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Davide Sparti

18 marzo 2023

“Identità e coscienza”
Il volume intende delineare i contorni essenziali della discussione sull’ ”io” attraverso una
prospettiva storica, tentando di esplorare alcuni quesiti fondamentali quali; è possibile la
conoscenza di se stessi? Che natura ha questa conoscenza? Dove è ubicato l’io? . L’indagine
cartesiana sull’io rappresenta l’incipit del discorso moderno intorno all’io, partendo da esso
come riferimento introspettivo ad una entità nucleare, la ricostruzione della vicenda porta a
discutere sia la conoscenza di sé, sia l’ “io sono” come enunciato linguistico che non implica
consapevolezza ma autoriferimento.

I
L’idea fondamentale di Cartesio - il dualismo - appare riassumibile con ‘l’uomo è una mente
pensante; la materia è estensione in movimento’. L’indagine di Cartesio sull’io rappresenta un
vero e proprio incipit. Per i Greci e per Aristotele, la mente (l’intelletto) aveva a che fare con
delle capacità, riconoscibili tramite il loro esercizio. L’esercizio primario dell’intelletto umano
consiste non nell’indagine in sé ma nell’indagine del mondo esterno. Cartesio ridisegna
completamente i con ni tra intelletto e corpo, elaborando un nuovo paradigma della mente.
La mente ha a che fare con il pensiero cosciente (la cogitatio) ossia con la coscienza di ciò che
avviene in noi, mentre il corpo, rimanda ad un’altra regione ontologica di tipo esterno. Da
Cartesio in poi, secondo l’interpretazione consolidata, avremmo imparato a distinguere tra la
certezza circa i nostri stati interni e le varie regioni che giusti cano e fondano le nostre
certezze circa la rappresentazione del mondo esterno. Per cogliere nei suoi aspetti essenziali la
rivoluzione loso ca inaugurata da Cartesio è opportuno richiamare i termini dell'indagine
cartesiana sul cogito, sviluppati nell'opera "il discorso sul metodo" (1637). La preoccupazione
che guida l'indagine riguarda la fondazione della conoscenza; si tratta di individuare un
principio metodologico che possa fungere da premessa per fondare la conoscenza. Cartesio
rintraccia nel cogito, ossia una facoltà intellettuale, la premessa per arricchire l’indagine sulla
conoscenza e l’esistenza dell’io. Il metodo elaborato da Cartesio per ricomporre qualunque
incertezza consiste nel respingere sistematicamente ogni enunciato che possa essere messo in
dubbio, no a raggiungere delle dita auto evidenti. Cartesio applica questo metodo - questa
reiterazione del dubbio nel tentativo di provare il contrario - anzitutto a se stesso ("posso
essere ingannato dei sensi ma sussiste qualcosa di cui non posso dubitare: il fatto che sto
dubitando”). Attraverso l’argomentazione dubitativa giunge quindi ad una prima conclusione,
che pone l’accento sull’autoreferenzialità del pensiero: non posso dubitare o negare tutto,

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poiché io, che pongo il dubbio non rientro tra gli oggetti del dubbio. Poiché dubitare è
semplicemente un caso particolare, un’istanza del pensare, noi siamo io pensanti (ego
cogitans). “Sto pensando” è una proposizione vera in qualunque modo è espressa, persino se
la metto in dubbio. Da qui, “cogito ergo sum”. Cartesio connette il pensare all’esistere
presupponendo che il pensare implichi necessariamente l’esistere. Molti studiosi hanno
sostenuto che l'argomentazione cartesiana implica un'auto percezione introspettiva. Inoltre,
egli allude più volte ad una percezione come "visione della mente" che ci porta verso
l'interiorità, così come ricorre spesso il richiamo all’intuizione. Ma in che modo il cogito si
differenzia da altri tipi di conoscenza? Fino a che punto rappresenta la fonte della nostra
autorevolezza introspettiva?
A partire dalla seconda metà del Seicento la dottrina cartesiana si diffonde in Europa ed altri
pensatori (Hobbes, Mersenne, Malebranche) vi si confrontano più o meno criticamente. Si
avrà da un lato il ripudio del dualismo in nome di una loso a di stampo materialistico
(Hobbes e Gassendi) e dall’altra, una radicalizzazione del dualismo (Malebranche). Ma sarà
Hume a valutare con più lucidità la plausibilità di un io nucleare o cartesiano. Nel 1736
Hume scrive il “Trattato sulla natura umana” in cui si domanda: possiamo ricavare l'idea di
"io" (Self) direttamente dei sensi, così come percependo la sedia rossa ricaviamo l’idea di
rosso? Hume fa notare che dovremmo avere una impressione di noi stessi, ed una impressione
costante nel tempo così come costante è il nostro io. Ma le impressioni sono qualità
particolari, che si succedono rapidamente e non esibiscono l’invariabile continuità richiesta
dal riferimento ad una proprietà stabile. “Non mi riesce mai di cogliere me stesso se non in
una particolare percezione, e non riesco mai a osservare null’altro che percezioni”. L’io,
conclude Hume, non potendo essere colto, non è oggetto di esperienza: egli paragona l’ io ad
una federazione repubblicana in cui diversi membri sono uniti tra loro da legami reciproci di
governo e di subordinazione e si riproducano perpetuando la stessa Repubblica attraverso il
cambiamento incessante delle sue parti. Allo stesso modo una persona può mutare carattere e
disposizioni così come le sue impressioni e le sue idee, senza perdere la sua identità.
Coerentemente con questa concezione federativa della mente, l’io di Hume, sembra risolversi
in una scena dove si affacciano, prendono vita e poi scompaiono diverse percezioni
dinamicamente interagenti. Hume non nega che nell’uomo vi sia un’inclinazione o
propensione ad attribuire coerenza, coesione e unità a ciò che si percepisce, ma questa
propensione è frutto dell’operato della memoria e dell’immaginazione, e non ha alcuna
fondazione empirica. La mente stessa appare come un aggregato di sequenze di coscienza
coese per similarità e per causalità. Grazie queste operazioni e solo grazie ad esse posso
pensare l’io come l'unità di una costruzione logica o di un concetto teorico. Nonostante le critiche di
Hume e il prevalere dell’interpretazione materialistica della conoscenza nel corso del
Settecento, la fortuna di Cartesio continuano con Kant, James, Husserl.
Il metodo dell’introspezione come forma di conoscenza di sé, benché abbia avuto una certa
fortuna, è andata incontro a diverse critiche decisive tra cui quella nota come la “fallacia di
Comte”. Shoemaker ha recentemente sviluppato una variante di tale critica mostrando gli
esiti paradossali a cui va incontro chi sostiene che la conoscenza di sé debba fondarsi su un

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modello osservativo-percettivo. Secondo questo modello, io so di avere un certo stato mentale
poiché mi colgo introspettivamente nell’averlo. Ma tale introspezione non fungerà da
conoscenza del fatto che io sono arrabbiato a meno che io non sappia che quello stato
mentale è mio. Secondo Shoemaker molti hanno inavvertitamente assimilato il modello
percettivo di conoscenza della realtà esterna al modello percettivo (pre-percettivo o intuitivo)
della conoscenza di sè. Lo stesso Hume, pur criticando Cartesio, sembra essere caduto in
questa forma di assimilazione. Data la relativa impassibilità del modello percettivo-
introspettivo della conoscenza di sé, è opportuno domandarsi se sia possibile rendere giustizia
al cogito senza chiamare in causa l’intervento di una operazione introspettiva, e senza
postulare una immagine dell’io nucleare e trasparente, che intuisce in sé la forza di
un’autoevidenza. È quanto ha tentato Hintikka, il quale esamina “cogito ergo sum” non tanto
come riferimento alla percezione di un io nucleare ma come enunciazione linguistica.
L’analisi di Hintikka (1962) si concentra più sulle Meditazioni che sul Discorso sul metodo, e trola
la sua plausibilità soprattutto nelle Obiezioni e risposte di Cartesio ai suo commentatori. Il punto
di partenza di Hintikka è il seguente: il cogito non ha la struttura di una inferenza in cui la
conclusione è raggiunta grazie ad un procedimento sillogistico (inferisco l’essere dal pensare)
ma richiama piuttosto un autoriferimento linguistico che non è estratto da alcun sillogismo.
L’ergo usato nella formula, quindi, non ha signi cato inferenziale ma vuole esprimere la
coincidenza tra il mio pensare e il mio essere. Secondo Hintikka, il tratto fondamentale del
cogito cartesiano non è “ergo sum” in quanto tale ma l’idea che “sum” è vera ogniqualvolta
qualcuno la enuncia. Non vi sono circostanze nelle quali sarebbe logicamente possibile negare
assenso all’enunciato “io sono (ora)”. In quanto proposizione che si autoveri ca
esistenzialmente “ergo sum” è necessariamente vera se la asserisco. Non nel senso che “sum”
possiede la proprietà logica di “essere in sé” necessariamente vera, ma che è necessariamente
vero che “sum” è vero in tali occasioni, ossia quando la si enuncia. L’essenza del cogito,
quindi, non è l’autocoscienza ma l’autoriferimento linguistico. Contro l’interpretazione anti
cartesiana di Hume, Hintikka sostiene che è la peculiarità dell’atto implicato dall’enunciato
(indicante il parlante, il titolare dell’enunciato) ad assegnargli il suo particolare carattere di
autoevidenza, non la capacità del parlante di guardare entro se stesso. Nella seconda Meditazione
Avendo provato che lui esiste, Cartesio procede a domandarsi che cosa - ossia che genere di
entità - egli è. Cartesio riconosce che la conoscenza di se stesso non è abbastanza chiara e per
chiarirla procede a distinguere se stesso da altre classi di cose. La risposta alla domanda è la
seguente: sono una cosa che pensa (sum res cogitans) ossia una entità pensante. Solo il nostro
corpo materiale ha come essenza unitaria ed invariabile l’estensione spaziale. Ed è in virtù di
questa distinzione tra mente pensante e corpo esteso che Cartesio è detto “dualista”. Nella
sesta Meditazione, Cartesio afferma che tra mente (anima) e corpo vi è una “ distinzione
reale” poiché ognuno dei due costituisce un ente completo ossia sostanze ontologicamente
indipendenti l’una dall’atra. L’una è pensiero e l’altra è estensione. Allo stesso tempo però
ammette una “unione reale” tra mente e corpo (per evitare l’idea di una mente ospite in un
corpo marionetta). Con “unione reale” intende il fatto che tra mente e corpo intercorrono
relazioni di causalità reciproca, attestate dalle sensazioni, dall’immaginazione, dalle passione

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nella direzione corpo a mente e dai movimenti volontari nella direzione mente a corpo.
Cartesio insiste nel sottolineare che nella realtà vi è intima unione (unione reale) tra mente e
corpo ed è plausibile che egli voglia soltanto farci riconoscere come sia logicamente possibile
separare il concetto di me stesso dal concetto del mio corpo e che la connessione tra gli stati
mentali e incorporazione possa essere ritenuta contingente. Vi sono due classi distinte di
predicati-attributi reciprocamente irriducibili: quella comprendente i predicati che si
riferiscono direttamente agli stati mentali (come desiderare qualcosa o credere qualcosa) e
quella comprendente i predicati che si riferiscono alle condizioni corporee dell'individuo
(avere un certo peso o altezza). Peter Strawson (1959) ha ripreso l’idea secondo cui la persona
umana è quel tipo di entità che può ammettere contemporaneamente due classi di predicati
(quelli relativi al mentale e quelli relativi al corporeo). Tuttavia, obiezioni al dualismo sono
state avanzate già al momento in cui Cartesio era in vita. Possono essere ricondotte a due
ordini di critiche, quelle scienti che e quelle loso che. Le prime sostengono che; o Cartesio
sostiene che la mente non è una “res extensa” e quindi non è sottoposta alle leggi della sica, -
e allora ha il problema di indicare il luogo di interazione causale tra mente e corpo-, oppure
Cartesio sostiene che la sostanza pensante è funzionalmente equivalente a quella materiale,
potendo così interagire causalmente con essa. Sul piano loso co, l’osservazione critica più
nota è stata formulata da Ryle negli anni quaranta. Secondo lui la teoria cartesiana,
presentando gli eventi mentali come appartenenti ad una classe logico-semantica diversa da
quella a cui effettivamente appartengono, compie uno sbaglio categoriale. Come aveva già
notato Wittgenstein, la non osservabili dell’io non va confusa con una proprietà speciale,
occulta ed enigmatica. Dopo Wittgenstein e Ryle, ossia dopo la “svolta linguistica” in loso a,
ci si può chiedere cosa sia e come si debba pensare l’io. Benché l’uso della prima persona ci
dia l’impressione di un io disincarnato che abita in noi, l’uso soggettivo della prima persona
non è speciale per motivi ontologici. “Io” infatti è anzitutto un pronome, che ha lo stesso
valore di altre parole-indice come “oggi”. In quanto indicatore del locutore, la parola “io” si
riferisce a chiunque la impieghi. Questo è un punto apparentemente banale ma importante,
rubricato sotto il concetto di “immunità referenziale”. Molti studiosi parlano del carattere
primario dell’autoriferimento, un tipo di autoascrizione che non riposa su, ma piuttosto
presuppone una identi cazione del soggetto. Se avvero una sensazione, avverto non solo la
sua presenza ma la sua presenza in me. “Io” è un’espressione autoreferenzialmente garantita.
Ma ciò che garantisce è solo l’immunità da errori di identi cazione e non - come pensava
Cartesio- l’esistenza e la presenza di un referente occulto, poiché questa è l’illusione
grammaticale di cui egli è stato vittima. L’immunità referenziale è una caratteristica che non
compete al solo autoriferimento cognitivo ma si estende a tutte quelle proposizioni e stati che
contengono un riferimento dimostrativo o indicale (“qui” / “ora”). Per questo tale immunità
non va ricondotta al tipo sociale di entità su cui il riferimento verte. La controversia
sull’autoriferimento resta ad oggi irrisolta. L’ipotesi dell’io come riferimento all’utente
dell’espressione - come dispositivo linguistico - trascura qualcosa. L’autoriferimento sembra
richiedere la capacità di autoidenti carsi come utente dell’espressione. Secondo alcuni
studiosi, questa circostanza evidenzia la natura essenzialmente ri essiva dell’autoriferimento.

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Possiamo dire che l’autoriferimento implica sia un sapere de se ossia relativo ad un concreto
oggetto spazio-temporale, sia un sapere de dicto cioè relativo ad una proposizione che stabilisca
la verità delle descrizioni riferite a me. I problemi chiave che la ri essione cartesiana ha
sollevato possono essere così riassunti: valorizzazione della conoscenza di sé, tesi della mente
come sostanza distinta dalla sostanza corporea (dualismo). Si è discusso le due interpretazioni
“introspettiva” e “linguistica”. Secondo la prima, il cogito, richiama un’ operazione
introspettiva, che consiste nel dedurre o nell’inferire la propria esistenza a partire da
un’autori essione sulla propria interiorità. Secondo la seconda interpretazione (“linguistica”,
elaborata da Hintikka), il cogito sarebbe invece un enunciato che si riferisce all’operazione
attraverso cui si rivelano le condizioni di esistenza di esistenza del titolare dell’enunciato
stesso.

II
Il problema dell’identità personale è il problema della nostra durata, come individui, nel
tempo. Cosa ci consente di identi care un particolare individuo descritto in una certa
occasione, come lo stesso descritto in un’occasione precedente?
Nel senso di una meta sica o ontologia descrittiva, l’identità ha a che fare con il problema
dell’individuazione ossia del contare individui sia sincronicamente che diacronicamente. Già
con Aristotele e poi, nel Medioevo, con Agostino e Tommaso la questione dell’identità era
discussa nell’ambito di una meta sica descrittiva con la dizione “ il problema dell’uno e del
molteplice”. La dottrina del “principium individuationis” si con gurava come risposta al
problema della distinzione tra enti di natura diversa. Lo scopo era quello di scoprire se ogni
individuo e ogni classe di individui avesse qualcosa di assolutamente peculiare ed irripetibile.
Il problema, quindi, risiedeva nel fatto di stabilire cosa attribuisse individualità agli enti e cosa
li renda proprio quegli enti. Questa individuazione viene riportata di volta in volta all’elemento
formale (la forma dell’ente), materiale (la qualità di materia di cui è composto), o essenziale (la
caratteristica intrinseca dell’ente). E’ stato Leibniz il primo ad affrontare la questione in
termini logici teorizzando due principi. Il primo, è il “principio dell’indiscernibilità degli
identici” nota come legge di Leibniz. Afferma che due individui identici condividono tutte le
proprietà (tutte le proprietà di x appartengono anche ad y). Il secondo principio è quello dell0
“identità degli indiscernibili” ed afferma che se x ha tutte le proprietà di y, e y tutte le
proprietà di x, allora x e y sono identici. Affermando questo secondo principio, si indicano le
condizioni per le quali due individui o enti non possono essere identici. Questo perchè se tutti gli
enti avessero realmente le stesse proprietà allora sarebbero indistinguibili e quindi non ci
sarebbe la possibilità di applicare il principio di individuazione. Il problema
dell’individuazione ( o “quanti cazione esistenziale”) è logicamente più importante del
problema dell’identità nel tempo poiché è preliminare il processo di individuazione di un
individuo, ossia dobbiamo essere in grado di identi carlo come distinto.
Una distinzione importante nell’ambito della discussione sull’identità è quella tra due usi di
“stesso” ossia la distinzione tra identità numerica e qualitativa.

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Per quanto riguarda l’identità personale, ossia i casi in cui gli individui considerati siano delle
persone. Quale evidenza abbiamo che al tempo t2 la persona in esame è la stessa che era al
tempo t1? Molti hanno insistito per difendere una concezione della persona continua, che si
dilata temporalmente in modo omogeneo, o le cui parti gli siano essenziali e gli debbano
appartenere lungo tutta la sua storia. Altri, come Hume, hanno rivendicato l’opportunità di
introdurre la nozione di persona discontinua, concepita come ordinamento di parti o stadi
temporali intervallati non tanto da vuoti in cui la persona non è, quanto da porzioni in cui
questa persona non c’è (c’è quell’altra). In questo secondo caso non si parla tanto di “persona”
ma di “fase-persona”. Chi opta per la versione discontinuista dell’identità nel tempo, deve
speci care no a che punto vi è sovrapposizione temporale tra le parti considerate, ossia deve
precisare se esiste una relazione di unità che le organizza o le connette lungo un certo asse
temporale rendendole “co-personali”. Chisholm non nega una relativa discontinuità tra le
parti temporali che compongono una vicenda biogra ca, ma suggerisce di pensare gli
individui come costruzioni logiche. Sottolinea come gli individui non siano semplicemente
“entia successiva” ma “entia per se” nel senso che le nostre esperienze i nostri stati hanno un
inalienabile carattere di appartenenza indicato dal possessivo “mio”. Per Chisholm il modo in
cui si è presenti a se stessi o dati a se stessi ha dunque natura essenziale, nel senso che
l’identità non è una proprietà che ricavo dalle mie esperienze ma piuttosto una proprietà che
si autopresenta ossia che semplicemente ho. Le teorie sull’identità si distinguono in base a ciò
che si reputa essere il criterio esatto di identità. Questo, è un enunciato che speci ca cosa
conta come evidenza di continuità nel tempo, offrendo una buona ragione per dire che x è
ancora x. I criteri di identità assolvono anche una funzione più teorica ossia quella di
speci care delle condizioni necessarie per poter dire che l’individui x oggi è - o non è più - lo
stesso individuo x di ieri. I quattro criteri più discussi sono quello naturalistico (ha la sua
origine in Aristotele), quello cognitivo (Locke), quello anti-identitista (ha la sua matrice in
Hume), e quello trascendentale-soggettivista (promosso da Kant).
Il criterio naturalistico
Con riferimento all’identità e al problema dell’individuazione, la prospettiva naturalistica ha
la sua origine in Aristotele, il quale dedica i libri VII-XII della Meta sica ai concetti di
sostanza, potenza ed atto ed al rapporto tra l’uno e i molti. Egli traccia la distinzione tra
“sostanza prime” o individui (questo soggetto, questo animale, questa persona) e le “sostanza
seconde” ossia i generi e le specie che si predica degli individui niti, de nibile come una
qualunque classe di entità i cui con ni sono determinati dall’esistenza di speci che leggi
bio siche (es. homo sapiens). Lo scopo del naturalista è quello di trovare un modo per
collegare rigidamente ogni particolare alla classe o genere cui appartiene. Oltre al concetto di
sostanza Aristotele introduce la nozione di “proprietà” (come l’essere rosso, grande o rotondo)
e distingue tra le proprietà che un individuo ha ma potrebbe anche non avere (proprietà
accidentali) e proprietà che sono interne e connaturate all’individuo (proprietà essenziali).
Ora, quello che vale per gli individui, sostiene il naturalista/aristotelico, vale per i generi o
sostanze seconde (es. tra le proprietà essenziali di un albero vi è quella di avere una certa
forma ed un determinato ciclo di vita mentre è accidentale il modo in cui le foglie si

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distribuiscono su questo o quell'altro ramo, l'altezza esatta dell'albero e la sua composizione
materiale). Anche le persone, nell'ottica naturalistica, sono sostanze contraddistinte da certe
proprietà essenziali che ne determinano la condizione di identità (es. siologia o anatomia,
capacità cognitive). Pur condividendo l'assunto realista secondo cui le persone sono tali in
quanto godono oggettivamente di una particolare natura, il naturalista riconosce pertanto che
la natura degli individui appartenenti alla classe "persone" è quella di possedere una seconda
natura: le persone sono quel tipo di entità che pur appartenendo ad un genere biologico
possiedono in modo essenziale proprietà psichiche. Quindi, la persona possiede una
quali cazione non solo biologica ma anche cognitiva e sociale. Per il naturalista, il criterio di
identità di una persona è dato dalla sua piena continuità sica, o meglio, dalla continuità della
traiettoria spazio-temporale che la persona traccia grazie alla materialità del suo corpo,
l'unico supporto destinato a registrare piena continuità nel tempo. Molti naturalisti
contemporanei hanno rispeci cato il criterio di identità nel modo che segue: non è necessaria
l'esistenza continuativa di tutto quanto il corpo, ma di quella sua parte essenziale la quale,
tramite opportuni itinerari causali, è suf ciente a fare di noi un individuo vivente e razionale,
ossia il cervello.
Passando ad un’ulteriore teoria dell’identità personale, quella fondata sulla continuità
psicologica, possiamo dire che essa trovi la sua formulazione più signi cativa nel Saggio
sull’intelletto umano di John Locke. Locke si fa promotore di un criterio non sico bensì
psicologico dell'identità personale, sottolineando il ruolo decisivo non del corpo materiale ma
della memoria e della coscienza di sé. Locke riprende e precisa la meta sica descrittiva di
Aristotele introducendo tre principi relativamente indipendenti di individuazione: quello
“sortale”, quello vitale e quello personale. In senso generale, per Locke, un criterio di identità
per un individuo X è soddisfatto se e solo se X corrisponde ad un predicato “sortale". Nel
caso degli individui biologici o corpi viventi, il criterio di identità è soddisfatto a condizione
che X continui a rimanere in vita. Inoltre, la sostanza materiale non può essere un criterio di
identità e solo quel principio dinamico che è la continuità di vita (vegetale) può esserlo,
rappresentando l’uni cazione delle parti nel tempo, a prescindere dalle alterazioni di forma e
materia. Il criterio di continuità di vita vale anche per la specie homo sapiens ma non,
secondo Locke, per la singola persona. Locke de nisce il concetto di persona come “essere
pensante, intelligente, dotato di ragione e ri essione che può considerare sé stesso in diversi
tempi e luoghi, il che accade solo mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare”.
Data questa de nizione, il principio di continuità per le persone non è stabilito naturalmente
dal ciclo unità-di-vita/continuità- dell’individuo, ma ri essivamente dalla coscienza, e dunque
dal ciclo unità-di-coscienza/continuità-dell’individuo. È l’attributo cognitivo, la coscienza di
sé e la capacità di ri ettere e riferire a sé o di attribuirsi azioni e pensieri, a rendere ciascuno
un io unico e uni cato (un “self ” e, dunque, un “io” continuo nel tempo). Il punto di vista di
Locke è stato riassunto da Anthony Quinton.
La coscienza di sé è indipendente, per Locke, dalla sostanza materiale del corpo, che è
irrilevante per stabilire l’identità personale. Inoltre un ruolo cruciale è rivestito dalla memoria,
inc tanto garante della continuità nel tempo della coscienza di sé. L’identità personale, è data

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dalla memoria delle proprie azioni passate e tenute insieme dalla loro riferibilità all’io attuale,
ossia dalla consapevolezza di essere la stessa persona che le ha compiute. A Locke sta a cuore
particolarmente il ruolo svolto dalla memoria dell’esperienza passata - il vissuto psichico - che
va distinta dalla memoria fattuale. La nozione di memoria rappresenta anche il ponte, nella
teoria di Locke, tra la teoria dell’agente pensante e la teoria morale dell’agente responsabile e
soggetto a legge. Le azioni compiute sono infatti una sorta di “proprietà legale” poiché
rientrano nella sfera del proprio, ossia nel “suum”di ciascuno. D’altra parte, proprio per
questa sua radicale implicazione, la memoria funziona anche a contrario sull’identità.
Nei confronti del criterio psicologico dell’identità personale non sono mancate però obiezioni.
Leibniz, ad esempio, confrontandosi con il Saggio di Locke sottolinea come la coscienza sia
solo uno dei criteri di identità personale, accanto a fattori come la continuità di sostanza
materiale, le percezioni indistinte, le testimonianze da parte di quanti ci conoscono. Il ricordo
presuppone peraltro quella che de nisce “identità reale”, che è indipendente dalla coscienza
della nostra continuità. Inoltre, insiste nel mostrare come non si ha sempre continuità, in
particolare a causa di vuoti di memoria dovuti a traumi o malattia. Nel “Trattato sulla natura
umana”, Hume combatte contro la nozione di identità e presenta una concezione
“approssimativa” o “imperfetta”. Hume non crede che esista una coscienza di sé o un
qualunque altro luogo interno che operi da entità centrale a cui afferiscano tutte le
esperienze, una unità che resiste al mutamento dell’esperienza e a cui ci si può af dare per
sancire l’identità e la continuità della persona. Inoltre, Hume non crede di poter percepire sé
stesso se non in una particolare percezione e le singole percezioni, non avendo la facoltà di
connettersi in unità temporali più vaste, non possono essere un criterio di identità. La
continuità di esistenza è, a suo avviso, una semplice assunzione. Hume fornisce altresì una
spiegazione motivazionale, oltre che cognitiva, del perchè attribuiamo continuità. Sostiene
infatti che siamo naturalmente portati a farlo poiché propensi ad attribuire coerenza e
continuità a ciò che percepiamo. Quindi, immaginazione e memoria, sono solo degli
indicatori di una convinzione culturale grazie alla quale ricostruiamo retrospettivamente un
senso di identità. Tuttavia è possibile rintracciare una incoerenza in Hume poiché da una
parte sostiene che la nozione stessa di identità personale è infondata e, dall’altra, quando
parla di identità di chiese, monti e umi non allude ad alcuna confusione. Questa incoerenza
sparisce se si traccia quella distinzione fatta dal losofo tra “identità perfetta” (ossia invariabile
e interrotta) ed “identità imperfetta” (basata su una costruzione logica e valida per le persone).
Se Hume, da scettico, ha aperto delle falle nel pensiero loso co tradizionale, Kant cercherà
di tamponarle sostituendo l’io all’esperienza, la certezza all’abitudine, le categorie alle
credenze. Come si evince dalla “Critica della ragion pura” Kant si sforza di precisare come
deve essere la conoscenza per essere scienti camente valida. Cosa differenzia una serie di
percezioni dalla percezione unitaria di una serie? Kant difende l’idea secondo cui il concetto
di qualcuno che percepisce o pensa è logicamente antecedente al concetto di una percezione,
o un pensiero. Eppure Kant parte dalla stessa constatazione di Hume: l’io non è intuibile/
esperibile. Ogni rappresentazione è necessariamente una rappresentazione di un “questo-
così” (questo tavolo rosso, questa donna alta, ecc.) . L’io è il soggetto non rappresentato - il

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soggetto trascendentale - di ogni rappresentazione (=/ Hume). Con "soggetto
trascendentale", in Kant, si intende mostrare come non si possa fare a meno di presupporre
un io (trascendentale) . D’altra parte Kant si distingue anche da Locke e dalla teoria della
continuità della coscienza vigile, avendo egli individuato un principio che garantisce l’identità
indipendentemente dalla consapevolezza che ho di me stesso. La consapevolezza delle mie
proprie percezioni e rappresentazioni delinea soltanto l’io empirico, che è diverso per
ciascuno di noi, e diverso ogni volta anche per me, essendo distribuito sulle percezioni in cui si
articola. Nella parte della Critica della ragion pura intitolata “Deduzione trascendentale delle
categorie”, Kant sostiene che il soggetto ed il mondo si sostengono reciprocamente attraverso
una operazione di sintesi e di organizzazione dell’esperienza. Inoltre, Kant spiega come
l’identità abbia a che fare con due aspetti, uno di sintesi ed uni cazione (unità sintetica) ed
uno di riferibilità o appartenenza di quanto è stato sintetizzato ad una singola coscienza (unità
analitica). La prima indica ciò che lega ed organizza ciascuna delle nostre rappresentazioni
empiriche nella sintesi di un’unica coscienza, ed è la condizione per rappresentare a me stesso
la mia identità o unità analitica. L’unità sintetica non coincide con la coscienza di ogni
rappresentazione, ma con la circostanza di aggiungere una rappresentazione all’altra,
congiungendole in una serie. Si prendano tre rappresentazioni x,y,z. Queste vengono prima
correlate e sintetizzate in una triade concettuale unitaria (x+,y+z) e poi ascritte ad una unica
coscienza e riconosciute come appartenenti ad un singolo soggetto. Se per un verso - contra
Hume - quella sintetica è per Kant una funzione ineluttabile, essa non implica che io debba
continuamente ri ettere sul fatto che le rappresentazioni che ho sono mie, implica solo che
deve essere sempre potenzialmente possibile ascriverle a me. L’unità analitica, che indica il
riconoscimento della mia propria identità come soggetto unitario, è dunque possibile solo
presupponendo questa facoltà di connessione che è l’unità sintetica, la quale rappresenta la
condizione di possibilità dell’identità personale. Da una parte l’identità sembra coincidere con
la sintesi, intesa come processo produttivo, ed in questo caso l’identità personale non sarebbe
altro che la coscienza della nostra facoltà di sintesi e del suo esercizio. Dall’altra parte, appare
il prodotto o il risultato dell’attività di sintesi. Ma chi svolge la sintesi, e come? Kant ricorre a
questo punto al celebre “io-penso” (Ich denke).L’Ich denke è una funzione uni cante che
assolve lo stesso compito di una condizione trascendentale: quello di accompagnare le nostre
rappresentazioni. È dunque una funzione di secondo ordine o di ordine superiore rispetto alle
rappresentazioni di primo ordine che accompagna. Inoltre, Kant chiarisce come l’io non può
essere un predicato ontologico riferito ad una sostanza o un’entità esperibile; è invece la
condizione - puramente formale - per poter sintetizzare e riferire a sé un insieme di stati
mentali. Secondo Kant (nella sua critica alla “psicologia razionale” di Cartesio), l’errore di
Cartesio scaturisce dall’aver confuso una condizione di possibilità dell’identità personale con
la questione relativa alla natura dell’unità della coscienza soggettiva, pensando quest’ultima
come fosse essa stessa oggetto identi cabile. Qualora si volesse costringere Kant ad esplicitare
la sua concezione, obbligando l’io penso a pensarsi, si andrebbe incontro ad un paradosso,
reso successivamente celebre con il nome di “circolo dell’autocoscienza”. Si tratta del circolo,
attribuito a Fichte, di cui cadono vittima le teorie che fanno dell’identità personale e

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dell’autocoscienza il risultato dell’autori essione. Infatti, non basta guardarsi dentro, poiché
quello che deve essere afferrato è proprio l’atto del guardarsi. Per uscire dall’impasse Fichte
riterrà necessario postulare una forma di coscienza di noi stessi immediata e precognitiva, un
autoporti originario e primario ossia privo di un’intenzionalità che lo promuova (una sorta di
essere sé senza essere io, un atto che non si pone ma in cui ci si risponde mediante quello stato
irri essivo che è l’immediata presenza a se stessi). Nella “Dottrina della scienza” (1794) Fichte
si propone di dimostrare che l’identità (logica) non può essere la prima legge, perchè se è vero
che A=A, lo è a patto che A sia “posto”. Per Fichte, l’io è sorgente assoluta ed incondizionata
e non più kantianamente condizionata dal rapporto di conoscenza, non più condizione di
possibilità del conoscere. Tra i più autorevoli loso analitici contemporanei ricordiamo
Par t. La sua tesi centrale può essere sinteticamente enunciata come segue: nel ri ettere
sull’identità personale, non dovremmo credere che l’identità è perfettamente determinata. Il
suo scopo è stato quello di dimostrare, contro i naturalisti, che le nostre connessioni
psico siche possono essere assicurate e preservate a dispetto di una piena continuità sica
(*caso dello “spettro combinato”) e che è impossibile stabilire la quantità di connessione
psico sica necessaria perchè si possa parlare di identità. Il requisito secondo cui l’identità
personale debba essere sempre determinata va pertanto abbandonato. Tra i suggerimenti
costruttivi di Par t vi è la proposta di tracciare una distinzione tra “continuità” e
“connettibilità” psicologica. Si ha continuità quando l’esistenza di una persona procede passo
passo, senza discontinuità o fratture, ossia quando vi è continuità tra un’esperienza
precedente ed il suo ricordo attuale, o quando vi è omogeneità tra una intenzione formatasi al
tempo t1 e la sua realizzazione al tempo t2. Si ha invece connettibilità o connessione quando
vige un legame solo parziale tra gli stati mentali successivi di una persona il punto distintivo è
che la connessione non è una relazione transitiva. La nozione di connessione ci porta
inevitabilmente alla nozione di “io successivi”. Se un io è un insieme di stati fortemente
connessi tra loro e se la nostra vita non si accumula necessariamente su se stessa in modo
lineare, allora potremmo distinguere tra un io ancestrale e degli io discendenti scanditi
dall’allentarsi delle connessioni forti. Kant contempla una prospettiva molto vicina a quella
di Par t nella prima edizione della Critica . Si tratta della possibilità logica che vi siano
differenti io immateriali delineanti la mia biogra a, ciascuno dei quali trasferisce al proprio
successore un plafond di memoria, in modo da trattenere i pensieri di chi lo ha preceduto.
Mentre Kant respinge la possibilità di una biogra a la quale, invece che composta da una sola
persona, fosse punto terminale di una successione di persone, Par t non solo la accetta ma la
radicalizza, invitandoci a non parlare più di identità personale ma di “sopravvivenza
personale”. Sopravvivere da t1 a t2 signi ca che almeno un certo grado di connettibilità è
rimasto. D’altra parte la connessione non è una relazione transitiva (come invece lo è la
continuità), il rapporto tra me stesso oggi e me stesso domani può essere analogo al rapporto
tra me e una qualunque altra persona con la quale ho una certa af nità. Questa idea si sposa
bene con l’esito forse più controintuitivo della teoria di Par t, quello secondo cui dovremmo
riconoscere di non disporre di prove conclusive circa il fatto che il vettore della continuità non
sia divisibile. Se si accetta il criterio di Par t, non vi sono obiezioni di principio alla

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rami cazione e persino alla migrazione di stati mentali. Per mostrare che la relazione con il
nostro io è concettualmente paragonabile alla nostra relazione con un’altra persona (af ne)
propone di considerare dei sonniferi che provocano amnesia retrograda. Par t ci invita ad
accettare positivamente l’idea di una pluralità di continuatori. Ciò che conta, secondo lui, è
conseguire una qualche forma di connettibilità comunque raggiunta, ossia raggiunta in
qualsiasi forma e a prescindere da quale ne sia la causa. Questa conclusione trova supporto
nella cosiddetta concezione impersonale (“a-propeitaria”) della persona. Nell’ottica di Par t
appare una forzatura ritenere che ogni esperienza debba appartenere a qualcuno. Ed è
proprio sganciando la concatenazione di esperienze vissute dal riferimento loro titolare che la
sua prospettiva giunge ad ammettere che si possano dare due o più individui futuri che
rappresentano i più prossimi continuatori di me stesso. Per Par t, l’identità stretta è una
relazione formale di tipo uno-ad-uno (nessun individuo può essere identico a due individui
differenti) e non ammette gradi, ma la relazione tra stati mentali non risponde
necessariamente a tale requisito formale. Ciò che conta non è l’identità stretta ma una
relazione molto più debole che è l’identità via connessioni. Quello che importa non è dunque
l’identità ma una qualsiasi forma di connettibilità.

III
In modi non dissimili tra loro, il sociologo Max Weber, l’etnologo Marcel Mauss ed i loso
Foucault e Taylor hanno ricostruito la storia del progressivo distacco dell’individuo moderno
da un ordine simbolico in cui la sua individualità era assorbita. Vi sono state epoche e società
in cui l’individuo concreto coincide letteralmente con un ruolo e di conseguenza riconosciuto
solo in quanto membro di un clan, una famiglia, una città, una nazione. Sarà il cristianesimo
ad “inventare” la nozione moderna di persona come esemplare singolare/relazionale della
specie umana, aprendo la strada alla concezione moderna dell’io individualizzato. Si
prendano in considerazione due concezioni della nascita dell’io in Occidente, rispettivamente
quella offerta da Hegel e quella offerta da Nietzsche. “La fenomenologia dello spirito” di
Hegel, si presenta come una storia idealizzata dello sviluppo dell’autori essività e dell’ascesa
verso la soggettività moderna. L’articolazione di questo sviluppo storico non è lineare bensì
scandita dal movimento dialettico di rapporto/contrasto con un ordine esterno rispetto al
quale la ri essività o coscienza non è più in sintonia. L’idea chiave è: la coscienza passa
attraverso una serie di forme o situazioni, restando in ciascuna di esse no al punto in cui è
appagata. La storia tracciata da Hegel, oltre che dialettica, insiste sul principio di mediazione,
stando al quale l’io non si può compiere se non in rapporto a qualcosa di altro da sé, qualcosa
in cui ri ettersi e dispiegarsi. L’io, l’autocoscienza, non sono immediatamente dati ma
conseguiti nell’agire. Senza la mediazione con l’altro e senza il rientro in sé, si ha la morte
dell’io. Nella Fenomenologia, il protagonista è l’io ma non si riferisce all’io individuale ma
all’uomo in generale ossia un io estendibile a tutti gli esseri umani. La situazione primordiale
è quella dell’autoaffermazione sentimentale, una situazione in cui l’uomo non si esprime
ancora in forme suscettibili di coscienza e di comunicazione. Ben presto, tuttavia, sviluppa

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una prima forma di coscienza sensibile, la “coscienza-di”, fondata sull’uso referenziale del
“questo”. Il “riferimento-a” inizia già a delineare la bipolarità della coscienza e la distinzione
soggetto/oggetto. Da una parte il riferimento all’oggetto (di cui sono cosciente), dall’altra, il
riferimento all’oggetto di cui io sono cosciente (coscienza di sé). Quella delle cose resta una
forma abbozzata di coscienza, una coscienza ostensiva e solo indirettamente autoreferenziale,
ossia sempre in-situazione, a contatto con questo o quel particolare. Esistendo nell’unità
immediata della situazione, la coscienza sensibile non giunge ancora a distinguersi e a
conoscersi come oggetto indipendente dal contesto naturale nella quale si è disposta. Il
passaggio verso questo’ulteriore fare di autori essione si avvia con l’autocoscienza
desiderante, quella coscienza che si carica di aspirazioni, passioni e propensioni verso
l’integrità, aspirazioni che portano a fronteggiare e consumare le cose e gli oggetti da cui è
circondato. La seconda tappa di questa storia dell’io ci porta all’autocoscienza sociale o
riconoscitiva, ossia ad una forma di ri essione non più ego centrica. L’altro da sé non è un
oggetto ma un’altra persona, una seconda autocoscienza. Prima dell’istituzione della schiavitù
(Hegel chiarisce così il contesto sociale in cui si afferma il ruolo del riconoscimento), regnava
un rapporto di lotta tra le persone. Il riconoscimento era necessariamente imperfetto e
sbilanciato in quanto ciascuno riconosceva pienamente solo sé stesso. Seppure in questa fase
abbiamo. Che fare con persone autocoscienza - per poter affermare se stessi bisogna esserlo -
non si tratta ancora di persone pienamente compiute. L’uccisione di una qualunque delle due
parti in lotta - questa negazione della presenza e della durata dell’altro - frustra lo scopo stesso
del riconoscimento, collocando il vincitore nella condizione di chi si chiuda solipsisticamente.
Di qui la necessità di schiavizzare l’avversario scon tto. Ma il padrone/signore che si propone
di strappare il riconoscimento dello schiavo senza prestare a sua volta un riconoscimento,
nega la condizione che dà valore al suo essere riconosciuto nella propria signoria.
Oltrepassate le due opposizioni (tra soggetto conoscente (desiderante)/mondo naturale da
una parte e, soggetto agente/soggetto agente dall’altra) veniamo alla terza ed ultima tappa
della storia hegeliana. Il contesto storico-sociale è dato questa volta dallo stoicismo e dallo
scetticismo, due movimenti nei quali Hegel scorge la medesima propensione unilaterale:
quella di chi si rivolge esclusivamente a se stesso, benché nella forma simbolica
dell’abnegazione ascetica (lo stoico rinnega il mondo esterno, mentre lo scettico rinnega la
propria esistenza). Ma il ritiro in sé, nel proprio contesto, o nel proprio corpo, così come il
portarsi in una sfera ultraterrena (come farà la cristianità medievale) sono ancora una sorta di
illusione solipsistica. Il solipsismo, così come il riconoscimento forzato intrinseco al rapporto
schiavo/padrone, vengono superati solo con l’avvento della razionalità moderna e con la
scoperta dell’autocoscienza universale, ossia con la scoperta di un io consapevole di tutte le
determinazioni di cui è arricchito. Questo io maturo, vertice ed emblema della storia
hegeliana, è l’io capace di far parte di una comunità di liberi e mutui riconoscitori.

La genealogia della coscienza morale: Nietzsche

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Tra i capisaldi della tradizione culturale dell’Occidente che Nietzsche sottopone ad un
processo di smascheramento, una posizione centrale la riveste proprio la credenza nell’io, nel
cogito e nell’antropocentrico in genere. La stessa parola “io” gli appare una rei cazione
indebita, una interpretazione antropocentrica dei nostri atti. Per corroborare la sua tesi,
traccia una particolare indagine sulle trasformazioni storiche della nostra psicologia, che egli
chiama “genealogia”. Tracciare una genealogia non signi ca ricorrere alle origini, quanto
effettuare una analisi delle svolte storiche che hanno generato determinati effetti, e signi ca
anche valutare le possibilità e vincoli aperti da tali svolte, ossia sollevare un problema per lui
essenziale: quello del valore e della ri- o tras-valutazione di ciò che una volta coincideva con il
valoroso, il prezioso, ma che nel tempo è venuto a coincidere con il suo opposto: la
morti cazione, l’auto-diniego. Per Nietzsche quindi la ricostruzione di questa genealogia non
è altro che la ricostruzione dell’origine della responsabilità. Secondo Nietzsche, la nostra
moderna soggettività occidentale ha ricevuto il suo primo impulso in quelle pratiche
economiche primordiali che sono i rapporti contrattuali. Egli ci invita a considerare non le
pratiche contrattuali in sé ma sotto un altro pro lo, ossia dal punto di vista di ciò che queste
pratiche presuppongono. Innanzitutto il fatto di fare promesse e rispettarle, la possibilità di
misurare valori ed escogitare equivalenze, il rispetto del mutuo compromesso. L’effetto
primario delle pratiche contrattuali consiste nella propensione a pensare secondo nessi di
causalità, stabilendo e calcolando le conseguenze future. Inoltre Nietzsche sostiene che noi
stessi diveniamo calcolabili, imparando a pensarci come persistenti e come agenti unitari in
relazione alla nostra condotta nel tempo. Il secondo effetto di tali pratiche e della minaccia
delle conseguenze indotte dall’incapacità di onorare gli impegni è la sospensione dell’oblio, la
soppressione della dimenticanza, ossia la necessità di evitare che l’impegno assunto venga
meno. Il terzo, è quello che Nietzsche chiama la crescente “interiorizzazione dell’uomo”. La
memoria, l’anticipazione del futuro e anche l’autocontrollo e l’interiorizzazione di quel
particolare campo di forze che sono gli istinti, assegnano all’uomo una profondità che prima
non aveva. Disciplinato e canalizzato verso la calcolabili e l’af dabilità a detrimento della
piena espressone dei propri impulsi vitali, l’uomo si ritrova “de-potenziato”. Questa è la
ricostruzione sommaria della genealogia dell’io occidentale secondo Nietzsche. E la diagnosi?
Nietzsche scorge nel progetto di riappropriazione e assoggettamento dell’uomo una strategia
fondata sopra un pregiudizio ed una sopravvalutazione fondamentale, consistente nel pensare
l’ordine, l’identità, la coscienza di sé, la controllabilità e la calcolabilità futura come
assolutamente inerenti al vero essere. L’af dabilità non è una caratteristica intrinseca quanto
piuttosto una risposta all’utilità sociale svolta dai modelli di condotta. Al termine di questa
lunga satira emergerà un individuo padrone di sé, non più immerso negli ideali ascetici o
nella devozione comunitaria. Accettare la morte di Dio signi ca cessare di trasferire altrove le
proprie iniziative (“Diventare ciò che si è”).
La storia dell’io raccontata da Hegel appare fondata sulla mediazione; tale idea è fondata sul
fatto che ogni io si dispiega attraverso il medium in cui si realizza, ossia si conosce
esprimendosi e si riconosce in ciò che ha espresso. Se l’io rimanda all’altro, il rapporto con
l’altro non è solo sintetico (come in Kant) ma piuttosto bilaterale o dialettico, basato sulla

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tensione e contrasto con l’alterità. Di fronte ai tentativi - fallimentari secondo Hegel - di
fondare autoreferenzialmente l’io quale sovranità originaria, il losofo di Jena enfatizza il
ruolo dell’intersoggettività come ciò che precede e permette la costituzione dell’identità
individuale. Anche Nietzsche sottolinea il carattere storicamente derivato dell’io ma la storia
da lui tracciata si con gura come genealogia - quindi non come sviluppo teleologico (Hegel) -
ma come analisi egli effetti che hanno portato alla creazione del tipo umano.

IV
Nel presente capitolo affronteremo un ulteriore aspetto della discussione contemporanea
sull’io; quello del rapporto io/altri (mente/mente) per distinguerlo dal problema mente/
corpo. Nella ri essione loso ca tradizionale (da Cartesio a Kant) gli altri sono stati pensati
come svincolati ed affrancati dal soggetto conoscente. Di qui il problema del “solipsismo”, di
come entrare in contatto con essi. Quale è la natura del nostro rapporto con gli altri?
L’io si costruisce in rapporto al “tu”, ossia a partire dal riconoscimento dell’altro e dalla sua
negazione. Questa tesi non è circoscritta a nomi quali Mead o Wittgenstein ma essi
rappresentano due tentativi paradigmatici di ribaltare la concezione tradizionale del rapporto
io/altro. Mentre Mead nell’analisi del “self ” pone l’accento su una intersoggettività sociale,
mostrando come l’io si formi di rimbalzo, Wittgenstein sottolinea il ruolo decisivo
dell’intersoggettività linguistica.
La tradizione del pragmatismo americano non ha analizzato il “self ” come io o coscienza di
sé (come Cartesio o Locke) ma ne ha discusso come centro di attribuzione dell’individualità,
come aspetto distintivodel soggetto. Rispetto al tipo di impostazione che fa dipendere la sè-ità
dall’autocoscienza, ossia da una rappresentazione, il pragmatismo suggerisce un altro punto
di partenza dato non dall’autori essione ma dai rapporti sociali. Il soggetto che interessa è il
soggetto che agisce non quello che medita su di sè. In tale ottica il self non è qualcosa di
essenziale o nucleare che scopriamo in noi ma il risultato di una interazione. Nei “principi di
psicologia” James distingue tra “ self empirico”, “self sociale” e “self spirituale”. Il primo
corrisponde a ciò che un individuo può rivendicare come proprio e che lo caratterizza anche
allo sguardo esterno. Il self sociale corrisponde all’individuo collocato nell’universo pubblico e
riconosciuto dai propri interlocutori. Il self spirituale corrisponde al seld elaborante che si
autorispecchia cogliendosi “da dentro”.

L’io, me e “self ” in Mead


L’insorgenza del self, il passaggio dal “non self ” al “self ” viene collegata da Mead a quella
che chiama la “conversazione dei gesti” mutuata dalla ricerca sul comportamento animale. Il
punto di Mead è il seguente: soltanto attraverso i comportamenti successivi che genera, un
gesto può caricarsi di signi cato. Ed è cosi che il gesto diventa un atto sociale signi cativo.
Entro questa dinamica si sviluppa il campo della signi cazione. Quando il primo organismo
assume l’atteggiamento dell’altro e anticipa implicitamente la sua risposta corrispondente,

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non solo vi è comunanza tra i due organismi ma il gesto stesso diventa “simbolo signi cativo”
(*signi cativo si intende per l’altro, a prescindere dall’accompagnamento di una
connotazione soggettiva, ossia a prescindere dal fatto che abbia signi cato per me).
Sviluppando le considerazioni di james, Mead considera la trasformazione dell’individuo in
“self ” qualcosa che non dipende autoreferenzialmente da me, ma che è possibile solo grazie
alle cerchie sociali nelle quali sono stato socializzato. Lo sviluppo nale del “self ” si ha
quando l’individuo scopre di essere egli stesso altro dell’altro, ossia quando replica o assume
in sé quello che Mead chiama l’ “Altro generalizzato”( insieme degli atteggiamenti e dei
modelli di risposte condivisi dal gruppo di riferimento assumendo i quali si accede all’universo
di discorso sociale). Tuttavia, il fatto che il self si formi attraverso processi sociali non è
incompatibile con l’irripetibilità di ciascun singolo self individuale. Sul self si è soffermato
anche Daniel Dennett. Egli parte dal self in senso più stretto, darwiniano, ossia come
dispositivo biologico che appare anzitutto sel sh teso ad intercettare tutto ciò che potrebbe
minacciare il proprio stato omeopatico. Dennett riconosce come nel tempo sia emerso un
social self rivelatosi vantaggioso per la sopravvivenza e l’adattabilità dell’organismo umano,
assolvendo una funzione evolutiva cruciale: quella di favorire gli organismi (o fenotipi) meno
rigidamente “cablati” ossia più plastici e maggiormente capaci di riprogettare sia l’ambiente
sia sé stessi. Ma chi più di tutti ha sviluppato le considerazioni di Mead è stato il sociologo
Goffman. Fa notare la discrepanza tra “ruolo” ed “espressione” di ruolo (il ruolo
effettivamente agito dall’individuo particolare che occupa la posizione a cui il ruolo è
associato). Goffman delinea tre tipi di relazioni rispetto al ruolo: l’incapacità di assumerlo,
l’assorbimento nel ruolo, la distanza dal ruolo. Sottolinea inoltre come il self non corrisponde
al ruolo interiorizzato ma viene attribuito proprio laddove l’individuo mostra la “sua”
differenza rispetto ai requisiti imposti dal ruolo. In altre parole è proprio il contrasto e lo
spazio tra ruoli a generare l’effetto del self. Quest’ultimo non si forma in opposizione al
riconoscimento di tipo sociale ma in virtù di esso (lo studioso tuttavia non allude ad alcun self
autentico o presociale).

Dall’io nucleare all’io come linguaggio: Wittgenstein e la sua realtà


Wittgenstein non si limita ad esaminare la funzione logica del linguaggio ma offre ri essioni
sull’io ispirate da fonti diverse. Ciò che il “secondo” Wittgenstein rigetta della sua analisi
giovanile è la concezione verofunzionale del signi cato. In base a tale concezione, il signi cato di
un enunciato è dato dalle sue condizioni di verità e queste sono soddisfatte o meno in
rapporto ad uno stato di cose, il quale o sussiste - rendendo l’enunciato vero - o non sussiste
rendendolo falso -. Al posto di questa concezione Wittgenstein assumerà una concezione sociale
del linguaggio per cui il signi cato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di asseribilità,
le quali non ssano la verità dell’enunciato ma le circostanze in cui è asseribile. Uno degli
sforzi di Wittgenstein consiste nell’invitarci a non cadere nella tentazione di incunearci tra il
linguaggio e il comportamento, alla ricerca di misteriosi mediatori interni (ciò deriva dall’idea
illusoria che la funzione del linguaggio sia di fornire nomi per designare oggetti). Il concetto

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di “linguaggio privato” risulta rilevante in quanto congettura sulla possibilità/impossibilità di
un linguaggio del tutto autodeterminavo ed impermeabile agli altri. Tuttavia, per
Wittgenstein, questo non è un codice segreto che si può eventualmente rendere pubblico,
bensì lo si ha quando i criteri di cui dispone il parlante coincidono con criteri liberamente
stabiliti da lui. Un aspetto problematico del linguaggio privato è dato dal fatto che se quello
quello privato fosse l’unico criterio dell’uso del linguaggio non potremmo comunicare
(nessuno, in mancanza di nu criterio d’uso pubblicamente rati cato, può stabilire l’uso
corretto di un’espressione). Una considerazione complementare a quella sul linguaggio
privato riguarda l’esistenza e la conoscenza della mente degli altri. Una tradizione loso ca
ben affermata riserva il termine “senso interno” alla facoltà tramite cui ciascuno ssa
mentalmente l’attenzione su se stesso, osservando le operazioni compiute dalla propria mente
(pensare, credere, dubitare, ecc). Cartesio, Locke, Leibniz, Kant ad esempio contrappongono
il senso interno alla conoscenza empirica di noi stessi.
La conoscenza della propria mente è immediatamente data, mentre gli stati mentali e le
sensazioni degli altri sono inferiti per analogia. Secondo Wittgenstein tuttavia, la mente e i
suoi stati, la nostra soggettività, non sono nascosti nella nostra mente ma si esprimono nel
nostro modo di comportarci. Nell’ultima parte dell “Ricerche loso che”, Wittgenstein
effettua un’analisi delle espressioni e verbi come “descrivere”, “ricordare”, “intendere” (ecc.).
ciò che ci permette di dire “lui crede, lui intende, ecc” è il comportamento dell’attore
considerato. Pur sostenendo che molti concetti psicologici sono ascritti sulla base del
comportamento, Wittgenstein però si distingue dai comportamentismi soprattutto in virtù
della distinzione tra “interno” (psichico) ed “esterno” (comportamentale). Secondo il losofo,
l’esterno è solo uno dei criteri per l’attribuzione di stati ed eventi mentali e oltretutto no ci
deve interessare il comportamento in quanto tale ma il comportamento in certe circostanze
ed occasioni pratiche. Un altro aspetto centrale in Wittgenstein è che l’esistenza stessa di
eventi e stati mentali presuppone la presenza di un’altra persona, indispensabile anche
logicamente. La seconda persona che recepisce e da signi cato ai miei atti è necessario per non
cadere nel linguaggio privato (vedere prima) e per ricollocare tali atti in un più ampio
contesto di comunità linguistica. La seconda persona è un membro della comunità linguistica
nella quale si stabilisce il ruolo e lo scopo che quel tipo di dichiarazione svolge nel linguaggio.

V
Dal problema mente/corpo, passiamo al problema mente/mondo. In sintonia con quanto già
detto da Wittgenstein sulla de-privatizzazione del linguaggio, pensatori appartenenti
all’orizzonte della fenomenologia si sono sforzati di riconcettualizzare il rapporto soggetto-
mondo ripensandolo sotto forma di correlazione originaria: già da sempre, ossia prima di
ogni concreta esperienza, l’uomo è aperto al mondo. Il riferimento al metodo della
fenomenologia e alla cosiddetta indagine “eidetica” (studio di una soggettività pura) è
strumentale al nostro interesse, ossia l’indagine sul rapporto tra io-mondo. La fenomenologia
è inaugurata da uno spostamento, da una sospensivo - epoché - . Ciò che occorre sospendere è

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l’ “atteggiamento naturale” proprio della vita quotidiana, ossia l’atteggiamento rispetto al
quale il mondo assume il carattere dell’essere-a-disposizione. Si tratta di riportare lo sguardo
su uno strato esperienziale precedente l’esperienza quotidiana. Se questo strato è latente, pre-
ri essivo, non attualizzato, non è d’altra parte inconscio poiché può diventare cosciente, se si
applica il procedimento fenomenologia della messa tra parentesi della vita quotidiana e degli
atteggiamenti “naturali”. Husserl parla della fenomenologia come di un riorientamento, di
una “riduzione trascendentale”/ “eidetica”, ossia una riduzione alle essenze della coscienza.
Husserl condivide tre assunti con Cartesio:
- Quello dell’epoché (occorre sospendere l’attenzione che rivolgiamo al mondo per poter
riscoprire le operazioni della mente come dato primario - “datità prime”)
- Quello riguardante il compito della loso a, consistente nella ri essione sull’io e sulla
coscienza (l’ “egologia”)
- La scoperta dell’ego cogito come suolo ultimo del giudizio, come certezza o evidenza
assoluta
Nelle “Meditazioni cartesiane” Husserl ipotizza una scissione dell’io, indotta dal tentativo di
porsi al di sopra di se stessi e diventare spettatori de-situati (osservatori disinteressati) del
proprio io puro o trascendentale. (L’ ”io primario”) . D’altra parte, in accordo con Kant,
Husserl accusa Cartesio di essere incorso in un autoriferimento naturalistico, quello di chi
considera il cogito una sostanza, ossia un “pezzo” di mondo, rapportandolo alla realtà
naturale, invece di coglierne lo statuto trascendentale. Ripristinando le condizioni iniziali
dell’esperienza grazie alla “riduzione”, si con gura un io o una coscienza che, pur essendo in
correlazione con il mondo per il principio stesso dell’intenzionalità (* essa costituisce per Husserl
non dato una selezione quando un conferimento di senso, in generale può essere pensata come una
proprietà o condizione interna ad una classe di stati mentali, la condizione grazie alla quale uno stato
porta dirsi diretto o correlato ad un oggetto), non è psicologico ma propriamente fenomenologia
(ossia puro trascendentale). Quali contenuti della coscienza, Husserl fa riferimento a termini
greci “Noesi” e “Noema”. Il primo indica le operazioni o atti di sintesi e uni cazione dell’io.
Il secondo, invece, rinvia al modo di cogliere o intendere i contenuti dell’esperienza. Ad
Husserl interessa l’eidos , l’essenza delle operazioni della coscienza, perciò egli parla di
fenomenologia “eidetica” come indagine sulle essenze della mente. Si domanda : “cosa è, in
generale, un’intenzione / un ricordo / una percezione ?”. Per arrivare all’inizio dell’io, egli
avverte la necessità di articolare il procedimento di riduzione in due momenti.
1. Volto a retrocedere verso quella che viene de nito “ il mondo della vita”
2. Volto a risalire dal mondo della vira alle operazioni soggettive da cui quel mondo stesso
emerge
Husserl sapeva già che l’io si costituisce e sviluppa non solo ri essivamente ma anche
realizzandosi nell’esperienza concreta in relazione alle circostanze della vita, ma gli era
sfuggito no a che punto questa esperienza fosse pre-ri essiva. Gli stati coscienti della vita
quotidiana sfumano in un orizzonte di atteggiamenti, disposizioni e capacità preintenzionali.
Husserl distingue due poli (fenomenologia della costituzione della soggettività) : polo

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egologico (l’io svuotato e afferrato in maniera originaria attraverso la riduzione
fenomenologica), polo personale (più concreto e legato al mondo circostante). A differenza
dell’io puro, l’io persona si caratterizza attraverso due modalità —> l’io faccio (ossia come
insieme di possibilità pratiche es. prendere nota, paragonare) e l’io che è colpito da (è allegro,
ricorda, soffre,ecc.) . il compito della fenomenologia diventa quindi quello di analizzare
l’origine dei contenuti di coscienza (es. coscienza delle percezioni, coscienza delle immagini,
coscienza del corpo,ecc.) . Del corpo Husserl sottolinea tre aspetti:
- É sensibile ed immediatamente espressivo
- È mobile ( per mobilità non si intende solo le facoltà cinetiche e locomotorie ma si lega
all’ “io faccio” e “io posso”)
- Orienta (centro di orientamento grazie al quale mi colloco nel mondo, usufruendo non di
uno spazio posizionale ma di uno spazio orientato, relativo ai compiti che mi prepongo e
alle possibilità di cui dispongo)
La fenomenologia di Merleau-Ponty
In uenzato da Bergson e promotore di una visione anti-positivista e anti-spiritualista,
Merleau-Ponty si pone lo scopo - come in Husserl - di redistribuire il rapporto tra soggetto e
oggetto, ma - diversamente da Husserl, propone una fenomenologia genetica a scapito di
quella eidetica. Per Merleau-Ponty, infatti, è necessario non tanto indagare il soggetto a
partire dal soggetto ma, al contrario, analizzare il soggetto nei termini dell’orizzonte che lo
istituisce, concentrandosi sui due dispositivi mediante i quali il soggetto e il mondo si
intrecciano, ossia la percezione ed il corpo. Merleau-Ponty polemizza contro il dualismo
cartesiano basato sulla separazione tra mente corpo ma conviene sul fatto che nell’uomo vi è
una certa duplicità. Per Merleau-Ponty il corpo è, allo stesso tempo, soggetto e oggetto e
suggerisce il mondo non è qualcosa di esterno al corpo bensì qualcosa che lo attraversa.
L’inerenza al mondo veicolata dal corpo non è però solo spazio-motoria ma anche
conoscitiva. Di questa conoscenza Merleau-Ponty rivendica il primato dell’aspetto pratico-
operativo (sull’aspetto teorico-descrittivo). Inoltre, pur essendo collocato nel mondo, il corpo
delimita il mio spaio e la mia differenza (* le considerazioni sull’inerenza al mondo sono state
empiricamente comprovate tramite l’analisi di due patologie - arto fantasma e anosognosia- sia tramite
lo studio del gesto. Al pari di Mead, infatti, Merleau-Ponty da molto rilievo al gesto come uno degli usi
possibili del corpo e primo evento tramite il quale ci intrecciamo con il mondo). Fornisce l’esempio
del bambino per sottolineare l’idea di una corporeità interumana (o “intercorporeità”) tramite
la quale il bambino sviluppa sia il senso della sua co-appartenenza sia quello della sua
individualità. Questi due aspetti sono da considerare come estensioni di un solo sistema io/
altro. Inoltre, Merleau-Ponty sottolinea l’impossibilità di scollegare i gesti naturali dal mondo
culturale nel quale gli uomini sono inseriti. Il compito della loso a è pertanto risalire
all’infanzia dell’esperienza ed indagare il modo in cui essa ci è data. L’orizzonte delle
relazioni originarie si presenta come un “intermondo” in cui non vi è partizione tra io, altro,
mondo e parola. In secondo luogo, ritrovando il contatto con l’essere grezzo si scopre un orlo

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dell’esperienza (“chiasmo”) dove domina la reversibilità (Merleau-Ponty per de nire questa
trama di relazioni dove domina la reversibilità utilizza l’espressione “carne del mondo”).

L’analitica esistenziale del giovane Heidegger


Allievo di Husserl, Heidegger si contraddistingue dal maestro per il suo tentativo di
radicalizzare la fenomenologia in senso anti-soggettivistico. Fin da “Essere e tempo” (1927)
per lui la questione fondamentale è quella ontologica dell’essere, non quella del modo di darsi
dell’uomo a se stesso. “Essere e tempo” non affronta direttamente la questione dell’essere ma
vuole essere una indagine preliminare rispetto al ne ultimo di costituire un’ontologia,
concentrandosi sull’analitica esistenziale e l’identità personale. L’analisi dell’esistenza umana
ha per oggetto il modo di darsi originario dell’uomo come oggetto concreto, ossia quelle
circostanze in cui facciamo esperienza di noi in rapporto al mondo. Per speci care questo
modo di darsi dell’uomo Heidegger usa il termine “Dasein” (Da = “qui” + “Sein” = essere) .
Ne risulta una declinazione dell’essere che è “essere-qui” nel senso di essere situati e non
estraibili dal contesto. Il senso della sua esistenza, pertanto, è quello di “Poter essere”. In
quanto esistente, l’uomo è quell’ente che si rapporta al proprio essere nella forma di un
progetto temporale di possibilità di essere. Questo modo di essere dell’ “esserci” si articola a
sua volta in affettività e comprensione. La prima allude a quel senso di presenza, quella
primaria sensazione di domesticità mentre la seconda nozione deve essere legata al concetto
di “segno”. Questo’ ultimo ha la funzione di rimandare a qualcos’altro : nel mondo che
l’esserci trova, ogni cosa è qualcosa che “sta-per” qualcos’altro. Il nostro “essere - nel -
mondo” equivale ad un “abitare le cose” poiché l’esserci non c’è senza il mondo ed è già da
sempre gettato in esso, così come il mondo è già da sempre carico di signi cati ( per
Heidegger è “precompreso”). Inoltre, noi comprendiamo cosa è un oggetto cogliendo il
signi cato che esso assume in un sistema di segni, ossia cogliendo i suoi possibili usi.
L’esserci si attua concretamente situandosi dinamicamente in un mondo non solo di cose ma
anche di soggetti ed è, per questo, un “essere-con”. Secondo Heidegger, l’esserci tende a
comprendere il mondo secondo il senso comune (“si dice, si fa”..) e ciò provoca la “deiezione”
esistenziale dell’esserci ossia lo fa cadere nell’inautenticità. Per uscire da questa condizione
dovrebbe riappropriarsi di se. La possibilità più autentica dell’esserci, per Heidegger è
l’assunzione della propria mortalità (non in senso biologico ma si riferisce all’esperienza della
morte come possibilità) poiché è un evento che tocca il “ci” del nostro essere, ossia interrompe
il nostro progetto inibendo l’avvicendarsi di ulteriori possibilità. L’assunzione della propria
mortalità consente di rispondere alla domanda sul “chi” dell’esserci, che è la domanda sulla
costituzione ontologica dell’ipseità o identità distintiva. Mediante la morte l’esserci acquisisce
una storia in opposizione all’anonimato del “si”, acquisisce quindi uno svolgimento unitario e
si con gura come identità che non è più data dalla memoria del passato bensì dalla proiezioni
verso il futuro. È grazie all’assunzione della propria temporalità nita che l’esserci si de nisce.
L’esserci ed il mondo non sono solo intrecciati ma sono resi possibili da un terzo evento,
l’apertura. Il linguaggio è la sede dell’essere come aprirsi delle aperture storiche in cui l’esserci

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è gettato. Non a caso, la seconda funzione della loso a consiste nell’interrogarsi
sull’in uenza delle categorie attraverso cui nella storia d’Occidente si è cercato di ssare il
signi cato di certi termini.

V
Se la tradizione loso ca moderna ha pensato l’io in modo unitario, in questa sezione si
esplorerà l’ipotesi di una struttura non unitaria ma plurale dell’io e della mente. L’ipotesi
secondo cui la mente ha un’articolazione multipla appartiene a quell’ambito della loso a
noto come “teoria dell’azione” volta a de nire i criteri dell’agire secondo razionalità e delle
condizioni nelle quali essa è violata. “Akrasia” (“debolezza della volontà”) è una parola greca
che signi ca “carenza di controllo” razionale sulle proprie azioni, in opposizione ad
“enkrateia” ossia autocontrollo. Solitamente l’azione degli individui corrisponde all’insieme
dei suoi desideri, ma può capitare che essi si comportino in un modo nonostante giudichino
altro il da farsi ottimale. Il problema dell’akrasia è che l’attore agisce intenzionalmente contro
il proprio miglior giudizio e ciò che in sede problematica appare problematico è la violazione
del principio normativo della razionalità dell’azione. Nel settecento, Adam Smith in “teoria
dei sentimenti morali” ha spiegato il fenomeno alla luce di un occasionale fallimento di un “io
superiore” nell’individuo nel vincere e disciplinare l’impulsività di un “io inferiore”.
Rielaborando il concetto stoico di autocontrollo attraverso l’ideale dell’autogoverno di se
stessi, Smith vede nel concetto di “self-command” una precondizione etica per esercitare tutte
le altre virtù, trascendendo l’egoismo originario. Un altro caso di irrazionalità è quello
dell’autoinganno (“self-deception”); se l’akrasia ha a che fare con l’irrazionalità della
connessione tra azione, desideri (volizioni) e credenze (giudizi), l’autoinganno ha a che fare
con l’interferenza indebita dei desideri sul processo di formazione delle nostre credenze,
consistendo nel credere qualcosa a dispetto dell’evidenza disponibile. Una credenza si dirà
formata razionalmente non quando si basa sulla nostra esclusiva volontà di credere ma
quando viene sostenuta da una valutazione della situazione e dell’evidenza disponibile. Dal
punto di vista della teoria dell’azione, l’irrazionalità dell’autoinganno non dipende dal fatto
che si hanno credenze e dedideri tra loro incompatibili, ma dall’incapacità di rendersi conto
che la credenza è causata dal desiderio (è una forma di wishful thinking). Anche Freud e
Davidson hanno fornito spiegazioni dei casi di irrazionalità. Il loro intendo è stato di mostrare
come la separazione tra io interni è implicita ai casi di irrazionalità ma anche li spiegano alla
luce di una forma di razionalità complessiva. In “metapsicologia” (1915) e “L’io e L’es” (1922)
Freud articola la sua prima e seconda “topica” della mente; una topica è una
rappresentazione dei diversi sistemi psichici, metaforicamente collocati in regioni spaziali o
“topoi” diversi. Per arrivare a formulare la prima topica - la concezione tripartita della mente
- Freud dovette giusti care il concetto stesso di inconscio. Oltre a tale sistema inconscio,
postula anche un sistema preconscio (contenuti mentali suscettibili di essere resi consci poiché
latenti e non “rimossi”) e conscio (caratterizzato dai contenuti mentali / “rappresentazioni
mentali” consapevoli). Questi tre sistemi si rapportano attraverso la teoria della “rimozione”,

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quella funzione psichica che censura dalla coscienza qualche cosa che genera un disturbo.
Rimosso però non signi ca soppresso o inaccessibile ma signi ca che il soggetto ha un
interesse a mantenere non accessibili dei contenuti. La rimozione è quindi un meccanismo
egoprotettivo che riduce l’ansia e occulta il ricordo. Dopo l’elaborazione della prima topica,
Freud ripensa i tre sistemi topici sottoforma di tre ruoli o funzioni culturali, ribattezzati “Io”
(descrive la dimensione personale), “Es”(quasi tutto inconscio) e “Super-io” (indica la
dimensione sovrapersonale ed istituzionale del controllo che sia viluppa per introiezione).
Freud collega i comportamenti anomali non all’inconscio quanto piuttosto alla “Teoria della
coscienza multipla” - TCM - , secondo la quale la persona sarebbe composta da diversi io,
coesistenti nello stesso corpo ma tra loro semi indipendenti. A partire al 1895 Freud ha
respinto questa teoria, reputando di dover scomporre non il conoscitore come fa la TCM ma il
conosciuto in due , ossia costruendo una “Teoria della mente inconscia” (TMI).

La scomposizione della mente in Davidson


Il losofo ha sposato una forma di TCM detta “concezione compartimentalizzata della
mente”. Secondo il losofo, per accettare l’irrazionalità siamo indotti ad accettare il principio
della scomposizione della mente. Rispetto a Freud ci sono tre differenze:
- La concezione della mente elaborata da Freud è “organicistica” =/ Davidson che è
“cognitiva”
- Freud assegna all’irrazionalità un ruolo che Davidson non accetta
- Riguarda il con ne tra sottosistemi : Freud lo stabilisce geogra camente sulla base del paese
cui è assegnato lo stato mentale, mentre per Davidson il criterio di cittadinanza è dato dal
tipo di interazione tra desideri, credenze e altri stati mentali
Per Davidson la spiegazione dell’irrazionalità (akrasia e autoinganno) va ricercata nel fatto
che vi sono cause mentali che non sono ragioni per le conseguenze che provocano (altri stati
mentali ed eventi mentali o azioni. Questa spiegazione implica l’idea dell’io multiplo).
L’irrazionalità, dipendendo dalla razionalità, non coincide con una carenza di razionalità ma
con una sua perturbazione. L’io multiplo appare come una premessa concettuale per spiegare
l’irrazionalità. L’atto o stato che ci appare irrazionale viene “razionalizzato” e reso
intelligibile introducendo un’altra persona nell’individuo.

VII
Il concetto di persona è stato dibattuto in sede loso ca e nella teologia cristiana a partire
dall’antichità. Cosa distingue la persona umana da altri esseri viventi? L’appartenenza alle
specie umana è la condizione necessaria ma non suf ciente per fare di un essere umano una
persona. A partire da Platone, molti loso hanno ravvisato la condizione per assegnare ad
un individuo l’attributo di “persona” nel potere intellettuale e morale della ragione. Altri,
seguendo Aristotele, hanno rilevato la condizione che differenzia la persona dagli esseri

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viventi nella sua capacità di parola. Le due tradizioni tuttavia vennero di fatto a fondersi. Il
problema loso co sulla natura della persona è stato poi nuovamente attualizzato in sede
loso ca a partire da Cartesio. Egli de nisce il corpo umano un apparato che funziona in
modo meccanico. Contro Montaigne e la sua difesa dell’intelligenza animale, Cartesio fa
notare come l’aspetto fondamentale del contrasto tra animalità e umanità non ha a che fare
con la costruzione sica bensì con due aspetti; il linguaggio (utilizzarlo in maniera appropriata
alla diversità delle circostanze) e la plasticità dell’agire (agire in maniera versatile). I recenti
studi zoologici ed etologici, nonostante riconoscano la portata dell’intelligenza animale,
hanno sottolineato la rilevanza dei due ostacoli principali dell’intelligenza animale,
individuandoli nel linguaggio e nella coscienza di sè. Per accedere all’autocoscienza è
necessaria un’appropriata “indocilità autoreferenziale”, ossia la capacità di riferire a se le
azioni che si compiono, distinguendole come proprie rispetto a quelle aventi luogo nelle
vicinanze.
Non a caso, la maggior parte degli studiosi contemporanei (es. Charles Taylor o Harry
Frankfurt) hanno discusso il concetto di persona umana concentrandosi sul rapporto tra
razionalità e riferimento a se. Frankfurt è noto per la sua teoria del “doppio ordine di
preferenze” (la peculiarità della persona è, oltre ad avere certi desideri, desiderare di averli =/
della non persona che agisce con indifferenza). Anche Taylor difende l’idea secondo cui la
persona è un essere cui le cose importano. Ma è soprattutto Daniel Dennett ad affrontare la
questione delle condizioni da soddisfare per attribuire piena personalità;
1. Presupposizione normativa di razionalità
2. Ascrivibilità di predicati intenzionali
3. Considerare una persona come tale (per poter attribuire personalità a qualcuno)
4. Capacità di contraccambiare l’atteggiamento assunto nei nostri confronti
5. Capacità di comunicazione verbale
6. Capacità di usare predicati intenzionali di secondo o terzo ordine

Le prime tre sono dipendenti: essere razionale signi ca essere suscettibile di caratterizzazione
intenzionale. Dennett pone grande importanza al concetto di atteggiamento intenzionale
perche assumere tale atteggiamento nei confronti di qualcuno signi ca attribuirgli gli stati che
l’individuo dovrebbe avere. Come Wittgeinstein si prepone di scoprire non cosa siano gli stati
intenzionali ma analizzare in quali condizioni li attribuiamo. La disputa sulle condizioni per
l’assegnazione di personhood è stata riproposta recentemente sotto la spinta dell’intelligenza
arti ciale. A tal proposito, il problema non è più quello del rapporto tra animalità/umanità
ma quello della continuità / discontinuità tra una macchina e l’uomo. Collochiamo la
macchina nel dominio intenzionale non perchè abbia particolari caratteristiche intrinseche
ma perchè attribuirle predicati intenzionali ci aiuta a prevederne il comportamento. Una
macchina sarà come una persona quando passibile di ricevere un certo tipo di atteggiamento,
quello che procede attribuendo predicati psicologici. Se l’intelligenza è, oltre a una qualità

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intrinseca, uno status che viene assegnato, per poter risultare intelligente la macchina non può
essere trattata con indifferenza ma dovrà essere accettata e socializzata e quindi assumere un
ruolo analogo a quello degli individui nella società.

VIII
Nell’accezione di consapevolezza soggettiva, il concetto di coscienza è stato inventato da
Cartesio. Successivamente, tra ottocento e novecento tale concetto è stato in parte emarginato
ma sotto la spinta delle neuroscienze, recentemente la teoria della coscienza ha ricevuto
nuova attenzione. Questo’ultima si è diretta verso l’aspetto relativo al modo in cui si
incorpora o connette al cervello (asse della materializzazione sica) e il modo in cui si
connette agli oggetti rappresentati dagli stati coscienti (asse semantico dell’intenzionalità). Si
possono delineare tre teorie contemporanee sulla coscienza: quella materialista, quella
funzionalista o computazionale e quella del punto di vista soggettivo. Nella giurisprudenza
antico-romana il termine “con-scientia” si riferiva ad una mutua forma di comprensione. Ad
oggi, è possibile distinguere due usi del termine ossia in quanto attenzione o coscienza di se. Il
problema della coscienza di se ci aiuta a chiarire il problema dell’individuazione, combinando
due capacità, quella di riferire a sé e di reidenti care come propri nel tempo certi stati o
eventi mentali, e quella di avvertire la propria singolarità.
Teorie materialiste
Sotto la spinta della scuola australiana di J.J.C. Smart e D. Armstrong, questa prospettiva ci
invita a correlare eventi mentali con i corrispettivi stati o eventi cerebrali, proponendo altresì
di eliminare il concetto di coscienza. Armstrong tenta di riformare la coscienza de nendola
una funzione naturale, la “propriocezione”. Lo sforzo dell’approccio neuroscienti co è quello
di privilegiare l’organizzazione del luogo in cui avvengono i processi neuroni, senza porsi il
problema dei contenuti o della fenomenologia delle funzioni cognitive superiori. La tesi di
Edelman può riassumersi: durante lo sviluppo prenatale si forma un repertorio di connessioni
neurali altamente variabili da individuo a individuo . Per quanto riguarda la coscienza,
distingue una coscienza primaria (awareness) e secondaria (autocoscienza). La critica più nota
all’impostazione materialista è detta “tesi della sopravvenienza” (sopravvenienza= qualcosa
emerge da un’altra cosa), che valorizza la distinzione tra livelli organizzativi, ossia l’idea di un
universo articolato e non omogeneo.
Teorie funzionaliste
Il funzionalista si contraddistingue rivendicando la relativa indipendenza del software mentale
dallo hardware che ne è alla base. La teoria più eminente è quella di Daniel Dennett. La sua
teoria della coscienza intende spiegarla senza presupposta circolarmente —> poiché si tratta
di una teoria computazionale, il suo intento è di spiegare la coscienza come un programma
che non presuppone alcun programmatore. Secondo Dennett non c’è un’unica unità centrale
dove si compie tutto il lavoro, rigetta quindi l’illusione di un centro unico di coscienza. La
controproposta di Dennett alla “teoria omuncolare” (*) è la “teoria della scomposizione

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ricorsiva” vale a dire il tentativo di mostrare come la cognizione possa essere spiegata
scomponendola no a raggiungere i livelli più elementari. La critica più nota alla teoria
funzionalista e alla scomposizione ricorsiva di Dennett è quella di Searle. Quest’ultimo
generalizza la critica anti-funzionalista sostenendo la tesi secondo cui i simboli formali e la
sintassi non sono intrinseci alla sica, né de niscono un fenomeno naturale. Per Searle la
coscienza non è un ente computazionale e nemmeno il risultato di un complesso sistema
computazionale.
Le teorie del punto di vista soggettivo
Secondo i seguaci di questa teoria, la coscienza ha anche fare con la circostanza che ad essere
un determinato organismo si prova qualcosa. Per sapere cosa si prova ad essere una persona o
un pipistrello bisogna assumere o adottare il suo punto di vista. Coloro che sostengono questa
teoria - Nagel, Searle, McGinn - rivendicano la qualità fenomenologica dell’esperienza
cosciente. Si tratta di una fenomenologia perchè approfondisce sia l’esperienza nelle modalità
del suo darsi alla coscienza soggettiva sia il modo di accesso agli stati mentali coscienti.
McGinn ipotizza l’esistenza di una impenetrabilità cognitiva della coscienza.
Per i sostenitori di questa visione, la coscienza è qualcosa di parzialmente incoerente con
l’universo sico ed affermano che non abbiamo idea del modo in cui il rapporto coscienza/
cervello possa essere spiegato in termini naturalistici.

IX
Il progetto scienti co del materialismo, consiste nel tentativo di ridurre il mentale al sico,
non nell’abolire l’io o il linguaggio che ne parla. Il materialista afferma i termini mentalistici
hanno lo stesso riferimento dei corrispondenti termini sicalistici, a prescindere dal fatto che
gli utenti del linguaggio ordinario lo sappiano o meno. Il materialismo è una concezione
loso co-scienti ca che rivendica una interpretazione alternativamente riduzionista o
eliminazionista del mentale. Il riduzionista sostiene che uno stato mentale sta in una certa
connessione sistematica con determinati eventi neuroni, l’ eliminazionista sostiene che la
mente è cervello e che gli eventi mentali sono eventi neuroni e che, pertanto, il concetto di
mente può essere ripudiato. La forma più nota di riduzionismo è la teoria dell’identità dei tipi
(Armstrong). Essa identi ca la mente con il sistema nervoso centrale e assume che determinati
tipi di stati mentali siano ideatitici con determinati tipi di stati sici. Tale teoria richiede una
corrispondenza tra classi di stati mentali e classi di stati sici (“type-type identi cation”).
Armstrong ha recentemente rivisto la propria posizione propugnando una teoria - “teoria
dell’identità del ruolo causale” - in cui non solo uno stato cerebrale provoca uno stato
mentale, ma lo stesso stato mentale causa un certo tipo di comportamento. Alcuni materialisti
hanno tuttavia abbracciato una visione di riduzionismo meno “avida” detta “ teoria
dell’identità delle occorrenze” (tra stati mentali e sici) o “token-token identity theory”. La
differenza rispetto alla teoria dell’identità dei tipi la si desume considerando che l’insieme

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delle occorrenze degli stati sici non con gura un raggruppamento legiforme né attesta una
regolarità sica, ossia non con gura un determinato “tipo”.

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