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FILOSOFIA 16 MARZO

CARTESIO
Cartesio (1596-1650) è da molti considerato il padre della filosofia moderna per aver messo radicalmente
in discussione il sapere tradizionale e aver spostato il fulcro sul soggetto e sulla sua razionalità. Egli inizia il
suo percorso filosofico mettendo in dubbio l’intero sistema delle conoscenze e concentra la sua attività
filosofica sulla ricerca di un metodo, sulla cui base operare una vera e propria rifondazione del sapere. Le
sue opere non sono trattati filosofici sul genere scolastico ma il suo è uno stile filosofico di tipo saggistico e
autobiografico che si avvicina molto alle Confessioni di Sant’Agostino: per Cartesio, infatti, la ricerca
filosofica è una ricerca su sé stessi, una narrazione autobiografica che spiega la personale via alla
conoscenza. La sua prima opera, Discorso sul metodo (1637), parte dal presupposto che la filosofia si è
ormai liberata dai limiti imposti dall’autorità ecclesiastica in quanto la verità non è quella rivelata nelle
Sacre Scritture, ma diventa il risultato di un processo conoscitivo affidato alle capacità della ragione. La
ragione, secondo Cartesio, è per natura uguale in tutti gli uomini, ne segue che la diversità delle nostre
opinioni non deriva dal fatto che alcuni sono più ragionevoli di altri, ma soltanto dal fatto che noi
conduciamo i nostri pensieri per vie diverse. Non basta dunque essere dotati di una buona intelligenza, ma
l’essenziale è applicarla bene.

La ragione, inoltre, riflette nelle scienze la propria unità: vale a dire che le diverse scienze non devono
essere considerate come discipline a sé stanti in quanto traggono i loro principi da alcune verità contenute
nella ragione stessa. Il problema principale di Cartesio diventa quindi quello di individuare un metodo che
essendo valido per tutte le scienze deve fornire il principio formale di ogni conoscenza possibile. Per
questo elabora alcune regole, che nell’opera Regole per la guida all’intelligenza dovevano essere 60 e poi
nel Discorso sul metodo vengono ridotte a 4. Tali regole che devono orientare l’indagine scientifica sono:

• la regola dell’evidenza: essa prescrive di accogliere come vero solo ciò che è tale. Invita ad accettare solo
quelle idee che si presentano alla mente senza alcuna confusione. Un’idea è chiara quando si afferma con
una tale forza che non è possibile non esserne consapevoli. Con la regola dell’evidenza, Cartesio condanna
la tendenza degli uomini a dare giudizi affrettati che ostacolano il raggiungimento della verità.

• la regola dell’analisi: essa prescrive di suddividere il problema nelle sue parti più elementari;

• la regola della sintesi: essa raccomanda di procedere alla conoscenza per gradi, passando dagli oggetti
più semplici a quelli più complessi. Tale idea presuppone che tutte le verità derivino le une dalle altre
secondo un ordine matematico;

• la regola dell’enumerazione: essa consiglia di svolgere delle revisioni generali così da essere sicuro di non
omettere nulla.
Il metodo cartesiano è dunque caratterizzato da due fonti che conducono alla conoscenza certa: l’intuito e
la deduzione. L’intuito riguarda le conoscenze immediatamente evidenti alla ragione, mentre la
deduzione consente di passare da verità semplici a verità costruite attraverso un ragionamento scandito
da passaggi intermedi. Il metodo di Cartesio obbedisce quindi a un modello matematico, il quale permette
di organizzare le conoscenze secondo un ordine esteso tanto quanto lo è il sapere dell’uomo. Ma la
matematica cartesiana non si configura come la matematica pura o applicata della tradizione scolastica,
ma come matematica universale, ovvero come la scienza dell’ordine e della misura.

IL COGITO
Il metodo è uno strumento essenziale per avanzare nell’indagine scientifica, ma da solo non è in grado di
garantire la certezza delle nostre conoscenze; così, il filosofo, nell’opera successiva al Discorso sul metodo,
le Meditazioni Metafisiche, decide di mettere in dubbio tutte le cose che non offrono la garanzia
dell’evidenza. Per farlo, egli applica il dubbio come procedimento metodologico per valutare se esiste
qualcosa che si sottrae ad esso: soltanto ciò potrà essere considerato evidente. Per questo motivo il
dubbio cartesiano è definito dubbio metodico. L’opera si presenta dunque come una descrizione sul modo
attraverso il quale il filosofo giunge all’idea fondamentale del cogito che gli consente di garantire la
certezza del proprio metodo filosofico.

PRIMA MEDITAZIONE

DELLE COSE CHE SI POSSONO REVOCARE IN DUBBIO

Necessità del dubbio metodico

Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai


miei primi anni, avevo accolto come vere una quantità,
di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato
sopra princìpi così mal sicuri, non poteva essere che
assai dubbio ed incerto; di guisa che m'era d'uopo prendere
seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte
le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per
cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo
stabilire qualche cosa di fermo e di durevole nelle
scienze.
Ma poiché quest'impresa mi sembrava grandissima,
ho atteso di aver raggiunto un'età,
così matura che non potessi sperarne dopo di essa un'altra più adatta;
il che mi ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai,
crederei di commettere un errore, se impiegassi ancora a
deliberare il tempo che mi resta per agire.
Nella prima parte dell’opera, di cui si nota nell’immediato l’impostazione autobiografica (Già da qualche
tempo mi sono accorto che…), Cartesio si rende conto di aver appreso una serie di conoscenze false nel
corso degli anni e cerca così di fare una sorta di bilancio del suo bagaglio conoscitivo.

Ora, dunque, che il mio spirito è libero da ogni cura,


e che mi son procurato un riposo sicuro in una pacifica
solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà, a una
distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni. E
non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che
esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei
mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già che
io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar
fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili,
che a quelle le quali ci appaiono manifestamente
false, il menomo motivo di dubbio che troverò
basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non v'è bisogno
che io le esamini ognuna in particolare, il che
richiederebbe un lavoro infinito; ma, poiché la ruina
delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto
dell'edificio, io attaccherò dapprima i principi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano poggiate.

Tale passaggio definisce il perimetro metodico di questo processo della messa in dubbio. Il filosofo
afferma di dover prima liberarsi da tutto ciò che non è assolutamente certo (ciò che non rispecchia il
principio di evidenza) per poi costruire l’edificio della conoscenza. Il procedimento che mette in campo
non consiste nel dimostrare che le conoscenze sono false ma si attiene al criterio dell’evidenza: qualsiasi
cosa se appare ragionevolmente vera ma manca del criterio dell’assoluta indubitabilità e evidenza deve
essere messa in dubbio. Non si tratta dunque di dimostrare le false conoscenze ma di dove è possibile
individuare il criterio dell’evidenza.

Non bisogna fidarsi dei sensi.

Tutto ciò che ho ammesso fin ad ora come il sapere


più vero e sicuro, l’ho appreso dai sensi, o per
mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi
sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza
non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una
volta ingannati.
Ma, benché i sensi c'ingannino qualche volta, riguardo
alle cose molto minute e molto lontane, se ne
incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente
dubitare, benché noi le conosciamo per
mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto
al fuoco, vestito d'una veste da camera, con
questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura.
E come potrei io negare che queste mani e questo
corpo sono miei? a meno che, forse, non mi paragoni
a quegli insensati, il cervello dei quali è talmente turbato
ed offuscato dei neri vapori della bile, che asseriscono
costantemente di essere dei re, mentre sono
dei pezzenti; di essere vestiti d'oro e di porpora, mentre
son nudi affatto; o s'immaginano di essere delle
brocche, o d'avere un corpo di vetro. Ma costoro son
pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.

La prima questione riguarda i sensi, i quali almeno una volta hanno ingannato l’uomo. Per questo motivo
bisogna sospendere il giudizio su ciò che proviene dai sensi. C’è dunque una tendenza opposta a quella che
era la filosofia rinascimentale, la quale aveva valorizzato l’esperienza sensibile. Per Cartesio, i sensi non
sono quindi la fonte della verità ma la fonte dell’inganno. La seconda questione affronta invece lo stato di
fatto in cui si trova il sé, ciò che riguarda direttamente il soggetto che è cosciente dell’esperienza che sta
vivendo. Tale esperienza non può essere messa in dubbio tranne che dai pazzi che vivono in una realtà
diversa da quella in cui sono inseriti. Per Cartesio la follia è negativa in quanto comporta estraneità alla
ragione.

Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e


che per conseguenza, ho I’abitudine di dormire e di rappresentarmi
nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle
meno verosimili ancora, che quegl'insensati quando vegliano.
Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte,
che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero
presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio
letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi
addormentati che io guardo questa carta, che questa
testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente
di deliberato proposito io stendo questa mano
e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo
chiaro e distinto come tutto questo.
Ma, pensandoci
accuratamente, mi ricordo d'essere stato spesso ingannato,
mentre dormivo, da simili illusioni.
E arrestandomi
su questo pensiero, vedo così manifestamente che
non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi
per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal
sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è
tale da esser quasi capace di persuadermi che io dormo.

Cartesio dubita poi sullo stesso stato di fatto del sé in quanto manca il criterio decisivo per distinguere la
veglia dal sonno.

Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati,


e che tutte queste particolarità, cioè che apriamo
gli occhi, moviamo la testa, stendiamo le mani, e simili,
non siano se non delle false illusioni; e pensiamo
che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non
siano quali noi li vediamo. Tuttavia bisogna almeno
confessare che le cose, le quali ci sono rappresentate
nel sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che
non possono essere formate se non a somiglianza di
qualche cosa di reale e di vero; e che così, almeno, queste
cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani,
e tutto il resto del corpo, non sono cose immaginarie,
ma vere ed esistenti. E, a dir vero, gli stessi pittori,
anche quando si sforzano con il maggior artificio di
rappresentare Sirene e Satiri in forme bizzarre e straordinarie,
non possono tuttavia attribuire loro forme e,
nature interamente nuove, ma fanno soltanto una certa
mescolanza e composizione delle membra di diversi animali;
ovvero, se per avventura la loro immaginazione
è abba stanza stravagante da inventare qualche cosa di
così nuovo, che mai noi non abbiamo visto niente di
simile, in modo tale che la loro opera ci rappresenti una
cosa puramente finta ed assolutamente falsa, certo almeno
i colori di cui la compongono debbono, essi, essere
veri.

Cartesio rintraccia negli elementi che costituiscono la materia onirica una somiglianza col vero in quanto
questi derivano in parte dalla realtà. A tal proposito inserisce l’esempio delle sirene e dei satiri che rendono
evidente il modo in cui la fantasia operi su elementi che sono derivati dalla realtà. Di conseguenza anche il
sogno ha un fondamento reale.

E per la stessa ragione, benché queste cose generali,


cioè degli occhi, una testa, delle mani, e simili, possano
essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi
sono cose ancora più semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti;
dalla mescolanza delle quali, né
più né meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri,
tutte queste immagini delle cose, che risiedono nel nostro
pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche,
sono formate. Di questo genere di cose è la
natura corporea in generale e la sua estensione; e così
pure la figura delle cose estese, la loro quantità, o grandezza,
e il loro numero; come anche il luogo dove esse
sono, il tempo che misura la loro durata, e simili.
Per questo, forse, noi non concluderemo male, se
diremo che la fisica, I’astronomia, la medicina e tutte
le altre scienze, che dipendono dalla considerazione
delle cose composte, sono assai dubbie ed incerte; ma
che I’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo
tipo, le quali non trattano se non di cose semplicissime
e generalissime, senza darsi troppo pensiero se
esistano o meno in natura, contengono qualche cosa di
certo e d'indubitabile. Perché, sia che io vegli o che
dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il
numero cinque, ed il quadrato non avrà mai più di
quattro lati; e non sembra possibile che delle verità,
così manifeste possano essere sospettate di falsità o
d'incertezza.

Ma anche il sogno deve poter contenere quegli elementi fondamentali della realtà per poter creare dei
costrutti dotati di significato anche se fantastici. Tali elementi sono quelli misurabili e analizzati dalle
discipline scientifiche. Solo le verità della matematica della natura sono indubitabili, sia che il soggetto sia
sveglio sia sogni.

IPOTESI DEL GENIO MALIGNO

Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero


Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo
genio, non meno astuto e
ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la
sua industria ad ingannarmi.
Io, penserò che il cielo, I’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose
esterne che vediamo,
non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità.
Considererò me stesso come privo affatto di mani, di
occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun
senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose.
Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se,
con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla
conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di
sospendere il mio giudizio.
Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità,
e preparerò
così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo
grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli
sia, non mi potrà mai imporre nulla.
Ma questo disegno è penoso e laborioso,
ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente nel corso della mia
vita ordinaria.
E a quel modo che uno schiavo, il quale
godeva in sogno d’una libertà immaginaria,
quando comincia a sospettare che la sua libertà. non è che un
sogno, teme d’essere risvegliato, e cospira con quelle
illusioni piacevoli, per esserne più lungamente ingannato,
così io ricado insensibilmente da me stesso nelle
mie antiche opinioni, ed ho paura di risvegliarmi da
quest'assopimento, per tema che le veglie laboriose che
succederebbero alla tranquillità di questo riposo,
invece di portarmi qualche luce e qualche rischiaramento nella
conoscenza della verità, non abbiano ad essere insufficienti
per illuminare le tenebre delle difficoltà che sono
state agitate testé.

Con l’ipotesi del genio maligno si procede a un’ulteriore radicalizzazione del dubbio (dubbio iperbolico).
Se, in un primo tempo, il filosofo sostiene che la verità indubitabile sia costituita dalla matematica da cui
ha tratto le stesse regole del metodo, successivamente afferma di non poter escludere la possibilità che un
"genio maligno", descritto come ingannatore e potente, si "diverta", per la sua "malignità", a ingannarci
ogni volta che effettuiamo un calcolo matematico. Egli, dunque, mette in dubbio anche quelle verità che
apparivano chiare ed evidenti: il dubbio ha così raggiunto la sua massima estensione possibile in quanto è
diventato universale, cioè iperbolico.

Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo


siano false; mi pongo bene in mente che nulla c’è mai
stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne,
mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno;
credo che il corpo, la figura, I’estensione, il movimento
ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito (chimerae).
Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero?
Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo
di certo.
Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre
quelle che testé ho giudicato incerte, della quale non
si possa avere il menomo dubbio?
Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra potenza,
che mi mette nello
spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché
forse io sono capace di produrli da me.
Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di
avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che
cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente dipendente
dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di
essi?
Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente
nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti,
né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo?
No, certo; io esistevo senza dubbio,
se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho
pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore
potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo
nell'ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io
esisto, s'egli m'inganna; e m’inganni finchè vorrà, egli
non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa.
Di modo che, dopo avervi
ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto,
bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione:
Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte
le volte che la pronuncio o la concepisco nel mio spirito.

In conclusione, l’ipotesi del genio maligno ha contribuito a sgomberare il campo da ogni tipo di
conoscenza che è al di fuori del soggetto. Quest’ultimo non può essere consapevole dei contenuti che si
rivolgono all’esterno in quanto c’è sempre la possibilità che in ognuna di queste conoscenze si annidi
l’inganno del genio maligno. Tuttavia, il soggetto resta sempre dotato dalla possibilità di sospendere il
giudizio, di non aderire quindi a quello che la realtà matematica gli comunica. Nel suo dubitare sorge un
principio di verità nuovo: il pensiero che si manifesta nel dubbio e la sua stessa esistenza. Il dubbio diventa
quindi manifestazione del proprio esistere: esisto indipendentemente dal corpo e dalla realtà. Il pensiero
consapevole di sé non ha nessun altro contenuto al suo interno se non sé stesso, se non la propria
consapevolezza di sé in quanto sostanza pensante. Se è evidente che io dubito, è altrettanto evidente che
io penso e quindi che esisto come sostanza pensante: cogito ergo sum.

FILOSOFIA 17 MARZO
Le idee e la loro causa

Consapevoli di esistere in quanto sostanza pensante, il soggetto è certo anche delle proprie idee che sono
l’oggetto immediato del pensiero stesso, vale a dire le rappresentazioni che il soggetto ha nell’atto del
pensare. Cartesio distingue tre categorie: a) le idee innate, che non possono derivare dall’esterno ma che
sembrano <<nate con me>>; b) le idee avventizie che ci provengono dall’esterno, come le idee delle cose
naturali; c) le idee fattizie, costruite da noi stessi come le idee fantastiche, ad esempio quelle del cavallo
alato o delle sirene. Le idee fattizie sono quelle costruite dal soggetto e quindi non possono rinviare ad
alcuna realtà esterna; allo stesso modo, si può dubitare che le idee avventizie provengano veramente
dall’esterno e non siano invece prodotte dall’uomo.
L’unico modo per garantire l’esistenza di qualcosa al di fuori del soggetto è individuare un’idea tale da
rimandare a una realtà esterna. Tra le idee, l’unica chiara e distinta è l’idea di Dio.
Essendo l’uomo un essere imperfetto e finito non può darsi da sé l’idea di un essere infinito e perfetto. La
sola presenza in lui di tale idea dimostra l’esistenza di Dio come sua causa. È Dio stesso a imprimere nella
mente degli uomini l’idea della sua esistenza, proprio come un artigiano firma la sua opera con il proprio
sigillo. Cartesio, inoltre, fornisce un secondo argomento a favore dell’esistenza di Dio: se fosse l’uomo la
causa di sé stesso, si sarebbe dato tutte quelle perfezioni di cui ha l’idea ma che non possiede
effettivamente. Pertanto, bisogna riconoscere che Dio esiste e che ha creato l’uomo finito, ponendo però
in lui l’idea dell’infinito e della perfezione. Il filosofo presenta poi un terzo argomento a favore
dell’esistenza di Dio. Si tratta della prova ontologica già formulata nel Medioevo da Anselmo D’Aosta: Dio
deve esistere necessariamente perché non possiamo pensarlo senza includere nell’idea che abbiamo della
sua essenza l’esistenza. L’assoluta perfezione implica l’esistenza. Pensare Dio come essere perfetto
significa pensarlo come esistente. La dimostrazione dell’esistenza di Dio archivia l’ipotesi del genio
maligno in quanto se Dio è l’essere perfetto non può che essere buono e dunque non può ingannare gli
uomini. Gli uomini, inoltre, hanno ricevuto da Dio la facoltà di giudicare e distinguere il vero dal falso,
pertanto tutto quello che la ragione ci presenta come vero deve ritenersi tale. Dio è garante dell’evidenza
e della verità: se ci ingannasse non potrebbe essere buono e perfetto. Gli errori e gli inganno in cui
inciampa l’uomo non potendo derivare da Dio sono responsabili degli uomini. In particolare, l’errore non
deriva dall’intelletto che Dio ci ha donato, ma dalla volontà che è in noi.

Il dualismo cartesiano
Stabilito che Dio esiste e che non inganna l’uomo in quanto nell’inganno risiede l’imperfezione, non è
possibile pensare che Dio ci faccia percepire un mondo intorno che in realtà non esiste.

Dio, infatti, essendo garante dell’evidenza e della verità, garantisce anche la realtà del mondo esterno che
ha parametri opposti al pensiero. Si tratta di una sostanza estesa della quale sono composti tanto il corpo
umano quando gli oggetti del mondo naturale.

Alla materia corporea, Cartesio riconosce due tipi di qualità:

* le qualità oggettive, ovvero quelle misurabili come la grandezza, il movimento, la quiete e la durata;

* le qualità soggettive come il colore, l’odore, il sapore e il suono.

Tuttavia le qualità materiali sono riconducibili al solo attributo dell’estensione in lunghezza, larghezza e
profondità. Tutti gli aspetti in cui si presenta la sostanza estesa dipendono esclusivamente dalla sua
divisione in parti e dal movimento che interviene tra di esse. Non esistono quindi spazi vuoti all’interno
della materia cosicché tutte le parti della sostanza estesa sono a contatto reciproco e interagiscono le une
sulle altre.

Ogni fenomeno naturale è quindi spiegato facendo ricorso al rigido meccanicismo.

In questo quadro meccanicistico l’azione di Dio è limitata a due interventi. Il primo di essi è la creazione
iniziale della sostanza estesa, cioè della materia.

Il secondo è la provvidenza ordinaria con cui conserva la materia e mantiene costante la quantità di moto
essa impresso.

Grazie a questa concezione Cartesio elabora tre leggi che presiedono al movimento interno della materia.

La prima tra esse è la legge dell’inerzia, secondo la quale ogni parte della materia conserva il proprio stato
finché non è urtata dalle altre. La seconda formula il principio della conservazione del movimento per cui
la quantità di moto che un corpo comunica un altro urtandolo è uguale a quella che perde. La terza
prescrive che ogni corpo tende a muoversi in linea retta.

Consapevole del fatto che alcune di queste sue teorie divergevano dal dettato delle Scritture, Cartesio
presenta le sue dottrine non come verità indiscusse ma come ipotesi che servono meglio capire la natura
di molti fenomeni fisici.

Se il mondo naturale è dotato di materia ed è sottoposto a un rigido meccanicismo, allo stesso modo
questa caratteristica si manifesta anche nel corpo umano. Esso infatti è sotto l’effetto di leggi meccaniche
che escludono l’intervento della coscienza, proprio come i movimenti delle lancette dell’orologio sono
dovuti a ingranaggi e non alla presenza di un’anima nell’orologio.

Il corpo è quindi concepito come una macchina le cui attività sono effetto di leggi meccaniche.

Sorge allora il problema di capire come si collegano queste differenti realtà tra di loro. Da un lato c’è la res
cogitans, una sostanza di carattere spirituale che non occupa spazio, non ha un peso e una forma.

Dall’altro c’è la res extensa che si estende nello spazio, ha una forma e un peso.

Mente e corpo sono dunque diverse, ma risulta il fatto che sono collegate tra loro.

In ciò consiste il dualismo metafisico che caratterizza il pensiero di Cartesio.

Egli cerca di risolvere tale dualismo facendo ricorso alla ghiandola pineale che si trova alla base del cervello
e ha la funzione di collegamento tra mente e corpo.

Tuttavia, la spiegazione di Cartesio appare debole in quanto lascia aperta la questione circa il modo in cui
l’anima possa produrre il movimento fisico della ghiandola, ovvero come la sostanza pensante possa
influenzare la sostanza estesa, non disponendo per sua natura di alcuna capacità meccanica. Di fronte a
questo problema, i critici hanno dato vita a una corrente di pensiero chiamata occasionalismo, di cui
Nicolas Malebranche è l’esponente più importante. Egli critica l’interazione fra la sostanza pensante e
quella estesa, ritenendo che esse siano due universi paralleli non aventi alcuna relazione reciproca. È Dio
che in ogni occasione si preoccupa di tenere insieme queste due sostanze.

Inoltre, questo dualismo tra anima e corpo condiziona anche la concezione delle passioni umane, un tema
che Cartesio sviluppa nell’opera Le passioni dell’anima. Egli distingue infatti due tipi di funzioni umane:

* le azioni che dipendono dalla volontà e che quindi sono frutto dell’agire libero;

* le passioni che sono affezioni involontarie causate nell’anima dalle forze meccaniche del corpo.

Secondo la sua ipotesi, le impressioni e le sensazioni non sono altro che movimenti impressi dalle cose
esterne ai nervi e trasmessi attraverso le vibrazioni dei nervi stessi alla ghiandola pineale. Tale impulso
meccanico determina la fuoriuscita dalla ghiandola pineale di alcuni spiriti sottili, gli spiriti vitali che a loro
volta fluendo nei condotti nervosi mettono in moto le varie parti del corpo indipendentemente
dall’intervento della volontà.

L’anima dunque subisce le passioni che per Cartesio di per sé non sono negative in quanto dispongono
l’anima stessa a preservare il corpo dal pericolo e alcune di esse stimolano alla ricerca di ciò che è utile per
l’uomo e per la sua auto conservazione. Per il filosofo, tuttavia, si deve evitare il cattivo uso delle passioni
che rende l’uomo schiavo degli impulsi del corpo impedendogli di esprimersi come soggetto libero e
razionale. Ciò è possibile soltanto quando la ragione impara ad avere una conoscenza chiara e distinta
delle passioni e dei suoi meccanismi in modo da non reprimerle ma controllarle e dirigerle a fini desiderati.

Per Cartesio in ciò consiste la saggezza che si identifica anche con la felicità dell’uomo.

Questa esigenza di promuovere il dominio della ragione sulla vita emotiva è avvertita da Cartesio fin dal
Discorso sul metodo, in cui egli aveva formulato una storia articolata in alcune regole. La prima tra queste
era di obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese e di conservare la religione nella quale si è stati
educati. La seconda prescriveva di preservare con risolutezza nella decisione presa. La terza invece era di
cercare di dominare se stessi piuttosto che la fortuna e di cambiare i propri desideri piuttosto che l’ordine
esterno delle cose. La quarta, infine, era di dedicare tutta la vita allo sviluppo della ragione e alla ricerca
della verità.

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