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Brett Martin
Difficult Men.
Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv
Titolo originale: Difficult Men. Behind the Scenes of a Creative Revolution: From The Sopranos and The
Wire to Mad Men and Breaking Bad
Traduzione di Mauro Maraschi
seps@seps.it – www.seps.it
DIFFICULT MEN
DAI SOPRANO A BREAKING BAD, GLI ANTIEROI
DELLE SERIE TV
a cura di
Fabio Guarnaccia e Luca Barra
traduzione di
Mauro Maraschi
INDICE
Prefazione
La duplice inquietudine del protagonista e dell’autore
di Aldo Grasso
Prologo
Prima parte
Nelle puntate precedenti
2 / Quali film?
3 / Un concetto importante
Seconda parte
La bestia in me
5 / Uomini difficili
6 / L’uomo dialettico
8 / Essere il capo
Terza parte
Gli eredi
Epilogo
Fonti
PREFAZIONE
LA DUPLICE INQUIETUDINE DEL
PROTAGONISTA E DELL’AUTORE
DI ALDO GRASSO
Quando nel 2007 il giornalista Brett Martin accettò l’invito di conoscere David
Chase, il creatore dei Soprano, e di raccontare il backstage della serie, da alcuni
anni la televisione era finalmente diventata uno dei centri dell’attenzione critica.
Da quando il successo planetario di alcune serie tv le aveva proiettate
nell’olimpo della classicità, si cercava di ragionare su questa forma narrativa,
non certo inventata dal mezzo, ma che ora rivelava nuove dinamiche di creatività
e ritmi inediti imposti dalla produzione industriale. Si rifletteva sul ricco
repertorio di citazioni, attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande
cinema, dal grande teatro, e sul bagaglio di strutture narrative «rubate» a modelli
alti.
Una delle domande più ricorrenti era questa: la serialità ha sostituito il
romanzo, gli ha tolto il ruolo egemone di testimone dello spirito dei tempi? Se
continuiamo a cercare qualcosa in cui l’autore, attraverso dei personaggi, prende
in esame alcuni grandi temi dell’esistenza, fornendo loro una lingua, allora forse
era venuto il momento di dare un’occhiata non solo ai libri, al cinema, al teatro,
ma anche ad altri media. Tipo la serialità americana. La fiction resta una delle
poche riserve dove è possibile incontrare la «scrittura», quella lunga e spesso
complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia e montaggio che
permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una
fisionomia romanzesca. Intervenne anche Jonathan Franzen, buon ultimo, per
ricordarci che le serie televisive «stanno rimpiazzando il bisogno che veniva
soddisfatto da un certo tipo di realismo del XIX secolo. Quando leggi Dickens
ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie tv…»
Negli Stati Uniti è sempre stato molto vivace il dibattito culturale sul ruolo
della letteratura, e in particolare della tradizione del «grande romanzo
americano» (si pensi ad autori come Philip Roth, Don DeLillo, appunto
Franzen), nel fotografare il proprio tempo e restituirlo in tutta la sua complessità.
L’aspetto più interessante di questo dibattito è che il termine di paragone che si
evoca per descrivere la raffinatezza e l’articolazione dei romanzi coinvolge ora
anche la televisione, chiamata in causa nel suo genere più nobile, ovvero la
serialità «di qualità» che intanto si era espressa con opere come I Soprano, Mad
Men, The Wire, Breaking Bad, Dexter, Lost… Erano (sono) serie che avevano
avuto la capacità, come e forse più dei romanzi, di restituire la complicatezza del
reale, di esplorare temi cruciali per la sensibilità condivisa, di costruire un
«racconto mondo», un universo narrativo completamente ammobiliato e
arredato. Proprio il formato seriale di questi testi, basato su archi narrativi ampi,
che si sviluppano per più stagioni e permettono di indagare in profondità la
psicologia dei personaggi, di mostrare i collegamenti tra temi ed eventi, si era
trasformato da una sorta di espediente retorico usato per fidelizzare il pubblico
popolare (pensiamo a come funzionava il romanzo d’appendice a puntate) in una
risorsa narrativa ricercata e raffinata. Nelle forme espressive della serialità e del
romanzo, la cultura americana aveva (ha) trovato lo spazio ideale per dare forma
di racconto allo sguardo sul mondo.
Quando nel 2007 ho pubblicato da Mondadori Buona maestra. Perché i
telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, il saggio uscì tra
molte perplessità, quasi fosse un azzardo per la cultura italiana. Uno dei luoghi
comuni più radicati e diffusi, tra intellettuali e non, voleva che la televisione
fosse una «cattiva maestra», ricettacolo dei peggiori modelli di comportamento e
condensato di tutto quello che di brutto ed esteticamente riprovevole circola
nella nostra cultura. La televisione trasudava e trasuda trash, non c’è dubbio, ed
era ed è piena di discorsi stupidi e insensati, ma, a furia di parlarne male, quasi
non ci si accorgeva dell’esistenza di forme di racconto intelligente che, lungi dal
raffigurare la deriva morale della nostra società, si rivelavano invece utili
strumenti di comprensione. Questa forma di televisione «buona» era
rappresentata dalla serialità. Le opere provenienti dagli Stati Uniti stavano
diventando un’offerta d’eccellenza non solo nel ristretto ambito televisivo. Si
cominciava a capire che non c’era mai stata una televisione tanto vitale,
intelligente, ricca di risonanze metaforiche e letterarie come quella attuale.
Sembrava quasi un paradosso, ma spesso si faceva fatica a trovare un romanzo
moderno o un film che fossero più interessanti di una buona serie tv.
Del resto, soltanto nel 2010, con il numero 658 dal titolo «Séries, une
passion américaine», i Cahiers du Cinéma hanno dato legittimazione alla
serialità televisiva. Dopo avere disprezzato per anni la televisione (di
rimarchevole si ricorda soltanto un articolo di Serge Daney del 1987, in cui si
intravedeva nella tv «l’inconscio a cielo aperto della società»), i Cahiers si
accorgevano infine della serialità: Mad Men, In Treatment, The Wire, Breaking
Bad e, più in generale, tutta la produzione di Hbo. Sciolti dal giuramento al
cinema, ecco finalmente la scoperta di Mad Men, ritratto formidabile
dell’America degli anni Sessanta, sospeso fra sogno e disprezzo, tra «persuasori
occulti» e il sacrosanto bisogno di lasciarsi persuadere, tra sviluppo economico
ed emancipazione sociale e personale. La serialità non è mai cosa di un soggetto
singolo (come lasciava intendere la «Politica degli autori» storicamente
propugnata dalla rivista), e ciononostante si nutre ancora di uno scambio
simbolico, si sforza ancora di «andare all’anima delle cose», per ripetere una
celebre esortazione di Gustave Flaubert.
In cosa consiste dunque la novità di Difficult Men? È un lavoro sul campo,
come ci ha ricordato lo stesso autore in un’intervista a Vogue:
Le prime settimane che trascorsi sul set non lo vidi mai. Non era nemmeno chiaro se Chase
avrebbe acconsentito a incontrarmi. Quando finalmente fui ammesso nel sancta sanctorum,
rimasi impressionato. Mi colpì come un personaggio eccezionalmente misterioso e potente. Mi
sembrò che il fatto di trovarsi al vertice di un programma così importante fosse un fardello molto
pesante da portare, ma ebbi anche la netta sensazione che ne fosse molto orgoglioso.
E ancora:
La televisione stava diventando il centro del nostro universo artistico. Mi interessava soprattutto
quale significato avesse per gli autori l’opportunità che veniva loro offerta di produrre arte
all’interno di un contesto commerciale, e quanto questo li facesse impazzire ma allo stesso tempo
li elevasse.1
E sul campo Brett Martin ha scoperto due aspetti interessanti.
Il primo è che i grandi protagonisti della serialità sono difficult men,
antieroi, uomini inquieti, «tormentati, preoccupati e turbati dalla modernità»:
Per molto tempo era stata opinione diffusa che gli americani non avrebbero mai accolto nei
propri salotti personaggi del genere: infelici, immorali, contorti e profondamente umani. Ora
questi personaggi mettevano in atto un complesso gioco di seduzione nei confronti degli
spettatori, spingendoli ad affezionarsi, ad appoggiare, perfino ad amare, delinquenti che si
macchiavano di ogni tipo di crimine, dall’adulterio alla poligamia (Mad Men e Big Love), dal
vampirismo all’omicidio seriale (True Blood e Dexter). Fin dall’istante in cui Tony Soprano è
entrato in piscina vestito per dare da mangiare a una famigliola di anatre è apparso chiaro che gli
spettatori erano disposti a lasciarsi sedurre.
Con questi difficult men tutti abbiamo fatto i conti, non solo sul campo,
ovvero nella realtà, ma anche davanti al video.
Penso a Tony Soprano, un boss mafioso, l’ultimo erede delle famiglie che
spadroneggiano nel New Jersey. Tony è anche un caso clinico, un fragile
depresso che ogni settimana deve incontrare una psicoterapeuta. L’impero del
male si sta sfaldando, i padri storici rincoglioniscono in qualche casa di riposo,
la polizia ha in mano elementi per incastrare la «famiglia», altre bande si fanno
avanti.
Penso a Jimmy McNulty, alla polizia di Baltimora, all’ambiguità della
giustizia. The Wire è Hill Street giorno e notte all’ennesima potenza, con
un’attenzione quasi spasmodica ai gerghi, ai particolari, alle psicologie, alle
corruzioni, alla complessità dell’indagine: una vera anatomia del crimine.
Penso a Don Draper, uno strano gaudente votato non alla felicità ma alla
ricerca del piacere, più per disprezzo che per cattiva coscienza: «l’universo è
indifferente». Don, uno dei «Mad Men», è un edonista governato da un’etica
ferrea: il piacere (sul lavoro, nel privato, con le donne) va sudato, con costanza e
strategia.
Penso a Walter White di Breaking Bad, al suo antieroismo tragico,
all’ambiguità morale dell’universo in cui si muove, al quadro di un mondo al
collasso emotivo ed economico. Difficile trovare altrove (in letteratura, al
cinema, a teatro) un personaggio così vocato alla rovina da non opporsi alla
rovina stessa.
Penso a Dexter Morgan e ai brutti sogni che procura. Non per le scene
splatter, non per i molti cadaveri che fanno bella mostra di sé sulla scena del
crimine, non per i modi inusuali in cui vengono tagliuzzate le vittime ma per una
ragione più profonda. Dexter ha il brutto vizio di farsi giustizia da solo, è uno
psicopatico che vuol mettere ordine nel caos.
Penso a tanti altri difficult men. E penso che in tutte le narrazioni mitiche e
religiose, il male è posto all’origine del cammino umano (e delle narrazioni di
questo cammino). Tornano le solite, inquietanti domande: dobbiamo chiedere
alle serie, ai film, ai romanzi di esimersi dal raccontare la criminalità, nel timore
che ciò dia origine a comportamenti emulativi? Una conoscenza che non tenga
conto del male è una conoscenza in favore del male?
Il secondo aspetto che Brett Martin ha scoperto sul campo riguarda lo
showrunner. Gli «uomini difficili» del libro non sono solo i protagonisti delle
serie, ma anche l’avanguardia di questa ondata creativa: gli showrunner delle
serie che hanno cambiato la televisione. Autori geniali capaci di pilotare i
giovani talenti in un processo di scrittura che è allo stesso tempo collettivo e
autoritario: David Chase (I Soprano), David Simon (The Wire), Matthew Weiner
(Mad Men), Vince Gilligan (Breaking Bad), James Manos Jr. (Dexter) e tutti gli
altri sono responsabili, ideatori e tutto il resto (anche sceneggiatori) dei loro
prodotti. Possiamo tentare di dare una definizione di questa nuova figura
autoriale e professionale? Perfetto compromesso tra il concetto letterario di
autore e quello industriale di produttore, lo showrunner è il responsabile che
controlla l’intero processo di produzione di una serie, letteralmente lo «fa
correre»: spesso ne ha concepito l’idea originale, ne segue poi gli sviluppi,
supervisionando sia gli aspetti creativi (la scrittura degli episodi, la gestione del
cast, la pianificazione degli archi narrativi) sia quelli organizzativi e industriali
(il budget, il calendario di produzione). È una figura tipica del sistema tv
americano: da Alfred Hitchcock a Steven Bochco, da Aaron Spelling fino a
Darren Star e Marc Cherry, a Shonda Rhimes e a Ryan Murphy. E ora acquisisce
maggiore potere e controllo creativo, si trova corteggiata da broadcaster e
piattaforme, firma contratti milionari, ottiene persino visibilità pubblica.
Adesso, come spesso succede in Italia, come spesso succede tra chi scopre
le cose in ritardo, c’è già chi ha decretato la fine della serialità televisiva. Forse
più per snobismo che per passione o competenza. La verità è che non abbiamo
mai avuto così tanta «buona televisione». Nel caso delle serie, al fenomeno è
stato anche dato un nome, «peak tv», il momento in cui il volume di prodotto
cresce in maniera tanto ampia e veloce da inflazionare il genere. La tv è in
trasformazione, non in crisi. In crisi, se mai, è il broadcasting, la forma
tradizionale di tv: pochi canali, gratuiti e accessibili a tutti tramite il vecchio e
caro televisore, finanziati dalla pubblicità o dal canone. Come ho scritto in La
nuova fabbrica dei sogni, una certa forma di saturazione può essere causata
dall’overdose di uscite, dalla moltiplicazione delle cattive serie, dal mancato
controllo sulla qualità dell’offerta: «Il che può essere vero, ma è un difetto che
riguarda l’intera industria culturale (periodicamente sale il lamento sulla
sovrabbondanza di libri pubblicati). Dopo il teatro, il cinema, la radio, la tv
generalista, anche le serie stanno per morire? Nel mondo della scrittura, le morti
annunciate sono sempre state rimandate, anzi smentite».2
Inquietum est cor nostrum. Solo i «difficult men» sanno quanto sia difficile
sopravvivere alle tempeste, senza le quali, tuttavia, non saprebbero vivere.
In questo libro vengono rivelati molti eventi importanti e colpi di scena delle serie tv trattate.
PROLOGO
In una fredda serata d’inverno, nel gennaio del 2002, Tony Soprano è sparito nel
nulla e una piccola porzione dell’universo si è fermata.
Non è successo di punto in bianco. Fin dal 1999, anno in cui I Soprano ha
debuttato in tv, trasformando Tony (padre ansioso e boss del New Jersey in
analisi) in un’icona pop di questo millennio, la frustrazione, l’imprevedibilità e
la rabbia repressa di questo personaggio sono spesso state indistinguibili da
quelle dell’attore che lo interpretava, James Gandolfini. Il suo era un ruolo
impegnativo, che richiedeva un’intensa memorizzazione notturna e lunghe ore
sotto i riflettori, ma anche una quotidiana discesa nella psiche di Tony, un luogo
inquietante che nei momenti peggiori poteva diventare spaventoso, violento e
alienante.
Ci sono attori (come Edie Falco, che interpretava la moglie di Tony,
Carmela) capaci di raggiungere certi abissi e di riaffiorarne intatti. Dotata di una
memoria eccezionale, la Falco poteva arrivare sul set, imparare le sue battute,
recitare la più appassionata delle scene e tornare serenamente nel suo camerino,
dove l’attendeva il suo fedele accompagnatore Marley, un labrador color miele.
Non era così per Gandolfini, per il quale interpretare Tony Soprano
significava anche, in qualche modo, essere Tony Soprano. I membri della troupe
si erano abituati, col tempo, ai mugugni e alle imprecazioni che provenivano dal
suo camerino quando Gandolfini si preparava ad affrontare il climax emotivo di
una scena nella quale, per esempio, avrebbe dovuto prendere a pugni
un’autoradio. Attore intelligente e intuitivo, Gandolfini aveva compreso il
funzionamento di queste dinamiche e riusciva a riprodurle sul set: il pesante
accappatoio di Tony, che sarebbe diventato un tratto distintivo del personaggio e
che lo trasformava in una sorta di orso domestico, poteva essere una tortura se
indossato sotto i riflettori durante il caldo estivo, eppure Gandolfini non lo
toglieva nemmeno tra una ripresa e l’altra. Capitava anche che lo squallore della
finzione si fondesse a quello reale, sul set ma anche fuori dal set. In alcune
dichiarazioni presenti nei documenti per il divorzio, alla fine del 2001, l’ex
moglie di Gandolfini parla di problemi crescenti con droga e alcol, ma anche di
litigi durante i quali l’attore si era più volte preso a pugni in faccia per la
frustrazione. E chiunque abbia assistito alla sua furia quando non riusciva a
ricordare le battute (si insultava e si prendeva a schiaffi in segno di disprezzo)
non fatica a immaginare la scena.
A peggiorare le cose ci fu il fatto che il timido Gandolfini era diventato
improvvisamente uno dei volti più familiari d’America, soprattutto a New York
e nel New Jersey, dove la serie è stata girata e dove la possibilità di vederlo
attraversare la strada, magari col sigaro in bocca, alimentava la confusione di
quelli che chiamano gli attori con il nome dei loro personaggi. Diversamente da
Edie Falco, che sapeva spogliarsi del suo personaggio, indossare un berretto e
mischiarsi alla massa, il voluminoso Gandolfini (un metro e ottanta per
centoventi chili) non poteva nascondersi da nessuna parte.
Gli effetti collaterali della sua interpretazione si erano manifestati ben
prima dell’inverno del 2002. Gandolfini aveva cominciato sempre più spesso a
rifiutarsi di lavorare. Le sue erano crisi passivo-aggressive: sosteneva di essere
malato, si rifiutava di lasciare il suo appartamento a TriBeCa o non si presentava
sul set. Il giorno dopo si sentiva così in colpa, anche per i notevoli disagi
logistici provocati, che – simile a una portaerei che inverte bruscamente la rotta
– cercava di ingraziarsi cast e troupe con regali di ogni tipo. «Ci faceva trovare
un sushi chef a nostra disposizione, per il pranzo», ricorda uno dei tecnici.
«Oppure ci regalava gli ingressi in un centro benessere». Presto tutto ciò diventò
parte integrante del conto da pagare affinché Gandolfini potesse riproporre il suo
intenso e sfaccettato Tony Soprano.
Di conseguenza, quando l’attore non si presentò all’aeroporto di
Westchester per girare l’ultima scena in cui appariva il personaggio di Furio
Giunta, una scena notturna che prevedeva l’uso di un elicottero, in pochi
andarono nel panico. «Era una bella seccatura, ma nulla di cui preoccuparsi
davvero», ha raccontato lo sceneggiatore e producer Terence Winter, che si
trovava sul set quella sera. «Era venerdì, e a nessuno dispiaceva tornare a casa
per cena. In fondo era soltanto una questione di soldi. Certo, in quel caso erano
un sacco di soldi, perché avevamo fatto chiudere un intero aeroporto».
Dopo dodici ore di irreperibilità, però, fu chiaro che non si trattava della
solita inadempienza: quella volta Gandolfini era proprio sparito.
L’operazione interrotta quella sera era una di quelle grosse. Ai tempi, I Soprano
avevano già colonizzato due interi piani dei Silvercup Studios, un’ex fabbrica di
prodotti da forno ai piedi del ponte di Queensboro, a Long Island, nel Queens.
Al piano inferiore, le riprese avvenivano su quattro dei set più grandi della
Silvercup, incluso quello denominato Stage X, nel quale si trovava un’enorme
riproduzione, quasi in scala reale, della villa dei Soprano, mentre il giardino
della casa usato per le vedute aeree, con il suo patio e la piscina, emblemi della
noia di periferia, giaceva arrotolato in un enorme tubo di poliuretano, riposto
dietro la finestra della cucina in attesa di essere srotolato quando e se necessario.
Per realizzare ogni cosa nel dettaglio era stato coinvolto un piccolo esercito
di circa duecento persone, che si era unito a uno degli universi più ricchi e
variegati della storia della tv: falegnami, elettricisti, imbianchini, sarti, autisti,
contabili, cameraman, cuochi, truccatori, fonici, scenografi, costumisti, designer
e assistenti di produzione di ogni tipo. La postproduzione era invece realizzata a
Los Angeles, da un folto gruppo di montatori, assistenti, editor, coloristi e sound
mixer. I girati (o «giornalieri») venivano portati a Los Angeles quotidianamente
da una compagnia dal nome fittizio, la Big Box Productions, per depistare le spie
avide di anticipazioni. Quello che tre anni prima era iniziato come un azzardo,
l’esperimento di un canale fino ad allora noto soprattutto per la
riprogrammazione di film hollywoodiani che non aveva niente da perdere, era
diventato un’enorme macchina burocratizzata.
Ma la ricompensa fu, tra le altre cose, l’onore di ritrovarsi a essere il fulcro
di una vera e propria rivoluzione della tv. Anche se le origini di questo
cambiamento possono essere ricondotte a un’ondata di prodotti di qualità
cominciata da almeno un ventennio, la vera rivoluzione aveva avuto inizio
cinque anni prima, quando il canale a pagamento Hbo si era interessato alla
produzione di serie originali. In ogni caso, all’inizio del 2002, quando
Gandolfini diventò irreperibile, il medium si era ormai trasformato.
Presto il panorama televisivo cominciò a riempirsi di nuovi Tony Soprano.
Nell’arco di tre mesi, un altro leader calvo, tarchiato, pieno di difetti e
carismatico fece la sua prima apparizione nella serie di Fx The Shield, anche se
stavolta si trattava di un poliziotto corrotto e non di un mafioso. Pochi mesi dopo
The Wire proponeva ai suoi spettatori una sfilza di protagonisti «difficili», tra cui
un alcolizzato, un poliziotto narcisista, uno spietato narcotrafficante e un
rapinatore e assassino omosessuale. Hbo ha cavalcato il successo dei Soprano
con Six Feet Under, incentrata su una famiglia di impresari funebri i cui membri
sono forse meno sociopatici di quelli nominati fin qui, ma sicuramente
altrettanto disturbanti. Sono invece rimaste in secondo piano creature come Al
Swearengen di Deadwood, uno dei protagonisti più spregevoli mai apparsi in tv,
e Tommy Gavin di Rescue Me, pompiere alcolizzato e autodistruttivo tormentato
dai fantasmi dell’11 settembre. Non stupisce scoprire che Andrew Schneider,
sceneggiatore dei Soprano durante la stagione finale, si fosse fatto le ossa con la
versione televisiva dell’Incredibile Hulk, nella quale, in ogni episodio, si
assisteva alla trasformazione del pacato e mesto David Banner nel suo stolido ed
enorme alter ego verde, e che quest’esperienza si sia poi rivelata un’ottima
gavetta, vent’anni dopo, per la scrittura di questo tipo di personaggi.
Per molto tempo era stata opinione diffusa che gli americani non avrebbero
mai accolto nei propri salotti personaggi del genere: infelici, immorali, contorti e
profondamente umani. Ora questi personaggi mettevano in atto un complesso
gioco di seduzione nei confronti degli spettatori, spingendoli ad affezionarsi, ad
appoggiare, perfino ad amare, delinquenti che si macchiavano di ogni tipo di
crimine, dall’adulterio alla poligamia (Mad Men e Big Love), dal vampirismo
all’omicidio seriale (True Blood e Dexter). Fin dall’istante in cui Tony Soprano
è entrato in piscina vestito per dare da mangiare a una famigliola di anatre è
apparso chiaro che gli spettatori erano disposti a lasciarsi sedurre.
Questo legame si è potuto instaurare anche perché questi personaggi hanno
sempre mostrato agli spettatori anche i propri dilemmi e conflitti. Appartenevano
tutti alla stessa specie, quella degli uomini inquieti, ed erano tutti tormentati,
preoccupati e turbati dalla modernità. Non a caso, un elemento distintivo di
quest’era della tv è il cellulare, che squilla in continuazione, spesso agli orari più
improbabili e ancora più spesso per dare cattive notizie. La buffa suoneria di
Tony Soprano non poteva che provocare una reazione viscerale in chiunque
guardasse la serie. (Questa dinamica era riproposta anche nelle serie in cui
l’ambientazione storica non permetteva di ricorrere ai cellulari: ad esempio,
attraverso il maggiordomo tedesco che porta il telefono al boss di Boardwalk
Empire, o i poveri informatori di Al Swearengen, sfortunati ambasciatori che
dovevano spesso sopportare le conseguenze di quello stesso odio manifestato da
Tony per il suo telefonino perennemente squillante.)
Anche i personaggi femminili, peraltro quasi sempre relegati a ruoli
secondari, traevano vantaggi dalle nuove regole della tv, conquistandosi delle
vite vere e proprie, e smettendo di essere soltanto d’ostacolo (o d’aiuto) agli
intenti del protagonista maschile. Al contrario, alle donne adesso era concesso di
essere venali, spietate, sleali e talvolta persino eroiche, a modo loro: la casalinga
che ridimensiona i crimini commessi dal marito poiché sono alla base del
benessere dei figli, nei Soprano e in Breaking Bad; la prostituta che riconquista
una sua dignità diventando protettrice, in Deadwood; la segretaria di provincia
che si fa strada nell’agguerrito e maschilista mondo della pubblicità degli anni
Sessanta, in Mad Men.
In linea con questi personaggi, la nuova generazione di serie tv proponeva
storie molto più controverse e intricate di quelle viste fino ad allora in
televisione, da sempre preoccupata di accontentare il pubblico più vasto
possibile e il maggior numero di sponsor. Erano storie spietate, dal punto di vista
narrativo: non privilegiavano mai i personaggi preferiti degli spettatori e
riducevano al minimo quel senso di catarsi cui la televisione aveva abituato i
suoi spettatori per decenni.
Guardando una serie tv, smise di essere scontato che alla fine tutto si
sarebbe risolto, o che quantomeno non sarebbe successo il peggio. La morte
improvvisa di personaggi fissi, un tempo impensabile, diventò così probabile da
spingere i fan a speculare su chi sarebbe stato il prossimo. Ricordo un episodio
di Dexter (una serie che, proponendo un serial killer come protagonista, ha
spinto il concetto di antieroe ai suoi limiti estremi) nella quale a una vittima
impotente, legata a un lettino e sedata, vengono amputati gli arti uno per uno. La
paura maggiore dello spettatore, l’ipotesi che avrebbe potuto fargli vomitare la
cena, era quella che la vittima si svegliasse, capisse cosa le stava succedendo e
cominciasse a urlare. Dieci anni prima saremmo stati sicuri che ciò non poteva
avvenire, per via di certe regole e convenzioni televisive. Fu disturbante, anzi,
terribilmente angosciante, rendersi conto che questo tipo di protezione non
esisteva più.
Senza dubbio questo era il punto di vista dell’unico uomo, al quarto piano dei
Silvercup Studios, ancora più necessario alla sopravvivenza dei Soprano del suo
protagonista sparito nel nulla. Nonostante tutti i riconoscimenti ottenuti dalla
serie, il suo creatore ed executive producer David Chase aveva un rapporto
conflittuale con la sua carriera televisiva, a tratti tormentato quanto quello di
Gandolfini. Chase era cresciuto con la passione per i film con la F maiuscola. I
suoi eroi erano gli autori del cinema d’essai europeo e i registi americani degli
anni Settanta che a loro si erano ispirati. Si trattava di cani sciolti, artisti che
avevano rinunciato ai soldi facili pur di realizzare le proprie idee. Ai tempi, la
televisione era un posto per prodotti commerciali e scribacchini.
Al contempo, molti dei registi idolatrati da Chase avrebbero ucciso pur di
avere un briciolo del potere divino che lui, dal suo ufficio sulla Queensboro,
poteva esercitare su un universo in continua espansione. Ogni decisione – dalle
evoluzioni della trama al casting, fino all’apparentemente irrilevante colore della
maglietta di un personaggio – doveva passare per il suo ufficio. Alla Silvercup si
faceva così spesso il suo nome, di solito sottovoce, che sembrava si parlasse di
un’entità divina invisibile e onnisciente.
Anche questo faceva parte della rivoluzione che stava ridefinendo i
connotati della tv: l’ascesa della figura dello showrunner onnipotente. Già da
tempo, infatti, si era affermato il luogo comune per il quale «in tv a comandare è
lo sceneggiatore», che nelle serie detiene un potere decisionale impensabile
nell’industria del cinema, dominata invece dai registi. Adesso, inoltre, a quel
potere si sommava la libertà creativa concessa dalle nuove regole televisive. E
quelli che si apprestavano a ricoprire tale ruolo (quasi sempre uomini: Chase,
David Simon, Alan Ball, David Milch, Shawn Ryan e, in seguito, Matthew
Weiner, Vince Gilligan e altri) avrebbero dimostrato di essere personaggi non
meno intensi dei protagonisti delle loro serie.
In termini di impatto visivo, non avevano un aspetto particolarmente eroico:
tra loro non c’erano corpulenti Balzac, né pugili linguistici alla Norman Mailer.
Di base, si attenevano a quella tacita regola televisiva per la quale più potere hai
peggio ti vesti. Un’etica di stampo operaio – in parte affettata, in parte autentica
(si tratta d’altronde di un settore dominato dai sindacati) – prevaleva negli uffici
degli showrunner, insieme a un certo fatalismo sulla sorte di qualsiasi
programma. Alcuni degli uomini più potenti della tv lavoravano in condizioni
delle quali si sarebbero lamentati persino gli assistenti redattori dei magazine
meno importanti dell’editore Condé Nast.
E, trattandosi di scrittori, non erano necessariamente quel tipo di uomini ai
quali avresti affidato serenamente un’operazione aziendale multimiliardaria. Per
molti versi, questa è la storia di alcuni sceneggiatori ai quali è stato chiesto di
essere molto altro: collaboratori, manager, businessman e vere e proprie
celebrità, il tutto in cambio della possibilità di trarre enormi vantaggi da un
momento storico senza precedenti.
È comprensibile che questo cambiamento abbia portato alcuni di loro a
comportamenti prevaricatori, contraddittori, dispotici o anche soltanto strambi.
«Bisogna sempre ricordare che quando hai la responsabilità di un’intera serie
subisci anche una notevole pressione», dice Henry Bromell, sceneggiatore dalla
lunga carriera e a volte anche lui showrunner. «Uno si aspetta di avere a che fare
con un ceo che ha studiato ad Harvard, esperto e autocontrollato. Ma non è così.
Tutto è in mano a degli sceneggiatori, che reagiscono alla pressione come la
maggior parte delle persone: la assorbono o mandano tutto all’aria. Imprecano e
cose del genere».
O, per riportare la versione di un altro veterano della tv: «Non è come
pubblicare il romanzo di un pazzo, o come fargli dirigere un film, no: significa
affidare a un pazzo la direzione della General Motors».
Quello che accomunava tutti gli showrunner – e i registi tanto amati da
Chase – era l’ambizione, apparentemente illimitata, di uomini ai quali era stata
data l’opportunità di fare arte su un medium commerciale un tempo denigrato. E
considerato che l’industria di Hollywood si è spinta per molto tempo verso il
minimo comune denominatore, riempendo i cinema di «film evento» d’azione e
di robaccia in cerca di Oscar, è del tutto giustificata la replica di Alan Ball,
showrunner di Six Feet Under, a una dichiarazione di Chase, il quale sosteneva
che avrebbe preferito investire tutti gli anni dedicati ai Soprano a girare dei film.
«Davvero?», ha detto Ball. «Ma tu chiedigli: quali film?»
Tutto ciò ha comportato una nuova Età dell’Oro, da molti considerata la terza
della breve vita della tv, se la prima era stata l’esplosione di creatività agli esordi
del medium e la seconda quel breve periodo di eccellenza dei network
verificatosi durante gli anni Ottanta. Un ottimo risultato per un medium
considerato, in termini qualitativi, leggermente inferiore alle strisce a fumetti sui
quotidiani e appena superiore agli opuscoli religiosi.
Sarebbe più corretto definirla «la Prima Ondata della Terza Età dell’Oro»,
dal momento che non è ancora chiaro se sia finita. Al momento della
pubblicazione di questo libro, due delle sei o sette serie tv più importanti qui
analizzate erano ancora in fase di produzione: tutti i fuoriclasse erano ancora in
campo. Molte delle condizioni che hanno innescato questa rivoluzione – prima
tra tutte, la proliferazione dei canali (sia televisivi che su internet), tutti avidi di
contenuti – erano ancora in divenire. Al contempo, non è possibile ricreare
artificialmente la fecondità originata da un business spontaneo e dalle
innovazioni tecnologiche, nonché da persone che non sapevano da dove
cominciare ed erano quindi propense a provare tutte le strade possibili. È questo
a contraddistinguere quella generazione di cable drama trasmessi
indicativamente tra il 1999 e il 2013.
Sono riuscito a godermi buona parte della Terza Età dell’Oro da spettatore.
Non sono un critico televisivo, né ho mai avuto alcuna propensione a diventare
parte attiva del fandom. Ricordo quando trovai una vhs dei Soprano, una copia
in anteprima, al magazine dove lavoravo, alla fine degli anni Novanta. Ne
guardai metà prima di bollarlo come una copia di un film di Harold Ramis uscito
in quel periodo: Terapia e pallottole, con Robert De Niro e Billy Crystal che
interpretavano, rispettivamente, un boss e il suo strizzacervelli. Col senno di poi,
posso dire che quel giudizio azzardato (a favore di Terapia e pallottole) si
basava soltanto sul fatto che uno era un film e l’altro una serie tv.
Poi, nel 2007, sono stato assunto da Hbo per scrivere un dietro le quinte
ufficiale dei Soprano, che ai tempi si preparava alla seconda metà della stagione
finale. Da quel momento mi sono ricreduto e sono diventato un fan della serie,
che nel frattempo, nonostante la mia impressione iniziale, era già stata
riconosciuta come una pietra miliare nella storia della televisione. Un giorno in
cui mi trovavo sul set, un rappresentante della Smithsonian Institution di
Washington venne a visitarlo per discutere su quali elementi iconici avrebbe
potuto portarsi via alla fine della serie.
Io girovagavo per il set, parlando con chiunque, dagli attori ai
parcheggiatori (con l’eccezione di Gandolfini, che non si accorse della mia
presenza per settimane e si sedette per un’intervista di mezz’ora soltanto l’ultimo
giorno della mia permanenza nell’edificio). Ero estasiato dal mondo in cui ero
stato paracadutato. Innanzitutto, mi ritrovavo nel cuore dell’universo della
cultura pop, e potevo accedere agli ambienti che il resto del mondo avrebbe
pagato per visitare.
Ma più di questo mi affascinava un’altra cosa: fino ad allora avevo sempre
lavorato per i magazine, che come la televisione sono costantemente alla ricerca
(a volte snervante) di un compromesso tra i requisiti dell’arte e le necessità
commerciali. All’interno di una guerra più ampia, quella era una battaglia in cui,
al momento, l’arte era riuscita a fare la voce grossa. Dopo otto anni, la
stanchezza si faceva sentire sia per la troupe che per il cast, unita a quel tipo di
lamentele che emergono in qualsiasi organizzazione di un certo livello, ma
dominava anche la consapevolezza che chiunque si trovasse su quel set, dagli
sceneggiatori agli scenografi fino ai fonici, stava partecipando a quello che forse
sarebbe rimasto il lavoro più importante della loro vita. La soddisfazione era
palpabile, e poteva essere corroborata soltanto da una verità che lo showrunner
di Breaking Bad, Vince Gilligan, mi avrebbe confermato in seguito: «Anche la
serie tv peggiore che tu abbia mai visto è stata terribilmente difficile da
realizzare». È possibile, persino plausibile, aver lavorato a lungo e con successo
in tv senza aver mai partecipato a una serie della quale essere davvero
orgogliosi; ma in questo caso, almeno per un po’, il prodotto fu innegabilmente
il frutto del talento e dell’impegno.
Ho lasciato il mondo dei Soprano convinto che qualcosa di completamente
nuovo fosse in atto. La sensazione si è acuita guardando The Wire di David
Simon, l’altro capolavoro di Hbo, e un’altra serie scritta da uno degli
sceneggiatori dei Soprano, Matthew Weiner, ovvero Mad Men. Le ambizioni e
le conquiste di queste serie non potevano essere ridotte a un semplice
«miglioramento della proposta televisiva». Il drama seriale da dodici-tredici
puntate si stava evolvendo in una direzione tutta sua, diventando una forma a sé
stante. Ma stava anche diventando la forma d’eccellenza americana del primo
decennio del ventunesimo secolo, l’equivalente di ciò che erano stati negli anni
Settanta i film di Scorsese, Altman e Coppola o, negli anni Sessanta, i romanzi
di Updike, Roth e Mailer. Questo libro spiega come e perché tutto ciò ha avuto
luogo.
Un odio così sbraitato, però, poteva essere generato soltanto da una sorta
d’amore. Orson Welles, bravo come pochi a identificare il rapporto tra
commercio e arte, si è espresso a riguardo in modo forse insuperabile: «Odio la
televisione. La odio quanto odio le noccioline. Però non posso fare a meno di
mangiare noccioline».
O come ha detto una volta Steven Bochco: «Da sempre fa molto figo dire a
un cocktail party: “Io non guardo la tv”. È una sciocchezza. Tutti guardano la
tv».
Molti dei drama nati alla Mtm avrebbero avuto un’influenza diretta sulla
successiva generazione di serie tv. Il secondo programma prodotto dallo studio,
Time Out (The White Shadow), che racconta le vicende di un ex giocatore della
Nba diventato allenatore in un liceo di un quartiere povero, è una di quelle strane
alchimie della storia della televisione nelle quali individui fin troppo bravi
lavorano a una serie che non riesce del tutto a rispecchiarne il talento. La natura
del settore fa sì che quasi sempre, per lavorare a serie fatte bene, sia necessario
aver prima partecipato ad altre di livello basso, o comunque non eccelso: per
capirci, la lista delle collaborazioni precedenti degli sceneggiatori dei Soprano
include L’incredibile Hulk, Le nuove avventure di Flipper e Xena – Principessa
guerriera. «Tutti i curriculum di chi lavora in tv sono pieni di schifezze», ha
detto Sue Naegle, presidentessa di Hbo.
Ma nessuna serie e nessun producer hanno avuto l’impatto della quarta
produzione drammatica di Mtm, Hill Street giorno e notte, sia per i contenuti
proposti, sia per il modo in cui raggiunsero lo schermo.
Steven Bochco aveva trentaquattro anni quando fu assunto da Tinker. Era
un veterano della Universal Television, dove era diventato bravo a sfornare
sceneggiature di serie poliziesche, nessuna delle quali però fu mai un vero e
proprio successo. Quando arrivò alla Mtm, Bochco era abbastanza sicuro di sé,
nonché poco interessato a scrivere di poliziotti e simili, convinzione che si
rafforzò quando il suo primo lavoro per lo studio, Paris, serie poliziesca con
James Earl Jones trasmessa da Cbs, fu cancellato dopo una sola stagione.
Eppure, persino alla Mtm i clienti avevano un certo potere, e agli inizi degli
anni Ottanta la richiesta più frequente dei clienti – in questo caso il presidente di
Nbc Fred Silverman – era il police drama. Silverman mandò Brandon Tartikoff
per discuterne con Bochco e Michael Kozoll, anche lui ex Universal, durante un
incontro al ristorante La Scala, a Beverly Hills. Sia Bochco che Kozoll si
mostrarono restii. «Si erano mossi in ritardo ed erano disperati. La cosa ci
permise di trattare», ricorda Bochco. Lui e Kozoll accettarono di scrivere una
puntata pilota a patto che Tartikoff gli garantisse una certa autonomia.
Quello che Bochco e Kozoll consegnarono dieci giorni dopo era
praticamente l’idea platonica di ciò che in seguito, nella Terza Età dell’Oro,
avrebbe definito la televisione di qualità: il cosiddetto cavallo di Troia, ovvero
una serie che, soddisfacendo formalmente la richiesta del network (o del
pubblico), permette ai suoi autori di raggiungere, indirettamente, traguardi ben
più importanti.
In questo caso, Nbc aveva ottenuto la sua serie poliziesca, ma questa era
molto diversa dalle altre. La puntata pilota, intitolata «Hill Street Station»,
doveva più alle sitcom di Mtm che al genere poliziesco. Descriveva i suoi
personaggi come se fossero i membri di una famiglia. Mischiava comedy e
drama. Le sue storie, a più livelli e incentrate sui personaggi, affrontavano temi
sociali e politici. (L’aspetto sciatto della stazione di polizia era stato ispirato
dalla sitcom Barney Miller.) Lo stile visivo – crudo e realistico, con la camera
sempre in movimento – richiamava i tratti distintivi dell’ultimo decennio del
cinema americano.
Persino oggi, i primi momenti della puntata pilota di Hill Street giorno e
notte, trasmessa negli Stati Uniti il 15 gennaio del 1981, risultano
sorprendentemente moderni. Così come avrebbe fatto per buona parte della sua
durata, la serie cominciava con una scena in cui i poliziotti della stazione di
polizia di Hill Street, collocata in una città senza nome simile a New York, erano
riuniti per l’appello mattutino. La camera a mano passava in rassegna una gran
varietà di personaggi, senza lasciar intuire chi meritasse maggiore o minore
attenzione da parte dello spettatore: tutti assonnati e trasandati, sia neri che
bianchi, sia uomini che donne. Il chiacchiericcio confusionario sembrava preso
da un film di Altman. Poi, finalmente, il sergente, interpretato da Michael
Conrad, chiede di far silenzio e, dopo un riassunto dei fatti della notte
precedente, dà alcune direttive sul da farsi. Si passa così bruscamente da
momenti divertenti (un uomo che ha borseggiato una drag queen) al silenzio più
grave (la notizia di due omicidi e di probabili rappresaglie tra gang). Poi Conrad
annuncia una nuova ordinanza del comando che vieta il possesso di «armi
bizzarre e non autorizzate da parte degli ufficiali di questo distretto».
Brontolando, i poliziotti tirano fuori il loro arsenale per un’ispezione – coltelli a
serramanico, manganelli, nunchaku e pistole di ogni tipo – finché non sembra di
trovarsi davanti a una gag degna dei Fratelli Marx.
«Okay, si balla», dice Conrad, pronunciando quella che diventerà la battuta
più famosa della serie: «E mi raccomando, state attenti là fuori». Al che i
poliziotti recuperano le armi e cominciano la loro giornata.
Non c’è nulla, in questa scena, che risulterebbe fuori luogo in un episodio
di The Wire o The Shield. E lo stesso può dirsi del resto della puntata, che
include la rivelazione di una tresca tra il capitano e il difensore d’ufficio (e che
fa pensare a Mad Men) e una sparatoria forse mortale in cui sono coinvolti due
poliziotti che, fino a quel momento, sembravano messi lì soltanto per creare un
contrappunto comico.
Non sorprende scoprire che Nbc ne rimase turbata. Alcuni documenti del
maggio 1980 testimoniano le loro lamentele. Si parla delle impressioni del focus
group: «La reazione più diffusa del pubblico dimostra che il programma è
deprimente, violento e confusionario…»; «Troppa carne al fuoco in una sola
puntata…»; «I protagonisti sono percepiti come degli incapaci dalla personalità
disturbata. C’è sempre qualcosa che non va nelle loro missioni, e anche la loro
vita personale è un casino…»; «Il pubblico ha trovato insoddisfacente il finale.
Ci sono troppe cose lasciate in sospeso…»
Nell’insieme, queste osservazioni enucleavano, inconsapevolmente, tutto
ciò che avrebbe non solo reso Hill Street un programma storico, ma anche
gettato le basi per tutte le serie della Terza Età dell’Oro.
In quegli anni essere giovani, pieni di talento ed essere strapagati alla Mtm era la
migliore condizione del mondo. E lo diventò ancora di più quando Bruce
Paltrow cominciò a produrre A cuore aperto, che trapiantò buona parte della
formula di Hill Street in un ospedale di Boston. Gli uffici della serie erano al
piano di sotto di quelli di Hill Street. «Eravamo tutti in fibrillazione», ha
raccontato Milch. «Ci sentivamo come se fossimo stati beccati a fare qualcosa di
sbagliato».
«Eravamo soltanto un gruppo di ragazzi, tutti sui trent’anni, e
all’improvviso, grazie alla libertà concessaci da Grant, stavamo cambiando le
regole del business. Stavamo diventando il business», ha raccontato Bochco.
«Era elettrizzante. Renderti conto all’improvviso che puoi essere orgoglioso di
ciò che stai facendo, che puoi finalmente usare la parola arte. Potevamo dire,
con una certa timidezza: “Siamo artisti.” In questo medium tanto disprezzato”».
Da Hollywood a New York gli autori televisivi tesero le orecchie. E così
fecero quelli nelle facoltà artistiche, nei workshop teatrali, nelle scuole di
giornalismo e così via. «Basta andarsi a rivedere le cose che andavano in onda in
quel periodo», ha detto Andrew Schneider, ai tempi producer dell’Incredibile
Hulk. «Guarda un episodio di Simon & Simon. Noi sgobbavamo su programmi di
quel tipo, e quando arrivò Hill Street pensammo: “Ma allora è possibile”.
Ricordo che quando tornai a lavoro, il giorno dopo che il pilot era andato in
onda, tutti ce l’avevano scritto in faccia: “Anche noi avremo la libertà di cose del
genere!”»
Ma la finestra spalancata da Mtm rimase aperta per poco tempo. Grant
Tinker lasciò lo studio nel 1981 per diventare direttore di Nbc. Bochco fu
licenziato dalla nuova direzione di Mtm perché continuava a sforare il budget
(ma continuò la sua carriera alla 20th Century Fox Television, con Avvocati a
Los Angeles, NYPD – New York Police Department e altre serie di successo). Le
regolamentazioni e gli incentivi delle Fin-Syn cominciarono a essere riformulati
all’inizio degli anni Novanta e furono aboliti del tutto nel 1995, togliendo potere
ai produttori indipendenti a favore dei network e, al contempo, portando alla
proliferazione di nuovi piccoli network come The Wb e Upn. La tv via cavo
proseguiva il suo cammino inesorabile, insieme ai videogiochi, a internet e tutto
il resto, frammentando il pubblico in porzioni sempre più piccole. I network, in
generale, continuavano a proporre un’offerta scadente, anzi, sembravano
muoversi nella direzione opposta alla nuova oligarchia degli autori,
concentrandosi al contrario su una programmazione che tendeva a fare a meno
degli autori a favore del «reality show».
Eppure, poco tempo dopo, alcune circostanze sorprendentemente simili si
sono allineate per portare avanti ciò che Tinker e i suoi autori avevano
cominciato: tecnologie nuove e rivoluzionarie, un’industria frenetica e mutevole,
un network che aveva poco da perdere, e diversi uomini che avevano lavorato
sodo e a lungo nella Terra Desolata, sempre all’avida ricerca dell’opportunità di
essere riconosciuti in quanto «artisti».
3. «Mi seguirai ubbidiente dove ti condurrò / e mangerai l’immondizia che ti do / finché un giorno non ci
servirai più / non chiedere aiuto… nessuno ti ascolterà / la tua mente è sotto controllo / è stata riempita della
mia muffa / e farai ciò che ti è chiesto di fare / finché ti saranno venduti i diritti». [n.d.t.]
4. La parola producer, ricorrente in questo libro, è insidiosa, perché ha diversi significati a seconda del
contesto: i credits dell’episodio finale dei Soprano, ad esempio, riportano cinque «executive producer»:
Chase, ideatore ed head writer; Brad Grey, uno dei primi a sviluppare l’idea; Ilene Landress, responsabile
degli aspetti economici, logistici e di altre questioni non autoriali; e infine gli sceneggiatori Terence Winter
e Matthew Weiner, tra le altre cose supervisori degli episodi da loro scritti. Ma nei credits erano presenti
altri sette «producer», dai finanziatori ai co-executive, i cui compiti spaziavano dalla scrittura alla
supervisione della postproduzione, fungendo anche da assistenti di Ilene Landress. Per confondere
ulteriormente le idee, la Writers Guild impone che gli autori suoi tutelati siano indicati nei credits come
«producer», in relazione alla loro paga e alla loro anzianità di servizio. In questo caso, tuttavia, utilizzo il
termine nella sua accezione classica di produttore senza ruoli creativi.
2
QUALI FILM?
A David Chase Hill Street e A cuore aperto non sono mai piaciute. Il resto del
mondo poteva anche pensare che la televisione si stesse sollevando dal fango,
ma lui no. «Pensai che stesse peggiorando», ha raccontato. «Era soltanto
aumentato il numero di sbirri e dottori».
Ma ai tempi a David Chase della televisione non piaceva quasi nulla –
nemmeno le buste paga, ognuna delle quali gli ricordava che si era svenduto,
precludendosi il cammino intrapreso dai registi fuorilegge da lui idolatrati. Se
c’era un uomo intellettualmente ed emotivamente vicino a Jerry Mander e alla
sua campagna contro la tv, tra quelli che ci avevano sempre lavorato, quello era
sicuramente Chase.
«Non me ne frega niente della tv. Non mi interessa dove sta andando né
nient’altro», ha dichiarato tre anni dopo la puntata finale dei Soprano, diventata
subito uno degli eventi culturali più importanti del decennio. «Io volevo fare
cinema. Punto». Gli dava fastidio persino la carica di showrunner: «Sembra la
marca di un acquascooter».
Si trattava di un piccolo dramma all’interno di una storia costellata di
successi: il Riluttante Mosè della Terza Età dell’Oro, l’uomo che avrebbe
permesso ad autori, registi, attori e produttori di lavorare in tv senza doversene
vergognare, proprio lui non riusciva ad accedere alla Terra Promessa.
Chiunque sia cresciuto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni
Novanta (o almeno questo vale per i maschi) conosce la prodigiosa produzione
firmata da Stephen J. Cannell in quel periodo, una sfilza di serie incentrate
sull’evoluzione dei personaggi, dall’umorismo indiretto e ricche d’azione, tra le
quali Riptide, Ralph supermaxieroe, Oltre la legge – L’informatore, 21 Jump
Street, Il commissario Scali, Baretta, Hunter, Hardcastle and McCormick e tante
altre. (Le serie tv hanno sempre avuto un debole per i cognomi come titolo,
soprattutto se suggeriscono elementi sul contenuto.) Ma quella che raggiunse il
maggior successo popolare fu sicuramente A-Team, un adolescenziale e
calibratissimo centrifugato di robaccia reaganiana che raccontava le avventure di
un commando di ex Forze Speciali della guerra del Vietnam, sempre pronto a
schierarsi dalla parte del più debole, purché lavorasse in una falegnameria, in
una compagnia di trasporti o in altri ambienti sufficientemente operai.
Ma, cosa ancora più sorprendente, anche i ragazzi che, per ragioni
anagrafiche, non erano abituati a chiedersi come venissero realizzati i
programmi che guardavano sapevano chi fosse Cannell, persino quando non
conoscevano altri produttori televisivi o non sapevano nemmeno che esistesse un
ruolo del genere. Questa notorietà era dovuta ai bumper con i quali Cannell
firmava le sue serie, dei brevi video in cui compariva con la barba,
l’acconciatura curata e, di solito, una pipa, davanti alla sua macchina da scrivere:
batteva le ultime parole (senza dubbio un colpo di scena o una caratteristica
fondamentale di un personaggio) e poi tirava via la pagina dal rullo, lasciando
che volasse nella stanza e che si trasformasse, tramite un’animazione,
nell’elegante C del logo.
Si trattava di un classico tocco di narcisismo: il video veniva
periodicamente sostituito, e ogni volta l’inquadratura si accertava di contenere il
maggior numero possibile di riconoscimenti tra quelli che affollavano l’ufficio
dello sceneggiatore. Ma era anche qualcosa di più importante: al di là di ciò che
potevi pensare della qualità dei suoi prodotti (che spaziavano da quelli orrendi a
quelli sottovalutati) Cannell stava innanzitutto rivendicando il valore
dell’autorialità in ambito televisivo. Inoltre, benché fosse un abile imprenditore,
per certi versi un rivoluzionario, che faceva una fortuna detenendo i diritti delle
sue serie, attraverso i suoi bumper Cannell insisteva innanzitutto sul suo ruolo di
autore.
Come ha dichiarato in un’intervista del 2004: «All’inizio degli anni Ottanta
qualcuno parlava di me come del “magnate della televisione”. E non mi piaceva
affatto. Perché per me un magnate era un tizio in completo verde che cerca di
portarsi a letto le attrici. Continuavo a spiegare: “Non sono un magnate, sono un
autore. Scrivo cinque ore al giorno. Cos’altro devo fare per essere considerato un
autore?”»
Cannell non smise mai di rivendicare la propria autorialità né l’orgoglio a
essa collegato (alimentato dal fatto che da piccolo era dislessico), nemmeno
quando negli ultimi anni preferì dedicarsi alla scrittura di romanzi gialli. Durante
un pranzo al Beverly Hills Hilton, parecchi mesi prima che morisse per un
melanoma, all’età di sessantanove anni, Cannell aveva un aspetto magnifico:
petto taurino, capelli all’indietro, un leggero dolcevita nero a costine infilato in
attillati pantaloni beige e giacca di velluto. Ordinò un tramezzino al tonno e
consumò un intero barattolino di maionese.
E benché potesse rivendicare di aver lanciato le carriere di Johnny Depp,
Kevin Spacey, Jeff Goldblum, Michael Chiklis e molti altri, sembrava che la
cosa di cui fosse più orgoglioso era di aver assunto David Chase tra gli autori di
Agenzia Rockford.
Anni dopo, Chase ha spiegato ciò che ha imparato dalla scrittura di Agenzia
Rockford (che negli Stati Uniti andò in onda dal 1974 al 1980, diede origine ad
alcuni film ed è rimasta una delle creazioni più riuscite di Cannell): «Cannell mi
ha insegnato che il tuo eroe può fare un sacco di cose cattive, ogni tipo di errore,
essere pigro o sembrare tonto, basta che sia comunque il più furbo tra quelli che
lo circondano e che sia bravo a fare il suo lavoro. Questo è quello che chiediamo
ai nostri eroi». In altre parole, si può dire che Jim Rockford sia un antenato di
Tony Soprano.
Interpretato da James Garner, Rockford era un investigatore privato un po’
scansafatiche che viveva in una roulotte su una spiaggia di Malibu. Aveva una
sorprendente collezione di giacche a quadretti, che indossava con altrettanto
sorprendente aplomb. Non gli piacevano le armi, né lavorare troppo e, nei limiti
della decenza, non accettava di lavorare solo in nome di un qualche desiderio di
giustizia. «“Duecento dollari al giorno, più le spese”, senza eccezioni», ricorda
Chase, facendo riferimento all’onorario dell’investigatore, spesso ribadito nella
serie.
Se il colonnello di A-Team John «Hannibal» Smith, sempre col sigaro tra i
denti e lo sguardo da macho lascivo, era una perfetta incarnazione del
trionfalismo degli anni Ottanta, allo stesso modo Rockford rispecchiava bene i
suoi tempi post-Watergate e post-Vietnam: un sapientone anarchico molto vicino
al Philip Marlowe sciatto e dinoccolato interpretato da Elliott Gould
nell’adattamento cinematografico del Lungo addio del 1973, diretto da Robert
Altman. La serie era permeata da un sottile velo di malinconia, un accenno di
rassegnazione e solitudine rintracciabile nell’armonica del tema musicale firmato
da Mike Post, ammesso che uno sia predisposto a sentirla.
Se ci si concede un minimo di chiaroveggenza a posteriori, è difficile non
notare il tocco di Chase nell’episodio «L’oracolo indossava un completo di
cashmere», il primo in cui è accreditato, non tanto nell’azione principale (un
intricato doppio omicidio nel quale Rockford è suo malgrado coinvolto), quanto
nei dettagli secondari: citazioni di gruppi rock, paronimie, la curiosa coincidenza
per la quale in una scena sulla spiaggia Rockford indossa un accappatoio simile
a quello di Tony Soprano. L’«oracolo» cui fa riferimento il titolo è un famoso
medium dal nome «sopranesco», Roman Clementi, che Chase si è divertito a
dipingere come un viscido e impenitente ciarlatano. Clementi incarnava
perfettamente tutte quelle caratteristiche nella cui descrizione Chase dava il suo
meglio: vanità, stupidità, presunzione e vigliaccheria. Nel momento in cui il
medium vacilla, colpito in pieno volto da uno spacciatore, pensiamo subito al
deputato Ronald Zellman che arranca goffamente mentre Tony Soprano lo frusta
con una cinta per fargli scontare il crimine di essersi innamorato della sua ex
amante.
Ma un’espressione ancora più chiara della creatività di Chase è stata il film
tv Off the Minnesota Strip, andato in onda nel maggio del 1980 su Abc Monday
Night Movie. È già difficile immaginare un film così tetro proiettato in un
cinema di oggi, ma ancora di più su un network e in prima serata, interrotto dalle
giulive pubblicità dei detersivi. Era la storia di una giovane ragazza di nome
Micki, interpretata da Mare Winningham. Micky è una teenager ribelle che torna
a casa in Minnesota dopo aver passato un periodo a prostituirsi a New York.
Anche qui troviamo premonizioni dei Soprano. La madre di Micki è rude e
distante, suo padre un timido impotente, e la stessa Micki non è un angelo dal
cuore d’oro: è una narcisa, una manipolatrice sessuale, ed è anche antipatica. C’è
una scena piuttosto forte in cui il padre, interpretato da Hal Holbrook, è costretto
a sedersi e ad ascoltare un resoconto esplicito delle imprese sessuali della figlia.
(E c’è anche un certo umorismo cinico, come quando, per darle la buonanotte, il
padre le dice: «Comunque, spero ti faccia piacere dormire due volte nello stesso
letto».) Nella colonna sonora troviamo «Just My Imagination» dei Rolling
Stones e altri successi rock.
Off the Minnesota Strip è un ottimo esempio di quanto Chase sia abile a
descrivere la psicologia complessa di personaggi incapaci di comprendere se
stessi, e men che meno di esprimere quello che gli passa per la testa. Si tratta di
una differenza chiave tra i lavori di Chase e quelli, da lui detestati, di altri due
showrunner: David Milch e Aaron Sorkin, entrambi abituati a dotare tutti i loro
personaggi di un’eloquenza che assomiglia in modo sospetto a quella dei loro
creatori. (Chase non ha mai capito come la stessa persona possa apprezzare I
Soprano e, per dirne una, West Wing. «È come quando ero al liceo: se ti
piacevano i Supremes, non potevano piacerti le Marvelettes, e se ti piaceva
Dylan non ascoltavi Donovan», ha detto Chase, lasciando pochi dubbi sui
termini della sua metafora.)
Off the Minnesota Strip finisce nel modo più caotico possibile, con Micki e
un amico che si incamminano per la Sunset Strip e si fermano lì, senza spiegare
cosa stiano cercando né se lo troveranno, né dando alcuna altra risposta. Sul New
York Times John J. O’Connor lo definì «il film più deprimente dell’anno».
«Alla fine, Off the Minnesota Strip è poco più di un’omelia sulla futilità di
ogni cosa», scriveva O’Connor. «L’unico messaggio, per Micki, per i suoi
genitori e probabilmente per tutti noi, sembra essere: “Lascia perdere quello che
stai facendo e tagliati le vene”».
A distanza di quasi trent’anni, dopo averne visto il finale altrettanto
ambiguo, i fan dei Soprano hanno discusso se la serie avesse lo stesso
messaggio.
È stato grazie alla sceneggiatura di Off the Minnesota Strip che Chase ha vinto il
suo primo Emmy. Purtroppo per lui, ciò lo rese molto richiesto da parte delle
aziende televisive. Nonostante tutti i contratti che gli furono proposti da studios
come la Warner Brothers, Chase decise di investire i due anni successivi
lavorando per un’azienda sconosciuta che corrispondeva al nome di Comworld
Pictures.
«Pensai: “Questi coglioni non manderanno in onda mai nulla e così avrò
tutto il tempo che mi serve per scrivere i miei film”. E fu che così che andò», ha
raccontato.
Le sue contorte strategie non si fermavano qui: Chase sognava di riuscire a
vendere a qualche tv un’idea che fosse abbastanza buona perché ne venisse
girata la puntata pilota, ma non così buona da diventare una serie. In quel modo,
avendo già realizzato un pilot di un’ora, avrebbe proposto allo studio di
recuperare l’investimento girando un altro po’ di materiale, quello che bastava
per trasformare il pilot in un lungometraggio. E c’era un’idea che interessava la
Universal e che sembrava perfetta per questo proposito. Era la storia di un
matrimonio che va a pezzi, ambientata nel presente ma raccontata in buona parte
attraverso dei flashback su un passato felice negli anni Sessanta. «Pensai: “Molti
pilot non vengono comprati. Io adesso giro questo qui, poi faccio il montaggio
ed eccomi nell’industria del cinema”».
Il suo piano, però, gli si ritorse contro, e non sarebbe stata l’ultima volta.
Quelli di Cbs, convinti dal successo di due serie Abc sulla generazione dei baby
boomer, In famiglia e con gli amici e Blue Jeans, comprarono la serie di Chase,
che si chiamava adesso Quasi adulti. Chase chiamò il suo agente, lasciandolo di
sasso: «Gli dissi: “Ascolta, devi tirarmi fuori da questa situazione”. Lui rispose:
“Ma come? Non sei contento?” Gli dissi: “Io mi ammazzo. Non la voglio fare
una serie”».
Quasi adulti andò in onda nel novembre del 1988. La coppia protagonista
era interpretata da Eve Gordon e Tim Daly, che in seguito sarebbe apparso in un
piccolo ruolo ricorrente nei Soprano. Tra gli autori c’era Robin Green, ex
giornalista e alunna dello Iowa Writers’ Workshop, la cui carriera, insieme a
quella del futuro marito, Mitchell Burgess, si sarebbe intrecciata a quella di
Chase per i due decenni successivi.
«Non so come fece a portarlo in tv», ha detto Henry Bromell. «Era una
serie sul fallimento. E non era una sorpresa, non era una di quelle cose che
comprendi soltanto alla quinta stagione, anzi: quella serie comincia quando il
matrimonio sta per finire. Soltanto David poteva scrivere una cosa del genere».
Nonostante le recensioni positive, Quasi adulti si rivelò troppo cupa e,
penalizzata dalla decisione di Cbs di trasmetterla dopo il Monday Night
Football, fu cancellata dopo soli otto episodi. Chase pensò che i suoi peggiori
pregiudizi sulla tv fossero stati confermati e si convinse sempre di più
(considerata anche l’assenza di reazioni positive nei confronti delle sue
sceneggiature cinematografiche) di aver fatto un madornale errore karmico.
«Cominciai a pensare che non avrei avuto successo nel cinema perché non
mi stavo sacrificando abbastanza. Non volevo desistere, né rinunciare al mio
stipendio settimanale o alla mia bella casa a Santa Monica. Non mi sarei
immolato all’arte, tagliando i ponti con tutto e lavorando da freelance», ha detto.
E nel frattempo si era già fatto la reputazione di uno dal talento
ingombrante e sprecato, una versione umana della Black List delle
sceneggiature: il fallito di maggior talento della tv. Ripensando a quando
propose di inserire Chase tra gli autori di una serie ambientata durante il
movimento per i diritti civili, John Falsey ammette: «La verità è che credo che
nessun altro lo volesse tra i piedi».
UN CONCETTO IMPORTANTE
Nei primi anni Novanta, pur attenendosi maggiormente agli standard, anche
David Chase stava facendo cose interessanti, lavorando per due giovani autori-
produttori che, se avessero cominciato dieci anni dopo, si sarebbero
probabilmente ritrovati a lavorare per un canale via cavo: Josh Brand e John
Falsey. I due avevano appena trent’anni quando crearono A cuore aperto per
Mtm; lasciarono la serie quasi subito, in seguito a duri conflitti decisionali tra
Brand e l’executive producer Bruce Paltrow. Alla Universal, avevano creato una
miniserie in tre parti intitolata Un anno nella vita, per Nbc, che in seguito al
successo di critica era stata trasformata in una serie da ventidue episodi. Quindi
avevano inaspettatamente fatto il colpaccio con un rimpiazzo estivo di otto
episodi intitolato Un medico tra gli orsi, su un nevrotico medico newyorkese
finito a lavorare in un’eccentrica cittadina dell’Alaska: grazie alla sua alchimia
di commedia, soap opera e scaltra sensibilità letteraria (Falsey e molti degli
sceneggiatori da lui reclutati avevano studiato fiction alla University of Iowa), la
serie fu subito acclamata dalla critica.
«Erano perfettamente consapevoli di voler fare qualcosa che non fosse
tipicamente televisivo», ricorda la sceneggiatrice Barbara Hall. «Facevano
continui riferimenti a romanzi, racconti e opere teatrali, e non ad altri episodi di
serie tv». Dopo la prima settimana di riprese Robin Green, anche lei
sceneggiatrice della serie, fu spedita a casa con una raccolta di racconti di John
Updike e la richiesta di studiarseli. Ma la serie fu anche un successo in termini di
ascolti, e questo diede a Brand e Falsey la quasi assoluta libertà di decidere il
passo successivo.
«Prima di allora, prima che Hbo e i canali cable entrassero in gioco, i
network dedicavano un’ora o due alla settimana a programmi che non avrebbero
avuto successo ma dei quali potevano comunque dirsi fieri», ha detto Falsey.
«Ecco, con Un medico tra gli orsi Josh e io ci siamo accaparrati quella nicchia».
E ciò con cui la riempirono fu Io volerò via. Ambientata tra la fine degli
anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, la serie ruota intorno a un procuratore
distrettuale, interpretato da Sam Waterston, che impara a conoscere i
cambiamenti morali e legali auspicati dal movimento dei diritti civili, e la sua
governante afroamericana Lilly, interpretata da Regina Taylor, coinvolta nel
movimento. Brand ha detto che la fonte di ispirazione era stata una scena del
Buio oltre la siepe, nella quale Atticus Finch chiede alla sua governante nera di
rimanere a casa sua mentre sbriga delle faccende: «Ho pensato: “Ehi, sarebbe
interessante vedere la situazione dal punto di vista della governante”».
A Brand Quasi adulti era piaciuto parecchio. Così, quando un giorno James
Garner tessé le lodi di David Chase durante un pranzo all’Hotel Bel-Air, Brand e
Falsey decisero di invitarlo a un incontro di lavoro.
«Non era esattamente la persona più allegra che si possa incontrare», ha
detto Brand. «Quando andò via, ci guardammo e dicemmo: “È proprio un tipo
strambo. Però è davvero bravo, nel suo lavoro”. Così l’abbiamo assunto. In
verità non ce ne fregava nulla della sua personalità».
Anche Henry Bromell e Barbara Hall facevano parte della piccola squadra
di sceneggiatori, nella quale Chase rimaneva comunque la star. «Ricordo che
ognuno di noi scrisse il suo primo soggetto e lo fece girare», ha raccontato
Bromell. «Il mio era molto buono. Lessi quello di Barbara, e anche il suo era
ottimo. Ma quello di Chase… quello era al livello di Cˇechov».
Nel secondo episodio della prima stagione di Io volerò via, «Il cappello», la
governante Lilly recupera e ripara un cappello da cowboy perso da John
Morgan, il figlio del procuratore per cui lavora. Ma prima che possa
restituirglielo, sua figlia se ne innamora, costringendo Lilly a sottrarglielo con la
forza per poterlo restituire. Nella scena finale, John Morgan getta via il cappello
senza pensarci più di tanto.
«Diceva tutto», ha detto Bromell. «Su entrambe le famiglie. Sui soldi. Sul
potere. Sul fatto che Lilly non potesse mandare affanculo il suo capo. Gli dissi:
“David, è eccezionale, a tutti i livelli”. E lui: “Non so, non sono convinto”».
Racconta Brand: «Se spuntavi nel suo ufficio David ti guardava come se
stessi provando a sfilargli il portafogli. Gli dicevi: “David, non devo dirti nulla
di che, volevo solo fare due chiacchiere!” E lui, sospettoso: “Dimmi. Dimmi”.
Però mi piaceva. Lo trovavo divertente, sempre così preso dalle sue cose».
Brand fa una pausa e sorride: «Certo, ho sempre trovato spassoso anche Richard
Nixon».
Chase era orgoglioso del lavoro fatto per Io volerò via, ma questo non
significava che fosse felice. Le sue battaglie con nemici reali e immaginari
continuavano (quelli reali erano, perlopiù, i dirigenti di Nbc, la rete su cui le
serie andavano in onda). C’era uno spot in cui Louis Armstrong cantava «What a
Wonderful World». Gli spot mandavano Chase fuori di sé.
«Se avessi avuto una pistola avrei ucciso qualcuno», ha raccontato nel
2010, nervoso come se fosse ancora nel 1992. «Che cazzo c’entrava quella
canzone ottimista col Ku Klux Klan, l’assassinio degli attivisti nel Mississippi,
le donne ammazzate nelle loro auto e i bimbi neri linciati? Volevano far passare
una serie sul dolore come una storiella carina su un ragazzino e la sua tata. Mi
veniva da vomitare».
Hall ricorda che una volta Chase fece piangere una donna dell’ufficio
preposto a stabilire quante volte la parola negro poteva essere usata in un
episodio («Che tipo di persona può fare il suo lavoro?», continuava a chiederle).
Un’altra volta, una ragazza dello staff rivendicava quanto fosse importante il
loro lavoro. «Non è televisione, è arte», diceva. Chase la fissò coi suoi occhi
stanchi: «Sei qui per due motivi: far vendere auto e intrattenere gli americani.
Questo è il tuo lavoro».
Alcune delle critiche peggiori Chase le rivolgeva a Un medico tra gli orsi.
«Quelli che lavoravano a quella serie si comportavano come se stessero
cercando una cura contro il cancro e al contempo reinventando il drama», disse.
«L’ambizione della serie, come scoprii in seguito, era quella di creare, cito
testualmente, “un universo privo di giudizi morali”. Per me era inconcepibile. Mi
sembrava pretenzioso, autocompiaciuto. Andavamo agli Emmy ogni anno e loro
prendevano premi e noi di Io volerò via niente. Non che li volessimo più di
tanto, gli Emmy, ma quella serie veniva sopravvalutata e mi sembrava che fosse
un prodotto completamente disonesto».
Verso la fine del 1993 Chase divenne lo showrunner di Un medico tra gli
orsi.
Questa strana svolta degli eventi era stata accelerata dalla cancellazione di Io
volerò via dopo due sole stagioni. Pbs in seguito ritrasmise la serie,
accompagnata da un film di novanta minuti intitolato I’ll Fly Away: Then and
Now, uno dei primi segnali di come i canali alternativi ai grandi network fossero
il posto ideale per lo storytelling di un certo livello.
Dopo la loro rapida ascesa, la collaborazione tra Brand e Falsey cominciò a
vacillare. Brand supervisionava costantemente Un medico tra gli orsi, Falsey era
più concentrato su Io volerò via. Mentre entrambe le serie erano ancora in
programmazione, Falsey convinse Brand a iniziarne un’altra, Going to Extremes,
una copia abbastanza palese della formula «pesce fuor d’acqua» di Un medico
tra gli orsi, stavolta incentrata su un gruppo di studenti di medicina su un’isola
tropicale. Falsey sognava di diventare il primo producer con tre serie candidate
all’Emmy nella stessa categoria, ma poco dopo che la serie cominciò a essere
trasmessa, nel settembre del 1992, cominciò ad avere problemi di alcolismo, che
portarono lui e Brand a non avere più alcun contatto per quasi vent’anni. Brand,
scosso dal dramma dell’amico, ma anche esasperato dai conflitti per questioni
contrattuali con la star di Un medico tra gli orsi, Rob Morrow, decise di
abbandonare la serie dopo la quarta stagione.
La Universal diede comunque le redini a Chase, affiancato dalla coppia di
sceneggiatori – marito e moglie – Andrew Schneider e Diane Frolov. Com’era
prevedibile, considerata la tempra di Chase e l’anomala gestione a tre, le cose
non funzionarono. Un medico tra gli orsi fu cancellato dopo due stagioni.
«Lo studio mi aveva chiesto: “Chi potrebbe occuparsene al posto tuo?
Chase?” E io gli avevo risposto: “Sì, sicuramente potrebbe. È un ottimo
sceneggiatore. Ma io non ce lo vedo proprio David a fare questa roba”», ricorda
Brand. «Perché ha accettato, lo sapeva solo lui», dice Brand.
E in effetti Chase lo sapeva: «L’ho fatto per soldi. Per la prima e unica volta
in vita mia».
Nel frattempo, a Hbo c’era stato un cambio della guardia: Michael Fuchs era
stato licenziato e Jeff Bewkes, già direttore finanziario e presidente, era
diventato ceo. Insieme a lui fu promosso il suo responsabile del palinsesto, un
executive che si sarebbe rivelato fondamentale per la Terza Età dell’Oro più di
qualsiasi altro producer o autore: Chris Albrecht.
All’inizio degli anni Novanta, su Mtv, il gruppo comico The State
interpretò uno sketch intitolato «Doug & Dad». Michael Showalter interpretava
Doug, un adolescente in piena ribellione nonostante abbia un padre aperto e
disponibile. (Per fare un esempio: «No, papà, non smetterò di far sesso nel
parcheggio dietro il supermercato soltanto perché per te non è un problema se lo
faccio nella mia stanza!») Allo stesso modo, gli showrunner della Terza Età
dell’Oro inveivano contro l’ingerenza distruttiva dei network in un modo che
sembrava più che altro un’abitudine o un rituale pre-combattimento, considerato
che per la maggior parte del tempo i rapporti tra creativi e dirigenza erano i più
amichevoli nella storia della tv. Albrecht, in realtà, aveva una personalità non
meno forte di quella degli autori con cui lavorava, e avrebbe dimostrato, in
seguito, di avere anche lui problemi e idiosincrasie monumentali; eppure,
insieme al suo braccio destro, Carolyn Strauss, Albrecht gettò le basi per una
generazione di executive illuminati.
Nato nel Queens, Albrecht era stato un aspirante comico, ma aveva finito
per occuparsi delle assunzioni di altri comici. Nel 1975 diventò manager e in
seguito uno dei proprietari dell’Improv, un comedy club di New York, dove
divenne presto noto come abile scopritore di talenti e perché amava far festa con
gente del calibro di Robin Williams. L’esperienza di Albrecht con la comicità,
così come quella di Bernie Brillstein della Brillstein-Grey, sembra aver giocato
un ruolo importante nella rivoluzione della tv. Se esiste una forma artistica
puramente autoriale, che dipende unicamente dalla voce di un singolo performer,
da solo su un palcoscenico, quella è la stand-up comedy. Il valore di queste voci
risultava immediato a chiunque frequentasse un comedy club, e metteva in luce
il fatto che originalità, spontaneità e imprevedibilità facevano presa sul pubblico.
«Quello che ho imparato nei club», ha detto Albrecht, «è che la forma più
alta di stand-up comedy la fanno quelli che hanno un punto di vista. Un punto di
vista è un elemento imprescindibile di qualsiasi voce originale».
Nel 1980, Albrecht diventò un agente dell’International Creative
Management (Icm): rappresentava Billy Crystal, Jim Carrey, Whoopi Goldberg,
Eddie Murphy e molti altri. Nel 1985 si unì a Hbo in qualità di vicepresidente
senior e responsabile della programmazione originale.
In quel periodo il centro di gravità di Hbo era ancora il quartier generale di
New York, e lo rimase almeno finché la presidenza fu ricoperta da Fuchs
(personaggio vulcanico che Esquire definì «l’uomo più potente, temuto e odiato
di Hollywood»). «Credo che ci fosse un pregiudizio radicato da parte dei
newyorkesi nei confronti della gente di Los Angeles: “Quelli di Hollywood”», ha
detto Albrecht, che ha trascorso la prima metà degli anni Novanta sviluppando
progetti che Hbo ha poi prodotto per altri, il più famoso dei quali rimane la
sitcom Tutti amano Raymond di e con Ray Romano.
Era anche frustrante per quelli che lavoravano nel dipartimento serie
originali, supervisionato da Albrecht. «Stavi sempre lì a cercare di dimostrare
che sarebbe stato il modo migliore per mantenere gli abbonati», ha spiegato
Susie Fitzgerald, che ai tempi lavorava in quella sezione. «Per riuscire a farci
finanziare, gli dicevamo: “Abbiamo bisogno di personaggi fissi di cui il pubblico
si innamori, se vogliamo che rinnovino l’abbonamento”».
Bewkes, che nel 1995 è subentrato a Fuchs, era un altro tipo di manager,
più propenso alla delega e convinto che il futuro di Hbo fosse nella produzione
di serie originali. Proprio in quel periodo, la televisione satellitare era stata
rivoluzionata dall’introduzione dei ricevitori Ku-band, leggeri e facilmente
installabili, che rendevano obsolete quelle antenne giganti che sembravano più
adeguate a sondare lo spazio in cerca di alieni. Grazie a servizi come DirecTV e
Dish Network, Bewkes poteva così contare su un nuovo flusso di introiti. Per
l’infelicità di qualcuno a New York, l’ago della bilancia del potere si spostava a
ovest, verso Albrecht.
Anche Carolyn Strauss era entrata in Hbo a metà degli anni Ottanta e si era
fatta le ossa producendo comedy. Per stile e carattere, la Strauss era l’opposto di
Albrecht: timida al punto da sembrare indifferente, preoccupata da quei dettagli
di una sceneggiatura o di un pitch che Albrecht trovava semplicemente noiosi, e
insofferente al carisma e alla giovialità ipocrita che sfoggiava lui. Eppure i due
concordavano fermamente su quello che doveva diventare il punto di forza del
brand Hbo.
«Non sono uno di quelli che si siedono e scrivono quattro pagine di note»,
ha detto Albrecht. «Io dico: “Questo è quello che penso, per sommi capi”». È per
questo che Carolyn e io lavoriamo così bene insieme. La cosa bella è che non
eravamo d’accordo su tutto, ma riconoscevamo sempre quello che avevamo
davanti. Non è mai successo che io dicessi: “È rosso”, e lei: “No, è arancione”».
Per ironia della sorte, considerato l’aumento di potere dell’ufficio
californiano, i primi due successi sotto il timone del duo Albrecht/Strauss non
parlavano d’altro che di New York. Il primo è stato Oz. Ambientata in una
prigione e girata soltanto in interni, la serie ricordava il teatro sperimentale
urbano degli anni Ottanta, e ogni episodio era introdotto da un narratore esterno,
un eloquente nero newyorkese coi dreadlock e costretto su una sedia a rotelle.
Anche il cast (pieno di attori che sarebbero in seguito apparsi in altre serie di
Hbo) funzionava come una compagnia teatrale, che ogni giorno, abbandonato il
teatro di posa del West Side di Manhattan, si spostava al La Nonna, un ristorante
del West Village di cui lo showrunner Tom Fontana era coproprietario.
«Tom viene da Buffalo, ma gli piace pensare di essere cresciuto a Little
Italy», ha detto Seth Gilliam, che in diciassette episodi di Oz interpretava un
instabile secondino e che avrebbe in seguito ricoperto il ruolo del sergente Ellis
Carver di The Wire. «Non risparmiava le parolacce, ma soprattutto si divertiva a
prenderti in giro e ti invitava a fare altrettanto».
Fontana aveva l’abitudine di aiutare i membri del cast più squattrinati
offrendogli drink e cibo nel suo ristorante, non sempre per la felicità del suo
socio e chef. Inoltre supportava le altre avventure lavorative dei suoi attori, ma
invece di andare a vederli si limitava a fare donazioni alla compagnia teatrale.
«Mille dollari sono ben spesi se puoi evitarti di assistere a uno spettacolo», ha
detto.
Oz è andata avanti per sei stagioni, sfociando nell’era dei Soprano, ed è
difficile immaginare che I Soprano sarebbe esistita senza Oz. Artisticamente
ambiziosa, piena di scene violente e di sesso omoerotico, e con un protagonista
carismatico che è, tra l’altro, gay, neonazi e psicopatico, Oz ha contribuito in
modo fondamentale alla definizione dell’identità di Hbo.
Bisognava però ancora dimostrare che una serie originale potesse far
parlare di sé in modo diffuso e attirare nuovi abbonati. Il compito fu affidato alla
serie successiva di Strauss e Albrecht, Sex and the City, che andò in onda per la
prima volta il 6 giugno del 1998. Per le donne di tutto il paese (ma anche per
molti uomini), la serie, ispirata all’omonimo libro di Candace Bushnell, a sua
volta tratto dalla sua rubrica sul New York Observer, parlava di ascesa sociale,
amicizia e ambienti glamour a New York. Avrebbe potuto essere una campagna
pubblicitaria per alimentare il turismo in una New York post-Rudolph Giuliani,
de-etnicizzata e inondata di soldi. Le sue protagoniste erano archetipi familiari
almeno quanto quelle di Cuori senza età: la Volgare, la Moralista, la Donna in
Carriera e l’Eroina. Ma parlavano dei loro corpi, e di desideri e insoddisfazioni
esistenziali, in modo più esplicito di quanto avesse mai fatto qualsiasi donna in
tv.
Era il momento migliore per lavorare da Hbo (così come, una generazione
prima, era stato con Mtm): trovarsi lì significava avere una missione, ritrovarsi al
di fuori del mainstream di Hollywood (nella «torre d’avorio», come la chiamava
Fitzgerald) e, al contempo, avere su di esso un impatto sempre maggiore.
«Ci impegnavamo a fare quello che facevamo, ma senza prenderci troppo
sul serio, senza troppe pressioni, anche perché non avevamo ottenuto quel livello
di successo che può rischiare di mettere gli uni contro gli altri», racconta
Albrecht. «Dicevo a Jeff: “Ehi, c’è questo progetto. Che ne pensi?” E lui:
“Ottima idea. Non appena puoi, fai pure”».
La Strauss ricorda: «Era tutto molto rilassato, divertente. In realtà eravamo
ancora nell’ombra. Non hai molto da temere, finché non cominci a vincere
qualche Emmy».
Tutto questo per dire che andare a Hbo non era più una follia quando Lloyd
Braun, ex avvocato diventato manager ed executive alla Brillstein-Grey,
incontrò David Chase davanti all’ascensore della società e gli chiese: «Hai mai
pensato all’eventualità di fare una versione del Padrino per la tv?»
4
Una serie tv che si rispetti anticipa tutto ciò che racconterà nella sua puntata
pilota. Spesso in una sola battuta.
Si pensi a The Wire, che inizia sulla scena di un omicidio, con un giovane
nero che spiega perché lui e i suoi amici permettessero alla vittima, un ladro
incallito soprannominato Mocciolo Appeso, di giocare a dadi con loro
nonostante cercasse ogni volta di scappare col piatto delle vincite. «Dovevamo»,
dice il ragazzo. «Siamo in America».7 La battuta era stata presa in prestito da un
fatto di cronaca realmente accaduto, riportato da un detective di Baltimora.
Oppure si pensi a Mad Men, nel quale Don Draper e una sua possibile
conquista hanno questo scambio:
DON: Il motivo per cui non l’ha provato è che [l’amore] non esiste. Vede, quel tipo d’amore è
stato inventato da quelli come me per vendere calze. […] La verità è che nasci solo e muori
solo, e il mondo ti sommerge di regole per fartelo dimenticare. Ma io non lo dimentico mai.
Vivo senza guardare al domani, perché il domani non c’è.
RACHEL: Non c’avevo mai pensato fino a questo momento, ma anche essere uomo dev’essere
molto difficile.
Guidando verso casa, dopo quel breve incontro con Lloyd Braun nell’ascensore
della Brillstein-Grey, nel 1995, Chase escluse l’ipotesi di un Padrino fatto per la
tv. Ma cominciò a ronzargli in testa un’idea. Senza dubbio, il mondo della mafia
lo incuriosiva: da piccolo aveva guardato innumerevoli riprogrammazioni
notturne di film con James Cagney come Nemico pubblico e Gli angeli con la
faccia sporca. In seguito era rimasto affascinato dai cafoni del New Jersey dai
quali la sua famiglia aveva fatto di tutto per distinguersi. Lo stesso New Jersey –
le sue stratificazioni sociali, le sue tante voci – era sempre stato una musa per
Chase, anche quando scriveva della protagonista sbandata di Off the Minnesota
Strip. «Non sono riuscito a capire dove stavo andando a parare finché non l’ho
immaginata che tornava a Caldwell, nel New Jersey», ricorda Chase. «Solo
allora mi sono sentito al sicuro».
Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, i suoi eroi della Nuova
Hollywood, avevano dimostrato da tempo che lo spietato mondo del crimine
organizzato si prestava bene alla trasposizione artistica. «Il pantheon», per usare
il termine con cui Chase riassumeva film come Il padrino, Mean Streets, Quei
bravi ragazzi e altri, aveva dimostrato che quella della mafia era la storia
americana per antonomasia, il modo ideale per parlare delle ambizioni e delle
origini di un’intera nazione.
Nel frattempo, molti suoi colleghi e amici avevano ascoltato le sue storie
spassose sul rapporto con la madre Norma. Chase aveva analizzato il suo passato
da cima a fondo insieme a una serie di terapisti, a partire da quando, intorno ai
trentacinque anni, durante un viaggio di famiglia a Roma, si era finalmente
convinto a cercare aiuto. Rimasto solo per qualche ora, si era seduto in un bar a
piazza della Rotonda, di fronte al Pantheon, a bere un bicchiere di champagne.
«Ricordo che pensai: “Cos’ha di speciale questa città? È pregna di migliaia di
anni di morte. È stata il cuore della civiltà occidentale, ma ti lascia addosso una
sensazione di morte, violenza e decadenza”. O almeno io sentivo questo. Ma poi
pensai: “Ma sentiti. Hai un figlio sano, un matrimonio felice, sei seduto di fronte
al Pantheon con un bicchiere di champagne e questo è tutto ciò che riesci a
pensare. Hai bisogno di aiuto”». Ai tempi di questa dichiarazione Chase era in
cura da una brava e giovane analista di nome Lorraine Kauffman, che sarebbe
diventata il modello per Jennifer Melfi.
Sua madre Norma era morta nel 1992, lasciandolo libero di raccontare le
sue storie a un pubblico più ampio. Guidando da Beverly Hills, dove si trova la
Brillstein-Grey, verso la sua casa di Santa Monica, Chase ripensò a quando
Robin Green gli aveva consigliato di scrivere di sua madre. Rincasato, aveva
appuntato alcune cose in un file chiamato «Temi»: «La moglie di un mafioso e
suo figlio. Il padre è morto. Il figlio ha preso il potere. Il suo unico rivale è la
madre. La madre, da vittima che era, si rivela la dominatrice/assassina che è
sempre stata. La madre deve uccidere il figlio, o viceversa. (Oppure lui potrebbe
metterla in un ospizio)».
Ai tempi, Chase aveva immaginato la storia sotto forma di comedy. Ma in
seguito, riflettendoci, cominciò a scorgerne le possibilità più profonde.
«All’inizio David cominciò a parlare dell’America come tema portante»,
racconta Kevin Reilly. «Ricordo che in una delle prime conversazioni disse:
“Guarda quello che sta succedendo in questo paese. Un tempo la gente si univa a
una comunità e quella comunità si prendeva cura della gente per sempre. Oggi
nessuno si prende cura di niente. E coi matrimoni è uguale: vai a lavoro, dove la
gente si approfitta di te, e poi torni a casa e tua moglie ti rompe le palle”».
Ecco da cosa viene la battuta della puntata pilota dei Soprano che rivela
così tanto del vuoto culturale e spirituale che si paleserà in seguito: «Da un po’
di tempo ho la sensazione di arrivare sempre quando tutto sta finendo. Il meglio
è già passato».
Se il pilot dei Soprano è stato l’acme della carriera e dell’esperienza
personale di David Chase, va detto che all’inizio ha vissuto tutte le sventure del
più sfortunato dei primi episodi. Chase e i suoi agenti lo proposero innanzitutto a
Cbs. Il presidente Leslie Moonves, forse in corsa per il Premio Cliché dell’Anno,
disse che l’idea gli piaceva parecchio, ma chiese anche se era davvero necessario
che Tommy Soprano (così si chiamava inizialmente il personaggio) dovesse
andare da uno psicologo.
Fu quindi il turno di Fox, che ai tempi si godeva il ruolo di network ribelle
grazie al successo di programmi anticonformisti come I Simpson e Sposati… con
figli. Bob Greenblatt, ai tempi responsabile della programmazione di prima
serata del network, si disse interessato e fece una proposta di trecentomila dollari
in cambio di un soggetto. Chase, in linea col suo carattere, era elettrizzato quanto
pessimista.
«Non appena mi misi a scrivere cominciai a chiedermi: “Ma come può
funzionare? Sai, per il linguaggio, fucking questo e fucking quello”. Pensai che
sarebbe stato il classico caso di aspettative divergenti, e che sia io che il network
ne saremmo usciti tremendamente delusi», ha raccontato Chase.
«Io invece», ha raccontato Reilly, «sostenevo che l’incompatibilità della
serie con la sua messa in onda in televisione risiedesse nel piano narrativo, più
che nel linguaggio. […] Per me era scontato che i personaggi potessero dire
“Vaffanculo”, se volevamo che la serie fosse credibile. Il problema, secondo me,
era nella trama». La trama del pilot proposto in seguito a Hbo prevedeva che un
amico di Tony, Artie Bucco, fosse preoccupato per le sorti del suo ristorante, il
Vesuvio. Seguendo una logica mafiosa impeccabile, la soluzione a cui giunge
Tony è far saltare in aria il locale. «Tony non si rendeva conto che stava
rovinando il sogno del suo amico. E questo, a conti fatti, lo rendeva un
personaggio imprevedibile», ha detto Reilly. «Non è questo il tipo di storia che
cercano i network».
Avevano entrambi ragione. Dopo parecchie settimane di silenzio, gli giunse
voce che Fox non avrebbe comprato il progetto. Anni dopo, al culmine del
successo, Chase si sarebbe divertito malignamente a fare il nome dell’executive
che aveva trascurato di telefonargli e dargli la notizia, raccontando di averlo
incontrato a un evento della Television Critics Association, dove il poveretto,
che sicuramente si mangiava le mani, gli aveva detto: «Vedi, alla fine è andata
nel migliore dei modi!»
A quel punto il pilot aveva completato il giro: Nbc, Abc e infine Cbs, e
ovunque la risposta era stata negativa. L’universo della dottoressa Melfi, di
Paulie Walnuts, del Vesuvio e del Bada Bing! sembrava destinato a collassare
come tanti altri. Stanco e demoralizzato, nonché prossimo alla scadenza del
contratto con Brillstein-Grey, Chase si stava preparando a firmare un altro
accordo di sviluppo con Fox, che avrebbe incluso la gestione di Millennium, uno
spin-off di X-Files di Chris Carter. Ma fu allora che ricevette una chiamata di
Braun: «Ascolta», gli disse, «abbiamo mandato il soggetto a Hbo. Hanno avuto
qualche cambiamento interno e potrebbero aver bisogno».
Chase sapeva già quale sarebbe stato l’arco della prima stagione, dove
cominciava e dove finiva, dal primo attacco di panico di Tony alla presa di
coscienza che sua madre aveva provato a ucciderlo. Era la storia che aveva
sempre sognato di realizzare. Adesso, però, bisognava capire come arrivare da A
a B, come riempire dodici ore di tempo dello schermo. E ciò significava
chiamare in causa altri sceneggiatori.
Nessun’altra forma di arte – senza dubbio nessuna di quelle che denotano il
tocco di un autore – viene realizzata in modo più collaborativo di una serie tv. È
vero che anche i vari Fellini e Altman contavano sul talento e la creatività di
decine di altri artisti – dagli attori al direttore della fotografia, fino ai
parrucchieri. Ma è anche vero che non si sedevano in una stanza piena di altri
registi per chiederne il parere e confrontarsi su come procedere. Inoltre, sono
proprio quelle caratteristiche della tv che elevano l’autore a Padrone
dell’Universo – l’appetito insaziabile per i contenuti inediti e i tempi sempre più
stretti – a rendere al tempo stesso impossibile che l’autore faccia tutto da solo.
Ovviamente ogni showrunner deve modellare questa necessità sui propri
interessi e metodi, e ci sono tante possibili combinazioni di writers’ room quante
sono le writers’ room. L’unico elemento immancabile è una tale quantità di cibo
al centro del tavolo da far pensare a una crociera, come se la scrittura fosse
un’attività atletica che richiede una costante assunzione di calorie. (O, per essere
cinici, come se gli sceneggiatori fossero così manipolabili che può bastare del
cibo per tenerli buoni e leali. Anche se, è vero, tutti gli sceneggiatori si vantano
di come sono trattati nelle writers’ room dal punto di vista alimentare. Tutti,
nessuno escluso.)
Nella maggior parte delle writers’ room, gli sceneggiatori si riuniscono
intorno a un tavolo da conferenza. Al centro del tavolo c’è una pila di snack e
menu di ristoranti take away, insieme a taccuini, penne e altri strumenti della
creatività. Lungo le pareti sono disposti degli spazi in cui organizzare e
visualizzare le idee – di solito lavagne bianche (whiteboard) e bacheche
tappezzate di schede. A seconda della fase in cui ci si trova, queste schede
possono contenere spunti, parti di dialogo e proposte, oppure lo storyboard di un
episodio, una sequenza verticale di scene numerate, o «beats». Sulla parete più
larga si trova solitamente una griglia divisa in dodici o tredici colonne, ognuna
delle quali rappresenta un episodio. Nelle caselle orizzontali sono riportati i
nomi dei personaggi e gli eventi di cui sono protagonisti in ogni episodio, in
modo da permettere a ogni sceneggiatore di avere sott’occhio tutto ciò che
riguarda ogni singolo personaggio. Se c’è un tratto distintivo della Terza Età
dell’Oro, quello è proprio la whiteboard.
Seduta intorno al tavolo c’è quasi sempre una persona più giovane delle
altre, l’assistente degli sceneggiatori, che trascrive febbrilmente al pc tutti i
progressi stabiliti. È apparentemente l’unica persona impegnata a fare qualcosa
che il resto del mondo identificherebbe come un «lavoro». Almeno nelle prime
fasi, infatti, una writers’ room efficiente deve usufruire dei vantaggi creativi
della procrastinazione, affinché i suoi componenti abbiano il tempo di
conoscersi, scambiarsi idee e ragionare insieme sugli argomenti e sulle
incongruenze narrative. Gli showrunner più bravi incoraggiano questa fase di
temporaggiamento. Soltanto in seguito si passa al momento della costruzione
della storia, in cui si struttura ogni singola scena. Man mano che si procede,
l’autore assegnato a uno specifico episodio prenderà con sé questi storyboard
incredibilmente dettagliati e scomparirà per una settimana o due, intento a
trasformarli in una sceneggiatura. E si assenterà di nuovo dalla stanza quando
sarà il momento di andare sul set per supervisionare le riprese del suo lavoro.
L’obiettivo finale, anche se non viene detto apertamente, è ottenere
qualcosa che vada al di là della sceneggiatura su commissione, ma che sia
piuttosto il frutto di una comunione creativa. Ha detto David Milch: «La
situazione migliore si ha quando entri nella writers’ room senza avere le idee
chiare e, grazie all’incontro con gli altri sceneggiatori, scopri la natura e il ritmo
della storia che stai cercando di raccontare.
Ma il percorso che conduce da questo proposito ideale alla realtà cela
numerose insidie quotidiane: autori che parlano troppo, altri che non parlano
affatto, yes-men, bastian contrari, ego fuori controllo. In altre parole, ci si ritrova
in quella condizione complicata, e prevedibile, che deriva dal prendere un
gruppo di artisti (tutti brillanti e divertenti, coi propri sogni nel cassetto,
nevrotici e in competizione tra loro) e metterli insieme in una stanza a ricevere
dei «no» per otto ore al giorno, nonché al servizio della visione creativa di
un’altra persona.
«Questo è il tuo lavoro. Sei il servo del Creatore», ha detto James Manos,
che ha lavorato anche a The Shield di Shawn Ryan. «È una posizione difficile.
Perché gente come David o Shawn ti assume proprio perché hai una voce forte,
tutta tua, ma poi, quando sei lì con loro, devi cominciare a scrivere con la loro
voce».
Matthew Weiner ha ammesso che gli dava sui nervi il fatto che nessuno, al
di fuori dello staff dei Soprano, fosse a conoscenza dell’ottimo lavoro da lui
svolto per la serie. «Sottolineavo in continuazione che, lavorando ai Soprano,
non stavo dando il mio contributo specifico, ma stavo piuttosto lavorando per
David, nel suo cervello, coi suoi personaggi e con l’unico intento di farlo felice».
La metafora ideale potrebbe essere quella di un progettista incaricato di
disegnare un piccolo elemento – magari un candeliere – dell’immensa cattedrale
di un architetto. Il progettista potrebbe sentirsi appagato dal proprio lavoro, e
magari ricevere persino dei riconoscimenti dagli esperti e dai cultori di
candelieri, ma a conti fatti il suo lavoro si limiterebbe comunque a illuminare
quello del Creatore. Questo dà allo showrunner, che ovviamente conosce la
propria visione meglio di chiunque altro, la massima libertà di approvare o
rifiutare le proposte altrui. Il suo sogno è quello di trovare degli autori che
apportino qualcosa di assolutamente nuovo all’universo da lui creato, che gli
diano esattamente ciò che avrebbe voluto scrivere lui ma che non sarebbe
riuscito a immaginare da solo. «Quando succede ti rimane in faccia quella
stupida espressione di compiacimento», ha detto Milch. «È come quando ti
innamori», ha detto Weiner.
Non dovrebbe sorprendere, quindi che le writers’ room siano luoghi di
lavoro carichi di tensione. (Non sembra una coincidenza il fatto che la parola
stanza venga usata anche in psicanalisi e tra gli Alcolisti Anonimi.) Sono un
ricettacolo di tumulti e coinvolgimenti emotivi.
«Non sono mai stato in una writers’ room in cui gli autori non abbiano
finito per vivisezionare psicologicamente lo showrunner», ha detto Chris
Provenzano, tra gli autori di Mad Men e di altre serie. «Tutti gli autori sono già
interessati alle questioni psicologiche e motivazionali. Sono stati tutti in terapia.
Hanno tutti dei problemi e cercano tutti di risolvere qualcosa in sospeso. Così,
non appena lo showrunner dice inevitabilmente qualcosa che non quadra o non li
convince, cominciano a confabulare: «Deve avere qualche problema con l’ex
moglie, o qualcosa di simile». E così ti ritrovi coinvolto in questo lento ma
inesorabile smembramento collettivo della psicologia di una sola persona, perché
quello è il cervello che comanda tutti gli altri cervelli nella stanza, e tu non sei
altro che una delle appendici di questo superorganismo».
Era quindi prevedibile che David Chase, devoto com’era agli autori del cinema,
avesse un rapporto conflittuale con le writers’ room. All’inizio della sua carriera,
per scrivere Agenzia Rockford, Chase faceva brainstorming con uno staff
composto soltanto da tre persone, lasciando a un registratore il compito di
catturare le loro ispirazioni estemporanee. In seguito, per affrontare lo
storytelling più complesso di Quasi adulti e di Un medico tra gli orsi, Chase era
stato affiancato da un numero di sceneggiatori più alto. Ed era sceso a patti con
la necessità di una trama.
«Imbastire una storia è la parte più difficile del processo. È davvero
difficile scrivere qualcosa che chiunque in America non abbia già visto un
migliaio di volte. Quindi, vai lì e dici: “Cosa vogliamo far succedere?”»
Questa, però, è anche la parte più divertente, insieme ai gossip, ai pranzi
collettivi, alle discussioni sull’attualità e al cazzeggio. È a quel punto che arriva
la parte più «professionale» del lavoro, come la definisce Chase, nonché quella
che lo lascia più scettico: «Anche gli altri hanno buone idee. E le idee sono
difficili da trovare, anche se, in un certo senso, ce ne sono fin troppe.
Trasformare un’idea in un episodio – è quello il lavoro noioso. Magari si
prendono un giorno di pausa perché sono convinti di aver avuto un’idea buona,
ma poi è allo showrunner che tocca guardare l’orologio e dire: «E adesso come li
riempiamo i quarantadue minuti dell’episodio?» Possiamo anche decidere di
costruire una copia di un tavolo Luigi XIV, ma alla fine qualcuno dovrà intagliare
il legno».
Il passaggio successivo, spiega Chase, è una rivelazione privata vissuta in
pubblico.
Chase cominciò ad assemblare la writers’ room dei Soprano cercando tra i suoi
vecchi colleghi. Robin Green e Mitchell Burgess si erano incontrati alla
University of Iowa. La Green, che aveva scritto per Rolling Stone nei bei tempi
andati di San Francisco, lavorava al Writers’ Workshop, mentre Burgess, ex
militare, alto e dalla voce profonda, nato nell’Iowa, era uno studente del suo
corso di scrittura. La Green aveva lavorato con Brand e Falsey a Un anno nella
vita e poi con Chase a Quasi adulti. Lei e Chase legarono anche perché avevano
avuto entrambi delle madri problematiche, e Chase era intrigato dal curioso (per
quanto vago) legame della Green con il mondo della malavita: quand’era
adolescente, a Providence nel Rhode Island, era infatti uscita in un doppio
appuntamento con il figlio del boss Raymond Patriarca. «Quella storia ci faceva
ridere fino alle lacrime», ha raccontato la Green.
Dopo Quasi adulti erano tornati entrambi a lavorare per Brand-Falsey:
Chase a Io volerò via e la Green a Un medico tra gli orsi. Burgess aveva
affiancato la Green, e insieme avevano scritto quasi un quarto dei 110 episodi
della serie, inclusi molti di quelli girati durante i due anni di incarico di Chase.
David e Denise Chase erano persone abitudinarie in fatto di gusti
alimentari, e una volta trovato un ristorante che li soddisfaceva ci tornavano a
lungo. Il loro porto sicuro, a Santa Monica, era un ristorante italiano chiamato
Drago, dove spesso organizzavano cene con amici. La Green e Burgess ne
rimasero frequentatori abituali anche dopo la fine di Un medico tra gli orsi, e
dopo aver seguito i progressi del pilot dei Soprano, che Chase gli aveva dato da
leggere quando il soggetto era ancora in valutazione da Fox. «Ammesso che la
comprino», gli aveva chiesto, «verreste a scriverla per me?» La Green e Burgess,
entusiasti, gli avevano risposto di sì. Nel frattempo, erano impelagati nella
writers’ room di Cinque in famiglia, dov’erano stati per qualche giorno prima di
Natale, a scrivere un’altra storia da teen drama, quando un assistente gli disse
che qualcuno li voleva al telefono: un certo signor Tommy Soprano.
Gli sceneggiatori dei Soprano cominciarono così a incontrarsi in una
sezione degli uffici di produzione di Oliver Stone a Santa Monica, affittata per
l’occasione. Chase aveva messo insieme un po’ di materiale sulla mafia da far
leggere ai suoi sceneggiatori. Uno degli ospiti regolari era Dan Castleman, un
assistente procuratore distrettuale che avrebbe fatto da consulente alla serie per
tutta la sua durata e che raccontò e spiegò le azioni legali da lui avviate contro il
crimine organizzato. Un altro consulente fu un ex «imprenditore», entrato nel
programma di protezione dei testimoni, che, dopo aver mostrato le cicatrici di
un’antica ferita da arma da fuoco, condivise la sua esperienza su argomenti come
il modo più facile di spezzare un braccio o il punto di vista dei mafiosi sulle
sveltine con le hostess nel bagno di un aereo (a favore) e sul cunnilingus
(contro).
Nella stanza c’erano anche: Manos, fumatore incallito e semi-agorafobico
che aveva partecipato alla scrittura di un film di Hbo intitolato The Positively
True Adventures of the Alleged Texas Cheerleader-Murdering Mom; i due
giovani sceneggiatori Mark Saraceni e Jason Cahill; e il logorroico e pittoresco
Frank Renzulli, la persona più simile a un vero mafioso che abbia mai fatto parte
della writers’ room dei Soprano.
Renzulli, un omone con un ispido pizzetto, era figlio di immigrati di prima
generazione arrivati dalla Sicilia e da Napoli. Era cresciuto nelle case popolari
vicino a Maverick Square, nella East Boston, roccaforte della famiglia mafiosa
dei Patriarca. I genitori di Renzulli non erano legati alla mala, ma la loro
posizione nei confronti della mafia era quella ambigua tipica di molti
italoamericani. Suo padre sembrava critico nei confronti dei gangster, anche se
Renzulli sospettava che suo nonno paterno fosse emigrato a New York, durante
gli anni del proibizionismo, per ragioni connesse al contrabbando. Sua madre,
nel frattempo, era cresciuta a stretto contatto con quel vicinato. «Una volta uno
degli affiliati mi disse: “Ringrazia Dio che tua madre non è nata uomo. Saremmo
tutti nei casini”», ha raccontato Renzulli. «Mia madre sarebbe stata la donna più
felice del mondo se fossi diventato anch’io un affiliato».
E sua madre fu in parte accontentata. A nove anni Renzulli cominciò a
bazzicare il social club del posto. Sbrigava commissioni per uomini che giravano
in Cadillac e sfoggiavano spesse mazzette di contanti, e li intratteneva con le sue
precoci pagliacciate.
«Sei un bambino povero di periferia, e la vita ti sembra senza futuro. Anzi,
te lo dicono pure che non c’è un futuro. Poi vedi un tipo che arriva in Mercedes.
Tutto pulito, profumato. È il proprietario di un piccolo social club. Dentro c’è
l’aria condizionata. Si mangia pure. E uno del locale ti dice: “Vieni qui,
marmocchio. Come ti chiami? Fammi un favore, vai in questo negozio, prendimi
questo, questo e questo”. E tutto comincia così».
Se questa iniziazione può sembrare tratta da una sceneggiatura, è bene
ricordare una delle tesi principali dei Soprano, ovvero che la mafia reale e quella
ritratta dalla cultura pop si sono ritrovate per così tanto tempo in un circolo
vizioso fatto di citazioni, echi e imitazioni reciproci, che oggi è ormai
impossibile stabilire in che cosa l’una abbia influenzato l’altra e viceversa.
Arrivato all’adolescenza Renzulli era diventato un buon giocatore di
biliardo, un acuto osservatore delle abitudini dei mafiosi e una figura di sfondo,
ma sempre più coinvolto nel mondo dei piccoli crimini e della violenza
occasionale. All’inizio dei vent’anni pensò che era il momento giusto per
tirarsene fuori.
«Una notte ho avuto una rivelazione. Passavo in continuazione dai
banchetti alla fame. Una sera avevo duemila dollari in tasca e il giorno dopo
facevo colletta per comprare le sigarette». Ma mettersi in riga non era facile,
soprattutto considerato il disprezzo che avevo maturato per il mondo onesto.
«Cercavo di esorcizzare quel demone che mi diceva: “È da sfigati fare un lavoro
onesto!” Ero sempre sul punto di perdere il lavoro, perché in qualsiasi istante,
quando qualcuno mi chiedeva qualcosa, ero tentato di dirgli: “Ma vaffanculo!”»
Così Renzulli si trasferì a New York, per studiare recitazione e
sceneggiatura. Per due anni fece vari lavoretti di falegnameria e abitò presso la
YMCA della Sessantatreesima Strada. Trovò lavoro come portinaio nel quartiere
di Hell’s Kitchen, in un palazzo densamente abitato da quegli stessi affiliati che
si era lasciato alle spalle. Ma a quel punto lo show business lo attraeva più della
criminalità. Ebbe il suo primo ruolo con battute in Broadway Danny Rose (1984)
di Woody Allen.
Nel 1987 si spostò a Los Angeles in cerca di altri ruoli. Dopo qualche anno
si mise a scrivere. «I ruoli da “compare” erano pochi», avrebbe raccontato in
seguito. Quando Chase lo notò, intorno al 1996, Renzulli aveva già co-creato
una serie di breve durata intitolata The Great Defender, con Michael Rispoli nei
panni di un avvocato, aveva proposto inutilmente un pilot ambientato a East
Boston e interpretato da Michael Chiklis (futuro protagonista di The Shield), e
aveva lavorato a un altro pilot con David E. Kelley, per il quale aveva
interpretato il ruolo ricorrente di un magnaccia in The Practice.
Chase lo incontrò in un bar a Santa Monica, ed entrambi si congedarono
pieni di dubbi. «Avevo letto il soggetto e non riuscivo a capire quale fosse il suo
punto di vista. Voglio dire, perché lo stava scrivendo?», ricorda Renzulli. Inoltre
gli era sembrato di stargli antipatico. «Credo che Chase telefonò a David Kelley
per chiedergli se parlavo sempre così tanto».
Chase, da parte sua, disse alla Green e a Burgess: «Questo qui sa fare gli
spaghetti alla marinara», intendendo che ne sapeva parecchio di mafia, «ma è
matto come un cavallo».
I due, però, si erano trovati d’accordo su un punto importantissimo, che
avrebbe assicurato la necessaria partecipazione di Renzulli nella creazione
dell’universo dei Soprano. «Tutti i mafiosi che ho visto in tv mi facevano venire
voglia di spaccare qualcosa», ha detto Renzulli. «E Chase mi disse: “Non
dipende dalla recitazione, ma dalle battute che gli danno, dalla scrittura. Queste
serie sono scritte male. Ma adesso ci pensiamo noi”».
I primi episodi furono scritti nell’ufficio di Santa Monica. Robin Green scriveva
ogni scena in un biglietto e poi li attaccava insieme con lo scotch in sequenza,
per lungo. Dopo aver scritto quattro episodi, il gruppo – tranne Renzulli, il quale,
padre di tre figli e con un quarto in arrivo, era rimasto in California – si spostò a
New York per cominciare la produzione. Chase non lasciava dubbi sulle sue
ambizioni. «David mirava ai pesci grossi», ha detto Burgess. «Voleva che la
serie fosse al livello del Padrino e di Quei bravi ragazzi». Durante un pranzo in
un ristorante giapponese, disse a Burgess e alla Green: «Questa per me è la volta
decisiva: o va bene, o sono fuori dal giro».
Nel frattempo, nel New Jersey, i produttori e gli addetti alle location
stavano setacciando il Garden State in cerca delle aree urbane e degli edifici più
idonei all’universo dei Soprano. La casa della famiglia a North Caldwell apparsa
nella puntata pilota fu ricostruita nei Silvercup Studios (sarebbe stato più costoso
ottenere, ogni stagione, i permessi necessari a girare una manciata di esterni
davanti alla casa originale). Il Bada Bing! era uno strip club a Lodi, chiamato
però Satin Dolls. Un locale abbandonato nel quartiere scozzese-irlandese di
Kearny diventò l’ambientazione semipermanente della macelleria Satriale’s, ma
anche il magazzino della produzione.
Considerato che Hbo non aveva una vera e propria programmazione da
prime time, e che nessuno si aspettava nulla, Chase e la sua squadra poterono
concedersi il lusso di girare, montare e perfezionare i primi tredici episodi con
larghissimo anticipo rispetto al debutto. Alla fine delle riprese, a novembre,
Chase si mostrò comunque disfattista, come suo solito: «James, Edie e tutti gli
altri ripetevano: “Ci siamo divertiti. È stata una bella sfida, una bella
esperienza”. E questo significava che non saremmo riusciti ad andare avanti,
perché la tv non ha nulla a che fare col divertimento».
A gennaio si avvicinava la première, e c’erano stati commenti positivi da
parte della critica e una manciata di visioni private. Ma nessuno sapeva cosa
aspettarsi. «Vivevamo in una bolla. Un pilot che era stato bocciato un mucchio
di volte, con un cast di perfetti sconosciuti, e girato nel New Jersey. Per Hbo.
Chi ci avrebbe fatto caso?», rievoca Fitzgerald.
Poi, il 10 gennaio, mentre una tempesta di neve imperversava sulla East
Coast, I Soprano fece il suo debutto in tv.
7. Nel doppiaggio italiano la battuta è diventata «Siamo in democrazia», ma in questo caso abbiamo
preferito attenerci all’originale. [n.d.t.]
8. Rat Pack (letteralmente: «branco di ratti») era il nome con cui tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio
degli anni Sessanta venne soprannominato il gruppo di uomini di spettacolo formato da Frank Sinatra, Dean
Martin, Sammy Davis Jr., Peter Lawford e Joey Bishop. [n.d.t.]
SECONDA PARTE
LA BESTIA IN ME
5
UOMINI DIFFICILI
E così sono arrivati gli antieroi. È stato chiaro che il decennio a venire sarebbe
stato propizio per questo tipo di personaggi già molto tempo prima che The Wire
raccontasse «un’America in guerra con se stessa su ogni piano» o che The Shield
incarnasse per un’intera stagione un’allegoria losangelina della guerra in Iraq. Ai
tempi dell’esordio dei Soprano in tv l’America aveva già cominciato a diventare
un paese dolorosamente spezzato in due, come sarebbe stato chiaro durante le
elezioni presidenziali del 2000. Dopo le elezioni, gli americani che avevano
votato per chi aveva perso erano dovuti scendere a compromessi con la Bestia
che si annidava nel loro corpo politico e – nel corso di un decennio funestato da
due guerre, da prigioni segrete, dallo scandalo delle torture e da cose simili –
anche con ciò che veniva compiuto in nome loro.
Questa fetta di elettorato corrispondeva per sommi capi agli spettatori di
reti come Amc, Fx e Hbo: progressisti, colti, democratici. E ora la Terza Età
dell’Oro, presentava repubblicani dal volto umano: poliziotti, pompieri,
mormoni, persino un Don Draper a favore di Nixon e, crimine dei crimini, un
Jimmy McNulty che si astiene dal voto. Si trattava pur sempre di una working
class, ma molto diversa da quella mostrata da Pappa e ciccia, che mirava a un
pubblico vasto che si immedesimasse nei problemi economici della famiglia, o
da Arcibaldo (All in the Family), che invece invitava entrambe le parti a ridere
l’una dell’altra. Era questa la destra in ascesa proposta alla sinistra disillusa,
come per rassicurarla che chi era al potere aveva comunque un volto umano.
«Una serie come I Soprano risulta rassicurante perché parte dal tacito
assunto che persino il più abominevole degli individui è tormentato dalle nostre
stesse ansie quotidiane», ha detto Craig Wright, tra gli sceneggiatori di Six Feet
Under e altre serie. «Quest’assunto è sempre stato ribadito dai periodi in cui la
destra è al potere e la sinistra muove le sue critiche attraverso l’arte. Ma la cosa
divertente è che queste critiche servono a mascherare, o ad alimentare,
un’impotente erotizzazione del potere della destra. La verità è che la gente è
attratta dai Big Daddy, per quanto sostenga di odiarli».
E questo vale sicuramente per le donne che trovavano in Tony Soprano un
insospettabile sex symbol, ma anche per gli uomini, spesso altrettanto ammaliati.
La possibilità di realizzare i propri sogni è sempre stata la perversa attrattiva dei
gangster movie, l’invidia dello spettatore per una vita al di là delle convenzioni,
mescolata al desiderio che il criminale venisse punito per le stesse trasgressioni
che in qualche modo ci intrigano. E lo stesso succede ai personaggi maschili dei
Soprano che vengono attratti dal carisma di Tony con conseguenze disastrose.
(Davey Scatino perde il suo negozio di articoli sportivi dopo aver partecipato a
un tavolo da poker con Tony, e Artie Bucco, estraneo alla mala ma a essa vicino
più di chiunque altro, subisce una serie interminabile di dolorose umiliazioni.) E
lo stesso vale per gli spettatori, sui quali una vita di furti, omicidi e promiscuità
esercita un appeal innegabile, per quanto conflittuale.
Ma questo vale anche per gli stessi creatori delle serie tv. Non dovrebbe
sorprendere che il lavoro dello showrunner – che ha il potere di dar vita a un
mondo finzionale, di spostarne i personaggi da una parte all’altra e di far
commettere loro atti indicibili – attragga uomini non del tutto estranei agli istinti
più primitivi dei personaggi da essi creati.
David Chase l’aveva sicuramente capito. «Quando guardo un film sulla
mafia una parte di me urla: “Dai, spaccate tutto, bastardi!”», ha spiegato. Ma
ancora più significativo è il racconto del giorno in cui Todd Kessler si è ritrovato
da solo con Chase negli uffici della Silvercup. Chase era arrivato in ritardo
all’incontro in cui avrebbero dovuto discutere su come unire le due metà
dell’episodio finale della seconda stagione, «L’ultima tequila», di cui si erano
occupati separatamente. Si sedette distrattamente davanti a Kessler e gli disse
che aveva avuto un’illuminazione.
«Eravamo seduti a una trentina di centimetri l’uno dall’altro», ricorda
Kessler. «“C’è qualcosa di cui vuoi parlare?”, gli chiesi. E lui: “Sì, certo. Vedi,
ho capito che non sarò mai davvero felice… finché non avrò ucciso un uomo”.
Quindi si appoggiò al tavolo e continuò. “Ma non intendo semplicemente
uccidere qualcuno”, disse e, afferrandomi la testa con entrambe le mani,
aggiunse: “Intendo ucciderlo… a mani nude!”»
I due rimasero in silenzio per qualche secondo. Poi Chase ruppe
l’incantesimo: «“Vado a prendere un caffè”, disse. “Tu lo vuoi un caffè?”»
In un certo senso, Chase aveva già fatto ciò di cui sentiva il bisogno. Se c’è stato
un momento che ha segnato l’inizio della nuova tv, è arrivato poche settimane
dopo l’inizio dei Soprano. Nel frattempo il pubblico aveva già cominciato ad
affezionarsi a questo nuovo atipico eroe. È vero che l’avevano visto picchiare un
uomo, organizzare truffe, estorsioni e incendi dolosi, e tradire reiteratamente la
moglie; ma al contempo sembrava che si fosse ritrovato lì, e che non sarebbe
potuta andare diversamente, con una madre degenerata come la sua. Inoltre, se
eri avvezzo alle storie televisive tradizionali, potevi cogliere diversi segnali che
si potesse trattare della parabola di un uomo che si redimerà grazie alla
psicoanalisi e all’amore per la famiglia. D’altronde, già il primo episodio
cominciava con quella che poteva sembrare la visione di un santo prossimo alla
conversione, una visione rivelatrice della bellezza e della vulnerabilità della vita:
un gruppetto di paperelle a mollo nella piscina. Era persino plausibile,
considerata la regia sopra le righe dei primissimi episodi, per non parlare dei
botta e risposta tra Paulie, Silvio e gli altri gangster, che la serie avrebbe finito
per rivelarsi una comedy più che un drama. Lo stesso Chase ha dichiarato,
abbastanza seriamente, di non essere mai stato sicuro al cento per cento sui
confini del genere.
Ma proprio allora, alla quinta settimana, Tony ha strangolato un uomo fino
a ucciderlo. Proprio davanti a noi. In tempo reale. E mentre stava
accompagnando sua figlia a visitare alcune università.
L’episodio, intitolato «Un conto da saldare», inizia in modo tutt’altro che
rivoluzionario. Anzi, la storia prende piede da pretesto innocuo e vecchio quanto
La famiglia Brady. «Dopo essermene rimasto seduto per tre episodi, ho detto:
“Basta, mi sto annoiando! Bisogna portarli fuori città”», ha raccontato Chase.
«“Magari potrebbero fare una vacanza o una cosa simile”. In qualsiasi serie a un
certo punto c’è un episodio dedicato a una vacanza». Chase aveva da poco
accompagnato sua figlia a fare un sopralluogo in varie università, e quindi ebbe
l’idea di far fare la stessa cosa a Tony e Meadow, mandandoli in giro per il
Maine.
Chase ha sempre sostenuto che il suo obiettivo, a prescindere dalle
necessità narrative della trama principale della serie, era quello che ogni episodio
fosse anche un minifilm autoconclusivo. La premessa di «Un conto da saldare»,
era promettente anche prima dell’introduzione del personaggio che avrebbe
spinto Tony all’omicidio. I momenti più intensi e inquietanti dei Soprano sono
quelli in cui la serie abbandona la dimensione ermetica della mala del New
Jersey per concedere allo spettatore uno scorcio del mondo esterno: si pensi al
disorientamento dei due strozzini quando si rendono conto che è inutile chiedere
il racket a una caffetteria di catena, oppure a quando Anthony Junior si ritrova a
casa di una compagna di scuola e capisce cosa vuol dire essere davvero ricchi e
potenti. (The Wire mette in atto lo stesso procedimento con effetti simili, come
quando due giovani spacciatori guidano fino a uscire dalla città e rimangono
stupiti dal fatto che le stazioni radio cambino di regione in regione, ma ancora di
più dal fatto che le loro trasmettano A Prairie Home Companion.)
L’idea di mandare un boss in un territorio sconosciuto, per affrontare il più
importante dei riti di passaggio dei genitori borghesi, è un punto di partenza
eccellente. Nella prima scena dell’episodio, diretto da Allen Coulter (che sarebbe
diventato un regista di riferimento della serie) Tony è immobile, come
un’appariscente statua da giardino, nel cortile antistante un prestigioso edificio
dell’università, mentre nell’aria riecheggiano le campane. (L’edificio, come
quasi qualsiasi altro nei Soprano, si trovava in realtà nel New Jersey, nel campus
della Drew University; per citare un addetto alle location della serie: «Qualsiasi
cosa esista nell’universo conosciuto puoi trovarla anche nel New Jersey».) Il
conflitto tra il ruolo di padre e quello di boss non è mai stato così intenso come
quando Meadow gli chiede, sapendolo già, cosa faccia per vivere. Oppure
quando, poco dopo, i due dimostrano affiatamento, complottando affinché la
madre non scopra che la sera prima Meadow si è ubriacata. Nel frattempo,
Carmela era rimasta a letto con l’influenza, e questo le aveva dato la possibilità
di passare una serata immersa nel vino e nei film di James Ivory in compagnia
del mellifluo e ambiguo Padre Phil. Dopo diversi bicchieri, Carmela ammette,
tra le lacrime, di sapere tutto, e di negare per convenienza il costo morale della
sua vita agiata – una presa di coscienza catartica che, naturalmente, non si
tradurrà in un’azione concreta.
Tutto ciò costituisce un mini-film coinvolgente e appagante, che ci permette
di conoscere più a fondo questi personaggi, e di affezionarci a loro in modo
sempre più ambivalente. Ma l’evento cardine che definisce la puntata supera tutti
gli altri in termini di drammaticità. È nato da un’idea di Frank Renzulli, che
aveva suggerito, nella writers’ room, che Tony si imbattesse in un ex malavitoso
inserito nel programma di protezione dei testimoni. Chase si alzò in piedi e uscì
fuori dalla stanza, e si andò a chiudere nel suo ufficio. Il mattino dopo arrivò con
le diciotto scene della storia, descritte nel dettaglio: in una stazione di benzina,
Tony crede di aver visto Fabian «Febby» Petrulio, un ex compare che ha
abbandonato la Famiglia dopo essere stato arrestato per traffico di eroina,
riferimento realistico a uno dei principali fenomeni che avevano contribuito
all’indebolimento della mafia. Dopo una chiacchierata importante con Meadow,
e prima di accompagnarla a un colloquio al Colby College, Tony verifica
l’identità del traditore che ha «cantato», lo segue e infine lo strangola.
Nell’arco di un paio d’anni, l’assunto per il quale il protagonista di una
serie tv non poteva uccidere qualcuno sarebbe diventato una restrizione obsoleta,
almeno quanto il divieto di dormire insieme o di usare la parola incinta alcune
generazioni prima. Ma in «Un conto da saldare» la cosa più scioccante non è la
morte in sé, quanto l’evidente soddisfazione provata da Tony nel portare a
termine il suo compito. Tony non vive alcun conflitto interiore, nemmeno
quando scopre che Petrulio, nascosto dietro il nome fittizio di «Fred Peters», si è
rifatto una famiglia e ha una figlia anche lui, né è disincentivato dalla presenza
di Meadow, al di là delle difficoltà che questa impone. Né, ancora, viene
ventilata l’ipotesi che Tony trarrà vantaggi o ulteriore prestigio dall’eliminazione
di un traditore; e infatti Christopher (che avevamo già visto mentre faceva a
pezzi un cadavere sul retro di Satriale’s) prega Tony affinché gli permetta di fare
un salto lì e sbrigare lui la faccenda. Si tratta semplicemente di un imperativo del
mondo di Tony: i traditori vanno eliminati. Almeno nella storia originale di
Chase, non c’è nessun dato che possa permettere agli spettatori di razionalizzare
e giustificare ciò che hanno visto, ovvero Tony che digrigna, sputacchia e freme
mentre strangola Petrulio con un cavo, recidendogli la carotide, ferendosi alle
mani e ignorando Petrulio che lo supplica di risparmiarlo. La scena procede
implacabile per un minuto e sessanta secondi.
Nella mitologia dei Soprano, che esalta sia le ambizioni autoriali del suo
creatore che l’afflato da produttori illuminati degli executive di Hbo, si narra che
solo in due occasioni il network abbia richiesto modifiche. Preso alla lettera ciò
suona inverosimile, ma pare sia vero che solo due volte il canale sollevò
obiezioni su questioni sostanziali, e in entrambi i casi Chase ebbe la meglio. La
prima obiezione riguardava il titolo della serie, che quelli di Hbo avevano
trovato disorientante («Cos’è, una serie sui cantanti d’opera?», pensò Jamie-
Lynn Sigler quando fu contattata per il suo provino), tanto da proporre una serie
di alternative, perlopiù variazioni sul tema preferito di Chris Albrecht: il buffo e
ambivalente L’uomo di famiglia. Ma alla fine il titolo comprovò ancora una
volta la lezione dei Beatles, di Amazon e di altri: che il nome più strambo e
meno attinente può rivelarsi perfetto e imprescindibile se legato a un fenomeno
culturale. Non ci volle molto prima che una ricerca della parola soprano su
Google desse centinaia di risultati riguardanti la serie prima di qualsiasi
informazione su una tradizione musicale secolare.
La seconda delle due leggendarie obiezioni riguardava «Un conto da
saldare». Nella testa di Chase, l’omicidio di Petrulio non doveva rappresentare
una grande svolta narrativa. Proprio come Tony, Chase pensava che fosse
semplicemente una cosa che andava fatta, una delle ovvie implicazioni del
mondo in cui vivevano i suoi personaggi. Quando mandò la sceneggiatura a Hbo
Chase sapeva che avrebbe generato qualche discussione, ma non era preparato ai
toni animati della telefonata che ricevette da Albrecht in persona.
«Hai creato uno dei personaggi televisivi più appassionanti degli ultimi
vent’anni e adesso vuoi rovinare tutto al quinto episodio?», urlò Albrecht.
«Che vuoi dire?», gli chiese Chase, in pace con se stesso.
«Tony ammazza quel tizio a mani nude! Perderemo degli spettatori!»
«Chris, mi dispiace, ma devo dirti la verità: non sono per niente d’accordo»,
gli rispose Chase. «Penso che gli ascolti caleranno se Tony non lo uccide».
Secondo Chase gli spettatori avevano capito cosa significasse essere un traditore
nel mondo di Tony, e se Tony l’avesse lasciato vivo, si sarebbero chiesti: «Ma
che razza di gangster è? Un gangster senza spessore!»
La discussione, però, andò avanti. Chase suggerì di accantonare l’episodio
o di farlo slittare. Albrecht bestemmiò. «Dopo tutto quello che abbiamo speso
dobbiamo mettere l’episodio in archivio? Voglio dire: magari, se scoprissimo
che questo tizio che Tony ha ucciso era un gran bastardo…» Ma Chase obiettò:
«È un traditore! Basta e avanza!»
Alla fine, Chase vinse la guerra, trascinando con sé Albrecht (che in seguito
avrebbe felicemente ammesso di aver avuto torto) e tutta la storia della tv. Ma
con una concessione che quasi gli costò la battaglia: per andare incontro al punto
di vista di Hbo, dovette inserire una scena che rivelava non solo che Petrulio
aveva ripreso a spacciare, ma che aveva anche provato ad assoldare una coppia
di tossici affinché facessero fuori Tony e Meadow: non è un caso se quella scena
risulta falsa, come fosse un pezzo di televisione «convenzionale».
«Dopodiché abbiamo parlato di soldi, mi pare. Cose sul budget. Albrecht è
stato molto ragionevole», ricorda Chase. «Non avevo mai avuto una
conversazione di quel tipo con un executive, nella quale a conti fatti parlate delle
stesse cose, e lui non ti dice tipo: “Se lui è un gangster, magari, potrebbe avere
una sorella su una sedia a rotelle, o una cosa del genere?” Dicevo sempre, per
scherzo, che se I Soprano fosse stata trasmessa da un network Tony avrebbe
finito per collaborare con i federali nella guerra contro il terrorismo. Non avevo
mai avuto un dialogo nel quale, nove volte su dieci, io e l’executive avevamo gli
stessi obiettivi».
Della scena aggiunta, invece, Chase ha detto: «Non credo che sia stato un
compromesso orribile, ma è stato comunque un compromesso. E preferirei non
averla mai inserita».
Agli scrittori non piace troppo congratularsi con gli altri scrittori, nonostante
passino una gran mole di tempo a farlo – nei blurb, nei discorsi introduttivi ai
reading e così via. Il fenomeno è certo diffuso in tutti gli ambiti della scrittura,
ma nel mondo di Hollywood, in cui il successo può rivelarsi un gioco a somma
zero (c’è un limite al numero di puntate pilota che, in una data stagione, possono
trasformarsi in una serie), le cose non vanno certo meglio che altrove. Di
conseguenza, quando una sceneggiatura riceve una valanga di lodi da altri
sceneggiatori, si possono ipotizzare due cose: 1) che sia incredibilmente buona;
2) che apporti qualcosa di buono al lavoro degli altri sceneggiatori.
Era già successo con la prima puntata di Hill Street giorno e notte, e il
fenomeno si è ripetuto con I Soprano, soprattutto dopo che «Un conto da
saldare» è andato in onda. Uno dei tanti professionisti della tv che ne rimase
subito colpito fu il quarantenne Alan Ball, un autore-producer diventato
sceneggiatore. «Mi sono sentito come se stessi guardando un film degli anni
Settanta, di quelli che ti dicevano: “Hai presente quell’idea da cartone animato
per la quale bene e male sono due cose distinte? Bene, scordatela! Adesso vedrai
com’è la realtà”», ha detto Ball. «La prova degli attori era sorprendente. E la
sceneggiatura spettacolare. Ma la cosa più entusiasmante era la complessità
morale, la complessità dei personaggi e dei loro dilemmi etici».
Ball, come Chase, era un veterano della tv tradizionale. Strappato via dalla
sua carriera di drammaturgo di discreto successo a New York, si era ritrovato a
sceneggiare due sitcom costruite intorno a due comedian donne: Grace Under
Fire, con Brett Butler, e Cybill, con Cybill Shepherd. Come Chase, era
terribilmente autocritico sulla direzione presa dalla sua carriera, a prescindere dai
picchi di successo. Sia la Butler che la Shepherd avevano un carattere
ingombrante e imprevedibile: la Shepherd poteva avere una crisi nel pieno di una
stagione e licenziare metà degli sceneggiatori, dispensando promozioni sul
campo ai superstiti. Nell’arco di un anno Ball era salito di grado fino a diventare
head writer. «Era come far parte della corte di una regina impazzita», ha
raccontato. «Tutto l’ambiente era tossico. La gente era terrorizzata. Ricordo di
aver pensato: “Se farò mai una serie tutta mia, non mi comporterò mai in questo
modo”».
Ball riversò tutto il suo disincanto e le sue ambizioni nella sceneggiatura del
film American Beauty, in cui Kevin Spacey interpreta un redattore frustrato e
annoiato, intrappolato in un matrimonio senza amore e infatuato dell’amica
cheerleader della figlia. American Beauty riprendeva la tradizione della
«periferia sinonimo di morte» (qualcuno potrebbe dire che lo facesse fin troppo)
e riuscì a toccare i tasti giusti, facendo guadagnare 130 milioni di dollari al suo
studio, DreamWorks, e vincendo cinque premi Oscar: miglior film, miglior
regia, miglior attore protagonista, migliore fotografia e migliore sceneggiatura
originale, quella di Ball. Poco dopo l’uscita del film Ball ricevette una telefonata
di Carolyn Strauss.
Dieci anni dopo, la Strauss ha negato che ai tempi del suo incontro con
Ball, nell’ottobre del 1999, lei e Hbo vivessero nell’ansia di creare il primo
drama dal debutto dei Soprano: «Stavano tutti lì a chiedersi: “Quale sarà la
prossima I Soprano?” Ma noi no, per niente, per noi era solo una nuova serie»,
ha spiegato.
Si fatica a crederle. In un colpo solo, I Soprano aveva strappato Hbo dal suo
comodo rifugio e l’aveva catapultata sotto i riflettori. L’azienda, inoltre, era
diventata enormemente più redditizia grazie all’aumento degli abbonati: nel
2000, Hbo incassava quasi quanto i sei network principali messi insieme. E
poiché la società capogruppo di Hbo, Time Warner, stava per completare la sua
sventurata acquisizione da parte di Aol, veniva esercitata una notevole pressione
affinché i numeri restassero così alti.
Ma il timore principale era che questo successo potesse ripercuotersi sulla
creatività. La stessa Strauss aveva detto: «Non hai molto da temere, finché non
cominci a vincere qualche Emmy». E nel settembre del 1999 Hbo ne vinse più di
chiunque altro, tra i quali quello per la sceneggiatura di «Un conto da saldare» e
quello per la miglior attrice protagonista di una serie drammatica, andato a Edie
Falco. (Il premio per la migliore serie drammatica andò invece a The Practice –
Professione avvocati e quello per il miglior attore protagonista a Dennis Franz,
per NYPD.)
Allo stesso tempo, era presto per capire se il successo dei Soprano non era
soltanto un colpo di fortuna, e se la libertà creativa e l’integrità artistica offerte
da Hbo (a fronte di investimenti e pubblico più contenuti) fossero di per sé
sufficienti ad attirare quel tipo di artisti di cui aveva bisogno per sfondare.
Dopotutto, continuava a trattarsi soltanto di televisione. Scott Sassa, presidente
di Nbc West Coast, si sarebbe presto pentito di aver sentenziato, in un’intervista
sul New Yorker, che i network tradizionali avrebbero sempre detenuto il
monopolio dei veri talenti («Se sei un ottimo sceneggiatore, non ti basta essere il
nano più alto in una rete via cavo»), ma fino a quel momento in molti avrebbero
detto la stessa cosa.
E tutto ciò doveva essere chiaro nella testa della Strauss quando incontrò
Ball. Fresco dell’enorme successo di American Beauty, Ball corrispondeva
esattamente a quel tipo di sceneggiatore di cui parlava Sassa: uno che, se avesse
messo da parte la legittimazione artistica garantita dal cinema, probabilmente
sarebbe andato a lavorare per chi pagava di più. Ma soprattutto, l’idea della
Strauss non era una di quelle che ti fanno fare carriera: aveva da poco guardato Il
caro estinto (1965), tratto dall’omonimo romanzo di Evelyn Waugh, una cinica
satira della cultura americana vista attraverso la sua industria funeraria, e aveva
deciso di voler fare una serie che parlasse della morte.
La Strauss immaginò una serie incentrata sull’attività di un’impresa funebre
a conduzione familiare. «Mi piaceva l’idea e sapevo che Alan aveva la mano
giusta per scrivere una cosa del genere», ha raccontato. «Ma, si sa, uno ha un
milione di idee e nessuna va mai in porto. E intendo proprio mai». Il pranzo
andò bene, ma presto lei smise di pensare a quel progetto.
Grazie a una perfetta convergenza di circostanze personali e professionali,
quell’idea non avrebbe potuto trovare un ospite migliore nel quale incubare. Ball
era ancora nel pieno di un contratto di tre anni con la casa di produzione di Bob
Greenblatt e David Janollari. «Non volevo fare la parte di quello che dice: “Ehi,
io ho fatto questo film, quindi non rispetterò i patti”. Sapevo di dover fare
qualcosa per giustificare il mio stipendio», ha raccontato. «Ma nel frattempo la
gente aveva preso a telefonarmi e a propormi idee del tipo “Prendiamo un
comico mediocre e un altro comico mediocre e gli facciamo scoprire che sono
gemelli separati alla nascita!”, oppure “Il marito è morto, ma si reincarna nel
cane della moglie!” E io pensavo: “Per favore, che qualcuno mi spari”».
Quel mese debuttò una sitcom scritta da Ball, Oh, Grow Up, che parlava di
tre ex compagni di università che vivono insieme e devono affrontare diversi
problemi legati alla fine dell’adolescenza. I personaggi includevano quei «tipi»
che sarebbero diventati familiari agli spettatori delle serie successive scritte da
Ball: il ragazzo col complesso di Peter Pan, il gay che fa coming out in età
adulta, la ragazzina precoce. Ma il processo di approvazione della serie, come ha
raccontato lo stesso Ball, fu la parodia della classica situazione in cui la rete
cerca ottusamente di interferire. Un executive gli disse che la serie gli piaceva in
tutto e per tutto, ma che forse sarebbe stato meglio ambientarla in periferia
invece che in città e che, soprattutto, sarebbe stato meglio rendere etero il
personaggio gay. E quando Ball cercò di dare consigli sul cast un altro executive
lo fulminò con lo sguardo. «Capii che non ci sarebbe stato dialogo», racconta
Ball. Il risultato rispecchiò le difficoltà della realizzazione. Oh, Grow Up non
trovò mai la sua voce né il suo pubblico, e a dicembre Abc lo cancellò dopo
undici episodi, senza trasmettere gli ultimi due.
Quel Natale, abbastanza depresso, Ball si ritirò nella casa in cui era
cresciuto, a Marietta, in Georgia. Qui ebbe l’impressione di essere circondato
dalla morte. Ball era stato il più piccolo di quattro figli. Suo padre, ispettore del
controllo qualità in una fabbrica di aeroplani nella vicina Lockheed e fumatore
da tre pacchetti al giorno, era morto alcuni anni prima. Ma quello non era stato il
primo lutto in famiglia. Quando Alan aveva tredici anni, sua sorella Mary Ann lo
stava accompagnando alle lezioni di piano a bordo della sua Ford Pinto. Quel
giorno Mary Ann compiva ventidue anni. In un incrocio complesso, tra una
strada a quattro corsie con tanto di uscita sopraelevata, un’altra auto si schiantò
contro lo sportello di Mary Ann, uccidendola, mentre Alan se la cavò con
un’escoriazione alla gamba.
L’incidente fu un duro colpo per la famiglia. La madre cadde in depressione
e per un certo periodo rimase ricoverata. Suo padre, già introverso, si chiuse
ancora di più. Nessuno parlò di terapie per l’elaborazione del lutto. Anzi, «venne
il prete e non fece altro che parlare di Gesù». Rimasto solo in quella casa pregna
di dolore, Ball finì per sentirsi invisibile e circondato da fantasmi.
Decenni dopo, quell’incidente continuava a manifestare i suoi strascichi
sotto forma di attacchi di stress post-traumatico. Questi attacchi erano scatenati
dai forti cambiamenti e dalle esperienze di perdita, e la cancellazione di Oh,
Grow Up si prestò perfettamente a generarne uno. «Angoscia. Un’angoscia
tremenda e tanta ansia», così lo descrive Ball. «Mi sentivo come se niente avesse
più senso, come se non ci fosse uno scopo. Il mondo diventava estraneo e
irriconoscibile. Mi sembrava tutto insensato».
E quei sentimenti furono soltanto amplificati dagli eventi surreali della vita,
nel momento in cui American Beauty diventò un successo. Ball visse quello che
per la maggior parte degli sceneggiatori sarebbe stato un sogno come se fosse
un’esperienza felliniana e grottesca. «All’improvviso mi sono ritrovato a fianco
di Brad Pitt davanti agli orinatoi. O sul red carpet con Charlize Theron che si
volta e mi chiede: “Mi dici se il mascara è a posto?” Oppure davanti a Joan
Rivers, in carne e ossa, lì mi sono davvero spaventato. All’improvviso sei il
migliore amico di tutti. Ma poi danno di matto. È già tutto abbastanza folle senza
bisogno di rivivere contemporaneamente l’esperienza più traumatica della tua
vita». Diversamente da James Manos, Ball è riuscito a rimanere seduto per tutta
la cerimonia grazie a un aiutino chimico: mentre saliva sul palco per ritirare il
suo premio aveva una fiaschetta nella tasca dello smoking.
E adesso era tornato nella casa in cui la sua condizione di stress perenne
aveva avuto inizio, e dormiva persino nel vecchio letto di sua sorella, poiché la
sua stanza era stata trasformata in uno studio. Cominciò a riflettere intensamente
sull’idea della Strauss. Lesse il feroce Il sistema di morte americano di Jessica
Mitford e The Undertaking: Life Studies from the Dismal Trade, una raccolta di
saggi del poeta e impresario funebre Thomas Lynch. In poco tempo cominciò a
prendere forma l’idea per realizzare una serie sul tema.
Considerata l’imprevedibilità dell’industria dell’intrattenimento, un autore
della sua statura non avrebbe mai scritto un soggetto senza contratto. Non poteva
nemmeno sapere se la Strauss era ancora interessata. Ma in poco tempo Ball
diventò ossessionato dalla sua idea e la portò avanti, facendo quella che
chiamava «una mossa preventiva». In poche settimane aveva scritto la
sceneggiatura della puntata pilota di Six Feet Under. Bob Greenblatt la inviò alla
Strauss il giorno dopo che fu annunciata la nomination di Ball agli Oscar.
Diversamente da com’era andata a Chase, che aveva dovuto aspettare a lungo,
Albrecht e la Strauss comunicarono la loro intenzione di comprare il progetto
pochi giorni dopo. Avvalendosi del potere contrattuale appena conquistato, Ball
chiese che gli fosse subito commissionata l’intera serie.
«I precedenti giocavano a nostro favore», ha detto Alan Paul, veterano della
tv e del cinema indipendenti che, nel ruolo di executive producer, avrebbe
dovuto assistere Ball, che aveva poca esperienza sia con il formato delle puntate
da un’ora sia con la tecnica della single-camera. «Dopo I Soprano e Sex and the
City Hbo aveva messo da parte un bel gruzzolo, e poteva permettersi di investire
senza preoccuparsi dei profitti immediati».
Se la leggenda vuole che Chase avesse ricevuto solo due appunti per I
Soprano, sembra che per il pilot di Six Feet Under Ball ricevette da Hbo una sola
obiezione: «I personaggi ci piacciono moltissimo. La storia è ottima. Ma
nell’insieme sembra che manchi l’azzardo. Non possiamo renderla un po’ più
malata?» Nel terzo episodio, Claire ruba il piede di un cadavere e lo mette
nell’armadietto di un ragazzo che l’ha respinta. Obiezione accolta.
La serie era ambientata in una malconcia casa d’epoca/agenzia funebre
appartenente alla famiglia Fisher e ubicata in una zona non troppo elegante di
Los Angeles. (La casa usata per gli esterni si trova tra la Venticinquesima Strada
Ovest e Arlington Avenue, nel quartiere West Adams.) Inizialmente Ball
immaginava che una serie sulla morte dovesse essere ambientata in un qualche
luogo desolato del New England, ma, come Waugh, si era reso conto che Los
Angeles si sarebbe prestata molto meglio alla satira e all’approfondimento
emotivo. Quella città, ha detto Ball, «è la capitale della negazione della morte».
Nei primi minuti del pilot, che si svolge durante le vacanze di Natale, il
capofamiglia dei Fisher, Nathaniel, muore in un incidente stradale: un pullman si
schianta sulla fiancata del suo carro funebre, esattamente come aveva fatto l’auto
che aveva preso in pieno la Pinto di Mary Ann. Questa «morte della settimana»
diventerà un elemento strutturale della serie, sia in quanto motore degli eventi (i
corpi che entrano ed escono dalla Fisher & Sons portano con sé le loro storie),
sia come crudele esplicitazione del messaggio finale della serie: può succedere –
succederà – a chiunque, in qualsiasi momento.
Il resto della famiglia Fisher era composto da: Nate, il figlio maggiore
tornato a casa per Natale (che gestisce un negozio di alimenti biologici a
Seattle); l’impettito fratello minore, gay non dichiarato, David; la sorella liceale,
Claire, che passa tutta la puntata a parlare della morte del padre mentre è in botta
da anfetamine; e la madre, Ruth, improvvisamente costretta a riemergere da anni
di repressione domestica. L’attore Richard Jenkins, che interpretava Nathaniel,
scoprì con gioia che «morto» non significa sempre «morto», almeno non nella
Terza Età dell’Oro, dove fantasmi e flashback sono comuni quanto
strizzacervelli e parolacce.
Il protagonista principale della serie, nonché quello più vicino al pubblico, era
Nate, interpretato da Peter Krause; nella writers’ room il personaggio veniva
chiamato «Marilyn Munster», l’unico normale in una casa di freak. Anche se le
trasgressioni di Nate erano meno eclatanti di quelle di Tony, Six Feet Under,
proprio come I Soprano, non proponeva una moralità netta, né la prospettiva di
catarsi convenzionali. Nate è un protagonista accattivante, ma finisce per
deludere il pubblico, e anche se stesso. I suoi difetti, le sue paure, i suoi istinti
meno condivisibili: tutto ciò ricorre inesorabilmente sotto forma di una
condizione mentale che, alla fine, sarà la causa indiretta della sua morte. La sua
relazione con Brenda Chenowith, irascibile ex bambina prodigio, era
fondamentalmente «il rapporto tra un narcisista e una personalità borderline», ha
detto Ball, molto distante da quello di Ross e Rachel in Friends.
Anche il personaggio di Brenda era piuttosto respingente, anche prima che
intraprendesse il suo DSJ, l’acronimo col quale nella writers’ room si intendeva il
dark sexual journey («oscura esplorazione sessuale»). L’attrice Rachel Griffiths
era a casa sua in Australia quando ricevette la sceneggiatura dal suo agente, via
fax. Rimase in piedi davanti al fax, divorando il testo man mano che arrivava.
Hbo non le avrebbe pagato un biglietto di prima classe affinché volasse a Los
Angeles per il provino, ma la Griffiths si era a tal punto innamorata del
personaggio che propose un compromesso: avrebbe pagato lei il biglietto, a patto
che le fosse rimborsato se otteneva il ruolo. «Prese l’aereo, arrivò da noi e
dimostrò di aver capito appieno il personaggio», ricorda Poul.
Ma le sottotrame più articolate erano quelle che riguardavano David e Ruth.
I loro percorsi paralleli – che condurranno lui al coming out e lei fuori dalla
schiavitù domestica – erano affrontati con un ritmo perfetto e nel minimo
dettaglio. Entrambe le storie attingevano dall’esperienza personale di Ball, che
non aveva trovato il coraggio di fare coming out prima dei trentatré anni e che
aveva osservato la madre rifiorire dopo la morte del padre, mentre il resto della
famiglia la guardava allarmata. Ed entrambe le storie sono esempi perfetti del
livello di raffinatezza, approfondimento psicologico ed empatia che uno
storytelling di tredici ore può offrire.
Ball conserva un ricordo vivido del funerale di sua sorella, la bara aperta e
sua madre che viene allontanata nell’istante in cui comincia a esprimere il suo
dolore. Anni dopo, durante un viaggio in Europa, lui e suo cugino si trovavano a
Stromboli, su una barca ormeggiata, e assistettero all’arrivo di una bara che
veniva riconsegnata al paese del defunto. «Sulla spiaggia lo aspettavano
parecchie donne vestite di nero», ha raccontato Ball. «Si gettavano sulla bara,
urlavano, si battevano il petto e si tiravano i capelli». Questi approcci alla morte
sono entrambi presenti nel pilot di Six Feet Under.
La repressione, a vari livelli, era infatti il tema ricorrente della serie, reso
palpabile sia dall’estetica che dalla trama. Ball spiegò al set designer che la casa
doveva sembrare avvolta da uno strato isolante di carta da parati e tappezzeria.
La palette di colori dominante ruotava intorno al verde pallido della cucina dei
Fisher. Poul aveva stabilito delle linee guida generali per i registi: sequenze
brevi, movimenti di camera poco invadenti. L’angolo di inquadratura prevalente
non era ad altezza degli occhi, ma appena più in basso, e dava una sensazione
straniante, di distacco, forse perché, come sosteneva Poul, «somigliava al punto
di vista di un cadavere».
Ball insisteva affinché venissero presi autori non televisivi, e in particolare
dei drammaturghi. Diversamente dalla maggior parte degli showrunner, si
rifiutava di ricorrere a degli spec script (sceneggiature fittizie scritte per un’altra
serie realmente esistente) per scegliere i suoi sceneggiatori. In tv gli spec script
erano stati a lungo lo strumento preferenziale per mettere alla prova gli
sceneggiatori, ma Ball li trovava inaffidabili e preferiva farne a meno,
anticipando quel cambiamento nelle modalità di assunzione che avrebbe avuto
luogo in tv nel corso del decennio successivo.
«Non ho bisogno di sapere se uno è in grado di scrivere Dexter. Mi piace
Dexter, ma non assumerò qualcuno basandomi sulle sceneggiature di Dexter,
perché magari uno è in grado di cogliere la voce di quella serie, ma questo non
mi assicura che sappia cogliere la voce della mia. Quello che cerco è una
sensibilità innata: sono sorpreso da quello che sto leggendo, o va esattamente
secondo le previsioni?»
Nel corso della trasmissione della serie, la writers’ room di Six Feet Under
ha accolto il vignettista del New Yorker Bruce Eric Kaplan, i drammaturghi Rick
Cleveland, Nancy Oliver e Craig Wright (che era anche stato seminarista) e la
comedian e sceneggiatrice Jill Soloway, che Ball ha assunto dopo aver letto un
suo bizzarro racconto intitolato «Courteney Cox’s Asshole». La Soloway aveva
anche lavorato, insieme al futuro collega Scott Buck (anche lui in Six Feet
Under) a una sitcom in cui Nikki Cox era una showgirl di Las Vegas sposata con
un wrestler professionista. Ingaggiata per la seconda stagione di Six Feet Under,
quando la prima non era ancora andata in onda, la Soloway ricevette i tredici
episodi già girati e si ritrovò a piangere dopo averne guardati quattro, non per il
dispiacere provato nei confronti dei personaggi, ma di sollievo: «Pensai: “Non ci
posso credere che è tutto vero. Potrò scrivere questa roba, e per la tv!”» Quindi
andò a casa del fidanzato, che non la trattava come si deve, e lo lasciò. «Andai
da lui e gli dissi: “Scusa tanto, ma adesso scrivo per Six Feet Under”».
Quando ancora lavorava alla sitcom, Ball aveva compilato una lista delle
cose che non avrebbe mai fatto in una serie tutta sua, e in gran parte l’ha
rispettata. Mostrava di rado gli impulsi autoritari di altri showrunner. «Aveva un
modo di fare molto diverso da quello degli altri», ha detto la Soloway. «Non
stava lì col manganello. Una volta Alan ha detto che gli showrunner possono
avere un approccio maschile o femminile. Quello maschile era come mettersi di
fronte alle truppe e dirgli: “Avanti! Quello è il nostro obiettivo!”, mentre chi ha
l’approccio femminile sta alle spalle delle sue truppe e le fa avanzare in modo
che siano loro a guidarlo. Alan aveva l’approccio femminile. La serie esiste a
prescindere da noi, è al centro della stanza, e noi possiamo raggiungerla
mentalmente e aiutarla a crescere, ma alla fine la serie non appartiene a
nessuno».
Wright, al suo primo incarico televisivo dopo una carriera teatrale di
successo, era altrettanto coinvolto da quell’atmosfera: «Prima immaginavo che
Hollywood fosse solo una questione di competizione e soldi, e che fossero tutti
degli imbecilli», ha detto. «Ma lavorando a Six Feet Under mi sono ritrovato
davanti a una realtà opposta. Erano tutti così simpatici e alla mano, non ho mai
riso tanto in vita mia quanto il primo giorno con loro».
Ball aveva comunque l’ultima parola su tutte le decisioni riguardanti la
produzione, ma tendeva a delegare questi dettagli ai suoi producer. «È giusto
fare il proprio lavoro con passione, ma non sono quel tipo di persona che vuole
avere il controllo su ogni singolo elemento. Non credo di dover scrivere ogni
parola. Niente mi rende più felice di vedere una serie che si evolve e mi
sorprende. O ricevere una sceneggiatura che non ho bisogno di modificare.
Voglio che tutto il processo sia piacevole», ha detto, per poi aggiungere: «O
forse sono soltanto più pigro di altri».
Per buona parte delle cinque stagioni della serie, la writers’ room di Six
Feet Under ha potuto sostenere, a buon diritto, di essere la più felice della
televisione – in netto contrasto con molte delle writers’ room della Terza Età
dell’Oro, solitamente luoghi di tensioni e competitività. Nelle ultime tre stagioni,
l’organico della writers’ room è rimasto immutato, caso più unico che raro.
Ma, pur non essendo un despota, Ball era comunque il re. Ed era
impossibile schierarsi contro di lui. L’undicesimo episodio della prima stagione
di Six Feet Under, intitolato «Il viaggio», girava intorno alla morte di un
neonato, presentata dopo i titoli di testa come da prassi. Uno degli sceneggiatori
obiettò, sostenendo che fosse impossibile far morire un bambino in una serie tv
senza rimetterci una fetta di pubblico. A suo modo, era la stessa cosa verificatasi
con «Un conto da saldare»: la natura stessa della serie si scontrava con i limiti
convenzionalmente imposti dal mezzo televisivo. Ball andò avanti, ignorando
l’obiezione, e alla fine della stagione licenziò lo sceneggiatore che l’aveva
sollevata.
Verso le ultime stagioni aumentarono gli attriti tra i producer della serie e i
suoi protagonisti, Peter Krause e Rachel Griffiths. Se per gli attori è già
impegnativo vivere per anni nella testa dei loro personaggi, lo è ancora di più
(come ha ampliamente dimostrato James Gandolfini) quando questi personaggi
non fanno che ripetere gli stessi errori stagione dopo stagione.
«Essere intrappolato in un ruolo per settimane, mesi e anni, senza nemmeno
sapere quanto durerà… ha il suo prezzo. Soprattutto per un attore dedito che ci
mette tutto se stesso, a tal punto da voler far proprio il dolore provato dal suo
personaggio», ha detto Poul. «Per questo, ogni volta che giri una serie di lunga
durata, è quasi un indovinello: chi ci darà problemi stavolta?»
In questo caso, si trattò della Griffiths, che patì lo stress di trovarsi alla sua
prima serie, così lontana da casa sua in Australia, almeno quanto la difficoltà di
seguire Brenda nel suo dark sexual journey. L’attrice pretese di poter provare le
sue scene in privato, lasciando il resto della produzione in un’attesa più che
dispendiosa. Come se non bastasse, durante queste prove private la Griffiths
riusciva a esprimere una notevole emotività, rimanendone però a corto durante le
riprese vere e proprie.
Krause aveva un problema più comune ma meno perdonabile. Dopo aver
interpretato Nate per anni, cominciò a perdere di vista il confine tra sé e il
personaggio, almeno a detta di molti osservatori esterni. Si lamentava se Nate
doveva comportarsi in modo sgradevole o faceva cose biasimabili. A volte si
trattava di capricci (come quando si rifiutò di indossare una brutta parrucca per
girare un flashback), ma altre volte le sue bizze andavano a toccare il cuore e i
tratti distintivi della serie. «Proprio come il suo personaggio, Krause voleva
essere un eroe. Voleva essere amato», ha detto Ball.
Non è una coincidenza il fatto che la dipendenza sia uno dei temi principali
della Terza Età dell’Oro. Come la psicoterapia, che ripropone all’infinito
tentativi di redenzione e ricadute, progressi e passi indietro. La recidività e il
fallimento permeano queste serie: Tony Soprano cerca qualcosa con cui
riempiere il vuoto che lo assilla, ma non lo trova mai; Jimmy McNulty combatte
la sua dipendenza da alcol e lavoro, ma torna a dedicarsi a entrambe, mentre
anche i più infervorati riformatori di The Wire finiscono per lasciarsi
corrompere; Don Draper fa un sogno allucinato in cui incontra lo spettro dei suoi
tradimenti passati, incarnato da una vecchia conquista, e benché Don la strangoli
a morte sia noi che lui sappiamo che la Bestia tornerà.
Anche qui, ciò che ai tempi dell’esordio dei Soprano era ancora
un’avvisaglia, pochi anni dopo era diventata una formula radicata nello spirito di
una nuova epoca: dopo l’11 settembre poche certezze sono state più condivise,
perché vissute sulla propria pelle, del fatto che «tutto è cambiato».
«“Cambierò. Sono fortunato di essere vivo. Apprezzerò di più le cose, mi
comporterò meglio…” Era quello che pensavano tutti», ha detto Chase a
proposito del periodo immediatamente successivo agli attacchi terroristici. «Ma
poi i buoni propositi si sono volatilizzati». E come ha detto lo stesso Tony
Soprano: «Ogni giorno è un dono per me. È solo… ma che, dev’essere sempre
un pugno in faccia?»
Chase aveva una visione pessimistica dell’umanità non distante da quella di
Tony, e fu questo a renderlo il veicolo ideale per il tipo di storie che gli
americani cercavano in quegli anni. Ma sono state anche le esigenze formali e
commerciali della tv a renderla il mezzo ideale per raccontare queste storie.
Dopotutto, l’obiettivo di una serie tv, diversamente da quello di un film o di un
libro, a prescindere da quanto possa essere sospeso il loro finale, è quello di non
finire mai. Un metodo per ottenere quest’obiettivo economico è creare un mondo
che non abbia sviluppi o archi narrativi, e che sia costituito da una sequenza di
episodi ripetitivi e autoconclusivi: in altre parole, un procedural. Ma se invece ti
interessa raccontare una storia in continua evoluzione, pur rimanendo fedele alla
tua visione del mondo, la struttura ideale è formata da un’infinita serie di
variazioni sul tema, nelle quali i personaggi rivivono più volte lo stesso pattern
comportamentale, manifestando nel modo più graduale possibile segnali di un
vero e proprio cambiamento o di un miglioramento.
A tal proposito, una delle battute più comuni ai cocktail party – «Lo sanno
tutti che I Soprano [o qualche altra serie] è soltanto una soap opera» – è
un’affermazione del tutto corretta, a patto che se ne ignorino il realismo,
l’intelligenza, l’emotività sfaccettata, l’umorismo, lo stile cinematografico, i
production values, le prove attoriali, le location esterne e tutto il resto.
Rescue Me ha preso in giro la propria tendenza alla soap opera in una scena
della quarta stagione, nella quale Tommy Gavin e sua moglie Janet, che da anni
non fanno altro che prendersi e lasciarsi, decidono di andare da un consulente
coniugale. Il poveretto chiede informazioni sulle loro vicissitudini più recenti:
JANET: Così ci siamo separati e lui è andato a vivere dall’altra parte della strada per stare vicino
ai figli e per tenermi d’occhio e per controllare con chi uscivo.
TOMMY: Già. Doveva vedere chi frequentava… dei veri campioni, come quel Roger.
JANET: Sì, il quale ha giurato che volevi bruciargli la faccia sul fornello.
TOMMY: Io non cucino nemmeno! Figuriamoci, sono tutte stronzate. Ma lei prende i bambini, i
mobili e i soldi e se ne va in Ohio. E io l’ho rintracciata.
JANET: Sì, e sono tornata. E lui ha deciso di uscire con la vedova di suo cugino, il quale è morto
l’11 settembre. E lei è rimasta incinta.
TOMMY: Io non l’ho deciso, è capitato, ok? Lei ha avuto un aborto, non so se spontaneo.
Comunque, non abbiamo avuto il bambino. Ma poi è rimasta incinta lei, perché andava a letto
con mio fratello, ma sono sicuro che il bambino è mio, perché lei usciva con me mentre usciva
con mio fratello che ora è… morto…
JANET: E poi nostro figlio è stato ucciso da un ubriaco al volante…
TOMMY: Che mio zio poi ha ammazzato. Forse l’ha letto. Era su tutti i giornali. E poi… lo
«stupro»…
JANET: Ne abbiamo passate tante…
TOMMY: Ma fra noi c’è ancora, sa, una certa passione.
JANET: Sì. E quindi… cosa ne pensa?
Quello che l’analista pensa, ovviamente, è che gli stiano facendo uno
scherzo.
Nascite, morti, malattie, tradimenti, riavvicinamenti, licenziamenti,
assunzioni, traslochi, sparizioni, nuovi arrivi, piccoli dolori e piccole gioie,
eventi che durano il tempo di una puntata e subito arriva il successivo… ma non
sono forse fatte così, le nostre vite? Sono qualcosa di più di singoli episodi
catartici e autoconclusivi con un finale che mette tutto a posto.
«Gli eroi si prestano molto meglio ai film», ha detto Alan Ball. «A me
interessano di più le persone reali. E le persone reali hanno mille problemi».
Bisogna anche notare, comunque, che la soap opera è l’unico genere
televisivo a essere nato contemporaneamente al mezzo e aver resistito fino a
oggi.
Anche se la prima stagione di Six Feet Under rimane quella costruita meglio, la
serie ha comunque rappresentato un capitolo importante nella trasformazione del
medium televisivo, la dimostrazione lampante che una stagione di tredici, o
ventisei, o cinquantadue episodi dal finale aperto può raggiungere una profondità
di analisi inaccessibile a un film di due ore, che è invece dominato dal bisogno di
risposte univoche e di risoluzioni inattaccabili; non esiste miglior controesempio
di American Beauty, che in confronto al suo «fratello minore» televisivo
potrebbe risultare troppo lineare e semplificatorio. Nel decennio successivo, ogni
volta che un certo tipo di film voleva dimostrare di essere «cinema vero», anti-
hollywoodiano, incentrato sulle zone buie e strampalate della vita di una
famiglia – si pensi a Little Miss Sunshine, Juno e Paradiso amaro, per citarne
soltanto alcuni – avrebbe fatto di tutto per riprendere l’estetica di Six Feet
Under.
Ball si è rivelato il salvatore di Hbo. Dopo un periodo in cui il canale aveva
perso terreno e trasmesso alcune serie poco significative, True Blood gli ha
procurato i dati d’ascolto più alti dai tempi dei Soprano. Liberamente ispirata a
una serie di romanzi di Charlaine Harris, True Blood è un drama patinato sui
vampiri e accumula senza tregua colpi di scena ed esseri sovrannaturali. Era
quanto di più distante dai Soprano o da Six Feet Under, eppure proponeva un
tipo di eroe simile, in particolare con il personaggio di Bill Compton: un uomo
(in questo caso un uomo morto) che deve affrontare il mondo moderno, i
rapporti, le rivalità e le imposizioni di una burocrazia non meno elaborata di
quella del mondo dei vivi. Ma soprattutto, è un uomo che lotta con se stesso per
dominare (in questo caso letteralmente) la propria sete di sangue. Che Dio salvi
la bestia che è in noi.
9. «La bestia che è in me / è ingabbiata da fragili sbarre / non ha tregua durante il giorno / e durante la notte
ringhia e sbraita contro le stelle / Dio salvi la bestia che è in me». [n.d.t.]
10. «A volte prova a prendermi in giro / a convincermi che è solo un orsacchiotto / a volte è perfino riuscita
a sparire nel nulla / ma è proprio allora che devo fare attenzione / alla bestia che è in me». [n.d.t.]
6
L’UOMO DIALETTICO
Ci sono moltissimi elementi in comune tra i due David (Chase e Simon), i due
showrunner che hanno definito il potenziale della Terza Età dell’Oro nei suoi
primi anni di vita. Chase aveva compreso le possibilità artistiche di questa nuova
era in qualità di riluttante e navigato professionista della televisione. Ai tempi di
The Wire Simon aveva già delle esperienze in tv, ma guardandolo a Baltimora
era chiaro che fosse un vero outsider. Nessuno dei due aveva carenze di ego, ma
se Chase lo esprimeva con la rabbia e l’insicurezza, Simon era schietto,
combattivo e apparentemente privo di nevrosi. Persino la contrapposizione dei
loro visi si prestava alla classica dicotomia Don Chisciotte/Sancho Panza,
Stanlio/Ollio o Bert/Ernie dei Muppets: Chase, slanciato e rapace, col piglio da
europeo; Simon, robusto e largo, con la fronte prominente e il mento sporgente
da irascibile gangster ebreo.
Le loro serie riflettono queste differenze di carattere e di esperienze: I
Soprano, con tutti i suoi colpi di scena e gli intrecci un po’ barocchi, era una
serie essenzialmente introspettiva, un drama psicologico su un uomo che cerca di
colmare un vuoto per lui incomprensibile: inserendosi nella tradizione della
letteratura di ispirazione freudiana, parlava del baratro che divide l’uomo
pubblico dal suo mondo interiore. The Wire, al contrario, era quasi premoderna
nella sua visione che si espande verso l’esterno, nella propensione balzachiana a
catalogare ogni singolo centimetro del proprio mondo.
Ma a parte questo, i due David avevano un’importante caratteristica in
comune: entrambi avevano sempre avuto l’impressione di sapere esattamente
quello che dovevano fare, e in quale forma, ed entrambi, in seguito, erano
riusciti a soddisfare la loro ambizione grazie all’ultimo dei mezzi di
comunicazione che avrebbero immaginato.
Simon aveva voluto da sempre fare il giornalista. Era nato anche lui in periferia,
e anche lui tra i baby boomer, anche se uno degli ultimi, perché nato nel 1960,
contrariamente a Chase che era stato uno dei primi (1945). Era cresciuto a Silver
Spring, nel Maryland, in una famiglia ebrea di ceto medio-alto, abbonata a tre
quotidiani, con cataste di libri a casa, e nella quale veniva dato molto peso
all’arguzia intellettuale, soprattutto durante gli scontri dialettici. Le diatribe a
tema politico o filosofico erano lo sport di famiglia, il tavolo da pranzo era il
campo da gioco, e il tutto veniva arbitrato dal padre di Simon, Bernard, addetto
alle pubbliche relazioni e speechwriter della B’nai B’rith.
Simon, il più piccolo di tre figli (suo fratello aveva quattordici anni, sua
sorella dieci) apprendeva velocemente: «Imparammo molto presto a distinguere
le mosse deboli, come gli errori di logica. Un debole attacco ad hominem poteva
essere comunque efficace, se era abbastanza divertente. Ma in generale, in
famiglia si dava molto valore al modo in cui si portava avanti una tesi con
argomentazioni convincenti», ha raccontato.
Ricorda che il 1968 fu un anno di scontri e discussioni accese, a casa
Simon, tra chi voleva Robert Kennedy come presidente e chi invece avrebbe
preferito Hubert Humphrey o Eugene McCarthy. («Nixon non lo voleva
nessuno, questo è poco ma sicuro».) La prima volta che il fratello di Simon portò
la sua futura moglie a conoscere la famiglia lei andò via chiedendogli: «Perché
vi odiate tanto?»
Il piacere dello scontro e la convinzione che litigare facesse parte di un
processo creativo sarebbero rimasti un elemento così fondamentale del carattere
di Simon che lo showrunner manifestava un sincero disorientamento quando la
gente interpretava le sue battaglie come un attacco personale. Per lui era
semplicemente l’unico modo in cui le persone intelligenti potevano interagire.
«David era in grado di discutere su cosa fosse nato prima, l’uovo o la gallina, e
di convincerti di entrambe le ipotesi», ha raccontato Rafael Alvarez, amico,
collega al Sun e sceneggiatore di The Wire.
Progressismo, retorica appassionata e giornalismo d’assalto avevano
un’ottima tradizione dalle parti di Baltimora, la città di Henry Louis Mencken,
William Manchester e altri. All’Università del Maryland, Simon si occupava del
giornale scolastico, il quotidiano Diamondback, e ignorava quasi qualsiasi altra
cosa. Portava jeans strappati e capelli lunghi, legati in una coda, ascoltava i
Clash e scriveva divertenti articoli polemici, come quello sugli studenti deputati
a fare multe nel parcheggio del campus, concedendosi spesso titoli più che
aggressivi. Quando David Mills, di qualche anno più giovane, arrivò alla
redazione del giornale, Simon aveva già la fama di una star in ascesa.
«Aveva sempre qualcosa di intelligente da dire o qualche storia da
raccontare. Si ritrovava sempre a fare follie, tipo acrobazie su un quad o cose
simili», ha raccontato Mills. «E già a quell’età aveva trovato la sua voce da
autore, perfettamente controllata. Si metteva lì e improvvisava questi monologhi
torrenziali e pieni zeppi di volgarità, ma credibilissimi».
Simon si trovava perfettamente a suo agio con il fascino e l’intensità della
redazione, nonché con l’attenzione che gli aveva procurato, e tutto ciò era
sostenuto da una fede sincera e idealistica nella sua missione di giornalista.
Quando diventò caporedattore del Diamondback, a diciannove anni, Simon
intraprese una battaglia col direttore del giornale, Michael Fribush, per ottenere
più autonomia e maggiori risorse. Una volta, una tormenta di neve si abbatté in
una giornata densa di notizie straordinarie, come quella di un aereo precipitato
nel fiume Potomac, e ciò, di norma, avrebbe dovuto impedire al giornale di
uscire il giorno dopo. Ma Simon non sopportava l’idea che il Diamondback
potesse tralasciare tutte quelle notizie, e così ordinò una tiratura di diecimila
copie, prive di pubblicità, destinate soltanto ai dormitori dell’università. Quando
Fribush, infuriato, lo convocò nel suo ufficio per avere delle spiegazioni, Simon
gli rispose impassibile che avrebbe chiesto il permesso il giorno dopo, e che, se
gli fosse stato negato, lui e il resto della redazione erano già pronti a pagare
quella tiratura extra con i propri stipendi. Era un aneddoto che quarant’anni dopo
Simon avrebbe ricordato con euforia fin nel minimo dettaglio, dando la netta
impressione che avrebbe preferito raccontare quello piuttosto che parlare di
televisione, The Wire, la sua famiglia o qualsiasi altro evento successivo.
Quando scadde il suo contratto da caporedattore, Simon cominciò a scrivere
per il Sun, o meglio, a comportarsi come se fosse un corrispondente esterno del
Sun, considerato che non era mai stato assunto. «Avevo chiuso l’ultimo numero
della rivista e scritto una bozza di articolo: tre paragrafi sulle dimissioni del
vicepresidente dell’università», ha raccontato. «Gli scrissi: “Ho appena chiuso
con il Diamondback e sono pronto per collaborare con voi”. Niente di più
arrogante. Loro risposero: “Ok, grazie per la proposta, ma deve venire qui e fare
un colloquio”. Due giorni dopo gli mandai un altro articolo. Il tizio mi rispose:
“No, grazie davvero per il pezzo, ma non funziona così, deve prima presentarsi
qui in redazione”».
Alla fine Simon si decise a indossare un completo e a far richiesta per un
colloquio. Una volta diventato collaboratore freelance, propose così tanti articoli
che il sindacato dei giornalisti cominciò a notarlo. Lo scoop maggiore riguardava
Herman Veal, che giocava nella squadra universitaria di basket, i Maryland
Terrapins. Veal era stato misteriosamente sospeso dal campionato ACC per
ragioni disciplinari. Attingendo a informazioni dal registro giudiziario
dell’università, e ricorrendo a un minimo di abilità nel trattare con
l’amministrazione, Simon aveva appurato che il giocatore era stato accusato di
molestie sessuali da una studentessa. Veal l’aveva portata al piano di sopra
durante una festa e l’aveva spinta contro il letto, anche se poi era andato via
quando lei si era opposta. Quando Simon riuscì a rintracciarla, la ragazza gli
disse che Lefty Driesell, il leggendario allenatore dei Terrapin, le aveva
telefonato, rimproverandola per aver impedito a Veal di giocare nel campionato
e aver messo a repentaglio la sua reputazione. A una di queste telefonate aveva
assistito il responsabile dell’amministrazione. (Driesell negò qualsiasi
intimidazione.) L’articolo di Simon apparve in tre parti sul Sun e fu poi
riproposto a livello nazionale dal Washington Post.
Simon immaginava che Driesell sarebbe stato licenziato. «L’avevamo colto
in flagrante», ha spiegato. Ma al contrario, l’università indagò per un anno, fece
una ramanzina all’allenatore e poi gli rinnovò il contratto, con tanto di aumento.
«Fu allora che smisi di credere che il giornalismo poteva migliorare le cose», ha
detto Simon.
Il Baltimore Sun, quando Simon entrò a far parte della redazione, era ancora il
sogno di un cultore del giornalismo vecchia scuola: un covo di gran lavoratori
scapestrati, libertini, bevitori e disadattati. E Baltimora offriva parecchie
occasioni ai reporter che volevano seguire l’imperativo preferito di Mencken:
«privilegia gli afflitti e affliggi i privilegiati».
Simon fece amicizia un gruppo di giovani redattori che includeva Rafael
Alvarez e William Zorzi, in seguito entrambi autori per The Wire. Zorzi, che
avrebbe interpretato una versione di se stesso nella quinta stagione della serie,
era un giornalista politico dotato di un umorismo nero e spietato. Alvarez era un
hipster nevrotico e dalla parlantina svelta, con una risata acuta e la propensione a
repentini cambi di identità, come quella che chiamava misteriosamente «la mia
fase Elvis». In ufficio non mancava un certo tasso di buffoneria cameratesca: se
Zorzi era al telefono con il governatore del Maryland, per fare un esempio,
poteva capitare che Simon mettesse un piede sulla sua scrivania e gli strofinasse
il cavallo dei pantaloni contro la faccia. Alcuni giorni dopo che Simon ebbe
lasciato il giornale, Zorzi trovò nel cassetto della sua scrivania un biglietto nel
quale l’ex collega gli svelava dettagliatamente in quali parti intime si era
strofinato il suo telefono.
Simon lavorava fino a tardi, giocava a basket coi colleghi e beveva
parecchio, tutto tranne che tornare a casa da moglie e figlia. «Eravamo giovani,
strafottenti, lavoratori infaticabili ma anche festaioli, dei giornalisti rock,
insomma», ha detto Alvarez. In redazione, Simon non si faceva problemi a
esprimere le sue opinioni, spesso attraverso quella che sarebbe diventata per lui
una seconda forma d’arte: la scrittura di circolari sorprendentemente convincenti
e polemiche. La sua editor, Rebecca Corbett, finì per esigere di visionare
qualsiasi comunicazione del genere prima che arrivasse al resto dell’ufficio.
«Pensavo: “Faccio il giornalista in un quotidiano. Potrei guadagnare molto
di più facendo altro, ma quello che posso fare qui, e che la maggior parte delle
persone non può fare, è arrivare in ufficio, mettere i piedi sulla scrivania e dire
quello che penso”», ha spiegato Simon. E quando arrivava il momento di editare,
si prendeva la libertà di esprimere le sue opinioni con un grado di civiltà anche
minore: Alvarez ricorda almeno un caso in cui Simon prese a calci un cestino
dell’immondizia dell’ufficio, mentre Zorzi ricorda di averlo visto nell’ufficio di
un editor, «letteralmente sdraiato sul pavimento, e scalciava».
Simon fu assegnato alla cronaca, e cominciò a scrivere di omicidi, retate e
politica. Sotto la spinta di Corbett e di un altro editor, Steve Luxenberg, stava
inoltre provando a scrivere qualcosa di più lungo, senza però diventare ciò che
Zorzi definiva, con un neologismo, un writeur (fusione di writer e auteur), un
reporter dalla prosa più elaborata che incisiva.
Simon ricordava la teoria di George Orwell che spiegava perché gli autori
scrivano, e che secondo lui diceva, più o meno: «Perché vuoi dimostrargli che tu
hai ragione e che loro hanno torto. Che tu hai imparato qualcosa del mondo, e ti
metti lì a spiegarglielo, e poi se non sono d’accordo possono anche andare a
’fanculo».
«Ogni volta che sento dire a un giornalista: “Voglio migliorare il mondo”, o
“Scrivo per le nuove generazioni, perché conoscano la verità”», ha spiegato
Simon, «penso: “Ok, non hai capito un cazzo di come funzionano le cose”. […]
Preferisco quando un giornalista ammette di farlo per vanità, per trovare il suo
nome sul giornale. Ogni giornalista bravo che ho conosciuto era spinto dal
desiderio di tornare in redazione, scoprire che tutti avevano letto il suo pezzo e
sentirsi dire: “Cazzo, è un articolo eccezionale. Vorrei averlo scritto io”».
Al contempo Simon era abile a convogliare il suo ego e il suo senso di
giustizia verso lo stesso obiettivo. «Una delle cose migliori di David è che
quando si incazza lo fa sia come giornalista che come cittadino», ha spiegato
Alvarez. «È rigoroso nei confronti della verità, ed è bravo a spingere la gente,
attraverso le sue doti di giornalista, a pretendere la più attendibile delle versioni
della verità. Sono queste cose a rendere grande un giornalista». E se gli si chiede
se Simon si vantasse delle sue doti giornalistiche, Alvarez solleva un
sopracciglio: «Una tigre sa di essere una tigre, o no?»
Lavorando spesso a fianco dei poliziotti Simon provò un’immediata affinità
con il loro mondo, che rispecchiava quello redazionale in termini di umorismo,
cameratismo e senso del dovere, per quanto cinico potesse essere a volte. Simon,
tra l’altro, come molti giornalisti, o molti figli privilegiati della middle class,
aveva una concezione romantica della working class. Era affascinato dagli
irlandesi (che sono da sempre il contraltare dionisiaco degli apollinei ragazzi
ebrei) e in qualche modo questa cosa era legata alla sua preferenza per il
Jameson. In seguito, diventato showrunner, avrebbe cominciato a vestirsi come
uno «scaricatore di porto polacco», stando alla sua stessa definizione. E se
l’idealizzazione della «gente comune» si sarebbe in seguito rivelata il suo unico
punto debole, rischiando di danneggiare i suoi lavori migliori, al contempo gli
avrebbe permesso di provare empatia sia per i poliziotti sia per la gente cui
davano la caccia.
La vigilia di Natale del 1986 Simon accompagnò una squadra di detective
della omicidi durante il turno di notte, nella speranza di ricavare un articolo
illuminante, o anche solo divertente, dalla combinazione delle vacanze e di
qualche omicidio. Verso la fine del turno, bevendo da una bottiglia di whisky
che Simon aveva rubato dall’ufficio, uno dei poliziotti disse: «Ne succedono di
cose assurde, da queste parti. Se qualcuno stesse qui un anno a scriverne sono
sicuro che ne verrebbe fuori un bestseller».
Due anni dopo, il giorno di capodanno del 1988, Simon si mise
ufficialmente in aspettativa dal Sun e cominciò a lavorare come «apprendista
poliziotto». Aveva in mano un contratto con Houghton Mifflin e un accordo con
il commissario Edward Tilghman che gli dava libero accesso a una delle due
squadre della omicidi. (Molti poliziotti, in seguito, avrebbero speculato sul fatto
che il tumore al cervello di Tilghman avesse contribuito a quella decisione, o
perché Tilghman stava diventando pazzo, o perché immaginava che non sarebbe
stato lì a doverne gestire le conseguenze, come effettivamente accadde.) L’anno
successivo, a partire da gennaio, Simon passò quasi ogni giorno con la squadra
omicidi del tenente Gary D’Addario, dove tutti, all’inizio, furono piuttosto
sospettosi. Fu un’immersione impegnativa. Trascurando del tutto la moglie (la
terza), Simon lavorava sei o sette giorni a settimana, facendo spesso doppi turni
insieme ai detective e di solito stando il più vicino possibile all’azione. «Certe
volte, finito il turno, cominciavamo a bere a mezzanotte e andavamo avanti fino
all’alba, e io tornavo a casa a dormire direttamente la sera dopo. Ho imparato,
con un certo stupore, che bere un goccetto il giorno dopo una sbronza può
aiutarti a stare meglio, in qualche modo», ha scritto nella postfazione
dell’edizione speciale, per il quindicesimo anniversario, del libro nato dal suo
lavoro, intitolato Homicide: A Year on the Killing Streets. La notte tornava nel
suo nuovo appartamento da scapolo, con un materasso sul pavimento, e
trascriveva tutti i taccuini che aveva riempito. Col tempo, finì per avere una
visione dell’attività del dipartimento più ampia di quella di molti detective, al
punto di sapere meglio di loro chi lavorava a un determinato caso in un
determinato giorno.
Il giorno prima del memoriale per Marty Ward, Jay Landsman e Terry
McLarney, entrambi sui cinquant’anni, si sedettero in un ristorante a tema
caraibico a due passi dal confine tra il centro e la periferia di Baltimora. Sul
tavolo avevano un vassoio pieno di alette di pollo speziate e parecchie bottiglie
di birra vuote, anche se nessuno dei due si decideva ad andare in bagno: i
poliziotti hanno vesciche sconfinate.
Erano gli uomini ancora in servizio tra quelli immortalati da Simon in
Homicide. McLarney era salito nei ranghi del BPD fino a diventare capo della
squadra omicidi. Landsman si era spostato in periferia, dove adesso lavorava a
casi di furto d’appartamento, ma il più giovane dei suoi figli, Joe (uno dei suoi
quattro figli entrati nelle forze dell’ordine) era diventato da poco ispettore della
omicidi sotto il comando di McLarney. La voce autoriale che trasuda da tutti i
lavori di David Simon è per molti versi un amalgama del modo in cui parlavano
Landsman e McLarney: barocco, volgare, cinico e compiaciuto del potenziale
sconvolgente della lingua stessa.
Landsman, come molti altri poliziotti, all’inizio non vedeva di buon’occhio
l’idea di un libro. «Non voglio qualcuno che mi stia col fiato sul collo tutto il
tempo. Lavoriamo a casi di omicidi nel ghetto. Pensate che ne usciremo come
dei santi?», chiese. Così, se per i primi tempi Simon fu soltanto snobbato, in
seguito divenne vittima di umiliazioni di gruppo, che perlopiù si riducevano
all’abuso collettivo della sua American Express al bar, a fine turno, e a una serie
di modi fantasiosi per metterne in dubbio la virilità.
«Ma David è un bravo ragazzo», ha detto McLarney. «Era giovane, stava
per divorziare… ci colpì una specie di sindrome di Stoccolma. Cominciammo a
identificarci in lui, in qualche modo. Diventò normale che David saltasse in
macchina quando c’era una chiamata».
Sarebbe potuto diventare un bravo poliziotto?
«Se la polizia avesse cominciato ad assumere sinistroidi progressisti, sì,
immagino di sì», ha detto Landsman.
«Naaa», ha obiettato McLarney. «Non avrebbe mai passato il test antidroga
né la macchina della verità».
Alla fine dell’anno, Simon si trovò con una quantità impressionante di
appunti, taccuini, file e registrazioni, e sfornò un manoscritto. Il suo editor, John
Sterling, tornò dopo pranzo e si trovò sulla scrivania una pila di pagine battute al
computer; Simon era così ansioso di consegnare il libro che aveva guidato da
Baltimora a Manhattan, l’aveva depositato lì ed era tornato a casa.
Se David Simon non fosse mai approdato in televisione, sarebbe comunque noto
per il lavoro di giornalismo letterario svolto con Homicide, considerato il
resoconto sul campo più appassionante, coinvolgente e giornalisticamente
convincente mai scritto. E il fatto di aver raggiunto quel traguardo attenendosi ai
più alti standard di etica professionale non faceva che rendere quel lavoro ancora
più impressionante. Non è difficile chiedersi perché Simon fosse così severo con
i giornalisti che accusava di essere dei favolisti: al di là delle questioni di etica o
integrità, deve aver pensato, ma perché mai, con tutto quello che succede,
qualcuno dovrebbe prendersi la briga di inventare delle notizie?
Per gli aficionados di The Wire (o del suo predecessore, la serie tv
Homicide), il libro è una preziosa collezione di dettagli che suoneranno familiari.
Ci sono scene come quella in cui McLarney, ubriaco, ringrazia un altro detective
perché «quand’è venuto il momento di fottermi, sei stato molto delicato».
Ritroverà forme gergali come red ball (un caso che riceve molta attenzione
mediatica e viene pertanto considerato prioritario), dunker (un caso di omicidio
di facile soluzione) e stone whodunit (l’opposto del dunker). Simon dà il meglio
di sé quando si immerge in questi bacini linguistici, attingendo al gergo segreto
degli ambienti da lui raccontati. È una predisposizione che ha dato i suoi frutti
più estremi in Generation Kill, miniserie di Hbo sulla guerra in Iraq che sembra
incentrata su come il gergo orwelliano della macchina della burocrazia bellica
allo stesso tempo pilota e insabbia gli eventi della guerra. E ovviamente
ripropone anche «la lavagna», una sorta di cinico rimando alla whiteboard della
writers’ room, sulla quale i casi risolti sono scritti in nero mentre quelli irrisolti
rimangono vistosamente in rosso.
Ma la cosa più importante che Simon ha imparato scrivendo Homicide
riguarda la costruzione narrativa. Il fulcro drammatico ed emotivo del libro è
costituito dall’omicidio dell’undicenne Latonya Kim Wallace e dall’ossessiva
quanto inutile ricerca dell’assassino da parte del detective. «Ricordo che chiamai
il mio editor e gli dissi: “E se non dovessero risolverlo mai? La mia storia non
avrebbe mai un finale”. E John [Sterling], il cui talento di editor superava il mio
di scrittore, mi disse: “Allora quello sarà il tuo finale. Magari è quello giusto”. E
io pensai: “Ma certo, è ovvio”».
O per citare Sterling, che ha formulato quello che potrebbe essere il
precetto portante della filosofia della Terza Età dell’Oro: «La vita è così: è raro
che ci sia un finale. La maggior parte delle storie sono un casino e rimangono
senza risposta».
Ma il libro è soprattutto una dimostrazione di grande sicurezza. Simon ha
finito per conoscere così bene gli individui di cui parla da poter rivendicare,
senza esitazioni, il diritto di dire cosa stanno pensando o sentendo in un
determinato momento. E ciò è ancora più sorprendente se si considera che
Simon concesse a ogni detective di leggere la parte del manoscritto che lo
riguardava prima che il libro venisse pubblicato, nonché di pretendere dei
cambiamenti, ma che poco o nulla fu modificato.
Anzi, gli uomini rimasero impressionati, e a volte persino commossi, dal
modo in cui Simon li aveva ritratti. «Quel figlio di puttana! È stato bravissimo»,
ha detto Landsman. «Era come se mi avesse letto nel pensiero. Ci conosceva
tutti alla perfezione».
McLarney si è espresso in modo persino più lusinghiero nei confronti di un
libro di nonfiction il cui autore, secondo lui, poteva dirsi certo di aver raccontato
la verità senza compromessi. Non sorprende che abbia dichiarato: «David Simon
mi ha insegnato che è possibile credere nelle persone».
Qualcuno ha avuto motivo di pentirsene?
«Naaa, David ci ha lasciati tutti appagati», ha detto Landsman,
sorseggiando la sua birra e lasciandosi scappare quello che, evidentemente,
doveva essere stato uno scherzo ricorrente.
«Oddio. Ci fu quell’incidente, sul divano…», l’ha assecondato McLarney.
«Ah, sì, è vero, ma quello può capitare a tutti».
Uno dei detective della omicidi che non si trovava in ufficio nel 1988 – era stato
assegnato a un’indagine federale – era Ed Burns. Burns sembrava nato per
diventare un personaggio di Simon: duro, intellettuale, antiautoritario, irlandese.
Era cresciuto poco fuori Baltimora, figlio di un aspirante giornalista che aveva
finito per fare il tipografo al News-American. Punito dalle suore della sua scuola
cattolica per via della sua costante disobbedienza, Ed scoprì una cella frigorifera
piena di gelati nello stesso scantinato in cui era stato messo in castigo: fu la sua
prima lezione sui vantaggi di opporsi al sistema.
Terminata l’università, all’inizio degli anni Sessanta, Burns andò a lavorare
come tuttofare per il News-American. Qui fece quell’esperienza giornalistica che
David Simon aveva sempre sognato di fare. Uno dei suoi compiti era recuperare
i reporter dai bordelli o dai bar in cui si erano ficcati nel pomeriggio. Le scale
dell’edificio del quotidiano erano talmente disseminate di bottigliette mignon di
alcolici che bisognava fare attenzione a non metterci un piede sopra e slogarsi
una caviglia.
Quando la guerra del Vietnam cominciò a inasprirsi, Burns, che era
arruolabile, decise di andare incontro ai guai prima che fossero loro a trovarlo. Si
iscrisse alla Officer Candidate School. Fu la prima ma non l’ultima volta che
rimase negativamente colpito dagli uomini al comando. «Le persone più
imbecilli che potessi immaginare», ha detto. «Non soltanto volevano mandarmi a
morire, ma volevano pure che guidassi altri verso la morte».
Anche in questo caso, Burns stabilì che la strada migliore verso la
sopravvivenza fosse quella meno prevedibile. Abbandonò il corso per ufficiali e
si iscrisse a una scuola di lingue, e questo significava che sarebbe stato
assegnato, in qualità di traduttore, a uno dei cosiddetti «Kit Carson Scout», quei
disertori nordvietnamiti che l’esercito americano sfruttava per la loro conoscenza
del territorio. Sebbene fosse più pericoloso, questo ruolo offriva anche maggiore
autonomia e minore durata del servizio.
«Quantomeno mi sarei ritrovato accanto a qualcuno che sapeva che cazzo
stava succedendo», ha detto Burns.
Una volta in Vietnam, Burns si spostava il più leggero possibile: a parte le
munizioni, il suo zaino conteneva pochi vestiti, pesche in scatola, una confezione
di spezie Old Bay e un libro. Fu mandato sulla costa centrale, vicino My Lai,
dove il sottotenente William Calley sarebbe presto diventato tristemente noto per
il massacro da lui ordinato. Era una situazione davvero pericolosa: Burns e lo
scout nordvietnamita cui era stato affidato, un ex cecchino diciannovenne di
nome Ba, dovevano aprire la strada a un plotone di uomini che morivano uno
dopo l’altro. Ba, ha raccontato Burns, gli salvò la vita un numero infinito di
volte, segnalandogli mine e trappole. Una volta si ritrovarono davanti due soldati
nordvietnamiti che cominciarono a sparare sulla prima linea dei nostri. «Ba era
un cane da caccia», ha raccontato Burns. «Seguimmo quei due. Li trovammo. E
li uccidemmo. Non li facemmo nemmeno appoggiare a un albero per
l’esecuzione, gli sparammo e basta».
Per Burns il Vietnam fu l’occasione per approfondire l’idiozia delle
istituzioni. Ma si rivelò anche un’importante lezione su quanto fosse inutile per
un esercito occupante combattere dei ribelli ben trincerati: una convinzione che
Burns avrebbe avuto l’opportunità di rafforzare partecipando alla guerra alla
droga in America. In buona parte, quella lezione riguardava il costo accettabile,
in termini di vite umane, da entrambe le parti; dopo un anno Burns tornò negli
Stati Uniti, mentre Ba rimase dov’era. I due non ebbero più contatti. «Immagino
che sia stato ucciso o rieducato», ha detto Burns.
Ma la lezione, ha aggiunto, riguardava anche il modo ideale per affrontare il
nemico: «Devi sapere tutto di lui».
Tornato a casa, Burns passò il 1969 a girovagare senza una meta. Comprò una
Volkswagen e viaggiò in lungo e in largo nel paese – a volte con degli amici, ma
per la maggior parte del tempo da solo. Le strade erano piene di soldati appena
tornati che cercavano di riambientarsi. «È stato così che ho curato il mio disturbo
post-traumatico», ha raccontato.
Non ha mai saputo spiegare il motivo per cui, un anno dopo, decise di unirsi
al Baltimore Police Department – un’altra organizzazione paramilitare con una
struttura burocratica sospetta e che offriva poche possibilità di far carriera. Ma il
lavoro gli procurò nuova adrenalina, dopo quella vissuta in Vietnam. Fu affidato
al Western District – o al «Selvaggio West», come lo chiamavano – e lavorava
dalle cinque di pomeriggio all’una di notte. «I miei colleghi erano tutti giovani, a
parte il sergente, che non metteva mai piede fuori dal commissariato. Ce la
spassavamo», ha raccontato Burns. «Facevo la stessa cosa che facevo in
Vietnam, soltanto che lo facevo andando in pattuglia con quelli della narcotici o
con quelli della buoncostume».
Burns dimostrò presto di essere molto abile a trovare e a lavorarsi gli
informatori, soprattutto quando prese parte alla squadra operativa, pedinando
gente che era evasa dalla prigione o sulla quale gravava un mandato d’arresto.
Sulle strade cominciarono a chiamarlo «Riccioli d’oro».
«Mi ero fatto una reputazione: se uno cominciava a lavorare per me non
poteva più tirarsi indietro. Ma in compenso io lo difendevo», ha raccontato
Burns, i cui informatori spesso racimolavano due mazzette, una dal BPD e una dai
federali, che spesso cavalcavano l’onda del lavoro di Burns. Alla fine Burns
andava in giro con tre cercapersone, per riuscire a gestire tutti i suoi contatti
sparsi in tre diversi distretti.
Tra gli informatori più affidabili di Burns c’era un tossico chiamato
Bubbles, dotato di una memoria impressionante per gli identikit e i dettagli. Ma
in generale Burns cercava informatori esterni alle gang degli spacciatori:
rapinatori o lupi solitari. «Ragazzi sradicati, che si erano creati la propria nicchia
nel mondo. Stile Omar, per capirci», ha detto Burns, riferendosi al personaggio
più popolare di The Wire.
Tra le altre cose, Burns andava più d’accordo con la sua rete di informatori
che con i colleghi della polizia.
«Permettimi di dire una cosa», ha detto Terry McLarney, riportando però
quella che era un’opinione diffusa. «Ed Burns ha servito il suo paese in Vietnam.
Era molto sveglio, ed era un duro. Un vero uomo, insomma. Ma premesso
questo», ha aggiunto McLarney dopo una pausa, «sapeva anche essere stronzo
come pochi».
Burns non socializzava con quelli del Fraternal Order of Police, ma
preferiva andare a bere in un localaccio dei sobborghi, dove compravi la birra
nella confezione da sei lattine. Una volta trasferito alla omicidi, nel 1979, Burns
si inimicò Landsman perché mangiava cereali e vomitava idee radicali.
«Se ne stava lì, a beccare il suo mangime per uccelli, a bere il nostro alcol e
a sostenere che tutti i poliziotti avrebbero dovuto avere una laurea
quadriennale», ha ricordato Landsman. «E io gli dicevo: “Ma a quel punto
diventeremmo tutti come te. Sarebbe un incubo”».
«Ti si rivolgeva dando per scontato che fossi un cretino», ha detto il
detective Marvin Sydnor, che quando lavorò con Burns alla narcotici era ancora
piuttosto giovane. «Se sentivi qualcuno che diceva: “Adesso lo prendo a calci in
culo”, potevi star certo che parlava di Ed».
Ma al di là della tempra, Burns e il suo partner, Harry Edgerton (che ispirò
il personaggio di Francis Xavier «Frank» Pembleton nella serie Homicide) non
avevano tempo per i crimini quotidiani che impegnavano la maggior parte dei
colleghi in ufficio. Loro stavano addosso ai giri grossi, e questo significava che
potessero sparire per giorni dall’ufficio, assorbiti da un singolo caso per lunghi
periodi. Anche quelli che capivano e rispettavano la filosofia di quest’approccio
si sentivano comunque abbandonati a sbrigare la parte noiosa del lavoro.
«Era come se ci fossero cinque delinquenti che ci correvano incontro armati
di spranghe», ha detto McLarney. «Ecco, Ed si concentrava su uno, lo
ammazzava di botte, e nel frattempo noi stavamo ancora affrontando gli altri
quattro».
Burns, dal canto suo, accoglieva queste opinioni con un ghigno e con
immutato disprezzo nei confronti della maggior parte dei suoi ex colleghi.
«Impiegatucci», li chiamava, considerandoli delle zavorre. Di uno di loro ha
detto: «Se ti ritrovavi a terra morto e davanti ti trovavi lui, pensavi: “Ok, non lo
risolveranno mai questo caso”».
The Corner fu per molti versi un’anticipazione di The Wire, considerato che
già nel 1993 David Simon aveva un piede fuori dal giornalismo e l’aveva messo
nel mondo della televisione.
Molti anni dopo, Barry Levinson, anche lui di Baltimora, lesse Homicide e
ne trasse la serie omonima, che vendette a Nbc. Tom Fontana, tra gli
sceneggiatori di A cuore aperto e in seguito creatore di Oz, ne diventò lo
showrunner. Nella writers’ room della serie c’erano anche alcuni drammaturghi,
tra cui Eric Overmyer, che stava producendo un suo spettacolo a New York, e
James Yoshimura, un giapponese americano di Chicago che beveva e
bestemmiava come uno sbirro del South Side.
Il grosso delle riprese fu realizzato all’interno del Recreation Pier, il corpo
centrale di un hotel dismesso da quindici anni, nell’area portuale di Fell’s Point,
a Baltimora. Simon, insieme a molti dei detective del suo libro, diventò
consulente della serie, e prese sul serio il suo compito, come dimostrava il fitto
documento inviato a Fontana in cui segnalava i tanti errori tecnici presenti nelle
prime sceneggiature. Fontana cominciò a chiamarlo «quello della non-fiction»,
cogliendone bene la visione; da allora in poi, quando gli sbirri si lamentavano di
questa o di quell’altra imprecisione, Simon l’avrebbe difesa in virtù di un buon
storytelling.
All’inizio fu chiesto a Simon se voleva provare a scrivere il pilot, ma lui
rifiutò. «Non avevo idea di quanti soldi ci fossero di mezzo», avrebbe raccontato
lui stesso in seguito. Accettò però di scrivere un altro episodio. Approcciandosi
al suo compito con la voglia di divertirsi, ingaggiò David Mills, che era stato
anche lui nella redazione del Diamondback e cercava da tempo di lavorare in tv,
per farsi aiutare. I due andarono a casa di Simon e cominciarono a scrivere a
quattro mani, alternandosi al computer.
L’episodio che ne venne fuori, «Il male necessario», raccontava di una
rapina finita male, nella quale era rimasta uccisa una turista bianca, madre di due
figli, ed era una puntata straordinaria per due motivi: innanzitutto, approfondiva
sia l’esperienza vissuta dai familiari della vittima che il punto di vista e il
contesto dei due delinquenti di colore, ma conteneva anche una scena (scritta da
Simon) in cui il vedovo beccava i detective che scherzavano cinicamente
sull’omicidio, svelando un meccanismo di difesa tipico dei poliziotti che però,
prima di allora, non era mai stato raccontato sul piccolo schermo.
«Il male necessario» fu considerato troppo cupo per essere trasmesso
durante la prima stagione di Homicide, e diventò il primo episodio della seconda.
La presenza di Robin Williams nel ruolo del padre affranto giovò sicuramente al
risultato finale: fu Barry Levinson, che aveva lavorato con Williams in Good
Morning, Vietnam, a chiedergli il favore di partecipare. La regia era di Stephen
Gyllenhaal, che scelse suo figlio Jake, allora tredicenne, per interpretare il figlio
di Williams. L’episodio fu visto da oltre sedici milioni di spettatori, più del
doppio di quanti abbiano mai visto un episodio di The Wire, e vinse il premio
della Writers Guild of America per la migliore sceneggiatura di una serie tv
drammatica.
In seguito, Simon stimò che, tra il coinvolgimento di Williams (che chiese
scene in cui potesse dar prova della sua statura di attore) e il normale processo di
riscrittura, soltanto il cinquanta per cento di quanto lui e Mills avevano scritto
era arrivato integro alla messa in onda. Qualsiasi sceneggiatore televisivo rodato
l’avrebbe considerata una vittoria, soprattutto considerato che era un primo
tentativo: il risultato era così buono che portò Mills a Los Angeles per
continuare ad apprendere il mestiere da David Milch, alle prese con NYPD.
Eppure, Simon, che da reporter era abituato a essere l’unico responsabile della
propria opera, considerò quel livello di riscrittura come un mezzo fallimento, e
decise di tornare a dedicarsi al giornalismo.
Al Sun, però, Simon si sentiva sempre meno a casa, rispetto a un tempo. Il
giornale era stato comprato dalla Times Mirror Company, e adesso era diretto da
William Marimow e John Carroll, nessuno dei due nato a Baltimora. Come
succede sempre nel mondo dei quotidiani, il primo obiettivo della nuova
leadership sembrava quello di ridurre i costi, e così una serie di tagli portarono
all’esodo di editor e reporter. Ma la cosa peggiore, secondo Simon, era
l’arroganza degli ultimi arrivati e la loro ambizione di vincere premi prestigiosi
come il Pulitzer. Simon li definì «degli imbucati, che si erano creati tutta una
mitologia personale secondo la quale, prima che arrivassero loro con le tavole
dei dieci comandamenti, nessuno sapeva fare il proprio lavoro».
«Arrivati a metà degli anni Novanta, la disonestà intellettuale e la fame di
premi del Sun erano ormai così evidenti da farmi capire che era rimasto ben poco
del giornale che avevo amato, e che il compromesso imposto da un drama tv, in
confronto a quelli necessari per inseguire un Pulitzer, non era poi questo gran
peccato».
Così nel 1996 decise di tornare a scrivere per la serie Homicide.
Ciò non significa che Simon fosse pronto a mettere da parte la sua
indomabilità da giornalista ribelle. «Si presentò da noi – pizzetto, jeans scoloriti,
capelli legati alla Miami Vice – e si lamentò, dicendo qualcosa del tipo: “Questi
imbecilli di Hollywood stanno invadendo la mia città, e non stanno rendendo
giustizia al mio libro!”», ha raccontato Yoshimura.
Fu presto istruito sulle caratteristiche del mezzo televisivo, e non soltanto
per ciò che riguardava lo storytelling (Yoshimura gli disse di tornarsene a casa e
leggersi tutto Cˇechov), ma anche sulle dinamiche concrete della produzione
(sotto il tutoraggio di Jim Finnerty, un altro irlandese sopra le righe che Simon
finì per idolatrare). Un ambito nel quale Simon aveva bisogno di fare passi in
avanti era quello del rapporto tra attori e autori. «Le discussioni tra attori e
sceneggiatori non finivano mai. Noi attori eravamo determinati, arroganti e
sicuri di noi, ma gli sceneggiatori lo erano altrettanto», ha raccontato Clark
Johnson, che interpretava uno dei detective capo ed era un ottimo
improvvisatore. «All’inizio Simon faceva un po’ la rockstar. Pensava di essere
Elvis. Cose tipo: “Lo sceneggiatore è Dio e noi soltanto delle marionette”». «Ma
è anche vero», ha aggiunto Johnson, «e ai tempi non lo avrei mai ammesso, che
di solito le sue sceneggiature erano così perfette, scritte così meravigliosamente
bene, che non c’era bisogno di cambiare niente. E era quasi imbarazzante
scoprire che quest’ebreo bianco arrivato dalla periferia di Baltimora conosceva
lo slang della strada meglio di noi neri!»
Il fatto di essere un bianco in grado di scrivere la voce dei neri e le questioni che
ciò sollevava sul piano emotivo avrebbero costituito il rumore di fondo di tutta la
carriera di Simon. E avrebbero presto dato luogo a polemiche. Dopo che The
Corner fu pubblicato un’idea cominciò a frullare nella testa di Simon, quella di
usare il libro e il suo immaginario come punto di partenza per una serie di ampio
respiro su Baltimora. Contattò Hbo, che ai tempi stava realizzando le sue prime
serie originali, inclusa I Soprano, ma la sua idea fu subito cassata, e gli fu
piuttosto proposta l’ipotesi di una miniserie ispirata a The Corner, ma non senza
riserve. Hbo, infatti, aveva sempre contato su una fetta molto grossa di pubblico
di colore, legata in parte alla trasmissione della boxe e di programmi come
DefComedy Jam. E adesso aveva paura che una serie come The Corner, che
ritraeva una parte complicata e sgradevole della vita afroamericana potesse
comportare una perdita di spettatori, considerato soprattutto che era stata scritta
da due bianchi. In uno dei primi incontri fu chiesto a Simon, con una certa
prudenza, se conoscesse altri sceneggiatori televisivi. Lui fece il nome di
Yoshimura e poi quello di Mills, che era afroamericano, anche se era così chiaro
di carnagione che spesso si divertiva a mettere a disagio quelli che, non
sospettando le sue origini, facevano battute razziste in sua presenza. Quelli di
Hbo si dimostrarono entusiasti («Che c’è, marrone non andava bene?», chiese
Yoshimura) mentre Ed Burns, che ai tempi insegnava scienze sociali nel sistema
scolastico di Baltimora, fu a conti fatti tenuto fuori.
«Mi dispiacque, ma arrivato a quel punto volevo portare a termine il
lavoro», ha spiegato Simon. «Avrei continuato a fare quello che Dio aveva
assegnato a me e a Ed, ovvero piazzare quel libro». Simon disse a Burns che
considerava The Corner il punto di partenza di un progetto più ampio e
ambizioso, e gli chiese di cominciare a buttare giù idee e proposte per una serie.
«Gli dissi: “Hai presente tutto il materiale che non abbiamo potuto usare in The
Corner? Ecco, cominceremo da quello. Con questa versione capovolta del
capitalismo che è il mercato della droga. E le difficoltà che incontra la polizia ad
arginarlo. E a partire da quello costruiremo una città”». Al momento, come
avrebbe raccontato in seguito, Burns pensò che Simon gli stava affidando un
lavoro che si sarebbe rivelato inutile.
Quando la sceneggiatura di The Corner fu completata, toccò a Chris
Albrecht, che si stava occupando di definire l’identità aziendale di Hbo, il
compito di dare il via definitivo. Albrecht si ritrovò su un volo da Los Angeles a
New York con due sceneggiature: una era l’adattamento di The Children di
David Halberstam, e raccontava i movimenti per i diritti civili degli anni
Sessanta, e l’altra era The Corner. Erano entrambi ottimi lavori, ed entrambi
incentrati su questioni razziali, ma soltanto uno dei due sarebbe stato realizzato.
«Cominciai a leggere The Corner, ed era così intenso e cupo che pensai:
“Dio mio, non lo guarderebbe nessuno”. Poi presi la sceneggiatura di The
Children, ne lessi un paio di pagine e pensai: “Però, chissà dove va a parare la
sceneggiatura di The Corner”. Ed è successo altre tre volte», ha raccontato
Albrecht. «Arrivato a New York, avevo già letto l’equivalente di due o tre ore di
The Corner. E pensai che The Children poteva farlo chiunque, mentre The
Corner poteva farlo solo Hbo».
Per proteggersi preventivamente dalle accuse di sciacallaggio, Hbo chiamò
a dirigere la miniserie un regista nero: Charles «Roc» Dutton. Anche Dutton era
di Baltimora ed era cresciuto nel mondo di The Corner. Aveva un fratello e una
sorella tossicodipendenti, e a diciassette anni era finito in prigione prima per
omicidio colposo e subito dopo per possesso di armi, per un totale di dieci anni.
Mentre era in cella Dutton aveva scoperto i lavori di Douglas Turner Ward,
August Wilson e altri drammaturghi neri e quando era uscito aveva portato con
sé una nuova missione esistenziale.
La questione dell’esclusione degli afroamericani da Hollywood, soprattutto
in progetti come The Corner, era molto sentita da Dutton, che non ha mai
nascosto il suo dispiacere per come andarono le cose: il primo giorno di riprese,
infatti, quando il suo staff gli si presentò davanti e vide che era quasi interamente
composto da bianchi, Dutton voltò le spalle e se ne andò via, rifiutandosi di
conoscerli. In particolare lo irritava la presenza di Simon, e in seguito lo
sceneggiatore decise di farsi da parte, ricorrendo alla mediazione di Robert F.
«Bob» Colesberry, un producer gentile e carismatico che, in seguito, si sarebbe
rivelato fondamentale per la crescita professionale di Simon in tv.
The Corner fu trasmesso in sei puntate da un’ora, tra l’aprile e il maggio del
2000. L’accoglienza della critica fu immediata e positiva, e le reazioni negative
furono minime, rispetto ai timori di Hbo. Fu senza dubbio tra le serie più crude
mai apparse in tv, un lungo film che non aveva paura di mostrare, per dirne una,
una madre che chiede al figlio se sta andando a scuola e, un attimo dopo, se ha
dell’eroina da regalarle. Il cast includeva diversi visi oggi familiari – è un po’
come guardare un’anticipazione di The Wire: Clarke Peters, che in seguito
avrebbe interpretato il detective Lester Freamon, qui interpreta Fat Curt; Lance
Reddick (il sottotenente Cedric Daniels) qui è un tossico; Delaney Williams (Jay
Landsman) qui contrabbanda materiale da riciclo. E la serie vede anche la
complessa, feroce e impressionante prova attoriale (nei panni di Fran Boyd) di
Khandi Alexander, che in seguito sarebbe stata tra i protagonisti della serie
Treme, scritta sempre da Simon.
E va detto che, guardato dopo The Wire, The Corner appare per quello che
è: un esperimento. La prima puntata è anticipata da un’intro, voluta da Dutton, in
cui il regista fa un’accorata premessa sul mondo ritratto dalla serie, guardando
direttamente in camera (una sequenza che Dutton impedì a Simon di
modificare), e facendo delle imbarazzanti «interviste» agli attori nei panni dei
loro personaggi. Il risultato è piuttosto goffo e didascalico. Più in generale, The
Corner soffre il peso delle responsabilità derivate dal voler raccontare delle
storie vere. Diventa proprio quel compito a casa che molti spettatori, sbagliando,
avrebbero temuto fosse The Wire, ma è anche privo di quella mitologia e di
quelle invenzioni che avrebbero reso The Wire una serie molto più completa e
importante.
The Corner è stato un passo rivoluzionario sia per gli autori sia per Hbo, ma
era troppo ancorato alla rappresentazione dei fatti; per riuscire a raccontare la
verità sarebbe stato necessario ricorrere alle concessioni della fiction e a quella
nuova forma seriale che prevedeva puntate dal finale sospeso.
7
David Simon era un maestro nella stesura delle circolari, una forma che
combinava efficacemente i suoi due talenti naturali, quello per la scrittura e
quello per la dialettica. Quando le cose cominciarono a ingranare, chi riceveva
una lettera da lui poteva sentirsi di volta in volta preso in giro, attaccato,
lusingato, raggirato, oppure schiattare dalle risate, ma in ogni caso, la maggior
parte delle volte, persuaso dalle sue argomentazioni.
In tutta la sua sterminata produzione, però, non c’è un documento più
importante di quello che Simon scrisse per vendere The Wire – fatta forse
eccezione per quello che avrebbe scritto in seguito per impedire la cancellazione
della serie. Probabilmente l’intera storia della cultura pop ha conosciuto pochi
documenti così smaccatamente ambiziosi come la «bibbia» fornita da Simon a
Hbo, nel settembre del 2000, per proporre The Wire. Simon vi spiegava che la
sua serie sarebbe stata un «cavallo di Troia», un po’ come Hill Street a suo
tempo: all’apparenza un police procedural ambientato nel paesaggio desolato di
una Baltimora postindustriale e dominata dal narcotraffico, ma a conti fatti
qualcosa di molto diverso. Con notevole convinzione, Simon prevedeva che il
pubblico di The Wire sarebbe stato attratto dal genere, ma ne avrebbe poi tratto
un’esperienza più complessa della «solita e banale gratificazione di sentire delle
manette che scattano…»
I Soprano diventa un’opera d’arte nel momento in cui rivela di non essere soltanto una storia di
mafia, ma anche, e soprattutto, un’analisi della famiglia americana. Oz tocca i suoi picchi proprio
quando va al di là dell’ambiente carcerario e trova degli elementi in comune tra quell’ambiente e
il mondo in cui viviamo quotidianamente. Allo stesso modo, The Wire dovrebbe essere
considerato uno strumento per fare delle considerazioni sulle condizioni urbane dell’America e
su quell’esperimento che è l’America stessa. Il tema centrale non è altro che l’esistenzialismo di
un’intera nazione…
Pochi anni dopo che Tony aveva fatto amicizia con le sue anatre, la tv
aveva preso le distanze dalle proposte tipo «Il marito è morto, ma si reincarna
nel cane della moglie». Simon scrisse a Carolyn Strauss per spiegarle
esattamente perché il futuro dell’immagine di Hbo dipendeva dalla messa in
onda di serie come la sua.
Entrare in concorrenza con Nbc e Abc, trasmettendo una serie di altissima qualità, realistica, ben
scritta e spietata nel rappresentare sia la polizia che gli spacciatori, magari tutto ciò non
rappresentava l’inizio della fine dei drama convenzionali, ma per Hbo segnava senza dubbio la
fine degli inizi.
Simon, che non ha mai avuto dubbi sul proprio talento e sulle proprie
ambizioni, sentì che era il momento giusto per incaponirsi. «Quello che
pensavamo, io e la maggior parte delle persone che lavoravano alla serie, era
tipo: “Se va male, vaffanculo, saremo noi a lasciare la televisione. Sembra che ci
sia uno spiraglio, e dobbiamo approfittarne. E se invece ci sbagliamo, va bene,
torneremo a studiare”».
Ma quello spiraglio era allettante. Nonostante fosse un sostenitore della
missione e dell’arte giornalistiche, nonché della non-fiction, persino Simon
doveva ammettere che la fiction televisiva era la più importante forma di
comunicazione della sua epoca. «Se vuoi che il tuo romanzo finisca nella
classifica dei best seller del New York Times, quel libro deve vendere centomila
copie. Una serie di Hbo con ascolti bassi ha tre o quattro milioni di spettatori
ogni settimana, ovvero circa dieci volte il pubblico che compra il tuo romanzo».
E non era una cosa da poco, considerato che per Simon e Burns The Wire era
dichiaratamente una forma di attivismo sociale. Tra i suoi obiettivi c’erano la
Guerra alla Droga, il provvedimento legislativo per l’istruzione No Child Left
Behind e l’eccessiva influenza dei soldi sul sistema politico americano, dei dati
statistici nei dipartimenti di polizia e dei Pulitzer nelle redazioni dei quotidiani.
Ma l’obiettivo principale era proprio tutto il sistema capitalistico, che secondo
Simon e Burns era ormai una trappola senza via d’uscita. (Se Simon era di
sinistra fino all’osso, Burns era praticamente zapatista; anzi, considerati gli
standard degli ex poliziotti, sarebbe potuto essere Trotsky in persona.) Nel
raccontare la realtà urbana americana, ha spiegato Simon, avevano un mantra
ispirato a quello del telecronista sportivo Jim Rome: «Almeno provaci. E cerca
di non fare schifo».
Né Burns né Simon furono mai troppo propensi ad ammettere quale fosse
l’altra componente del successo di The Wire: era un’opera di intrattenimento
meravigliosamente strutturata, onesta e carica di suspense e di significato. A loro
non importava affrontare questioni tecniche come la costruzione dei personaggi,
i dialoghi, le inquadrature, la trama e tutte quelle cose che ossessionano la
maggior parte degli sceneggiatori e dei registi. «Il nostro lavoro è quello di
coinvolgere gli spettatori. Lo so che devo riuscire a farti interessare ai miei
personaggi. È il motore principale della storia», ha detto Simon sprezzante. «Ma
è il motore, non lo scopo». E quando gli fu detto che The Wire si era liberato di
quella fedeltà ai fatti che, pur con le migliori intenzioni, aveva zavorrato The
Corner, Simon sembrò fraintendere deliberatamente il complimento: «Ho troppo
rispetto per ciò che è vero per considerarla una serie giornalistica». Il suo
interlocutore, ovviamente, intendeva l’esatto contrario, ovvero che The Wire era
fatto troppo bene per essere ridotto a mero giornalismo. E verso la fine del 2012,
intervistato dal New York Times, Simon criticava il fatto che i fan stessero lì a
discutere su quali erano i loro personaggi preferiti piuttosto che concentrarsi sul
messaggio politico della serie.
A quel punto Simon era come un greco a Troia, sbalordito dall’efficacia del
suo stesso cavallo di legno, e infastidito da quelli che ne ammiravano la fattura e
la perfetta colorazione a tal punto da non capire di essere sotto attacco. Nel
novantanove per cento dei casi le caratteristiche delle serie fatte male sono:
personaggi bidimensionali, intrecci inverosimili e dialoghi goffi. Il vero
miracolo di The Wire, con qualche rara eccezione, è stato quello di andare al di
là dell’orgogliosa pedanteria dei suoi creatori per diventare uno dei prodotti
letterari più riusciti del secolo.
Le settantanove pagine della bibbia della serie erano una prova che The Wire
non era come le altre serie, nemmeno quelle di Hbo. Albrecht e la Strauss non
erano rimasti soddisfatti dal pilot di Simon e Burns e avevano chiesto di vedere
altri due episodi. Ma nemmeno a quel punto si parlava ancora del wire (la
«cimice») che dava il titolo alla serie. Era una specie di opera d’arte che richiede
ore di visione prima che sia possibile cominciare a metterne insieme i pezzi, e
non c’erano grandi speranze che venisse approvata.
La colonna vertebrale della storia – descritta dettagliatamente nella bibbia
della serie – aveva preso forma nell’appartamento da scapolo di Simon, a
Federal Hill. Simon era tornato in città da poco, dopo aver lasciato la sua casa di
periferia a Columbia, nel Maryland, dove viveva con la seconda moglie e il
figlio, per portare avanti la sua relazione con Laura Lippman, la romanziera e
reporter del Sun che sarebbe diventata la sua terza moglie. Quando aveva
cominciato a scrivere e a proporre The Wire era ancora nel pieno del divorzio.
«Era davvero un pessimo momento», ha raccontato Joy Lusco Kecken, che in
quel periodo era assistente di Simon. «E The Wire era tutto per lui, pensava che
non dovesse far altro che immergercisi e lasciarsi trasportare».
La bozza riprendeva il caso che aveva portato Simon e Burns a conoscersi,
quello di Little Melvin Williams. Sulle strade di Baltimora Williams era
praticamente una leggenda, benché fosse invisibile per la popolazione bianca
della città e, per molto tempo, anche per le forze dell’ordine: un paradosso delle
realtà urbane che sarebbe diventato uno dei temi principali e più inquietanti di
The Wire. Williams si era fatto le ossa come baro professionista alla fine degli
anni Sessanta, «spremendo i polli nelle sale da biliardo», come scrive Simon, in
perfetto stile hard boiled, nella prima delle cinque puntate della sua inchiesta,
apparsa sulla prima pagina del Sun nel gennaio del 1987, dopo che Burns era
finalmente riuscito ad arrestare Williams.
Proprio come raccontava Simon, Williams si era trovato al posto giusto nel
momento giusto quando l’eroina aveva cominciato a diffondersi nelle periferie
americane. Passò i due decenni successivi a rivoluzionarne e regolamentarne il
traffico, mediando tra la criminalità organizzata di New York e le giovani gang,
sempre più violente. Aveva lo stesso ruolo, se non lo stesso approccio,
dell’accorto trafficante Avon Barksdale di The Wire.
Williams aveva anche un braccio destro, lo spietato Lamont «Chin»
Farmer, che guidava i giovani mercenari dell’operazione. Anche Farmer era un
innovatore, a modo suo, uno spacciatore intellettuale che aveva studiato
economia al college e che una volta era stato intercettato mentre spiegava al
fratello maggiore, anche lui spacciatore, i punti cardine della teoria del libero
mercato: tra le attività legali cui si appoggiava c’era una tipografia. È stato lui la
fonte di ispirazione per la creazione del personaggio di Stringer Bell, il bieco
braccio destro di Avon Barksdale, chiamato «Stringy» nella bibbia della serie.
(Nella bibbia ci sono parecchi nomi diversi da quelli poi usati: McNulty si
chiamava McArdle, Avon Barksdale era Aaron, Stringer era appunto Stringy e
l’ex detenuto Cutty si chiamava Flubber: il fatto che queste piccole modifiche
possano oggi risultarci così stranianti è una prova ulteriore di quanto, con il
tempo, ci siamo avvicinati a questi personaggi. D’altronde, Tony Soprano
sarebbe risultato così affascinante se si fosse chiamato Tommy, come deciso
inizialmente? Non lo sapremo mai.)
La storia del declino di Williams suonerà familiare agli affezionati di The
Wire. Cominciò con un omicidio: una dottoranda di ventisette anni fu trovata
morta nella sua cucina, colpita da un proiettile entrato da una finestra. Il caso fu
affidato a Burns, che ai tempi era detective della omicidi, e che insieme a un
collega ispezionò da cima a fondo la scena del crimine, evento poi ripreso da
quella famosa sequenza di The Wire in cui Bunk e McNulty non dicono altro che
fuck per quasi cinque minuti, declinando la parola in tutte le sue possibili
varianti. (Questo dialogo, povero di parole ma denso di significato, fu tratto dal
libro Homicide.)
Quell’omicidio fu ciò che spinse Burns a cominciare le sue indagini
sull’operazione criminale di Williams. Nella sua serie di articoli sul Sun, Simon
le descriveva con parole che sembrano prese dalla dichiarazione d’intenti di The
Wire: «Non ci furono inseguimenti d’auto, scontri a fuoco, né missioni sotto
copertura. Al contrario, furono due anni di indagini estenuanti, buona parte dei
quali trascorsi dentro auto posteggiate, a sorseggiare caffè, o in uffici affollati, a
controllare registri fiscali o ascoltare intercettazioni in diretta».
A dare una svolta alle indagini fu la scoperta che per comunicare tra loro
quelli dell’organizzazione di Williams usavano esclusivamente dei cercapersone.
Burns ottenne dalla corte il permesso di «clonare» cinque di questi cercapersone,
ricorrendo a piantoni posizionati negli edifici della zona, che avrebbero
segnalato quando gli uomini di Williams stavano usando i loro apparecchi. E la
svolta arrivò quando decifrarono la regola grazie alla quale identificavano chi
stava chiamando: bisognava «saltare» i numeri sopra il cinque sul tastierino di
un qualsiasi telefono a gettoni.
Quasi vent’anni dopo, in un’epoca in cui i cellulari erano ormai diffusi,
Simon temeva che la clonazione raccontata da The Wire potesse risultare
anacronistica. Fu Burns a rassicurarlo a riguardo. «Ed odiava i cellulari. E usava
ancora un cercapersone perché pensava che fosse più rigoroso», ha raccontato
Simon. «Gli chiesi se non era stato un errore, ricorrere narrativamente a una
tecnologia obsoleta, ma lui disse: “No. Rende tutto più rigoroso”».
Poco tempo dopo la morte di Marty Ward, a Burns e alla sua squadra fu
ordinato di chiudere il caso. Avevano accettato una conquista immediata –
l’arresto di Williams, Farmer e altri – in cambio di un fallimento a lungo
termine, sprecando cioè l’opportunità di infiltrarci nell’organizzazione di
Williams e arrivare alle radici del narcotraffico di Baltimora. Affinché ciò
avvenisse (anche se nella finzione) bisognava aspettare The Wire.
Nella sua bibbia, Simon ce la metteva tutta per sottolineare le origini celtiche del
personaggio di «McArdle», presentandolo come «l’irlandese». Per via del suo
anarchismo e del suo ruolo da cane sciolto nel caso Barksdale, McArdle era
chiaramente una versione di Ed Burns, anche se Simon avrebbe poi detto che
buona parte della vita privata di McNulty – il matrimonio fallito, il senso di
colpa da padre assente – l’aveva invece attinta dalla propria esperienza
personale. Inoltre, come ha osservato George Pelecanos, che sarebbe risultato lo
sceneggiatore più importante di The Wire dopo i suoi creatori, nemmeno a David
piaceva l’autorità.
Burns si rivedeva anche nel saggio detective Lester Freamon, relegato a
lavori d’ufficio in seguito a un comportamento «alla McNulty» e tornato in
prima linea, tredici anni dopo, con il caso Barksdale. Il problema narrativo,
diceva Burns, era che la tempra ribelle di McNulty lo costringeva spesso a
ricoprire un ruolo marginale nelle indagini; per buona parte di The Wire,
McNulty veniva escluso dall’azione principale: all’inizio era nella divisione
marina del BPD e in seguito – per venire incontro alle esigenze dell’attore
Dominic West, che nella quarta stagione aveva chiesto di passare meno tempo
sul set – era di pattuglia.
Per ottenere l’approvazione del pilot era fondamentale trovare l’attore
giusto per la parte di McNulty, e la ricerca non fu facile. La produzione aveva
proposto un altro attore britannico, Ray Winstone, che corrispondeva alla loro
idea di un McNulty più in là con gli anni e quindi irredimibile. Nel settembre del
2001, Simon, Robert Colesberry (produttore di The Corner) e Clark Johnson (già
attore in Homicide e adesso apprezzato regista di pilot) presero un volo per il
Canada per incontrare Winstone al Toronto Film Festival. I tre rimasero bloccati
a Toronto per alcuni giorni, in seguito all’attentato dell’11 settembre, ma
tornarono comunque a mani vuote: l’accento americano di Winstone non era
abbastanza credibile perché interpretasse uno sbirro di Baltimora. Nelle
settimane successive furono tanti gli attori ipotizzati per il ruolo: John Hurt, Tate
Donovan, Donnie Wahlberg, Guy Pearce, Josh Brolin, Tom Sizemore, Viggo
Mortensen, Liev Schreiber e David Morse. In linea con la fisicità corpulenta di
Winstone, si optò a lungo per John C. Reilly, finché non si scoprì che l’attore
non era interessato a recitare in una serie.
Nel frattempo arrivò da Londra una videocassetta con il provino di West.
Trentaduenne, nato nello Yorkshire, West aveva studiato a Eton e poi al Trinity
College a Dublino, e aveva una formazione teatrale. La sua prova convinse
Alexa Fogel, responsabile casting, anche grazie alla sua spavalderia tipicamente
«McNultyana»: il video, infatti, mostrava West che interpretava McNulty in un
dialogo con Bunk; ma per quanto si sforzasse, la Fogel non riusciva a sentire le
battute fuori campo dell’attore che interpretava Bunk. La Fogel armeggiò con lo
schermo, e chiamò dei colleghi perché le dicessero che non stava diventando
pazza. Alla fine della scena, però, West si rivolgeva in camera e si scusava,
spiegando che l’altro attore era rimasto intrappolato nel traffico. Aveva dialogato
da solo.
Ma le cose non andarono così lisce. Sia Simon che Albrecht pensavano che
West fosse troppo giovane e di bell’aspetto, e che il suo tentativo di riprodurre la
parlata di Baltimora non riuscisse a coprire del tutto il suo accento aristocratico.
«E chi se ne frega?», obiettò Clark Johnson. «Dissi: “Il suo accento fa schifo?
Ok, è arrivato da Dublino quando aveva nove anni. Ha mantenuto un po’ di
accento. E allora? Ci convivremo”. E così è stato».
La Fogel sosteneva che West fosse la scelta giusta anche per quanto
riguardava l’aspetto fisico: «Ricordo che Chris Albrecht mi chiese perché fossi
la più grande sostenitrice di West. Gli dissi che secondo me Dominic trasudava
qualcosa di simile al trauma psicologico descritto da David. Non sapevo
spiegarlo, ma nascondeva qualcosa di doloroso sotto la superficie».
E la buona riuscita di un casting dipende sempre dalla comprensione di ciò
che bolle sotto la superficie, più che della superficie stessa. In The Wire questo
principio divenne una regola, la convinzione che quasi chiunque potesse
interpretare qualsiasi ruolo. Gli spettatori ebbero bisogno di quasi tre stagioni per
capire che cosa, nel carattere di Avon Barksdale, interpretato dallo smilzo e
ferino Wood Harris, l’avesse portato a dominare il mercato della droga del West
Side, ma anche perché Stringer Bell, interpretato dal possente e affascinante
Idris Elba, e più vicino all’idea hollywoodiana di signore della droga, si
ritrovasse invece a fare il braccio destro. E lo stesso valeva per Marlo Stanfield,
interpretato da Jamie Hector, e fisicamente indistinguibile dai tanti altri
mercenari, almeno prima che sfoggiasse il suo sguardo da squalo senza scrupoli.
Sembrava che la serie volesse ricordarci che, anche nella vita, è pericoloso
limitarsi a dedurre il temperamento dall’aspetto.
La Fogel però imparò la lezione su come proporre attori britannici, e
quando propose Elba per il ruolo di Stringer si raccomandò affinché l’attore
dissimulasse il suo forte accento cockney per non far scattare pregiudizi nei
produttori. Ma quando arrivò il tempo di scegliere l’irlandese Aiden Gillen, per
interpretare l’ambizioso consigliere Tommy Carcetti, nella terza stagione, l’idea
di ingaggiare attori stranieri aveva ormai smesso di essere un problema.
(Quest’esperienza di apertura, probabilmente, avrebbe fatto sì che la Fogel non
ottenesse l’ingaggio per Mad Men, molti anni dopo, dal momento che Matthew
Weiner si rifiutava di ingaggiare attori inglesi, sostenendo che era impossibile
non notare l’accento.)
Alla fine, il risultato fu il cast con il numero maggiore di attori
afroamericani della storia della tv americana. Va puntualizzato che questi attori
non interpretavano tutti spacciatori o gente della strada. The Wire proponeva
(senza giudicarlo) un mondo realistico nel quale gli afroamericani ricoprivano un
ruolo in ogni livello della società, dai piani alti ai bassifondi. Insieme a The
Corner, ai documentari di Spike Lee sull’uragano Katrina e sul fallimento delle
protezioni contro le inondazioni a New Orleans, al film Life Support (2007), in
cui Queen Latifah interpretava una donna della working class con l’HIV, e a molti
altri, The Wire ha consolidato l’importanza del ruolo di Hbo nel raccontare in
modo intelligente e mai retorico la vita della popolazione nera in America.
Altrettanto importante, nella fase iniziale, fu l’affidamento del ruolo di executive
producer a Robert Colesberry, che l’aveva già coperto anche in The Corner.
Colesberry era un uomo posato, dall’aspetto aristocratico e capace di far valere
in modo garbato la propria autorità. Sottotenente nell’esercito a metà degli anni
Sessanta, aveva studiato teatro alla New York University ed era stato assistente
alla regia a Hollywood, a fianco di Ang Lee, Martin Scorsese e Alan Parker. In
televisione aveva lavorato saltuariamente: negli anni Ottanta aveva prodotto una
famosa versione di Morte di un commesso viaggiatore, interpretata da Dustin
Hoffman, e, dopo The Corner, un film tv sulla storia dei New York Yankees
diretto da Billy Crystal, intitolato 61*. Era una persona alla mano, nota per la sua
diplomazia. Quando Charles Dutton si era lamentato della presenza di Simon sul
set di The Corner, era stato Colesberry, bianco quanto Simon, a fare da
mediatore. Era un abile logistic producer («È stato nell’artiglieria», ha detto
Clark Johnson. «Sapeva come raggiungere un obiettivo: “Se vuoi colpire quel
punto lì, devi mirare cinque metri più in là”, e così via»), ma si occupava anche
di questioni meramente creative. Si sedeva nella writers’ room e rimaneva in
silenzio, a meno che non pensasse che gli sceneggiatori avessero imboccato un
sentiero sbagliato. Spesso gli bastava sollevare un sopracciglio perché gli altri
avessero chiara la sua opinione e si comportassero di conseguenza.
Colesberry è noto agli spettatori di The Wire poiché interpretava il ruolo
marginale del detective Ray Cole. Ma soprattutto, fu uno di quelli che Simon
sentiva più vicini alla sua missione e con i quali discuteva più animatamente
nell’intento di portarla a termine. Nonostante avesse le idee molto chiare, l’ex
giornalista era avido di quel tipo di feedback. «Che si trattasse di Colesberry, Ed
Burns o David Mills, Simon aveva sempre bisogno di qualcuno che lo
arginasse», ha detto Johnson.
«Una volta gli chiesi qualcosa a proposito del budget e Colesberry disse:
“Non mi importa di quanto spendiamo. Chiedi a Nina”», ha raccontato uno dei
registi di The Wire. La Nina in questione era Nina K. Noble, l’assistente di
Colesberry, che sarebbe diventata anche lei uno degli interlocutori più apprezzati
da Simon. Come Simon, anche lei aveva imparato molto dal produttore di
Homicide, Jim Finnerty, e diventò una temuta amministratrice, nonché
mediatrice tra le varie personalità forti da cui dipendeva la serie.
Anche se buona parte di The Wire veniva girata negli studios, il primo
compito della Noble fu quello di trovare un luogo a Baltimora in cui costruire
alcuni set specifici, come la centrale di polizia e l’appartamento di McNulty.
Individuò un ex centro commerciale abbandonato che si prestava allo scopo. Ma
dal momento che l’edificio ufficialmente era riservato ad attività commerciali, si
può dire che The Wire, già lontana da Hollywood sotto qualsiasi aspetto, abbia
inaugurato le sue attività da occupante abusivo. Quando le autorità se ne
accorsero, per un attimo la Noble prese in considerazione l’eventualità di
rimettersi in regola aprendo un «Wire Shop» in cui vendere magliette e dvd della
serie.
Baltimora non poteva vantare grandi trascorsi cinematografici: a parte
Homicide e tre film di Barry Levinson, era stata raccontata sullo schermo in
modo significativo e continuativo soltanto da un altro originario del luogo, John
Waters. Il cinema di quest’ultimo era quanto di più lontano dalle atmosfere di
The Wire, eppure la serie finì per ingaggiare dei veterani degli eccentrici film
sperimentali di Waters: tra tutti, Pat Moran, un donnone dai capelli rosso fuoco
che si occupava di assumere le comparse, e il production designer Vince
Peranio. Va detto che Peranio, l’uomo che ha svelato agli americani com’è fatta
davvero una «casa del buco», è lo stesso ad avergli insegnato cos’è il kitsch,
grazie a film come Multiple Maniacs e Pink Flamingos: nel primo dei due lo
stesso Peranio era apparso con le sembianze di un’aragosta gigante, chiamata
Lobstora, che violentava la protagonista Divine.
Ovviamente anche The Wire, a modo suo, era frutto di una ricostruzione
della realtà, non meno di quanto lo fosse Multiple Maniacs. Quando girava in
case abbandonate o nei rifugi dei tossici la troupe eliminava una gran mole di
rottami, immondizia e tracce umane e ricreava il tutto meticolosamente per
ottenere il set ideale. Anche se la storia era ambientata nel distretto occidentale
in cui aveva lavorato Ed Burns, gli esterni furono girati perlopiù nella zona est di
Baltimora che, come aveva spiegato Peranio, costituiva un paesaggio più cupo,
per via della vegetazione spoglia e della presenza di molte case abbandonate. A
Baltimora, infatti, gli alti palazzoni popolari che somigliavano a quelli che
avevano ospitato l’impero di Avon Barksdale erano stati demoliti diversi anni
prima che iniziassero le riprese. Le scene alle «Torri» furono così girate in una
casa di riposo per anziani, i cui piani inferiori vennero camuffati da case popolari
e sormontati da pannelli sui quali poi sarebbero stati ricreati i piani più alti in
postproduzione. (I residenti furono infastiditi dai disagi e furono probabilmente
contenti quando la realtà di The Wire e quella di Baltimora si ricongiunsero e le
Torri furono buttate giù, all’inizio della terza stagione.)
Non c’era nulla di scandaloso in questa ricostruzione, né sarebbe stata
particolarmente degna di nota, se non fosse stato per l’esibito feticismo di Simon
e dei suoi nei confronti della verosimiglianza. Un esempio di questa propensione
si può ritrovare nei dietro le quinte del progetto successivo realizzato da Simon
per Hbo, Treme, che documenta le conseguenze dell’uragano Katrina a New
Orleans nel 2005. In Treme, che Simon aveva ideato con Eric Overmyer,
l’attenzione alla verosimiglianza era ancora più ossessiva che in The Wire,
ammesso che fosse possibile. Le pareti degli uffici della serie erano coperte da
foto, ritagli di giornale e timeline dense e dettagliate di tutto ciò che era successo
negli anni successivi al disastro. In un episodio della prima stagione, la cuoca e
proprietaria di un ristorante in difficoltà, rimasta a corto di dolci, ricorre alla
Hubig’s Pie, l’amata versione locale del famoso tortino confezionato della
Hostess.
Si trattava di un dettaglio importante, che dimostrava una profonda
conoscenza del posto, non soltanto del cibo spazzatura locale, ma anche del
significato che dare (e ricevere) un dono così modesto potesse avere nei giorni
successivi al disastro. C’era soltanto un problema: la Hubig avrebbe riavviato la
sua produzione soltanto molti mesi dopo il presente della scena. Dopo lunghe
discussioni, fu deciso che il tortino sarebbe rimasto. Come? «Be’», ha spiegato
Simon, «si trattava di un tortino magico».
Nel corso della realizzazione di The Wire il confine tra una totale
verosimiglianza e i compromessi necessari a creare trame coinvolgenti non ha
mai smesso di oscillare. Simon e Burns, un ex giornalista e un ex sbirro, spesso
spingevano a turno in una o nell’altra direzione. Ma per quanto riguardava il
confronto con Hbo, la logistica delle riprese e altre questioni di produzione, The
Wire veniva sempre considerata la serie di Simon. Era lui ad avere l’ultima
parola su tutti gli aspetti fondamentali, lasciando Burns felicemente nell’ombra.
«Nemmeno sapevo cosa fosse, un producer», ha detto Burns, non senza una nota
di orgoglio.
Nella writers’ room, però, i due avevano più o meno la stessa autorità. Il
compito principale di Simon era al contempo onnicomprensivo (programmare
tutto ciò che doveva essere fatto in una stagione) e specifico, perché doveva
chiudere le singole sceneggiature dopo che gli altri autori avevano concluso i
loro interventi. Nel frattempo, Burns si rivelò un’inesauribile, talvolta sfiancante,
fonte di idee, un vero e proprio sforna-trame. Ha raccontato William Zorzi, un ex
collega giornalista di Simon che prese parte a The Wire nella terza stagione:
«Quando la gente mi chiedeva: “Ma tu, le idee, dove le prendi?”, io gli
rispondevo: “A me le porta Ed Burns ogni mattina. E tu invece le tue dove le
prendi?”»
«Quei due sono capaci di finire uno la frase dell’altro», ha detto Chris
Collins, assistente della writers’ room. «Quando cominciavano a scrivere una
storia era impossibile stargli dietro. Uno proponeva un nome, ma quel nome li
faceva pensare a un’altra cosa, e poi a un’altra, e all’improvviso non li seguivi
più».
Il loro rapporto era spesso conflittuale, a volte in modo ridicolo. «Ed non
faceva che provocare David. Se ne usciva con cinque idee nuove ed era capace
di insistere affinché venissero approvate tutte e cinque», ha raccontato lo
sceneggiatore Joy Lusco Kecken.
«Non credo che arrivarono mai a insultarsi, ma di certo i loro scontri
potevano surriscaldarsi. Senza dubbio il sottotesto era: “Credo che tu sia un
idiota e che questa sia l’idea peggiore che abbia mai sentito”», ha raccontato
Overmyer, che lavorò anche alla quarta stagione di The Wire. «David è
decisamente di sinistra, ma Ed lo è ancora di più. Era una cosa del tipo
bolscevichi contro menscevichi». Spesso toccava a Pelecanos l’onere di
suggerire che forse era il caso di andare avanti e accantonare uno dei tanti spunti
del dibattito. «George è un uomo di poche parole. Lo vedevi che si guardava
attorno, mentre Ed e David discutevano questioni complesse della politica di
Baltimora, e che a un certo punto diceva: “Ok, allora. Siamo arrivati al punto in
cui Namond va al negozio. Bene. Ora che succede, per favore?”»
Per Pelecanos, che arrivava ogni mattina da Washington, a volte era
frustrante rimanere lì ad ascoltarli: «Potevo anche non esserci, non se ne
sarebbero accorti», ha raccontato.
«Potevamo discutere di cose come il cambio di una sim card per un anno
intero, e quando finalmente arrivavamo a una conclusione, Ed tornava con una
nuova sfilza di informazioni. E io gli dicevo: “Ma stai scherzando? Dobbiamo
parlarne ancora?”», ha raccontato.
Al contempo, Burns poteva trovare frustrante che Simon dovesse applicare
il suo approccio da giornalista a tutto ciò che faceva. «C’è una differenza tra i
fatti e la verità», ha spiegato. «E se rimani fedele ai fatti, non concludi nulla di
buono». Eppure spesso era Burns a sollevare questioni tecniche, come quella
volta che si oppose fermamente alla location scelta per un deposito di droga
perché l’ambiente non aveva un’uscita di sicurezza, nel caso in cui i proprietari
avessero avuto bisogno di scappare. Dettagli del genere, ha detto Burns,
rischiavano di compromettere la sospensione dell’incredulità ed erano
fondamentali per l’appagamento del pubblico. Simon era assolutamente
d’accordo. Al massimo, i due non erano sempre d’accordo su quali fossero i
dettagli importanti e su cosa fosse la verità.
Ad alimentare la tensione creativa della writers’ room, durante la seconda
stagione, fu l’arrivo del loquace Rafael Alvarez, ex collega di Simon al Sun.
Alvarez, nato a Baltimora, era stato chiamato per contribuire, nello specifico,
alle sottotrame relative ai lavoratori portuali. Burns e Pelecanos non lo
sopportavano, perché sgranocchiava snack in continuazione e aveva l’abitudine
di fare un riposino pomeridiano sdraiato sul pavimento della writers’ room. Ma
qualsiasi attrito non poteva che far felice Simon, da sempre fiducioso nei risvolti
positivi di una discussione accesa. «Non che mi piacesse litigare con Ed. Era
sfiancante e rallentava il processo creativo», ha detto Simon. «Ma non c’è stata
una delle nostre discussioni che, alla fine, non abbia contribuito a migliorare la
serie».
E la ricerca di un compromesso su più livelli tra gli imperativi dell’arte e la
verosimiglianza del documentario spingeva quasi sempre alle decisioni giuste.
L’idea dei cercapersone si rivelò perfetta come espediente narrativo, nonostante
l’uso diffuso dei cellulari, così come fu la scelta giusta quella di mettere la
demolizione degli edifici all’inizio della terza stagione. A quel punto della storia,
il crollo delle Torri rappresentava il collasso dell’impero di Barksdale e la
conseguente ascesa di una nuova e più feroce generazione di signori della droga,
ben rappresentata da Marlo Stanfield.
Queste libertà permisero inoltre a The Wire di conferire ai suoi personaggi
una certa aura mitica. Omar Little aveva tutte le carte in regola per essere un
personaggio realistico: quando era detective, Burns si appoggiava alle soffiate di
certi coraggiosi cani sciolti che vivevano (anche se di solito non a lungo) ai
margini del mercato della droga, e uno dei suoi informatori era un uomo educato
quanto feroce di nome Anthony, con un particolare avversione per le parolacce;
il personaggio di Omar – sempre «Omar», senza il «Little» – prendeva spunto da
lui, ma una volta perfezionato divenne molto di più: una vera forza della natura,
a metà tra un’imbroglione stile Fratel Coniglietto e un eroe fuorilegge alla Robin
Hood. E lo stesso succede con il detective Herc, che è l’incarnazione della
mediocrità autodistruttiva. E con McNulty nel ruolo di protagonista, di Quello
Che Ha Capito.
Quest’aura mitica piaceva a Simon, il quale, quando non si accaniva a
spiegare che The Wire era un programma politico, collocava il suo riferimento
letterario secoli prima di quello preferito dai critici, e cioè Dickens, secoli prima
persino di Shakespeare: The Wire, secondo Simon, era né più né meno una
tragedia greca.
«Gli antichi avevano chiara l’importanza della tragedia, non soltanto per
quello che poteva dirgli del mondo, ma soprattutto per ciò che poteva svelargli
su se stessi», ha detto. «Eppure quasi tutta la tv e il cinema americani cercano di
evitare quel tipo di catarsi che la tragedia può veicolare meglio di qualsiasi altra
cosa. Noi non la sopportiamo, la tragedia. La prendiamo in giro. La
sottovalutiamo. Preferiamo le risate, il sesso, la violenza. Vogliamo soltanto
uomini che sappiano sconfiggere il proprio destino, non cerchiamo altro». Nella
sua versione dell’Olimpo trasposto a Baltimora, il ruolo delle divinità era
affidato alle forze sconsiderate del capitalismo moderno. E, come nella tragedia
greca, qualsiasi mortale abbastanza arrogante da opporsi al loro volere veniva
inesorabilmente ricacciato al suo posto, se non eliminato in modo violento.
«Tutto ciò che abbiamo fatto è stato riprendere una tradizione antica e da
noi ignorata, perché sembrava troppo innovativa e improbabile», ha detto Simon.
«Se la tragedia non è mai stata un tema portante delle narrazioni americane è
soltanto perché non è quel tipo di storia che attira grosse fette di pubblico». Ma
adesso la tragedia diventava un terreno praticabile, perché nel nuovo modello
della tv via cavo a pagamento gli indici d’ascolto avevano smesso di essere la
priorità assoluta.
Al contempo, The Wire era indiscutibilmente moderno: i suoi personaggi
avevano caratteri verosimili e complessi, e si rifiutavano di essere spostati da un
punto all’altro come soldatini su un plastico. A volte le loro azioni lasciavano
sorpresi gli stessi creatori. Uno dei dibattiti più appassionati nella writers’ room
riguardò una scena fondamentale del penultimo episodio della prima stagione,
«Cambio di strategia»: l’esecuzione del giovane spacciatore Wallace da parte
dell’appena più giovane e rude Bodie Broadus. Appena prima di sparare
all’amico, Bodie esita e gli trema la mano con la pistola. Burns avanzava
un’obiezione: il Bodie che avevamo visto fino a quel momento era
l’incarnazione del tipico mostro di strada, un giovane talmente corrotto dalla
violenza della cultura dello spaccio che non avrebbe mai dovuto esitare a
premere il grilletto, nemmeno contro un amico.
«Non corrispondeva al personaggio. Bodie era borderline, ai limiti dello
psicopatico. Dissi: “Abbiamo raccontato al pubblico che le cose stanno così, e
ora questo personaggio fa un passo indietro?” È incoerente. È una stronzata», ha
raccontato Burns, ricordando la sensazione provata guardando la scena.
Nelle stagioni successive, però, Broadus si rivelerà simile a McNulty, un
soldato che cerca di fare a modo suo e che si ritrova schiacciato dal sistema. E la
sua morte sarà inaspettatamente toccante. E tutto questo, ha sottolineato Burns,
si ricollega a quell’inatteso momento di umanità visto nella prima stagione.
«Quella scena ha innescato una dinamica interessante che è andata avanti
per quattro stagioni, portando con sé un bel po’ di umorismo, che di solito non
va a braccetto con gli psicopatici», ha detto. «Mi ha insegnato molto. All’inizio
non ero d’accordo, perché non ti puoi permettere di fare scherzi del genere al
pubblico. Ma adesso, quando ci ripenso, mi dico che è stata un’ottima cosa, che
ha aperto strade nuove. È stato molto utile».
ESSERE IL CAPO
Nel febbraio del 2001, il Museum of Modern Art di New York proiettò le prime
due stagioni dei Soprano, insieme ad alcuni film «selezionati da David Chase»
(tra i quali Nemico pubblico, Mean Streets e C’era una volta un piccolo naviglio,
con Stanlio e Ollio). Fu un momento di gloria. Sotto la direzione creativa di
Peter Bogdanovich, il MoMA aveva dato un contributo fondamentale alla
consacrazione di quella generazione di registi americani tanto ammirata da
Chase (il quale le rese omaggio scegliendo lo stesso Bogdanovich per il ruolo
dello psicologo della dottoressa Melfi). Come avrebbe dichiarato in seguito,
l’inserimento dei Soprano nel suo pantheon cinematografico – e poi nella
collezione permanente del museo – fu per Chase uno dei motivi di maggiore
orgoglio legati alla serie.
Altri segnali di riconoscimento highbrow arrivarono poco prima che
iniziasse la terza stagione. Il critico televisivo del New York Times, Caryn James,
scrisse entusiasticamente: «I Soprano riprende lo spirito della grande letteratura
come nessun’altra serie tv era mai riuscita a fare, assurgendo a equivalente
contemporaneo delle serie di romanzi del diciannovesimo secolo. Come
facevano il ciclo Rougon-Macquart di Zola o la Commedia umana di Balzac, I
Soprano descrive una cultura specifica (le periferie del New Jersey alle prese
con il nuovo millennio) analizzandone a fondo i protagonisti. Cosa cambia se
Tony è un boss uscito dalla fantasia di David Chase e non una delle prostitute di
Balzac? La sua condizione di fuorilegge è soltanto un modo per comprendere la
barbarie e l’ipocrisia della società tradizionale, proprio mentre la serie propone
un’eccezionale storia familiare».
E per quanto riguarda l’altro lato della medaglia, ovvero l’accoglienza del
pubblico di massa, si può dire senza dubbio che I Soprano sia arrivato vicino
allo status di istituzione nazionale. In tutto il paese, la gente festeggiò la prima
puntata della terza stagione, trasmessa il 4 marzo, con proiezioni private e feste a
tema, accompagnate da teglie di ziti al forno e concorsi per il vestito più
pacchiano in perfetto stile New Jersey. Nacquero la parodia della rivista MAD (I
Supremi), il flipper dedicato, una linea di sigari e il libro di ricette ufficiale, con
un capitolo firmato dal personaggio di Bobby Baccalieri e intitolato «If I
Couldn’t Eat, I’d F**king Die». I negozi di tutte le Little Italy si riempirono di
magliette dedicate a Tony. Quando la produzione si spostava fuori dal New
Jersey o da New York, le location venivano presidiate da osservatori estasiati,
che conferivano alle strade un’atmosfera carnevalesca; comparivano venditori di
gadget e i commercianti richiamavano l’attenzione mettendo nello stereo «Woke
Up This Morning» a tutto volume. Terence Winter ricorda che una volta andò a
vedere uno spettacolo ad Atlantic City insieme ad alcuni membri del cast,
incluso Gandolfini, e che a un certo punto il loro tavolo fu investito da un
riflettore e si misero tutti ad applaudire. «Sembrava di andare in giro con i
Beatles», ha detto Winter.
L’impatto culturale fu superiore ai numeri. La nuova stagione fu infatti
guardata da 11.300 milioni di spettatori alla settimana, non abbastanza da farla
entrare nella classifica dei venti programmi più visti di quell’anno. (Al primo
posto c’era il reality show Survivor: The Australian Outback, con l’incredibile
risultato di 29.800 milioni di spettatori, mentre la serie più guardata fu ER, con
22.400 milioni.) Ma il risultato dei Soprano (che teneva conto anche delle
repliche infrasettimanali) rimaneva un record per una rete via cavo a pagamento.
E bisogna considerare anche gli spettatori che hanno avuto modo di recuperare la
prima stagione grazie ai dvd, in quel periodo in piena diffusione.
La serie era riuscita a raggiungere quel prezioso compromesso che mette
d’accordo il pubblico di massa e la critica. Un’analisi stereotipata direbbe che I
Soprano poteva essere apprezzato «su due livelli distinti»: da un lato, il
divertimento di pancia (colpi di scena, gag linguistiche, sangue e sesso),
dall’altro la letterarietà. Ma un’analisi più approfondita rivela che la serie poteva
essere apprezzata su entrambi i livelli contemporaneamente, e che il piacere
risiedeva proprio in quest’alchimia, a lungo discussa dalla critica. Il risultato fu
un fenomeno a trecentosessanta gradi.
Tutto ciò Chase l’aveva conseguito tenendo fede alla propria visione e sullo
stesso mezzo che, per anni, non aveva fatto che mortificarlo. Cosa c’era di più
simile allo spirito anticonformista introdotto a Hollywood da registi come
Coppola e Scorsese negli anni Settanta? E cioè: portare le tue idee a casa di quei
bastardi, mettergliele sotto il naso e costringerli persino a ringraziarti.
Ma ancora più sorprendente è il fatto che lo stesso Chase fosse diventato
famoso. In tutta la storia della tv, quanti non addetti ai lavori avevano conosciuto
i nomi degli sceneggiatori, per non parlare delle loro facce, prima di allora? A
chi era mai importato? Eppure adesso Chase veniva fermato per strada dai fan in
cerca di un autografo, era oggetto di articoli giornalistici pieni di venerazione e
finiva insieme al suo cast sulla copertina di Rolling Stone, dalla quale fissava
austeramente l’obiettivo di Mark Seliger con i piedi immersi in un secchio di
cemento fresco.
L’immagine rendeva bene lo stato delle cose. Persino nel pieno del
successo, Chase era zavorrato da dubbi e insoddisfazioni. Aveva paura di quegli
spettatori che non avevano colto il senso della serie, che ogni settimana si
sedevano davanti al televisore soltanto per vedere «quel bestione di Tony
Soprano che prendeva la testa di qualcuno e la schiantava contro un muro come
un melone». Temeva che il successo della serie non cambiasse di una virgola il
fatto che si era svenduto alla tv. Lo faceva infuriare il rischio che qualcuno
rubasse anticipazioni sulla trama, per le quali c’era gente disposta a pagare, e
questo spingeva i suoi subordinati a adottare precauzioni acrobatiche pur di
evitare la sua collera. (In un articolo su Vanity Fair, il regista Tim Van Patten
spiegava a Peter Biskind: «Quando ho finito di leggere la sceneggiatura prendo
le prime dieci pagine e le faccio a pezzetti piccoli piccoli. Metà li butto nel
cestino del bagno, l’altra metà in quello della cucina. Quindi prendo altre dieci
pagine, le strappo a pezzetti piccoli piccoli, e ne butto metà nel cestino del
secondo bagno e metà nell’inceneritore. Faccio così da dieci anni. Mi fanno male
le dita, quando finisco».) Chase temeva che persino Hbo, per la quale I Soprano
aveva un valore incalcolabile, non lo rispettasse più di tanto: alla fine di ogni
stagione, infatti, aspettavano sempre troppo prima di commissionargli la
stagione successiva, o almeno questo è ciò di cui si lamentava Chase.
Joshua Brand fece amicizia con un ex membro dello staff dei Soprano
quando, a un certo punto durante la seconda stagione, gli chiese: «E in tutto
questo Chase non si diverte nemmeno un po’, dico bene?»
Ma con la visibilità arrivarono anche i problemi. I rotocalchi sguazzavano
nei problemi di James Gandolfini con il suo matrimonio e con l’abuso di
sostanze stupefacenti. L’attore stava diventando sempre più imprevedibile,
finché non sparì per alcuni giorni, poche settimane prima dell’evento al MoMA,
per poi ricomparire – come già visto – in un salone di bellezza di Brooklyn. Nel
frattempo, quegli attivisti che sostenevano di rappresentare l’immagine degli
italoamericani erano riusciti ad attirare l’attenzione della stampa proponendo di
boicottare I Soprano. E quando riuscirono a impedire alla produzione di
effettuare le riprese nel New Jersey (imponendole, tra le altre cose, di spostare
l’iconico episodio Caccia al russo ad Harriman State Park, poco dopo il confine
con lo Stato di New York) Chase si infuriò.
«Ma perché devono rimanere così avvinghiati al loro vittimismo? Che razza
di pizzaioli frignoni! Gli italoamericani sono gente di successo. Perché pensano
che sia così importante passare per una minoranza maltrattata e oppressa? Mi dà
sui nervi», avrebbe dichiarato Chase molti anni dopo. «Ricordo che pensai: “La
serie la gireremo nel salone di casa mia, se necessario. Ma la gireremo. E
continueremo a raccontare queste persone per come sono fatte, e non
cambieremo una virgola, non sposteremo nemmeno un ciuffo di capelli per
accontentare nessuno. La girerò nel mio salone spendendo dieci dollari a
episodio, ma non mi fermerò”». Molto dopo quell’inconveniente Chase avrebbe
provato un certo piacere a puntualizzare che James Treffinger, il giudice che
aveva approvato il divieto, era poi stato arrestato per corruzione.
Addirittura, durante un’intervista con il reporter Ken Auletta, avvenuta
proprio al MoMA, un astante dalle idee confuse accusò Chase non solo di
infangare l’immagine degli italoamericani, ma persino di lavorare per la mafia.
Ciò di certo non dissuase Chase dal fare davanti alla folla una dichiarazione che
fu ripresa dal The New York Times e poi dai giornali di tutto il paese: I Soprano
si sarebbe conclusa né prima né dopo la fine della stagione successiva, la quarta,
quando il suo contratto sarebbe scaduto.
Senza dubbio, Chase aveva tutti i motivi per sentirsi esausto. Da quando era
iniziata, I Soprano non aveva mai smesso di crescere per dimensioni e respiro, in
ogni direzione, per una combinazione di necessità narrative e successo. Come
Chase era solito puntualizzare, la prima stagione era stata pensata per essere
autoconclusiva, una di quelle che non lasciano conti in sospeso: i principali
antagonisti di Tony, sua madre e suo zio, venivano infatti messi fuori gioco, la
prima da un infarto, il secondo in galera. Così, come spesso accade nelle serie
continuative con finali sospesi, questa condizione rendeva necessario
l’inserimento di nuovi personaggi per far ripartire la trama: prima la sorella di
Tony, Janice – degna erede dello spregevole narcisismo della madre – e poi l’ex
di Janice, Richie Aprile, rivale di Tony nel controllo degli affari. E ogni nuovo
personaggio portava con sé nuovi set, nuovi gruppi di amici e nuove sottotrame
da esplorare e raccontare con quell’accuratezza che aveva caratterizzato la prima
stagione.
I Soprano era diventata un mini-impero, che richiedeva un lavoro febbrile,
la partecipazione di centinaia di persone e un enorme movimento di denaro. Il
numero dei giorni di riprese per ogni soggetto – che è la più affidabile tra le
unità di misura per calcolare le spese generali – era passata dai sette iniziali a
dieci e poi a venti, senza contare le scene da rigirare, che a volte potevano
richiedere parecchi giorni extra. La produzione si era già spostata in Italia per le
riprese di un episodio. Né si badava a spese per la colonna sonora, nessuno dei
pezzi usati era di pubblico dominio. Chase aveva cominciato a passare una
percentuale sempre più grossa del suo tempo libero sulla costa atlantica della
Francia, dove alla fine avrebbe comprato una casa. Spesso lavorava da lì, dando
indicazioni sul montaggio al resto della produzione attraverso una costosa
connessione via satellite, con uno scarto del fuso orario di nove ore. I pranzi del
cast e dello staff erano spesso a base di aragosta o di carne di prima scelta.
Sembrava che nessuno controllasse i costi di tutto ciò.
«Quando siamo arrivati lì siamo rimasti sbalorditi», ha detto lo
sceneggiatore Andy Schneider, unitosi alla serie per la sesta stagione, insieme
alla moglie Diane Frolov. «In televisione la prima preoccupazione è sempre stata
quella di risparmiare, ma Hbo non badava a spese per organizzare feste sfarzose,
riprese notturne in grande stile e tutto quel genere di cose che uno sceneggiatore
evita sempre di scrivere per non sforare il budget. Di solito, lavorando in tv, si
evitano le camminate, le riprese notturne e cose così. Ci vuole parecchio per
illuminare tutta una strada. E invece, lavorando ai Soprano, ti ritrovavi nel
copione indicazioni del tipo: “I personaggi camminano lungo il marciapiede,
finché non entrano in casa. È notte, e sta piovendo”. Praticamente eri libero di
scrivere quello che volevi». In un mondo in cui ogni singola sequenza richiede
spese significative, nulla poteva rappresentare meglio il potere acquisito da
Chase del fatto che si concedesse, ogni tanto, di girare scene alternative (come
quella in cui è il boss Phil Leotardo a sparare a Tony, all’inizio della sesta
stagione, e non Junior) soltanto per sbarazzarsi degli eventuali ladri di spoiler.
«Qualsiasi cosa andasse fatta, la facevamo», ha raccontato Mitch Burgess.
«Avevamo scritto un episodio in cui Tony e Christopher lanciavano il cadavere
di Ralph Cifaretto a mare, da un dirupo. Ma non c’erano dirupi da quelle parti.
Così ce ne siamo andati in Pennsylvania, l’intera troupe. Abbiamo illuminato
tutto, come per un film, e abbiamo gettato in mare questo sacco di plastica. Ce
ne siamo andati a dormire in albergo, tutta la troupe, e il giorno dopo siamo
tornati».
Matthew Weiner, che ha preso parte alla serie nella quinta stagione, ha
raccontato: «Dovevamo esorcizzare i demoni di David. Sai quante decisioni
venivano prese soltanto per ripicca, magari perché quando lavorava a Un medico
tra gli orsi, Rockford, Kolchak, o qualche altra serie mai sentita, qualcuno gli
aveva detto: “No, questo non lo puoi fare”?»
Chase, per esempio, proibì che venissero girate le scene del tipo walk and
talk, quelle in cui due personaggi camminano rivolti alla telecamera e si
scambiano informazioni, perché era considerato uno degli espedienti abusati dai
network per risparmiare. «A volte ci trovavamo in qualche location fantastica e
dicevamo: “Non basta che camminino lungo la strada? C’è lo strip club da un
lato, il mattatoio dall’altra. Da qui si vedrebbe tutto!”», ha raccontato Weiner. «E
lui rispondeva, col suo tipico sarcasmo apatico: “Certo, come no. Montiamo
delle rotaie, camminiamo all’indietro e alle quattro abbiamo finito”. Era palese
che si stava prendendo la sua rivincita su qualche produttore della Universal,
anche se con trent’anni di ritardo». (Weiner non ha mai perso occasione di
esprimere la sua gratitudine e ammirazione per Chase, considerandolo il suo
mentore. Al contempo, va notato che un’altra delle avversioni di Chase
riguardava l’ipotesi di inquadrare gli attori da dietro, e che la prima inquadratura
di Mad Men – ripresa anche dalla sigla – mostrava proprio la schiena di Don
Draper.) Per Chase era fondamentale mantenere la guardia e precludere qualsiasi
eventuale inferenza, persino in quell’ambiente innegabilmente accogliente che
era Hbo. «Per me era necessario puntualizzare costantemente che non dovevo
niente a nessuno. E che se non avessi girato la serie come volevo io, me ne sarei
andato. E che me ne sarei andato se non fossi stato adeguatamente retribuito. E
che in qualsiasi momento avrei potuto dire: “Addio. Basta. Me ne vado. Non mi
importa se non è finito, io ne sono fuori”. Per me era importante mantenere
quella posizione, mi serviva a rimanere libero».
Tutto ciò dava vita a un ambiente creativo stimolante, ma al contempo
alimentava un’atmosfera di intensa pressione, che gravava principalmente sulle
spalle dello stesso Chase, che non soltanto supervisionava la stesura di ogni
copione, ma anche ogni singola decisione creativa delle tredici puntate annuali.
«Spesso David arrivava di mattina e diceva, parlando di qualche problema di una
sceneggiatura: “Credo di averlo risolto. Ero sotto la doccia e ho pensato che…”
E io mi chiedevo: “Ma com’è che è sempre sotto la doccia, quando pensa alla
serie?”», ha detto Weiner. «Poi ho cominciato a lavorare con loro e mi sono reso
conto che pensavamo sempre alla serie!»
Come osservato da Biskind, Chase aveva tutte le ragioni per capire come si
sentiva Tony a essere diventato il boss: «Con il dovuto rispetto, non hai idea di
che cazzo significhi essere il numero uno. Ogni decisione che prendi influisce su
ogni risvolto di qualsiasi altra cosa. A volte hai davvero troppe responsabilità. E
a conti fatti, devi sobbarcartele da solo».
Per potersi dedicare così intensamente al suo lavoro Chase dovette
organizzarsi in modo tale che tutti gli altri aspetti della sua vita fossero delegati
ad altre persone. Se all’inizio delle riprese abitò infatti in diversi appartamenti in
subaffitto, una volta che la serie ebbe successo Chase si trasferì nell’attico del
Fitzpatrick Manhattan Hotel, sulla Lexington Avenue, dove aveva lo staff
dell’hotel a sua disposizione. Come aveva già fatto a Los Angeles, pranzava e
cenava nello stesso ristorante parecchie volte la settimana, alternando incursioni
al Daniel e al Café Boulud. (In seguito, e soltanto in parte per scherzo, Chase
avrebbe detto che la facilità con la quale riusciva a prenotare un tavolo era uno
dei motivi principali che lo spinsero a posticipare l’epilogo dei Soprano.) Sul
lavoro, si trincerava dietro tutta una serie di intermediari. L’assistente di Chase
imparò a rispettare la sua «regola dei cinque minuti», ogni volta che venivano
comunicate cattive notizie, e che indicava il tempo necessario a far sbollentare la
rabbia, finire di prendere a calci una scrivania e reagire in modo più razionale al
problema. Non che ce ne fossero molte, di cattive notizie. «Nessuno poteva dire
di no a Chase. Mai», ha raccontato l’assistente. «Nessuno a parte James
Gandolfini, il cui modo per dire no era non presentarsi affatto sul set».
Una volta Tony Sirico, che in gioventù ha fatto parte della mala ed è stato
in carcere parecchie volte, aveva confessato a Robin Green: «In vita mia ho
incontrato un sacco di gente tosta, ma quando vedo David faccio sempre un
passo indietro».
E più la serie riscuoteva successo, ha raccontato l’assistente di Chase, più
difficile diventava anche la più elementare delle cose. «All’inizio, se David
doveva andare da qualche parte prendeva un taxi, o andava in pulmino, o al
massimo volava in prima classe ma con un volo ordinario. Ma quando le cose si
sono fatte più serie, Chase non voleva più prendere taxi, né andare con le auto a
noleggio. Voleva un autista dedicato, e se andava in pulmino doveva esserci solo
lui… Avanzava sempre più richieste. Ed era sempre meno tollerante nei
confronti dei cambi di programma o dei rifiuti da parte della produzione».
(Chase ha poi dichiarato di aver apprezzato le gratifiche offertegli da Hbo, ma
che d’altronde questi benefici erano spesso dovuti agli showrunner delle serie di
successo.)
E dopo l’11 settembre lo stress non fece che aumentare, poiché Chase, da
sempre ossessionato da attentati e cataclismi, cominciò ad aver paura di prendere
l’aereo. Chase chiese alla Silvercup di aumentare la sorveglianza e di inserire dei
codici di sicurezza per accedere agli uffici degli sceneggiatori. La minaccia del
nuovo terrorismo ben si sposava con la sua visione del mondo. «È lui contro il
mondo intero. La gente fa schifo e vuole fregarlo. Qualsiasi cosa stia
succedendo, è innanzitutto un’ingiustizia nei suoi confronti», ha spiegato la sua
assistente, che ha pochi dubbi su come siano andate le cose: «Ricordo quanto ci
divertimmo il primo anno, quando ancora nessuno sapeva niente. Poi, invece,
più soldi arrivavano più eravamo rispettati e più eravamo scontenti. James era
lacerato, e così David. Quelli che ci stavano guadagnando di più, anche in
termini di fama, erano anche quelli che penavano di più».
Dal momento che Chase era responsabile di quasi tutti gli aspetti della serie, la
writers’ room era il luogo in cui trascorreva la maggior parte del suo tempo
lavorativo, ed era quindi in balia dei suoi umori. Ripensando a Io volerò via,
Henry Bromell si è detto sorpreso dalla severità con la quale Chase trattava la
sua writers’ room:
«Mia moglie era uscita dalla maternità e voleva tornare a lavorare, ci teneva
parecchio. Così dissi a David che sarei dovuto tornare a casa entro le sei, due o
tre giorni la settimana. Ma lui disse che non era possibile: “Ho bisogno di sapere
che la tua priorità assoluta è questo lavoro, non la tua famiglia. Prendi una
decisione”, disse, con uno sguardo glaciale. E io pensai: “Ma cos’è? Lavoriamo
per la mafia?”»
Chi lavorava nella writers’ room di David Chase imparava presto a fare
attenzione all’umore del boss, e a calcolare il minimo margine d’errore.
Puntualizza Terence Winter: «David l’ha sempre messo in chiaro: “Questa non è
una scuola di scrittura, che l’abbiate capito o no”, diceva. E la gente diceva:
“Credo che David mi odi”. E io gli dicevo: “Sai perché sono certo che non ti
odi? Perché sei ancora qui. Se ti odiasse, saresti il primo a saperlo. E saresti già
da un’altra parte”».
Chase non volle che fosse confermato il contratto a nessuno degli
sceneggiatori della prima stagione, a parte Renzulli, Robin Green e Mitchell
Burgess. A questo gruppo, quando lo staff si ritrovò alla fine del 1999, Chase
aggiunse altri due nomi: uno era Winter, un ex avvocato di Marine Park, a
Brooklyn, un quartiere che ricordava da vicino i luoghi dei Soprano. Ai tempi,
Winter veniva sfruttato in serie come Le nuove avventure di Flipper e Xena –
Principessa guerriera. Winter e Renzulli erano buoni amici; avevano entrambi
lavorato per un certo periodo come portinai a New York e si erano incontrati sul
set della serie di Renzulli The Great Defender. Durante le riprese della prima
stagione, Renzulli aveva passato segretamente a Winter le sceneggiature dei
Soprano (all’epoca non c’era ancora bisogno di protocolli di sicurezza) e Winter
se ne innamorò molto prima di vederne qualcuno girato. Winter stava lavorando
a The PJs, serie di animazione Fox doppiata tra gli altri da Eddie Murphy,
mentre Renzulli pregava Chase di dargli una possibilità. Chase alla fine gli
propose di fare una prova (con «I sogni son desideri») e alla fine lo assunse.
Purtroppo, c’erano in ballo meno soldi e una posizione secondaria rispetto a ciò
che Winter aveva già fatto. «Fui costretto a dire di no ai Soprano», ha raccontato
Winter. «Fu la telefonata più frustrante della mia vita». Ma per fortuna Chase e
Hbo decisero di trattare e gli diedero il ruolo di coproducer.
Renzulli e Chase hanno sempre avuto un rapporto molto teso. Chase
trovava irritante il fatto che Renzulli parlasse incessantemente e una volta si
infuriò dopo che Renzulli aveva chiesto una limousine per la sua famiglia a New
York, caso rappresentativo di quel tipo di pretese che lui stesso era solito
avanzare; Renzulli, dal canto suo, non sopportava di dover sottostare a qualcuno
che, secondo lui, non capiva quanto lui il mondo che stavano rappresentando.
Inoltre, essendo il più italoamericano dello staff, Renzulli era sensibile alla
caratterizzazione dei suoi conterranei, quasi quanto quelli che avevano boicottato
la produzione della serie durante la seconda stagione. Quando Todd Kessler, su
indicazione di Chase, incluse la dicitura «tipica canottiera da italiano cafone» tra
le specifiche di un copione, riferendosi a una maglia della salute, Renzulli lo
chiamò da parte e gli chiese: «Ti piacerebbe se scrivessi “tipici occhiali da ebreo
di merda”»?
Secondo Renzulli la serie aveva rotto il patto di verosimiglianza già
all’inizio della seconda stagione, quando Paulie dice a Christopher: «Ci sono
andato [a Parigi] a portare un pacco a sorpresa. E ho incontrato tua madre che i
pacchi li sbottonava sotto la torre Eiffel».
«Pensai: “Non va bene, non dovrebbe dire una cosa del genere”. Facendogli
dire quella battuta Paulie passava per un cafone, e Christopher avrebbe dovuto
vendicarsi per quell’offesa alla madre, una volta affiliato», ha spiegato Renzulli.
Ancora più inaccettabile, per lui, fu un evento della quinta stagione cui assistette
quando non faceva più parte dello staff: per risolvere una serie di problemi, Tony
decide di fregare Feech La Manna, uscito da poco di prigione, e di incastrarlo
per violazione degli arresti domiciliari. Alla base c’era un problema reale,
ovvero il fatto che l’attore Robert Loggia, che interpretava Feech, faceva fatica a
ricordare le sue battute. Ma secondo Renzulli nulla poteva giustificare quella
che, nella realtà della serie, era stata una gravissima violazione dei protocolli di
una famiglia mafiosa. «Nella realtà una cosa del genere sarebbe costata la vita di
tutti i coinvolti», ha detto.
«Non è come dice lui», ha detto Chase. «La verità è che questi qui non
fanno altro che mandarsi in prigione l’un l’altro».
Si sarebbe potuto trattare di semplici differenze di opinione, se Renzulli non
avesse cominciato a nutrire dubbi sempre maggiori sui sentimenti provati da
Chase nei confronti dei suoi personaggi. «Tendevano sempre alla caricatura,
pensando che fosse divertente», ha detto. «Era chiaro che Chase trovava buffi i
suoi personaggi. Ma non in senso buono». Renzulli si rese conto che i
personaggi erano descritti più con disprezzo che con empatia: «Non gli sarebbe
piaciuto passare troppo tempo coi suoi personaggi, non avrebbe resistito dieci
minuti».
Senza dubbio, questi sentimenti derivavano dal fatto che i due si erano
separati in modo tutt’altro che amichevole. Renzulli, ansioso di approfittare del
successo dei Soprano, se n’era andato dopo la seconda stagione perché gli
avevano proposto un accordo di sviluppo. Lui e Chase discussero dell’ipotesi
che tornasse per la quarta stagione, ma la contrattazione si arenò sul piano
economico. Renzulli voleva più di quanto aveva ricevuto in passato e,
soprattutto, più del suo vecchio pupillo Winter. E rimase col dubbio che Chase
avesse fatto in modo che Hbo non gli desse ciò che chiedeva. «Volevo che
tornasse», ha raccontato Chase. «Quando fai una serie tv vuoi tutto l’aiuto
possibile. E Renzulli era sicuramente di grande aiuto». Ma quando Renzulli
avanzò le sue richieste Chase non fece alcuno sforzo affinché fosse nuovamente
assunto: «Non ero più dalla sua parte», ha ammesso.
Il distacco definitivo avvenne quando Winter e la sua ragazza andarono a
trovare i Chase in Francia. Per Renzulli si trattò di uno sgarbo imperdonabile,
pari a quello di Paulie nei confronti di Christopher o di Tony nei confronti di
Feech. E così lo sceneggiatore che più di chiunque altro conosceva i protocolli
alla base dell’universo dei Soprano lasciò la serie, amareggiato dal fatto che
questi protocolli non venissero applicati anche nel mondo reale. In seguito lui e
Chase si sarebbero a malapena rivolti la parola.
Carolyn Strauss sostiene che quando lo incontrarono, all’inizio del 2002, lei e
Chris Albrecht non sapevano nulla delle storie che circolavano su di lui. Hbo era
nel suo periodo più florido, grazie alla terza stagione dei Soprano, appena
conclusa, ma anche all’inizio della seconda di Six Feet Under e all’imminente
debutto di The Wire: fatta eccezione per le avvisaglie di un redivivo canale basic
cable chiamato Fx, aveva ben poca concorrenza diretta.
Considerata la sua follia, Milch si era sempre comportato relativamente
bene coi suoi capi. Capitava che prendesse degli appunti, almeno quando
pensava che questo lo aiutasse nel lavoro, ed era sempre convincente quando
presentava i suoi progetti. All’inizio della carriera, quando aveva provato a fare
lo scrittore, gli editori l’avevano sgamato molto presto. «Avevo un rapporto così
immaturo con quel mondo, ero lì soltanto per fregargli più soldi possibile. Non
mi piaceva la gente che ci lavorava, non mi piaceva niente, e quindi mi divertivo
a torturarli un po’. Ma quando arrivai da Hbo le cose erano cambiate, mi
interessava davvero raccontare delle storie, e a loro fu subito chiaro». D’altronde
Milch aveva ormai alle spalle un curriculum ragguardevole. E immaginava che
gli executive producer, pur non avendo idea di cosa gli stesse proponendo,
pensassero comunque: «L’importante è che basta dargli un input e quello ci
sforna una sceneggiatura».
Ma persino per chi, come la Strauss e Albrecht, era sopravvissuto alla
dichiarazione d’intenti di David Simon, il pitch di Milch deve essere stata una di
quelle esperienze che lasciano storditi. La storia parlava di centurioni romani ai
tempi dell’apostolo Paolo, subito dopo la morte di Cristo, ma si trattava soltanto
del punto di partenza per trattare la moltitudine di temi che Milch voleva inserire
nella serie.
Come ha ricordato lui stesso, Milch cominciò citando il teologo protestante
Paul Tillich, secondo il quale (e secondo la parafrasi di Milch) «un simbolo è
tale solo se contiene in sé la realtà che rappresenta».
Mi interessava il modo in cui la cristianità, originata dall’esperienza personale del Cristo, fosse
riuscita a diventare universale, trasformando il simbolo della croce in un principio organizzativo,
slegato dal corpo dolente del Cristo. Volevo capire come tutto ciò fosse alla base di
un’organizzazione sociale ancora più complessa e ampia.
Paolo, che fu il primo a essere arrestato dai centurioni, a Roma, per proselitismo, ebbe una crisi
epilettica e una visione. Aveva ucciso il primo degli apostoli, santo Stefano, perché aveva detto
che se Cristo era davvero il Messia allora la fine del mondo era vicina, e che se invece la fine del
mondo non era vicina, allora Cristo non era il Messia e quella gente era apostata. Così Paolo
organizzò la lapidazione di santo Stefano. I farisei dissero: «Questo qui è fuori di testa. Dovresti
andare a Damasco. Saresti al sicuro, lì». E sulla strada per Damasco Paolo ebbe una crisi e vide
Cristo, che gli disse: «Non devi essere ebreo. Non devi essere circonciso. Tutto quello che devi
fare è riconoscere Cristo crocifisso e credere nel suo simbolo». E fu così che il simbolo fu
separato dall’esperienza reale, e la Cristianità si diffuse nel mondo.
Non sorprende scoprire che per Milch lavorare in squadra non era meno
complicato di qualsiasi altra cosa lo riguardasse. Doveva affrontare la battaglia
cui sono destinati tutti gli showrunner contemporanei, in un modo o nell’altro,
alla ricerca di un compromesso tra autorialità e collaborazione. Poche cose
incarnano altrettanto vividamente e letteralmente questa ricerca quanto il metodo
di scrittura di Milch. Si trattava in pratica di una performance artistica a partire
da un tema dato. Milch aveva cominciato a lavorare su quel metodo già ai tempi
di Hill Street, e arrivato a Deadwood l’aveva ormai perfezionato. Ed era
pienamente consapevole dell’impressione che potesse fare a chiunque altro.
«Per te potrebbe essere facile ridurlo a uno sfogo egocentrico», così Milch
ha detto a un visitatore che stava per osservare quello stesso processo sul set di
un’altra serie Hbo, Luck, che ha debuttato nel 2012. «Ma non lo è. È
qualcos’altro».
Un gruppo di persone dello staff di Luck, perlopiù giovani donne, stava
aspettando Milch davanti a una stanza dalle luci soffuse, nei suoi uffici a Santa
Monica. Sembravano delle vestali in attesa del sacerdote. Milch entrò, sistemò
alcuni cuscini e si sedette sul pavimento, assumendo una posizione che non
gravasse sul suo mal di schiena: la testa poggiata su una mano e le gambe
accavallate, in una posa che lo faceva somigliare a un modello particolarmente
goffo.
Di fronte a Milch c’era lo schermo di un computer, posto all’altezza della
sua testa. Alla scrivania alla sua destra sedevano un trascrittore e lo
sceneggiatore che avrebbe dovuto scrivere l’episodio; entrambi prendevano
appunti. Le vestali entrarono in fila indiana e occuparono silenziosamente il
divano e le sedie. Milch chiese allo sceneggiatore di aprire il file della prima
bozza della scena che doveva essere girata, e cominciò a dettare le correzioni.
«Fermo qui», diceva a un certo punto. «Non sarebbe meglio “Questo è ciò
che è diventata la chiesa, oggi”? A me piace di più».
«Sì», rispondeva lo sceneggiatore.
«Bene. Allora scrivi: “Questo è ciò che è diventata la chiesa, oggi”. Avanti.
Stop. Avanti». Il cursore seguiva doverosamente le sue indicazioni, e sullo
schermo avanzavano le pagine della bozza.
Milch descrive questo processo come una «trasformazione dei problemi di
spirito in problemi di tecnica». Se si fosse occupato lui stesso di digitare, così ha
spiegato, sarebbe potuto incappare nella trappola delle sue tendenze ossessivo-
compulsive. In questo modo, invece, oltre ad assistere al suo genio, il pubblico
diventava per lui uno sprone alla disciplina e lo incentivava a non fermarsi. Quel
giorno, in particolare, a un certo punto Milch arrivò alla descrizione di una scena
nella quale, dopo poche battute di dialogo, parecchi personaggi (tra i quali
l’allenatore Turo Escalante e i due malavitosi Bernstein e Demitriou) osservano
un cavallo da corsa, Mon Gateau, mentre compie una performance sorprendente.
Il monologo generato dalla correzione in diretta di questa scena potrebbe essere
tratto da un’opera di Samuel Beckett nel quale il narratore onnisciente cerca di
far filare la storia per il verso giusto:
Taglia il resto. Pausa, per favore. Scende verso il podio… Comincia a scendere verso il podio…
Comincia la sua discesa verso il podio. Doppio trattino. Virgola. Saluta distrattamente uno
sponsor. Doppio trattino. Adesso lo sponsor dovrebbe parlare. «Forte virgola eh, Turo?» Accetta
distrattamente i complimenti dello sponsor. Comincia la sua discesa verso il podio. Scende verso
il podio. Stop. Primo piano su Escalante, scende verso il podio, accetta distrattamente… «Forte,
eh, Escalante?» Escalante: «Ha corso bene, sì». Punto. «Ha corso bene, sì». Primo piano su
Escalante che si fa strada verso il podio… Togli i complimenti e metti le congratulazioni. «Ha
corso bene, sì». Bernstein e Demitriou. In piedi, guardano Mon Gateau al galoppo. Staccato
rispetto al resto del gruppo. Staccato alla testa del gruppo. Staccato in testa al gruppo. Staccato
in testa al gruppo. Doppio trattino. In piedi, virgola. Scorri. Qui taglia al resto. Taglia tra i
cavalli. Taglia e. Taglia le ultime due righe, dall’assistente in poi. Scorri. Stop.
Milch non aveva torto a pensare che il suo processo creativo potesse
sembrare, dall’esterno, un pezzo di teatro dell’assurdo, un rito religioso
compiaciuto e fine a se stesso, nel quale Milch interpretava il ruolo dello
sciamano. Eppure il contenuto era del tutto ordinario, essendo la
rappresentazione esternata di quel processo frammentario – enfatizzare da una
parte, tagliare da un’altra, sostituire una parola e poi tagliare ancora – che la
maggior parte degli scrittori mette in pratica nella solitudine e in silenzio. Allo
stesso modo, Milch aveva bisogno di esprimere a voce alta, e di far trascrivere,
quelle riflessioni collaterali – sui temi, i sottintesi, i richiami e così via – che nel
lavoro di altri scrittori rimanevano nascoste, inarticolate o al massimo accennate.
Così come alla fine le improvvisazioni di Milch si rivelavano oneste – era, o
almeno così sembrava, l’unico modo che aveva per esprimersi – allo stesso
modo il suo approccio da trance creativa sembrava qualcosa di più di un’assurda
performance artistica: un tentativo concreto, forse nato dal bisogno di disciplina,
di entrare in comunione con altre anime creative, ciò che Milch chiamava
«comunicazione tra spiriti». La Corrado una volta si chiese ad alta voce se lei o
gli altri sceneggiatori avevano una qualche influenza sul lavoro nel quale, in
linea teorica, erano stati coinvolti. Milch si fermò e la fissò negli occhi,
dicendole: «L’essenza di questo lavoro è la vostra essenza».
Quando gli fu chiesto se, avendo tutto il tempo del mondo, avrebbe
preferito scrivere ogni singola puntata di suo pugno, Milch ammise che l’idea lo
allettava: «La risposta è sì: se fosse possibile, scriverei tutto da solo. Nella mia
vanità e nel mio egoismo, penserei che sarebbe il modo migliore. Dentro di me,
però, so che la risposta migliore è: persino se hai tutto il tempo del mondo, è
meglio collaborare con i tuoi fratelli e le tue sorelle. Alla fine è quella
l’esperienza che ti arricchisce davvero. E possono succedere molte, ma molte più
cose di quando si cammina da soli».
In questa sua affannosa ricerca, Milch non è troppo diverso dagli abitanti
della sua Deadwood o da uno qualsiasi degli uomini difficili che hanno popolato
la Terza Età dell’Oro, da Tony Soprano in poi: tutti loro si sono sempre
barcamenati, a volte maldestramente, alla ricerca di un po’ di empatia, riuscendo
a trovarla di rado e spesso per poco tempo, ostacolati, in questa ricerca, dalla
loro stessa vanità, dalle loro paure e dai crimini commessi in passato.
«Siamo come un flusso, o un fiume, o qualcosa di simile», ha detto Milch.
«Siamo trasportati da una corrente nella quale la tecnologia ha rimpiazzato la
religiosità. E la storia che stiamo raccontando è quella di un uomo che cerca di
capire come cazzo si fa a nuotare».
10
Nel dicembre del 2003, cinque uomini bianchi, tra i trenta e i cinquant’anni,
trascorsero insieme alcuni giorni in un hotel di Tarrytown, nello stato di New
York. Di giorno si dedicavano a intense partite di racquetball. Chi aveva
prenotato l’hotel aveva avuto l’accortezza di sceglierlo privo di bar, per tutelare
la produttività, e di conseguenza, di sera, ai cinque uomini non rimaneva che
giocare a biliardo, e così fecero finché un sorvegliante non li cacciò dalla sala
ricreativa perché scommettevano soldi. Nel frattempo, durante i loro incontri nel
salone di una suite dell’hotel, questi uomini decisero di eleggere un sindaco
bianco in una città prevalentemente nera, di riformare un importante
dipartimento di polizia e, giusto per fare un esperimento, di legalizzare le
droghe.
The Wire si trovava nell’intervallo tra la seconda e la terza stagione, e i
quattro uomini a Tarrytown erano le menti della serie: David Simon, Ed Burns,
Bob Colesberry e George Pelecanos. Insieme a loro c’era anche William Zorzi,
ex collega di Simon al Sun. Zorzi stava lavorando a un libro che lui e Simon
speravano di avviare nella vicina Yonkers, per cui Simon l’aveva invitato a
partecipare al brainstorming organizzato da Colesberry per la terza stagione. Ma
Simon aveva anche un altro motivo: Zorzi era stato un giornalista politico, e
nonostante le esplicite lamentele dei suoi collaboratori principali Simon
progettava di sfruttare la terza stagione per provocare l’amministrazione locale.
Gli spettatori di The Wire, per quanti pochi potessero essere in quel periodo,
si erano ormai abituati alla tendenza della serie a prendere direzioni inattese. La
prima stagione era stata una tragedia autoconclusiva. Come la prima stagione dei
Soprano, si era conclusa con una sorta di punto morto narrativo. I dispositivi per
le intercettazioni che davano il titolo alla serie avevano perso importanza; le
indagini si erano arenate quando McNulty era stato esiliato alla divisione
marina; Avon Barksdale aveva reclamato la gestione del commercio della droga
nel Western District’s; e, in generale, da entrambe le parti il potere si era
affievolito, fino a vacillare, ma poi si era riconsolidato, implacabile e più saldo
che mai.
Ma al di là della sfida narrativa, la seconda stagione era stata comunque una
sorta di shock, poiché aveva spostato la maggior parte dell’azione sul fronte del
porto di Baltimora e aveva introdotto tutta una nuova schiera di personaggi. I
cinici dissero che la virata verso una sottotrama che includeva quasi
esclusivamente personaggi bianchi era stata un tentativo di riparare ai bassi
ascolti della prima stagione. Conoscendo la personalità di Simon, l’ipotesi era
molto improbabile. E se l’obiettivo era dare al pubblico di Hbo dei visi nei quali
potesse riconoscersi, proporre una manica di gretti portuali, camionisti e
sindacalisti era una mossa strategica alquanto discutibile.
Infatti, anche se The Wire non fosse mai decollata, il piano B di Simon era
sempre rimasto quello di continuare a scrivere libri sulla linea di Homicide e The
Corner. Aveva persino già parlato di un nuovo progetto con il suo editor, John
Sterling, che nutriva le migliori aspettative per una serie di libri di quel tipo.
Sterling disse che Simon stava trasformando Baltimora in ciò che l’immaginaria
contea di Yoknapatawpha era stata per Faulkner. Il nuovo libro avrebbe
documentato un anno della vita di quattro scaricatori di porto alle prese con
un’industria che sulla costa orientale era da tempo in declino, se non del tutto
scomparsa. Per Simon si trattava di raccontare «la morte del lavoro», un po’
come aveva già fatto nella seconda stagione di The Wire.
Non tutti furono contenti che The Wire fosse tanto cambiata. «Sembrava
proprio un’altra serie», ha detto Burns. Ma Simon era convinto di ciò che aveva
fatto: prendendosi la libertà di spostare l’attenzione dello spettatore su altri temi,
sosteneva Simon, si erano infatti presi il diritto di fare tutto ciò che volevano in
seguito. «Il nostro obiettivo era la città», ha detto Simon. «Se la serie andava
avanti, potevamo attaccare chi volevamo. E se invece si fosse fermata, se si fosse
ridotta alla solita storia di sbirri contro delinquenti, allora vaffanculo, io non
avrei comunque voluto farla. Non era per quello che avevo investito cinque anni
della mia vita. Io avevo bisogno di evolvermi. Dovevamo almeno provarci». Il
risultato sarebbe stato una specie di puzzle, nel quale ogni stagione avrebbe
aggiunto un nuovo pezzo dell’immagine fino a rivelare un’intera panoramica
sulla metropoli.
E se qualcuno obiettava che, a tal scopo, il titolo The Wire poteva sembrare
troppo specifico e poco ambizioso, Simon controbatteva che: «Nella mia idea il
titolo non ha mai indicato soltanto le intercettazioni. Il wire11 era piuttosto il
cavo del funambolo, e la serie parlava soprattutto delle connessioni tra la gente.
Era quello il livello che mi interessava. Siamo tutti connessi, in qualche modo».
Alcuni critici sostengono che la seconda stagione sia la più debole delle
prime quattro di The Wire, quella in cui il romanticismo ha quasi offuscato il
giudizio altrimenti lucido di Simon sulle realtà da lui raccontate. Senza dubbio,
la seconda stagione aveva anticipato i problemi, molto più grossi, che avrebbero
afflitto la quinta. Ma la seconda stagione è stata anche quella che ha rivelato
l’ampiezza che il progetto ambiva a raggiungere.
Alla fine della stagione, com’era relativamente prevedibile, Hbo rinnovò
The Wire. Simon, nel frattempo, cominciò a ragionare su uno spin-off incentrato
sulla politica, con la tentazione di intitolarlo The Hall. Ma quando il progetto si
arenò, Simon decise che The Wire poteva includere un tassello del puzzle che si
distaccasse di molto dall’obiettivo iniziale. E così propose di raccontare la
carriera di Martin O’Malley, il giovane avvocato bianco che nel 1999 riuscì,
contro qualsiasi previsione, ad accaparrarsi una fetta dell’elettorato nero e a
diventare sindaco di Baltimora e, in seguito, governatore del Maryland. «La cosa
più importante per un giornalista serio è chiedersi “Perché?”», ha detto Simon.
«Chi, cosa, quando, dove e come, queste sono cose che può scrivere anche un
quattordicenne con un telefono e uno schema. La cosa importante è sapere
perché una determinata cosa è successa. E quindi, se stiamo provando a spiegare
perché l’impero americano è in pericolo, perché non riusciamo più a risolvere i
nostri problemi o nemmeno a parlarne, allora dobbiamo cercare le risposte nella
sfera politica. E allora perché non farlo in un editoriale?»
Anche stavolta Simon dovette affrontare le resistenze dei suoi autori.
«Pensavo che sarebbe stato noioso», ha raccontato Pelecanos. «Eravamo
già appesi a un filo [in termini di ascolti] e avevo paura di fare qualcosa che
spingesse gli spettatori a fare altro ogni volta che entrava in scena il sindaco. Ma
la discussione si protrasse per tutta la stagione. Io mi lamentavo di questo tipo di
scene e David diceva: “Il punto è che a te scoccia scriverle, queste scene”. E
certo! Perché sono maledettamente noiose, David. Affidami una scena in cui
Bunk e McNulty sono seduti in un bar a parlare dei loro cazzi. Questo è quello
che mi piace scrivere».
I conflitto non riguardava soltanto i gusti personali, ma anche i tempi
materiali e quantificabili. Nonostante la capacità di approfondimento della
televisione seriale, il tempo dello schermo rimane comunque un gioco a somma
zero, e ogni minuto concesso a un nuovo personaggio o a una nuova sottotrama è
un minuto sottratto a qualcos’altro. Spesso chi segue una serie per diversi anni
finisce per ripensare alle prime stagioni con la nostalgia che prova un
primogenito: «Ricordate quando c’eravamo solo noi tre?»
«Se riguardi la prima stagione di The Wire, o la seconda», ha detto Burns
«troverai una trama A, e poi una trama B, e magari una piccola trama C.
All’improvviso, invece, noi ci trovammo con una trama A, una trama A, un’altra
trama A, e poi una B, un’altra B, e una C, e un’altra C… insomma, finivamo per
chiederci: “Ma che cazzo stiamo facendo?”»
Questo era il rovescio della medaglia dell’ambizione di Simon di espandere
la serie ogni stagione di più. Si palesava negli appunti e nelle scene scritti a
mano da Pelecanos su un taccuino, che cominciava descrivendo la terza stagione
con una grafia chiara e un discreto spazio tra le righe e che diventava poi sempre
più affollato e caotico, pieno di frecce, rimandi, cancellature, spostamenti e
parentesi, man mano che si andava avanti con gli episodi. Questi appunti offrono
anche degli scorci allettanti su tutte quelle sottotrame fantasma che sono
decadute in corso d’opera, alcune delle quali vedevano Omar che rapiva Poot,
spacciatore di poco conto, oppure (non meno inquietante) Herc che corteggiava
Beadie Russell.
Gli sceneggiatori non furono gli unici a pensare che ci fosse troppa carne al
fuoco. Un personaggio cui viene concesso meno tempo sullo schermo non può
lamentarsi, ma l’attore che lo interpreta comincerà a sentire un certo fastidio
all’altezza dell’ego. Nella seconda stagione, Seth Gilliam e Domenick
Lombardozzi si trovarono quasi nella stessa identica posizione dei loro
personaggi, Carver ed Herc: relegati ai margini dell’azione – significava girare
perlopiù in seconda unità con Bob Colesberry – e sempre più frustrati. «Non
facevamo che bestemmiare e lamentarci. Arrivai a telefonare al mio agente e
dirgli che non volevo più lavorare a quella serie», ha raccontato Gilliam. «Dissi
a Domenick: “Mi sento come se George Steinbrenner mi avesse assunto perché
un tempo ero quello che le suonava agli Yankees. E adesso mi tiene in panchina
in modo che non possa suonargliele più”».
Alla fine fu organizzato un incontro con Simon. «Gli dicemmo: “Siamo
molto frustrati”. E lui: “Ottimo. La frustrazione è molto stimolante”. E noi:
“Vero. Ma noi siamo troppo frustrati”. E lui: “I vostri personaggi sono dei
frustrati. Convogliate in loro la vostra frustrazione. Ma credetemi, nella terza
stagione avrete parecchio da fare. La terza stagione sarà eccezionale. Ci sto
ancora lavorando, ma posso dirvi per certo che Herc e Carver avranno parecchio
da fare. Quindi, per il momento, la frustrazione è una cosa buona”».
Burns non fu mai pienamente convinto che gli sforzi fatti per creare la
sottotrama politica fossero meritati. «Si sarebbe potuto fare senza bisogno di
risalire così gradualmente fino alle responsabilità del sindaco. Invece tutto il
processo ha richiesto una quantità di tempo sullo schermo pazzesca. E in più non
si riusciva a capire se O’Malley avesse fatto qualcosa o meno».
Pelecanos, al contrario, aveva cambiato idea: «Rimasi sorpreso quando vidi
quello che avevamo fatto e compresi che tutta la questione politica era
fondamentale per la serie. Era un altro livello di lettura. Fino a quel momento
non capivi in che modo le cose fossero legate, cos’era che inceppava il sistema.
E la risposta era la politica, secondo me. David aveva ragione fin dall’inizio».
In quella stagione c’erano altri due archi narrativi principali da scrivere. Anni
prima, mentre facevano i loro reportage per The Corner, una sera Burns e Simon
si erano ritrovati sulla Vine Street di West Baltimora. «Il sole stava tramontando
e il cielo era rossastro. E qualcuno doveva avere roba buona, da quelle parti,
perché tutti quelli che erano per strada sembravano stravolti», ha raccontato
Burns. «Così David mi fa: “Se solo potessimo metterli tutti qui. È questo che
bisognerebbe fare. Metterli tutti nello stesso posto, in modo che la polizia possa
fare il suo lavoro e gli abitanti possano prendere una boccata d’aria”».
Il risultato fu un esperimento mentale affascinante. Cosa succederebbe se le
droghe fossero legalizzate? Questa trama richiedeva inoltre l’inserimento di un
nuovo personaggio: il capitano di polizia Bunny Colvin, apparso brevemente
nella seconda stagione. Stufo dell’interminabile ripetersi di tafferugli legati alla
droga tipico del suo distretto, Colvin decide da solo di instaurare una zona di
commercio libero, chiamata «Hamsterdam», nella quale gli spacciatori possono
operare impuniti finché lasciano in pace il resto del vicinato.
«“Siamo tutti progressisti”, pensammo. “Mettiamo in pratica quello che
diciamo. Voglio davvero vedere cosa succede”», ha raccontato Pelecanos. «Non
è che volessimo sostenere una politica che, secondo noi, avrebbe risolto tutti i
problemi della città». No, in realtà tutto il contrario. Dando vita ad Hamsterdam,
gli sceneggiatori seguirono quell’esperimento fino alla sua logica, e apocalittica,
conclusione. Arrivati alla fine della stagione, vediamo Bubbles che vaga in una
zona franca che si è trasformata in un quadro di Hieronymus Bosch: incendi,
prostitute alla luce del giorno, donne stuprate, bande di ragazzini abbandonati a
se stessi. Per fare la scena nel modo giusto, ha raccontato Pelecanos, «abbiamo
girato ininterrottamente per due giorni, per assicurarci che alla fine sembrassero
tutti autenticamente esausti».
A proposito della scena finale, Burns ha detto: «Tutto quello che abbiamo
fatto, fondamentalmente, è stato togliere le pareti dalle case di Baltimora e
mostrare lo schifo che succede là dentro».
Alla fine la terza stagione era incentrata sull’impero di Barksdale e sul suo crollo
definitivo, accompagnato dall’ascesa del «nuovo Avon», come l’aveva chiamato
Pelecanos negli appunti presi a Tarrytown (ai quali, in seguito, avrebbe aggiunto
il nome di questo «nuovo Avon»: Marlo). Un altro appunto importante era:
«Stringer Bell viene ucciso da Omar o da B. Mouzone».
Essere un attore televisivo nella Terza Età dell’Oro significava vivere in
uno stato di ansia perenne, in cui la morte del personaggio (e quindi il tuo
licenziamento) era sempre in agguato, nascosta in ogni risvolto narrativo. Per
alcuni, la morte rappresentava soltanto l’inizio di una lunga e fruttuosa serie di
apparizioni sotto forma di fantasma o in sequenze oniriche. Ma la maggior parte
si rese conto che una delle caratteristiche di quel periodo, ovvero il fatto che i
personaggi, come le persone, potessero uscire di scena in qualsiasi momento,
aveva conseguenze significative sulla sicurezza del loro lavoro. Persino James
Gandolfini ammise che non dormiva troppo bene a sapere che il destino di Tony
era nelle mani di David Chase.
Quella situazione trasformò gli attori in critici e investigatori, dediti a
leggere con molta attenzione le nuove pagine del copione che gli venivano
consegnate in cerca del minimo indizio di una sventura imminente. «Ogni volta
che leggi un copione stai lì a cercare un indizio, e se viene rivelato troppo sul tuo
personaggio pensi: “Oh, merda. Stanno preparando il terreno. Dovrò andar
via”», ha raccontato Andre Royo. Lui e Michael K. Williams, ad esempio, erano
sicuri che uno dei loro personaggi, o Omar o Bubbles, sarebbe morto prima della
fine della serie. (Fu Williams a vincere questa cinica scommessa.) Dopo poche
stagioni, Royo sviluppò persino una specie di sindrome di Stoccolma: andrò da
Simon e gli chiese se tenere in vita Bubbles non andasse contro il realismo della
storia, considerato che di solito i tossici che fanno la spia non vivono a lungo.
«David mi guardò come a dire: “Non dire stronzate”», ha raccontato Royo.
«“Non so cosa succederà, ma so che deve esserci un po’ di speranza, altrimenti
la mattina la gente nemmeno si alzerebbe dal letto”».
L’ansia degli attori di The Wire era alimentata dal fatto che, tra le tante
qualità di showrunner, Simon non si distingueva particolarmente per la sua
capacità di interagire con gli attori. «David faceva fatica a spiegare alla gente
come sarebbe morta. Non era in grado di dirgli semplicemente: “Ehi, tu, il tuo
personaggio deve morire”. Affrontava sempre la cosa in modo strano», ha
raccontato Royo. A fare infuriare Larry Gilliard Jr., che interpretava D’Angelo
Barksdale, fu il modo in cui scoprì che il suo personaggio sarebbe morto
all’inizio della seconda stagione: Simon l’aveva raggiunto sul set e gli aveva
detto: «Ti piacerà tantissimo quello che ho scritto per il tuo personaggio, per
quest’episodio». E Gilliard aveva detto: «Fantastico!» Ma poi Simon aveva
aggiunto: «Figurati, voglio dire, probabilmente è il tuo ultimo episodio…»
Ma alla fine della terza stagione David non aveva ancora imparato la
lezione. A detta di tutti, infatti, i producer avrebbero voluto sedersi insieme a
Idris Elba e discutere con lui sui tempi e i modi del decesso di Stringer Bell, ma
quell’incontro non avvenne mai, perché Elba scoprì ogni cosa dal copione e,
com’era prevedibile, perse le staffe. A peggiorare le cose fu l’indicazione
secondo la quale Omar avrebbe dovuto pisciare sul cadavere di Bell e che si
ispirava a una tradizione reale delle gang di Baltimora. Elba andò sul set e
cominciò a dire agli altri attori che non avrebbe girato quella scena,
convincendone alcuni ad appoggiare la sua causa.
«Era incazzato, e lo capisco, perché, a conti fatti, lo stavamo licenziando»,
ha commentato Pelecanos, che aveva scritto l’episodio. «David e io andammo
nel suo camerino e cercammo di calmarlo. Gli dicemmo: “Questa è la fine del
tuo personaggio. Non possiamo tenerlo in vita, andrebbe contro la logica. E
questo è il modo in cui probabilmente andrebbero le cose nella vita reale”». Elba
era ossessionato dalla questione della pipì. Simon e Pelecanos gli spiegarono che
Omar non gli avrebbe pisciato addosso, ma che avrebbe pisciato su un
personaggio di finzione. «Non sul mio personaggio», ribatté Elba.
Simon e Pelecanos avrebbero potuto ricorrere alla risposta preferita di
David Chase nel caso di simili proteste: «Chi ti ha detto che il personaggio è
tuo?» Ma, al contrario, preferirono scusarsi e argomentare finché Elba non si
placò. La scena fu girata in un magazzino deserto di Baltimora e chiusa alle
quattro del mattino. Camminando verso la sua auto, in una strada poco
illuminata, Pelecanos udì dei passi veloci alle sue spalle e si voltò di scatto,
spaventato. Era Elba. «Volevo soltanto stringerti la mano», gli disse l’attore.
«Gli affari sono affari».
Alla fine della terza stagione Hbo aveva ormai tutte le ragioni per pensare di
aver fatto tutto il possibile per The Wire: le aveva permesso di andare avanti per
trentasette episodi nonostante i bassi ascolti e i pochi premi. E adesso la storia
principale, con la quale tutto era cominciato, ovvero il tentativo di mettere fuori
gioco Avon Barksdale e Stringer Bell, era giunta al termine. Dal punto di vista
economico, era difficile argomentare che la serie meritasse altro tempo o spazio.
Ma l’argomentazione era la forma d’arte preferita da David Simon. Lui e
Burns avevano già discusso diverse idee per altre due stagioni. Burns voleva
toccare il sistema della scuola pubblica, per esplorare quel mondo che aveva già
vissuto in qualità di insegnante. Simon, dal canto suo, aveva sempre creduto che
il modo ideale di chiudere la serie sarebbe stato quello di volgerne lo sguardo
affilato al mondo che lui conosceva meglio, quello della stampa.
«L’ultima critica che volevamo avanzare riguardava noi stessi, la cultura
dei media», ha detto. «Era una critica ai quotidiani, ma anche una critica al
pubblico, a quanto sia diventato plagiabile e semplificato, col risultato che gli
americani non riescono più a riconoscere i loro veri problemi, figuriamoci a
risolverli».
In seguito arrivarono voci secondo le quali era stata scartata un’ipotetica
sesta stagione incentrata sull’immigrazione ispanica, ma Simon le smentì, e
spiegò che una stagione con quel tema era stata proposta da David Mills, ma che
avrebbe dovuto essere inserita prima degli eventi della quarta stagione, che
instradavano la serie verso la sua conclusione. Inoltre, sarebbe stato necessario
fermare ogni cosa per permettere agli sceneggiatori di documentarsi al fine di
mantenere il livello di verosimiglianza della serie. E il tempo era una di quelle
cose che Simon non aveva, mentre cercava di salvare la sua serie prima che
venisse spazzata via dal vento. Durante quel lungo intervallo alcuni attori
avevano già cercato altri lavori: Andre Royo, per dirne uno, aveva fatto un
provino per interpretare Darnell “Gamberone” Turner nella sitcom di Nbc My
Name Is Earl.
Simon e Burns lavorarono a una storia incentrata su quattro ragazzi di una
scuola elementare che, nel corso della stagione, perdono la propria innocenza in
diversi modi, uno più straziante dell’altro. A presentarli sarebbe stato l’ex sbirro
Roland Pryzbylewski, il quale, come Burns, aveva lasciato le forze dell’ordine
per diventare insegnante nelle scuole pubbliche. (C’era stato un momento,
durante il brainstorming per la terza stagione, nel quale si era deciso che sarebbe
stato Carver a diventare insegnante.)
A quel punto Simon sfoggiò i suoi strumenti di persuasione: proporre uno
storytelling accattivante, sottolineare lo sdegno morale… e supplicare. «Per me
non è un problema fare il leccaculo se poi quel culo si decide a fare quello che
deve fare», ha dichiarato. «Dammi un culo importante di Hbo e lo tirerò a
lucido».
Chris Albrecht ricorda che ogni volta che arrivava il momento di decidere
se confermare The Wire o meno, Hbo cominciava a ricevere una serie di fax.
«David mandava queste lettere – intense, interlinea singola, e lunghe diverse
pagine – nelle quali spiegava perché dovevamo assolutamente confermare la sua
serie. Arrivato alla terza pagina eri così sfiancato che dicevi: “Ok, ditegli di
venire qui”».
Carolyn Strauss ha sempre considerato The Wire come un figlio prediletto,
o quantomeno come un figlio che ha bisogno di essere protetto più degli altri.
«Credo che dipendesse dal fatto che I Soprano aveva ricevuto tutte le attenzioni
possibili», ha detto la Strauss. «Mentre così non era stato per il nuovo pargolo».
Al contempo, la Strauss sapeva che investire in una nuova stagione era un
rischio, e in che direzione stava soffiando il vento. «Capivo che Chris era sotto
pressione, e che non sarebbe stata una decisione facile».
Ricorda Albrecht: «Avevamo portato avanti la serie per tre stagioni. La
terza aveva anche un gran bel finale. Per quanto ci riguardava, poteva chiudersi
lì. Era tempo di congratularci per una serie che nessuno stava guardando – e di
cui pochi stavano scrivendo – e di voltare pagina». Al contempo, Albrecht
rimaneva disponibile nei confronti di Simon. «Il fax lo lasciammo acceso. Né gli
impedivamo di raggiungerci in ufficio».
Anzi, fu allora che Simon diede il miglior pitch della sua vita. Come
sempre, non si soffermò tanto sui dettagli della quarta stagione, quanto sulla
necessità artistica di andare avanti: non aveva finito, aveva ancora qualcosa da
dire. E quando lasciò gli uffici, Albrecht si voltò verso la Strauss. «Mi sa che
dobbiamo farlo per forza», le disse. E lei: «Ma va?»
«Fu uno di quegli incontri che vanno come ti auguri che vadano sempre»,
ha detto Michael Lombardo, ai tempi vicepresidente operativo dell’area
produzione e programmazione, presente al pitch. «Uno sceneggiatore
appassionato e brillante che spiega il suo progetto in modo convincente, e il
network che risponde in modo sensato. Chris ascoltò, capì e rispose. Fui molto
orgoglioso di lui. Fu una giornata memorabile a Hbo».
«Sinceramente», ha detto Albrecht, «credo che realizzare la quarta stagione
sia stato meno impegnativo che richiamare David e organizzare un altro
incontro».
Secondo Nina Noble, la produzione della quarta stagione fu uno dei punti più alti
della serie, nonostante l’evidente infrazione di quella vecchia regola dello show
business che non vuole che si lavori con bambini e animali. «Sinceramente,
David e io avevamo trascorso la terza stagione a metabolizzare la morte di Bob e
a riprenderci. Soltanto nella quarta stagione abbiamo capito di essere di nuovo
presenti a noi stessi».
La presenza dei bambini non era l’unica differenza tra la quarta stagione e
le precedenti. Dominic West diventava sempre più inquieto. Adesso che aveva
un figlio a Londra si era lasciato alle spalle i bagordi e trovava impegnativa
l’ipotesi di interpretare quel bevitore e donnaiolo di McNulty per un’altra
stagione, a tempo pieno, soprattutto adesso che c’era un oceano di mezzo. Era
inoltre tentato dalla possibilità di ingaggi più importanti, essendo tra i pochi
attori di The Wire a essere diventato discretamente famoso grazie alla serie. Si
diceva che sarebbe stato il nuovo James Bond. Per tutti questi motivi, aveva
chiesto che nella quarta stagione il suo personaggio passasse in secondo piano.
La stagione precedente si era conclusa con McNulty che abbandona felicemente
l’unità speciale. Ed è in questa condizione che rimane per quasi tutta la quarta
stagione, dopo aver apparentemente smesso di dare anima e corpo al
dipartimento ed essersi dedicato alle gioie della convivenza domestica con la
poliziotta portuale Beatrice Russell.
Al contempo, c’era bisogno che West continuasse a comparire in ogni
episodio per delle brevi scene, e la produzione si fece spesso in quattro per
adeguarsi ai suoi orari, ad esempio girando parecchie di queste scene, pur
appartenenti a episodi diversi, ogni volta che West si spostava a Baltimora, una
settimana al mese, in modo che potesse tornare a Londra il prima possibile.
Tutto ciò creò un certo livello di stress in quello che, di solito, era un gruppo di
lavoro sorprendentemente sereno. Ma quando West cominciò a presentarsi sul
set impreparato e imbronciato, gli altri attori pensarono che fosse arrivato il
momento di fare qualcosa. Così, un gruppo di attori, tra cui la Sohn, Royo e
Gilliam, affittò una stanza d’albergo e organizzò un’«intervention» gentile ma
determinata.
«Volevano dirgli: “Ascolta, fattene una ragione. Quando sei qui, devi essere
qui”», ha spiegato la Noble, che seppe di quell’incontro solo a cose fatte. «Era
una cosa che avrei dovuto fare io, prima o poi, ma se ne occuparono loro, e a
meraviglia». E, a quanto pare, West si rimise subito in riga.
Diversamente da altre stagioni, stavolta la produzione si trovava nella
situazione vantaggiosa di poter girare tutti e dodici gli episodi prima che si
cominciasse ad andare in onda, e questo rendeva le cose un po’ meno stressanti.
(Una battuta popolare tra chi conosceva Simon diceva che non era un caso se la
sua casa di produzione si chiamava Blown Deadline [«Scadenza Sforata».)
Quelle tempistiche si rivelarono utili su un altro aspetto fondamentale. La
rivoluzione delle opzioni di visione, infatti, era appena cominciata. Nel 2001
Hbo aveva attivato il suo servizio on demand. L’anno dopo le vendite dei dvd
superarono per la prima volta quelle delle vhs; l’immissione sul mercato di intere
stagioni dei Soprano e di altre serie fu considerata lo stimolo principale per la
diffusione del nuovo supporto. Nel frattempo erano arrivati sul mercato TiVo e
gli altri videoregistratori digitali, e in poco tempo avevano emancipato qualsiasi
programma dal rigido palinsesto televisivo.
Il network decise così di ricorrere ad alcune di queste novità per
intraprendere l’ultimo disperato tentativo di dare un pubblico a The Wire. Le tre
stagioni precedenti furono pubblicate in dvd. Nel frattempo, i tredici episodi
della nuova stagione furono inviati ai critici e fu chiesto loro di guardarli tutti
prima che la serie andasse in onda. Si trattava di una tacita ammissione che uno
dei punti forti della nuova tv, ovvero la capacità di strutturare le storie come in
un romanzo, poteva essere anche una debolezza: potevano volerci anche quattro
o cinque ore prima che una serie desse «dipendenza», così come spesso c’è
bisogno di leggere le prime cento pagine di un libro prima di esserne rapiti.
Questo era stato un problema specifico di The Wire: il suo gergo incomprensibile
e le sue trame complesse rendevano più difficile che mai, per un nuovo
spettatore, entrare velocemente nella storia e conoscerne i personaggi.
L’ostacolo maggiore incontrato dai fan della serie che cercavano di consigliarla
agli amici era il sospetto diffuso che si trattasse di una sorta di compito a casa,
una serie che faceva riflettere ma non era affatto divertente.
I critici erano sempre stati benevoli con The Wire, persino proponendosi a
volte come dei veri e propri messia della serie (tutto ciò prima che subentrasse
l’era dei tweet e dei recap ventiquattr’ore su ventiquattro). Dopo aver guardato la
quarta stagione cominciarono a elogiarla con sincero trasporto. «Questa stagione
di The Wire vi toglierà il fiato», scrisse il New York Times. «Questa è tv al livello
della grande letteratura moderna, un’epopea metropolitana straziante e
d’impatto», disse TV Guide. E su Time James Poniewozik scrisse: «Sono riusciti
a fare ciò in cui hanno fallito molti autori sinceramente interessati al sociale:
scrivere una storia sui sistemi sociali, con tutte le loro complessità, e renderla
umana, divertente e, soprattutto, avvincente».
Per invogliare la gente a guardare la serie, Hbo cominciò a proporre nuovi
episodi on demand non appena l’ultimo episodio era stato trasmesso. Il che
generò confusione e sembrò per certi versi una mossa disperata, riducendo quel
senso di irripetibilità provato dai fan con l’avvicinarsi della domenica, ma
permise a nuovi spettatori di approcciarsi alla serie. Senza dubbio, ebbe dei
vantaggi: gli indici d’ascolto medi della quarta stagione furono, a seconda delle
fonti, compresi tra i 4,4 e i 5,5 milioni di spettatori, molti di più dei 3,9 della
terza stagione. Restava comunque un numero sorprendentemente basso per gli
standard di un mezzo di comunicazione di massa. Ma un dato più importante fu
la frequenza con la quale, improvvisamente, The Wire cominciò a essere
presente nelle conversazioni di una certa classe di spettatori di Hbo, quelli colti,
progressisti e residenti in una grande città: a legioni cominciarono a recuperare
le prime tre stagioni mentre discutevano della quarta in tempo reale, uno dei
pochissimi casi in cui una serie fu guardata dalla maggior parte dei suoi
spettatori senza rispettare la corretta sequenza. In certi circoli, non aver visto The
Wire diventò un’inammissibile infrazione delle norme sociali.
Per tutti questi motivi, e altri ancora, quando cominciò la quinta stagione di The
Wire molte delle persone coinvolte ebbero la sensazione che il punto più alto
della serie era ormai stato toccato.
«Pensavo che qualsiasi cosa avessimo fatto dopo la storia dei bambini non
avrebbe comunque retto il confronto. Sul piano emotivo era impossibile
superarla», ha detto George Pelecanos.
Anche quelli di Hbo, probabilmente, pensarono che il meglio fosse ormai
alle spalle e che fosse tempo per un epilogo. Il network ordinò un’ultima
stagione, ma fu categorico sul fatto che dovesse essere più breve delle
precedenti. Simon fece di tutto per convincerli a mantenere i soliti dodici o
tredici episodi, ma Hbo non si schiodò da dieci.
Si trattava sotto ogni aspetto di un cambiamento molto importante. Per
qualche motivo, l’ultimo decennio aveva dimostrato che stagioni da dodici o
tredici puntate da un’ora costituivano la misura ideale, naturalmente – quasi
magicamente – adatta a raccontare un certo tipo di storie. A detta di alcuni, il
numero tredici era soltanto un superstite casuale dei tempi in cui le stagioni
duravano ventidue episodi, quando i network chiedevano tredici episodi pronti
da mandare in onda e poi altri nove su cui lavorare in itinere, a patto che le cose
si mettessero bene. David Milch aveva una spiegazione più numerologica per la
scelta del dodici, che dopo serie come I Soprano era diventato lo standard
alternativo:
«Se è vero che narrazione secondaria è costituita da ciò che si impara (o
non si impara) nel corso del tempo, allora forma e contenuto si influenzano a
vicenda. E così il dodici, che in origine è solo un attributo formale del
calendario, diventa un principio regolatore interno alla narrazione», ha detto
Milch, sottolineando che anche il giorno è fatto di due parti di dodici ore.
Ma al di là delle spiegazioni, questo nuovo genere di drama sembrava
perdere il passo ogni volta che la sua scansione tipica veniva modificata, vuoi da
una stagione più corta, vuoi dalla presenza di episodi in due parti. L’impressione
era che il ritmo ne risentisse, e che lo storytelling si inceppasse. Dal momento
che anche durante le sue stagioni complete The Wire dava l’impressione di avere
da raccontare molto più di ciò che il tempo materiale concedeva, la limitazione a
dieci episodi non poteva che costituire un problema.
E Simon aveva parecchie cose da raccontare, e avrebbe avuto bisogno di un
decennio per spiegare, con rabbia e passione, cos’era andato storto nel suo
adorato Baltimore Sun. In particolare, Simon mirava ai due editori, John Carroll
e Bill Marimow, che avevano preso il timone del Sun all’inizio degli anni
Novanta. Questi intrusi, secondo lui, avevano inaugurato una nuova mentalità
sciatta e corrotta più orientata alla vittoria dei Pulitzer che a fornire un servizio
alla comunità o a far funzionare meglio le cose. Nel 2000 Simon aveva attaccato
un reporter del Sun, Jim Haner, in un articolo sul magazine Brill’s Content:
secondo le accuse di Simon, Haner, vincitore di numerosi premi, non lesinava di
romanzare o addirittura inventare le notizie di cui scriveva, con il beneplacito di
Marimow e Carroll. Ai tempi, per via di quell’accusa, Simon era stato fatto
passare per un ex impiegato rancoroso e vendicativo. Ma adesso che aveva un
po’ più di visibilità Simon decise di tornare sullo stesso territorio e creare un
Baltimora Sun finzionale, guidato da direttori gelidi e arroganti che davano
spazio a un contaballe seriale.
Sotto la storia, e al di là dei rancori personali, ciò che gli premeva
raccontare era come il mezzo era catastroficamente scollato dalla realtà che
pretendeva di raccontare. Secondo Simon, questo era l’ultimo pezzo del grande
Perché? alla base di The Wire. Era riassunto in una scena, forse la migliore della
stagione, nella quale Omar, che durante le prime cinquantasette ore della serie
era cresciuto a dismisura fino a diventare una leggenda vivente il cui nome
risuonava nelle strade al suo passaggio – «Arriva Omar! Arriva Omar!» – non
viene nemmeno chiamato per nome dal giornale della città il giorno in cui viene
ucciso.
Persino per il reporter, che Simon chiaramente ammira, si tratta soltanto
dell’ennesimo «nero, trentaquattro anni, ucciso con un’arma da fuoco in un
alimentari di West Baltimore».
Era una scena sofisticata quanto sconvolgente, che diceva tutto sui due
mondi radicalmente opposti raccontati dalla serie, quello dei bianchi ricchi e
potenti e quello dei neri poveri e reietti, e sull’inutilità del tentativo di creare un
ponte. Sfortunatamente, la parte di trama dedicata alla redazione era
preponderante. La verità, pura e semplice, è che per diversi motivi importanti,
dal punto di vista drammaturgico la quinta stagione fu un fallimento. Tutte le
lamentele avanzate dagli autori di Simon nelle stagioni precedenti, a proposito di
un eccesso di nuovi personaggi e sottotrame, avevano adesso ragione d’esistere:
l’ex carcerato Cutty era sparito. Pryzbylewski, sparito. Due dei quattro ragazzini
della quarta stagione, spariti. E così via. Soltanto che stavolta le perdite
arrivarono senza essere compensati da rimpiazzi altrettanto ricchi e
tridimensionali. La redazione di Simon risultava schematica, i suoi villain troppo
palesemente cattivi, e i suoi eroi troppo marcatamente eroici. (Persino il nome
del fabbricatore di notizie, Scott Templeton, era un riferimento grossolano al
traditore della Tela di Carlotta.) Molti fan, guardando la serie che avevano
imparato ad amare e sapendo che la nuova stagione era più breve delle altre,
cominciarono a pentirsi di ogni minuto passato in compagnia di questi intrusi. E
la legnosità dei personaggi instillò il seme del dubbio anche in coloro per i quali
la redazione era il più familiare tra i mondi rappresentati da The Wire. Se Simon
si era sbagliato a tal punto su questi personaggi, cominciarono inevitabilmente a
chiedersi, non era possibile che si fosse sbagliato anche sugli altri?
Curiosamente, nella writers’ room le obiezioni si concentravano invece su
un’altra sottotrama: quella in cui McNulty (tornato in prima linea per la stagione
finale), in un ultimo disperato tentativo di orientare le energie del dipartimento
contro le infrastrutture del mercato della droga, si inventa un finto serial killer.
Simon si era trastullato con quella storia per anni; all’inizio era parte di un
romanzo abbandonato che Simon aveva cominciato a scrivere nel 1996 e di cui
aveva soltanto cento pagine. Quella trama non era certo più lontana dalla realtà
di quanto lo fosse Hamsterdam, ma fu origine di molte discussioni sia nella
writers’ room che tra gli spettatori, per i quali quella svolta aveva dato fondo alla
loro sospensione dell’incredulità.
Tutto ciò diede vita a qualcosa di inedito nella storia di The Wire: un coro
di recensioni negative. «Cos’è successo alla nostra serie?», recitava il titolo di un
articolo rappresentativo uscito sul Washington City Paper. «Simon potrebbe
ancora raddrizzare la barca», diceva l’articolo, ma restava il fatto che The Wire
era «in un vicolo cieco, impelagata in quel mondo stereotipato tipicamente
televisivo che fino ad allora era riuscita a evitare con coraggio».
Non si può dire che Simon reagì alle critiche con sobrietà e stoicismo. Al
contrario, ne ricavò un sillogismo sprezzante e inoppugnabile: se i media non
avevano gradito la quinta stagione, era perché si sentivano minacciati dalla sua
critica ai media. La sua fu ovviamente una reazione permalosa. (E non importava
che fosse piuttosto ardito associare la critica televisiva moderna e quel tipo di
giornalismo tradizionale da lui raccontato.) Le prolisse argomentazioni rivolte a
chiunque avanzasse un’obiezione riuscirono a contrastare le critiche più
sostanziali all’artificiosità della stagione, ma è difficile immaginare che quella
stessa arringa avrebbe convinto gli altri membri della famiglia Simon durante
una delle loro gare di dialettica a Silver Spring.
Com’era successo? Perché un programma così acuto e sicuro di sé si
perdeva proprio nella fase finale? Una delle risposte più comuni è che Simon
fosse troppo vicino al materiale e che il suo giudizio fosse falsato dai
risentimenti in sospeso. Ma lo stesso Simon aveva una diagnosi più complessa.
parlando del ruolo da lui ricoperto nella quarta stagione, quando Burns era
intento a portare avanti la sua critica al sistema scolastico, dichiarò: «Chiunque
stia cercando di dire qualcosa, di spiegare una teoria, non può essere veramente
pericoloso se viene lasciato da solo. C’è bisogno di qualcuno che gli chieda: “Sei
sicuro che si possa fare in questo modo?” Ogni volta che sta cercando di
spiegare ciò che vuole dire, c’è bisogno di qualcuno che obietti: “Sì, ma…”»
Durante la quinta stagione, però, non c’era nessuno, nella writers’ room di
The Wire, in grado di dire «Sì, ma…» a Simon. Aveva perso i suoi interlocutori
migliori. Pelecanos ammise di esser meno preso dalla serie: «Sono sicuro che ci
fosse un forte calo di interesse», ha dichiarato, riferendosi alle trame che
riguardavano la redazione. «Non c’era più passione nell’aria». Inoltre Burns
mancava sempre più spesso. All’inizio aveva diviso le sue energie tra The Wire e
la miniserie Generation Kill. Dopo un certo numero di episodi era sparito per
cominciare a preparare le riprese della miniserie in Sudafrica, Namibia e
Mozambico. Nel corso della quarta stagione, Simon l’aveva aiutato a tenere a
bada i suoi progetti in continua espansione. Ma quando arrivò la quinta stagione
Burns non restituì il favore e tenne per sé la sua abilità nel creare trame
ingegnose e nel definire i personaggi. Anzi, in seguito avrebbe addirittura
dichiarato di non averla mai guardata, la quinta stagione.
Simili problemi avrebbero afflitto Treme, la serie successiva di Simon per
Hbo, scritta senza Burns, che raccontava le condizioni di New Orleans dopo
l’uragano Katrina, e che era tanto densa di atmosfera, politica e passione quanto
scarna in termini di intreccio e approfondimento dei personaggi. Nel frattempo,
nonostante i mille progetti, Burns non produsse nulla nei cinque anni successivi
a The Wire e Generation Kill.
La verità – ricordando la differenza che passa tra i Wings e i Beatles –
potrebbe essere che Simon e Burns, nonché i loro ego da autori, avevano
bisogno l’uno dell’altro per dare il meglio.
«Devi scrivere per te stesso e per gli altri autori. Tutto qui», ha detto Simon,
ripensando al passato e ricorrendo alla sua analogia preferita. «Se chiedi al
pubblico cosa vuole ti risponderà sempre gelato. “Ma bisogna mangiare anche le
verdure”, gli spieghi, e lui insiste: “No, io voglio il gelato. L’ultima volta mi hai
dato il gelato e mi è piaciuto”. Il pubblico è come un bambino».
Completate le sessanta ore della serie, inclusa la quinta stagione, Simon
poteva essere certo di aver proposto qualcosa di mai visto prima in tv: un’opera
letteraria col valore nutrizionale del cavolfiore e il sapore del gelato, considerata
quasi unanimemente, almeno fino a cinque anni dopo la sua fine, come «la
miglior serie tv della storia». Potrebbe anche essere stata l’ultima volta che Hbo
si è aggiudicata questo primato.
11. In inglese la parola wire, comunemente utilizzata per indicare un dispositivo per le intercettazioni,
significa in origine «cavo» o «filo elettrico». [n.d.t.]
TERZA PARTE
GLI EREDI
11
Nella primavera del 2012, su Hbo, esordì la serie Girls, che in puntate da
mezz’ora raccontava di quattro amiche, poco più che ventenni, che cercano di
costruirsi una vita nella New York post-Sex and the City. Per circa tre settimane,
fu la serie di cui tutti parlarono, twittarono e scrissero (sui blog), perlopiù
elogiandola, quantomeno in quel circuito in cui ogni serie Hbo diventava oggetto
di discussioni quasi sacrali. Girls ricevette tutte queste attenzioni perché (a) era
fatta bene, anche se forse non era così profonda da giustificare tutte le analisi
psicanalitiche proposte dai suoi commentatori; (b) la sua creatrice e showrunner
era una donna, un’evenienza ai tempi ancora rara, pur essendo trascorsi dieci
anni dall’inizio di una rivoluzione artistica che, su qualsiasi altro versante, era
stata incredibilmente fruttuosa; e (c) la donna in questione, Lena Dunham, aveva
soltanto ventisei anni.
Alla Dunham, che ai tempi dell’esordio dei Soprano aveva soltanto tredici
anni, l’idea che la tv potesse essere stata una «terra desolata» doveva risultare
assurda come la diceria secondo la quale, un tempo, i telefoni avevano avuto dei
fili. In tal senso, era la rappresentante ideale di quel gruppo di showrunner e
innovatori televisivi che aveva ereditato e consolidato la Terza Età dell’Oro.
Benché fosse solo dieci o vent’anni più giovane rispetto agli uomini che avevano
inaugurato la trasformazione della tv, questa nuova generazione si era formata in
un modo completamente diverso. Non erano aspiranti giornalisti, registi o
romanzieri che si erano persi per strada. Erano in tutto e per tutto autori
televisivi, alleggeriti da tutte le ansie tipiche di un David Chase sulla direzione
da dare alla propria carriera. Se avevano affrontato una dura gavetta nelle trincee
dei vecchi network, l’avevano fatto soltanto per il tempo necessario a desiderare
qualcosa di più grande e soddisfacente, qualcosa che consideravano in un certo
senso come dovuto. Hbo fu il canale che aprì loro la porta, ma non quello che
ospitò i lavori migliori, approdati invece spesso sui canali basic cable, quelli
interrotti dai messaggi pubblicitari, come nel peggiore dei tempi andati.
«Non c’era nulla di segreto nella formula di Hbo», avrebbe detto in seguito Chris
Albrecht. «Era una buona formula: non sei obbligato a fare ventidue episodi.
Non devi proporre dieci nuove serie ogni mese. Non devi provare a prevedere se
il pubblico la guarderà o no. Non interferisci troppo nel processo creativo. E
investi un po’ di soldi. Dopo qualche tempo, dimostrammo che era possibile
coniugare qualità e successo, e cioè soldi. E una volta che hai dimostrato questo,
il numero delle persone che vogliono entrare nella partita aumenta
velocemente».
Ai tempi in cui era in ascesa, Fox aveva concluso un accordo cruciale: se
gli operatori via cavo volevano il diritto di trasmetterla – il che significava avere
il football NFL, I Simpson e altri programmi molto ambiti – gli operatori non
dovevano pagare soltanto in denaro, ma anche concedendo larghezza di banda.
Fox, in altre parole, voleva altri canali, e fu così che si ritrovò con una curiosa
appendice chiamata Fx, senza avere idea di cosa farsene.
Dal suo lancio nel 1994, la programmazione originale è stata uno dei
biglietti da visita di Fx (o, come si preferiva scrivere, ai tempi: fX): «Tv appena
sfornata ogni giorno», era il loro motto. Trasmessa dall’«Appartamento», un
locale di seicento metri quadrati nel Flatiron District di Manhattan, l’offerta del
canale includeva programmi sconclusionati su temi come gli animali domestici e
l’antiquariato ed era aperta da un programma caparbiamente bizzarro chiamato
Breakfast Time, condotto da Laurie Hibberd, Tom Bergeron e da un pupazzo
indefinito di nome Bob. (Bergeron avrebbe in seguito condotto America’s
Funniest Home Videos e Dancing with the Stars. Uno dei contributi più duraturi
di fX alla nuova tv fu proprio l’impiego di futuri conduttori di reality tv
statunitensi, come Jeff Probst di Survivor e Phil Keoghan di The Amazing Race.)
Il resto del palinsesto era costituito da repliche di programmi e film vari.
Ma arrivati al 1997 l’offerta si era ridotta alle repliche. Fx non faceva altro
che proporre produzioni della sua società madre, in particolare quelle rivolte a
uomini tra i venti e i quarant’anni. La rete raggiungeva a malapena trenta milioni
di case e non arrivava a New York. In termini di ascolti e di identità aziendale,
non avrebbe fatto grande differenza se non fosse esistita affatto.
Poi, nel 1998, Peter Chernin, il presidente e direttore operativo di News
Corporation, chiese all’affabile Peter Liguori di dirigere il canale. Liguori
ricorda in che modo Chernin avanzò la proposta: «Ho una buona e una cattiva
notizia. Quella buona è che ti propongo di dirigere un canale. Quella cattiva è
che stiamo parlando di Fx: è pura immondizia, quasi sicuramente le cose
andranno malissimo e io sarò costretto a licenziarti».
«Il sottotesto era: “Peggio di così non può andare, quindi provaci”», ha
spiegato Liguori.
Liguori aveva già una certa esperienza con i network in cerca di un’identità
più chiara. Era stato viceresponsabile marketing da Hbo, sotto Michael Fuchs,
proprio quando Hbo aveva cominciato a ragionare su una programmazione
originale. Aveva contribuito alla nascita dello slogan «Non è tv. È Hbo», (la
paternità fu anche rivendicata dall’agenzia pubblicitaria Bbdo), anche se gli fu
riconosciuto soltanto quello che Liguori definiva «lo slogan peggiore della storia
di Hbo»: «È in onda qualcosa di speciale».
Ora, affinché lo aiutasse a riconcepire Fx, Liguori ingaggiò un altro
executive che aveva visto iniziare la rivoluzione della tv, Kevin Reilly, che dopo
aver convinto Brillstein-Grey a produrre I Soprano stava cercando nuove strade.
Avendo cominciato da Nbc, Reilly non riusciva a immaginare un ritorno alla tv
generalista. E aveva cominciato a intuire le opportunità dell’universo via cavo.
Al contempo, Reilly era ancora scettico quando si accordò con Liguori per
un pranzo di lavoro. I due discussero guardando Lifetime, che ai tempi era la rete
via cavo di maggior successo, e produceva film scadenti ma riconoscibili, rivolti
al pubblico femminile. Liguori immaginava di fare qualcosa di simile ma
rivolgendosi a giovani uomini, un canale sul modello di Maxim, una rozza rivista
inglese rivolta al pubblico maschile, che dominava le edicole americane alla fine
degli anni Novanta. Il nuovo regime fu inaugurato da serie come Son of the
Beach, parodia di Baywatch prodotta da Howard Stern, e un programma
sboccato intitolato The X Show. «Pensai che si trattasse di una strategia
pessima», ha detto Reilly.
Ma nel corso del pranzo Reilly cominciò a cambiare idea. Liguori
abbandonò i dettagli dei singoli programmi e si concentrò sull’intenzione di dare
a Fx un’identità riconoscibile, ispirata a Hbo, dove I Soprano e Six Feet Under
stavano facendo parlare di sé. «Disse: “È tv più generalista, d’intrattenimento,
ma è possibile darle un’identità lavorando sullo stile”», ha raccontato Reilly. «E
più parlava più sembrava che ciò che voleva fare fosse simile a Hbo. Pensai:
“Ok, questo posso farlo”».
E così quella diventò la loro frase chiave: «Hbo gratis».
Ricorda Liguori: «Riconsiderai lo stato dell’arte e pensai: “Da un lato c’è
Hbo, che viene elogiata per il suo palinsesto originale, e non si fa problemi ad
affrontare argomenti per adulti senza girarci troppo intorno. E dall’altro lato ci
sono i canali basic cable generalisti: Tnt, Tbs e Usa”. Nel centro, il nulla. […]
Avevo l’impressione che, nella sfera delle tv a pagamento, ci fosse tutta una fetta
di pubblico inascoltata. Lo spiegai a Chernin e Murdoch: “Non c’è motivo che si
lasci a Hbo il monopolio sull’autenticità”».
I vertici di Fox concordarono, ma lasciando pochi dubbi sul fatto che Fx
rimaneva una sorta di figliastro poco amato. Gli uffici di Fx si trovavano a
Sepulveda Boulevard, ed erano ben lontani dai locali imponenti e maestosi della
Fox a Century City. Reilly, che adesso guadagnava la metà di quello che
prendeva da Brillstein-Grey, ricorda che ne rimase scioccato.
«Venivo da un posto nel quale alle pareti c’erano appese opere d’arte da
museo. Se volevi un nuovo sottobicchiere bisognava chiamare un designer
d’interni che doveva approvare il tuo sottobicchiere da cinquecento dollari.
Arrivato negli uffici di Fx, invece, trovai subito un’enorme macchia nella
moquette. C’era un buco nella parete, coperto a metà da un quadro. Chiesi alla
segretaria se potevo avere due sedie uguali, e lei mi rispose che non potevano
permetterselo. Ricordo il viso impallidito della mia assistente, sembrava un
fantasma, e di certo si chiedeva: “Perché mai ti ho seguito in questo posto?”» I
provini avvenivano in una sala conferenze la cui carta da parati, come riferito da
Liguori, era una sorta di velluto verde. «Continuavi a guardarti intorno in cerca
di quel frigorifero verdolino in voga negli anni Settanta», ha detto Liguori.
Ma quello non fu lo shock maggiore, per Reilly: «Diedi un’occhiata agli
ascolti e, voglio dire, non avevo mai visto la virgola a sinistra del numero.
Avevo visto rating come “7,0”, ma mai “0,7”. […] Chiesi: “A che cifre
dobbiamo puntare per considerarlo un successo? Che ascolti ha Lifetime?”
Lifetime faceva l’1,5. Ma la risposta fu: “Ma non arriveremo mai a tanto. Se
arriviamo all’1% saremo comunque felicissimi”».
Per Liguori, però, le basse aspettative erano alla base delle potenzialità di
un canale nascente, perché gli avrebbero permesso di sbizzarrirsi. «Non eravamo
costretti a fare qualcosa che avesse successo in termini di ascolto. Non è cosa da
poco», ha spiegato.
Reilly cominciò a contattare sceneggiatori e showrunner per discutere il
materiale per la nuova rete, così tanti che un addetto alla sicurezza, non avendo
mai visto tutta quella gente entrare e uscire dall’edificio, ebbe a lamentarsene.
Ma Reilly e Liguori avevano le idee chiare su ciò che stavano cercando.
«Non credo che Hbo abbia il monopolio assoluto sugli antieroi. Loro hanno
ventidue milioni di abbonati, noi settantacinque milioni. Quindi perché non ci
prendiamo un po’ di spazio? Non siamo nemmeno vincolati dalla FCC. Facciamo
qualcosa che li lasci a bocca aperta».
Se c’è una serie, nella storia della tv, che è riuscita a non far trapelare il talento
dei suoi autori (molto più di quanto avesse fatto Time Out), quella è senza
dubbio Nash Bridges. La serie, andata in onda su Cbs dal 1996 al 2001, era un
drama convenzionale con Don Johnson e Cheech Marin nel ruolo di due
poliziotti spacconi che risolvono dei casi girando per San Francisco a bordo di
una grossa decappottabile gialla. Pur avendo diversi riferimenti, si ispirava
principalmente a quelle produzioni di Stephen J. Cannell, appartenenti alla
generazione precedente, che combinavano la comedy con la formula del caso
della settimana. «Sembrava davvero girato negli anni Ottanta», ha detto Shawn
Ryan, che assicurò alla serie il suo posto nella storia come insospettabile
incubatrice della rivoluzione delle reti basic cable.
Ryan era un ragazzone ben piantato e quasi calvo, con l’aria di un ex atleta
ormai fuori forma. Anche lui, come David Simon, era il prototipo dello
showrunner indifferente alla moda, e preferiva indossare scarpe da tennis e
magliette. Non era difficile immaginarselo mentre giocava a «birra pong» o
spaparanzato su un divano, con un joystick in mano.
Cresciuto a Rockford, nell’Illinois, Ryan aveva studiato drammaturgia
presso il Middlebury College, nel Vermont. Si era poi trasferito a Los Angeles.
Aveva fatto gavetta per tre anni lavorando a Nash Bridges e poi aveva scritto per
un anno per Angel, lo spin-off di Buffy l’ammazzavampiri. Aveva scritto inoltre
due puntate pilota dalle premesse smaccatamente convenzionali: una raccontava
di una ragazza che torna nella città natale dopo la morte del padre per salvare
l’azienda di famiglia, mentre l’altra era una comedy ambientata in uno studio
veterinario. Le due serie non furono mai realizzate, ma il lavoro svolto da Ryan
era abbastanza buono da procurargli un contratto ai Fox Television Studios.
Trascorse i primi nove mesi senza trovare un’idea convincente per una nuova
comedy. Quasi disperato, Ryan chiese di essere messo alla prova con un drama e
cominciò a delineare le basi di una serie poliziesca.
«La domanda chiave», ricorda Ryan, «era “Come dovrebbe essere una serie
poliziesca per piacermi davvero?” Pensavo che parecchi programmi televisivi,
anche quelli cui avevo lavorato, fossero stronzate. Immaginavo di fare qualcosa
di molto diverso da tutto ciò che avevo visto. Ma non era facile spiegarlo a voce,
così mi limitai a scrivere le prime cinque o sei pagine della sceneggiatura».
Una manciata di personaggi prese subito forma intorno alla stazione di
polizia di un quartiere orientale di Los Angeles tormentato dalla criminalità: una
detective afroamericana affiancata da un partner più giovane, ambizioso e
cervellotico; un capitano latinoamericano con aspirazioni politiche; un novellino
che nasconde la sua omosessualità. Non c’era nulla di simile a quella task force
anti-gang casinista, violenta e corrotta, che sarebbe poi diventata una delle
peculiarità di The Shield. La suddetta task force entrò in scena soltanto quando a
Ryan fu detto che poteva portare a termine la sceneggiatura della puntata pilota.
Ai tempi Los Angeles si stava ancora riprendendo dalle ripercussioni dello
scandalo Rampart, che aveva svelato il sorprendente livello di corruzione
dell’unità anti-gang del LAPD. Studiando lo scandalo, Ryan spostò il focus del
pilot su quella che ribattezzò «squadra d’assalto» e sul suo carismatico leader,
Vic Mackey. Cominciò a essere entusiasta dei possibili sviluppi della storia.
«Ero su di giri. Dopo tre anni a lavorare a Nash Bridges, dove i buoni sono
degli eroi, non commettono mai errori e fanno sempre la cosa giusta, volevo
scrivere qualcosa i cui personaggi potessero rivelarsi degli stronzi», ha detto
Ryan.
Il pilot, ai tempi intitolato «Rampart», cominciava in medias res, portando
gli spettatori nel «Barn» («il fienile»), un’ex chiesa convertita a stazione di
polizia nel distretto di Farmington, noto anche come «the Farm» («la fattoria»).
Qui le cose non vanno troppo bene. La squadra di Mackey, composta da
individui aggressivi e spacconi, trasgredisce da tempo qualsiasi regola,
intascando i soldi di gang e spacciatori per incastrare i quali avevano avuto carta
bianca. Mackey entra subito in conflitto con il nuovo capitano, David Aceveda,
che fa infiltrare un suo uomo di fiducia, una spia, nella «squadra d’assalto».
Nella scena finale dell’episodio, Mackey, che ha appositamente organizzato un
concitato blitz a casa di uno spacciatore, spara all’infiltrato in pieno volto. E
questo è il nuovo eroe.
Ryan era senza dubbio riuscito a lasciarsi alle spalle Nash Bridges. Inoltre,
aveva scritto liberamente, lasciandosi andare, anche per via della convinzione
che il suo pilot non sarebbe mai stato prodotto. «Rampart» era stato un esercizio
divertente, ma Ryan era già rassegnato all’idea che sarebbe rimasto una prova di
scrittura.
E, in effetti, fu in questa veste che il testo finì sulla scrivania di Kevin
Reilly, in una pila di spec script richiesti per valutare nuovi sceneggiatori. Reilly
e Liguori stavano ancora cercando i collaboratori che avrebbero stabilito i
connotati della loro nuova «Hbo gratis». Se c’era una cosa che non volevano, era
una serie poliziesca; chiunque faceva serie poliziesche. Ma quando Reilly lesse
la sceneggiatura di Ryan pensò: «Diosanto. Non ho idea se la gente lo amerà o lo
odierà, ma di certo è impossibile che non se ne parli».
E così telefonò a Ryan e gli disse: «Vogliamo farlo».
«Che vuol dire?», chiese Ryan.
«Che lo faremo».
Ryan pensò che si trattasse dello scherzo di un amico. «Ma chi parla?»,
chiese. E poi: «Quella sceneggiatura?»
«Sì, vogliamo produrre la tua sceneggiatura».
Reilly temeva che il finale del pilot fosse un po’ troppo forte. È vero che la
puntata dei Soprano «Un conto da saldare» era andata in onda già da due anni,
ma quel finale chiedeva agli spettatori di accettare qualcosa di ancora più
estremo: il protagonista che uccide un collega poliziotto a sangue freddo. Ma
soprattutto, chiedeva agli sponsor di affiancare i loro prodotti a un protagonista
che faceva cose simili.
«Questo ha ammazzato un collega», disse Reilly a Liguori, preoccupato.
«Lo capisci che questa cosa ce la porteremo dietro per sempre? Il pubblico non
lo dimenticherà».
Liguori giocò la carta del Bronx, e sottolineò che, come in «Un conto da
saldare», anche in questo caso la vittima era una spia. «Gli dissi: “Kevin, tu vieni
da Port Washington [una zona benestante di Long Island]. Io vengo dal Bronx.
Nel Bronx le spie hanno sempre torto. E credo che la gente vada più d’accordo
con la mentalità del Bronx che con quella di Port Washington”».
Il ragazzo entra, si ferma davanti alla linea. Quella del casting dice: «Ok, come ti chiami?
Quando sei pronto, comincia». E all’improvviso il tipo si mette a correre! Si sentono i suoi passi
che si allontanano nella sala. Quella del casting rimane lì, sola, pensa: «Ma che cazzo?», e poi va
verso la porta e vede il ragazzo che torna indietro. Il ragazzo arriva correndo fino alla linea, si
ferma, si dà un pugno nello stomaco e si cala giù i pantaloncini. E non porta le mutande. Ha una
busta attaccata ai testicoli. La strappa via e recita la battuta di Chiklis: «Troppo tardi?»
Al Capone ha fatto i soldi dando alla gente quello che voleva. E oggi quello che la gente vuole è
arrivare alla propria auto senza essere rapinata. Tornare a casa dal lavoro e trovare ancora lo
stereo. Sentir parlare di un omicidio e scoprire che il giorno dopo la polizia ha già preso
l’assassino. Se avere tutto questo vuol dire che qualche poliziotto malmena un tossico o un
portoricano… la maggior parte della gente è disposta volentieri a chiudere un occhio.
The Shield debuttò tre mesi prima di The Wire. (Era lo stesso periodo di The Job,
The Unit, The District, The Practice e altre; «La gente ama gli articoli», ha
commentato Liguori.) La poca distanza, una minima somiglianza del titolo e la
condivisione di molti temi fecero sì che i paragoni tra le due serie si sprecassero,
quantomeno da parte di quello zoccolo duro di fan che avevano l’accesso a un
nuovo medium, ovvero internet, sul quale poter esprimere la loro devozione a
una o all’altra serie. «Era sempre lo stesso dibattito: “A me piacciono i Beatles,
quindi i Rolling Stones fanno schifo”», ha commentato Ryan. I fan di The Shield
si lamentavano di quanto fosse lenta e noiosa la serie Hbo, mentre quelli di The
Wire attaccavano The Shield sostenendo che fosse inverosimile.
Entrambe le posizioni soddisfacevano i creatori delle rispettive serie. Ed
Burns ricevette una vhs del pilot di The Shield: «Nella prima mezz’ora, il
protagonista alza la voce con un suo superiore davanti a tutti, una cosa
impossibile. Nemmeno io mi permetterei mai. Poi incontra questa prostituta che
gli fa da informatrice e le dà della droga, e poi dei soldi affinché possa comprare
qualcosa per suo figlio. E alla fine uccide un poliziotto. Così mi sono detto:
“Non dobbiamo preoccuparci. Questa serie sarà un fiasco”».
E così dall’altro lato: «Il mio problema da spettatore, guardando The Wire,
era la sua lentezza», ha detto Ryan. «Loro potevano permettersela, perché erano
Hbo. Non faceva per me una serie nella quale un episodio serve a preparare
qualcosa di notevole che però succederà tre puntate dopo. Io volevo che
quell’episodio fosse già divertente di per sé. Sentivo di avere l’obbligo di
inserire uno o due momenti mozzafiato in ogni puntata».
Ryan aveva una posizione simile a proposito dei Soprano. «Non facevano
altro che promettere un tipo di intrattenimento che poi non arrivava mai. Nelle
pubblicità vedevi quasi esclusivamente azione. Qualcuno che fregava
qualcun’altro. Qualcuno che sta per essere ucciso. E poi arrivava la puntata e
poteva capitare che fosse un drama familiare ottimamente prodotto e scritto, ma
senza azione».
Ryan aveva una concezione così orgogliosamente populista della tv
commerciale che, a sentirla, David Chase avrebbe probabilmente dato di matto:
«L’obiettivo della nostra serie era quello di far vendere più birra e più detersivi»,
ha dichiarato, senza girarci intorno. Ma, ancora più scandalosamente, Ryan
difendeva quelle che, per altri, erano la piaga della tv non a pagamento, ciò che
impediva alle reti basic cable di avvicinarsi all’elevata qualità di Hbo: le
interruzioni pubblicitarie o, per essere precisi, gli «act-out» che le
precedevano.12
«Io credo che gli act-out siano utili. Mi piacciono», disse. «Ti danno un
piccolo tuffo al cuore, se sono fatti bene. Ti danno tre o quattro minuti per
riflettere su ciò che hai visto e su quali potrebbero essere i nuovi risvolti». Nella
sala di montaggio, Ryan si rivelava ossessionato da questi momenti, arrivando a
metterne cinque nello stesso episodio, magari un teaser iniziale più quattro act-
out. Poiché Ryan aveva la tendenza a cambiare l’ordine delle scene in
postproduzione, i registi erano stati invitati a trattare ogni scena come se dovesse
chiudersi con un act-out: Ryan era sempre in cerca di quelli che chiamava
«segnali». «Poteva essere uno sguardo, una battuta pronunciata in modo più
risoluto, una rivelazione, qualsiasi cosa, a patto che fosse un punto di vista:
“Ecco, questo è un momento importante. Bam. Stacco pubblicitario”».
Lamentarsi dei vincoli, secondo Ryan, era soltanto una sorta di snobismo
vecchio stampo: «Ci sono persone che preferiscono illudersi di non lavorare in
televisione. Per loro è più facile credere di fare cinema d’autore piuttosto che
ammettere che si tratta di cose diverse e che la tv ha comunque i suoi vantaggi.
[…] Da bambino non andavo alle rassegne cinematografiche di Scorsese al
Greenwich Village. Guardavo le repliche della Famiglia Brady. Non ho
intrapreso questa carriera pensando di rivoluzionare la televisione».
E infatti The Shield era pregno di amore nei confronti della televisione nello
stesso modo in cui i film di Quentin Tarantino giocavano con la storia del
cinema. Il suo realismo era quello esasperato di un gruppo di ragazzini che
giocano a guardie e ladri nel cortile di casa, in cui lo sbirro si avvicina di
soppiatto a un sospetto, si accovaccia e fa segno al suo collega con la pistola; in
cui chi viene colpito muore in slow motion; in cui i personaggi mettono o
tolgono gli occhiali da sole in modo plateale per comunicare qualcosa
all’interlocutore.
Lo spirito casinista della serie si ritrovava anche nell’indisciplinata writers’
room. «Alcuni dei nostri autori avevano davvero poca esperienza e cercavano di
scavalcarsi a vicenda con idee sempre più folli», ricorda Glen Mazzara, uno
sceneggiatore coinvolto da Ryan, col quale aveva già lavorato ai tempi di Nash
Bridges.
La squadra includeva anche un paio di uomini rodati – tra i quali c’era
James Manos, l’autore di «Un conto da saldare» dei Soprano – ma era dominata
da giovani talenti. Due degli sceneggiatori più affermati – e futuri showrunner –
non avevano mai scritto per la tv prima di allora: Kurt Sutter e Scott Rosenbaum.
Spesso le sessioni di scrittura di una storia andavano avanti fino a tarda notte e
alcuni sceneggiatori dormivano in ufficio per ricominciare il prima possibile il
giorno dopo.
Si trattò di una writers’ room divertente, ma anche spesso luogo di scontri
feroci per decidere in che direzione dovesse andare la serie. «Gli autori erano
tutti terribilmente schietti. Tutti molto bravi, ma anche aggressivi. Era
impossibile proporre un’idea senza che venisse sviscerata e fatta a brandelli, a tal
punto che a volte qualcuno usciva emotivamente devastato da certe critiche», ha
raccontato Mazzara.
Kurt Sutter, ex attore ed ex tossico, pieno di tatuaggi e con i capelli lunghi
legati in una coda, fu spesso l’origine degli scontri tra colleghi. Erano in molti a
credere che le sue idee più scriteriate avessero troppo ascendente su Ryan, che
aveva l’ultima parola nelle discussioni. «Tutto quello che sembrava incauto,
feroce, estremo e sopra le righe, come la scena in cui un tizio si ritrova con la
faccia premuta contro una padella incandescente, ecco, quelle cose le scriveva
Kurt», ha raccontato uno degli autori. È emblematico che uno dei dibattiti più
accesi con Mazzara riguardò il dubbio se, in una scena fondamentale, un
personaggio dovesse brandire una pistola o una bomba a mano. Come avrebbe
dimostrato la serie da lui scritta molti anni dopo sempre per Fx, Sons of Anarchy,
la filosofia di Sutter poteva essere riassunta proprio così: perché usare una
banale pistola quando puoi ricorrere a una fantastica bomba a mano?
Ma nonostante questi suoi aspetti fumettistici, non c’era alcun rischio che
The Shield somigliasse ad A-Team. Fin dall’inizio, la serie approfondì quella
stessa ossessione contemporanea che caratterizzava le serie più sofisticate di
Hbo: i rapporti tra potere e violenza, lavoro e famiglia, dipendenza e sessualità.
E con il tempo il personaggio di Mackey acquistò una profondità inattesa, legata
al suo amore per la moglie e per i tre figli, di cui due autistici (anche se, in
seguito, la moglie lo lascerà).
Mackey era anche una perfetta rappresentazione dell’uomo che lotta con la
sua bestia interiore – e della bestia stessa, che risulta al pubblico
contemporaneamente seducente e repellente. Poteva essere un gioco pericoloso.
Persino gli ideatori del personaggio sottovalutarono l’entità dell’amore dei fan
nei confronti del loro mostro.
«Se ti dicessi: ho scritto una storia in cui un poliziotto corrotto uccide un
collega e ruba un sacco di soldi, e poi spunta un abile detective degli Affari
Interni che indaga sul caso e decide di consegnare il poliziotto corrotto alla
giustizia, ecco, secondo te chi sarebbe l’eroe della storia?», ha detto Ryan,
riferendosi al personaggio interpretato da Forest Whitaker, che compare nella
quinta stagione e sarà la causa della rovina di Mackey.
«Ma per il nostro pubblico l’eroe era Mackey. Volevano che vincesse lui.
Dissero tutto il peggio che si poteva dire sul personaggio di Whitaker. Non
l’avremmo mai immaginato, quando inventammo il personaggio. Io dissi:
“Questa sì che sarà una sfida per il pubblico. Non sapranno per chi fare il tifo”.
Ma sono stato un’idiota. Il pubblico lo sapeva benissimo, per chi fare il tifo».
Tutte queste serie, e l’ondata di serie originali che sarebbero seguite, dovevano
ringraziare The Shield. In termini di contenuti, The Shield aveva
istituzionalizzato (rendendolo quasi un cliché) la scelta di un Uomo
Problematico come protagonista tipico della Terza Età dell’Oro. Fx, addirittura,
chiedeva esplicitamente agli aspiranti sceneggiatori di proporre soltanto delle
serie che avessero come protagonisti degli antieroi accattivanti: in questo modo,
inesorabilmente, Fx passò dall’anticonformismo alla convenzione dell’antieroe.
Ma ciò che Fx aveva abbondantemente dimostrato era che i tratti distintivi
delle serie Hbo – stagioni più brevi, production values elevati, migliori
sceneggiature e narrazioni più complesse – erano virtù che si potevano trovare
anche al di fuori delle tv a pagamento, sulle reti basic cable. E in questo
processo, il contributo di The Shield era stato incalcolabile.
«Io vorrei tanto che fosse calcolabile!», disse Ryan con un sorriso amaro.
E non era l’unico. La domanda – quanto valeva precisamente la qualità
soprattutto al di fuori dell’atmosfera rarefatta di Hbo – avrebbe continuato ad
alimentare le più importanti trattative televisive negli anni successivi. Nel
frattempo, Hbo non è mai più stata l’unica – né necessariamente la migliore – a
lavorare sul piano della qualità.
Ma le minacce al regno non venivano tutte dai barbari delle reti basic cable che
assediavano il castello. Hbo aveva problemi interni altrettanto preoccupanti. Da
un lato, soffriva di quei «dolori di crescita» probabilmente inevitabili per
qualsiasi organizzazione che, in meno di un decennio, si era ingrandita
notevolmente in statura, visibilità e produttività. Dall’altro lato, erano problemi
profondamente umani, e riguardavano la vanità, la paura, la competitività, le
difficoltà che comporta inseguire degli obiettivi, e quei due sentimenti gemelli
legati a qualsiasi successo: l’arroganza generata dall’essere arrivati a quel punto
e il timore di perdere ogni cosa. Tutto materiale buono per una serie Hbo,
insomma.
Nel 2002, Jeff Bewkes era diventato direttore del comparto televisivo della
Time Warner. Chris Albrecht diventò ceo di Hbo, ma mantenendo la
responsabilità sul palinsesto. Aveva tutte le ragioni per sentirsi sicuro di sé: i due
drama da lui approvati, I Soprano e Six Feet Under, stavano andando molto
bene, The Wire aveva debuttato da poco e Deadwood era nelle prime fasi di
sviluppo. Anche altre divisioni stavano andando bene, con Sex and the City e
Curb Your Enthusiasm che svolgevano un ruolo altrettanto importante nella
definizione di comedy per la rete, e miniserie di prestigio come Band of Brothers
– Fratelli al fronte e Angels in America (quest’ultima interpretata da Al Pacino e
Meryl Streep), che anticipavano l’imminente migrazione in tv di molte star del
cinema.
Nel 2003 Variety nominò Albrecht «Showman of the Year».
Contemporaneamente, un articolo sottolineava il clima di ospitalità offerto da
Hbo ai suoi artisti. «Noi rappresentiamo il network e non siamo sempre
d’accordo con la versione finale dei prodotti che mandiamo in onda», dichiarava
Albrecht alla rivista. Un’affermazione non scontata. «Ma alla fine siamo tutti
sempre e comunque contenti di aver rispettato le buone idee dei nostri autori».
Su un articolo del New York Times, Albrecht paragonava Hbo ai Medici, la
famiglia di mecenati fiorentini nel Rinascimento. Era una dichiarazione di alti
ideali, tanto per mettersi al sicuro, ma anche, a modo suo, un richiamo della
filosofia di Grant Tinker, che da Mtm aveva sempre ribadito di non essere un
artista ma semplicemente un facilitatore.
Quello stesso anno, però, Hbo incappò nel suo primo fallimento
significativo nell’ambito dei drama dai tempi dell’esordio dei Soprano.
Carnivàle era un drama visivamente sfarzoso con una componente di realismo
magico, ambientato durante la Grande Depressione degli anni Trenta. Il suo
creatore, Daniel Knauf, che aveva al suo attivo soltanto due episodi di una serie
e un film Hbo del 1994, ne immaginava sei stagioni, ma chi lavorò alla serie
aveva l’impressione che non avesse una direzione chiara, né qualcuno in grado
di dargliela, e la stessa cosa percepirono gli spettatori.
«Ci piaceva moltissimo il genere, più che il lavoro dell’autore in sé, anche
se questo è un approccio un po’ cinico alla programmazione», ha spiegato
Michael Lombardo. «Cerchi di prevedere cosa piacerà al pubblico, quando
quello che piace al pubblico, secondo noi, è una sceneggiatura ben scritta e ben
prodotta. Se stiamo lì a preoccuparci del genere ci mettiamo allo stesso livello
dei network».
Ma nuovi inciampi erano all’orizzonte: Lucky Louie, che debuttò tre anni
dopo, era una comedy con puntate da mezz’ora scritta e interpretata da Louis
C.K. La sensibilità del comedian si sarebbe rivelata in seguito perfetta per uno
show provocatorio (ed esplicitamente compiaciuto) come Louie, su Fx, ma in
questo caso la serie sembrava più incentrata sulle sue opinioni sulla vita
domestica che sugli aspetti formali del racconto: una sitcom multicamera
ambientata quasi esclusivamente in un unico set, palesemente artificioso, posto
di fronte al pubblico in studio. In teoria, forse, si trattava della mossa
controintuitiva perfetta per un canale che aveva girato The Larry Sanders Show
con la tecnica della single camera, quando ancora si trattava di una cosa mai
sentita prima, per una sitcom con puntate da mezz’ora. Nella pratica, però,
risultava sciatta e sghemba, ma soprattutto – e questo è fondamentale per
un’impresa basata sull’immagine – semplicemente sbagliata. Qualcuno, da Hbo,
consigliò ad Albrecht di mandare la serie a tarda notte, per proporla come un
qualcosa di sperimentale piuttosto che annunciarla con la solita fanfara, ma
Albrecht si rifiutò. Qualcuno lo sentì dire che con Lucky Louie stava creando il
suo The Honeymooners, serie culto degli anni Cinquanta, il riferimento più sacro
che si possa fare in tv, soprattutto per un ex talent scout di comici come
Albrecht.
E ancora, nel settembre del 2007, il debutto di un’altra serie, Tell Me You
Love Me – Il sesso. La vita, incentrata sull’intimità di tre coppie, fu seguito da
soli 910.000 spettatori, un risultato vergognoso, considerata la curiosità lasciva
suscitata dalle voci (false) secondo le quali nelle scene di sesso della serie gli
attori non recitassero.
Certo, non era possibile che tutte le serie Hbo fossero un successo. Albrecht
era convinto che un contraccolpo del genere fosse inevitabile dopo una tale
sequenza di scelte vincenti. «Il tormentone che Hbo era un canale geniale, il
migliore del mondo e così via, aveva fatto il suo tempo. Così, all’improvviso, il
nuovo tormentone era: “Ehi, cos’è successo a Hbo?” Voglio dire, io credo
ancora che Lucky Louie fosse in anticipo sui tempi. Eppure la gente pensava che
avessimo fatto un sacrilegio. Nessuno ci avrebbe nemmeno fatto caso, prima di
allora, ma ora il pubblico reagiva come se avessimo insultato sua madre!»
Al contempo, c’era l’impressione, sia all’interno che all’esterno, che
ottenuto il successo i piani alti avessero fatalmente cambiato approccio.
«Qualcosa era cambiato», disse Henry Bromell, che era stato executive
producer di Carnivàle. «Era come se si fossero convinti che I Soprano l’avevano
fatta loro, e non David Chase. E lo stesso per Sex and the City, credevano di
averla creata loro, e non Darren Star!»
«Eravamo fortunati: ci ritrovavamo con queste serie epocali che bussavano
alla porta», ha raccontato Richard Plepler, ai tempi vicepresidente della
comunicazione. «La verità è sempre stata che si è bravi solo nella misura in cui
sono brave le persone con cui si lavora».
Il problema principale di Hbo, probabilmente, non erano i progetti in fase di
sviluppo, ma quelli che non lo erano. I successi più rappresentativi del canale
erano stati il prodotto di ciò che Albrecht chiamava «la scrollata di spalle» di
Hbo, quel misto di spericolatezza e fatalismo che accompagna bassi investimenti
e basse aspettative.
«Credo che, dal punto di vista creativo, aver fatto strike così velocemente
con I Soprano comportò una specie di contrappasso creativo», ha detto
Lombardo. «Ci siamo sempre ripromessi di non aver paura e di accollarci i
rischi, ma dopo che hai riscosso un successo enorme diventa quasi impossibile
evitare che la gente, in un modo o nell’altro, misuri tutto su quello. Ci eravamo
evoluti verso l’abitudine a dire dei “no” prudenti, che sono molto più semplici e
molto meno rischiosi dei “sì”».
E per alcuni di quelli che si aspettavano di essere i benvenuti nella famiglia
Hbo, quei «no» furono una sorpresa. Terence Winter e Tim Van Patten, entrambi
nei ranghi alti della produzione dei Soprano, avevano firmato in seguito un
accordo di sviluppo con la rete. Un giorno, sul set, parlando di gang di
motociclisti fuorilegge, Winter disse: «Ehi, questa potrebbe essere una bella
serie tv!», ma quando telefonò alla Strauss per parlargliene rimase sorpreso
dall’assenza di incoraggiamento. «Ci pagavano a prescindere, che lavorassimo o
no», ha raccontato Winter. «Quindi, secondo me, a quel punto la risposta logica
sarebbe stata: “Ottimo! Perché non scrivi il trattamento e ce lo sottoponi?” Non
gli sarebbe costato niente leggerlo, e magari, Dio volendo, ne sarebbe uscita
fuori una serie». Ma invece l’idea fu smorzata sul nascere. (Sembra che Kurt
Sutter fece un’esperienza simile presentando a sua volta una serie su un gruppo
di motociclisti fuorilegge, Sons of Anarchy. «Andammo via dall’incontro
piuttosto confusi, chiedendoci se l’executive che sbadigliava, guardava
l’orologio, appoggiava i piedi sul tavolo e sbuffava esasperata stesse per caso
cercando di mettere alla prova la nostra determinazione», ha scritto Sutter in una
lettera aperta a Hbo pubblicata sul suo blog. Sons of Anarchy trovò poi ospitalità
da Fx, e con successo; Winter e Van Patten, invece, andarono avanti producendo
Boardwalk Empire per Hbo; e alla fine Hbo provò comunque a fare una sua serie
sui motociclisti, intitolata 1% e scritta dal noto sceneggiatore Michael Tolkin,
anche se alla fine la puntata pilota non fu approvata.)
In un momento in cui la tv offriva sempre più opportunità agli sceneggiatori
con una propria visione, a Hollywood cominciò a diffondersi la voce che le porte
di Hbo erano più chiuse che aperte, e in ogni caso aperte solo per gli
sceneggiatori già affermati.
Ricorda Lombardo: «David Chase aveva sempre lavorato a serie grosse, ma
eravamo arrivati al punto in cui non era scontato che ascoltassimo una sua idea.
Poteva non essere più al nostro livello».
«Finché sono vivo, continuerò a sostenere che i primi quattro episodi della serie
non erano meno interessanti e validi di qualsiasi altra serie a cui abbia lavorato»,
ha dichiarato Albrecht, attribuendo quantomeno le critiche più dure alla rabbia
residua del caso Deadwood. In ogni caso, quando John from Cincinnati andò in
onda, Albrecht non lavorava più da Hbo. Un mese prima, infatti, la mattina del 5
maggio, era stato arrestato davanti a un casinò di Las Vegas, l’Mgm Grand, dove
Floyd Mayweather aveva appena battuto Oscar De La Hoya in un incontro tra
pesi medi leggeri trasmesso a pagamento da Hbo. Dal rapporto della polizia
risulta che aveva trascinato verso l’hotel la sua fidanzata di allora, Karla Jensen,
tenendole la gola con entrambe le mani. Durante l’interrogatorio biascicava e
puzzava d’alcol. Dopo che la Jensen fu rilasciata e se ne tornò a casa con dei
segni rossi sul collo, Albrecht fu accusato di violenza domestica e trascorse la
notte nel centro di detenzione della Clark County. Non avrebbe contestato
l’accusa di percosse, avrebbe pagato una multa di mille dollari e frequentato
delle sedute per risolvere una tendenza alla violenza domestica.
Le ripercussioni professionali superarono di gran lunga quelle legali, e il
presidente e ceo di Time Warner, Richard Parsons, annunciò subito che Albrecht
si sarebbe preso un periodo di aspettativa. Albrecht rilasciò una dichiarazione in
cui spiegava che era da tempo in cura per problemi con l’alcol e che sarebbe
tornato dagli Alcolisti Anonimi. Molti anni dopo, in un’intervista su GQ che lo
descriveva mentre beveva qualcosa durante un viaggio di lavoro verso Dublino,
avrebbe rinnegato quella dichiarazione, sostenendo invece che tutta la storia sul
suo alcolismo era stata imbastita dagli addetti alle PR di Hbo e che lui l’aveva
accettata con riluttanza nella speranza di salvarsi la carriera. «Dopo anni di
riflessioni e di lavoro insieme a degli specialisti, ho capito che per me l’alcol non
è un problema», disse alla reporter Amy Wallace. «Quello che invece dovevo
risolvere era il mio rapporto complicato, e spesso molto difficile, con le donne».
Ma quale che sia la verità dietro alla storia di Albrecht, la strategia di
controllo del danno da parte di Hbo durò pochi giorni. Il 9 maggio, il Los
Angeles Times pubblicò un articolo in cui rilevava che nel 1991 Hbo aveva
staccato un assegno di almeno quattrocentomila dollari a favore di una collega
con la quale Albrecht aveva avuto una relazione e che l’aveva accusato di
maltrattamenti. (Albrecht negò qualsiasi tipo di maltrattamento.) Poco dopo la
blogger Nikki Finke insinuò che ci fosse tutta una sequenza di rapporti segreti e
conflittuali di Albrecht con colleghe e subordinate. Il 10 maggio, Parsons
annunciò che Albrecht, che aveva cinquantaquattro anni e aveva passato quasi
tutta la vita a lavorare da Hbo, non faceva più parte della società.
Questi fatti davano la misura sia del potere conquistato da Albrecht, sia
della convinzione che, dopotutto, questo potere fosse eccessivo per essere gestito
da un uomo solo, motivo per il quale Bewkes creò un secondo polo di comando
a Hbo. Il direttore operativo Bill Nelson diventò ceo, mentre la direzione
creativa fu divisa tra Plepler a New York e Lombardo a Los Angeles. Se poté
sembrare ingiusto che nessuno dei due ruoli fosse stato occupato da qualcuno
estratto dai ranghi dei creativi, fu anche la conferma del principio per il quale gli
executive erano lì per facilitare la creatività, non perché sognavano essi stessi di
creare qualcosa.
Carolyn Strauss, nel frattempo, era rimasta presidente, ma non lo fu ancora
per molto. Lei e Albrecht avevano sempre lavorato bene insieme, in parte perché
Albrecht era contento di svolgere quegli obblighi sociali verso i quali la Strauss
era quasi patologicamente riluttante. Nell’arco di vent’anni, questa distribuzione
dei ruoli si era ormai cementificata.
«Nel corso del tempo, la Strauss si era rintanata nel suo ruolo di executive
capace ma asociale. E diventò troppo spesso quel tipo di interlocutore che ti
stringe la mano e dice di aver letto la sceneggiatura quando non l’ha fatto», ha
raccontato un ex collega. «Così, quando Albrecht andò via, l’equilibrio si
spezzò. Quando c’era lui le cose andavano bene, sapeva accogliere le persone.
Faceva sentire a loro agio gli autori, li valorizzava, e non gli dava mai
l’impressione di aver perso tempo. E non ha mai forzato Caroline a fare lo
stesso. Erano complementari, era una coppia che funzionava. […] Ma quando
Albrecht andò via, lei da sola non bastava più. Magari eri un autore insicuro e ti
trovavi di fronte questa sconosciuta che, invece di ascoltare con attenzione il tuo
pitch, stava lì a mandare messaggi».
Uno sceneggiatore che discusse un progetto con la Strauss durante quel
periodo confermò quell’impressione: «Non ti guardava negli occhi, non ti dava
una sola risposta coerente. Era proprio stramba. Dopo averla conosciuta non ti
veniva certo voglia di lavorarci insieme. Per niente».
«È incredibilmente timida», ha spiegato Sue Naegle, che era amica della
Strauss e la sostituì nel 2008, quando la Strauss fu costretta ad andarsene. «Non
veniva a pranzo insieme a tutti. Era sempre in imbarazzo, in questo tipo di
situazioni». Dopo aver ricoperto per un po’ il posto della Strauss, però, Neagle
ha avuto motivo di sviluppare una certa empatia. «Devi dire no al 99,9% delle
persone che bussano alla tua porta, e nient’altro», ha commentato. «Il lavoro
consiste in questo. Lei è stata qui per così tanti anni, e ha detto no tante di quelle
volte. E la gente era stufa di vedere che Hbo vinceva tutti gli Emmy possibili,
stufa di sentir dire quanto fossero fantastiche I Soprano e The Wire. Non appena
ci fu l’occasione di far perdere la corona alla regina, be’, non aspettavano altro».
Rimaneva il fatto che, a prescindere dal motivo, la percezione diffusa che
Hbo fosse diventata un interlocutore ostile, per chi voleva proporre nuovo
materiale, era stata confermata dalla realtà, e aveva avuto conseguenze reali.
«Ormai era opinione comune che quelli di Hbo fossero degli stronzi», ha
detto un responsabile operativo in contatto col reparto programmazione di Hbo.
«E l’esempio migliore di questa arroganza è stato senza dubbio il rifiuto di Mad
Men».
12. Nel gergo degli sceneggiatori, un act-out è un cliffhanger, un climax o un colpo di scena posto subito
prima dell’interruzione pubblicitaria, allo scopo di tenere il pubblico incollato allo schermo in attesa che la
puntata riprenda. [n.d.t.]
12
E fu così che Chase assunse Weiner, anche se ciò non costituisce un verdetto
definitivo sulla questione dello «stronzo totale». Quando scriveva sitcom Weiner
aveva difficoltà a lavorare in gruppo, e anzi sapeva essere particolarmente
irritante. Più tardi raccontò di un attore che si era talmente arrabbiato con lui da
avergli dato un calcio in culo e averlo sfidato a fare a pugni. (Il sito
Splitsider.com ipotizzò che l’attore fosse Mark Roberts, in seguito showrunner
della sitcom Mike & Molly.)
Non appena approdò ai Soprano, che a quel punto era ormai diventata una
collaudatissima macchina da guerra, Weiner cominciò a creare problemi.
Secondo i colleghi, a tratti poteva essere simpatico e piacevole, ma poi si
rivelava subdolo e infantile. A volte si comportava come il tipico bullo: servile
con i superiori, era altezzoso e scortese con le persone che avevano meno potere
di lui, e che dunque non avrebbero potuto essergli né d’aiuto né di intralcio. La
costumista Juliet Polcsa, dopo averci litigato, iniziò a portarsi dietro un
registratore e ad accenderlo ogni volta che interagivano. Un episodio più grave si
verificò un giorno in cui Weiner stava valutando alcune location in compagnia di
Henry Bronchtein, coproduttore esecutivo della serie e anche lui noto per il suo
caratteraccio. I rapporti tra i due erano piuttosto tesi. Quel giorno si trovavano da
qualche parte nel New Jersey, avevano finito di lavorare, e Bronchtein ordinò al
pullman di ripartire senza aspettare Weiner. Weiner, che all’epoca era già
produttore esecutivo, si infuriò. La lite si protrasse per giorni: Weiner pretendeva
che Bronchtein fosse licenziato, ma Chase non lo fece. E anche se in quella
vicenda la colpa era chiaramente di Bronchtein, si trattava comunque di quel tipo
di dinamica che Weiner innescava regolarmente negli ambienti in cui lavorava.
Anche se l’ha fermamente smentito, girò voce che Carolyn Strauss avesse
rifiutato di prendere parte a Mad Men perché non aveva alcuna intenzione di
lavorare mai più con Weiner.
A controbilanciare tutto questo, ovviamente, c’era il fatto che Weiner era
indiscutibilmente bravo a fare il suo lavoro. Anzi, era eccezionale. La writers’
room, un luogo in cui tira sempre un’aria di competizione e abbondano le
occasioni di farsi notare, era il suo habitat naturale. Lì le critiche gli importavano
ancora meno che altrove. «In parte penso di essere riuscito a scalare la gerarchia
della writers’ room perché avevo capito che quando arrivava il capo, quale che
fosse il suo umore, non dovevo mai prenderla sul personale», ha dichiarato.
«Facevo così: “Non le piace? Ok. Ecco un’altra idea. Non va bene? Eccone
un’altra. Mi sta davvero dicendo di andare a fanculo? Bene, sono certo che non
lo pensa sul serio”». Come aveva sviluppato questa capacità? «È come con la
mia famiglia. Non puoi prenderla sul personale», ha dichiarato.
Era inevitabile che una personalità così forte influisse sulle dinamiche
interne della writers’ room. Persino Winter, che era suo amico, ha ammesso:
«C’erano giorni in cui speravi che smettesse di parlare. Ma diceva comunque
sempre cose interessanti, divertenti e intelligenti. Non parlava mai a vanvera.
Aveva sempre opinioni sensate… solo che ne aveva troppe».
Inoltre, la sua presenza faceva scattare il giusto livello di tensione tra Chase
e Robin Green. «Matthew era un autore di comedy, quindi con lui l’aria si faceva
sempre frizzante», ha raccontato la Green. «Lui e David si trovavano a
meraviglia… Mi capitava di ritrovarmi in una stanza con loro e non sapere che
dire, mentre snocciolavano un film francese dopo un altro. Col tempo diventò
sempre più insopportabile». Secondo Chase, la Green era invidiosa dell’ascesa di
Weiner.
Weiner non aveva l’aria da duro newyorkese di Winter o di Frank Renzulli
(più tardi avrebbe detto scherzosamente di essere stato «la prima donna a
scrivere per I Soprano», e nessuno sa come la prese Robin Green), ma per altri
aspetti era in sintonia perfetta con Chase e con la serie.
«Matt e David venivano entrambi da una scuola di cinema. Guardavano
film che io non avevo mai sentito nominare», ha detto Winter. «Me ne stavo lì e
pensavo: “Cazzo, questi due hanno letto tutti i libri del mondo. Mi sento un
idiota”». Inoltre, Weiner aveva un ottimo intuito e un’idea precisa di come
funzioni la comunicazione (il fatto che la gente raramente dice quello che pensa
davvero): Chase si rese subito conto che erano qualità perfette per la serie.
Nell’episodio «Sogni angoscianti», di cui Chase e Weiner sono coautori, Tony si
rifugia al Plaza Hotel sopraffatto da tormenti che riguardano Tony Blundetto. A
un certo punto si addormenta. Segue una lunga sequenza sul sogno di Tony che
mette insieme Freud, Fellini e I tre marmittoni, una fantasia che alterna desiderio
di potere e ansia da prestazione, e che culmina nella visione dell’allenatore di
Tony ai tempi della scuola che lo prende in giro perché non è «preparato». Il
finale dell’episodio sembra sintetizzare le visioni del mondo di Chase e Weiner:
all’alba, Tony telefona a Carmela e le dice che ha avuto uno dei suoi «sogni
sull’allenatore Molinaro», ed è forse il momento più tenero tra i due in tutta la
serie. Inoltre, Tony decide che ucciderà suo cugino.
È evidente che per Weiner lavorare ai Soprano è stato come un corso
accelerato non solo sull’arte dello storytelling televisivo, ma anche sul mestiere
di showrunner. Quando ha lasciato la serie, sembrava deciso a emulare Chase, il
suo maestro, nel bene e nel male.
«Soltanto cinque anni prima, una volta rifiutata da Hbo, Mad Men non avrebbe
mai visto la luce. È un dato di fatto», ha detto un dirigente televisivo. Ironia della
sorte, a salvare l’esistenza dell’agenzia pubblicitaria Sterling Cooper fu
un’azienda di proprietà di Charles Dolan, l’uomo che si era inventato Hbo. Da
quando era stata creata, ventidue anni prima, Amc era rimasta perlopiù un canale
senza pubblicità che trasmetteva vecchi film che costavano poco. «Era tipo una
versione mediocre di Turner Classic Movies. Passavamo film in bianco e nero,
ma non quelli buoni», ha dichiarato Rob Sorcher, il produttore che ha gestito la
trasformazione della rete. Ancora più di Fx, Amc poteva permettersi di correre
dei rischi pur di crearsi un’identità, che d’altronde partiva quasi da zero, un po’
come era successo a Don Draper.
Così ricorda Sorcher: «Tutto è cominciato quando Josh Sapan [il presidente
di quella che allora si chiamava Rainbow Networks] venne nel mio ufficio e mi
disse: “Senti, abbiamo bisogno di una bomba come I Soprano”». Nella
primavera del 2002, quando Amc si stava trasformando in un network che
accettava inserzioni pubblicitarie, Sorcher era diventato vicepresidente del
reparto programmazione, packaging e produzione. Veniva da una lunghissima
carriera nella pubblicità: aveva lavorato per anni per Cartoon Network, Fox
Family e Usa Network. Aveva una personalità forte e una parlantina
straordinaria. Dal suo arrivo, aveva deciso di sfruttare il punto di forza di Amc
(un notevole repertorio di film) scegliendo programmi che si inserissero
coerentemente nel palinsesto. «Producevamo documentari su Hollywood, reality
show sull’industria cinematografica, roba interessante di certo, ma non facevamo
mai il botto, perché a nessuno in realtà frega niente di queste cose», ha
dichiarato.
E ora il suo capo gli chiedeva di produrre dal nulla una serie originale che
potesse competere con quella che aveva rivoluzionato la tv. Sapan aveva le sue
ragioni: Cablevision, proprietaria di Amc, non era un’azienda delle dimensioni
di Viacom o Time Warner, che potevano far leva sul fatto di controllare molti
canali per spingere gli operatori di piattaforma a tenerli nel loro bouquet. Come
ha riferito Sorcher, «[Sapan] temeva che, nell’era digitale, in un mondo
dominato da grandi gruppi commerciali, Amc sarebbe sparita nel nulla. Voleva
qualcosa di speciale. Un titolo distintivo che sia gli spettatori che la stampa
avessero a cuore, e che ci desse un qualche potere contrattuale per discutere con
gli operatori di piattaforma». Per di più, Sapan aveva detto a Sorcher le parole
magiche: «Non mi interessa niente degli ascolti».
Ma Sorcher non era sicuro che l’azienda avesse il coraggio e i mezzi per
fare quello che diceva di voler fare. Aveva un atteggiamento prudente: non volle
nemmeno assumere un impiegato full-time per il futuro reparto sviluppo del
network, perché non voleva spingere qualcuno a lasciare un lavoro sicuro per
qualcosa che poteva anche non concretizzarsi. Decise piuttosto di assumere
Christina Wayne come «consulente», una scelta non convenzionale. Negli ultimi
dieci anni, la Wayne aveva lavorato come sceneggiatrice a New York e a Los
Angeles. Nel 2001 aveva scritto e diretto un film indipendente (Tart – Sesso,
droga e… college) e aveva lavorato molto su commissione. Non aveva alcuna
esperienza in campo televisivo, né tantomeno nel settore sviluppo, e conosceva
Amc soltanto di nome. Ciononostante, nel gennaio del 2005 accettò di incontrare
Sorcher.
Lo ha ricordato così: «Per la prima metà dell’incontro, facevo solo finta di
capire di che stesse parlando. Però a un certo punto ha detto che avevano settanta
milioni di dollari per avviare un reparto sceneggiatura e che stavano cercando
qualcuno che andasse in giro a cercare progetti interessanti. Pensai che poteva
essere divertente!»
Ed è proprio quello che la Wayne iniziò a fare. L’idea di Sorcher era di
partire con una miniserie, qualcosa di contenuto, sia a livello di costi che di
impegno, che desse il la alla cosa. Uno dei punti di forza intramontabili di Amc
erano i western: la Wayne trovò il copione di un film dal titolo Daughters of Joy,
per il quale erano stati prescritturati Robert Duvall e Walter Hill. Fu trasformato
in una miniserie in due episodi da due ore, e andò in produzione col titolo
Broken Trail – Un viaggio pericoloso. Fu un lavoro difficile, perché Hill e
Duvall non facevano che litigare. Durante la postproduzione, Duvall si intrufolò
nella sala di montaggio, prese il girato e ne editò una sua versione. Ma Broken
Trail fu comunque un successo: ebbe il miglior ascolto tra le miniserie delle reti
basic cable uscite quell’anno, ricevette sedici nomination agli Emmy e ne vinse
quattro.
Gli uffici newyorkesi di Cablevision, che aveva sede a Long Island, erano
di fronte al Madison Square Garden, e non avevano certo lo stile di uno studio
hollywoodiano. I membri del reparto produzioni originali (Sorcher, Wayne, Vlad
Wolynetz – che sarebbe diventato produttore capo – e Jeremy Elice, ingaggiato
per aprire un ufficio sulla West Coast) si sentivano come pavoni in un pollaio.
Nelle parole della Wayne: «Sembrava l’ufficio di The Office. Vlad diceva
che era lì che la mediocrità veniva a morire». La prima volta che Elice e la
Wayne dovettero fare una presentazione al meeting degli altri canali della
Rainbow, la Wayne si fece trovare con un cappello da cowboy. Elice le chiese:
«Che roba è?», e lei rispose: «È il nostro ruolo. Siamo i cercatori d’oro di Amc!»
Sorcher ha sintetizzato così la situazione: «Sinceramente, era molto improbabile
che da quell’ambiente venissero fuori dei programmi interessanti».
Forti del successo di Broken Trail, Sorcher e la Wayne si misero a cercare
una serie da produrre. «Mi inventai questa specie di tiritera che ripetevamo
ovunque. Non era altro che una lista di ciò che avrei voluto vedere in tv:
“Vogliamo produrre serie drammatiche di qualità con episodi da un’ora.
Vogliamo che siano cinematografiche e che la narrazione proceda come in un
romanzo, con gradualità, a combustione lenta, basata sull’evoluzione dei
personaggi”». Avevano una regola, quasi un mantra: «Niente dottori, niente
poliziotti, niente avvocati». Ma, dopo aver riflettuto sulle serie che fino ad allora
avevano funzionato, presero comunque una decisione: un’ambientazione storica
poteva andar bene.
Fu Ira Liss, talent manager di Industry Entertainment, a passare Mad Men
alla Wayne. Hbo aveva ignorato il soggetto nonostante David Chase lo avesse
raccomandato personalmente (cosa che lo sorprese non poco: «Ti chiamano
genio, e poi neanche ti rispondono quando gli proponi un soggetto eccellente»).
Liss disse alla Wayne: «È da otto anni che questo progetto viene rifiutato da
tutti. Ma credo che ti piacerà».
E infatti alla Wayne, che una volta aveva provato a opzionare
Revolutionary Road di Richard Yates, piacque. Piacque anche a Sorcher, che
aveva cominciato nella pubblicità. Certo c’erano degli ostacoli: «Fumano tutti. I
personaggi sono antipatici. Un tema come la pubblicità non ha appeal
internazionale. È lento. È ambientato nel passato. È proprio un’idea suicida»,
chiosò Sorcher. Ma in quel momento specifico un fallimento eclatante era
comunque meglio di un compitino vigliacco. Sorcher pensava che «non aveva
senso continuare a produrre serie mediocri, che andavano e venivano e nessuno
se ne accorgeva nemmeno. Se invece decidiamo di puntare alla qualità e
facciamo una roba totalmente fuori di testa, visto che il rating non conta, almeno
ci avremo provato. Da un certo punto di vista, è meglio questo che rimanere
impantanati». L’obiettivo era chiaro: nessun programma di una rete basic cable
aveva mai vinto un Emmy come migliore serie drammatica. Al suo staff Sorcher
disse: «Lo vinceremo, non ho dubbi. Questa serie è costruita per vincere quel
premio. È stata concepita per questo. Se non succede, significa soltanto che il
sistema non funziona».
Naturalmente, la cosa più importante era trovare l’attore giusto per la parte di
Don Draper, un personaggio enigmatico, affascinante, mutevole, e pieno di
segreti. «Avevo bisogno di un attore che sapesse interpretare un personaggio
duplice, che all’esterno appare in un modo e poi, all’interno, è in un altro», ha
detto Weiner.
Il modo in cui lo trovarono segue un pattern ormai familiare. Come Weiner,
anche Jon Hamm faticava a sfondare a Hollywood, pur essendo ormai un attore
maturo. Era originario di St. Louis, e mentre i suoi amici di gioventù come Paul
Rudd diventavano famosi, lui rimediava soltanto piccoli ruoli in serie
poliziesche. Aveva trentasei anni, era decisamente bello, ma anche troppo
vecchio per diventare una star: in quel periodo a Hollywood andavano di moda
gli uomini che sembravano ragazzini. Col senno di poi, per Hamm fu una
benedizione. Diventare famosi prematuramente poteva avere un prezzo, e lui
l’aveva visto coi suoi occhi: «Ho incontrato attori diventati famosissimi da
giovani. Non conoscono il significato della parola no. “E perché mai non potrei
uccidere quest’elefante, dargli fuoco e poi sniffarmi le ceneri?” Ma perché non
puoi, letteralmente».
Si dà il caso che Weiner stesse cercando esattamente quello che Hamm
aveva da offrire: una faccia sconosciuta, come era stato per James Gandolfini, e
che fosse quella di un adulto, di quelle si vedevano un tempo in televisione e al
cinema. Hamm lo faceva pensare a «un attore d’altri tempi. James Garner,
Gregory Peck, William Holden. Sono belli, un po’ buffi, e hanno quell’aria da so
tutto io». E non è un caso che proprio questo tipo di attori, nei primi anni
Sessanta, quando è ambientato l’inizio di Mad Men, era lì lì per essere eclissato
da una nuova specie di eroi da controcultura, tipo Elliot Gould. Una delle
attrattive più intriganti di Mad Men è proprio la curiosità di scoprire come Don,
la sua famiglia, la Sterling Cooper e gli altri personaggi sopravvivranno alle
rivoluzioni degli anni Sessanta.
Ma il fascino da divo non era tutto. Venne fuori che la storia personale di
Hamm era in parte affine, a livello emotivo, a quella di Don Draper. Hamm era
cresciuto a St. Louis, dove sua madre Deborah si era trasferita da una piccola
città del Kansas a diciott’anni, per cercare lavoro come segretaria. A St. Louis la
madre aveva incontrato e sposato Dan Hamm, più grande di lei, vedovo e
responsabile del business di famiglia, che si occupa di trasporto di merci dal
Mississippi a tutto il paese. Dan – soprannominato «la balena» per la sua mole
(un metro e novanta per più di cento chili) e per la sua personalità ingombrante –
decise di vendere l’azienda e si mise a cercare lavoro nella New Economy. Per
un po’ fece il rivenditore di macchine. Occasionalmente si dilettava con la
pubblicità.
Quando aveva due anni i suoi genitori divorziarono, e da quel momento
Hamm visse perlopiù con la madre. Un giorno, a dieci anni, Hamm andò con lei
a visitare il St. Louis Art Museum; Deborah entrò in bagno e non usciva più.
Hamm chiese a uno sconosciuto di controllare cosa fosse successo alla madre. Si
scoprì che si era sentita male. Non molto tempo dopo, al ritorno da scuola,
Hamm trovò il padre che lo aspettava a casa: la madre era stata ricoverata
d’urgenza. Le avevano asportato il colon e un lungo tratto di intestino, ma era
chiaro che il cancro si era diffuso ovunque. «Da quel momento, non ci fu altro
da fare che arginare il suo dolore e guardarla morire», ha raccontato.
Hamm andò a vivere con il padre e la nonna in una vecchia casa piena di
muffa e tristezza. Passava la maggior parte del tempo a casa di amici, dove un
gruppo di donne che chiamava «le tre mamme» si prendeva cura di lui. Quando
era al liceo anche suo padre si ammalò, arrivando a perdere più di cinquanta chili
per un diabete grave. Jon lo vide morire durante il primo anno di università, alla
University of Texas, che abbandonò subito. (Avrebbe poi completato gli studi
alla University of Missouri.) Poco dopo partì per Los Angeles.
Tutto questo per dire che Hamm, tra tutti gli attori belli e disoccupati che
andavano in bicicletta per Santa Monica Boulevard a fare provini, era quello che
poteva capire meglio il vissuto di Don Draper, quello maggiormente
consapevole del fatto che il mondo può capovolgersi da un momento all’altro, e
che la libertà di reinventarsi e di inseguire il sogno americano ha sempre un
prezzo.
Hamm ha dichiarato che, prima di essere ingaggiato, aveva praticamente
letto tutte le scene del pilot per fare i provini, a partire da quella in cui Don dà
una strigliata allo spregiudicato e arrogante Pete Campbell, dicendogli: «Morirai
lì, in quell’ufficio d’angolo». «Potresti metterci uno scimpanzé a leggere quella
scena e otterrebbe la parte», ha dichiarato Weiner, con la solita modestia. «Ma
quel “It’s toasted”?» – una scena in cui Draper inventa il famoso slogan della
Lucky Strike, e gli spettatori si ritrovano a fare il tifo per la campagna
pubblicitaria di un marchio di sigarette – «Non tutti sanno farlo». Quando Hamm
uscì dalla stanza, Weiner si rivolse al direttore del casting e gli disse: «È lui.
Quest’uomo non ha avuto genitori».
Una volta che la writers’ room di Mad Men fu assemblata, venne fuori tutta la
frustrazione accumulata in otto anni di delusioni. Tra gli autori c’erano Andre e
Maria Jacquemetton, marito e moglie, che Weiner conosceva sin dai tempi della
scuola di cinema; c’era Tom Palmer, un suo vecchio collega a The Naked Truth;
Lisa Albert, una veterana delle sitcom; e due giovani autori con poca esperienza,
Chris Provenzano e Bridget Bedard.
Per tutta la prima settimana, Weiner non smise mai di parlare. Era stato
anni a immaginare trame, a documentarsi, persino a selezionare la musica che
avrebbe voluto usare nella serie. Adesso riversava fiumi di informazioni mentre i
suoi collaboratori prendevano freneticamente appunti. Aveva scritto circa
l’ottanta per cento di una sceneggiatura sul passato di Don Draper, e si mise a
esporla nei minimi dettagli. «Aveva le idee chiare su ogni personaggio
secondario, dove viveva, tutto quanto», ha raccontato Bedard.
Tutti gli autori avevano il compito di buttare giù a casaccio una serie di idee
– «Un episodio sui reggiseni», «Pete si taglia i capelli» – che venivano appuntate
su foglietti e appese su una bacheca, per essere usate all’occorrenza.
Weiner non faceva che andare su e giù per la stanza, parlando con la voce
dei suoi personaggi, specialmente quella di Joan Holloway, l’autoritaria office
manager della serie. «Non lo faceva apposta, era come in trance», ha raccontato
Provenzano. «Ovviamente Joan è la più stronza fra tutti i personaggi. E Matthew
è il prototipo della Stronza Arrogante. Poteva lavorare su quel personaggio
all’infinito».
Parlava anche moltissimo dell’ambientazione storica della serie, e faceva
vedere a tutto il gruppo film come Piombo rovente o La notte dello scapolo.
Dava libri da leggere, come Sex and the Single Girl e La mistica della
femminilità, le opere di John Cheever e di David Halberstam, o Confessioni di
un pubblicitario di David Ogilvy. Su due pareti della stanza c’erano dei grossi
calendari pieni di eventi accaduti nel 1960, mese per mese.
«Aveva completamente introiettato i film, i libri, l’attualità, i ristoranti, gli
articoli del New Yorker dell’epoca. In testa aveva un mondo intero e lo
conosceva alla perfezione. Era come stappare una bottiglia di vino invecchiato
che era rimasto fermo su una mensola per anni, ad aspettare», ha dichiarato
Provenzano. Quando quest’ultimo iniziò a lavorare al suo primo episodio,
ovvero «Fascino italiano» (che ricevette una nomination ai Writers Guild of
America Award), Weiner non faceva che sommergerlo di appunti: una volta,
mentre erano in macchina, lo costrinse ad accostare perché potesse segnarseli
tutti. Lo preoccupava particolarmente la scena chiamata «Sketches of Spain», in
cui Don si trova con la sua amante e altri beatnik a fumare erba ascoltando
l’omonimo disco di Miles Davis. Come ricorda Provenzano: «Arriva e mi fa: “In
questa scena c’è l’America, ci sono le corporation, Norman Mailer e The White
Negro”. E io penso: “Ma come posso infilare tutte queste idee in una singola
scena? Questo vuole Il grande Gatsby distillato in tre minuti e mezzo”».
I primi tempi, nella writers’ room si respirava un’aria cameratesca. Dopo la
giornata di lavoro ai Los Angeles Center Studios, nel centro della città, tutto lo
staff, compreso Weiner, si spostava spesso a bere nel quartiere accanto, che si
stava gentrificando rapidamente. (Se il mondo fosse un posto giusto, avrebbero
dovuto bere gratis ovunque, considerato il contributo che stavano per dare alla
rivoluzione dei cocktail vintage.) Ma quando il nuovo episodio – il secondo della
serie – fu presentato a Amc e Lionsgate, la tensione iniziò a salire. Pete
Campbell, che nel pilot aveva un ruolo centrale, era qui totalmente assente,
perché in luna di miele. L’episodio si svolgeva principalmente a Ossining e si
concentrava su Betty Draper, che nel primo episodio si vedeva a malapena.
Arrivarono critiche da Lionsgate: dov’erano le sigarette? E gli Old Fashioned? E
le ragazze single e sexy? Era tutta pubblicità ingannevole?
Sorcher ricorda che fu un boccone amaro anche per lui: «Fu lì che mi resi
conto per la prima volta del casino in cui ci stavamo cacciando. […] Pensai: “Lo
stiamo davvero facendo in questo modo? Così lento?” Eravamo convinti del
progetto, ma allo stesso tempo volevamo che succedesse qualcosa, mentre non
succedeva proprio niente».
Le accese discussioni tra Weiner e i dirigenti del network si sentivano da
tutte le stanze dell’edificio. Nel frattempo, l’episodio successivo, «Le nozze di
Figaro», era per Mad Men il corrispettivo di «Un conto da saldare» dei Soprano.
Si vede Don, chiaramente infastidito, che fa il padre di famiglia, e si ubriaca
mentre costruisce una casetta di legno per il compleanno della figlia: poi, una
volta uscito per andare a comprare la torta, s’attarda e salta la festicciola.
Quando rientra a casa, molto dopo che gli ospiti sono andati via, porta un cane in
regalo ai figli, per calmare le acque. Questo è il primo momento nella serie in cui
vediamo un personaggio, che peraltro stava iniziando a piacerci, comportarsi da
pessimo genitore (e Mad Men sarà piena di padri e madri terribili). «Faranno di
tutto per impedirmi di far comportare così il protagonista», aveva previsto
Weiner, preparandosi a combattere per le sue scelte.
Weiner sembrava determinato a comportarsi come se la sua serie fosse
trasmessa da Hbo. Sapeva esattamente quante parolacce gli erano concesse per
episodio. Escludeva l’uso degli act-out, quelle brusche interruzioni tanto
apprezzate da Shawn Ryan. Al contrario, le interruzioni pubblicitarie
sembravano piazzate a caso, e quasi sempre in momenti sbagliati, come se
Weiner volesse punirle per il solo fatto di esserci. «Se la sbrigherà il network»,
diceva.
Non c’erano dubbi su cosa pensasse Weiner delle possibili interferenze
della rete sul suo lavoro. A conferma di questo, quando Sorcher ed Elice si
trovarono alla prima lettura del soggetto nei Los Angeles Center Studios, Weiner
diede loro un accordo di non divulgazione da firmare. Erano scioccati e divertiti
allo stesso tempo. «Era piuttosto strano che un autore desse una cosa del genere
ai propri dirigenti», ha spiegato Elice. «Perché avremmo dovuto far trapelare
qualcosa di un nostro programma?»
Una volta avviata la produzione, nella writers’ room la tensione salì alle
stelle. Quando qualcosa era al di sotto delle sue aspettative, Weiner reagiva
solitamente manifestando una cocente delusione, come se si trattasse di un
affronto personale. «Si infastidiva tremendamente, e diceva cose tipo: “Ma
perché mai dovrebbe dire una cosa del genere? Perché mai dovrebbe agire
così?”», ha raccontato Bedard. «La prendeva troppo sul personale. Ma poi le
cose si aggiustavano e diventava euforico». Diventò una prassi per gli autori
interrompere un incontro sulla loro sceneggiatura per rifugiarsi in bagno a
piangere un po’.
Anche gli autori che lavoravano sul set subivano le stesse pressioni: erano
terrorizzati dall’idea di lasciarsi sfuggire qualcosa di importante che Weiner
voleva in una scena, o che al contrario non voleva. Si poteva trattare di infrazioni
minime, tipo un gesto non desiderato: una volta Weiner se la prese terribilmente
con un autore che, non avendo notato che Hamm continuava a scuotere via della
cenere dalla manica della giacca, non aveva fermato le riprese. «Si comportava
come se fosse tuo padre, come se avessi cagato sul tappeto e lui avesse il diritto
di dirti: “Che hai fatto? Non si fa! Non si fa!”», ha raccontato Provenzano.
Weiner imponeva un protocollo molto rigido. «Bisogna rispettare chi è più
anziano e chi ha più esperienza», diceva. Più in là nella produzione, il
leggendario sceneggiatore Frank Pierson (che aveva lavorato a film come Nick
mano fredda, Cat Ballou e Quel pomeriggio di un giorno da cani, e a serie
televisive innovative come Have Gun – Will Travel e La città in controluce)
aveva preso a passare regolarmente dalla writers’ room. Una volta stava
raccontando una storia sul suo cane e un giovane autore fece l’errore di
interromperlo per raccontare del proprio cane.
«Era uno molto in basso nella gerarchia», ha dichiarato Weiner. «L’ho
preso da parte e gli ho detto: “A nessuno frega un cazzo del tuo cane”. Solo io
posso interrompere Pierson».
Nonostante tutto, Weiner continuava a sostenere che la writers’ room era
essenziale per il suo lavoro, sia come fonte di storie e di dialoghi, sia come
pubblico: una specie di piscina della creatività nella quale immergersi, non
diversa dalle silenziose vestali di David Milch. Michael Patrick King, che aveva
lavorato a lungo come showrunner per Sex and the City, gli aveva dato un
consiglio su come costruire una writers’ room: «Trova della gente che ti faccia
risplendere».
«Ed è la verità», ha confermato Weiner. «Dev’essere gente che non conosce
la tua storia, che ti fa comportare meglio, o pensare meglio, gente su cui vuoi
fare colpo in qualche modo. Così succede quello che una volta mi ha detto
Pierson: “Sento che in quella stanza si crea davvero una specie di processo
psicanalitico, e che in un modo o nell’altro tutti sono lì per aiutarti a scoprire
qual è la storia”».
«Non capisco come sia stato possibile che si affermasse quella prassi», ha
detto Weiner riferendosi alla consuetudine di accreditare un solo autore in tutti i
casi. «Tu sai cosa hai scritto e io so cosa ho scritto. Vuoi veramente che si pensi
che hai scritto tutto tu? Puoi davvero accettare una cosa del genere senza battere
ciglio? Voglio dire, un conto è che io faccia finta di non aver scritto qualcosa,
ma come si può digerire che loro fingano invece di averlo fatto?»
Gli altri showrunner, anche se non adottavano la politica di Weiner, di certo
erano d’accordo con lui, e lo ammiravano per aver messo al bando le carinerie.
Tutti avevano vissuto almeno una volta l’esperienza straziante di vedersi soffiare
via il riconoscimento del proprio lavoro.
«Sono rimasto davvero colpito», ha detto Vince Gilligan, showrunner di
Breaking Bad. «Mi ricordo tante volte in cui ho riscritto i copioni di altre
persone e il mio nome non compariva da nessuna parte, e, più che al fatto di
perdere dei soldi, pensavo: “Il mondo non saprà mai che parte ho avuto in questa
cosa”. Mi dava fastidio. Forse le tradizioni sono fatte per essere combattute».
Quando fece queste dichiarazioni, Gilligan si trovava a una tavola rotonda a
cui partecipavano anche Weiner e Milch, che era d’accordo con lui: «La
soppressione dell’ego può essere un atto insano di esibizionismo». Weiner
rispose: «Be’, io sono sanissimo».
Certamente non è un caso unico nella storia dell’arte: come può una persona
apparentemente tanto insensibile e inconsapevole delle proprie nevrosi produrre
opere caratterizzate da un’intelligenza emotiva e una carica empatica così
raffinate? Perché Mad Men, nei suoi momenti migliori, è proprio questo.
È stata la prima serie importante della Terza Età dell’Oro a non uniformarsi
a un genere immediatamente riconoscibile. Non si presentava come un
poliziesco, né come una serie sulla mafia, né come un western o un family drama
stile soap. Ma, proprio come i suoi predecessori, utilizzava dei cavalli di Troia
per attirare il pubblico: i costumi, il fumo, l’alcol, la nostalgia che emanava
erano l’esatto equivalente del connubio di sangue, armi, spogliarelli e
italoamericanità dei Soprano. I giornalisti continuavano a sottolineare il
feticismo di Weiner per i dettagli storici, e iniziarono a venir fuori siti internet in
cui venivano catalogate e spiegate le citazioni presenti in ogni episodio, per
quanto indirette o addirittura immaginarie. Senza traccia di ironia, il brand
Banana Republic lanciò una campagna di marketing e una linea di abbigliamento
dedicate a Mad Men; i grandi magazzini newyorkesi Bloomindale’s allestirono a
tema le vetrine del loro negozio sulla Third Avenue.
Eppure, dietro tutto questo, c’era una storia che trasmette una concezione
della natura umana brutale e spietata quanto quella dei Soprano. Don è sì alla
ricerca di se stesso, ma è anche un uomo di strette vedute, egoista, e a volte è
francamente ridicolo. Weiner ci tiene a farci vedere quanto spesso Don si trovi
dalla parte sbagliata della storia: si schiera con Nixon invece che con Kennedy,
che gli sembra superficiale e arrogante; non capisce i Beatles. Come Tony
Soprano, a livello emotivo fa al massimo dei piccoli progressi stentati, e il
pubblico si trova così a mettere in discussione in ogni momento l’affetto e la
lealtà nei suoi confronti. Nella visione di Weiner, le persone sono guidate quasi
sempre dai loro impulsi peggiori, consapevolmente o meno. Chi la pensa
diversamente non fa che prendersi in giro.
«È fermamente convinto non solo che i suoi personaggi la pensino così, ma
che tutto il mondo la pensi come i suoi personaggi», ha dichiarato Bedard.
I rapporti uomo-donna – tanto a livello personale quanto storico – sono uno
dei temi centrali di Mad Men. Sotto molti aspetti, la storia di Peggy Olson è
significativa quanto quella di Don. Weiner ha confessato di essere
particolarmente affezionato a Peggy: in modo perverso, questo legame è
evidente nelle caratteristiche che ha dato al personaggio (orgoglio, irritabilità,
imprudenza, freddezza nei confronti del figlio che ha abbandonato), che
rispecchiano quelle di Don, il suo capo e modello di vita. (Weiner sembra nutrire
un affetto eccessivo anche per l’altro grande personaggio femminile della serie,
Joan, che viene di volta in volta elevata a santa patrona dell’ufficio o punita con
svolte narrative grottesche.)
Ma nella serie c’è anche la competizione maschile, nelle sue infinite
variazioni, e gli sforzi continui ed estenuanti che questa richiede. È questo, più
che i pericoli dell’alcolismo, del fumo e di tutti gli altri vizi antichi cui la serie
allude, il lato oscuro del dominio esclusivo del mondo da parte degli uomini. Si
tratta di un aspetto centrale della visione del mondo di Weiner, e questo spiega
meglio di ogni altra cosa i tratti più duri del suo carattere. «Sto sempre con
l’armatura addosso», ha detto. «Dipende tutto da cosa pensi di meritare, dalle tue
ambizioni, e dagli ostacoli che ti trovi davanti. Non sono uno che vuole
distruggere gli altri, ma sono molto consapevole di questi meccanismi. È un vero
e proprio combattimento. Chi mai vuole smettere di sentirsi sessualmente attivo?
Io no. Chi è che vuole rinunciare a sentirsi potente? Chi mai vuole guardare un
ragazzino di vent’anni e pensare: “Questo potrebbe farmi il culo”? È tutto un
combattimento».
Ma soprattutto, Mad Men ha messo in atto probabilmente nel modo più
puro le forme della nuova serialità televisiva. Weiner aveva chiaro il ritmo di
una stagione da tredici episodi, ognuno dei quali poteva essere fruito sia come
parte di una narrazione più grande sia come «film» autonomo settimanale. Come
fece notare, un singolo episodio era più simile a un film di quanto si potesse
pensare, perché di norma, in un film di due ore, un’ora serve per impostare la
trama e per descrivere ambientazione e personaggi. All’inizio di ogni episodio di
Mad Men, tutto questo era già consolidato negli episodi precedenti.
In Mad Men, l’uso di una struttura continuativa e aperta serviva a mettere in
scena una forma di realismo radicale che va ben al di là di quanto, per dire, il
colore del frigorifero di casa Draper rispecchi il verde oliva in voga nel 1962. In
una maniera del tutto antitelevisiva, la serie puntava a descrivere come ci si sente
di fronte allo scorrere dell’esistenza.
«La prima stagione dei Soprano ti dava l’impressione di essere catapultato
fuori da un aereo a ogni episodio», ha detto Weiner. «Avevi sempre la
sensazione di esserti perso una puntata: “Sembra che tutti qui conoscano questo
tizio. Ma chi è? C’era già la settimana scorsa?” No, i personaggi lo conoscono
perché hanno una vita indipendentemente da te». In Mad Men, questa logica
prese piede specialmente all’avvio della terza stagione, quando ormai tutti gli
enigmi delle prime due stagioni si erano risolti (la vera identità di Don, le sorti
del suo matrimonio con Betty, cosa avrebbe fatto Peggy del figlio). A quel punto
la serie aveva iniziato a mostrare il semplice accadere dei fatti della vita, nella
loro cruda realtà: le mogli diventano un capitolo secondario e distante; le
persone cambiano lavoro; alcune ferite si rimarginano, mentre altre rimangono
aperte più del necessario. Può succedere che in un ufficio ci siano un Bert e un
Burt (così come nel New Jersey dei Soprano c’erano un Big Pussy e un Little
Pussy); può succedere che un uomo di nome Don abbia una segretaria di nome
Dawn. Quale altra serie avrebbe mai potuto dedicare una stagione intera – la
quinta – ai problemi di un matrimonio felice?
Questa logica si applica soprattutto al tentativo di comprendere cosa vuol
dire vivere nei momenti chiave della storia, quando non è chiaro dove stia la
ragione o quali eventi risulteranno importanti col senno di poi. «Se ti trovi nel
bel mezzo di un divorzio, e c’è la crisi missilistica cubana», ha dichiarato
Weiner, «i tuoi problemi sono più importanti».
Mad Men parlava di una generazione di transizione, che si trova nel mezzo
fra gli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale e le contestazioni giovanili
degli anni Sessanta: i suoi autori appartenevano a loro volta a un’altra
generazione simile, che era cresciuta all’ombra delle mitologie personali dei
baby boomer, ma che gli era troppo vicina per poter rivendicare una propria
identità. La serie era tanto un tributo agli anni Sessanta quanto un’appassionante
demistificazione edipica di cosa significasse vivere in quell’epoca. Weiner
sembrava voler dire che vivere in quegli anni significava svegliarsi ogni giorno e
avere gli stessi problemi, fare gli stessi errori, e non avere una visione generale
del mondo proprio come qualsiasi altra generazione.
E se buona parte di Mad Men sembrava rispecchiare lo sguardo rapito di un
bambino che osserva le azioni misteriose e affascinanti dei suoi genitori («Mi
trovo spesso nella posizione di Sally», ha detto Weiner, riferendosi alla figlia di
Draper), è perché quella prospettiva si applica tanto alla sfera pubblica quanto a
quella privata. Immaginare i propri genitori come persone reali – chiedersi sul
serio: «Sono come me?» – è un atto di empatia, di adorazione, ma vuol dire
anche ucciderli.
Il piacere principale di guardare Mad Men derivava ormai dall’esplorazione
di questo tipo di verità, più che dall’assistere alle svolte specifiche della «trama»,
che a volte potevano anche risultare forzate. (Anche se un piede mozzato da un
tosaerba di tanto in tanto ci sta.)
«Ho sempre pensato che sarebbe stata la rappresentazione fedele della vita
di un uomo», ha dichiarato Weiner. Per raggiungere questo obiettivo, la serialità
televisiva si rivelò lo strumento perfetto. E l’uomo perfetto per far funzionare
questo strumento era quello capace di dichiarare, con totale sicurezza: «Ho
sempre pensato che la gente provi quello che provo io. E di solito ho ragione.
Soltanto che gli altri non vogliono ammetterlo».
13
Faceva un caldo da record, nella San Fernando Valley. L’asfalto della West
Burbank Boulevard, costeggiata da uffici e aree commerciali, baluginava; la
gente fotografava la temperatura indicata sul cruscotto dell’auto: 43, 44, 45
gradi. Sul citofono di un anonimo edificio, di fronte a un concessionario, si
trovavano le targhette di un investigatore privato, di un’azienda di
apparecchiature dentistiche, di una manciata di società finanziarie e di qualcosa
dal nome vagamente sinistro: Delphi Information Sciences Corporation.
Nemmeno la targhetta sulla porta dell’ufficio, il 206, recava alcuna indicazione
sull’attività dell’impresa, e meno che mai poteva far immaginare che dietro
quella porta, sotto un controsoffitto ribassato e le luci al neon, immersa nel
ronzio del condizionatore di un ex ufficio di data entry, si nascondeva l’ambiente
di lavoro più ambito di Hollywood: la writers’ room di Breaking Bad.
E tutto ciò non soltanto perché Breaking Bad era indiscutibilmente una
delle migliori serie tv di sempre, per molti versi il culmine di tutto ciò che la
Terza Età dell’Oro aveva reso possibile, ma perché tutti sapevano quanto potesse
essere gratificante lavorare col creatore e showrunner della serie, Vince Gilligan,
che riusciva a coniugare ambizione e controllo, tipici degli showrunner più
autocratici, con apertura e dialogo, tipici invece degli showrunner più rilassati: in
altre parole, Gilligan credeva fermamente nel potere della collaborazione.
«La cosa peggiore che abbiamo preso dai francesi è la Politica degli
autori», ha detto Gilligan. «È una stronzata. Un film non puoi farlo da solo, e
meno che mai una serie tv. Affidi un lavoro a delle persone, devi far sì che si
trovino bene a farlo, e devi anche incentivarli al confronto».
Nella sua writers’ room tutti gli sceneggiatori erano uguali, anche se
Gilligan sottolineava che quell’approccio non aveva nulla a che fare con il
buonismo, ma era dettato dal senso pratico e dall’interesse personale: «Per uno
showrunner non c’è niente di più prezioso di uno sceneggiatore pienamente
coinvolto nel progetto, perché farà un lavoro di squadra eccezionale».
Quel giorno, era un lunedì, Gilligan sedeva a capotavola nella sala
conferenze insieme ai suoi autori, tornati dopo il fine settimana, e parlavano del
caldo. Gilligan aveva quarantatré anni, indossava jeans chiari, una maglietta
arancione e delle scarpe da tennis argentate; il suo viso, con il pizzetto e gli
occhiali, era a metà tra quello di un compassato gentlemen del Sud (la versione
giovane di Harland Sanders, il fondatore di Kentucky Fried Chicken) e un nerd
appassionato di letteratura fantasy. Era ancora possibile scorgere in lui il giovane
Gilligan che si era trasferito a Washington Square per studiare cinema alla New
York University.
Sorprendentemente, Gilligan era l’unico, tra i grandi showrunner della
Terza Età dell’Oro, ad aver cominciato la sua carriera in tv dopo un’esperienza
quasi di successo, per quanto frustrante, al cinema. Forte di una sceneggiatura
scritta durante l’università (che molti anni dopo, nel 1998, sarebbe diventata il
film Fast Food), tornato a casa in Virginia Gilligan trascorse i cinque anni
successivi a scriverne altre. Una di queste, Wilder Napalm, una commedia
romantica su due fratelli pirocinetici che si contendono la stessa donna (una sorta
di incrocio tra I favolosi Baker e Fenomeni paranormali incontrollabili), si
trasformò nel film Triangolo di fuoco (1993), con Dennis Quaid e Debra
Winger.
Era anche l’anno in cui Fox mandava in onda la prima puntata di X-Files, la
serie di Chris Carter che ricordava la celebre Kolchak: The Night Stalker.
Gilligan diventò subito un fan della serie e riuscì presto a incontrare Carter, che
gli propose di scrivere un episodio di prova. L’esperienza fu così soddisfacente e
divertente da indurre Gilligan ad attraversare il paese e a trasferirsi a L.A.
Quando X-Files finì, nel 2002, Gilligan ne era da tempo diventato executive
producer e aveva firmato una trentina di episodi.
X-Files raccontava di due agenti dell’Fbi, Fox Mulder e Dana Scully, lui
fermamente convinto dell’esistenza del soprannaturale e lei scettica, chiamati a
indagare su casi di natura paranormale. Si trattava di una tappa importante nel
percorso evolutivo della tv di qualità. Posto di fronte alla richiesta del network di
stagioni da più di venti episodi, Carter aveva escogitato una soluzione
ingegnosa: per metà la serie era costituita da solidi episodi autoconclusivi,
spesso divertenti, mentre l’altra metà indagava un’intricata «mitologia» a lungo
termine, che includeva alieni, agenti segreti e altre teorie del complotto.
Per ironia della sorte, considerato che sarebbe diventato un maestro della
serialità, in X-Files la specialità di Gilligan furono gli episodi autoconclusivi.
Uno di quelli più indimenticabili è «La corsa», nel quale Mulder si ritrova
intrappolato in un’auto in compagnia di un personaggio apparentemente
squilibrato e antisemita, afflitto da una bizzarra sindrome per la quale deve
spingersi perennemente verso ovest, o altrimenti gli scoppierà letteralmente la
testa. Non era facile scegliere l’attore per una parte così. «Bisognava trovare un
attore in grado di impersonare uno stronzo, un individuo viscido e sgradevole,
per il quale però lo spettatore potesse anche provare un certo dispiacere, quando
muore alla fine dell’episodio», ha detto Gilligan. «Trovare attori che facciano i
cattivi è facile. Ma quando vuoi che lo spettatore provi una certa empatia per i
cattivi, diventa molto più complicato». L’attore scelto da Gilligan, Bryan
Cranston, avrebbe riproposto la stessa acrobazia recitativa molti anni dopo nel
ruolo di Walter White, l’antieroe di Breaking Bad.
Verso la fine di X-Files, nel 2000, Gilligan lavorò a una stagione di uno
spin-off della serie, The Lone Gunmen. Era un progetto talmente spacciato in
partenza che, come ha raccontato Gilligan, nella serie animata Fox King of the
Hill sulla maglietta di un personaggio si poteva leggere «Ridateci The Lone
Gunmen!», e questo prima ancora che The Lone Gunmen andasse in onda.
Quindi Gilligan trascorse altri quattro anni a riabituarsi alle frustrazioni e alla
lentezza del cinema, lavorando alla sceneggiatura di Hancock, un film su un
supereroe scontroso e alcolizzato. «Non c’è niente di più logorante che fare un
lavoro per il quale ti pagano benissimo, e puoi farlo nel Sud della Francia, invece
che in un angusto ufficio a Burbank, ma che non ti dà mai la minima certezza se
quello a cui stai lavorando verrà realizzato o no», ha detto Gilligan. «In tv,
quantomeno, scrivi qualcosa e massimo una, due settimane dopo, quella cosa è
in produzione».
Nel mezzo di una delle infinite riscritture del film, nel 2005, Gilligan si
sentì telefonicamente con l’amico sceneggiatore Thomas Schnauz, col quale
aveva lavorato a X-Files. I due si lamentarono dello stato dell’industria del
cinema e si chiesero cos’altro potessero fare, con le loro competenze.
«Commessi in un supermercato?», chiese Gilligan.
«Oppure potremmo comprare un camper e costruirci un laboratorio per
produrre metanfetamina», propose Schnauz.
«Non appena Schnauz fece quella battuta», ha raccontato Gilligan, «mi
saltò subito agli occhi quest’immagine: un Uomo Qualunque che decide di break
bad [“diventare cattivo”] e darsi al crimine». L’immagine era talmente forte che
lo indusse a riagganciare e a buttare giù degli appunti. Il cuore della serie è stato
scritto di gran corsa. Il protagonista, Walter White, è un insegnante di chimica,
mite e frustrato, che scopre di avere un cancro ai polmoni. Inadeguatamente
assicurato, in attesa della secondogenita e in cerca di un modo per tutelare
economicamente la sua famiglia, decide di entrare nel mercato dei cristalli di
metanfetamina insieme a un suo ex studente, lo spacciatore Jesse Pinkman,
interpretato da Aaron Paul. Grazie alla sua abilità, alla disciplina (ferrea, se
confrontata agli standard degli spacciatori) e a un’ambiziosa ricerca della qualità,
il prodotto di Walt e Jesse diventa subito molto richiesto. Seguono complicazioni
legali, familiari e morali.
Ma il progetto che Gilligan aveva in mente era qualcosa di molto più
profondo, e prevedeva di portare all’estremo quella tendenza a raccontare
antieroi che era ormai diventata caratteristica della nuova serialità televisiva.
L’idea era quella di trasformare, in modo più che convincente, un uomo mite in
un mostro, o di passare, per usare le parole di Gilligan, «da Mr. Chips a
Scarface». Man mano che la serie procedeva, Gilligan avrebbe sottratto a Walt
tutte le giustificazioni per il suo comportamento criminale, una a una, a partire
dal cancro, che sarebbe presto andato in regressione. Allo stesso tempo, più di
quanto abbia fatto qualsiasi altro showrunner, a parte David Simon con The
Wire, Gilligan diede al suo protagonista degli avversari ai quali gli spettatori
potessero davvero affezionarsi, uno su tutti il suocero di Walt, Hank, un agente
della DEA con il quale Walt si troverà invischiato in un gioco a somma zero. Era
qualcosa di molto diverso da The Shield: stavolta non sarebbe stato affatto chiaro
per chi bisognava fare il tifo. La serie diventò l’analisi di come una virilità
ritrovata potesse andare fuori controllo, senza nemmeno la compensazione del
desiderio di redenzione provato da personaggi come Tony Soprano o Don
Draper. Tutto ciò sfida gli spettatori in modo ancora più diretto, costringendoli a
chiedersi: perché, anche quando è ormai un mostro, vogliamo ancora che Walt
vinca? A conti fatti, tutta la serie era una sorta di «Un conto da saldare» lunga
cinque stagioni.
Il percorso di Walt verso il male non era l’unico elemento per il quale
Breaking Bad sembrava una risposta ai Soprano, a The Wire e ad altre serie che
avevano inaugurato la Terza Età dell’Oro. La moglie di Walter, Skyler,
interpretata da Anna Gunn, viveva una condizione simile a quella di Carmela
Soprano, costretta anche lei a coesistere con i crimini del marito e le loro
implicazioni pur di tutelare i figli, ma il suo coinvolgimento arrivava a un punto
mai raggiunto dalla sua antesignana. Inoltre, se gli antieroi delle serie precedenti
erano quantomeno il risultato delle circostanze – la famiglia, la società, la
dipendenza e così via – Walter White agiva reiteratamente e inequivocabilmente
in totale libertà. La sua trasformazione diventava così una grottesca caricatura
del mito americano dell’autorealizzazione, dell’invito di Oprah Winfrey a
provare tutto e a «vivere la migliore delle vite». Ma cosa succede, si chiedeva
Breaking Bad, se la migliore delle vite è quella di uno spietato narcotrafficante?
«Una delle prime cose che devi fare, quando hai un’idea del genere, è chiederti:
“È una serie tv o un film?”», ha detto Gilligan. Vent’anni prima, non ci sarebbe
stato alcun dubbio sul fatto di trarne un film. Ma era il 2005, e Gilligan capì
presto che una rete cable era la sua unica speranza.
A dire il vero, a metà del pitch con gli executive di Sony Television, lo
stesso Gilligan per un attimo si fermò ad ascoltarsi e pensò: «Cazzo, è una
follia». Eppure, contro ogni previsione, Sony comprò l’idea e organizzò un
incontro con Tnt. Gilligan lo ricorda come l’incontro migliore della sua vita. Gli
executive di Tnt pendevano dalle sue labbra, chiedevano cosa succedeva dopo, e
dopo ancora, e ridevano sempre al momento giusto. Quando Gilligan ebbe finito,
si guardarono l’un l’altro, desolati. «Non vorremmo alimentare lo stereotipo
dell’executive bacchettone», disse uno di loro, «ma il protagonista deve per
forza trafficare metanfetamina? Per noi è un’idea eccezionale, ma se la
compriamo ci licenziano».
Eppure Gilligan ricorda quell’incontro positivamente. «Gli sarò sempre
riconoscente per non avermi fatto aspettare», ha raccontato. «Ovviamente non
esiste incontro migliore di quello in cui ti comprano il progetto. Ma quello in cui
ti danno una risposta subito va altrettanto bene. L’importante è non andare lì a
fare il tuo spettacolino, tornartene a casa senza una risposta e non saperne mai
più nulla».
Ma fu così che andò con Carolyn Strauss durante l’incontro da Hbo. «Non
riuscivo a capire se le piacesse o le facesse schifo, né se mi stesse anche solo
ascoltando. Quando abbiamo finito si è alzata e ha detto: “Bene, le faremo
sapere”. Dissi al mio agente: “Temo che non sarà una serie Hbo”». E in effetti
Hbo non gli diede mai alcuna risposta.
Durante l’incontro successivo, quello con Fx, si presentò un altro possibile
ostacolo. John Landgraf, presente al pitch, disse: «Ricorda un po’ Weeds», una
serie Showtime, ai tempi appena iniziata, su una madre dei sobborghi
residenziali che diventa spacciatrice di marijuana. Gilligan, che non era abbonato
a Showtime, sentì lo stomaco rivoltarsi. «Che cos’è Weeds?», chiese.
Per fortuna Landgraf stabilì che Breaking Bad era sufficientemente diversa
da spingerlo a commissionare la realizzazione di una puntata pilota. Ma quando
Gilligan ricevette la notizia, due mesi dopo, si presentò un altro intoppo. Il
canale si era impegnato a produrre una sola serie nuova ogni anno, e doveva
scegliere tra Breaking Bad e Dirt, con Courteney Cox, reduce dall’enorme
successo di Friends, nei panni della direttrice di un magazine scandalistico.
«Nessuno ha la sfera di cristallo, ma in quel momento era logico che
preferissero Dirt», ha detto Gilligan, anche se la serie fu poi cancellata dopo due
stagioni. «Credo che stessero cercando di allargare il loro pubblico femminile, e
Dirt aveva dalla sua una star della tv. Non li biasimo». A quel punto, però,
Gilligan pensò che Breaking Bad fosse «morta stecchita».
Gilligan è sempre stato talmente posato sia nei rievocare queste
disavventure sia in tutti i suoi rapporti interpersonali che bisogna fare uno sforzo
per ricordare che è l’autore di alcune delle sequenze più lancinanti, disgustose e
sanguinolente della storia della tv: ad esempio, quella in cui un corpo viene
dissolto nell’acido in una vasca da bagno e l’acido riesce a squagliare sia la
vasca che il pavimento, col risultato che la poltiglia rosa che un tempo era stata il
corpo si riversa al piano di sotto, proprio davanti Walt e Jesse, producendo un
sonoro splash. E nel caso qualcuno rischiasse di dimenticarlo, la writers’ room
era vivacizzata da diversi promemoria, in particolare dalla riproduzione di una
tartaruga sormontata da una testa decapitata, ripresa da un’indelebile scena della
seconda stagione.
Eppure, anche nel pieno di tanta violenza, regnava una certa galanteria. Nel
copione di uno degli episodi più tesi della serie, nel quale Jesse e Walt sono
tenuti prigionieri in un nascondiglio nel deserto da uno spacciatore psicopatico
chiamato Tuco, le direttive di scena contengono una parentesi che difficilmente
si sarebbe potuta trovare in una sceneggiatura dei Soprano o di Mad Men: «Tuco
scatta verso Jesse e lo afferra per il colletto (o per i capelli, a patto che non faccia
male ad Aaron)».
Quando Fx cominciò a produrre la puntata pilota di Breaking Bad, però,
Gilligan si convinse che nulla di ciò che aveva scritto avrebbe mai visto la luce.
La serie apparteneva ormai a Fx e di solito i network non vogliono rischiare che
una serie da loro sviluppata abbia poi un successo su un altro canale. Era già
accaduto con un pilot girato da Gilligan per Cbs. «Dissero: “Non ti
permetteremo di girarlo. Ormai l’abbiamo comprato e rimarrà nei nostri
archivi”», ha raccontato Gilligan. «In termini aziendali posso anche capire
questo tipo di decisioni, ma dal punto di vista morale sono ingiustificabili».
In ogni caso, la situazione era difficile. A quel punto Hbo, Showtime (che
trasmetteva Weeds), Tnt e Fx avevano tutte vagliato Breaking Bad. «Non
rimaneva altro posto nell’universo noto», ha detto Gilligan. Con lo stoicismo di
un veterano della tv, Gilligan smise di pensarci e tornò all’ennesima riscrittura di
Hancock.
A quei tempi era arrivato ad Amc Jeremy Elice, che mentre lavorava da Fx
aveva assistito al processo di sviluppo di Breaking Bad, dalle prime fasi
entusiastiche alla sua deludente interruzione. Così, quando l’agente di Icm Mark
Gordon lo chiamò per comunicargli che era ancora disponibile, Elice e Christina
Wayne organizzarono un incontro con Gilligan all’Ermitage di Beverly Hills.
Gilligan sembrò dubbioso ma accettò.
«Pensavo che sarei andato all’incontro, sarei stato lusingato per mezz’ora,
avrei bevuto uno scotch da quattordici dollari e me ne sarei tornato a casa. Un
altro incontro fine a se stesso, questo mi aspettavo».
La Wayne ed Elice gli spiegarono cosa stava succedendo da Amc, dove era
appena stata girata la puntata pilota di Mad Men. Gilligan, dal canto suo, li
impressionò riassumendo l’arco narrativo che avrebbe riguardato tutte le stagioni
della sua serie. «Christina e io eravamo entusiasti», ha raccontato Elice. «Ci
piaceva l’idea che dovesse affrontare il cancro. Ma non il cancro alla Beverly
Hills, 90210, no. Cancro vero!»
E a proposito di quell’incontro, Gilligan ha detto: «Mi piaceva quello che
avevano da dire. Non ho mai pensato che stessero raccontando delle balle. Ma
devo confessare che quando sono andato via ho pensato comunque: “Non andrà
mai in porto”».
La Wayne ed Elice portarono il soggetto a New York, e lo misero sulla
scrivania di Rob Sorcher, dove rimase a lungo. «Non volevo leggerlo», ha
ammesso Sorcher con un ghigno. «Non volevo leggere un soggetto del cazzo su
uno spacciatore di metanfetamina col cancro». Elice e la Wayne lo sollecitarono
per due settimane, finché Sorcher non cedette, lesse il soggetto e disse: «Ma è
fantastico! Perché non me l’avete detto subito?»
Bisognava ancora trovare un compromesso con Fx e Sony. Trascorsero
nove mesi di negoziazioni, durante i quali Elice e Gordon, l’agente, discussero
quasi ogni giorno. Alla fine, rimaneva un solo ostacolo: una royalty da
cinquemila dollari a episodio sui «nuovi media» (un termine che cominciava ad
avere sempre più importanza) richiesta da Sony. Sorcher usò l’elicottero
aziendale per raggiungere la sede di Cablevision, a Long Island, e avanzare la
richiesta personalmente. A quel punto, finalmente, il contratto fu chiuso e
Breaking Bad diventò proprietà di Amc.
Questa decisione, persino più importante e rischiosa dell’ok al pilot di Mad
Men, fu quella che consolidò la posizione di Sorcher a Amc. Mad Men e Broken
Trail – Un viaggio pericoloso, infatti, presentavano quantomeno degli elementi
di continuità con l’identità del network, e potevano essere accostati a El Dorado,
L’appartamento o altri capisaldi del palinsesto di Amc. Breaking Bad, invece,
non apparteneva a nessun genere riconoscibile, se non a quello del cinema di
qualità. «“Se facciamo questa serie”, ho pensato, “usciremo fuori da questo
limbo”», ha raccontato Sorcher. «Mad Men stava avendo successo, e una volta
che assaggi quel biscotto scopri che è buono. Ne vuoi un altro. L’idea di provare
una strada completamente diversa mi terrorizzava. Ma una volta che hai preso
quella decisione, una volta che metti la qualità prima di tutto… a quel punto puoi
fare qualsiasi cosa».
Tutto ciò si sommava a una dedizione per lo storytelling visivo che rendeva
Breaking Bad perfettamente complementare al suo verboso compagno di
network, Mad Men. A metà della terza stagione, ha raccontato Gilligan, Peter
Gould era andato da lui, tutto raggiante. «Dai un’occhiata alla prossima
sceneggiatura che gireremo, quella che ho scritto io», gli disse Gould. «Ci sono
ben cinque pagine senza una sola parola di dialogo!»
«Ero così orgoglioso di lui», ha raccontato Gilligan. «Gli dissi: “Ecco
qualcosa di cui essere felici! Ne sono felice anch’io!”»
Ma quel pomeriggio sembrava che nessun tipo di storytelling avrebbe preso vita,
né visivo, né verbale, né di altro tipo. Arrivò il pranzo, ma dopo la fine della
pausa la questione di Jesse non aveva ancora una soluzione. «Era quel tipo di
soluzione che tutti troviamo ovvia, quando la sentiamo. Soltanto che io non
l’avevo ancora sentita», ha spiegato Gilligan con l’umiltà degli uomini brillanti.
Alla fine, quel giorno, lo staff smontò le tende. La discussione andò avanti altri
tre giorni, prima di portare a una conclusione: a Jesse sarebbe stato chiesto
esplicitamente di controllare le manopole dell’auto di Mike mentre Mike era in
giro a riscuotere varie somme – non di toccarle, ma soltanto di guardarle. Quel
dettaglio fu doverosamente appuntato in una scheda e appeso al pannello di
sughero. A fine giornata, sarebbe stato incluso in un fascicolo di una quindicina
di pagine fitte di testo. Quindi fu incorporato nella bozza, per essere poi
sviluppato da Schnauz nella sceneggiatura. Quest’ultima poi è stata letta e
commentata da tutti gli autori e dallo stesso Gilligan, prima di essere sottoposta a
una revisione. E alla fine è diventata un’immacolata bozza di produzione.
A quel punto la storia fu sottoposta a tutta un’altra serie di test, per
deciderne le atmosfere, il tipo di produzione, e per una lettura ad alta voce (table
read). Fu letta attentamente da producer, scenografi, location scout, costumisti,
direttori di scena, registi, assistenti alla regia, secondi e terzi assistenti alla regia,
diventando a ogni passo più concreta, come se emergesse lentamente dalla linea
accecante di un orizzonte desertico. E finalmente fu spedita nel New Mexico per
essere immortalata, per sempre, su una pellicola.
E così è arrivata a noi: attraverso dei cavi in fibra ottica, internet o un dvd;
nelle nostre case, nelle nostre stanze da letto, o su uno qualsiasi dei nostri
dispositivi mobili; e noi l’abbiamo guardata, discussa, criticata, riassunta e
raccomandata agli amici. È diventata un altro oggetto sacro di quel rituale
comunitario che la tv è diventata all’inizio del ventunesimo secolo, grazie al dio
degli affari, della tecnologia e della creatività.
A un certo punto del lunghissimo processo di approvazione, il dettaglio
delle manopole era stato scartato e l’incarico di Jesse si era ridotto a rimanere
seduto nel sedile passeggero mentre Mike raccoglieva buste di soldi nascoste in
una serie di luoghi distanti tra loro. Una volta montata, l’intera scena durava
ottantadue secondi netti.
13. «Cosa farà Jesse?» L’acronimo originale sta per «What would Jesus do?» («Cosa farebbe Gesù?»),
motto diffusosi intorno agli anni Novanta, spesso stampato su braccialetti allo scopo di aiutare gli
adolescenti a perseguire uno stile di vita retto. [n.d.t.]
EPILOGO
Nel mondo della nuova serialità televisiva americana, che ha ormai quasi
quindici anni, non c’è nulla di più innaturale di una conclusione. In fondo, tutto
il modello economico del mezzo è basato sulla longevità, sulla durata e su un
alto numero di stagioni. In un mondo televisivo ideale nessuna porta si chiude
per sempre, nessuna serie arriva mai alla conclusione. Come dice la canzone dei
Journey: «Il film non finisce mai, continua, continua e continua…»
Per una lieta coincidenza della Terza Età dell’Oro, questa tendenza, posta
nelle mani giuste, ha contribuito non soltanto a elevare la tv a una forma di arte
«seria», ma anche a far sì che questa forma diventasse quella predominante,
almeno in questo periodo. «Nessun finale» adesso significava nessun finale
deludente, nessuna catarsi scontata, e un nuovo tipo di storie libere di evolversi
in modo più simile alla vita reale.
Allo stesso tempo, sappiamo che qualsiasi serie ha un’aspettativa di vita
naturale, un periodo oltre il quale la combinazione di familiarità e intreccio
narrativo comincia a produrre risultati sempre meno interessanti. Sono rare le
serie che ammettono di essere arrivate al capolinea prima di arrivarci (dipende
spesso dalle pressioni economiche e dalla miopia, inevitabile quando si è nel
pieno dell’azione). Come ha detto David Milch: «Ci sono serie che a metà del
percorso sono già morte e non se ne rendono conto».
Ovviamente la rivoluzione delle modalità di fruizione non si ferma nel
momento in cui questo libro va in stampa, ma sarà alimentata da ciò che
continua ad avvenire. Non rimane quindi che fare onore all’approccio scelto da
The Wire, nel quale ogni stagione, inclusa l’ultima, si concludeva con una
carrellata di scene i cui si vedono i protagonisti colti nell’azione, proiettati verso
il futuro.
David Simon lavora ancora per Hbo e ha finito Treme, la lettera d’amore
(sua e di Eric Overmyer) dedicata alla New Orleans colpita dall’uragano Katrina,
ritratta col piglio documentaristico di The Wire ma anche con un trasporto
profondamente emotivo. Simon ha spiegato che si è trattato di una specie di
risposta a The Wire, per confermare quanto sia utile e necessario raccontare le
città, soprattutto quelle che, come New Orleans, hanno rischiato di scomparire.
«Ormai se entri in un bar, che sia a Kathmandu o a Budapest, la musica
dominante è quasi sempre quella afroamericana, con la terza e settima diminuite.
E questa musica poteva nascere soltanto in un piccolo quartiere di New Orleans,
per una serie di fattori squisitamente americani. È il prodotto più esportato degli
Stati Uniti. Questo è ciò di cui questa città è stata capace. Questo è quello che
New Orleans può darti», ha detto.
Simon è anche diventato una sorta di agitatore professionista, un esperto
della polemica, in particolare sul tema delle politiche urbane e sul futuro dei
quotidiani. Ha tacitamente abbracciato questo ruolo nell’istante in cui ha aperto
il blog intitolato The Audacity of Despair («L’audacia della disperazione»),
come se ciò che aveva fatto fino ad allora non fosse già abbastanza influente,
audace o disperato. Curiosamente, per un uomo così dedito al giornalismo,
Simon ha spiegato di essersi spostato sul web anche per emanciparsi dai media
tradizionali, dai quali si sentiva spesso frainteso.
In ogni caso, sul blog Simon ci ha regalato un aneddoto da una vacanza
estiva in Italia: si trovava con il figlio adolescente a Pisa, davanti alla famosa
torre pendente. «Si pensa che io sia pessimista», ha scritto. «Sono quello
perennemente immerso in un’analisi del fallimento umano. Quindi la torre di
Pisa dovrebbe rientrare nel mio immaginario filosofico, o no?»
Ma al contrario, Simon cominciò a pensare ad altre torri sparse per il
mondo – lo Space Needle di Seattle, la Shot Tower di Baltimora – e al fatto che
quelle torri non erano inclinate.
Mi dissi: «È un’enorme vittoria il fatto che tutte le altre torri non si siano mai inclinate. È una
vittoria per l’umanità il fatto che questo monumento è famoso perché è l’unico ad aver fatto
quello che tutti gli altri hanno evitato. Forse c’è spazio per la speranza».
Ed Burns, che di Simon è stato il braccio destro, l’anima gemella e il degno
avversario, ha lasciato Baltimora. Dopo The Wire e Generation Kill, lui e sua
moglie Anna si sono trasferiti in una zona rurale del West Virginia, in una villa
di fronte a una collina sulla quale i cervi salgono a osservare il paesaggio.
Burns non ha lavorato a Treme. «Per Ed esistono solo due canzoni: una è di
Van Morrison e l’altra no», ha detto Simon. «Quella serie non gli piaceva». Ma è
anche vero che dopo un decennio di collaborazioni i due avevano bisogno di una
pausa l’uno dall’altro. Ma il nuovo contesto bucolico non ha diminuito l’energia
di Burns, che ogni tre o quattro frasi sembra far riferimento a un nuovo progetto,
a una possibile collaborazione, a un libro eccezionale appena letto. La piccola
città più vicina alla sua casa era sia una vittima della recessione sia una tappa del
«percorso della droga» verso Washington e Baltimora. Lì Burns era impegnato a
promuovere il programma di un’ambiziosa riforma educativa, basata sulla
filosofia di Geoffrey Canada, attivista di Harlem. Un executive con un po’ di
coraggio, uno in grado di trovare il West Virginia su una mappa, potrebbe
prendere un furgone, raggiungere Burns, togliergli il tappo della confusione e
fare incetta delle idee che ci galleggiano sotto. Sarebbe bello che fosse Simon a
farlo.
Gli interpreti di The Wire hanno patito il destino tipico di tutti gli attori:
avere ancora bisogno di lavorare quando, in alcuni casi, hai già fatto il meglio
che ti potesse capitare. Qualcuno di loro ha sfruttato bene il prestigio della serie:
Idris Elba è apparso nel ruolo di un poliziotto «difficile» nella serie Bbc Luther,
ma anche in ruoli più leggeri, come quello ricorrente in The Office; Wendell
Pierce e Clarke Peters hanno lavorato a Treme. Altri sono riapparsi in contesti
inattesi – pubblicità, produzioni televisive a basso budget e teen drama – dando
vita a un serio spaesamento da parte del pubblico. Considerata la gamma e la
quantità ancora limitate dei ruoli disponibili per gli attori afroamericani, molti di
loro sono spariti nel nulla.
Anche gli attori che hanno lavorato ai Soprano sono riapparsi disseminati nel
panorama della nuova tv. Terence Winter e Matthew Weiner sono diventati
showrunner. Robin Green e Mitchell Burgess sono tornati a lavorare, con
successo, a programmi dei network generalisti e delle reti basic cable. Todd
Kessler è alle prese con un nuovo progetto, dopo Damages.
Edie Falco è passata a Showtime, dov’è diventata l’antieroina protagonista
di Nurse Jackie (un’infermiera tossicodipendente, adultera e moralmente
compromessa), anche se in una serie con episodi da mezz’ora. E James
Gandolfini, sulle cui spalle possenti la Terza Età dell’Oro ha preso vita, è
quantomeno riuscito, in qualche modo, a liberarsi di Tony Soprano. Dopo la
serie aveva recitato a Broadway, prodotto due documentari Hbo sugli effetti del
disturbo da stress post-traumatico nei reduci di guerra, lavorato alla produzione
di un biopic su Hemingway e alla puntata pilota di una nuova serie Hbo, scritta a
quattro mani con Richard Price, dal titolo decisamente poco Hbo Criminal
Justice. Nel 2009 ha comprato una grossa casa con un lungo viale d’ingresso, nei
sobborghi del New Jersey. Pare che fosse invisibile dalla strada.14
Dopo aver lasciato Hbo, Chris Albrecht non è rimasto a lungo con le mani in
mano. Alla fine del 2007 ha accettato una posizione dirigenziale nel colosso IMG
Global Media e una partnership con la sua società madre, la Forstmann Little &
Co. Nel dicembre del 2009 è diventato il presidente di Starz, un altro canale a
pagamento che aspirava a una trasformazione radicale attuata attraverso una
programmazione originale. Carolyn Strauss è passata dal reparto acquisti di Hbo
a quello delle vendite, producendo tre delle serie più ambiziose del canale:
Treme, Luck di David Milch e Game of Thrones.
Questa lista rappresenta bene il range affrontato dalla programmazione di
Hbo tredici anni dopo l’inizio dei Soprano. True Blood, che Alan Ball e la patina
di allegoria razziale e sessuale hanno tenuto alla larga dal mero pulp, è stata il
maggior successo del canale da quando Tony Soprano ha abbandonato le scene.
La serie ha fatto passare la Louisiana del Nord per una terra popolata da
affascinanti e sensuali esseri antropomorfi di tutte le varietà possibili.
Si è trattato di un estremo della proposta della nuova Hbo, quel tipo di
produzioni sfarzose che sfoggiano senza remore un budget elevato, e hanno
contribuito a definire le opere di genere: la soap opera vampiresca, la saga
gangster anni Venti (Boardwalk Empire di Terence Winter), il fantasy epico
(Game of Thrones). Si tratta anche di quel tipo di produzioni nelle quali,
rispettando lo spirito della prima Hbo, è possibile imbattersi in scene di sesso
comicamente gratuite, poste spesso a ravvivare sequenze altrimenti noiose ma
necessarie. Il critico Myles McNutt ha coniato un termine, per questo tipo di
decorazioni: sexposition. I barbari delle basic cable possono anche aver
depredato alcune caratteristiche dell’identità di Hbo, ma le tette non
mancheranno mai.
All’altro estremo della proposta di Hbo troviamo uno spazio
apparentemente riservato agli showrunner più illustri per esplorare le loro
ossessioni private al di là dei confini dei generi o persino del drama tradizionale.
Quella di Simon è sicuramente New Orleans; quella di Milch è il mondo
dell’ippica. Dopo Deadwood, John from Cincinnati e un pilot abortito
ambientato nella New York degli anni Settanta, Milch è approdato a Luck ed è
sottostato a regole per lui nuove. Per la produzione è stato scelto Michael Mann,
regista cinematografico abituato ad avere a che fare con il potere e le manie di
controllo degli autori televisivi. A Milch è stato proibito di accedere al set e alla
sala di montaggio. Lui stesso ha ammesso che si è trattato di un passo avanti.
«È stata un’esperienza del tutto diversa, ma non mi è dispiaciuta affatto.
Cambiano le regole e cambia il tipo di esperienza, tutto qui», ha spiegato Milch
nel corso della prima stagione. «Imparare a lavorare con delle limitazioni è una
grande lezione di umiltà. E nell’ultimo anno ho imparato abbastanza». Ma in
seguito è stato chiaro che la lezione non era bastata, considerato che Luck ha
avuto lo stesso destino dei suoi predecessori. Dopo aver dovuto sopprimere tre
cavalli in seguito a disastrose cadute, nell’arco delle prime due stagioni, Hbo ha
bruscamente interrotto lo riprese e già il giorno dopo ha cancellato la serie.
Nonostante il dispiacere, sembra che il fascino esercitato da Milch sui dirigenti
del canale sia rimasto immutato. Poco dopo, insieme alla figlia, Milch era già a
lavoro sullo sviluppo di un progetto basato su un romanzo di William Faulkner.
Sue Naegle di Hbo ha spiegato: «Vogliamo fare di tutto affinché Milch dia voce
alle sue idee, perché sono indubbiamente eccezionali».
Il cambiamento più rilevante di Hbo, negli anni in cui il governo Bush
diventava un ricordo e l’era di Obama procedeva a testa alta, riguarda il fatto che
le sue serie hanno smesso gradualmente di sfidare gli spettatori proponendo
personaggi appartenenti all’altro estremo dello spettro sociopolitico. Dopo che il
poligamo mormone del sottovalutato Big Love ha abbandonato lo schermo ci si è
ritrovati con il pansessualismo emancipato di True Blood, le ragazze viziate e
competitive della Brooklyn di Girls, i vezzosi personaggi di Bored to Death e i
supereroi liberali, spocchiosi e middlebrow di The Newsroom di Aaron Sorkin.
L’impressione, adesso, era che Hbo proponesse agli spettatori di riflettere su se
stessi, piuttosto che di scoprire nuovi mondi e punti di vista.
Degli uomini che hanno portato la Terza Età dell’Oro sulle reti basic cable, Peter
Liguori è stato il più girovago: dopo aver lasciato Fx è stato dirigente di Fox
Broadcasting, direttore operativo e vicepresidente di Discovery
Communications, consulente per il Carlyle Group e, infine, ceo del travagliato
Tribune Co. Kevin Reilly, dopo un periodo in Nbc (in qui ha sviluppato, tra gli
altri, l’ottimo Friday Night Lights) è arrivato da Fox Broadcasting per ricoprire il
ruolo di presidente della sezione entertainment. Ha lavorato a diversi programmi
di successo, ma si è detto dispiaciuto di non essere riuscito a coinvolgere attori
di prima categoria, spiegando che volevano lavorare soltanto per i canali via
cavo.
Chic Eglee, l’autore di The Shield che lavorava in televisione dai tempi di
Mtm, ha detto che, secondo lui, Shawn Ryan è lo showrunner più simile a
Steven Bochco, un uomo con l’agilità creativa e l’ambizione necessarie per
costruire un impero televisivo. Per un periodo, sembrò che ogni cosa, agli studi
di Fox, dovesse passare dal suo ufficio. Ryan ha spiegato che per lui non è un
problema fare avanti e indietro tra le tv via cavo e quelle generaliste.
«Potrei scrivere una poesia in versi liberi per il solo piacere di farlo», ha
spiegato. «Ma adesso, se qualcuno mi chiede di scrivere un haiku, non sto lì a
lamentarmi dei limiti imposti, mi chiedo piuttosto: “Qual è la poesia migliore
che posso scrivere attenendomi alle regole degli haiku?”»
Nessuna delle successive serie di Ryan, però, ha eguagliato il successo di
The Shield. Due di esse, Terriers per Fx e The Chicago Code per Fox, sono state
cancellate dopo una sola stagione. Quindi Ryan si è spostato da Abc, dove ha
realizzato Last Resort, una produzione sfarzosa e commerciale sull’equipaggio
dissidente di un sottomarino nucleare, ma anche questa è stata cancellata dopo
tredici episodi.
Negli anni successivi a The Shield, Rescue Me e Damages, Fx ha premuto
l’acceleratore sul machismo dei suoi drama, tra i quali sono degni di nota
soprattutto Sons of Anarchy e Justified, un neo-western tratto da un’opera di
Elmore Leonard. Lo spirito sovversivo, provocatorio e strafottente delle prime
serie del network era più libero di esprimersi nelle comedy, una sequela
gioiosamente spinta che proponeva di tutto, dagli shock cerebrali di Louie e
Wilfred alla chiassosa volgarità di C’è sempre il sole a Philadelphia e The
League. Louie, scritta, diretta e interpretata dal comedian Louis C.K., ha
proposto un altro modello di autorialità, nel quale la libertà creativa è garantita
dal basso budget. Non che quest’approccio manchi di rischi, come ha dimostrato
BrandX with Russell Brand, anch’essa su Fx.
Entro la fine del 2013 gli executive che avevano portato Mad Men e
Breaking Bad su Amc si sono tutti spostati altrove, in buona parte per via degli
attriti con la nuova gestione del canale. Rob Sorcher dirige Cartoon Network;
Jeremy Elice e Christina Wayne si sono dedicati entrambi agli aspetti produttivi
del reparto sviluppo. Amc si è concentrata sui prodotti di genere e ha ottenuto i
suoi migliori ascolti di sempre grazie a The Walking Dead, serie horror sugli
zombie ideata da Frank Darabont, basata sull’omonimo fumetto e affidata nelle
prime stagioni allo showrunner Glen Mazzara, che si era fatto le ossa in The
Shield.
Cosa ne è stato della loro rivoluzione? Nel 2012, nessuno degli Emmy per il
miglior drama è finito nelle mani di un network generalista (se si esclude
Downton Abbey, serie britannica trasmessa negli Stati Uniti su Pbs, che è non-
profit e via cavo). Nessuno è stato particolarmente sorpreso dalla cosa: se un
tempo i network avevano riservato uno spazio nei loro palinsesti per i
programmi di prestigio e qualità, anche soltanto in cerca di premi, adesso hanno
da tempo ceduto questa nicchia alle tv via cavo. Anche quando sono stati mossi
dalle migliori delle intenzioni (cercando ad esempio di tenere in vita serie come
Friday Night Lights, la cui unica colpa era di non essere una serie cable) i
network hanno dimostrato da tempo che, quando si tratta di drama con puntate
da un’ora, non sono in grado di trovare un compromesso tra qualità e vendibilità.
A giudicare dalla fiumana di addetti ai lavori cinematografici che aspirano a
lavorare in tv, questo fenomeno sembra riguardare anche il cinema. Pochi eventi
sono più emblematici della decisione di Martin Scorsese, eroe della Nuova
Hollywood degli anni Settanta, di diventare executive producer di Boardwalk
Empire e di dirigerne il pilot. Subito dopo, Dustin Hoffman è stato protagonista
di Luck. Steven Soderbergh, lo Scorsese del cinema indipendente, li ha seguiti a
ruota: dopo aver diretto trentatré film, con produzioni grandi e piccole, ha deciso
di mollare e passare alla tv, come ha dichiarato all’Associated Press: «Gli
spettatori dei film americani non sembrano più interessati alle sfumature o alla
complessità di personaggi e trama», ha spiegato. «Credo che queste qualità siano
ormai appannaggio delle serie tv e che la gente le cerchi direttamente in tv».
Possiamo quindi adottare l’espediente del finale di Six Feet Under e immaginare
dove saremo tutti tra due, cinque o dieci anni?
Le conquiste artistiche della Terza Età dell’Oro sono state conseguite grazie
alla capacità di sfruttare creativamente il disorientamento, la confusione e i bassi
ascolti. Coloro che hanno approfittato di quel momento hanno lavorato senza
una direzione, senza una mappa, e con tutti gli incentivi del mondo a sobbarcarsi
i rischi. Ovviamente ciò che queste circostanze hanno permesso (il successo e
l’innovazione) è anche ciò che, quasi sicuramente, tornerà a modificarle. È per
via di questa dinamica che, nel tempo, lo scettro della miglior produzione
televisiva è passato prima da Hbo a Fx e poi a Amc, né smetterà mai di spostarsi.
Nella Terza Età dell’Oro hanno tutti vissuto un ottimo primo atto, ma nonostante
abbiano senza dubbio prodotto lavori di qualità, nessuno di essi ha eguagliato il
livello della prima eccezionale ondata. Stando a questi dati, sembra trattarsi di un
problema strutturale, che potrebbe non essere mai risolto.
La buona notizia è che sembra non esserci limite ai luoghi in cui la qualità
potrà trovare spazio d’espressione. Nel 2012, la tendenza alla programmazione
originale coinvolgeva ormai chiunque, non soltanto le tv via cavo ma anche tutte
le altre piattaforme e gli altri sistemi utilizzati per la distribuzione, in continuo
aumento. C’è stata una profusione di prodotti innovativi generati da entità che,
un tempo, non erano nemmeno considerate come eventuali produttori di
contenuti. Netflix ha adesso la sua programmazione originale. E lo stesso vale
per Hulu. DirecTV ha pensato che fosse una buona idea recuperare serie
considerate non più trasmettibili sui canali cable (Damages) o sui network
(Friday Night Lights). È diventato chiaro, in un panorama che offre infinite
possibilità, che i contenuti costituiscono l’unica forma di identità alla quale un
«canale» possa ambire.
L’altro motivo di speranza, correlato al precedente, era il fatto che la nuova
realtà economica non richiedeva più un pubblico enorme, né particolarmente
vasto. Considerato che è impossibile ottenere l’approvazione di tutto il pubblico
– almeno finché questo consenso sarà inseguito solo sui network generalisti o nei
cinema multisala – uno storytelling di qualità, nuove voci e idee ambiziose, tutti
i tratti distintivi della Terza Età dell’Oro, dovrebbero essere in grado di tenere
viva un’altra tendenza, una nicchia che corra parallela a bricolage, cuccioli e
disastri ambientali.
Shawn Ryan, sorprendentemente, è quello che ha la visione più pessimistica
del futuro. Secondo lui, i network saranno prima o poi attratti dal relativo
successo di certi programmi sciatti, populisti e apparentemente «bizzarri» tipici
delle reti via cavo. E cita quei film blockbuster che Peter Biskind, nel suo
importante saggio Easy Riders, Raging Bulls, accusava di aver seppellito la
Nuova Hollywood. «Dico soltanto che i programmi televisivi americani sono
l’equivalente dello Squalo e di Star Wars».
David Milch la pensa diversamente. «Credo che ci troviamo in un momento
così mutevole, in termini di mercato e creatività, che tra cinque anni qualsiasi
riflessione sul tema risulterà ingenua», ha detto. «Non ho modo di prevedere
quale sarà il nuovo paradigma, ma credo che si tratterà di qualcosa di
completamente diverso».
E per quanto riguarda David Chase, ha già espresso perfettamente il suo punto di
vista sui finali.
La scena finale dei Soprano aveva cominciato a prendere forma due anni
prima di essere scritta, quando Albrecht chiese a Chase di cominciare a pensare
al finale della serie. «Voleva che ci fosse un crescendo fino alla fine, e voleva un
finale definitivo, come quello dei libri o dei film», ha raccontato Chase. Non
aveva mai dato per scontato il lusso di poter scrivere un finale. La maggior parte
delle serie viene interrotta da un momento all’altro, senza una risoluzione. Ed era
coerente con l’approccio di Chase, nonché fondamentale per la sua visione
creativa, l’idea che sarebbe andata così anche per I Soprano, a prescindere dal
successo che avesse riscosso. Ad ogni modo, ha raccontato Chase: «Chris mi
chiese: “Te la senti?” Io ci pensai a lungo e dissi di sì».
Il concetto di finale, però, presentava un problema. Le convenzioni delle
storie di mafia suggerivano un numero limitato di opzioni per un boss: in galera,
nel programma di protezione dei testimoni, oppure ucciso. Ma nessuno di questi
convinceva Chase.
«La morale di questo tipo di serie, in passato, era sempre stata quella che
alla fine il protagonista scontava i suoi peccati. E cioè che il crimine non paga.
Ma non è così che stanno le cose. Il crimine paga. Dopo aver girato quella serie
per così tanto tempo, lo sapevo per certo», ha spiegato Chase.
Per cinque stagioni e mezza, la serie si era distinta per una visione del
mondo e una filosofia narrativa che rifiutavano i finali scontati e le facili catarsi
e comunicavano l’idea che la vita fosse molto più complicata. Se l’insistenza su
quest’idea poteva a volte snervare gli spettatori (che cavolo di fine ha fatto
l’uomo inseguito da Christopher e Paulie nell’episodio «Caccia al russo»?), è
anche vero che è imprescindibile dalla grandezza della serie.
Stando a Chase, la risposta è arrivata quasi per caso. Una delle prime idee
era che Tony andasse a Manhattan per incontrare il boss Johnny Sack (che
sarebbe quindi rimasto in vita, invece di essere sconfitto da un cancro). Mentre
suonava «The Last Time» dei Rolling Stones, Tony sarebbe rientrato nello stesso
Lincoln Tunnel dal quale l’avevamo visto spuntare all’inizio, diretto al suo
insondabile destino.
Ma Chase ebbe presto altre idee. «Immaginai questa cena. In realtà l’avevo
immaginata nell’aeroporto di Santa Monica. Perché proprio lì, non ne ho idea.
Ma avevo immaginato qualcosa di simile a Nighthawks, il quadro di Hopper. Ho
sempre pensato che si sarebbe potuta scrivere un’ottima serie, usando i quattro
personaggi di quel quadro».
Il quadro era anche stato il tema di una discussione tra Chase e sua moglie.
Denise, come molti altri, lo considerava una rappresentazione della solitudine.
«Io invece l’ho sempre visto diversamente», ha spiegato Chase. «Per via
dell’illuminazione. In mezzo al buio della strada, loro sono illuminati. E stanno
parlando. Sono una piccola comunità. Se uno si trovasse da solo, per strada, a
quell’ora, sicuramente entrerebbe in quel locale».
Era un’immagine ricorrente nei Soprano, fin dall’ultima scena della prima
stagione, quando la famiglia (con la f minuscola) si ritrova riunita al Vesuvio
durante un temporale. «Cosa significa il finale della serie?», ha detto Chase.
«Non lo so, ma credo che uno dei punti cruciali stia in quel gruppo di persone
riunite per ripararsi dal freddo. È una replica della scena della prima stagione:
fuori c’è una tempesta e loro sono dentro, dove c’è cibo, luce, calore e umanità».
Ma oltre alla famiglia riunita davanti agli anelli di cipolla di un diner
chiamato Holsten’s, c’era dell’altro nell’aria, una minaccia, incarnata da un
misterioso «uomo con la targhetta Members Only sul giubbotto». Anche se forse
il messaggio era che la minaccia non aveva mai smesso di esserci, che era
sempre stata lì, a incombere sullo sfondo. In ogni caso, la risposta non sarebbe
mai arrivata. Al contrario, mentre suona «Don’t Stop Believin’» dei Journey,
tutto ciò che vediamo è l’espressione interrogativa di Tony, lontana da una
risposta quanto la prima volta che l’abbiamo incontrato, e subito dopo… lo
schermo nero. Dieci lunghi secondi di buio. In quell’istante, milioni di persone
in tutto il paese pensarono a un problema tecnico avvenuto nel peggiore dei
momenti possibili.
Chase ricorda quando spiegò a Carolyn Strauss ciò che avrebbe voluto fare,
ovvero mantenere lo schermo nero per l’intera durata di quelli che sarebbero
stati i titoli di coda (ipotesi scartata dopo il rifiuto della Directors Guild). «Mi
assecondò», ha detto Chase. «Non credo che mi chiese che senso avesse. Io
cercai comunque di spiegarle che non importava cosa avrebbero pensato, ma
quello che avrebbero provato. In fondo, è l’unica cosa che mi sia mai
importata».
Nella fase della lettura ad alta voce davanti al cast, l’ultima pagina della
sceneggiatura fu seguita da un silenzio spaesato. «Nessuno si mosse. Era come
se nessuno volesse andar via», ha raccontato Chase. Quindi Edie Falco cominciò
a piangere sommessamente. Chase guardò Gandolfini per coglierne la reazione,
che fu la stessa delle precedenti ottantacinque letture ad alta voce: l’attore chiuse
la sceneggiatura, guardò nel vuoto per qualche minuto e infine spinse indietro la
sedia e se ne andò.
Tre giorni dopo la messa in onda dell’episodio, mentre in patria si
scatenava una piccola tempesta generata dal finale, Chase si trovava in Francia.
In un’intervista telefonica, andò molto vicino all’affermare che Tony Soprano, in
quel diner, aveva incontrato la sua fine. «Tutto ciò che ha a che fare con
quell’episodio è nell’episodio. E nell’episodio prima e in quello prima ancora e
nella stagione precedente e così via. […] C’erano già stati degli indizi su cosa sia
la fine. Le cose vanno così: quando te ne accorgi è già successo».
«Sta dicendo che…?», gli fu chiesto.
«Non sto dicendo niente», rispose Chase. «E non sto cercando di glissare.
Penso solo che spiegarlo vorrebbe dire sminuirlo».
Ciò non significava che, nonostante la sua visione tetra dell’uomo e della
storia, Chase non credesse nel lieto fine – o quantomeno nella possibilità di
un’evoluzione positiva delle cose:
Alcuni hanno detto che nell’ultimo episodio tutta la vita della famiglia Soprano finisce nel cesso.
Che tutto lo stile di vita biasimabile dei genitori si ripercuote sui figli. E questo è vero, fino a un
certo punto. Ma ragioniamo su una cosa: probabilmente Anthony Jr. non diventerà un militare,
né si unirà ai Corpi di Pace, né aiuterà il mondo, e probabilmente diventerà un produttore
cinematografico di poco conto, ma quel che è certo è che non diventerà un assassino come suo
padre, o sbaglio? Allo stesso modo, magari Meadow non diventerà una pediatra o un avvocato,
ma di certo non sarà una casalinga frustrata come sua madre; imparerà a muoversi nel mondo
come Carmela non ha mai saputo fare. Non sarà il futuro ideale, quello sognato dai loro genitori,
ma non potrà che essere migliore di quello che è stato fino ad allora. Piccoli passi verso una vita
migliore, è così che funziona.
Mezzo decennio dopo, a sessantasette anni, Chase sedeva nello studio del suo
enorme appartamento in un edificio storico della Upper East Side. Aveva
finalmente completato la sceneggiatura del suo primo film, una storia di
formazione densa di musica e ambientata nel New Jersey, originariamente
intitolata vlight Zones. Com’era avvenuto ai tempi dei Soprano, anche in questo
caso gli è stato chiesto di cambiare il titolo, soltanto che stavolta Chase ha
accettato. Il film ha così aperto il New York Film Festival del 2012 con il titolo
Not Fade Away.
È stata un’esperienza difficile, fisicamente sfiancante e artisticamente
ambiziosa. Dopo aver lavorato per anni ai Soprano, Chase aveva sviluppato un
suo modo di raccontare una storia. «Mi ero abituato all’idea che fosse possibile
recuperare le cose e aggiustarle. O che fosse possibile fare una deviazione, dare
un’occhiata alla moglie di Patsy Parisi, per dire, o cose del genere. Pensavo di
aver messo da parte tutto ciò, ma così non era. La sceneggiatura era piena di
dialoghi. Così abbiamo dovuto tagliare moltissimo girato».
Solo di rado gli sono tornate in mente le voci dei personaggi dei Soprano.
Qualche volta è capitato che lui o sua moglie Denise si rivolgessero l’un l’altra
una citazione della serie: «Oh, povero te!», oppure: «Dovresti farti pena!»
L’idea, su cui molti avevano speculato, che I Soprano potesse diventare un film,
in modo da coprire i buchi lasciati dalla serie, era destinata a rimanere un’idea –
il finale era stato la fine – ma l’ipotesi di un prequel, o di sviluppare una storia
secondaria, erano opzioni che Chase aveva considerato. «Magari raccontare di
Johnny Boy, il padre di Tony, e di quell’epoca. Sarebbe interessante, secondo
me. O altre cose appena accennate nella serie. Tipo: “Come sono andate le
riprese di Mannaia? [il film horror girato da Christopher]”».
Nonostante le difficoltà di Not Fade Away, e il fatto che stesse scrivendo
per Hbo una miniserie sulla storia di Hollywood, Chase non ha perso il suo
interesse per una carriera cinematografica: «Qualcuno una volta ha detto che i
film sono come una cattedrale, ed è quello che penso io. Una cattedrale è
maestosa, imponente, profonda».
Di un’altra serie, invece, non se ne parlava. «Le possibilità che riesca a
scriverne un’altra al livello dei Soprano sono pari a nulla. Inoltre non sono più
un ragazzino, non ho tutto questo tempo da poter dedicare cinque anni a una
serie tv», ha spiegato Chase, aggiungendo: «Ma tutto questo non lo dico perché
credo che i film diano più spazio alla creatività. Niente affatto».
Con le dovute eccezioni, la sua carriera è l’equivalente della sua visione del
progresso delle cose: graduale ma non insignificante. E non poteva essere
altrimenti. A completare il quadro, si può forse citare una dichiarazione rilasciata
in un momento di ottimismo, verso la fine dei Soprano: «Guarda, non posso
farci niente. Questo è quello che è successo. E sono davvero fortunato, perché
quando mi ritroverò sul letto di morte non dovrò dire: “Non ho combinato niente
nella mia vita”. Ho fatto qualcosa di importante, dico bene?»
Il materiale presente in questo libro proviene da ricerche e interviste condotte dall’autore, esclusi i
riferimenti che seguono o segnalati all’interno del testo.
Prologo
Per quanto riguarda i romanzi seriali vittoriani, ho consultato David Payne, The Re-Enchantment of
Nineteenth-Century Fiction: Dickens, Thackeray, George Eliot and Serialization (Palgrave Macmillan,
Basingstoke and New York 2005), Allan C. Dooley, Author and Printer in Victorian England (University
of Virginia Press, Charlottesville 1992) e, in particolare, Shawn Crawford, «No Time to Be Idle: The Serial
Novel and Popular Imagination» (World & I, n. 13, novembre 1998, pp. 323-32). Sia su questo tema che su
altri, ho ripreso alcuni contenuti del mio The Sopranos: The Book, prodotto per Hbo nel 2007 da Melcher
Media e accompagnato da una guida agli episodi stilata da Mimi O’Connor.
Capitolo 1
Su MTM Enterprises e la Seconda Età dell’Oro ho trovato insuperabili due libri: Television’s Second
Golden Age: From Hill Street Blues to ER, di Robert J. Thompson (Continuum Publishing, New York
1996) e MTM «Quality Television», a cura di Jane Feuer, Paul Kerr e Tise Vahimagi (British Film Institute
Publishing, Londra 1985). Mi sono tornati molto utili anche gli articoli «Television’s Real A-Team» di
David Freeman (Esquire, gennaio 1985) e «How I’d Fix Network TV» di Steven Bochco (Los Angeles
Times, 16 agosto 1992).
Capitolo 2
L’articolo di Vanity Fair del 2007 cui David Chase fa riferimento è «An American Family» di Peter
Biskind (aprile 2007). Stephen J. Cannell è stato abbondantemente intervistato dall’Archive of American
Television, che costituisce una risorsa meravigliosa e inesauribile per chiunque voglia scoprire come sono
realizzati i programmi televisivi.
Capitolo 3
Per quanto riguarda le origini e gli espetti economici di Hbo, mi sono fortemente appoggiato a George Mair,
Inside Hbo: The Billion Dollar War Between Hbo, Hollywood and the Home Video Revolution (Dodd,
Mead & Co., New York 1988).
Capitolo 5
Alcune delle analisi di questo capitolo sono state supportate da quelle di Susan Faludi, Stiffed: The Betrayal
of the American Man (William Morrow & Co., New York 1999), e ringrazio Todd Kessler per avermelo
segnalato. Molto utile, sia per la citazione di Scott Sassa sullo scontro tra cable e network, sia per i dettagli
su Alan Ball e Six Feet Under, è stato l’articolo «The Next Big Bet» di Tad Friend (The New Yorker, 15
maggio 2001).
Capitolo 6
Sia Homicide: A Year on the Killing Streets che The Corner: A Year in the Life of an Inner-City
Neighborhood sono state letture essenziali. Alcuni dei resoconti di David Simon sul suo anno nella squadra
omicidi del BPD e sul suo scorato abbandono del Baltimore Sun sono tratti dalla sua postfazione alla
ristampa del 2006 di Homicide, per Holt Paperbacks. La tensione tra Simon e Charles Dutton, sul set di The
Corner, è al centro dell’articolo «Who Gets to Tell a Black Story?» di Janny Scott (The New York Times, 11
giugno 2000).
Capitolo 7
La lettera di David Simon a Carolyn Strauss è presente in The Wire: Truth Be Told di Rafael Alvarez
(Canongate Books, Edinburgo 2009) ed è citata nell’articolo «Stealing Life» di Margaret Talbot (The New
Yorker, 22 ottobre 2007). Il resoconto del tracollo dell’impero di Melvin Williams è apparso sul Baltimore
Sun dall’11 al 15 gennaio 1987. Molte dichiarazioni dei romanzieri che hanno lavorato a The Wire sono
tratte dall’articolo «Baltimore’s Finest» di Alex Pappademas (GQ, dicembre 2008).
Capitolo 8
Le informazioni sull’apparizione di David Chase al Museum of Modern Art di New York sono tratte, tra le
varie fonti, dall’articolo «Leaving the Family» (Newark Star-Ledger, 14 febbraio 2001).
Capitolo 9
Il documentario Without a Net: Creating NYPD Blue (il cui sottotitolo è stato poi cambiato in David
Milch’s Creative Process), diretto da Marc Ostrick, è tutto ciò che promettono i suoi due sottotitoli: un
sincero e accurato resoconto dell’ultimo anno di Milch a NYPD Blue e un vivace ritratto dei suoi metodi
atipici. Molto utili sono stati anche: «The Misfit» di Mark Singer (The New Yorker, 14 febbraio 2005); il
saggio «Robert Penn Warren, David Milch and the Literary Contexts of Deadwood» di Joseph Millichap,
incluso in Reading Deadwood: A Western to Swear By, a cura di David Lavery (I.B. Tauris, Londra 2006);
e Deadwood: Stories of the Black Hills di David Milch, con interviste realizzate da David Samuels,
prodotto da Melcher Media (Bloomsbury Usa, New York 2006), un’autentica cornucopia di aneddoti sul
comportamento di Milch sul set.
Capitolo 10
Gli attacchi di David Simon rivolti al noto reporter del Sun Jim Haner si trovano in «Favorite Son» di
Abigail Pogrebin (Brill’s Content, ottobre 2000). Altri dettagli sono tratti dal già citato «Stealing Life» di
Margaret Talbot.
Capitolo 11
L’articolo di Amy Wallace «Violence, Nudity, Adult Content», incentrato sulla figura di Chris Albrecht, è
apparso su GQ nel novembre 2010. Per Rescue Me, ho tratto informazioni dalla prefazione di Denis Leary e
Peter Tolan a Rescue Me Uncensored: The Official Companion (Newmarket Press, New York 2007).
Capitolo 12
Matthew Weiner è stato l’unico dei principali showrunner ad aver gentilmente declinato l’invito a realizzare
un’intervista ad hoc per questo libro. Mi sono comunque bastate le informazioni raccolte in altre nostre
conversazioni passate e l’enorme quantità di dichiarazioni rilasciate a proposito di Mad Men. Le fonti
principali sono state l’intervista di un’ora condotta dalla sorella di Weiner, Allison Hope, per il suo podcast
video Media Mayhem, e l’articolo «Mad Men Has Its Moment» di Alex Witchel (New York Times
Magazine, 22 giugno 2008). Alcune citazioni sono tratte dai miei articoli «Breakout: Jon Hamm» (GQ,
dicembre 2008) e «The Men Behind the Curtain: A GQ TV Roundtable» (GQ, giugno 2012); dal secondo
sono tratte anche alcune dichiarazioni di David Milch e Vince Gilligan riportate altrove.