manifesta nell’idea di Dio (c’è la possibilità di conoscere Dio), in
Spinoza Dio si manifesta in un rapporto diretto con la realtà.
Sul tema dell’innatismo tenta una conciliazione tra l’empirismo lockiano e
l’innatismo cartesiano. Cerca un innatismo però radicato nell’esperienza.
Dal punto di visto ontologico-metafisico è importante sottolineare che Leibniz
costruisce un’ontologia a partire dall’idea di forza newtoniana: ogni corpo è
caratterizzato da una forza che lo contraddistingue e che non coincide con il
movimento.

Gilles Deleuze definisce Leibniz come il grande filosofo del barocco. Nel barocco
artistico c’è una grande eterogeneità, sarà così anche in Liebniz. La sua filosofia
cerca di ricomporre quello che a livello fenomenico è riconosciuto come differente.
Nella filosofia vengono a coincidenza tanto l’aspetto sensibile quanto quello
razionale: dobbiamo trovare la via di mezzo che ci permette di conciliare questi due
aspetti da sempre considerati separati (Cartesio, Locke…). Leibniz costruisce una
gnoseologia dove la sensibilità è corpo della razionalità e la razionalità è forma della
sensibilità.
Viene promosso un sistema unitario in cui ontologia e gnoseologia si fondono; la
monade è una riflessione sulla conoscenza e sull’ontologia. La monade ci spiega
come la realtà appare nel pensiero e analogamente che cosa sia l’essere.

Deleuze si riferisce al rapporto tra il corpo e la monade, al rapporto tra la conoscenza


e i corpi: sono due realtà ontologicamente distinte (il corpo è scomponibile, è materia,
la monade non è scomponibile, è semplice). Questi due aspetti del reale sono
intrinsecamente diversi e non hanno comunicazione l’uno con l’altro. Il corpo ha
bisogno della monade per sussistere.

La prospettiva dualistica leibniziana utilizza lo schema spinoziano dell’immanenza


dei due attributi privandosi del riferimento all’unità: non c’è la sostanza che regge
l’unità degli attributi. La monade è quell’elemento semplice del pensiero nel quale si
riflette il mondo fisico. La monade ha bisogno di essere predicata a un corpo per
sussistere.

Il rapporto tra la monade e il corpo determina due aspetti: tutta la natura viene
spiritualizzata (inizia la biologia, non ci sono solo corpi in movimento, moto e
quiete), la monade eccede la natura e la trasforma in un qualcosa di organico, di
vivente. Non è solo un insieme di corpi.
La monade implica nel pensiero una gnoseologia. La monade è quel termine che dice
che affinché il mondo dei corpi si possa presentare a noi è necessario il pensiero, non
esiste realtà che non sia pensata: tutto il mondo si presenta come un teatro, ovvero la
monade, lo spirito entro il quale appaiono i corpi.

Non è solo un conoscere razionale, non si accede alla realtà solo attraverso il pensiero
razionale (come in Cartesio), ma Leibniz sostiene che il presentarsi dei corpi nella
monade è un presentarsi come sensibilità e ragione. Non è solo il corpo che diventa
organismo, ma anche il pensiero diventa pensiero vivente: deve incorporare la
sensibilità.
Il pensiero leibniziano è senziente, parlante.

L’ultimo aspetto è che il mondo leibniziano è senza centro, tutti i punti sono
centro: in ogni parte c’è una visione dell’intero. In Cartesio c’è un’unica fonte: l’io
pensante, così come in Spinoza c’è la sostanza come fonte unica.
Leibniz produce una totalità che non ha un centro, dove in ogni parte si vede la
totalità e non si può capire la parte senza la totalità.
Ci sono infiniti punti di vista della realtà e questi punti di vista definiscono
ontologicamente la realtà. La monade è un punto di vista sul corpo e il corpo è una
totalità di punti di vista. Anche noi siamo uno sguardo sul mondo che è risultato della
totalità del mondo. Noi facciamo parte del mondo e siamo anche sguardo sul mondo
(più o meno razionale).
Il rapporto tra totalità e parte non è più un rapporto di composizione, ma è un
rapporto osmotico: il tutto penetra la parte, nella parte ritroviamo il tutto. È un
insieme di punti di vista.

Per Leibniz non c’è differenza tra l’ordine logico e l’ordine ontologico: ciò che è vero
nell’ordine logico-matematico deve avere una corrispondenza ontologica.

Non c’è semplicemente un movimento, ma ciascun corpo esercita attrazione su altri


corpi, questo definisce propriamente la natura.

Dobbiamo vedere il rapporto tra corpo e monade, come cambia la conoscenza con la
monade, e il rapporto tra finito e infinito: e come questi temi cambino l’idea di Dio.

Leibniz andò ad incontrare Spinoza.

Vita di Leibniz:
Nasce il 21 giugno 1646 a Lipsia, e studia all’università di Lipsia.
Legge Gassendi, che tenta di riattualizzare l’aristotelismo costruendo una filosofia
atomistica passando dalla filosofia cartesiana. È un atomismo con elementi di
spiritualismo. Non si scivola nel sensismo o materialismo.

Nel 1663 affronta nella tesi il tema del nominalismo. Dopo il baccellierato studia il
diritto ed è interessato al problema della definizione. Tenta di conferire alla
riflessione giuridica il medesimo carattere di certezza della riflessione logico-
matematica.
Bisogna definire le regole di definizione. Nel 1666 scrive la “Dissertatio de arte
combinatoria” (come combinare i nomi e organizzare un discorso logico che dia al
linguaggio un’evidenza di carattere dimostrativo). Conosce Boineburg era segretario
della Royal Society di Londra. Incontra anche Huygens.
Nello scritto “Confessio philosophi” affronta per la prima volta il problema della
teodicea. Nel 1676, passando dall’Olanda, incontra Spinoza.
Nel 1678 riceve l’opera postuma di Spinoza.
Nel 1685 comincia a lavorare alla storia della casata degli Hannover (Braunschweig-
Lunenburg).
Nel 1688 finisce di scrivere il “Discorso sulla Metafisica”

Nel 1706 scrive la “Teodicea” mentre agli anni 1703-04 risale lo studio di Locke e
dei suoi saggi sull’intelletto, scrive inoltre i “Nuovi saggi sull’intelletto umano”.
Nel 1714 scrive la Monadologia. Muore nel 1716.

Negli ultimi anni si accende una viva polemica contro Newton e la sua concezione di
spazio e di tempo.

Leibniz è stato capace di abbracciare numerosi campi del sapere, ha avuto una cultura
vastissima.

TEORIA SUI NOMI: Dissertatio de Arte combinatoria (cerca di costruire un


linguaggio universale in grado di formalizzare ogni sapere; la metafisica è la
scienza che si occupa dell’ente, e in generale di ciò che si predica di tutti gli enti;
da scienza dell’ente diventa quasi aritmetica -l’ente viene ridotto a corpo, a
numero-; il “sito” è la collocazione delle parti, può complicarsi; la variabilità di un
sito può numerarsi; il concetto si riduce a carattere; abbandonerà il progetto
perché non riesce a definire un elemento primo)
C’è il tentativo di costruire il sapere che riesca ad essere universale. Si ricerca una
forma universale attraverso la quale costruire un sapere deduttivo per ciascun ambito
del sapere. Questo sforzo era già stato tentato da Cartesio quando aveva cercato di
definire una mathesis universale, un linguaggio universale in grado di formalizzare
ciascun linguaggio della realtà.
Ci deve essere una scienza generale in grado di spiegare e dare l’ordine e la misura a
ciascun ambito del sapere.
Pietro Ramo cerca di rielaborare la logica e superare la logica aristotelica, renderla
capace di scavalcare i limiti matematici impostagli da Aristotele.

Leibniz tenterà sempre di unire temi aristotelici con i risultati della speculazione
cartesiana, lockiana e newtoniana e lo fa anche quando nel 1666 tenta di cercare
questo linguaggio universale.

1. Punto primo “Dissertatio de arte combinatoria”. Leibniz definisce la metafisica


come la scienza che si occupa dell’ente (definizione aristotelica). Che cos’è l’ente
nella metafisica aristotelica? È il suo oggetto, e la metafisica studia l’essere
dell’ente, ciò che è generale rispetto alle cose, e generale è ciò che si predica di
tutti gli enti.
3. Né le qualità, né la quantità, né la relazione sono enti, la loro trattazione spetta alla
metafisica.

Attraverso la definizione di ente Leibniz definisce la natura come insieme di enti che
si compongono e scompongono, questi enti possono essere quindi numerati. L’unità è
l’astratto dell’uno. La quantità è il numero delle parti.
Inizialmente Leibniz aveva detto che la metafisica era la scienza degli enti e aveva
definito l’ente come una modalità dove si predica l’essere. Successivamente riduce la
metafisica a una scienza dei numeri: l’ente diventa simile a un corpo e come tale è
numerabile. La metafisica scivola in aritmetica.
Il numero è universalissimo e appartiene alla metafisica. La metafisica non deve
descrivere solo fenomenicamente l’ente, ma lo scarnifica e lo riduce ad ente numerico
in quanto il numero è qualcosa di universalissimo.

Il “sito” è la collocazione delle parti. L’universalità si compone distinguendo sito (la


sostanza, l’ente inteso come sostanza, come le parti stanno assieme) e la
complessione (l’unione di una totalità minore in una maggiore, come i siti stanno in
rapporto tra di loro, come si complicano). Questa complicazione è detta “variazione”.
La caratteristica universale conta distinguendo in unità, che sono i siti, gli enti più
semplici, che stanno in relazione con altri enti dando origine a delle complicazioni, a
enti più complessi. La variabilità di un sito, come un sito sta dentro delle
complessioni, può essere numerata. La complessione è la variabilità di una
complicazione.

Il problema che Leibniz incontra, e che lo porterà ad abbandonare questo progetto, è


la definizione dell’elemento primo (sarà lo stesso problema che incontrerà per la
monade).
La teoria della conoscenza ha l’intento di essere universale e in questa è molto
importante la matematica, l’elemento numerico.

Martedì 24/11/21

Leibniz affronta il tema del linguaggio per primo nella sua filosofia.

L’inizio della riflessione teorica leibniziana è influenzato dalla sua considerazione del
diritto; inizia una formazione giuridica e cerca di trovare dei sistemi di elaborazione
logica dei fatti umani che possano produrre delle riflessioni giuridiche capaci di
godere della medesima certezza del linguaggio logico-matematico.
Leibniz è convinto dell’esistenza di una logica universale immanente alle cose e che
attiene alla dimensione del possibile e dell’effettuale. Il mondo naturale è un mondo
razionale formalizzabile in un linguaggio universale applicabile a tutti i campi del
sapere.
Questo aspetto viene ereditato dalla rivoluzione scientifica (Cartesio è di questa idea,
Spinoza invece ritiene ad esempio il linguaggio teologico non ugualmente certo a
quello logico).
Per Leibniz si può trovare un linguaggio universale.
Nel dialogo “Dissertatio de arte combinatoria” abbiamo visto come si possa dividere
qualunque dato fattuale secondo alcuni termini (sito, variazione, complessione);
questa è la via che ci porta a definire il linguaggio universale capace di raggiungere la
verità a prescindere dall’oggetto sul quale viene applicato.
Vengono individuati caratteri universali, comuni.

Una volta che noi abbiamo uno strumento di formalizzazione generale, è conoscendo
questo strumento che possiamo addentrarci in ambiti del sapere che ancora non
sappiamo: le conoscenze saranno molto più semplici. La lingua universale è una
lingua composta di numeri e rapporti di carattere algebrico.

In Elementa characteristicae universalis (scritto una decina d’anni dopo) viene


espresso più chiaramente attraverso esempi come si possa esprimere concetti
attribuendo numeri e rapporti matematici: animale=2, razionale=3, uomo= 2x3 = 6).
Leibniz considera la logica un sapere certo, formale, che deve giungere a essere un
sapere deduttivo. È un filosofo della certezza, la natura e i fatti umani sono
riconducibili a numeri; Leibniz ha una sapienza enciclopedica ed è interessato a
costruire un’unità che tiene insieme ambiti teorici diversi insieme.
Bisogna operare una fusione tra gli schemi e i rapporti della logica tradizionale e i
risultati della fisica meccanica, matematica. Le scienze devono aspirare a quel grado
di certezza proprio della logica tradizionale.
Non solo Leibniz è un filosofo della logica, dell’unità, della certezza, ma immette in
questa idea di verità alcuni elementi eterogenei: attenzione alla storia del linguaggio
(non è un sapere solo sincronico ma deve contenere dentro di sé il progresso della
storia e della verità, il convenzionalismo e il nominalismo) e la sensibilità (non pone
la verità solo nell’intelletto).
Leibniz medita Locke e pensa che l’intelletto sia anche sensibilità, sia anche
percezione. Prova a costruire l’omogeneo utilizzando elementi eterogenei presi dal
dibattito filosofico a lui contemporaneo.

LINGUAGGIO COME PRODOTTO DELLA STORIA UMANA; Mario


Nizzolio, dibattito sugli universali (il linguaggio è un prodotto storico e sociale,
vengono rintracciati anche elementi universali; Nizzolio esalta la retorica antica
come indispensabile alla filosofia, il filosofo deve conciliare l’antichità con
l’innovazione; catalogare in genere e specie; dibattito tra realisti e nominalisti)
Per un verso considera il linguaggio come un prodotto della storia umana (vicino a
Locke e Hobbes), ma dall’altro considera il rapporto tra cose e segni delle cose come
non direttamente derivato dalla storia, ma il significato si attacca alla cosa
rintracciando elementi universali.
Questo problema lo ritroviamo in uno scritto di Leibniz del 1666, è la prefazione che
scrive all’opera di Nizzolio del 1553. Nizzolio si definisce un ciceroniano, è attento
agli studi classici ed esalta la retorica classica come dispositivo necessario alla
filosofia.
Questa attenzione alla bellezza del linguaggio e alla retorica però non deve arrendersi
alla possibilità di innovare il sapere filosofico dal punto di vista contenutistico.

Questa sintesi dell’antico con il moderno interessa molto Leibniz e ripubblica l’opera
due volte. Nella prefazione affronta il problema degli universali.

Specie e genere:
Le sostanze vengono definite in categorie attraverso il genere e la specie, la specie è
sempre subordinata al genere (la specie uomo è definita dal genere animale; la
definizione della specie umana è “animale razionale”).
Accidente è quella cosa che può essere presente o assente senza distruggere il
soggetto, non è un’essenza.
Proprio è ciò che appartiene propriamente a una specie ma che non appartiene alla
definizione dell’essenza della specie (“l’uomo è capace di ridere ma il ridere non
rientra nella definizione di uomo”).

Il sapere cartesiano mira a spiegare il funzionamento delle cose, la loro logica interna.
In Cartesio costruisco un modello, qui costruisco degli insiemi, delle categorie.
Il dibattito sugli universali ha diviso realisti e nominalisti: per i realisti esiste nelle
cose un elemento che ci consente di categorizzare, esistono realmente i generi, le
specie, incorporati nelle cose. I nominalisti considerano le categorie come solo dei
nomi che gli uomini creano per definire le somiglianze che appaiono loro.
A partire da Tommaso d’Aquino nasce la tradizione realista più o meno moderata;
mentre da Guglielmo d’Occam parte la tradizione nominalista (più vicina al mondo
anglosassone).

Hobbes è un radicale nominalista. I vocaboli cambiano, l’attribuzione della verità


cambia, le parole sono come gettoni per calcolare. Non è valido il principio
d’autorità. Ciò che è vero è definito per convenzione: ciò che è vero è addizione o
sottrazione.

La posizione hobbesiana sembra richiamare ciò che abbiamo detto di Leibniz per
quanto riguarda la caratteristica universale: l’attribuzione di nome assomiglia a un
calcolo logico-matematico.
Hobbes: senza i vocaboli non c’è possibilità di calcolare i numeri: i vocaboli sono
come i numeri che ci servono per organizzare l’esperienza e il lavoro.

Spinoza invece critica gli universali perché l’universale è il risultato della


conoscenza immaginativa e quindi è un’approssimazione della realtà fondata sulla
propria esperienza: l’universale è una categoria per definire ciò che abbiamo
incontrato come simile. Nell’universale mettiamo dentro il risultato dell’esperienza
soggettiva e collettiva. Sono una meditazione ingenua della realtà.

LEIBNIZ SUGLI UNIVERSALI: (se fossero frutto solo dell’esperienza noi non
potremmo avere un sapere certo; Hobbes con l’ipotesi annichilatoria risolve ma
riconosce i limiti del convenzionalismo; gli universali hanno un’origine legata
all’esperienza ma la loro verità è da ricercare nella loro origine; dobbiamo far
coincidere il significato formale con quello originario; è una convenzione che va
incontro all’uso e all’origine; Nizzolio emblema della sintesi tra antico e moderno)
Fa una critica sottile verso Hobbes: se i nomi, le categorie, gli universali, sono frutto
unicamente dell’esperienza e delle convenzioni (come dicono Hobbes e Spinoza) noi
non potremmo mai arrivare alla costruzione di un sapere certo. Fondandosi sulle
somiglianze gli universali avrebbero validità fino a prova contraria.
La definizione di uomo come animale razionale è una convenzione, devo pensare ciò
fino a che nella mia esperienza incontro un uomo non razionale: è frutto di una
conoscenza di carattere induttivo. Io dovrò ammettere che l’universale si costruisce
unicamente a partire dall’esperienza, frutto di una conoscenza induttiva.
Leibniz vuole invece ambire a una certezza, alla certezza della logica.
C’è un’origine dall’esperienza per gli universali, sono frutto di convenzioni; ma data
la loro stabilità e autorità possiamo dire che sono in grado di fondare un sapere
apodittico, certo. Tutta la stabilizzazione degli universali è operata ricorrendo
all’origine, alla genesi della verità. L’emersione della verità è segno che possiamo
utilizzare quella categoria come se fosse in re e non frutto di una convenzione.
La ultima forma della verità che si è stabilità storicamente la dobbiamo considerare
certa.

Bisogna unire quello che nella storia si è andato frammentandosi (come per le
Chiese).

Il primo problema è fondare il rapporto tra significato formale e significato


convenzionale (è un rapporto linguistico, non ontologico). Si tratta di stabilire il
rapporto tra universale e particolare.
Come possiamo stabilire il formale, l’universale? Risaliamo all’originario, che è
quello che dobbiamo far coincidere come il formale. La formalizzazione va a
coincidere con l’uso originario. Tra i vari usi che si presentano va scelto quello che
più si avvicina all’origine.
La convenzione non può essere pura, senza vincoli. L’universale non è sempre
stabilito ex novo, ma bisogna ritornare al significato originale del termine.
Una volta determinata la definizione bisogna attenercisi il più possibile.

Originario ma al contempo in uso: formale, universale, è ciò che è al contempo il


risultato dell’uso e ciò che è originario. Non è una pura convenzione, ma è il risultato
dell’incontro tra l’uso e l’origine.

È una posizione di sintesi tra l’uso e la radice storica.


Se gli universali fossero solo un insieme di individui allora non sarebbe possibile
nessuna dimostrazione e ci sarebbe solo una conoscenza per induzione. Le scienze
sarebbero così distrutte.

Viene criticato il nominalismo perché non possiamo considerare gli universali come
frutto di una mera convenzione, dobbiamo invece costruire una sintesi tra la forma e
l’origine (l’origine è individuare nell’applicazione più antica il significato più proprio
del termine; viene usata la storia contro un convenzionalismo radicale: cambiano le
forme, i linguaggi, ma la verità rimane una).
L’oggetto non cambia, possono cambiare i linguaggi ed è compito del filosofo
individuare i collegamenti tra i vari linguaggi.

Giovedì 25/11/21
Nizzolio è un ciceroniano, partecipa della rinata attenzione nei confronti del mondo
classico (umanesimo, e rinascimento poi); si distingue per un ritorno al ciceronismo
come forma letteraria classica. Ritorno incentrato più sulla forma letteraria piuttosto
che sul contenuto: i contenuti cambiano, non si possono riproporre i temi classici.

Nizzolio elabora una posizione propria sugli universali che Leibniz fa propria: tenta
di riconciliare forma e origine. Si tratta di combattere un eccessivo nominalismo
utilizzando come principio di stabilizzazione dei concetti la loro origine.
Contrapporre a un radicale convenzionalismo (come quello hobbesiano) una
riflessione che tenta da un lato di riconoscere nella generalità, nell’astrazione, nella
convenzione, il tratto saliente degli universali. Non termina però in un
convenzionalismo assoluto, non è relativismo. La storia è un luogo dove le
definizioni umane acquistano spessore e autorità contro una definizione hobbesiana
che attribuiva alla mera convenzione la determinazione dei caratteri generali.

Nizzolio ci è servito per riaffermare il bisogno leibniziano di conciliare l’antico


con il moderno, producendo delle sintesi. I risultati delle scienze dovevano essere
inscritti in un sistema filosofico che conteneva anche i principi aristotelici classici e
della scolastica.
Nel 600’ ci sono importanti impulsi all’innovazione, come ad esempio la rivoluzione
scientifica o nel campo teologico tutto ciò che segue la riforma e le guerre di
religione. Il 600’ è anche un luogo di lettere classiche, in continuità con il 500’; ci
sono autori classici letti e meditati con le stessi ambizioni della scolastica.

Perché Leibniz è contrario a un eccessivo nominalismo? È un autore che da una parte


cerca la sintesi, la via di mezzo. Un eccessivo nominalismo, convenzionalismo, (i
nomi non sono altro che mere etichette attribuite arbitrariamente) determina
l’impossibilità di procedere alla definizione di un sapere certo: impedisce l’accesso
alla certezza.
Il ragionamento di carattere deduttivo viene messo in discussione. Se le categorie
sono solo strette somiglianze tra le cose allora sono arbitrarie, soggettive.
L’accordo vale solo fino a prova contraria, fino a un’esperienza contraria.
Anche lo stesso testo di Hobbes non si reggerebbe se si fondasse solo su mere
convenzioni.
Hobbes risolve con l’ipotesi annichilatoria (ipotizzo che la realtà scompaia o si
distrugga, ma noto che con esso non scompare anche l’immagine che mi sono fatto
delle cose): ognuno di noi percepisce individualmente e non è possibile una scienza
dei corpi strutturata sulle percezioni; Hobbes stabilisce la convenzione secondo la
quale quello che uno percepisce deve valere per tutti come ipotesi.
Certezza: si riallaccia al discorso sugli universali, Hobbes, (per Leibniz c’è uno
scarto tra possibile ed effettuale: nel mondo della logica vige il principio di non
contraddizione, nel mondo reale ciò che è vero è vero fino a prova contraria;
dobbiamo aggiungere all’esperienza delle proposizioni universali: principio di non
contraddizione, inammissibilità del non percepito e inammissibilità del presunto;
distinzione tra verità di ragione e verità di fatto; Locke si affida all’esperienza come
universale in sé, Leibniz pensa sia la logica l’universale in sé)
Leibniz costruisce uno scarto tra il possibile e l’effettuale (tra le verità di ragione e le
verità di fatto), prende sul serio l’obbiezione di Hobbes e dice che le verità di
carattere deduttivo, quelle certe, sono tali nel mondo della possibilità, della pura
logica: qui vige il principio di non contraddizione, il principio d’identità.
Il mondo del possibile è il mondo del certo. Non possiamo stabilire la certezza su ciò
che avviene di fatto in natura, possiamo descrivere, analizzare. Ciò che è vero
nell’esperienza è vero fino a prova contraria.
Nel mondo della logica, dell’algebra e della geometria invece vige la certezza. Separa
il mondo della logica dal mondo delle cause e degli effetti.
Se consideriamo l’universale il mero risultato di una convenzione fra individui non
possiamo parlare propriamente di universale.
Se stiamo all’esperienza e a tutti i casi esperiti noi non possiamo universalizzare
l’espressione: “il fuoco brucia”. L’inferenza da sola non basta a farci credere che il
fuoco brucia, dobbiamo “aggiungere” alla nuda esperienza anche delle proposizioni
universali, che non dipendono dall’induzione dei casi singoli, ma da un’idea o
definizione universale dei termini.

Questa certezza morale la possiamo giustificare rivolgendoci al mondo della


possibilità, della logica.
Le tre affermazioni che sostengono la mia certezza morale sono:

 Se la causa è la stessa o simile in tutti i casi, allora l’effetto sarà lo stesso o


simile in tutti i casi. (Principio di causa)
 Non si presume l’esistenza di qualcosa che non è percepita. Posso considerare
esistente con certezza solo ciò che percepisco
 Tutto ciò che non è presunto deve essere trascurato in pratica fino a che non è
provato. Ciò che io non riesco ad ipotizzare lo devo trascurare.

Questi tre principi sono principi della logica che non attengono in modo particolare
alla proposizione “il fuoco brucia”. Però se il fuoco brucia in un luogo brucerà anche
in un altro, inoltre non posso presumere l’esistenza di un fuoco che non scotta perché
non ne ho mai fatto esperienza e infine non posso presumere che esista un fuoco che
brucia in maniera diversa da un altro fuoco se non posso farne esperienza.

Io mi affido con un atto di carattere morale al fatto, ma questo atto di fede è


supportato da 3 principi logici.

Leibniz lavora sull’ipotesi annichilatoria di Hobbes e dice che questa ipotesi non è
propriamente una scelta, ma è un atto di fede necessario; lo facciamo perché ci diamo
delle regole che si fondano su alcuni principi logici (principio di non contraddizione,
l’inammissibilità del non percepito e l’inammissibilità del presunto).
È un ragionamento giuridico, prende in considerazione solo i fatti “ricostruibili” che
sono veri, esclude la prova contraria, il ragionevole dubbio.
In linea del tutto ipotetica ci potrebbe essere un fuoco freddo, ma solo in linea
puramente teorica: io non posso ammettere come vera qualsiasi cosa mi salti in
testa se non c’è stata mai una dimostrazione, un’esperienza.
Non si capisce perché la stessa causa debba produrre in due luoghi diversi due effetti
diversi.
L’esclusione non è mero arbitrio, ma è fondata su principi logici.

Leibniz riesce a fondare la certezza del fattuale sulla certezza dell’ipotetico: la


seconda certezza viene ridotta alla prima.

Ci si deve arrestare sempre alla proposizione che tutti i casi che sono stati
esperiti hanno la caratteristica in questione.

Locke aderisce all’esperienza, universale in sé, Leibniz dice invece, rielaborando


Locke, che l’esperienza è sempre eterogenea, non è universale in sé. Riprende un
elemento cartesiano, nella misura in cui dice che l’universale in sé non è l’esperienza
ma è la logica. Io uso la logica per standardizzare l’esperienza.

Collegamento con Malebranche:


Qual è la differenza tra la posizione di Locke e di Cartesio e quella di Leibniz? Per
universalizzare l’esperienza a un certo punto si distanzia sia da Locke che da
Cartesio: Leibniz conferisce un primato alla logica, dove sia Locke che Cartesio
partono dalla sensazione (noi delle idee non abbiamo che la percezione, da qui parto a
dire che ho le idee innate o dico che non esistono). È vicino a Malebranche perché lui
dice che le idee innate esistono in Dio: la verità della logica è affidabile a prescindere
dalla nostra esperienza, non la traiamo da essa ma c’è, è un dato del quale facciamo
esperienza intellettuale. È un fatto.
Questo fatto può essere usato verso una deriva induttivista.
La Logica è un’esperienza, il principio di non contraddizione c’è e lo esperisco
intellettualmente: Locke (e anche in parte Cartesio) limita la conoscenza al dato
sensibile esperito.

Si può avere scienza dimostrativa solo quando le dimostrazioni concernono il mondo


del possibile, oppure quando le premesse degli argomenti sono espresse in forma
condizionale.
Per accertare il fatto io devo disporre di principi logici che riguardano le possibilità e
verificando queste possibilità io ricostruisco il fatto.
Non esistono solo i dati della sensibilità ma esistono anche i principi logici, il mondo
della possibilità che io vedo attraverso la logica lo posso considerare vero tanto
quanto i dati sensibili. Cartesio nelle dimostrazioni dell’esistenza di Dio ragiona in
questo modo (vengono usati i principi della logica come veri e consistenti).

C’è una discontinuità di ragione e non una discontinuità di fatto: sono due tipi di
verità differenti. La verità che vedo con i sensi (la mela che cade) sono verità di
fatto, le verità invece dei principi sono verità di ragione. Io uso una per spiegare
l’altra ma l’una non spiega completamente l’altra.

Analizziamo l’opera del 1677 intitolata “Dialogus de connectione inter res et verba”.
Questo dialogo ripropone questo modo di stabilire la verità.
La soluzione finale di Leibniz è che esiste un mondo della logica dove esiste il
cerchio in sé, che non è il cerchio sulla carta; i cerchi sulla carta sono tutti diversi, le
esperienze possono essere tutte diverse dalle altre, il tessuto logico è universale
invece.
Per questo possiamo costruire una caratteristica, un sistema di segni valido in tutti gli
ambiti dell’esperienza.

Noi possiamo costruire una filosofia che provi a tradurre quell’universale in un


linguaggio che è sicuramente un linguaggio del punto di vista, è un’esperienza,
storicamente determinato, uno sguardo su una verità. Di questa verità tiene la forma.
Leibniz dice che tiene la forma non perché il fenomeno occlude in noumeno, ma il
noumeno ha bisogno del fenomeno per esprimersi: senza il particolare l’universale
non affiora. Si tratta di costruire un’idea di verità dove l’unico modo per accedere alle
verità di ragione sono le verità di fatto; non esiste una totalità se non dal punto di
vista della monade. Fa l’idea aristotelica-galileana di un mondo fatto di leggi, ma si
avvicina a Locke quando dice che è un sistema filtrato dall’esperienza, dai sistemi
semplici, dagli sguardi individuali.
Tutti i temi dei tre i testi (“La caratteristica universale”, “Dissertazione preliminare su
Nizzolio” e “Dialogo sulla connessione fra le cose e le parole”) possono essere
sintetizzati così:
Come possiamo escludere il relativismo che deriva dal convenzionalismo?
Distinguendo due piani: il piano della logica, della connessione tra le cose, il mondo
della possibilità, e il piano dell’effettualità, dei segni, delle percezioni, della datità
nella sua concretezza.
Posso considerare i linguaggi al di là del mero convenzionalismo.

Lunedì 29/11/21

NUOVI SAGGI SULL’INTELLETTO UMANO (teoria della


conoscenza, innatismo ed empirismo) (dialogo tra Filalete -lockiano- e
Teofilo -leibniziano-; Leibniz non scredita l’esperienza; l’esperienza però fornisce
solo esempi; In Locke l’esperienza è fondamentale per pensare, in Cartesio le idee
sono fondamentali, in Leibniz parto dall’esperienza ma la certezza me la dà la
logica; il razionalismo di Leibniz assume una deriva lockiana; la verità emerge
dalla logica provata dalla sensibilità; la conoscenza puramente sensibile è propria
degli animali; confronto tra monade anima e monade spirito)

La caratteristica universale è l’idea di una lingua universale, un nuovo modo di


pensare il rapporto tra segno e significato; la logica universale viene rappresentata
attraverso un linguaggio universale per arrivare a un sapere universale.
Analizzando lo scritto su Nizzolio abbiamo visto la posizione di Leibniz sul
convenzionalismo: attribuisce alla storia un ruolo importante nella definizione dei
significati.
Il convenzionalismo determinerebbe l’impossibilità di produrre conclusioni
universali; Leibniz almeno nel mondo della possibilità vuole costruire un pensiero
che possa sortire conclusioni di carattere universale.
Leibniz opera una qualificazione della conoscenza nella quale, per salvare la
possibilità di una conoscenza universale, dietro la riflessione lockiana sull’esperienza,
distingue livelli di conoscenza diversi.

Questo scritto viene composto nel 1704 ma che rimarrà inedito fino al 1765 (dopo la
morte di Leibniz). Non lo pubblica perché nell’anno in cui vorrebbe pubblicarlo
muore Locke (scelta etica).
Alcune delle obbiezioni di Leibniz vennero fatte recapitare a Locke già molto
anziano, ma quest’ultimo non si preoccupò di rispondere.
Perché “nuovi saggi”, al plurale? Perché l’opera si struttura come un dialogo tra
Filalete (che rappresenta la posizione lockiana) e Teofilo (che rappresenta la
posizione leibniziana); “nuovi saggi” perché Leibniz presenta tutte e due le posizioni
(il saggio di Locke e il nuovo razionalismo leibniziano).
Il razionalismo di Leibniz si differenzia da quello cartesiano perché valuta
positivamente l’esperienza e passa dal confronto con l’empirismo. L’esperienza
positiva non compromette una azione dell’io pensante che agisce sui dati
dell’esperienza riordinandoli.

Solo la premessa è da portare all’esame.

I toni sono gentili, non aspri come i toni di Cartesio quando risponde alle obbiezioni.
Leibniz sostiene la possibilità di una conciliazione tra empirismo e razionalismo:
l’esperienza è indispensabile all’emersione nella coscienza di idee che hanno
carattere di universalità, perfezione, eternità, che sono propri dell’innatismo
cartesiano. Si produce un sapere logico dotato di effettualità.
Si riconosce all’io la possibilità di essere altro rispetto al dato sensibile. Leibniz
contesta l’idea di Locke secondo la quale l’io non è sempre attivo, non pensa sempre;
l’io invece ha una sua identità, non è semplicemente percezione: esistono delle realtà,
delle funzioni che sono altro rispetto all’esperienza; sono strumenti per raggiungere
un sapere universale a partire dall’esperienza.

Leibniz fa un confronto con l’animale, che conosce solo lockianamente, attraverso


l’esperienza: non arriva al sapere, alla logica, ma dà solo risposte contingenti.

Esistono forme di conoscenza di carattere universale (nozioni comuni) cioè sono


dotate di eternità e partecipano della perfezione divina. Tutte le verità dipendono
dall’esperienza? L’esperienza è sufficiente a formare i saperi certi?
I sensi non sono sufficienti: forniscono solo esempi. L’esperienza ci fornisce una
conoscenza di carattere individuale, contingente.
Queste verità non possono essere solo derivanti dall’esperienza.

La metafisica, la logica, la morale, devono avere verità che non dipendono


dall’esperienza; la fisica lockiana non può ambire alla qualificazione dell’universalità
ed eternità. Ma tuttavia senza i sensi non ci sarebbe stato modo di pensare in alcun
modo. Cartesio invece aveva detto che senza le idee innate noi non possiamo pensare
(non riusciamo attribuire l’estensione alla cera senza l’idea dell’estensione). Leibniz
dice che esistono dei saperi necessari, universali, ma l’esperienza ha un ruolo
decisivo, fondamentale, per farci arrivare a quei saperi.
Tutti i saperi di carattere speculativo sono provati solo da principi a loro interni,
principi innati.

Del razionalismo conserva l’ambizione all’universalità, ma non incardina il rapporto


tra intelletto e sensibilità secondo la stessa traiettoria cartesiana, bensì usa la
traiettoria lockiana (posizione di sintesi).

Non conosciamo gli universali direttamente in Dio (come in Malebranche), ma la


ragione deve immergersi sempre nell’esperienza, nella sensibilità. L’attenzione è la
funzione che ci permette di riconoscere l’eterno, l’innato nella sensibilità.
L’esperienza è il luogo dove scopriamo la legge ma è anche il luogo dove noi la
mettiamo alla prova. La legge ha una natura che non è riconducibile alla mera
contingenza.
Gli animali non hanno anima, non sono altro che automi, agiscono solamente come
sostanza estesa (Cartesio). Leibniz sostiene che gli animali hanno un modo di
ragionare, una capacità di produrre una forma di pensiero che però si consuma tutto
nella contingenza (memoria non profonda, abitudine).
Gli animali rispondono sempre allo stesso modo verso gli stimoli.
La conoscenza degli animali si basa unicamente sull’esperienza, sugli esempi, non è
una conoscenza certa, non producono previsioni con certezza, ma procedono per
“sedimenti”.

Non c’è io: tutto parte dalle sensazioni. La riflessione non è altro che risposta alla
sensazione.
La conoscenza eterna, necessaria e scientifica è la conoscenza che Dio ha delle cose,
è la conoscenza della possibilità delle cose. L’uomo a differenza degli animali ha
questa capacità (condivide con Dio la capacità di vedere quelle verità di ragione che
fanno da sfondo alle verità di fatto).
Per Spinoza l’essere di Dio è sempre necessario e che si dà nella determinazione
naturale; Leibniz vede Dio come l’essere della razionalità, della possibilità, e poi c’è
la natura (l’esperienza, che concretamente si realizza). Distingue tra natura e Dio
(mette la logica in Dio e la sensibilità nel corpo, nella natura), sono due piani distinti.
L’uomo mette capo al progresso, può raffinare la propria conoscenza. L’uomo sfrutta
lo scarto tra la logica e l’esperienza.

Idee innate e critica dell’empirismo lockiano: (le idee innate emergono con
l’esperienza; l’appercepito è ciò che io so di sapere; metafora del blocco di marmo
con le venature; concetto completo -concetto in grado di esprimere tutti i predicati
di una sostanza)
Ci sono universali, ma il fatto che ci siano non implica che tutti li sappiano:
emergono nell’esperienza.
Non sono la stessa cosa l’universale e il percepito: i selvaggi non hanno fatto
l’esperienza necessaria affinché le idee che sono in loro innate vengano anche
percepite. Se non c’è stata l’esperienza significa che queste verità sono rimaste in
forma virtuale: su queste verità non agisce la coscienza.
L’appercepito è ciò che io so di sapere, è ciò che passa dal virtuale ad una
condizione di attualità.

Il ragionamento lockiano si indebolisce nel passaggio dalle idee semplici alle idee
complesse: l’idea semplice coincide con la sensazione, con l’esperienza, ma poi lo
stesso Locke ammette che c’è un lavoro sull’idea semplice che la trasforma in idea
complessa. Tutto questo non può essere un lavoro dell’esperienza (per Locke anche le
idee complesse sono percezioni, percezioni di relazioni), ma quando io faccio un
confronto tra due cose ci vuole un soggetto che operi il confronto. La riflessione non
è altro che un’attenzione su ciò che è in noi, e i sensi non ci evidenziano ciò che è già
in noi. L’appercezione dell’io è innata: noi siamo innati a noi stessi.

Sono in noi: essere, unità, sostanza, durata, mutamento, azione, percezione,


piacere. Tutto quello che è risultato del lavoro dell’io lo dobbiamo iscrivere all’io
almeno in forma virtuale: l’io attiva queste forme a lui innate attraverso l’esperienza.
L’esperienza ci permette di inserire la materia dentro la forma.
In Cartesio senza le idee innate noi non formiamo l’esperienza, l’idea innata è la rete
che ci permette di strutturare la sensibilità. In Leibniz si tratta di attivare l’idea
attraverso la sensibilità (il sensibile attiva l’innato, al contrario di Cartesio).

Ci sono elementi virtuali in noi che non sono appercepiti. Quando rimangono in una
condizione di virtualità? Quando siamo distratti.

IO sono l’anello di congiunzione tra la virtualità e l’effettualità (non sono mera


natura), c’è in me un elemento divino per il quale ho bisogno dell’appercezione
nell’esperienza per renderlo attivo.
È come se fossimo un blocco di marmo composto da infinite venature (non c’è solo il
marmo, ma anche le venature, la razionalità). La monade è immanente al corpo, ma
lo trascende perché è dotata di infinitezza, di divinità. Ritroviamo lo stesso problema
che qui assume una declinazione gnoseologica.
Nella tabula rasa di Locke il marmo non ha venature: scolpire la figura di Ercole in
una tabula rasa significa che il marmo può ricevere qualsiasi forma; pensare come
Leibniz significa pensare un blocco di marmo che ha già in potenza delle venature,
delle linee di frattura, che l’esperienza colpisce e fa emergere la figura di Ercole.
Dentro al marmo c’è la statua di Ercole, non altro.
Noi siamo disposti a certe verità, come siamo disposti a inclinazioni, disposizioni,
abitudini: siamo disposti a un certo tipo di sensibilità, di esperienza, di verità;
L’esperienza traduce questa potenzialità in atto.

Questo tema è già pensato nel Discorso di Metafisica, con il concetto completo. Il
concetto completo è il concetto di una cosa che esaurisce completamente ciò che la
cosa è (è il concetto perfettamente adeguato, logicamente perfetto, è l’idea adeguata
da un punto di vista logico). Questo tema era già presente in Spinoza, in Locke, in
Cartesio: l’idea adeguata è l’incontro tra l’innato e il sensibile, è il riconoscere nel
dato ciò che è eterno. Il vero in Locke è l’esperienza.
Il concetto completo è il vero logico, ovvero il vero capace di esprimere tutti i
predicati possibili di quella data sostanza. Il concetto completo di una persona è il
concetto di tutte le infinte azioni che quella persona può fare nella sua vita. Le realtà
materiali, effettuali, si conoscono attraverso il principio di ragion sufficiente,
attraverso la conoscenza delle cause.

Leibniz distingue tra possibile e necessario, ma alla fine ciò che è possibile è
esplicitazione del necessario (anche se questa necessità appartiene alla logica, non
alla natura). Senza le venature l’esperienza non potrebbe essere determinata: ciò che
io esperisco è determinato perché ho una serie di venature, di idee logiche, che mi
permettono di riconoscere la necessità nelle cose, nella contingenza. La natura si
svela nella sua necessità solo al soggetto che è capace di vederne la necessità.
L’esperienza è il luogo nel quale si produce e si scova la verità, è il contingente
dentro al quale emerge e si sviluppa il necessario, il logico (in Spinoza invece si
produce l’immaginazione).

L’empirismo sostiene che nulla è nell’anima che non provenga dai sensi, ma bisogna
fare eccezione dell’anima e delle sue funzioni, dell’intelletto stesso.

Secondo tema della premessa ai nuovi saggi (tema delle piccole percezioni,
ciascuna monade percepisce tutto ma non di tutto è cosciente; la verità è
un’elaborazione della percezione; Locke non distingue tra percezione e
appercezione; solo Dio può percepire tutto immediatamente ed esserne cosciente;
la realtà non è oggetto ma è un insieme di soggetti pensanti che si riflettono anche
sulla mia coscienza):
L’esperienza è necessaria a far emergere la virtualità, ma l’esperienza è un fondo di
sensazioni che non sono appercezioni, di piccole percezioni che non sono
immediatamente coscienti: c’è un rapporto osmotico tra il corpo mio e il corpo
esterno che determina il prodursi di una serie di percezioni che non raggiungono il
livello di consapevolezza.
Il corpo in una condizione di minor distinzione con il mondo esterno rispetto
all’intelletto: ci sono delle percezioni sulle quali rimane lontana l’appercezione.
C’è una parte della sensibilità che rimane oscura; i confini dei corpi sono un prodotto
della ragione. Leibniz riflette su una serie di percezioni che rimangono non percepite,
oscure.
Ciascuna monade percepisce tutto, ma non di tutto è cosciente.

Giovedì 01/12/21

Teofilo, all’inizio del saggio, scrive che esistono delle verità che sono frutto della
riflessione dello spirito. La verità è un giudizio sulla forma delle idee, sulle relazioni;
non coincide con la percezione ma è un’elaborazione della percezione.
Le idee che vengono dai sensi sono confuse, le idee intellettuali e le verità che ne
dipendono sono distinte, e né le une né le altre hanno la loro origine nei sensi (ma è
vero che non penseremmo mai senza i sensi). Cartesio sostiene l’esistenza di un
pensiero senza la sensibilità, per Leibniz no: sono sempre necessari anche i sensi.
Si fa passare come innato quello che è una verità di parte, soggettive (accusa di
Filalete), Teofilo risponde che l’innato non è immediato, ma diventa attivo solo
attraverso la sensibilità.
Una volta che dimostriamo la necessità di passare attraverso la ragione, attraverso il
giudizio, non è più necessario dire che ci sono verità di parte che vengono
universalizzate, perché per raggiungere questa verità è necessario elaborarle.

Per Leibniz non esiste uno stato di assenza di pensiero, come non esiste uno stato di
assenza di moto: la natura è moto. Locke non producendo la distinzione tra il virtuale
e l’appercepito dice che ogni attività della coscienza sia cosciente, sia appercepita.
Per Leibniz ci sono cose che non sono consapevoli.
Noi abbiamo una totalità di memoria che funziona come un serbatoio. Per Cartesio e
Locke l’attività di pensiero è sempre cosciente.
Pensando la mente come la sostanza (la monade) sostiene che c’è una monade che si
muove con consapevolezza, ma c’è una sostanza anche quando si muove senza
consapevolezza.

Le piccole percezioni sono percezioni di cui noi non abbiamo consapevolezza; non
solo ci sono conoscenza che non sono appercepite, ma anche il rapporto tra la
coscienza e il mondo esterno, materiale, appreso dalla sensibilità (rapporto tra il
corpo e la monade), è un rapporto per pensare il quale bisogna problematizzare la
distinzione. Per Leibniz la materia filtra attraverso la sensibilità e giunge all’intelletto
attivando le idee innate. Come se noi fossimo immersi in una realtà materiale della
quale vediamo solo alcune cose, ci sono una serie di cose che vediamo però di cui
non siamo consapevoli. La percezione c’è ciò che diventa appercepito, virtuale, ma
c’è un sottofondo che fonda l’appercezione, che ha un rapporto con l’appercezione,
ma che non viene immediatamente appercepito. La consapevolezza si erge su ciò che
non è consapevole.

Noi siamo attratti dalla novità, da oggetti non quotidiani, anche se percepiamo
inconsapevolmente gli oggetti quotidiani. Se vivo sempre vicino a un ruscello, il
rumore di questo prima o poi lo ignoro e non mi attiva più la mia attenzione e la mia
memoria.
Quando ascolto il rumore del mare non sento il rumore propriamente del mare, ma
sento il rumore dell’onda che si infrange. Non avverto tutto quel movimento che fa sì
che l’onda sia quello che è.
Sono piccole percezioni inconsapevoli ma agiscono sulla consapevolezza in modo
non diretto.
Il presente è pieno dell’avvenire e carico del passato: lo sguardo di Dio può leggere
tutto lo svolgimento delle cose dell’universo.

Cartesio ha pensato l’io penso come ha pensato il corpo, come qualcosa di distinto,
separato dagli altri io penso e si differenzia dalla natura che vede. Anche in Locke la
mente fa esperienza di un mondo esterno che c’è fuori.
Leibniz invece dice che dobbiamo problematizzare questo rapporto, dobbiamo
vederlo come la monade, che è uno sguardo sulla realtà, ha un rapporto con i corpi un
rapporto fusionale. Ciò che separa la monade dagli altri corpi e dalle altre monadi è
qualcosa di indefinito. Ogni monade vede la totalità ed è in un rapporto di confusione
con la realtà (vede cose più chiaramente, altre meno).

C’è una trasformazione della natura in spirito, una vivificazione del corpo. Le piccole
percezioni sono il territorio di mezzo tra lo sguardo e il tutto.
Io vedo il mondo, ma tutto il mondo mi costituisce. È virtuale ciò che mi influenza e
influenza il mio sguardo sulla realtà.
Io sono parte di quella realtà, ci sono dentro; questa realtà è una realtà pensante,
non è un oggetto che si lascia conoscere passivamente. È un essere pensante che
riflette sulla mia coscienza.
La mia coscienza è dentro un universo di sguardi.
Dobbiamo rompere lo schema soggetto-oggetto, dobbiamo creare un’unità soggetto-
oggetto: dobbiamo essere un’unità con la monade, i confini diventano labili.

Noi siamo un soggetto che guarda e sul nostro sguardo incidono infinite cose
(aspettative, memoria, condizioni…). Il mio modo di guardare è tale perché siamo
dentro una totalità: quando vedo la parte vedo anche il tutto e ho una consapevolezza
del tutto anche se a livello percettivo ho una visione di parte.

Questa riflessione di carattere gnoseologico viene accompagnata a una ontologica: i


corpi vivono di forza, nella natura non ci sono solamente corpi, ma forze che si
attraggono e si respingono e si muovono.
Questo mondo non percepito viene tematizzato per rielaborare un’ontologia e una
teoria della conoscenza.

DIO: (Dio è la totalità delle monadi e unica monade; ha la perfetta visione del
tutto e delle parti; Dio raccoglie tutte le idee eterne e immutabili, è razionalità
immutabile -in Malebranche noi attingiamo alle idee in modo immediato; Dio è la
totalità di tutti i mondi possibili, composti da individui compossibili; Dio con un
atto della volontà fa passare alcuni possibili in reale (il migliore dei mondi
possibili); la scienza, la geometria e la logica mi rivelano l’esistenza di Dio; il male
è necessario in Dio, io devo avere fiducia nell’armonia che Dio ha messo nel
mondo)
Dio è la totalità delle monadi e al contempo è l’unica monade (è la totalità dei modi e
l’unica sostanza). È la totalità degli sguardi, delle anime, ma al contempo l’anima che
contiene tutte le anime. Dio conosce il tutto in tutto e in tutti. Ha la perfetta visione
della totalità delle parti: percepisce come tu vedi e senti, ma oltre a questo è la totalità
di tutti coloro che vedono e sentono ed è l’Unità (non è solo la totalità delle monadi).

Dio è consapevole di tutto, ci conosce profondamente; noi lo conosciamo come pura


razionalità, come legge geometrico-matematica.

Leibniz raccoglie in Dio le idee eterne e immutabili (come Malebranche), è pura


razionalità. Dio è la fonte, l’origine, delle idee e delle verità.
Esiste una natura divina rispetto alla quale Dio stesso è impotente, Dio non può
mutare i principi logici (non perché è buono, ma perché si risolve completamente
nella razionalità).
C’è un Dio anche che agisce, che compie atti di scelta. La volontà divina non può far
esistere nello stesso senso che può far esistere Adamo o la pianta. Dio non ha
capacità creativa sulla totalità del possibile: dentro a questa totalità del possibile Dio
sceglie e agisce creando le essenze.
Dio eccede la totalità dell’esistente, ma non eccede la totalità del possibile: è il
principio agente dentro la totalità del possibile. L’infinito possibile sono le essenze
delle idee eterne (logica, geometria, matematica). Dio è principio motore, fa passare
gli infiniti possibili e ne fa diventare alcuni reali.
Le idee divine non sono create da Dio.
La conoscenza umana invece partecipa della conoscenza del possibile e
dell’effettuale, conosce parzialmente le cause e conosce Dio attraverso la conoscenza
dei principi logici.

L’infinito possibile si distingue dall’effettuale, perché se così non fosse non ci


sarebbe la differenza. Per Spinoza tutto ciò che è è necessario, la ragione coincide
con l’effettualità (non c’è uno scarto tra reale e possibile); in Leibniz c’è una
effettualità, un certo modo d’essere di Dio, e c’è la possibilità. Distingue
ontologicamente i due piani.

L’ultimo fondamento della verità è lo Spirito Supremo che non può non esistere, il
suo intelletto è la regione delle verità necessarie. Queste verità contengono la ragion
determinante e il principio regolativo delle esistenze stesse.

Per Leibniz Dio c’è perché c’è la scienza, la geometria, la logica… sono dimensione
della perfezione, ci svelano l’esistenza e la perfezione di Dio. Il luogo della verità è
Dio. L’intelletto divino fa la realtà delle verità eterne.

Che cos’è il male? Dio conosce la totalità dei possibili, Dio sa che è possibile il male
e tutto ciò che avviene è necessario nello sguardo di Dio (in Dio coincidono
Effettualità e Possibilità); il tradimento di Giuda era necessario, in Dio era necessario,
nel mio sguardo (che non è sulla totalità) non era necessario, io mi devo comportare
da fedele cercando di fare del mio meglio avendo fiducia nell’armonia. Devo avere
fiducia che questo è il migliore dei mondi possibili.

IMMAGINAZIONE: (l’immaginazione è il luogo di strutturazione del dato


sensibile; è sostenuta dalle idee innate; colloca il dato attivamente nello spazio e
nel tempo)
La logica umana sta alla conoscenza di Dio come l’ellisse sta alla perfezione del
cerchio. In Dio c’è la conoscenza perfetta che viene proiettata, ha bisogno del corpo
per manifestarsi e si sforma (diventa ellisse). C’è un rapporto analogico tra la nostra
conoscenza e la conoscenza di Dio (rimandi alla teologia medievale).

L’immaginazione è come lo scambio tra la sensibilità e l’idea innata, qui viene


rimontata la sensibilità e viene prodotta la conoscenza di carattere intellettuale. In
Leibniz l’immaginazione ha un connotato più positivo rispetto a quello spinoziano. In
Locke lo spazio e il tempo è il risultato dettato dalla percezione, in Leibniz noi
abbiamo l’immaginazione, che è strutturata attraverso le idee innate, che recepisce il
dato e lo colloca attivamente nello spazio e nel tempo, lo pensa (come in Cartesio:
quando noi immaginiamo rimontiamo i corpi).
Per Leibniz l’immaginazione è il luogo di strutturazione del dato sensibile.

3 GENERI DI CONOSCENZA:
 Il primo genere di conoscenza è il dato appreso, la sensibilità.
 Il secondo genere di conoscenza è il senso comune, o immaginazione (misto
tra intelletto e sensibilità, è il mondo per come lo vedono tutti)
 Il terzo genere è l’astrazione (la capacità di vedere dentro la sensibilità la
legge, ovvero il secondo genere di conoscenza per Spinoza).

MONADOLOGIA
e
Principi razionali della natura e della grazia (1714)

I principi razionali della natura e della grazia sono un’opera più volgare di
divulgazione scritta per un principe d’Asburgo.

INTRODUZIONE ALLA MONADE: (la monade è semplice, senza parti, ma


rientra nell’insieme delle cose composte; la monade è ogni corpo; ogni monade è il
tutto, vede il tutto ed è dentro ciascuna parte del tutto)
Il carattere decisivo della Monade è la semplicità, non ha parti (il copro invece può
essere scomposto all’infinito). La monade non è estesa, ma entra nelle cose composte.
È una natura semplice che entra nelle cose scomposte (dentro i corpi infinitamente
scomponibili c’è il semplice; in ciascuna delle infinite parti c’è una monade non
scomponibile). La monade è ciascun corpo, ciascuna parte appreso nella dimensione
del pensiero. È tutto ciò su cui io riesco ad esercitare una comprensione, è nelle cose
stesse, non solo in me. È un pensiero che entra nelle cose. Anche nei corpi che io non
penso ci sono le monadi.
Al contempo le monadi si compongono tra loro, non come composti però, ma come
semplici, non si sommano come si sommano le parti: ciascuna è il tutto, vede il tutto,
ed è dentro ciascuna parte del tutto. Spinoza dice che la conoscenza sub specie
aeternitatis è la conoscenza del singolare, la monade è il singolare che prende
coscienza; ciascun corpo è dotato di questa monade e ciascun corpo prende
coscienza.

Giovedì 02/12/21
Ammette l’esistenza dell’inconscio. Attraverso il tema delle piccole percezioni
affronta la questione del continuo: la conoscenza è un flusso, un divenire, una
continua trasformazione del dato percepito.
In Locke la conoscenza era costituita da atti in successione separati l’uno all’altro.

L’immaginazione è la terra di mezzo tra la piccola percezione e la conoscenza


razionale. L’immaginazione è quel principio d’ordine che mi permette di organizzare
i dati percepiti e produrre i prerequisiti per raggiungere la conoscenza razionale.

L’immaginazione è il primo luogo di rielaborazione della sensibilità, si distingue


dalla razionalità compiuta (essere coscienti del dato sensibile, appercepire).
La conoscenza sensibile rispetto all’immaginazione è confusa, non la riusciamo a
riordinare in sé, ma produce in noi attenzione.

IL TUTTO E LA MONADE: (Il pensiero di Leibniz assume qui un carattere


sistemico; viene presupposta un’armonia prestabilita; l’ordine pervade tutti i campi
della realtà; corpo e mente sono due realtà diverse, non hanno nulla in comune; la
monade è la sostanza immateriale e spirituale che sostiene il mondo materiale; la
monade è capace di azione e può essere semplice o composta; la monade non può
perire; appetizione è la spinta a passare da una percezione a un’altra -flusso di
percezioni-; si distingue dall’io penso perché non è limitata al solo soggetto
pensante e poi ha gradi di perfezione diversi; la monade non ha rapporti con il
mondo esterno: Dio garantisce la corrispondenza tra sguardo monadico e corpo
fisico e garantisce la sincronicità degli sguardi monadici; corpo e monade sono
distinti ma l’uno è visione dell’altro; la monade è attiva, il corpo è passivo; non
tutte le monadi sono capaci di sentimento, di riflessione -serve la memoria profonda
umana-  anima; la conoscenza progressiva delle idee innate porta
all’autocoscienza; le monadi hanno un fine: conoscere la razionalità del reale; il
mondo non è solo fisica e meccanica; la monade nella natura conosce la
perfezione di Dio e vi partecipa)
Entrambi gli scritti risalgono al 1714. In queste opere che scrive in francese per
ragioni divulgative, Leibniz riunisce e coordina aspetti del suo pensiero che erano già
stati stabiliti ed espressi in altri contesti. Questi aspetti non hanno mai avuto una
piena sistemazione reciproca. C’è qui per la prima volta una forma sistemica.

Per capire la monadologia bisogna dire che: in primo luogo dobbiamo tenere lo
sguardo sull’idea dell’Armonia che è presente nell’essere naturale. Questa armonia
può essere conosciuta razionalmente (sta con Cartesio e Spinoza, non con Locke e
Hobbes). Posso raggiungere a una conoscenza sistemica su tutto. L’uomo partecipa
della stessa razionalità dell’essere divino. Quest’ordine è in tutti i campi (natura,
conoscenza, linguaggio…).
Leibniz è un filosofo che considera decisivo, per elaborare la propria filosofia, partire
dal concetto di sostanza: la Monade.
In secondo luogo, la sostanza è quella parte della natura che ci costituisce l’essere
razionale, immateriale, della natura; c’è una comprensione della natura come corpo e
pensiero in scia con Cartesio e con metodo aristotelico. La monade è l’elemento
primo del pensiero, è ciò che lo costituisce.

Il corpo e la monade sono due realtà ontologiche diverse: non comunicano come ha
detto Cartesio, non hanno nulla in comune.
Noi possiamo vedere la realtà come totalità dei corpi, ma possiamo comprendere la
natura anche come razionalità, come totalità delle monadi. La natura come totalità dei
corpi è un composto, come un insieme di corpi che si accumulano e si scompongono;
quando pensiamo la realtà utilizzando al suo ordine razionale il discorso si
approfondisce: la monade è semplice. In ciascuna monade c’è tutta la razionalità,
tutta la natura, la realtà; non tutto ciò che è presente nella monade però viene
appercepito dalla monade. Dentro la parte però c’è il tutto inteso come unità.

È una prospettiva idealistica, vicina a Cartesio. La differenza tra monade ed io


penso è che la monade non si riferisce al solo soggetto pensante: ogni organismo
vivente è monade, ma con gradi di razionalità e consapevolezza diversi. Ogni vivente
partecipa della razionalità del mondo; ogni organismo sviluppa una reazione
dall’elaborazione della percezione.
La scala è continua: ciascun essere vivente ha però il proprio mondo (sono visioni,
percezioni semplici in sé, dotate di un’unità). La piccola percezione è una visione sul
tutto.

Il tema della semplicità è il tema dell’integrità dello sguardo. Il termine monade è già
presente nella tradizione filosofica (ne parlano Bruno e Campanella, intendendo
atomi spirituali che compongono la realtà). La sostanza è un essere capace di azione e
può essere semplice o composta. (Monas è una parola greca che significa l’unità di
ciò che è uno).
Dentro la sostanza composta, dentro la natura come corpo, ci sono le sostanze
semplici; le sostanze semplici sono immanenti al corpo, hanno bisogno del corpo.
Senza il semplice non ci sarebbe il composto tutta la natura è composto e
spiritualizzato; ogni punto semplice è una prospettiva.

Il pensiero, la materia, sono continui. Anche le monadi non possono cessare di


esistere.
Cosa succede quando moriamo? Quando moriamo perdiamo l’appercezione,
perdiamo la capacità di essere consapevoli. Così come i corpi si compongono e si
scompongono, noi ci scomponiamo e la monade cessa di esistere.

Non bisogna temere che una sostanza semplice si dissolva, non può perire per via
naturale; non ha un inizio e una fine naturale. Le monadi possono iniziare e finire
tutto d’un tratto (sono state tutte create da Dio e possono essere distrutte allo stesso
modo). Non termina ma partecipa a un certo grado di eternità.

I corpi, i gradi di consapevolezza mutano, ma non muta la materialità della natura e la


razionalità del reale.

Poiché ciascuna monade è semplice, tutto ciò che avviene il lei prende il nome di
percezione; ogni suo mutamento è un mutamento di percezione. Vivendo si definisce
come flusso percettivo; questo flusso di percezioni prende il nome di appetizione. I
miei stati emotivi sono il flusso percettivo; quando percepisco cambio, e la direzione
del mio cambiamento si chiama appetito. Questo flusso, essendo la monade semplice,
è l’azione della monade, ma non ha rapporto con il mondo esterno: è un mutare
interno. La monade è semplice, i corpi composti non possono agire su di lei.
La mia visione del mondo è tutta interna alla mia unità monadica, non ha rapporto
con il mondo esterno.
Spetta a Dio definire “l’armonia prestabilita”: la corrispondenza tra la mia sensazione
e il mondo esterno è stabilita e determinata da Dio. Leibniz è convinto che in Dio
tutto sia determinato, Dio conosce perfettamente e completamente la realtà e regola i
rapporti interni alle monadi secondo coerenza.
Il fatto che ciò che la monade percepisce come fisico abbia una corrispondenza nel
mondo dei corpi è garantito da Dio.
Il secondo problema è la sincronicità tra gli sguardi monadici: tutte le visioni sono
distinte e separate, ma sono tra loro coerenti. La verità la vediamo tutti allo stesso
modo.

L’armonia prestabilita mi serve a rendere coerente il rapporto tra semplice e


composto e a garantire la coerenza tra gli sguardi monadici.

Dio si risolve nella razionalità propria del tutto e fa sì che i corpi e le monadi, pur
essendo diversi, abbiamo una coerenza reciproca. Dio garantisce, come in Cartesio, il
rapporto tra pensiero ed estensione. In Cartesio era visto più come corrispondenza tra
due soggetti (Dio e io penso); in Leibniz è pensato in termini espressivi, non
rappresentativi: ciascuna idea è capace di esprimere una visione della realtà. Dio ci
consente di uniformare e rendere coerenti queste visioni.
Il rapporto tra pensiero ed estensione deve tenere insieme l’identità (la monade deve
essere espressiva, percettiva verso il reale) e la differenza (la monade deve essere
intrinsecamente diversa). L’unità tra pensiero e realtà viene rielaborata attraverso
l’esperienza.
La differenza tra la monade e il corpo deve avere un principio d’identità, che è
garantito da Dio.

Giunge a un concetto dialettico del rapporto tra pensiero ed estensione. Il corpo è


altro rispetto alla monade, come il pensiero dall’estensione, ma non sono
completamente distinti: l’uno è la visione dell’altro.

Spinoza:
Spinoza lavora sull’identità tra pensiero ed estensione e la sostanza è il risultato di
questa identità, l’espressione è l’unità di pensiero ed estensione; Leibniz lavora sulla
loro diversità, la monade è diversa dal corpo, ma vengono riuniti in Dio.

La monade è attiva, è qualità, il corpo è passivo, è quantità.


La monade è un puro atomo di spiritualità.

Ogni essere creato è soggetto a mutamento, anche la monade muta ed è il continuo di


questo mutamento. Il mutamento della monade è sempre un mutamento interno. Il
rapporto tra materia, corpo, e pensiero, è pensato in termini dualistici. In Spinoza il
pensiero viene schiantato sul corpo, il corpo è il luogo dove il pensiero si
oggettivizza; in Leibniz questo dualismo prendo una connotazione più idealistica: il
pensiero è il luogo elettivo della conoscenza proprio perché distinto dal corpo.

Leibniz ha bisogno del principio di coerenza che è Dio.

Locke prende una strada differente che è quella dell’esperienza, non gli interessa
definire il rapporto tra pensiero e corpo: sta in un orizzonte di percezione, dove corpo
e pensiero sono indifferenti.

Questi mutamenti sono sequenze percettive. Una monade è la totalità delle sue
percezioni.
La vita di ciascuna monade è la sequenza delle percezioni che la contraddistinguono;
il suo agire è un agire attraverso il darsi di queste percezioni.

Si percepiscono i corpi, la natura (l’appercezione è visione del composto, dei corpi e


dei rapporti tra il mio corpo e i corpi esterni).
L’appetizione è la tendenza a passare da una percezione a un’altra percezione. A
seconda di come percepisco ho una reazione diversa; la monade muta come serie di
appetizioni.
Il mondo della monade, il suo universo dell’appercezione, è come un centro dentro il
quale si dànno infiniti angoli formati dalle linee, dalle forme di rappresentazione di
ciò che mi è esterno. È una traduzione indiretta (deve passare attraverso Dio).

Ci sono percezioni che mi lasciano in uno stato di indifferenza, che non implicano in
me uno sviluppo.

Perché è diverso il sentimento dalla percezione? Tutti gli esseri viventi


percepiscono, ma non tutti provano sentimento: il sentimento implica riflessione,
consapevolezza, la percezione è semplice. La medusa passa in stadi percettivi
diversi, ma non ha sentimenti.
Si possono chiamare anime solo quelle monadi dove la percezione è più distinta e
dove entra in gioco la memoria, che è il deposito del percepito: qui si costituisce il
sentimento. Solo il momento in cui riesco a confrontare percezioni passate e
percezioni presente posso provare sentimento. Il sentimento necessita di quella
condizione dell’immaginazione che si chiama memoria: è nella memoria che si
costituisce l’anima.

Tutta la vicenda emotiva, immaginativa (in Locke) si costituisce nell’esperienza. La


memoria è una concatenazione che può dare l’illusione della ragione, ma è altra cosa
rispetto alla ragione.
Nel 600-700’ la verità ha ancora i connotati di verità, l’errore è il frutto di una
percezione che viene scambiata per ragione, di una memoria che viene scambiata per
autorità.

È mediante la conoscenza delle verità necessarie che io vengo elevato alla riflessione
sull’IO, sull’immateriale, su Dio stesso. Le astrazioni sono atti riflessivi che
consentono di pensare la sostanza, Dio, il semplice e il composto. Tutta la vita di una
monade che percepisce è incentrata sull’atto di comprendere la totalità; totalità che
non è esterna al pensiero, ma è interna. Ciò che noi è limitato viene concepito come
illimitato in Dio. Dio concepisce l’infinito, l’eterno, il possibile, l’uomo percepisce
invece ciò che è determinato, finito, effettuale, ciò che risponde al principio di ragion
sufficiente.
Dio, l’uomo e la monade (il cane) sono tre concetti pensati in modo analogico. Il cane
non percepisce così profondamente come l’IO. L’io è razionalità, percepisce e
conosce meglio del cane, conosce però il naturale, il finito, il composto. Dio è la terza
monade, conosce il possibile, gli infiniti possibili, e l’immateriale.
Io vedo il finito, Dio vede le monadi, l’infinito; Dio vede il possibile, io l’effettuale.
La natura è la medesima ma viene vista in 3 modi distinti.

Ritroviamo qui la causa finale: in Leibniz c’è perché c’è Dio. Non c’è un mondo solo
dell’effettualità, della contingenza, ma c’è anche il mondo della possibilità. C’è
l’armonia, l’ordine, la razionalità, c’è Dio come causa finale che garantisce
l’aderenza tra la ragione e i corpi.

C’è una perfetta armonia tra le percezioni della monade e i corpi. La monade vede le
cause finale, vede gli scopi. La natura dei corpi è invece una sequenza di cause ed
effetti. I corpi sono pieni di cause efficienti, l’anima spiega il dolore, ad esempio,
attraverso la finalità. Il semplice comprende l’ordine e l’armonia dei rapporti e vede
la causa finale (elemento aristotelico).

La memoria fa sì che in ciascuna anima ci sia una concatenazione che imita la


ragione ma dalla quale deve essere ben distinta. La razionalità è una capacità che
produce risposte più sofisticate rispetto alla memoria (la quale definisce solo un
carattere di tipo istintuale).
La conoscenza razionale ci accomuna al divino e ci consente di superare la nostra
condizione animale e ci permette di dare risposte adeguate e più sofisticate.

C’è la vocazione di un motivo lockiano: la coscienza dell’io, l’autocoscienza, si


produce a seguito della possibilità di conoscere le idee di ragione, le idee innate. Non
c’è come in Cartesio l’anticipazione dell’io alle idee innate, in Leibniz la
conoscenza delle idee innate porta all’autocoscienza. Questa conoscenza delle idee
innate è data dalla sensibilità; c’è una presenza latente delle idee innate che si innesca
con l’esperienza, dall’esperienza sorge l’autocoscienza dell’io.
Per Locke l’io viene stimolato dalla percezione, in Leibniz l’io è sempre attivo, è
sempre in una condizione di percezione: non c’è monade senza percezione.
Ci sono appercezioni più sostenute che portano alla consapevolezza dell’io, dello
stare pensando.
Questa consapevolezza può essere fatta perché esiste nel mondo delle idee uno spazio
di coappartenenza tra noi e Dio (posizione di Rosmini e Malebranche).

È pensando se stessi, pensando in se stessi, che si conoscono le verità eterne. Il


mondo è una totalità di sguardi che si producono e che sono gli uni paralleli agli altri.
Ciascuna monade si fa la sua visione del mondo perché Dio l’ha messa in quella
condizione, è nella sua natura guardare il mondo dentro di sé: il pensiero è la causa
finale voluta da Dio che dà senso alla sostanza.
I fenomeni esterni nascono gli uni dagli altri secondo le cause efficienti: ogni
movimento del corpo deve avere una causa per essere prodotto. Le monadi hanno
un fine: sono orientati verso la conoscenza di Dio, verso la conoscenza razionale.
Queste percezioni delle monadi sono strutturate e comprese con un obbiettivo di
senso che è quello di conoscere la razionalità del reale.

Dio svela alle anime il senso della natura nella forma del pensiero, della razionalità,
delle idee innate. Se cerchiamo dentro il mondo dei corpi, delle cause efficienti,
vediamo solo cause ed effetti, vediamo solo il movimento e la necessità. Il senso è
colto dall’anima, il mondo della fisica e della meccanica invece è il mondo del corpo.

C’è una perfetta armonia tra le percezioni delle monadi e il movimento dei corpi:
questa armonia è prestabilita da Dio.
Ci sono degli uomini che agiscono usando solo l’immaginazione (si riferiscono
all’esperienza senza alcun grado di astrazione).
Le verità della logica sono quelle che si fondano sul principio di contraddizione e sul
principio di ragion sufficiente. La contraddizione non si può neppure pensare, il
mondo della logica è il mondo dell’identità, del possibile, e il mondo della logica non
contiene il contradditorio. Il mondo della logica è il mondo dell’essere di Dio (Dio
esiste affinché i principi della logica possano avere un supporto ontologico).
Dio non può essere il genio maligno, perché la logica ha un primato anche su Dio, ha
una verità che neppure Dio può sovvertire. Questo mondo è il mondo della monade,
delle cause finali.

Il principio di ragion sufficiente afferma che ogni evento (fatto o enunciato), ogni
predicato attribuito a un soggetto che non lo implica nella sua natura, ha bisogno di
una ragione, di una spiegazione. Non si tratta solo di possibilità, ma anche di
effettualità: questo secondo genere di verità soggiace al principio di ragion
sufficiente.
Le verità razionali sono effettuali, concrete, le verità fattuali sono contingenti,
possono non essere conosciute.
(Il principio di contraddizione e il principio di ragion sufficiente sono parte della
razionalità)
Il bastone, ad esempio, è la causa della bastonata a cui sono risalito, è una verità di
tipo effettuale.

DIMOSTRAZIONI DELL’ESISTENZA DI DIO: (Dio è monade che rende le


essenza, le possibilità, reali e che guida le cause efficienti; in Dio c’è POTENZA,
CONOSCENZA E VOLONTÀ)
La dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio è fatta attraverso il passaggio dalle
cose naturali; quella a priori invece parte dalla virtualità.
A posteriori si dimostra Dio come causa, Dio come ragione dell’effettualità naturale.
Nulla accade senza ragion sufficiente, niente avviene senza la possibilità di rendere
una ragione che si sufficiente a spiegare perché avvenga così e non altrimenti.
Dio ci definisce la natura; la natura si presenta come ordine infinito di cause ed
effetti: Dio è l’ordine di questa serie.

Dimostrazione a posteriori: (Nella dimostrazione a posteriori parto da Dio come


causa, come effettualità naturale; niente accade senza ragion sufficiente; tutto è
premeditato in Dio; non possiamo spiegare le imperfezioni con Dio, sono legate
alla finitezza; l’inerzia è movimento senza causa, imperfetto, proprio dei corpi)
La causa sui è la causalità divina (dall’uno ai molti), ma anche le cause
intramonadiche, tra i mondi, sono espressione della causa efficiente. (Spinoza)
In Leibniz stabilisce una volta per tutte l’ordine armonico dentro il quale si dànno le
sequenze causali; ne consegue il necessitarismo (tutto è predeterminato in Dio).
Le creature hanno le perfezioni per via dell’esistenza di Dio, ma le loro imperfezioni
sono dovute alla loro finitezza.
Non possiamo risalire a Dio per spiegarci il disordine, il materiale, il corporeo.

Il principio d’inerzia mi svela la distanza e la differenza ontologica tra Dio e i corpi.


L’inerzia rivela una mancanza di perfezione: il movimento divino è circolare, non ci
sono dispersioni, inerzie, tendenze indefinite (Aristotele); l’inerzia invece è un
movimento dispersivo e mostra una natura imperfetta tende alla decade.
Malebranche dice che l’anima tende verso Dio ma il corpo rende l’anima passiva,
incapace di giungere alla verità divina. L’inerzia è un effetto senza causa, è corpo e
movimento imperfetto.

Dimostrazione a priori: (l’esistenza si distingue dall’essenza; la mia essenza è il


mondo delle mie possibilità; Dio è la coincidenza tra esistenza ed essenza che rende
reali le essenze, le possibilità)
La ragion sufficiente spiega le esistenze, ma Dio non è causa solo dell’esistenze ma
anche delle essenze, è la fonte di quel reale che è contenuto nel possibile.
L’essenza si distingue dall’esistenza: l’esistenza è ciò che è dato, realizzato; l’essenza
è la possibilità.
La mia essenza non è coincidente con la mia esistenza, ma coincide con tutto ciò che
io posso fare: la mia essenza è il mondo delle mie possibilità. La realtà non è solo
esistenza, ma anche essenza. Se c’è realtà nelle verità eterne, perché affinché le
essenze possano esistere occorre un essere nel quale essenza ed essenza coincidano:
questa coincidenza rende reali le essenze, le possibilità. Dio è la realizzazione della
possibilità.
Dal determinismo giungiamo a un recupero della libertà attraverso la distinzione tra
verità razionali e verità effettuali, tra essenza ed esistenza. Nell’io la possibilità è
reale: l’essenza implica l’esistenza.

In Leibniz la verità è garante dell’esistenza di Dio.

Dio non solo crea tutto, ma è anche una monade che rimane attiva, che rende le
essenze, le possibilità reali e guida le cause efficienti.
In Dio c’è:
 La potenza, che è la fonte di tutto.
 La conoscenza, che contiene le idee ciascuna in dettaglio.
 La volontà, che determina i mutamenti, o produzioni, secondo il principio del
meglio.
Il mondo è dotato solo di necessità morale e non assoluta.
Nelle monadi costituite ciò corrisponde al soggetto o alla base, alla facoltà percettiva
e alla facoltà appetitiva.

Giovedì 09/12/21

Le monadi sono limitate dal corpo, non hanno l’ampiezza dello sguardo di Dio.
Dio è consapevole, conosce, la totalità dei possibili ma rende effettuale il migliore dei
mondi possibili. Dio non potrebbe determinare l’esistenza tra tutti i possibili di un
mondo che non sia il migliore. La monade invece ha la possibilità di riconoscere la
perfezione di Dio nell’essere naturale e tramite questo riconoscimento partecipa
della perfezione divina. Questo riconoscimento è vincolato dalla finitezza della
particolarità.

La divinità è causa attiva delle monadi, consente alle monadi di sussistere e di essere
continuamente in atto: l’essere ontologico di Dio consente alle monadi non solo di
esistere ma anche di avere una continuità nel loro pensiero.
Così come nelle sostanze si davano tre funzioni (percepire, comprendere, volere) così
queste tre funzioni si dànno in maniera perfetta in Dio. La giustizia è la volontà
conforme alla saggezza.

Tutto ciò che è imperfezione è, come in Malebranche, corpo. Il corpo è quella


condizione che determina l’impossibilità di raggiungere la perfezione divina e fa sì
che siano tutte le determinazioni del mondo.

La libertà diventa, per le monadi, la possibilità di comprendere la natura dei


corpi e non lasciarsi condizionare dalla loro natura; in Dio la volontà coincide con
la conoscenza, con la perfezione. La volontà nella monade è la possibilità di
conoscere la perfezione della natura. Dio ha volontà perché è l’orizzonte della
volontà delle monadi.

Ciò che in Dio è potenza è la realtà della monade (la monade come atomo spiritale
partecipa della realtà ontologica di Dio), la potenza di Dio diventa nella monade la
percezione, che è limitata dal corpo, non è solo appercezione ma ci sono anche le
piccole percezioni. Ciò che in Dio è la volontà nella monade diventa la capacità
appetitiva: è la risultante del rapporto tra ragione e sensibilità.
Dio è l’orizzonte della perfezione al quale la monade tende.
In Spinoza si può produrre un incremento dell’attività conativa attraverso il corpo, ed
è anche determinato anche dalla capacità razionale. In Leibniz corpo e ragione si
contrappongono: quanto più corpo, tanta meno ragione e viceversa.
Non è solo attraverso la conoscenza che ci si libera dal corpo.

Leibniz rimane dentro uno schema aristotelico-scolastico: all’anima viene data più
importanza rispetto al corpo. In Spinoza invece il corpo è importante ed è il luogo di
costituzione delle forme di conoscenza.

La monade ha la capacità di vedere la razionalità presente nella natura, vede la natura


dal punto di vista della ragion sufficiente, il futuro attraverso il passato. L’uomo
felice è colui che conosce le cause. La monade, considerata nella sua purezza,
partecipa della medesima conoscenza divina: conosce le infinte perfezioni del reale,
nei suoi infinitesimi. Ma c’è il corpo e noi conosciamo la realtà attraverso la
condizione percettiva. La mia conoscenza è allo stesso tempo percettiva e razionale.
Io percepisco una realtà complessa, ma di questa realtà che percepisco ne
appercepisco solo alcune parti. Solo una parte giunge a una conoscenza razionale.
Dio è come uno specchio che vede perfettamente l’essere razionale del reale. La
passione è l’effetto che il corpo produce sull’anima, e l’azione è il carattere che
l’anima imprime sul corpo.

Siamo attivi quando non dipendiamo, siamo passivi quando siamo in una condizione
di dipendenza.
L’oscuro è il risultato del nostro essere immersi nella natura. La nostra parte attiva è
effetto del nostro carattere propriamente spirituale.

Che differenza c’è tra il possibile e il reale? C’è una differenza di attività: il reale è
più attivo, più perfetto. Tra tutti i possibili diviene reale quello che ha una capacità
attiva maggiore, che ha più realtà, che contiene più razionalità e spiega più cose. È
reale tra tutti i possibili il mondo più attivo, più ricco, che contiene uno sviluppo delle
verità di ragione maggiore, più organicamente rigoglioso.
Ciascuna monade è una visione dell’unico, del tutto: contiene in sé una prospettiva
della totalità.
Ogni monade è unica, individuale, e muta nei molti.
Non c’è in Leibniz la totale scomposizione della realtà in frammenti: la realtà è unica
e viene interpretata secondo punti di vista diversi.

Il corpo mi impedisce di vedere tutti gli infiniti possibili.


Il corpo si scompone, la monade rimane integra, ma comunque in una condizione di
naturalità.

Ogni monade rappresenta tutto l’universo, ma rappresenta più distintamente il corpo


che le è assegnato. La monade è la visione dei rapporti di razionalità che legano il
corpo alla natura, è la visione dei rapporti sufficienti che fanno sì che un corpo sia ciò
che è.

Il corpo umano è una specie di macchina divina: l’automa naturale supera di gran
lunga l’automa artificiale; si sottrae dalla determinazione, riesce a virtualizzare la
necessità, a passare alla visione dei possibili. Il corpo individualizza, la monade, con
la razionalità, vede la possibilità e la rende libera. Vedo la determinazione con la
possibilità, vedo la determinazione libera attraverso la visione della possibilità.
L’automa artificiale è solo effetto, la monade è più perfetta perché dotata di libertà: È
CAPACE DI VEDERE LA REALTÀ NELLA SUA PERFEZIONE.
La monade vede il fine, agisce in base alla razionalità, secondo un fine. Vede il
migliore dei mondi possibili e mettersi in sincronia con questa perfezione e
riconoscerla.
La monade partecipa della visione del corpo come sostanza e qui trova la sua libertà:
la libertà è il predisporsi ad agire in armonia con la natura, con l’ordine precostituito.
Io vedo una natura razionale, popolata di esseri viventi, una natura vivente dotata di
armonia, di finalità, e riconosco che la natura stessa è composta di infiniti sguardi, di
eterni che la vivificano. Il corpo è vivente: partecipa di una certa eternità.

Il corpo essendo vivente è non solo determinato, ma è anche in una condizione di


virtualità, di infinita possibilità. Il corpo è passivo, ma la monade è vivente: la realtà
si trasforma.

Noi misuriamo la natura solo attraverso il nostro sguardo, attraverso la nostra natura.
Noi vediamo quindi il vivente, ma un vivente molteplicità, non vivente sostanza
unica.
A ogni monade, che ha una natura ontologica, noi dobbiamo predicare quel concetto
di esperienza che ha definito Locke: ogni monade è ontologia e al contempo
esperienza.

Leibniz è favorevole all’armonia tra potere politico e religioso.

La monade deve avere fede nella provvidenza, deve obbedire alla propria razionalità.
L’amore di Dio ci dà una tranquillità presente, che ci assicura anche una felicità
futura. La beatitudine coincide spinozianamente con il riconoscimento della
perfezione divina. Anche se Dio non può mai essere conosciuto completamente. La
gioia non può mai essere piena, solo la volontà si ascrive all’armonia.

È evidente come ci sia un passaggio dalla visione di verità in Cartesio come visione
della realtà, fino a Leibniz dove questa conoscenza diventa attività, nella monade,
unità con l’azione. Nella conoscenza c’è l’attività, la trasformazione dal passivo
all’attivo. La monade deve trovare nella necessità, nell’oggettività, il migliore dei
mondi possibili, l’orizzonte dei possibili. Il corpo è una natura attiva, non è solo
effettualità, ma è anche causalità, appercezione, casualità.

Le idee innate riemergono, rendono la monade tale. Locke è il filosofo che costruisce
un pensiero filosofico non semplicemente perché la filosofia consegna la razionalità
della scienza, ma è anche attività, esperienza. La monade è rendere viva la sostanza,
rende la sostanza una molteplicità di esperienza.

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