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Antologia

1. T-II

Il ritratto del sapiente

Iscrizione di Antef, XII Dinastia, 1991-1788 a. C.


cit. in T. Obenga, “Egypt: Ancient History of African Philosophy” p. 35.

Il Rekh-sai [il sapiente] è colui il cui cuore s’informa di cose ignote;


egli esamina i problemi con perspicacia; è moderato nel suo agire;
penetra gli scritti antichi; il suo consiglio aiuta ad affrontare le situazioni complesse; egli è
veramente saggio; istruisce il proprio cuore;
rimane sveglio la notte per scrutare i giusti sentieri;
cerca di andare oltre quello che ha già compiuto, (...),
si consacra totalmente alla saggezza.

È una delle più antiche definizione dell’ideale filosofico-sapiente.


L’autore parla del cuore (ib = la sede dell’intelligenza, dell’emozione CFR. Aristotele) si
pensa con il cuore. L’autore parla del sapiente come uno che è moderato nel suo agire
(EQUILIBRATO, con padronanza di sè, osservando la maat che è la legge della verità,
essere quindi plasmato dalla verità. Il sapienza penetra gli scritti antichi (è in ascolto delle
tradizioni che sono una catena ininterrotta. Tensione in ciò che è, che ci ha preceduti, che
ci ha lasciati. Il consiglio del sapiente aiuta ad affrontare le situazioni complesse perché lui
stesso cerca di illuminare i propri passi (lui stesso cerca di illuminare i suoi passi, rimane
sveglio, propone il frutto della sua ricerca, non è presuntuoso. Il sapiente cerca di andare
oltre quello che ha compiuto, non si sofferma al già conosciuto e si consacra totalmente
alla saggezza (CFR. Pitagora = uno che ama la saggezza).
T-III Parmenide: l’opinione e la verità
(Parmenide, Poema sulla natura, a cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991,
pagg. 85-119)
Frammento 1
21 E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra
22 prese, e incominciò a parlare cosí e mi disse:
23 “O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici,
24 con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,
25 rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere
26 questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini –,
27 ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda:
28 e il solido cuore della Verità ben rotonda
29 e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza.
30 Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono
31 bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso”.

- (antologia T-III pag 92 ) La verità viene identificata come una dea, si può fare
un paragone con l’Egitto perché la maat è chiamata figlia di Dio e generata da
Dio. Parmenide considera la verità come una dea. Bisogna sottolineare la
distinzione che fa tra stabilità della verità e la non certezza delle opinioni dei
mortali. Indica due vie di ricerca quella dell’essere e quella del non essere in cui
nulla si apprende. Pone nel terzo frammento un identificazione tra pensiero e
l’essere che si declina nella identificazione tra l’essere e la verità. Nel
frammento otto ci da le caratteristiche dell’essere e del reale che è l’oggetto
della verità e queste sono: è ingenerato (orgine divina), imperituro (perenne
stabile), eterno e senza fine, uno e continuo.
Platone intende le verità come l’adeguazione tra le forme mentali e le cose
esemplari o le forme ideali.

T-VIII

Descartes: il dubbio
R. Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima, «Prima meditazione», in Opere filosofiche,
a cura di E. Lojacono, Torino, Utet, 1994, vol. I, pp. 665-670

Già da alcuni anni mi sono reso conto di quanto numerose fossero le false opinioni che fin dalla
mia prima età avevo ammesso come vere e quanto dubbi e fossero tutte quelle che in seguito
avevo costruito muovendo da esse, sicché, almeno una volta nella vita, dovevo rimuovere ogni
cosa e ricominciare tutto dalle prime fondamenta, se miravo a stabilire una buona volta alcunché
di saldo e duraturo nelle scienze [...]. Oggi, dunque, liberata opportunamente la mia mente da
ogni preoccupazione, procuratomi un ozio sicuro, raccolto in solitudine, mi applicherò
finalmente con serietà ed in libertà a questa generale distruzione delle mie opinioni.
A tal fine invero non sarà necessario che mostri che sono tutte false, cosa che forse non potrei
mai raggiungere; ma, poiché la ragione già persuade che bisogna rifiutare l’assenso alle opinioni
non del tutto certe ed indubitabili non meno accuratamente che a quelle sicuramente false, per
rifiutarle tutte sarà sufficiente che trovi in ciascuna di esse qualche motivo di dubbio. Per questo
non sarà necessario che le esamini una ad una, compito che sarebbe infinito, ma poiché, scalzate
le fondamenta, tutto quel che vi è stato sopra edificato crollerà da sé, prenderò innanzi tutto di
mira quegli stessi principi su cui poggiava tutto ciò in cui un tempo avevo creduto. Tutto quel
che sino ad oggi ho stimato come assolutamente vero, l’ho ricevuto dai sensi o mediante i sensi;
ho però appreso che questi talvolta ingannano ed appartiene alla prudenza non dar mai completa
fiducia a chi anche una sola voltaci ha tratto in errore. Per quanto si dia il caso che talvolta i
sensi ci ingannino intorno a cose a stento percettibili e assai lontane, se ne trovano tuttavia
molte altre di cui non si può assolutamente dubitare, sebbene le attingiamo dagli stessi sensi: ad
esempio, che sono ora qui seduto accanto al fuoco con indosso una veste invernale con questo
foglio tra le mani e altre cose simili. Con quale argomento si potrebbe negare che queste stesse
mani sono mie e che tutto questo corpo m’appartiene?

(...)

Tuttavia è radicata nella mia mente una certa vecchia opinione e cioè che ci sia un Dio che può
ogni cosa e che mi abbia creato così come esisto. Donde so però che egli non abbia fatto sì che
non esista assolutamente terra alcuna, cielo alcuno, nessuna cosa estesa, nessuna figura, nessuna
grandezza, nessun luogo e tuttavia che tutte queste cose mi sembrino esistere non altrimenti da
come ora le vedo? Anzi, proprio come stimo che talvolta altri errino intorno a quelle cose che
pensano di conoscere perfettamente, non potrei parimenti ingannarmi ogni qualvolta metto
insieme due e tre o conto i lati del quadrato o quando – posto che vi sia– immagino qualcosa di
ancor più semplice?

Cartesio non mette in dubbio il dato di fatto, cioè la propria esistenza ma vuole
stabilire epistemologicamente il suo esserci, è un dubbio metodologico, per lui è
attraverso il cogito che io so che sono (penso dunque sono). Il cogito cartesiano nel suo
procedere inizia con il dubbio metodico, metto in dubbio un idea per verificarla
nell’atto del pensare, il dubitare e il pensare sono per Cartesio sono la stessa cosa. C’è
stata una polemica intorno a questo percorso che Cartesio ci propone dicendo che
Cartesio non è giunto al “sum” attraverso un ragionamento dimostrativo perché il
“dunque, l’ergo” non equivale alla conclusione di un sillogismo derivante
rigorosamente dall’elaborazione di premesse. per Cartesio l’io penso e l’apprensione
dell’io sono, sono la medesima cosa e risultano da un atto cognitivo. Anche Agostino fu
il primo a delineare un ragionamento del genere nel “sum agostiniano”. Lui si oppone
alla posizione scettica, affermando che chi si inganna riesce ad ingannarsi perché
esiste, dunque afferma se “io mi inganno, io sono”, con questa affermazione indica che
non si può dubitare di tutto, c’è dunque una verità che resiste a tutti i dubbi che è “l’io
sono”, ed io apprendo questa verità anche nell’inganno. Il dubbio dunque presuppone
un rapporto tra l’uomo e la verità, se dubito significa che qualche idea della verità
anche se imperfetta ce l’ho, alla luce di questa il dubbio ha certezza. (Antologia T VIII,
pag 96)

T-IX
Giambattista Vico, “Verum” e “factum”
(G. Vico, L’antichissima sapienza degli italici, in Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini,
Firenze, Sansoni, 1971,
pp. 62-64)
In latino verum e factum hanno relazione reciproca, ovvero, nel linguaggio corrente
delle Scuole, si convertono. Intelligere è lo stesso che leggere perfettamente, conoscere
apertamente. Si diceva cogitare nel senso in cui noi in volgare diciamo: «pensare» e «andar
raccogliendo». Ratio significava il calcolo aritmetico, e la dote propria dell’uomo, per cui si
differenzia dagli animali bruti e li supera; descrivevano comunemente l’uomo come un animale
«partecipe di ragione», non padrone completo di essa. D’altronde, come le parole sono simboli e
note delle idee, così le idee sono simboli e note delle cose. Dunque, come legere è l’atto di chi
raccoglie gli elementi della scrittura da cui si compongono le parole, così intelligere è il
raccogliere tutti gli elementi della cosa atti ad esprimere un’idea perfettissima.
Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti dell’Italia convenissero, circa la verità, nelle
seguenti proposizioni: il vero si identifica col fatto; di conseguenza il primo vero è in
Dio, perché Dio è il primo facitore; codesto primo vero è infinito,in quanto facitore di tutte le
cose; è compiutissimo, poiché rappresenta a Dio, in quanto li contiene, gli elementi estrinseci ed
intrinseci delle cose. Sapere (scire) significa comporre gli elementi delle cose: quindi alla mente
umana è proprio il pensiero (cogitatio), alla divina l’intelligenza (intelligentia). Dio infatti
raccoglie (legit) tutti gli elementi delle cose, estrinseci ed intrinseci, in quanto li contiene e
dispone; invece la mente umana, in quanto limitata, e in quanto sono fuori di lei tutte le altre
cose che non siano essa stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi esterni delle cose,
senza mai collegarli tutti. Pertanto è partecipe della ragione, non padrona.

- Aristotele dice che è nel falso chi formula pensieri diversi rispetto alla realtà
delle cose.
Gli analitici definiscono la verità come l’accordo tra la proposizione e il fatto; il
fatto per loro è l’accaduto, l’evento e dunque la realtà. Non sono stati i primi a
formulare questa identificazione tra verità e fatto. Vico fu uno dei primi a
formulare questa teoria (antologia IX).
T-X
Kant: le forme pure o le categorie a priori
(Critica della ragione pura, Prima parte, Dottrina trascendentale degli elementi, §1)
In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisca ad oggetti, quel modo,
tuttavia, per cui tale riferimento avviene immediatamente, e che ogni pensiero ha di mira come
mezzo,è l'intuizione. Ma questa ha luogo soltanto a condizione che l'oggetto ci sia dato; e
questo, a sua volta, è possibile, almeno per noi uomini, solo in quanto modifichi, in certo modo,
lo spirito. La capacità (recettività) di ricevere rappresentazioni pel modo in cui
siamo modificati dagli oggetti, si chiama sensibilità. Gli oggetti dunque ci son dati per mezzo
della sensibilità, ed essa sola ci fornisce intuizioni; ma queste vengono pensate dall'intelletto, e
da esso derivano i e concetti. Ma ogni pensiero deve, direttamente o indirettamente, mediante
certe note, riferirsi infine a intuizioni, e perciò, in noi, alla sensibilità, giacché in altro modo non
può esserci dato nessun oggetto. L'azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto
noi ne siamo affetti, è sensazione. Quella intuizione che si riferisce all'oggetto mediante la
sensazione, dicesi empirica. L'oggetto indeterminato di una intuizione empirica si dice
fenomeno. Nel fenomeno, io chiamo materia ciò che corrisponde alla sensazione; ciò invece,
per cui il molteplice del fenomeno possa essere ordinato in determinati rapporti, chiamo forma
del fenomeno. Poiché quello in cui soltanto le sensazioni si ordinano e possono essere poste in
una forma determinata, non può essere da capo sensazione; così la materia di ogni fenomeno
deve bensì esser data solo a posteriori, ma la forma di esso deve trovarsi per tutti bella e pronta
a priori nello spirito; e però potersi considerare separata da ogni sensazione. Tutte le
rappresentazioni, nelle quali non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione, le
chiamo pure (in senso trascendentale). Quindi la forma pura delle intuizioni sensibili in
generale, in cui tutta la varietà dei fenomeni viene intuita in determinati rapporti si troverà a
priori nello spirito. Questa forma pura della sensibilità si chiamerà essa stessa intuizione pura.
Così, se dalla rappresentazione di un corpo separo ciò che ne pensa l'intelletto, come sostanza,
forza, divisibilità, ecc., e a un tempo ciò che appartiene alla sensazione, come impenetrabilità,
durezza, colore, ecc., mi resta tuttavia qualche cosa di questa intuizione empirica, cioè
l'estensione e la forma. 98
Queste appartengono alla intuizione pura, che ha luogo a priori nello spirito, anche senza un
attuale oggetto dei sensi, o una sensazione, quasi semplice forma della sensibilità. Chiamo
estetica trascendentale una scienza di tutti i principia priori della sensibilità. Deve esserci una
tale scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in
opposizione a quella che contiene i principi del pensiero puro,
e vien denominata logica trascendentale. Nella estetica trascendentale, dunque, noi isoleremo
dapprima la sensibilità, separandone tutto ciò che ne pensa coi suoi concetti l'intelletto, affinché
non vi resti altro che l'intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da questa ciò
che appartiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la intuizione pura e la
semplice forma dei fenomeni, che è ciò solo che la sensibilità può fornire a priori. In questa
ricerca si troverà che vi sono due forme pure d'intuizione sensibile, come princìpi della
conoscenza a priori, cioè spazio e tempo, del cui esame noi ci occuperemo ora.

- Kant dice che la verità è la coerenza tra le formulazione e le categorie a priori


del conoscere (le categorie della sensibilità ed intuizione e le categorie
dell’intelletto che sono 12). Il noumeno non lo possiamo apprendere ma
nemmeno il fenomeno possiamo apprenderlo nella sua nudità a lo
apprendiamo attraverso le categorie a priori della sensibilità e dell’intelletto
che ci offrono degli occhiali attraverso i quali leggiamo il fenomeno e sono le
condizioni di possibilità della conoscenza. L’accordo qui è tra il soggetto
conoscente e le categorie della sua soggettività, non è un rapporto tra il
soggetto e la realtà, il contatto con la realtà viene dopo. Se si fa un uso corretto
delle categorie a priori potrà formulare un giudizio considerato vero. (Ant. T- X)

T-XII
Heidegger: La verità come alètheia
(M. Heidegger, L’essenza della verità, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1997,
«Considerazioni introduttive», pp. 32-33; 35-36).
Domandiamo ora, senza alcun riguardo per questa definizione abituale, come venne intesa la
verità all’inizio della filosofia occidentale, e cioè che cosa pensassero i Greci di ciò che noi
chiamiamo «verità». Quale parola avevano per nominarla? La parola greca che sta per «verità»
– non lo si sarà mai ricordato abbastanza, e bisogna sempre tornare a farlo, quasi ogni giorno – è
alètheia, svelatezza. Qualcosa di vero è un alethès, uno svelato. Che cosa vediamo innanzitutto
da questa parola? Due cose: 1. I Greci intendevano ciò che noi chiamiamo «il vero» come il dis-
velato, il non più velato; ciò che è senza velatezza e dunque ciò che è stato strappato alla
velatezza, ciò che le è stato, per così dire, rapito. Il vero è quindi per il Greco qualcosa che non
ha più in sé qualcos’altro, cioè la velatezza da cui si è liberato. Perciò l’espressione usata dai
Greci per nominare la verità ha, per la sua struttura semantica e anche per la sua struttura
lessicale, un contenuto fondamentalmente diverso rispetto alla nostra parola tedesca Wahrheit e,
significativamente, anche già rispetto all’espressione latina veritas. È un’espressione privativa.
[…]
Il significato della parola usata dai Greci per nominare la verità, cioè «svelatezza», non ha
innanzitutto nulla a che fare con l’asserzione e con quel contesto a cui ci aveva condotto la
definizione usuale dell’essenza della verità, vale a dire la concordanza e la conformità. Essere
velato e svelato significa qualcosa di totalmente diverso da concordare, commisurarsi,
conformarsi a... La verità come svelatezza e la verità come conformità sono due cose
completamente distinte, come se derivassero da esperienze fondamentali del tutto diverse e tra
loro inconciliabili. […] Che cosa è che i Greci chiamano alethès (svelato, vero)? Non
l’asserzione, né la proposizione e nemmeno la conoscenza, ma l’ente stesso, l’intero costituito
dalla natura, dall’opera dell’uomo e dall’agire di Dio. Quando Aristotele dice che nel filosofare
ne va perì tès alètheias, «della verità», non intende dire che la filosofia debba formulare
proposizioni corrette e valide, ma vuol dire che la filosofia cerca l’ente nella sua svelatezza in
quanto ente. L’ente pertanto deve essere prima esperito anche nella sua velatezza, come
qualcosa che si nasconde. Questa esperienza fondamentale rappresenta manifestamente il
terreno dal quale soltanto scaturisce la ricerca di ciò che è dis-velato. Solo se l’ente viene prima
esperito nella sua velatezza e nel suo nascondersi, solo se la velatezza dell’ente circonda l’uomo
e lo angustia nella sua interezza e nel suo fondamento, è necessario e possibile che l’uomo si
metta all’opera per strappare l’ente a questa velatezza e portarlo nella svelatezza, ponendosi così
egli stesso nell’ente disvelato. Ci chiediamo: abbiamo dagli antichi una testimonianza di questa
esperienza fondamentale dell’ente come qualcosa che si nasconde? Fortunatamente sì, ed è
anche una testimonianza eccelsa di uno dei filosofi più grandi e per giunta più vetusti
dell’antichità: Eraclito. Di lui si tramanda il significativo detto: Il regnare sovrano dell’ente,
cioè l’ente nel suo essere, ama nascondersi. In questo detto sono racchiuse molte cose.
In questo detto di Eraclito trova espressione quella esperienza fondamentale con la quale, nella
quale e a partire dalla quale si incominciò a guardare nell’essenza della verità come dis-
velatezza dell’ente. E questo detto è antico, tanto antico quanto la stessa filosofia occidentale;
anzi dobbiamo dire: questo detto esprime quella esperienza e quella posizione fondamentale
dell’uomo antico con le quali soltanto ha inizio propriamente il filosofare.

- Antologia XII la verità come alétheia Heidegger


- “l’ente deve essere esperito anche nella sua velatezza, questa esperienza
rappresenta il terreno nel quale scaturisce la ricerca di ciò che è disvelato”. Qui
cita Eraclito che dice che l’ente nel suo essere ama nascondersi , allora è
necessario riportarlo alla luce attraverso un operazione che si chiama
svelamento, aletheia significa che è il soggetto conoscente che deve disvelare
l’essere perché l’essere ama nascondersi. La rivelazione di cui parla non è una
rivelazione mistica religiosa, è necessario fare un esperienza con l’essere, un
esperienza che mette l’uomo in un angoscia che lo mette in agitazione e questa
angoscia nasce dal fatto che l’essere avvolge il soggetto nella sua velatezza.
Quindi bisogna combattere una battaglia per condurre l’essere fuori dal suo
nascondimento.

TXIII
Karl Jaspers, La verità
(K. Jaspers, La mia filosofia, trad. di R. De Rosa, Torino, Einaudi, 1946, pp. 26-30)
L’esattezza rigorosa delle scienze non è tutta la verità. Tale esattezza, nella sua validità
universale, non ci vincola in tutto e per tutto quali uomini reali, ma solo quali esseri forniti
d’intelletto. Si tratta solamente di un vincolo rispetto alle cose che vengono conosciute, di un
vincolo particolare ma 101
non pieno e totale. È vero che nella comunità dell’indagine scientifica, in grazia delle idee che
in essa si realizzano e degli altri impulsi dell’esistenza che in essa si manifestano, possono darsi
degli uomini che siano dei veri amici. Ma l’esattezza della conoscenza scientifica come tale
vincola tutte le nature intellettive nella loro somiglianza, in quanto punti rappresentabili, e non
vincola sostanzialmente gli uomini stessi.
Intanto bisogna riconoscere che l’esattezza pura e semplice non ci appaga. E il movimento, che,
nel pensare, va alla ricerca dell’autentica verità, nasce appunto da questo inappagamento. [...]
La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.
Tutto considerato, anche la comunicazione ci fa avvertire e sentire che la verità è qualche cosa
di infinitamente di più. La comunicazione è la via verso la verità in tutti i suoi aspetti. Lo stesso
intelletto diventa chiaro a se stesso soltanto nella discussione. La maniera come l’uomo, in
quanto esserci, in quanto spirito, in quanto esistenza, sta o può stare in comunicazione, è quella
che rende possibile la rivelazione di ogni altra verità. [...]
La fonte di questa verità, per distinguerla da ciò che si presta a essere formulato e oggettivato,
da ciò che è particolare, e determinato, nelle forme nelle quali l’essere può starci dinanzi, noi la
chiamiamo il Tutto-avvolgente. Questo concetto non è affatto familiare e tanto meno di per se
stesso evidente. Il Tutto-avvolgente possiamo cercare di rischiararlo filosofando, ma non
possiamo conoscerlo oggettivamente. Qui ci attende il bivio fatale, dove noi raggiungiamo o il
vero filosofare o torniamo da capo indietro, mentre, giungendo al nostro limite, dovremmo
osare il salto verso il pensiero trascendente. [...]
Tutto ciò che diventa oggetto per me emerge, per così dire, dal fondo oscuro dell’Essere. Ogni
oggetto è un essere determinato, che mi sta di fronte nella scissione di soggetto e oggetto; ma
non è mai tutto l’Essere. Nessun essere conosciuto in questa maniera, cioè oggettivamente, è
l’Essere. Ma l’insieme delle cose conosciute come oggetti non rappresenta tutto l’Essere? No.
Come in un paesaggio dall’orizzonte sono racchiuse le cose, così tutti gli oggetti sono racchiusi
dall’orizzonte in cui essi si trovano. Nel mondo dello spazio ci accade che, per quanto ci
accostiamo all’orizzonte, non riusciamo mai a raggiungerlo, e esso piuttosto si muove con noi e
sempre nuovamente si riforma, come quello che, volta per volta, tutto racchiude in sé. [...]
L’Essere ci trascina in tutti i sensi verso l’infinito. Noi vogliamo renderci conto dell’Essere che,
mentre ci si rivela venendoci incontro in ogni oggetto e in ogni orizzonte, pure, come tale,
sempre indietreggia e si allontana. Questo Essere noi lo chiamiamo: il Tutto che ci avvolge. Il
Tutto-avvolgente è dunque ciò che sempre e continuamente si annunzia a noi, e ci si annunzia
non in quanto ci venga innanzi esso stesso, ma in quanto è la scaturigine di ogni altra cosa. [...]
La verità trova, in ultimo, il suo fondamento nell’esistenza che noi possiamo essere. Tutto
dipende dal lasciarci guidare nella vita da una incondizionatezza, da un possesso e un dominio
pieno e assoluto di noi, il quale nasce soltanto dalla risoluzione. Mediante la risoluzione
l’esistenza diventa reale, la vita viene foggiata e trasformata in quell’agire interiore che,
rischiarandoci, ci sorregge nel volo. Quando l’amore ha come fondamento una risoluzione, non
è più l’infida passione che s’agita senza mèta, ma la completa realizzazione di noi, nella quale ci
si manifesta il vero Essere.
Quello che deve esser fatto nella vita del pensiero è reso possibile da un filosofare che,
rimembrando e presagendo, faccia manifesta la verità. Questo filosofare ha il suo vero
significato solamente se al pensiero corrisponde una realtà di chi pensa, la quale venga a
integrarlo. Questa realtà non è la conseguenza o l’applicazione di una dottrina, ma è la prassi
dell’essere umano, che si protende in avanti nell’eco del pensiero. È un impeto di movimento
che ha luogo, per dir così, con due ali, che sono il pensiero e la realtà. L’uno e l’altra debbono
spiegarsi, se si vuole che il volo riesca. Il pensiero puro e semplice rimarrebbe un vuoto agitarsi
di possibilità; la realtà pura e semplice rimarrebbe una cupa incoscienza, dato che senza
spiegamento non potrebbe intendere se stessa.

Antologia XIII la verità Jaspers


- Jaspers è un filosofo cristiano, ci parla della via della verità che non è esattezza,
via della verità è la comunicazione, la maniere come l’uomo in quanto esserci,
in quanto spirito, in quanto esistenza e quindi in comunicazione è ciò che rende
possibile la verità con la sua rivelazione. Qui si nota un impronta
esistenzialistica della verità.
- La fonte di questa verità la chiamiamo il “tutto avvolgente” che non possiamo
porre come un oggetto di conoscenza perché ci avvolge e quindi non potendo
porlo oggettivamente di fronte a me devo rinforzare in me la coscienza di
appartenere a questo tutto avvolgente, possiamo solo filosofare e meditare su
questa realtà che ci avvolge. Noi l’esistenza piena la viviamo nella risoluzione
che è l’autenticità della nostra esperienza esistenziale.
- Risoluzione: per Jaspers è la scelta libera del proprio essere più autentico, si
chiama anche libertà.
- Una scelta che non è facile perché devo conoscere me stesso per essere
autentico, l’altra difficoltà è il coraggio di essere me stesso in ogni momento.
- In Jasper l’essere è un universale che può essere identificato da un credente
nella sua Risoluzione con Dio.
- Conoscere se stesso è un processo che conta non tanto il pretendere di aver
raggiunto un traguardo, nella ricerca il soggetto copre sempre qualcosa di se
nel cammino che non esaurisce tutta la verità del proprio essere, quindi prima
si comincia e meglio è e più rigorosamente si fa questo cammino e meglio è. Il
tutto avvolgente trascende la soggettività del soggetto perché il soggetto è un
particolare del tutto avvolgente quindi il soggetto si scopre in una realtà che
trascende la soggettività ma che p collegata con la sua soggettività, ma non
bisogna confondere il tutto avvolgente con la propria soggettività, questo
sarebbe riduzionismo che è quello che è successo nella filosofia moderna.
- l filosofare di cui si parla si muove con due ali che sono il pensiero e la realtà,
questo ci fa pensare ad un testo di Giovanni Paolo II, le due ali della ricerca
della verità sono la ragione e la fede. Jasper dice che le due ali sono la ragione e
la realtà.

T-XIV
Karl R. Popper, l’idea di “verità oggettiva”
(K.R. Popper, Conjectures and Refutations. The Growth of Scientific Knowledge, London-
New York, Routledge & Kegan Paul, 2002, pp. 304-307, trad. di L. Dappiano).
Grazie al lavoro di Tarski, l’idea di verità oggettiva o assoluta – cioè di verità come
corrispondenza con i fatti – pare oggi essere accettata con fiducia da chiunque la comprenda. Le
difficoltà a comprenderla sembrano avere due fonti: primo, la combinazione tra un’idea intuitiva
estremamente semplice e un certo grado di complessità nell’esecuzione del programma tecnico
a cui l’idea dà origine; secondo, il dogma diffuso ma fallace per il quale una teoria
soddisfacente della verità debba fornire un criterio di credenza vera, di credenza ben fondata, o
razionale. E, in effetti, questo dogma è sotteso alle tre rivali della teoria corrispondentista della
verità – la teoria coerentista, che fraintende la verità con la consistenza, quella evidenzialista,
che fraintende «vero» con «conosciuto come vero», e quella pragmatista o strumentalista, che
fraintende la verità con l’utilità. Esse sono tutte teorie della verità soggettive (o «epistemiche»),
in contrapposizione con la teoria oggettiva (o «metalogica») di Tarski. Sono soggettive nel
senso che tutte partono dalla fondamentale posizione soggettivista che può concepire la
conoscenza solamente come un tipo speciale di stato mentale, o come una disposizione, o come
un tipo speciale di credenza, caratterizzato, per esempio, dalla sua storia o dalla sua relazione
con altre credenze. […] Si può mostrare che tutte le teorie soggettive della verità […] tentano di
definire la verità in funzione delle fonti o dell’origine delle nostre credenze, o in funzione delle
nostre operazioni di verificazione, o di qualche insieme di regole di accettazione, o
semplicemente in funzione della qualità delle nostre convinzioni soggettive. Tutte queste teorie
affermano, con maggiore o minor enfasi, che la verità è ciò che noi crediamo o accettiamo in
modo giustificato, in accordo a certe regole o criteri legati alle origini o alle fonti della
conoscenza, all’affidabilità, o alla stabilità, o all’effetto, o alla forza della convinzione, o
all’impossibilità di pensare in altro modo (…).
Pertanto, un grande vantaggio della teoria della verità oggettiva o assoluta è che essa ci permette
di dire […] che noi cerchiamo la verità, però possiamo non sapere quando l’abbiamo trovata;
che non abbiamo alcun criterio di verità, ma ciononostante siamo guidati dall’idea di verità
come principio regolativo (come potrebbero dire Kant o Peirce) e che, pur non essendoci criteri
generali sulla base dei quali possiamo riconoscere la verità – se si eccettuano, forse, le verità
tautologiche – ci sono criteri di progresso verso la verità (come spiegherò subito). La situazione
della verità in senso oggettivo, come corrispondenza ai fatti, e il suo ruolo di principio
regolativo, possono essere paragonati a quello della cima di un monte solitamente avvolta da
nubi. Non solo può darsi che lo scalatore incontri difficoltà nel raggiungere la cima, ma può
anche darsi che non sappia quando l’ha raggiunta, perché può non essere capace di distinguere,
fra le nubi, la cima principale da qualche cima più bassa. Questo tuttavia non tocca l’esistenza
oggettiva della cima, e, se lo scalatore dice: «Dubito di aver raggiunto la cima vera e propria»,
allora riconosce, per implicazione, l’esistenza obiettiva della cima. La stessa idea di errore e di
dubbio (nel suo senso diretto e normale) implica l’idea di una verità oggettiva che può darsi non
riusciamo a raggiungere. Benché per lo scalatore possa essere addirittura impossibile accertarsi
di aver raggiunto la cima, spesso sarà facile, per lui, rendersi conto di non averla raggiunta (o di
non averla ancora raggiunta); per esempio, quando è respinto da una parete che lo sovrasta.
Analogamente, ci saranno casi in cui siamo ben sicuri di non aver raggiunto la verità. Così,
mentre la consistenza, o non contraddittorietà, non costituisce un criterio di verità,
semplicemente perché anche i sistemi di cui si può dimostrare la non contraddittorietà possono
essere falsi di fatto, così, con un po’ di fortuna, possiamo scoprire contraddizioni e usarle per
stabilire la falsità di qualcuna delle nostre teorie.

Antologia T XIV Popper, l’idea di verità oggettiva


- Jaspers definisce l’idea della verità come corrispondenza con i fatti.
Ci sono tre rivali
- La teoria
- La teoria evidenzialista
- La teoria pragmatista o strumentalista
Queste teorie sono teorie soggettive della verità
Il vantaggio della teoria oggettiva rispetto alle teorie rivali è che noi cerchiamo la verità
perché siamo guidati dall’idea di verità come principio regolativo.
La teoria dell’adeguazione non è una teoria esaustiva della realtà, è un orizzonte che
progressivamente si avvicina alla cima senza avere la pretesa di averla raggiunta.

T-XV
W. James: Verità e utilità
(Pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp.
114-120)
È fin troppo nota l’importanza che ha, nella vita umana, il possesso di credenze vere in materia
di fatti. Noi viviamo in un mondo di realtà che possono essere infinitamente utili o infinitamente
nocive. Le idee che ci dicono quali di queste due cose possiamo aspettarci valgono come idee
vere, in questo primo ambito di verifica, e il conseguimento di tali idee è un dovere umano
primario. Il possesso della verità, lungi dall’essere qui un fine in sé, vale solo come mezzo
preliminare per soddisfare altre esigenze vitali. Se mi sono perso in un bosco e sono affamato, e
trovo qualcosa che mi sembra un sentiero da mucche, è della più grande importanza che io
debba pensare che al termine vi sia un’abitazione umana, perché così facendo e seguendolo mi
posso salvare. Il pensiero vero qui è utile, perché la casa che ne è l’oggetto è utile. Il valore
pratico delle idee vere si ricava, quindi, in primo luogo, dall’importanza pratica che i loro
oggetti hanno per noi. D’altra parte, i loro oggetti non hanno sempre, in ogni momento, la stessa
importanza. In un’altra occasione, la casa di prima può risultarmi assolutamente inutile; e allora
l’idea che ne ho, per quanto verificabile, sarà praticamente irrilevante, e farebbe meglio a
restarsene latente. Tuttavia, dal momento che quasi ogni oggetto può diventare un giorno
temporaneamente importante, risulta piuttosto evidente il vantaggio di avere una riserva
generale di verità «in eccedenza», di idee che saranno vere in circostanze solamente possibili.
Noi immagazziniamo queste verità eccedenti in un angolo della nostra memoria e con il
sovrappiù riempiamo i nostri libri di consultazione. Quando una di tali verità eccedenti diventa
praticamente rilevante per qualche nostra necessità, noi la tiriamo fuori dalla cella frigorifera in
cui la conserviamo e la facciamo funzionare nel mondo, e la nostra credenza in essa diventa
attiva. Potete allora dire di essa sia che «è utile perché è vera» sia che «è vera perché è utile».
Entrambe le frasi vogliono dire esattamente la stessa cosa, cioè che questa è un’idea che prende
corpo e può essere verificata. Vera è qualsiasi idea che intraprenda il processo di verificazione,
utile è la sua funzione compiuta nell’esperienza. (…)
Prendete, per esempio, quell’oggetto laggiù sul muro. Sia voi che io riteniamo che sia un
orologio benché nessuno di noi abbia visto il meccanismo nascosto che lo fa essere tale. Noi
facciamo passare la nostra nozione come vera, senza tentare di verificarla. Se verità significa
essenzialmente un processo di verificazione, dovremmo allora considerate abortite le verità
inverificate come questa? No, perché esse formano la stragrande maggioranza delle verità che ci
permettono di vivere. Le verificazioni indirette sono considerate soddisfacenti come quelle
dirette. Dove basta l’evidenza delle circostanze, possiamo procedere senza verifiche de visu.
Proprio come riteniamo che il Giappone esista pur non essendoci mai stati, perché funziona, dal
momento che tutto ciò che conosciamo si accorda con questa credenza e nessun ostacolo vi
interferisce, allo stesso modo noi riteniamo che quello sia un orologio. Lo usiamo come un
orologio, calcolando la durata della lezione su di esso. La verifica della nostra convinzione qui
significa la sua capacità di guidarci senza contraddizioni o frustrazioni.
Antologia T-XV il criterio di efficienza James e la filosofia del pragmatismo
1. La verità è un idea, ma non una qualsiasi ma un idea che soddisfa esigenze
vitali. La verità non è un fine assestante ma è in vista delle nostre esigenze
esistenziali. Noi dobbiamo costruire una sorta di archivio delle idee che non
hanno tutte la stessa importanza nelle diverse circostanze, nelle varie
circostanze le idee che ci servono avranno un valore maggiore.
2. Il valore pratico della verità. Verità significa un processo di verificazione, verifica
della nostra convinzione. Ma non dobbiamo buttare tutte quelle idee che non
possono essere verificate. Qui l’idea d fondo è che bisogna rinunciare ad un
idea generale della verità, come una cosa che vola sopra le nostre teste, di
conseguenza la verità deve essere sempre situata, è contestuale in base a le
soluzioni che possiamo trarre nelle varie circostanze della vita. Tutte le idee ci
servono e tutte sono vere, non c’è ne una che sia più vera di un'altra idea.
3. Principio di verifica della verità, in base all’utilità pratica . Non tutto è da
rigettare in questa concezione della verità, se la verità entra nelle nostre
esigenze vitali è davvero verità altrimenti è molto ideale se non è agganciata
alla realtà, in è in bisogna riconoscere che James non è un autore solo
funzionale, non rigetta verità di tipo religioso, non rigetta le verità inverificate.

Ma cosa intende per esistenza o per utilità esistenziali? (ricercalo personalmente)

Nietzsche dice che ogni conoscenza è finalizzata alla conservazione e al potenziamento


dell’esistenza, della stessa idea è Amo Afer.
Per Marx la questione della verità è una questione di prassi, la verità non si trova
attraverso le speculazioni ma attraverso la prassi.

T-XVI
Giustino: Verità e Logos
(Giustino, Apologie, a cura di G. Girgenti, Milano, Rusconi, 1995; Prima apologia, cap. 46,
§§ 1-4; Seconda apologia, cap. 10, cap. 13, §§ 2-6, pp. 125-127; 199-201; 207-209)
Affinché, poi, non ci sia nessuno che, per liquidare le nostre dottrine senza alcun ragionamento,
ci obietti che, se noi sosteniamo effettivamente che Cristo è nato centocinquant’anni fa sotto
Quirino, e ha predicato quello che noi insegniamo qualche anno più tardi sotto Ponzio Pilato, ne
conseguirebbe che tutti gli uomini vissuti prima di lui non si potrebbero considerare responsabili
delle proprie azioni, cerchiamo di prevenire e risolvere anche questa aporia. Abbiamo appreso
che Cristo è il primogenito di Dio, ed abbiamo ricordato che è il Logos, di cui partecipa tutto il
genere umano. Coloro che hanno 104
vissuto secondo il Logos sono cristiani, anche se sono stati considerati atei, come, tra i Greci,
Socrate ed Eraclito, ad altri simili, e, tra i barbari, Abramo, Anania, Azaria, Misael, Elia, e molti
altri ancora, dei quali ora non elenchiamo le opere e i nomi, sapendo che sarebbe troppo lungo.
Di conseguenza, coloro che hanno vissuto prima di Cristo, ma non secondo il Logos, sono stati
malvagi, nemici di Cristo e assassini di quelli che vivevano secondo il Logos; al contrario,
quelli che hanno vissuto e vivono secondo il Logos sono cristiani, non soggetti a paure e
turbamenti. […] Pertanto, è evidente che la nostra dottrina è superiore ad ogni dottrina umana,
poiché per noi la razionalità nella sua interezza si è manifestata in Cristo, in corpo, intelletto e
anima. In effetti, tutto ciò che di buono i filosofi e i legislatori hanno sempre scoperto e
formulato, è dovuto all’esercizio di una parte del Logos che è in loro, tramite la ricerca e la
riflessione. Però, dato che non hanno conosciuto la pienezza del Logos, che è Cristo, spesso
hanno sostenuto teorie che si contraddicevano a vicenda.
Coloro che hanno vissuto prima di Cristo, e che con le forze umane si sono sforzati di spiegare e
contemplare la realtà secondo ragione, sono stati condotti in tribunale con l’accusa di essere
empi e superstiziosi. Colui che si era posto con fermezza più di ogni altro questo obiettivo,
Socrate, è stato vittima delle nostre stesse accuse: dissero, infatti, che introduceva nuove
divinità e che non credeva negli dèi riconosciuti dalla città. Egli, invece, insegnava agli uomini
a rifiutare i cattivi demoni e gli dèi che avevano compiuto le empietà narrate dai poeti, facendo
bandire dalla repubblica Omero e gli altri poeti ed esortava alla conoscenza del Dio a loro
ignoto, tramite la ricerca razionale, dicendo: «Non è facile trovare il Padre e Creatore
dell’universo, ed è impossibile, per chi l’ha trovato, parlarne a tutti» . Questo è ciò che ha fatto
il nostro Cristo, per sua propria potenza. A Socrate, infatti, nessuno ha creduto fino al punto di
morire per la sua dottrina; a Cristo, invece, che in parte era stato conosciuto anche da Socrate
(infatti era ed è il Logos che è presente in ogni uomo, che ha preannunciato gli eventi futuri per
mezzo dei profeti e in persona, che si è fatto come noi mortali e che ci ha rivelato queste verità),
hanno creduto non solo filosofi e sapienti, ma anche artigiani e persone del tutto ignoranti,
sprezzanti dei giudizio altrui, della paura e della morte: perché questa è potenza del Padre
ineffabile, e non prodotto dell’umana ragione. […]
Sono Cristiano, confesso di esserne orgoglioso e di lottare con ogni mezzo per essere
riconosciuto come tale, non perché le dottrine di Platone siano estranee a quelle di Cristo, ma
perché non sono del tutto simili, come, del resto, anche quelle di altri, Stoici, poeti e scrittori.
Ognuno di essi, infatti, ha potuto formulare correttamente qualche teoria, contemplando quella
parte del divino Logos seminale [Lògos spermatikòs] che è innata: i medesimi, però, avendo
sostenuto dottrine che si contraddicono a vicenda su questioni più importanti, dimostrano
chiaramente di non possedere una scienza infallibile e una conoscenza irrefutabile. Pertanto,
tutto ciò che è stato espresso correttamente da ognuno di essi, appartiene a noi Cristiani: noi,
infatti, adoriamo ed amiamo, dopo Dio che è ingenerato ed ineffabile, il Logos generato da Dio,
poiché si è fatto uomo per noi, per salvarci dalle nostre miserie, delle quali si è fatto partecipe.
Tutti gli scrittori, infatti, per mezzo del seme innato del Logos presente in essi, hanno potuto
contemplare la realtà in modo impreciso. Infatti una cosa è un seme, un’imitazione, concesso
agli uomini per quanto è possibile, e un’altra è il soggetto stesso dal quale, per sua grazia, hanno
origine la partecipazione e l’imitazione

Antologia Giustino “verità e logos” T XVI


Non ha avuto un atteggiamento di proselitismo verso le culture pagane. Giustino ha
battezzato Socrate e tutti i pensatori antichi come “coloro che hanno vissuto il logos
secondo il verbo”. Perché Dio ha cominciato ad illuminare gli uomini anche prima della
venuta di Gesù. Giustino su questo punto è molto coraggioso dicendo che coloro che
hanno vissuto secondo il logos sono cristiani. Per noi la nostra razionalità si è
manifestata in Cristo, pienezza del logos, il logos è in ogni uomo e chi nella ricerca della
verità rimane attento alla voce del logos che è in se e non tradisce la rettitudine del
pensiero ascolta la voce del verbo. Dice che Cristo era stato conosciuto anche da
Socrate, perché verbo del Padre, a motivo di quel logos presente in ogni uomo.
“Ognuno di essi ha potuto formulare correttamente qualche teoria”. Unica è la fonte
della verità ed è il logos che è contemplato in due forme:
- logos seminale: logos trascendente, divino che illumina la razionalità
umana, è il logos prima ancora dell’incarnazione, fuori dal contesto giudeo
cristiano, i semi del verbo, che ha seminato la verità in tutte culture.
- logos rivelato: oggetto di fede in tutti i cristiani, il verbo incarnato.
Il logos non impedisce la ricerca razionale della verità, i filosofi antichi infatti non
hanno avuto una rivelazione ma hanno dispiegato la loro razionalità mettendosi in
cerca di questa verità razionalmente. Il fideismo in lui è nel dire che il criterio ultimo
della verità è il divino, ma è un fideismo moderato che non impedisce la ricerca
razionale e rigorosa delle verità. Al contrario di Al Ghazali in cui abbiamo un fideismo
forte.

T-XXVII
Galileo Galilei: Qualità oggettive e qualità soggettive
(G. Galilei, Il Saggiatore, in Opere, a cura di F. Flora, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953,
capp. 6 e 48, pp. 121; 311-314)
Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario
appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si
maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima
che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’
quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non
istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto
innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a
intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e
i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a
intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
[…]
Mi fa di bisogno fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual
dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre
vien creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente risegga nella materia
dalla quale noi sentiamo riscaldarci. Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità,
subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata
e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in
questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non
tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla
da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di
grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali
condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il
discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando
che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non
sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che
rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì
come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali
accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse.
[…]
Io credo che con qualche esempio più chiaramente spiegherò il mio concetto. Io vo movendo
una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all’azione che vien
dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, ch’è di quei
primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata: ma il corpo
animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affezioni secondo che in diverse parti vien
tocco; e venendo toccato, verbigrazia, sotto le piante de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto
l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra affezione, alla quale noi abbiamo imposto
un nome particolare, chiamandola solletico: la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della
mano; e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al
toccamento, avere in sé un’altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, sì che il solletico
fusse un accidente che risedesse in lei. […] Ora, di simile e non maggiore esistenza credo io che
possano esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori
ed altre. […] 117
E perché di questi corpi alcuni si vanno continuamente risolvendo in particelle minime, delle
quali altre, come più gravi dell’aria, scendono al basso, ed altre, più leggieri, salgono ad alto; di
qui forse nascono due altri sensi, mentre quelle vanno a ferire due parti del corpo nostro assai
più sensitive della nostra pelle, che non sente l’incursioni di materie tanto sottili tenui e cedenti:
e quei minimi che scendono, ricevuti sopra la parte superiore della lingua, penetrando, mescolati
colla sua umidità, la sua sostanza, arrecano i sapori, soavi o ingrati, secondo la diversità de’
toccamenti delle diverse figure d’essi minimi, e secondo che sono pochi o molti, più o men
veloci; gli altri, che accendono, entrando per le narici, vanno a ferire in alcune mammillule che
sono lo strumento dell’odorato, e quivi parimente son ricevuti i lor toccamenti e passaggi con
nostro gusto o noia, secondo che le lor figure son queste o quelle, ed i lor movimenti, lenti o
veloci, ed essi minimi, pochi o molti. E ben si veggono providamente disposti, quanto al sito, la
lingua e i canali del naso: quella, distesa di sotto per ricevere l’incursioni che scendono; e
questi, accommodati per quelle che salgono: e forse all’eccitar i sapori si accommodano con
certa analogia i fluidi che per aria discendono, ed a gli odori gl’ignei che ascendono. (…)
Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che
grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via
gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i
sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a
punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al
naso. E come a i quattro sensi considerati ànno relazione i quattro elementi, così credo che per
la vista, senso sopra tutti gli altri eminentissimo, abbia relazione la luce, ma con quella
proporzione d’eccellenza qual è tra ’l finito e l’infinito, tra ’l temporaneo e l’instantaneo, tra ’l
quanto e l’indivisibile, tra la luce e le tenebre. Di questa sensazione e delle cose attenenti a lei io
non pretendo d’intenderne se non pochissimo, e quel pochissimo per ispiegarlo, o per dir meglio
per adombrarlo in carte, non mi basterebbe molto tempo, e però lo pongo in silenzio.

Antologia T-XXVII pag. 116 Qualità soggettive e oggettive “Galileo Galilei”


Galileo in questo testo distingue il sapere e il senso comune, il senso comune
percepisce odore e sente suoni, galileo dice che se dobbiamo fare scienza queste cose
si devono abbandonare, bisogna abbandonare il senso comune, svaluta i canali
ordinari attraverso i quali il senso comune stabilisce il contatto con gli oggetti fisici. Si
focalizza su una nuova forma di esperienza che è la sperimentazione matematica che
viene a sostituire l’esperienza ordinaria, cosi nasce la scienza moderna in occidente.
Koyrè in obiezione a Galileo dice: “la scienza moderna ha spaccato il mondo in due,
sostituendo il mondo delle sensazioni con quello della geometria in cui vi è posto per
tutto ma non vi è più posto per l’uomo”.

T-XXV
B. Telesio: I principi della natura
(B. Telesio, De rerum natura, a cura di L. De Franco, vol. I, Cosenza, Casa del libro,
Brenner, 1965, «Proemio», capp. 4 e 6, pp. 27-29; 51-53; 65-67)
Coloro che prima di noi indagarono la struttura di questo nostro mondo e la natura delle cose in
esso contenute, lo fecero certo con lunghe veglie e grandi fatiche, ma inutilmente, come sembra.
Che cosa, infatti, questa natura può aver rivelato ad essi, i cui discorsi, nessuno escluso,
dissentono e contrastano con le cose ed anche con se stessi? (…) Disputando quasi e
gareggiando con Dio in sapienza, avendo osato ricercare con la ragione le cause e principi del
mondo stesso, e credendo e volendo credere di aver trovato queste cose che non avevano
trovato, si costruirono un mondo a loro arbitrio. Pertanto ai corpi, di cui si vede che il mondo è
costituito, attribuirono non la grandezza e posizione, che si vede hanno ottenuto, né quella
dignità e quelle forze, di cui si vede che sono dotati, ma quelle di cui avrebbero dovuto essere
dotati secondo i dettami della loro ragione. […] Noi, poiché non abbiamo avuta tanta fiducia in
noi stessi, e poiché siamo dotati di un ingegno più tardo e di un animo più debole, e poiché
siamo amanti e cultori di una sapienza del tutto umana, […] ci siamo proposti d’indagare
solamente il mondo e le sue singole parti e le passioni, azioni, operazioni ed aspetti delle parti e
delle cose in esso contenute. Ognuna di esse, infatti, se rettamente osservata, manifesterà la
propria grandezza, ed ognuna di queste la propria indole, forza e natura. (…)
noi cioè abbiamo seguito il senso e la natura, e nient’altro; quella natura, che, concordando
sempre con se stessa, agisce ed opera sempre sulle stesse cose e allo stesso modo. […] Poiché
sia il caldo che il freddo sono incorporei, dal momento che il caldo che emana dal sole ed anche
dal nostro fuoco, ed il freddo, che emana dalla terra, non si vedono mai venir fuori assieme ad
alcuna cosa corporea; e poiché sia l’uno che l’altro penetrano profondamente in tutte le cose
anche in quelle molto dense e profonde, ed in qualunque parte e punto di esse egualmente
s’immettono: e così non resta alcun loro punto che non sia tutto occupato profondamente ed
egualmente dal sopraggiungente caldo e freddo, non c’è di certo nessun punto che sia o solo
massa o solo caldo o freddo, ma ognuno è ambedue le cose, il che insomma non potrebbe affatto
avvenire, se essi fossero corporei. E la terra non è costituita dal solo freddo, né il sole e tutte le
altre stelle né alcuna porzione di cielo né proprio alcun ente, che sia costituito dal caldo, lo è dal
solo caldo; ma tutti gli enti sembrano constare anche di una massa corporea. […] E poiché non
viene mai sentita alcuna azione del caldo e del freddo, che possa apparir generata dal solo caldo
e dal solo freddo e senza che inerisca ad alcuna massa corporea, è necessario insomma addurre,
per la costituzione degli enti naturali, di cui noi ricerchiamo i principi e le nature costitutive,
anche una massa corporea, e di essi debbono porsi solo tre principi: due nature agenti, il caldo
ed il freddo, e la massa corporea; ed essa è egualmente propria e adatta ad ambedue, cioè
egualmente atta ad essere espansa e dilatata e ad essere condensata e ristretta, cioè ad essere
egualmente dotata delle disposizioni, di cui godono il caldo ed il freddo. […]
 Telesio: esponente del naturalismo, secondo cui la natura va
spiegata secondo le leggi della natura stessa senza le leggi di un
principio trascendente o spirituale.
(Antologia T-XXV “Telesio i principi della natura” pag. 114), in
questo testo distingue due gruppi:
 coloro che invece di apprendere si sono inventati dei sistemi
frutto della loro ragione, questi vengono accusati implicitamente
di autoconsiderarsi menti divine che vogliono costruirsi e
inventarsi un nuovo mondo che non ha niente a che fare con il
mondo reale
 coloro che riconoscono con umiltà di essere cultori di una
sapienza umana, che deriva dall’esperienza concreta con il reale
e con la natura e non pretendono di inventare una conoscenza
che sia al di la.

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