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DISPENSA PER GLI INCONTRI FILOSIFICI (2022 gennaio)

A cura di Giorgio Peri


Argomenti che andremo a trattare:

IL DUBBIO E LE CERTEZZE
IL NULLA E IL VUOTO
L’UNIVERSO E IL MULTIVERSO
IL TEMPO E LO SPAZIO
LA REALTA’ E LA VERITA’
IL SOGGETTO E L’OGGETTO
IL CASO E LA NECESSITA’
LA SAGGEZZA E LA CONOSCENZA
Questa è la sesta serie dei nostri incontri filosofici. Lo scopo che perseguiamo
insieme è sempre quello di fare GINNASTICA MENTALE senza alcuna pretesa di
affermare la verità.
Alcuni degli argomenti trattati non sembrano, a prima vista, molto attinenti alla
filosofia. In realtà qualsiasi concetto interessa la filosofia, anche quelli che sembrano
più inerenti alla fisica o la matematica. Useremo la filosofia occidentale come
grimaldello per cercare di capire concetti della fisica e dell’antico pensiero orientale.
Come in passato sarà determinante la partecipazione critica e attiva dei presenti al
fine di arricchire il dibattito con punti di vista e prospettive diverse e stimolanti.
Buona GINNASTICA MENTALE a tutti e, speriamo, anche di divertirci insieme.

In Giappone esistono parole che racchiudono significati complessi. "Ukiyo", per


esempio, significa mondo fluttuante, vivere il momento distaccandosi dalle
difficoltà della vita. Allora Buona Vita e buon Ukiyo a tutti!

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-IL DUBBIO E LE CERTEZZE
E’ anche così ma non è solo così!
Dobbiamo insegnare che il dubbio non debba essere temuto, ma accolto e dibattuto.
Non c'è problema a dire: non lo so. (Feynman)
In tutte le faccende è una cosa salutare, di tanto in tanto, appendere un punto
interrogativo sulle certezze che da tempo sono date per scontate. (Russell)
Credo sia stato Voltaire a dire che dovremmo essere capaci di nutrire dei dubbi, senza
farci paralizzare dall’incertezza. Invece, siamo diventati insuperabili nel farci
paralizzare dalle certezze. (Gramellini)

Una civiltà esordisce col mito e termina nel dubbio. (Cioran)


Se cerco la data più mortificante per l’orgoglio dello spirito, se scorro l’inventario
delle intolleranze, non trovo niente di paragonabile a quell’anno 529 in cui, per
ordine di Giustiniano, fu chiusa la Scuola di Atene. Soppresso ufficialmente il diritto
alla decadenza, credere diventa un obbligo… È il momento più doloroso nella
Storia del Dubbio. (Cioran)
Datemi dubbi e ancora dubbi. Più che il mio cibo, sono la mia droga. Non posso farne
a meno. Ne sono intossicato a vita. Perciò, quando ne trovo uno, uno qualsiasi, mi ci
avvento sopra, lo divoro, lo incorporo nella mia sostanza. Ogni giorno vado verso il
dubbio come gli altri vanno in ufficio. (Cioran)
Il problema non è avere dubbi, ma lasciarsene paralizzare. (Gramellini)
Le anime superiori conoscono sempre e comunque il dubbio. A dominare il mondo,
però, sono i mediocri e la loro convinzione inflessibile di essere nel giusto.
(Grossman)
On mesure l'intelligence d'un individu à la quantité d'incertitudes qu'il est capable de
supporter. (Kant)
Credo che uno dei grandi errori che fanno gli esseri umani quando tentano di capire
qualcosa sia di volere certezze. La ricerca della conoscenza non si nutre di certezze:
si nutre di una radicale assenza di certezze. Grazie all’acuta consapevolezza della
nostra ignoranza, siamo aperti al dubbio e possiamo imparare sempre meglio.
Questa è sempre stata la forza del pensiero scientifico, pensiero della curiosità, della
rivolta, del cambiamento. Non c’è un cardine, un punto fisso finale, filosofico o
metodologico, a cui ancorare l’avventura del conoscere. (Rovelli)

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L’esperienza stessa ci obbliga a tenere un atteggiamento vigile contro la “tentazione
della certezza”. (Varela)
Dice Vattimo: “Se c'è qualche cosa che vi appare evidente, diffidatene, è sicuramente
una balla. Di tutto potete essere certi tranne delle vostre certezze più radicate”. Gli fa
eco Mancuso: “Ciò che non funziona di questa frase è quell’avverbio, “sicuramente”:
perché mai qualcosa che appare evidente dovrebbe essere “sicuramente” una “balla”?
È proprio l’esercizio del dubbio metodico che fa difetto in questa affermazione!
Nel buddhismo zen l’incertezza che scaturisce dalla rivelazione dell’infondatezza di
ogni fondamento e di ogni ragionamento o conoscenza è chiamata “il Grande
Dubbio”. A differenza del dubbio ipotetico e iperbolico cartesiano, che è nutrito
esclusivamente a proposito della coscienza, il Grande Dubbio indica
l’impermanenza dell’esistenza stessa, e segna pertanto una trasformazione
esistenziale che consiste nell’abbandono del punto di vista soggettivo-oggettivo per
abbracciare quello che Nishitani Keiji definisce “campo del nulla”. (Citazioni Negri
rivisitate)

Se vi aspettate che la scienza dia tutte le risposte alle meravigliose domande su


chi siamo, dove andiamo, qual è il significato dell’universo e così via, rimarrete
facilmente delusi, e potreste allora cercare qualche soluzione di tipo mistico a questi
problemi. Non capisco come uno scienziato possa cedere ad una tentazione simile,
dato che l’intero spirito della scienza si basa sulla retta comprensione; ma non
importa. Pensatela come volete, io credo che il nostro compito sia di esplorare, di
scoprire quanto più possibile sul mondo. [...] Vedete, il fatto è che io posso vivere
nel dubbio, nell’incertezza e senza sapere. Penso che sia molto più interessante
vivere senza sapere piuttosto che avere risposte che potrebbero essere sbagliate. Io
possiedo risposte approssimate, fedi possibili, e gradi diversi di certezza su vari
argomenti, ma non c’è niente di cui sia assolutamente sicuro e vi sono molte cose
di cui non so nulla, se per esempio abbia senso domandarsi perché siamo qui, che
cosa significhi una tale domanda. Posso rifletterci per un poco e, se non riesco a
capire, vado oltre e mi dedico a qualche altra cosa, ma non sento la necessità di
avere una risposta, non mi spaventa il fatto di non sapere le cose, di essere perso
in un universo misterioso senza avere alcuno scopo – che poi è il modo in cui
stanno le cose, per quello che ne so. No, non mi spaventa per nulla. (Feynman)
La vera forza della mente sta nella certezza o sta nel dubbio?
"Insistere a sostenere che le cose stiano proprio così come io le ho esposte non si
addice a persona che abbia senno." (Socrate - Platone)
"E' giusto che voi abbiate dubbi e perplessità". (Buddha)

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Il dubbio è uno dei nomi dell'intelligenza. (Borges)
Karl Löwith è il filosofo della scepsi per autodefinizione (dove la parola è usata per
indicare «l’incertezza del nostro sapere»). Dichiarò esplicitamente che coloro, che
non possono sopportare questa incertezza, sono pronti ad accettare tutte le varie
forme di religiosità, e si servono della filosofia come surrogato della religione.
Dice Nagarjuna che pretendere la conoscenza assoluta porta alla rovina, mentre
praticare un genuino metodo scettico può portare l’essere umano verso la vera
conoscenza ultima, se per caso esiste.
Bisogna saper mettere a nudo tutti i presupposti - a cominciare da quello della
nostra identità - che si sono sedimentati e cristallizzati nella mente e nella cultura;
parimenti bisogna mettere in discussione tutte le nostre certezze, a cominciare da
quelle del valore assoluto della scienza o della religione. (Pasqualotto)
Una grande illuminazione nasce sempre da un grande dubbio.
Sarebbe bello diventare vogliosi di ascoltare quello che non sappiamo ancora!
La fede senza carità non porta frutto e la carità senza fede sarebbe un sentimento in
balia costante del dubbio. (Papa Benedetto XVI) (Io) preferisco comunque di gran
lunga il dubbio a una fede sterile. Ben venga il dubbio se fruttuoso di amore. Anzi,
amare e dubitare è, forse, il meglio che un essere umano possa fare! E Buddha
conferma.
Non ho mai amato le persone che hanno certezze granitiche e pensano di possedere la
verità: ho sempre preferito le persone che si sentono in ricerca che si dichiarano
viandanti e pellegrini e che sanno dire:”chi lo sa?..forse..può essere..vedremo..” I
dubbi aiutano la ragione. (Bianchi)
Non credo in ciò che non posso conoscere … mi limito a dubitare: sia esso il mio io,
Dio o la verità! Credo però in ciò che posso fare, cioè amare!
Chi è convinto di sapere è un ignorante! Solo chi dubita merita rispetto. Solo chi
dubita può far progredire la conoscenza. Infatti la difficoltà principale è accettare
l’idea che il mondo possa non essere come abbiamo sempre creduto che sia. Che le
cose possano essere diverse da come appaiono. La vera difficoltà è abbandonare
l’immagine del mondo che ci è famigliare. Mettere in dubbio ciò che è creduto vero
da tutti.
Regna la paura di accettare l’ignoranza: meglio false certezze che incertezze!
Meglio le risposte che le domande. Ma, forse, dubitare fa bene al mondo. Dunque,
dubitiamo delle presunte certezze.

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Quando sulla strada della vita vi imbattete nei Punti Interrogativi, nei sacerdoti del
Dubbio Positivo, allora andate sicuro che sono tutte brave persone, quasi sempre
tolleranti, disponibili e democratiche. Quando invece incontrate i Punti Esclamativi,
i paladini delle Grandi Certezze, i puri dalla Fede incrollabile, allora mettetevi paura
perché la fede (qualsiasi tipo di fede) molto spesso si trasforma in violenza. (De
Crescenzo)
Il dubbio non è piacevole (non è poi così spiacevole! ndr), ma la certezza è ridicola.
Soltanto gl'imbecilli sono sicuri di ciò che dicono. (Voltaire)
Dubita e ama. Altro non puoi.

È bene diffidare delle persone che coltivano certezze, che non dubitano mai. È
bene diffidarne perché possono rivelarsi persone pericolose. Il dubbio è
l’intelligenza del pensiero. La certezza ne è la pigrizia, l’estrema e letale pigrizia.
Dubitare è il fatto di esitare tra due cose, due opzioni, due affermazioni, è
riconoscere che la verità non è evidente e che essa può presentarsi sotto forme
diverse, talvolta contraddittorie. Dubitare è dar prova di umiltà, ammettere i
limiti del proprio sapere e della propria volontà di apprendere. Dubitare è
amare con la certezza che i sentimenti sono veri. È lasciare la porta aperta
all’immaginazione, alla creazione, alla fantasia. Nel verbo latino dubitare è presente
una dualità. Si dubita perché la verità non è un blocco di cemento o di marmo, perché
può avere delle incrinature e anche un suo rovescio. Per il semplice fatto che la verità
gira, così come gira la Terra; e, questo sì, è un fatto che s’impone con la forza
dell’evidenza. L’uomo che coltiva certezze non fa altro che aggrapparvisi con tutte
le forze, perché, se perde le sue certezze, si sente perduto. E quando è assalito dal
dubbio, sprofonda nel panico. Non è abituato a considerare che esistono altri
paesaggi, altri confini, altre immagini del mondo. Chi dubita, invece, è superiore a
chi vive esclusivamente di certezze. Il mondo, infatti, è complesso, e non dubitare
vuol dire semplificarlo all’estremo, fino a tradirlo e a sfigurarlo. Il fanatismo ha la
sua origine nelle certezze indubitabili, siano esse religiose o ideologiche. È
convinto di possedere la verità, l’unica, la propria. Per il fanatismo è un fatto
evidente, uno stato d’animo immodificabile. Di conseguenza, il fanatismo non si fa
domande. Si risparmia quel lavoro interiore che lascerebbe filtrare il dubbio. Come
dice Pascal, «Quando si dubita, si cerca». Ebbene, il fanatico non cerca, perché ha già
trovato. Non perde tempo a mettersi in discussione. Si costruisce una fortezza
all’interno della quale tutto gli dà ragione. Da qui, la nascita delle catastrofi e la
fine della saggezza. Chi dubita ha senso dello humour, sa ridere, sa praticare la
leggerezza. Per Aristotele, «il dubbio è il principio della saggezza». La saggezza,
infatti, è quella capacità di umiltà che non afferma nulla con la forza dell’evidenza,
e lascia invece indovinare situazioni in cui la verità potrebbe manifestarsi là dove
meno la si aspetta. Nell’ambito della fede religiosa, il nemico è proprio il dubbio e,
dopo Il nome della rosa di Umberto Eco, il nemico è il riso. È normale che tutte le

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religioni condannino chi dubita. La fede deve essere incrollabile, non deve patire
oscillazioni né esitazioni né vuoti d’aria. La fede annienta il dubbio. Il filosofo
ebreo Mosè Maimonide (1135-1204) scrive: «Dio vi preservi e ci preservi dal
dubbio, e allontani da voi e da noi i pensieri che inducono al dubbio e alla
tentazione». Perché, in tal caso, sarebbe a rischio l’intero edificio della fede. Come
scrive William Blake (1757-1827) in Auguries of Innocence, «Se il sole e la luna si
trovassero a dubitare / la loro luce si spegnerebbe all’istante». Dove ancora una volta
si evidenzia il potere dei due astri, il fatto che dalla loro luce dipende la nostra vita.
Tuttavia l’uomo è debole, e ha bisogno di dubitare per meglio trovare il proprio
cammino. È vero che la scienza si afferma veicolando certezze, frutto in ogni caso
delle sue ricerche. Ma non si tratta dello stesso tipo di certezze del fanatico. La
matematica non dubita. Ma chi manipola le idee e dichiara che solo la sua idea è
quella giusta non è uno scienziato. È un apprendista dittatore. E ogni dittatura si
basa sull’ignoranza. Mentre il dubbio mette appunto in discussione la totalità delle
rappresentazioni. Come ha ben enunciato Cartesio, il dubbio deve essere metodico.
Quando il filosofo dice «penso dunque sono», acquisisce sì una certezza, la certezza
di essere, ma l’acquisisce dopo che ha pensato: in altri termini, dopo che, per
raggiungerla, ha passato in rassegna una quantità d’idee. È vero che dubitare di
continuo non è propriamente l’ideale. Se passiamo la vita a dubitare, non prenderemo
mai nessuna decisione. Ma è anche vero che, se si prende una decisione senza
pensare, senza riflettere, senza dubitare, essa, inevitabilmente, risulterà inadeguata.
Come il dubbio è pericoloso per lo spirito religioso, così può essere disastroso per
chi ne è minato. Come indica La Rochefoucauld nelle sue Massime, «la gelosia si
nutre del dubbio, e diventa furore, o tende a diventarlo, non appena si passa dal
dubbio alla certezza». La gente ama le personalità che affermano senza dubitare. Se
un candidato alle elezioni si mette a dubitare è perduto. La gente dirà: non si può dar
fiducia a quest’uomo. Non sa che strada prendere. Esita. Cambia spesso parere. E in
effetti sono la demagogia e la menzogna a imporre il bisogno della certezza. Il che è
l’esatto contrario del dubbio, il quale coincide con l’ossessione della verità e dalla sua
complessità. Tutt’altra cosa per l’artista. Non può esistere creazione senza la
ricerca di strade diverse tra loro, di modi d’agire diversi tra loro, senza la volontà di
plasmare il reale, di trasformarlo e di re-inventarlo in forma artistica. Beati coloro che
hanno acquisito la certezza della felicità! Io non ne ho alcuna, a parte la certezza che
la vita non è né un picnic di primavera né una serata di gala né una distesa di bellezza
e di grazia. È il dubbio a farmi da guida, in ogni circostanza. E ne sono felice! (Tahar
Ben Jelloun)

Ogni epoca ha conosciuto i suoi «spacciatori di certezze». Ma soprattutto nei


momenti di «crisi» — quando le paure e le insicurezze prendono il sopravvento — il
loro ruolo si rafforza ancora di più. Rivendicando l’«infallibilità» della propria
«chiesa» (religiosa o laica, poco importa!) si muovono negli ambiti più diversi per
offrire risposte certe alle incertezze del presente, per propinare un «modello
unico» in grado di porsi come antidoto alla pericolosa deriva della pluralità, della

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molteplicità, della mutazione. Lo «spacciatore di certezze» fonda la sua forza sulla
presunzione del possesso della «verità». E chi crede di possedere la verità è nemico
del dubbio, del dialogo, della discussione. Non prova nessun interesse per l’ascolto
dell’«altro». Anzi considera chi la pensa diversamente come una «pecorella smarrita»
da ricondurre all’ovile. La visione dogmatica solleva i fragili destinatari dalla
difficoltà della scelta: nel caos del molteplice si evita il naufragio aggrappandosi al
salvagente della verità. Anche sul piano della politica — il fenomeno è stato
ampiamente studiato – i regimi totalitari, per esempio, sollevano i cittadini dal
peso della decisione, arrogandosi il diritto di indicare l’unica opzione possibile.
Chi osa avanzare critiche alla «verità assoluta», chi osa esprimere dubbi e riserve
sull’infallibilità degli «spacciatori di certezze» viene considerato un pericoloso
«eretico» o viene bollato con il marchio di «relativista». I dogmatici (coloro che,
vivendo nelle certezze, pensano di non sbagliare mai) hanno offerto un identikit (a
loro uso e consumo) del dissidente relativista. Essere relativisti per costoro significa
mettere tutto sullo stesso piano, rinunciare alla ragione, disprezzare la scienza,
coltivare l’irrazionalismo, discreditare l’universale, negare l’esistenza di ogni valore.
Ma quale relativista di buon senso potrebbe riconoscersi in questo specioso e
strumentale «ritratto»? Nel corso dei secoli numerosi autori, da punti di vista
diversi, hanno tessuto l’elogio del dubbio. Per Montaigne l’atto stesso del filosofare
si fonda sulla pratica del dubitare («]…] filosofare è dubitare», scrive
negli Essais II, 3, p. 619), perché «soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti» (I, 26, p.
271). Del resto, «le credenze, i giudizi e le opinioni degli uomini» sono soggetti agli
stessi limiti a cui, in natura, sono sottoposte tutte le cose: se quest’ultime «hanno le
loro rivoluzioni, la loro stagione, la loro nascita, la loro morte […] quale autorità
assoluta e permanente andiamo loro attribuendo?». (II, 12, p. 1059). Montaigne,
insomma, ci mette in guardia: non bisogna correre il rischio di scambiare i nostri
punti di vista per verità eterne e universali. Pensiamo all’uso distorto della parola
«naturale»: «Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura – osserva
Montaigne (I, 13, p. 1059) – nascono dalla consuetudine». Detto in altri termini: noi
tendiamo a considerare «naturale» ciò che fa parte dei nostri costumi. Bollare,
per esempio, l’amore omosessuale come un atto «contronatura» – è una maniera
arrogante di attribuire alla natura la nostra visione del mondo. Spacciamo,
insomma, la nostra «verità» per qualcosa di oggettivo, derivante dalla natura.
Pensiamo al nostro presente, anche per mostrare che i classici non si studiano per
superare un esame o per conseguire una laurea. Per i fanatici della «famiglia
naturale», infatti, l’unica unione possibile sarebbe solo quella destinata alla
procreazione. Così l’amore ridotto a pura ferinità pretenderebbe di cancellare con un
colpo di spugna altre forme secolari di relazioni erotiche e sentimentali: l’amore di
una donna per una donna o di un uomo per un uomo.
Nessuna filosofia potrà mai rivendicare il possesso di una verità assoluta valida
per tutti gli esseri umani. Perché credere di possedere l’unica e sola verità significa
sentirsi in dovere di imporla, anche con la forza, per il bene dell’umanità. Il
dogmatismo, infatti, produce fanatismo e intolleranza in ogni campo del sapere:

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sui piani dell’etica e della religione, della filosofia e della scienza considerare la
propria verità come l’unica possibile significa negare ogni ricerca della verità.
Basta rileggere alcune pagine di Giordano Bruno per capirlo. Questo geniale eretico
non «perì accidentalmente in un incendio», ma fu bruciato a Roma, in campo de’
Fiori, il 17 febbraio del 1600. Il filosofo dell’universo infinito descrive in maniera
originale l’importanza della quête filosofica. Negli Eroici furori, infatti, si
appropria degli schemi classici della lirica d’amore per adattarli alla ricerca
della sapienza. Caratterizzata dal desiderio inappagato di un amante che tenta di
abbracciare l’irraggiungibile amata, la relazione amorosa viene piegata a
rappresentare l’eroico percorso del furioso verso la conoscenza. Animata da
un’inesauribile passione, questa milizia filosofica diventa così espressione di
un’impossibilità, di una privazione, di una caccia segnata dall’inafferrabilità della
preda. Il filosofo, innamorato della sapienza, sa bene che l’unica sua vocazione sarà
quella di inseguire la verità. E nel De minimo, Bruno sottolinea la vitale
importanza del dubbio nell’avventura della conoscenza: Chi desidera filosofare,
dubitando all’inizio di tutte le cose, non assuma alcuna posizione in un dibattito
prima di aver ascoltato le parti in contrasto e dopo aver ben considerato e
confrontato il pro e il contro, giudichi e prenda posizione non per sentito dire,
secondo le opinioni dei più, l’età, i meriti e il prestigio, ma sulla base della
persuasività di una dottrina organica e aderente alla realtà.
Bisogna dubitare di ogni cosa e non scegliere tenendo conto delle opinioni dei più,
dell’età, del prestigio e (io aggiungerei) anche del colore della pelle, del potere
economico o di altre forme di false auctoritates. Bruno condanna due posizioni
opposte ma complementari che finiscono per negare la ricerca della verità: tra il
«tutto sappiamo» degli aristotelici (che non cercano la verità perché credono di
possederla) e il «nulla sappiamo» degli scettici (che non cercano la verità perché
credono che non esista), si colloca la posizione mediana dell’autentico filosofo che
identifica la sua stessa vita con il perenne inseguimento della verità. Per Bruno
ciò che conta non è il possesso della sapienza, ma piuttosto la postura da tenere
lungo il percorso di avvicinamento alla sapienza. L’essenza della philo-sophia sta
nel mantenere sempre vivo l’amore per la sapienza. Ecco perché la cosa più
importante non è arrivare primi, non è vincere il palio. È molto più importante,
invece, correre con dignità: è l’esperienza in sé della corsa che ci rende migliori, che
ci fa più sapienti. «Non è sol degno d’onore quell’uno che ha meritato il palio –
scrive Bruno nella Cena de le Ceneri – ma ancor quello e quel altro, ch’ha sì ben
corso […] ben che non l’abbia vinto».
Chi è sicuro di possedere la verità, insomma, non ha bisogno di cercarla, non
sente più la necessità di dialogare, di ascoltare l’altro, di confrontarsi in maniera
autentica con la varietà del molteplice. Chi ama la verità, invece, sente il bisogno di
cercarla continuamente. Ecco perché il dubbio non è in contrasto con la verità ma,
al contrario, ne stimola la ricerca. Quando si crede veramente nella verità, si sa
che l’unico modo per mantenerla viva è proprio quello di metterla
continuamente in dubbio.

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Solo la consapevolezza di essere destinati a vivere nell’incertezza, solo la presa
d’atto della nostra fragilità e fallibilità, solo la coscienza di essere esposti al rischio
dell’errore possono permetterci un autentico incontro con gli altri, con quelli che
pensano in maniera diversa da noi. Le paure suscitate dal dubbio sono umane e
benefiche, mentre l’arroganza che deriva dal presunto possesso della certezza
genera terribili paure per il futuro della civile convivenza e per l’avventura stessa
della conoscenza. Per questa ragione, la pluralità delle opinioni, delle lingue, delle
religioni, delle culture, dei popoli, deve essere considerata come un’immensa
ricchezza in grado di rendere l’umanità più umana. Accettare la fallibilità della
conoscenza, riconoscere l’importanza del dubbio, ammettere la forza vitale
dell’errore non significa abbracciare l’irrazionalismo e l’arbitrio. Ma significa
esercitare, in nome del pluralismo, il diritto alla critica e rivendicare la necessità di
dialogare soprattutto con chi si batte per valori diversi dai nostri.
Nessuno meglio di Lessing ha spiegato che agli esseri umani non è dato
possedere la verità, ma solo cercarla: Il valore dell’uomo non sta nella verità che
qualcuno possiede o presume di possedere, ma nella sincera fatica compiuta per
raggiungerla. Perché le forze che sole aumentano la perfettibilità umana non sono
accresciute dal possesso, ma dalla ricerca della verità. Il possesso rende quieti,
indolenti, superbi. Se Dio tenesse chiusa nella mano destra tutta la verità e nella
sinistra il solo desiderio sempre vivo della verità e mi dicesse: scegli! Sia pure a
rischio di sbagliare per sempre e in eterno mi chinerei con umiltà sulla sua mano
sinistra e direi: Padre, dammela! La verità assoluta è per te soltanto.
Una profonda lezione di umiltà, un efficace antidoto contro l’intolleranza, contro la
xenofobia, contro le più vergognose declinazioni dell’egoismo. Parole che non
aiutano solo a orientarsi nel mondo della doxa, delle opinioni, della convivenza
civile. Ma che aiutano a orientarsi anche nel mondo della ricerca scientifica. Non a
caso Albert Einstein – uno dei più grandi scienziati della storia dell’umanità – nel
discutere alcuni ostacoli apparsi nel cammino verso la scoperta dei fondamenti della
fisica teorica concluderà il suo articolo ricordando la libertà di ogni studioso di
«scegliere la direzione del proprio sforzo». Libertà che trova proprio nelle parole di
Lessing la sua più alta espressione: «Ogni uomo – scrive Einstein – può trarre
conforto dalle meravigliose parole di Lessing, secondo cui la ricerca della verità è più
preziosa del suo possesso». (Nuccio Ordine)

Crediamo in tante cose per sentito dire, in terre e genti lontane, paradisi e inferni, dei
e dee, perché ce ne hanno parlato. Similmente, ci hanno descritto noi stessi, i nostri
genitori, il nome, la posizione, i doveri e così via. Non ci siamo mai preoccupati di
verificare. La strada che conduce alla verità passa attraverso la distruzione del falso.
Per farlo, devi mettere in questione le credenze più inveterate. La peggiore di
queste è l'idea di essere il corpo. Con il corpo arriva il mondo; con il mondo, Dio, che
si suppone abbia creato il mondo, e così s'incomincia: paure, religioni, preghiere,
sacrifici, ogni sorta di sistemi, per proteggere e sostenere l'uomo-bambino,
terrorizzato da mostri di sua fattura. Renditi conto che ciò che sei non può nascere

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né morire, e che tutte le sofferenze cessano quando scompare la paura. (Nisargadatta
Maharaj)

Quanto più penso, tanto più dubito!


"Non seguitemi, potrei sbagliare..." dice Ario.
"Vi insegnerò a dubitare" diceva Pomponazzi "ma attenti a non fare la fine delle
caldarroste …"
Se insegni, insegna anche a dubitare di ciò che insegni. (Ortega y Gasset)
Nulla è per me perfettamente comprensibile. Suppongo quindi che né io (se un io
esiste) né altri sappiamo.
Il dubbio è il mio passato. Il dubbio è il mio presente. Il dubbio è il mio futuro.
Eppure non sono depresso...tutt'altro!
Sia il dubbio che la fede vanno praticati con moderazione per evitare guai peggiori.

-IL NULLA E IL VUOTO

Perché esiste qualcosa e non il nulla? L’ENTE ha vinto sul niENTE? E questo è
un bene o un male? Questo è anche un grande Koan zen!

Del nulla non si può dire che esiste né che non esiste, e neppure ripiegare su un
compromesso dicendo, ad esempio, che il nulla è ciò che insieme esiste e non esiste.
Nessuna di queste asserzioni sembra più comprensibile delle altre. Il nulla risuona
dunque come un indicibile o come la massima contraddizione del pensiero.
(Roselli)

Il nulla leopardiano, lungi dall’essere qualcosa che non è, vuoto abisso, come
vorrebbe il nichilismo, rappresenta invece la radice ontologica del reale. Quella
che fa sì che le cose siano quel che esattamente sono. Il nulla come condizione di
possibilità di ciò che è.

Rovelli propone la visione del “naturalismo senza sostanza”, secondo la quale


esistono solo prospettive diverse interne a un mondo di relazioni, privo di un
fondamento sostanziale di qualsiasi genere. Alla base della realtà manifesta,
quindi non c’è nulla di oggettivo: c’è il nulla. Rovelli afferma di aver trovato
tante “suggestioni” che vanno in questa direzione nelle letture dei filosofi, da
Eraclito e Platone ai contemporanei. “Quello che ci interessa davvero dei testi
antichi non è cosa volesse inizialmente dire l’autore: è quello che il testo può
suggerire oggi a noi”. Nel complesso, però, Rovelli non riconosce in nessun
filosofo una formulazione esattamente coincidente con quello che intende. La cosa

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più simile la trova in un antico filosofo indiano, Nagarjuna, per il quale tutte le
cose (inclusi gli oggetti fisici e l’io) sono vuote, “nel senso che non hanno realtà
autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa
d’altro […] la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è”.

Il nulla è uguale alla pienezza (ndr: ricorda la forma è vuoto e il vuoto è forma!).
Nell’infinito il pieno è come il vuoto. Il nulla è vuoto e pieno. Potreste dire altrettanto
bene qualsiasi altra cosa del nulla, per esempio che è bianco o nero o che non è o che
è. Una cosa infinita ed eterna non ha alcuna qualità, poiché ha tutte le qualità. Noi
chiamiamo il nulla o la pienezza il PLEROMA (NDR- LA TOTALITA’, IL TUTTO). (JUNG)

L’autocoscienza non può e non deve finire nel nulla, almeno per noi occidentali.
Invece per il più raffinato pensiero orientale l’autocoscienza può essere
superata: anche l’Assoluto potrebbe non essere autocosciente.

Siamo immersi nello stesso niente che rifuggiamo con ogni mezzo!

Il vuoto è diverso dal nulla! Il vuoto è un termine che interessa l’antico pensiero
orientale (la forma è vuoto e il vuoto è forma) e la moderna fisica quantistica (dal
vuoto quantistico originano le particelle subatomiche che poi nel vuoto si
annichiliscono; l’atomo è praticamente un vuoto pieno però di forze - relazioni). Il
nulla invece interessa la teologia (Dio creò tutto dal nulla) e la filosofia (“Il nulla
è il contrario di Dio” dicono Cartesio e Kant mentre Scoto Eriugena e meister
Eckart affermano che Dio stesso è il nulla). Plotino e Agostino asseriscono invece
che la materia è il nulla.
Il Nulla è l’ossessione e l’incubo del pensiero filosofico occidentale, da Aristotele
a Plotino, da Agostino a Cusano e a Kant, ad Hegel, ad Heidegger, a Sartre, a
Kierkegaard che scrive: “La disperazione è il terrore del vuoto, del non essere altro
che niente.” Intendendo con ciò significare che l'angoscia è la paura del nulla.
Leonardo da Vinci scrive : "Infralle cose grandi che fra noi si trovano, l'essere del
nulla è grandissima" e Leopardi: "In somma, il principio delle cose, e di Dio
stesso, è il nulla".

Pensare il nulla non è l’equivalente di pensare a nulla! Pensare il nulla è sempre


pensare qualcosa. (Tagliapietra)

L’angoscia è la paura del nulla sia per Kierkegaard che per Heidegger. Il
pensiero occidentale ha sempre temuto il nulla forse perché crede che
l’autocoscienza sia da preservare in eterno.

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La filosofia occidentale ha seguito una tradizione speculativa incentrata sulla nozione
di essere necessario, sul principio di non contraddizione e del terzo escluso, sul
dualismo platonico – cristiano. Si trova quindi in oggettiva difficoltà a confrontarsi
con il problema del nulla che ineludibilmente si presenta al termine del suo itinerario
metafisico. L’antico pensiero orientale invece si ritrova a suo agio nel sunyata (la
vacuità) considerati anche i concetti di anicca, anatta, paticca sammupada. Da
rimarcare che, alla fine, la vacuità annichilisce anche se stessa (sunyata – sunyata)
e non deve quindi essere ipostatizzata.

Il movimento di negazione, tipico della teologia negativa, che, in alcuni casi, conduce
Eckhart a considerare Dio come l'Uno, altrove lo conduce a considerarlo come
nulla. Dio è il nulla in quanto è principio senza principio, è il non-fondato.

L'Uno non indica un predicabile. In questo senso, esso è il nulla, ossia totale
assenza di distinzione, al di là dell'essere identico a sé stesso, perché in questo caso
esso sarebbe ancora qualcosa.

Nessuna cosa è inserita nel tempo e da esso è modificata ma essa stessa è il tempo.
L'energia non è mai immobile, il vuoto non coincide mai con il nulla.

Il nulla, è vero, è uno. Che da un lato costituisce il principio, come ci dice


Leopardi, di tutte le cose, mentre dall’ altro ne esprime la fine. (Roselli)

Il nulla leopardiano non dissolve l'essere ma è in stretta relazione con l'essere.


Ed è, quindi, un nulla non nichilista.

Nella cultura occidentale, il nulla è, emotivamente, tutto ciò che implica


l'assenza, la privazione, la mancanza, come il male, il dolore, la sofferenza. Ad
esempio, Kant, nella Fine di tutte le cose, scrive che il nulla "conduce sull'orlo di un
abisso da cui non è possibile alcun ritorno per colui che vi precipitasse".

IL NULLA NULLEGGIA (das Nicht nichtet). Questa frase di Heidegger è un


ragionamento logico privo di significato. Infatti assume il "nulla" come soggetto per
poi affiancarlo da un predicato (inventato) che lo annulla, giustamente! Carnap ha
ragione quando asserisce che l'unica forma logica in cui il termine "nulla" può essere
correttamente spiegato è: non c'è nulla che sia x. Per Carnap il "nulla" deve essere
espulso dal discorso filosofico, conformemente a ciò che prescriveva l'aforisma
conclusivo del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein: "su ciò, di cui non si
può parlare, si deve tacere".
Leopardi pensa che il nulla, ontologicamente parlando, dà l’essere alle cose.
Cose che sono nulla. Nulla definito:“infinità vera, non esistente. Pare che

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solamente quello che non esiste, la negazione dell’ essere, il nulla, possa essere
senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla”. Il
nulla leopardiano, lungi dall’essere qualcosa che non è, vuoto abisso, come
vorrebbe il nichilismo, rappresenta invece la radice ontologica del reale. Quella
che fa sì che le cose siano quel che esattamente sono. Il nulla come condizione di
possibilità di ciò che è. Per Leopardi il nulla è il principio ontologico del reale: tutto
è nulla nel senso che la realtà esiste grazie al nulla. Il nulla “principio delle cose e di
Dio stesso” è origine e fine delle cose. Dunque essere dal nulla ma anche essere del
nulla. Pensiero molto simile a quello dell'antico Oriente ove, al posto del nulla, si
parla del vuoto.

Il nulla non può essere afferrato in modo assoluto, come fosse un oggetto guardato
con distacco e "dal di fuori", bensì deve essere avvertito, per così dire, attraverso la
nostra condizione di esseri che vivono situati nel mondo, in mezzo all'ente svelato
nella sua totalità. (Heidegger interpretato da Tagliapietra)
Partiamo da una domanda: vuoto e nulla sono la stessa cosa? Sono sinonimi? Oppure
esiste solo il vuoto e non il nulla? Oppure è solo una questione semantica:
consideriamo reale una astratta parola quale può essere NULLA? Il nulla come
alterità di ciò che è? O forse il nulla è un concetto filosofico mentre il vuoto è ciò
che sperimentiamo nel mondo fenomenico. Nella fisica moderna si parla di vuoto
(che comunque non è mai del tutto vuoto secondo la teoria dei campi) e non di nulla.
Il vuoto è l'ambiente del Big Bang mentre il nulla è quello della creazione divina.

-L’UNIVERSO E IL MULTIVERSO

Non solo l'Universo è più strano di quanto pensiamo, è più strano di quanto
possiamo pensare. (Heisenberg)

Perché mai c’è un qualcosa che chiamiamo "universo"? E’ questo un ente infinito
oppure finito (e forse anche illimitato)? Esiste da sempre o ha avuto un inizio? E’
stato creato da un Essere soprannaturale o si è originato spontaneamente dal nulla in
un dato istante del passato? Quale sarà il suo destino ultimo? E poiché i dati
osservativi suggeriscono che l'universo si sta espandendo in modo accelerato, c'è da
chiedersi se tale processo espansivo si protrarrà indefinitamente, o se perverrà ad un
limite oltre il quale subirà un'inversione per avviarsi verso il cosiddetto “big
crunch”. A questo evento drammatico potrebbe poi seguire un nuovo big bang e poi
ancora un altro big crunch secondo un processo ciclico senza fine? O ancora,
l'universo scomparirà nel nulla in un lontano futuro? C'è poi anche da chiedersi di
che cosa esso sia fatto, ovvero quale possa essere il suo fondamento ontologico. La
mente umana si è sempre appassionata a domande come queste e, col fiorire delle
prime civiltà nell’area del Mediterraneo, filosofi e matematici hanno cominciato a

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studiare l’universo in modo sistematico, ricercando spiegazioni plausibili sulla natura
dei suoi costituenti fondamentali, sulle leggi che vi operano e sul ruolo che riveste la
presenza di vita e di osservatori coscienti. Nel corso delle varie epoche questa ricerca
è stata approfondita e ha portato ad elaborare diverse teorie, dapprima basate sul
linguaggio filosofico o religioso e, in seguito, su quello rigoroso della scienza
moderna, fondata essenzialmente sull’osservazione dei fenomeni, il calcolo e le prove
sperimentali. Pertanto, le questioni che non potevano essere oggetto di indagine
scientifica rimanevano di esclusiva competenza della metafisica e della teologia, e tra
esse, la più importante riguardava la ragione dell’esistenza dell’universo. Lungo
tutto il percorso storico della filosofia, a fronte di quest'ultima questione si sono
imposte due principali scuole di pensiero fra loro contrastanti. Una di esse, radicata
nelle culture giudaicocristiana e islamica, sosteneva che l’universo è stato creato dal
nulla ad opera di Dio, mentre l’altra consisteva nella tesi dell’universo eterno,
senza inizio e senza fine. A quest’ultima tesi aveva pienamente aderito il padre della
Logica, Aristotele, semplicemente perché da lui giudicata di gran lunga più
ragionevole della prima. Nonostante la loro spiccata diversità, queste due concezioni
avevano in comune una stessa idea: l’immutabilità del cosmo nella sua
complessiva struttura. Peraltro, questa credenza non è mai stata messa in
discussione fino in tempi recenti, più precisamente fino a quando il mondo della
scienza è stato dominato dalla fisica di Newton. Pure Einstein, se soltanto avesse
messo in discussione il pregiudizio dell’universo statico, dalle sue equazioni
originali di campo avrebbe potuto facilmente derivare la corretta soluzione per
descrivere un modello dinamico dell’universo, prevedendone l’espansione, e a
tempo debito sarebbe stato anche riconosciuto come il padre fondatore della
cosmologia moderna. (Roselli)

E’ possibile che il nostro universo si sia originato dal nulla (n.d.r.: o dal vuoto?) circa
dieci miliardi di anni fa senza violare le leggi fisiche. La sola condizione richiesta è
che le leggi fisiche implichino che l’universo nascente possegga un valore nullo per
tutti i suoi parametri di conservazione (energia, carica elettrica, quantità di moto, e
via dicendo). In questo senso, una qualsiasi forma di energia può aumentare, purché
contestualmente avvenga un corrispondente incremento di una forma di energia di
segno opposto (n.d.r.: la forza gravitazionale ha tradizionalmente segno negativo),
cosicché un universo può originarsi come fluttuazione quantistica dello
spaziotempo vuoto (n.d.r.: che non è il nulla!) senza da questo alcun prestito di
energia, e può durare per sempre. La probabilità che si origini un universo di grandi
dimensioni come il nostro è estremamente piccola, e tuttavia non nulla. Quindi non
c’è da meravigliarsi più di tanto al cospetto di questo nostro universo, poiché si tratta
di una di quelle cose che, per quanto rare – spiega Tryon – di tanto in tanto accadono.
Un modello cosmologico ben più radicale di quello di Tryon è stato proposto da Alex
Vilenkin nel 1982 con il titolo “Creazione di Universi dal Nulla”. Come qualche
altro fisico con cui si è trovato in contatto, Vilenkin ipotizza che il nulla (ndr: o il
vuoto?) sia instabile, e lo definisce come assenza assoluta di contenuti di sorta:

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niente materia, niente energia, niente spazio vuoto e niente tempo. Questo
peculiare stato di nientità associabile ad una geometria zero-dimensioale può saltare,
mediante tunneling quantistico (l’effetto tunnel è un evento probabilistico previsto in
meccanica quantistica e molto comune, consistente nella possibilità di una
particella, ad esempio un elettrone, di superare una barriera di potenziale anche
se non possiede l’energia che sarebbe necessaria da un punto di vista classico) in
uno stato di falso vuoto. Cosicché, il più è fatto. E’ appena nato un embrione di
universo. Questo modello non si limita a prevedere un unico universo, ma universi in
numero forse infinito. In tal caso conviene parlare più propriamente di multiverso,
ovvero di un insieme di universi coesistenti (ciascuno limitato da un proprio
orizzonte cosmologico) che, per usare un’espressione cara a Vilenkin, nucleano
spontaneamente da nessun luogo. Inizialmente, questo “nessun luogo” è da lui
associato al nulla, ma in un secondo momento egli ha tenuto a precisare che con
tale termine vuole intendere lo stato di un campo dominato dalla gravità
quantistica, uno stato simile a quello concepito da Stephen Hawking, in cui i
concetti classici di spazio, di tempo, di energia, di causalità, etc. non hanno alcun
significato. Ancor più interessante, a mio parere, è per certi aspetti la teoria
cosmologica del fisico statunitense Lee Smolin. Riprendendo un’idea suggerita da
John Wheeler, in base alla quale ad un collasso gravitazionale dell’universo
corrisponderebbe un rimbalzo e la rigenerazione di un nuovo universo secondo un
processo ciclico senza fine, Smolin, nel suo saggio La vita del cosmo, ipotizza una
proliferazione incessante di baby universi dal collasso di stelle in buchi neri. In
ciascun rimbalzo il nascente universo si espanderà per formare un universo pressoché
simile all’universo madre. I modelli di multiverso di Vilenkin, Linde e Smolin
consentono di fornire una formulazione forte del principio antropico, in quanto il
nostro universo altro non sarebbe che uno fra i tanti esistenti (forse infiniti) in grado
di ospitare osservatori coscienti. (Roselli)

Il nostro Universo, attraverso una successione di transizioni di fase e di processi


autoorganizzativi a noi ancora profondamente sconosciuti, ha avuto modo di
sviluppare un suo apparato sensoriale e intellettivo attraverso il quale si è trovato
nella condizione di un vertiginoso stupore, sorprendendosi consapevolmente come un
qualcosa di troppo e, quindi, interrogandosi sulla ragione di questo suo manifestarsi.
In tal senso, il nostro Universo è pervenuto ad osservarsi in una sorta di specchio
come disorientato testimone di se stesso. E’ testimone, per così dire, di una
destabilizzazione apparentemente ingiustificata, tant’è che si chiede perché mai un
qualcosa stia effettivamente accadendo, e si chiede anche quale possa essere il
contenuto fondamentale di questo qualcosa che, incomprensibilmente, sembrerebbe
sostituirsi all’assoluta indifferenza del nulla. (Roselli)

Alla fine l'universo - cosmo con un'unica direzione – si dissolve in un reticolo di


fenomeni tenuto insieme e ordinato solo dal soggetto conoscente. L'io e la
coscienza perdono così il loro immutabile piedistallo e precipitano dalla dimensione

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dell'eterno in quella del tempo, abbandonati alla caducità e alla morte (diceva il
musicista francese Hector Berlioz che il tempo è un grande maestro, ma
sfortunatamente uccide tutti i suoi alunni). (Bodei interpretato)

Per il giainismo l’universo è eterno e infinito. Per l’induismo l’universo nasce, vive,
muore ma poi rinasce, rivive e rimuore in un ciclo eterno. Per le tre religioni
abramitiche l’universo o, per meglio dire, il mondo è stato creato da Dio e un giorno
finirà con il giudizio universale. Il Buddha non si pone il problema perché dice che è
ininfluente e irrisolvibile.

L’idea induista di lìlà (gioco capriccioso ma benevolo) è affascinante quanto


ambigua: può anche voler dire che l’universo è stato creato solo per finta, che è solo
maya, l’incanto di illusioni. (Raveri)

In un universo vecchio miliardi di anni, con sistemi stellari separati da tempo quanto
da spazio (o, per meglio dire da uno spazio-tempo enorme, quasi infinito: la luce
impiega due milioni di anni per arrivare alla galassia più vicina!), le civiltà possono
venir fuori, evolversi e perire semplicemente in modo troppo veloce da potersi
rivelare l’un l’altra. E’ questa la riposta al paradosso di Fermi che si chiedeva: “ …
ma dove sono tutti quanti?” riferendosi agli alieni. Dunque le civiltà molto
sviluppate potrebbero restare in tale condizione per poco tempo, circa diecimila anni,
(Autodistruzione? Eventi naturali?), troppo poco per poter incrociare le altre civiltà
avanzate. O forse gli alieni non vogliono comunicare con noi. O forse vogliono e ci
stanno provando ma noi non siamo in grado di ricevere i loro messaggi! Ahahahah …

SPAZIO=TEMPO

Lo spazio-tempo è un’unica realtà fisica (e non concettuale). Lo spazio-tempo


condiziona ed è condizionato dalla massa-energia che è l’altra realtà fisica (e non
concettuale) anche essa unica nel senso di unitaria.

Il tempo rallenta se aumenta la velocità o la massa! Si ferma del tutto alla


velocità della luce oppure nei buchi neri che hanno massa grandissima.

Il tempo esiste solo in relazione a un soggetto che ne fa esperienza. Come direbbe


Kant, il tempo è un nostro concetto, un forma a priori per capire il mondo che ci
circonda.

Il tempo – proprio come lo spazio – non può essere pensato come un contenitore
dove si collocano gli oggetti, perché dovrebbe essere considerato esistente come
oggetto indipendente da essi, il che è evidentemente impossibile. Le cose, gli eventi e
noi stessi non siamo nel tempo, ma siamo il tempo, come aveva notato – ben prima
e meglio di Heidegger – il maestro zen Dogen nel suo Shobogenzo: “Essere tempo

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significa che il tempo è essere, cioè il tempo è esistenza, l’esistenza è tempo … voi
siete il tempo. Non possiamo essere separati dal tempo”.

Il legame tra Chora (spazio creatore per Platone) e i suoi contenuti non è un legame
“transitorio”. Chora interagisce con i propri contenuti essendo allo stesso tempo un
qualcosa di distinto da loro in un “modo inspiegabile e complicato” così come
afferma Platone. Si realizza all’interno di un continuo divenire mentre l’asimmetria è
causa del moto e del cambiamento. Chora è del tutto pervasa da forze non equilibrate
ed eterogenee; è allo stesso tempo “scossa e scuotitrice” . Le forme vengono create
attraverso idee e numeri.

Anche il tempo è definito da relazioni. (Rovelli)

Il futuro non è determinato dal presente. Questo scrive Rovelli in merito alla fisica
quantistica.

L'inseparabilità dello spazio e del tempo è un concetto cardine nella Teoria dalla
Relatività; a tale riguardo Hermann Minkowski si era così espresso: “D’ora in poi, lo
spazio di per sé e il tempo di per sé sono destinati a svanire in mere ombre, e solo un
tipo di unione dei due manterrà una realtà indipendente”.

Il paradosso tra la staticità e l’evoluzione presente nel mondo fisico è già emerso in
ambito scientifico a seguito della quantizzazione della teoria della Relatività Generale
secondo Wheeler e DeWitt da cui è risultato che la funzione d’onda dell’universo
non presenta una evoluzione temporale, nel senso che nella sua formulazione
non compare la variabile tempo: l’evoluzione dinamica (il tempo) prende origine
dal vincolo che restringe lo spazio di infinite possibilità (uno spazio di Hilbert) a
quello fisico. (Salvador)

Il pensiero occidentale, praticamente fino a Einstein, ha considerato il tempo


come qualcosa di assoluto e immutabile, un punto fermo su cui edificare la
propria teoria del tutto. E non solo sotto il profilo scientifico, ma anche su quello
psicologico e religioso o spirituale. E’ stata la teoria della relatività a demolire
letteralmente il concetto di spazio e di tempo come entità assolute e separate l’una
dall’altra. (Bettera)

Uno dei tanti modelli alternativi di fisica del futuro è rappresentato dal lavoro di
Julian Barbour, il quale è arrivato ad ipotizzare concretamente un universo senza
tempo, incontrando non poche obiezioni e perplessità, sia scientifiche che
filosofiche: «Da trent’anni si ha sentore che il tempo potrebbe non esistere, e che
la gravità quantistica – cioè l’unificazione tra relatività generale e meccanica
quantistica – porterebbe ad un universo statico; però di tutto ciò si è avuta poca
notizia, ed è per questo che ho scritto questo libro, per portare simili fatti a

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conoscenza di tutti. Solo di recente se ne è cominciato a parlare in qualche saggio
divulgativo, e persino la maggior parte dei ricercatori ne sa poco o nulla».

Lo spazio, così come il tempo, è curvo; lo spazio, o meglio, lo spaziotempo


ondeggia a seconda delle linee di forza che viaggiano alla velocità della luce e si
curva nelle regioni dove sono presenti masse più elevate.

E allora, coincidendo con quanto affermato dalla verità mistiche millenarie, anche la
fisica quantistica ha finito per concordare con i testi dei Veda e dei Vedanta nel dire
che non esiste un “altrove” (relatività), bensì un “ovunque” (assoluto), non un
luogo (spazio), ma la non-località. Non un tempo, ma un “hic et nunc” (qui ed
ora). Sempre. Ecco perché oggi l’oriente riconosce che: “Scienza e Spiritualità sono
come due gambe che consentono all’uomo di avanzare verso la meta”. (Isabella di
Soragna)

Lo spazio non è separazione ma è invece connessione, relazione, opportunità.

Come mai, se il tempo non esiste, noi siamo fatti su schema temporale? (Pavese)
Facile caro amico triste: noi siamo il tempo!

Il tempo non è una realtà in cui viviamo; il tempo è una realtà nella quale
pensiamo.

Lo spazio e lo spazio-tempo si riveleranno solo un modo per parlare delle proprietà


collettive di un gran numero di eventi atomici. Le loro costanti entrate e uscite
dall'essere, che causano gli eventi successivi via via che si allontanano nel passato,
determinano la costruzione continua del mondo che noi chiamiamo flusso del tempo.

Spazio e tempo non esistono in sé, ma soltanto in noi. Sintetizzando spazio e


tempo, secondo Kant:

 sono forme "pure" a priori della sensibilità - considerata ricettiva perché non
genera i propri contenuti ma li accoglie per intuizione - che sussistono prima (a
priori) di ogni esperienza (forme prive di contenuto), dei quadri mentali entro cui
connettiamo i dati fenomenici,
 "funzioni", modi di funzionamento della nostra mente;
 sono trascendentali, cioè acquistano senso e significato solo se riferiti
all'esperienza ma non appartengono all'esperienza,
 e quindi necessari, cioè anche se volessi non potrei farne a meno nella conoscenza
empirica,
 ed universali, cioè appartengono a tutti gli uomini dotati di ragione.

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Lo spazio è qualcosa di più e di diverso di un semplice contenitore di oggetti: in
qualche modo risulta essere un loro fondamentale fattore costitutivo. Come qualsiasi
altra realtà, esso non è mai “in sé e per sé”. In generale, quindi, lo spazio risulta
essere – come chiarì in modo superbo Leibnitz – l’insieme delle relazioni spaziali
tra gli oggetti del mondo. In altri termini, ciò significa che lo spazio non può
esistere indipendentemente dagli oggetti del mondo e, d’altra parte, nessun oggetto
del mondo può esistere senza spazio. Questo vale non solo in relazione agli oggetti,
ma anche in relazione al soggetto che ne fa esperienza: lo spazio esiste solo a un
soggetto che percepisce la realtà. Kant aveva detto al proposito parole decisive: lo
spazio (come il tempo) non deriva dall’esperienza, ma qualsiasi soggetto, per
avere o fare un’esperienza, deve riferirsi ad esso. (Pasqualotto)

Rovelli però non sarebbe d’accordo con l’ultima frase di cui sopra: egli infatti scrive:
“il tempo non ha la forma che Kant considerava una condizione a priori
necessaria per conoscere”. E aggiunge: “dobbiamo dimenticare il tempo come
struttura fondamentale per organizzare la nostra comprensione del mondo”.

Non vi è spazio disgiunto dal tempo e, viceversa, non c’è tempo disgiunto dallo
spazio; più in particolare si può dire che non vi è luogo che non sia formato
dall’intreccio di entrambi. (Pasqualotto)

-LA REALTA’ E LA VERITA’

La verità è relazione di relazioni. Vediamo di spiegare. In prima battuta si riteneva


che la verità consistesse nel dire le cose come stanno: la mente si adegua alle
cose. Poi Kant rivolta la frittata con la sua filosofia trascendentale: sono le cose che
si adeguano alla mente. Infatti non conosceremo mai la cosa in sé, il noumeno, ma
solo le cose come sono percepite dalla nostra mente (filosofia trascendentale). Alla
fine abbiamo la rivoluzione della rivoluzione a cura di Kitaro Nishida. Egli afferma
che sia soggetto che oggetto sono relazione e, dunque, la verità è il rapporto, la
relazione fra due relazioni.

Il certo, nessuno lo ha mai colto né ci sarà nessuno che possa coglierlo, sia per
quanto riguarda gli dei che per ogni cosa. Infatti, se pure ci si trovasse a dire qualcosa
di vero, non lo si saprebbe per esperienza diretta; noi possiamo avere solo opinioni,
non è che da principio gli dei abbiano rivelato tutto ai mortali, ma col tempo,
cercando, gli uomini trovano il meglio (ndr, o forse, sarebbe meglio dire che trovano
qualcosa). (Senofane (570 a.C.), quello delle divinità antropomorfe e maestro di
Parmenide)

La verità non va confusa con l’opinione della maggioranza. (Cocteau)

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Nella fede religiosa, all’inquietudine dell’intelletto si sostituisce la quiete del
credente che, convinto di essere già accampato nella verità, si preclude la possibilità
di giungervi. (Galimberti)

La dottrina delle visioni del mondo di Dilthey si propone di porre definitivamente


fine all’illusoria pretesa della metafisica di costruire una onnicomprensiva concezione
filosofica e scientificaa della realtà.

Il Novecento ha ampiamente e variamente dimostrato che la Verità è davvero


impossibile da definire. Perfino la Realtà, con la R maiuscola, ciò che abbiamo
davanti e che chiudendo e riaprendo gli occhi ritroviamo di fronte a noi, con la
meccanica quantistica perde la propria consistenza. La metafisica nel Novecento
si trova quindi eroso il terreno sotto ai piedi. (Odifreddi)

Che cos’è la verità? Perché Gesù, il figlio di Dio, colui che si è presentato come la via
e la verità, non risponde a questa domanda di Pilato?

La Verità? Un incaponirsi da adolescenti o un sintomo di senilità. (Cioran)

E’ anche così ma non è solo così!

Dice Russell che cercare la verità è come cercare un gatto nero in una stanza
buia dove il gatto non c'è. La verità non esiste proprio come il gatto! Però noi
uomini la amiamo avendola desiderata tanto. Tutto ciò è bellissimo e, una volta
capito, ci rende liberi.
La verità è che la verità cambia. (Nietzsche)
Le persone non vogliono ascoltare la verità, perché non vogliono vedere le proprie
illusioni distrutte. (Nietzsche)
Nello stesso, tempo, pur consapevole della sua parziale comprensione, egli (il
filosofo) non deve rinunciare alla ricerca della verità, senza disperare della sua
esistenza, alla maniera della grande tradizione filosofica antica e medioevale, mossa
dall'idea di una vis veri che spinge naturalmente l'uomo verso di essa, così come
guida l'animale verso la sua tana. (Bodei)
Aristotele osserva nella Metafisica che "la ricerca della verità sotto un certo aspetto è
difficile, mentre sotto un altro è facile. Una prova di ciò sta nel fatto che è
impossibile ad un uomo cogliere in modo adeguato la verità, e che è altrettanto
impossibile non coglierla del tutto: infatti se ciascuno può dire qualcosa intorno
alla realtà, e se, singolarmente preso, questo contributo aggiunge poco o nulla alla
conoscenza della verità, tuttavia, dall'unione di tutti i singoli contributi deriva un
risultato considerevole" (ndr; verità prospettica!).

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La verità risplende così tanto da essere visibile a tutti? L'enciclica di Giovanni Paolo
II Veritatis splendor implica, appunto, che la verità sia di per sé evidente (e, se non lo
è, la fede corre in suo soccorso). (Bodei)
Il credente e il miscredente soffrono di una stessa forma di orgoglio: cambia solo il
contenuto. Entrambi si credono detentori della verità; altrimenti non potrebbero
vivere. Ma verità è una parola che non si dovrebbe usare. Ricorrervi è
presunzione, anzi spudoratezza. (Cioran)
La verità, bisogna pur dirlo, è intollerabile, l’uomo non è fatto per sostenerla; così
la evita come la peste. – Che cos’è la verità? Ciò che non aiuta a vivere. È
esattamente il contrario di un aiuto. (Cioran)

Il richiamo alla verità mi fa sorridere. È un fantasma. La sua ricerca esiste nella


teologia, forse nella filosofia, magari in qualche frase che due innamorati si
scambiano. La scienza non cerca la verità. Ha sostituito il concetto di verità con
quello di plausibilità. C'è già in Aristotele che si chiede quando una proposizione è
plausibile. Se gli argomenti a favore di una certa tesi sono più convincenti non
significa che la legge scientifica sia vera. Altrimenti non capiremmo l'evoluzione
della scienza. Se la scienza si occupasse di verità si dovrebbe concludere che la sua
storia è la somma di una serie di falsità. (Cellucci)
Per arrivare a dare agli uomini una regola comune, una disciplina,
un’organizzazione, è necessaria una fede, un’illusione, qualcosa che, benché sia
una menzogna uscita da noi stessi, sembri una verità giunta da fuori. (Baroja)
La verità ultima (se mai esistesse) va sperimentata nel mettere in gioco ogni certezza
dogmatica e nell’interrogarsi senza dar nulla per scontato. (Raveri che interpreta Jien
e Harbsmeier)
Per Nāgārjuna ci sono due verità, quella “convenzionale” e quella “ultima”: da un
punto di vista convenzionale possiamo parlare di un pluralistico mondo di cose ed
eventi con distinte entità e cause, che è reale nella misura in cui lo sperimentiamo;
tuttavia, dalla prospettiva della verità ultima, cose ed eventi non possiedono
un’identità indipendente e intrinseca, il loro ultimo stato ontologico è “vuoto” e
correlato, interdipendente. (Dalai Lama)
E il suo insegnamento, dico di C.M.Martini, era il metodo: “Pro veritate adversa
diligere”, ovvero: “Per amore della verità amare le tesi contrarie”. Un metodo che
apre la mente e il cuore, che converte alla verità più grande di tutti i dogmi e di
tutte le chiese, e che è amore. (Mancuso)

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Sono convinto che esista la verità, ma non la voglio imporre; la voglio rischiare
attraverso la testimonianza. (Scola)
Umberto Eco nel «Nome della Rosa», usa la saggezza di Guglielmo da Baskerville
per invitare il giovane Adso a diffidare di coloro che si dichiarano pronti a morire
per la verità, perché «di solito fanno morire moltissimi con loro, e talvolta al
posto loro». Comunione e Liberazione protesta vivacemente contro questo passo.
In linea di principio, sottolinea la filosofa Churchland, è impossibile dimostrare la
falsità o la verità assolute di una qualsiasi ipotesi.
Il termine tibetano per esprimere la verità relativa è kundzop, che coglie il rapporto
tra le due verità attraverso un’immagine: esso significa “tutto vestito a festa”, o “in
costume”, a intendere che la verità relativa altro non è che la śūnyatā vestita e
mascherata con i colori brillanti del mondo fenomenico. (Varela)
Lo studio, e in generale la ricerca della verità e della bellezza, sono un campo nel
quale ci è lecito restare bambini per tutta la vita. (Einstein)
Mettere la verità prima della persona è l'essenza della bestemmia. Questa frase di
Simone Weil viene così spiegata da Gianfranco Ravasi: “Il fondamentalismo, infatti,
sacrifica a una verità dogmatica, spesso deformata e degenerata, la vita di tante
persone, ponendole sull’altare di un idolo mostruoso.”
Ci sono due tipi di verità: quella semplice il cui contrario non può essere vero e
quella profonda il cui contrario è anch'esso vero. Il paradosso dei paradossi è che
il contrario di ogni verità è ugualmente vero.
Compagni di pellegrinaggio verso la verità, contemporaneamente ciascuno è
conscio di essere custode di una manifestazione particolare della verità verso cui
riversa una cura che lo appassiona, e lo fa anche per il compagno di viaggio che con
identica cura custodisce un altro aspetto. (don Mazzocchi)

Nel Vangelo di Giovanni, quando Gesù annuncia di essere venuto al mondo per
rendere testimonianza alla verità, Pilato chiede «Che cosa è la verità?». Due
concezioni, due prospettive completamente diverse: quella romana e quella ebraica.

La realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. (Rovelli interpreta Nagarjuna)

L’idea di John Wheeler presuppone un ruolo partecipativo dell’osservatore alla


realtà osservata, ma va oltre questo in quanto dice che questa stessa realtà
emerge dalle informazioni contenute nelle nostre osservazioni. Lui porta
all’estremo l’idea che non esista una realtà indipendente dall’osservatore, fino
ad affermare, come detto sopra, che le informazioni contenute nelle nostre

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osservazioni non sono solo ciò che noi apprendiamo del mondo, ma ciò che fa il
mondo.

Che cos’è la realtà? (si chiede Timossi). Siamo in grado di conoscere la natura del
reale così come effettivamente è e non semplicemente come appare? Si tratta di
due domande classiche del pensiero filosofico, che hanno assunto particolare rilievo
con la filosofia moderna.

È noto che per l’empirismo scettico di David Hume la conoscenza è condizionata


dalle impressioni e quindi si riduce a ciò che appare alla nostra mente, per cui
anche la scienza in definitiva non ha valore oggettivo, ma è il prodotto dalla nostra
abitudine a generalizzare dei fenomeni solo apparentemente ricorrenti e concatenati.

Questa sfiducia nella possibilità di stabilire se quello che crediamo di conoscere


corrisponde o meno alla realtà effettiva oppure risulta solamente una nostra
raffigurazione mentale ha condotto Immanuel Kant a rinunciare alla ricerca del reale
o cosa in sé (il “noumeno” ovvero il pensabile, ma non conoscibile) per limitarsi al
“fenomeno”, ossia esclusivamente a quanto si manifesta nelle nostre percezioni
sensoriali.

Con l’idealismo e con il positivismo il problema se la realtà sia davvero quella che ci
appare è stato svuotato a priori, perché nel caso degli idealisti «ciò che è razionale è
reale; e ciò che è reale è razionale» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio) e nel caso dei positivisti il positum, ossia ciò che è
osservato empiricamente dalla scienza, è indiscutibilmente reale (A. Comte, Discorso
sullo spirito positivo). Come però purtroppo spesso è accaduto dal Novecento ai
giorni nostri, laddove i filosofi hanno “gettato la spugna” ritenendo di dover
abbandonare argomenti reputati metafisici, si sono invece fatti avanti gli scienziati.

La questione di che cosa sia la realtà e se davvero la conosciamo è stata infatti


rilanciata prima con la teoria einsteiniana della relatività e poi soprattutto con la
meccanica quantistica. Quest’ultima, sorta come una teoria che doveva spiegare il
funzionamento del microcosmo delle particelle, ha finito inevitabilmente per
coinvolgere tutto l’esistente, non fosse altro perché ogni cosa osservabile è fatta di
materia, quindi possiede una struttura atomica.

Fin dalle sue origini, la teoria prevalente nella meccanica quantistica (la cosiddetta
“interpretazione di Copenaghen”) iniziò a generare problemi al realismo,
quantomeno a livello atomico e subatomico, conducendo a un contrasto rimasto
famoso tra due grandi fisici premi Nobel: Albert Einstein e Niels Bohr. Mentre infatti
il primo da tenace realista non riusciva ad accettare l’indeterminismo implicito
nella descrizione quantistica dei fenomeni (“Dio non gioca a dadi”), il secondo
prendeva atto della situazione ritenendo che fosse sbagliato pensare che il compito
della fisica sia dire come la natura è realmente. Presente nella filosofia della

23
scienza nella forma di una disputa tra realismo e antirealismo scientifico, il tema
ritorna oggi sempre più spesso in libri dall’intento divulgativo, che in fondo
riproducono le stesse posizioni contrapposte di Einstein e Bohr.

Avviene così per esempio che il fisico statunitense Lee Smolin, che cerca
un’alternativa realistica per la teoria dei quanti ( La rivoluzione incompiuta di
Einstein, Einaudi), finisca per entrare in inevitabile conflitto con la teoria
quantistica relazionale del fisico italiano Carlo Rovelli ( Helgoland, Adelphi), con
la quale il reale sembra dissolversi in assenza di una relazione osservativa o di
osservatori, per cui non esistono più una verità e una realtà oggettive, bensì tanti
punti di vista. Ma dal momento che lo stesso Rovelli riconosce che «solo Dio (ndr:
che però Rovelli nega!) può vedere in due luoghi nello stesso momento» e quindi
solo Lui possiede il punto di vista assoluto sulla verità e la realtà delle cose, verrebbe
paradossalmente da concludere che l’unica strada per salvare il realismo sembra
essere quella dei filosofi occasionalisti: il mondo funziona, sta insieme e assume
reale consistenza unicamente grazie all’intervento diretto e continuo di Dio.
Occasionalismo: in generale, ogni dottrina che, nella dipendenza di un fenomeno
da un altro fenomeno, veda soltanto una «causa occasionale» rispetto alla causa
reale costituita dall’azione dell’universale principio divino, determinante
l’accadere del tutto. (Malebranche, 1638, seguace di Cartesio)

In definitiva, sarebbe opportuno che gli scienziati non spacciassero speculazioni


metafisiche per teorie scientifiche, seguendo in ciò l’atteggiamento del premio Nobel
per la fisica Kip Thorne, il quale affrontando il problema di come sia realmente lo
spazio-tempo descritto dalla teoria della relatività ha concluso: «Quale punto di
vista dica la “verità autentica” è irrilevante ai fini degli esperimenti, è una
questione dei filosofi, non dei fisici» ( Buchi neri e salti temporali. L’eredità di
Einstein, Castelvecchi).

Non è accettabile ragionare in modo induttivo dicendo "io vedo questo, quindi la
realtà universale è questa". Bisognerebbe limitarsi a dire “(io) vedo questo, la (mia)
prospettiva sulla realtà è questa”. Chiedendosi anche cosa è questo “io” che vede e
cosa è questa “realtà” che viene vista. E infine: io e la realtà sono due cose diverse?

Nagarjuna afferma che la realtà è priva di senso e significato.

Nietzsche arriverà a dire che il pensiero e il linguaggio sono assolutamente


inadeguati a rappresentare la realtà: essa eccede ogni traducibilità linguistica.

La migliore descrizione della realtà che abbiamo trovato è in termine di eventi


che tessono una rete di interazioni. Gli enti non sono che effimeri nodi di questa
rete. Ogni cosa è solo ciò che si rispecchia in altre. La realtà si è sfrangiata in un
gioco di specchi. Ogni visione è parziale. Non esiste un modo di vedere che non
dipenda da una prospettiva. Non c’è un punto di vista assoluto, universale. I

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punti di vista tuttavia comunicano, i saperi sono in dialogo fra loro e con la
realtà, nel dialogo si modificano, si arricchiscono, convergono, la nostra
comprensione della realtà si approfondisce. Il nostro discorso sulla realtà è esso
stesso parte della realtà! (Rovelli)

La natura paradossale della realtà, come la intendono sia il pensiero buddhista della

vacuità sia la fisica moderna, rappresenta una sfida profonda ai limiti della

conoscenza umana. La questione centrale, se si analizza il problema alla radice, è se

la nozione di realtà, in termini di effettiva costituente della materia, sia sostenibile in

meccanica quantistica. La filosofia della vacuità rappresenta comunque un coerente

modello di comprensione della realtà non essenzialista, e solo il tempo ci dirà se potrà

essere di aiuto o meno alla fisica moderna. (Negri)

La realtà è molto più complessa di quanto il materialismo scientifico lasci supporre, e


la tradizione buddhista rappresenta un approccio, comunque rigoroso ed empirico, a
ciò che sfugge al controllo oggettivo della scienza. (Negri)

Quando si sentono i filosofi parlare di realtà si è tratti in inganno come nel


leggere un cartello nella vetrina di un rigattiere con la scritta "Si stira la
biancheria". Ma invano porterete i vostri panni. Infatti si vende solo il cartello.
(Kierkegaard)

Epstein afferma che buddhismo e modernismo sono affini nello scomporre


analiticamente l’edificio della realtà oggettiva rivelando la pura caducità sottostante.
«Smaterializzano il soggetto, sia esso l’opera d’arte o il sé. Scalzano l’osservatore
dalla posizione rassicurante di testimone per portarlo nel vivo di una relatività
interdipendente […]. L’osservatore e l’osservato sono parte di una realtà
interconnessa […]. (Negri)

La Wille zur Macht nietzscheana, la Śūnyatā buddhista e il Tao taoista condividono la


stessa concezione della realtà come incessante interazione dinamica di tutte le
cose, ridotte a semplici giochi di forze (teoria degli aggregati o skandha). Questa
visione fa pensare a ciò che la fisica moderna definisce “quanti di energia”: la fisica
quantistica concepisce l’intera realtà come un campo dinamico di forze
energetiche in continua caotica interazione e trasformazione. L’uomo è parte
integrante di questo sistema dinamico in moto continuo, e per Nietzsche l’anima «che

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ha la scala più lunga e può scendere alla maggiore profondità […] l’anima più vasta
[…] che si tuffa nel divenire» è quella «in cui tutte le cose hanno i loro corsi e ricorsi
e flussi e riflussi». Tale anima mette a tacere le voci dell’io per realizzare
l’esperienza della coestensività del sé, facendosi tutt’uno con ciò che la circonda allo
stesso modo in cui il Tao individuale corrisponde al Tao universale. Il percorso
nietzscheano porta l’anima coraggiosa a vagare ed errare nella sua estensione più
ampia, e a raggiungere un rapporto di comunanza e di partecipazione con la
realtà che la rende del tutto identica ad essa. Dunque filosofia nietzschana, tradizioni
orientali e fisica contemporanea concordano nel rilevare la natura intrinsecamente
dinamica dell’universo e l’interconnessione di tutti i fenomeni. (Negri)

Per il buddhismo, la realtà è costituita da un flusso inarrestabile di elementi di


energia (dharma) che si creano e si distruggono, in un processo dinamico che non
ha inizio né fine e che procede senza senso né scopo alcuno. (Negri)

-IL SOGGETTO E L’OGGETTO

Il mondo come grandezza indipendente è una semplice astrazione. L’oggetto


sussiste soltanto in relazione al soggetto, come correlato di questo. Se la
metafisica separa l’io dal mondo e lo vuole rendere comprensibile come un
elemento indipendente, allora essa naufraga. L’io non esiste mai senza
l’oggettualità, la realtà a noi esterna. La riflessione sull’io è perciò, nello stesso
tempo, quella sul rapporto con la realtà esterna e sull’origine e le determinazioni
intorno ad essa. (Dilthey)

Si passa dalla visione classica degli oggetti “in sé” (ndr: il Kosmotheoros che
osserva, dal di fuori, la cosa in sé!?) all’inseparabilità di soggetto e oggetto, poiché
in fisica quantistica qualsiasi osservazione interferisce inevitabilmente sullo stato del
sistema osservato: l’osservatore è sempre coinvolto nel processo, perturbando
l’oggetto osservato e decidendo che esperimento eseguire. (Negri)
Se, con opportuni strumenti tecnologici, ci disponessimo ad indagare operativamente
in profondità un qualsiasi oggetto del mondo fisico che il senso comune
definirebbe “materiale”, come ad esempio una barretta di ferro, allo scopo di
formarci una sua immagine il più possibile raffinata, ci renderemmo conto di passare
gradualmente dalla grossolana visione iniziale di un oggetto a contorni netti e
isolato dall’ambiente circostante a quella di un oggetto via via più vago e confuso
in una sorta di fumosità, fino al punto oltre il quale non sarà più possibile fare
alcun genere di distinzione. In altre parole, incontreremmo una frontiera, quella
implicita nel principio di indeterminazione quantistica che separa (a tutti gli effetti
pratici) il visibile dall’invisibile e oltre la quale ciò che inizialmente ci sembrava un

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oggetto piuttosto ben definito e basato sull’idea di materialità si dissolverebbe
completamente in una nebbia immateriale. Perciò, quando noi percepiamo
l’immagine di un oggetto e poi decidiamo di osservarne la struttura nel modo più fine
possibile, perveniamo ad un limite oltre il quale al nostro apparato sensibile non è più
dato distinguere alcunché. (Roselli)
La concezione della “via di mezzo” di Nāgārjuna viene richiamata dalle riflessioni
filosofiche che si pongono in seguito al problema dell’osservatore: la realtà non si
può definire né oggettiva e indipendente dalla mente (come volevano i buddhisti
“realisti”), né completamente soggettiva (come sosteneva la dottrina della “sola-
mente”), ma in essa non vi è un soggetto senza l’oggetto, e non vi è alcun oggetto
senza soggetto. La scuola prāsangika non nega la realtà del mondo esteriore ma lo
concepisce come relativo e interdipendente: materia e mente dipendono l’una
dall’altra. (Negri)
E’ l’oggetto che crea il soggetto e non il contrario! (U.G.)
Il mondo è inseparabile dal soggetto, ma da un soggetto che altro non è se non una
proiezione del mondo; il soggetto è inseparabile dal mondo, ma da un mondo che
il soggetto stesso proietta. (Merleau-Ponty)
Il soggetto è il sostegno del mondo. (Schopenhauer)
Il soggetto è solo un insieme di prospettive e di interpretazioni. (Nietzsche)
Per Nietzsche il soggetto è solo una finzione, e l’ego è meramente un termine per
indicare la sintesi concettuale della natura umana. Queste riflessioni ricordano molto
la teoria del Buddha della non-esistenza dell’identità personale o del sé (sanscrito:
anātman, pāli: anātta), per cui con un’analisi strettamente empirica della propria
interiorità non si trova un sé durevole, ma solo una combinazione di stati fisici e
mentali. (Negri)
La colossale edificazione condotta dalla filosofia occidentale attorno e sul soggetto,
l’immenso lavoro che essa ha fatto per costruire sistemi perfetti o anche soltanto
coerenti, testimonia di un bisogno irrefrenabile di sicurezza, di protezione, di un
sapersi interni a un organismo anche soltanto logicamente regolato e regolare. Il
razionalismo della “coscienza europea” ha tentato di usare l’atomo-soggetto come
fondamento della realtà e della conoscenza del mondo, semplicemente
sostituendo, in tal modo, un centro trascendente – Dio – con un centro immanente più
vicino. […] Il sistema di certezze e di valori rimaneva pur sempre un sistema, una
“casa” sicura, ancorché sempre più nuova e sempre più laica. (Deleuze)

Dopo che nell’Ottocento Nietzsche ebbe proclamato la morte di Dio e poi nel
Novecento Michel Foucault la morte dell’Uomo, non poteva certo sopravvivere il

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Soggetto. Tuttavia, se scomparso è il Soggetto «teoretico», sostanzialmente «a-
patico», non è scomparsa la soggettività, che è il modo, il come, dell’essere uomini,
vite pensanti ma prima di tutto pazienti, cioè «patiche». (Masullo)

Soggetto e oggetto cessano di significare autonomamente alcunché e divengono


semplicemente funzioni reciproche. Non c'è oggetto se non in relazione ad un
soggetto (che osserva, isola, definisce, pensa), e non c'è soggetto se non in relazione a
un ambiente circostante oggettivo (che gli consente di riconoscersi, definirsi,
pensarsi, ecc., ma anche di esistere). L'oggetto e il soggetto, consegnati ognuno a se
stesso, sono concetti insufficienti. Appare così il grande paradosso: soggetto e
oggetto sono inscindibili, ma la nostra modalità di pensiero esclude l'uno tramite
l'altro, lasciandoci liberi soltanto di scegliere, secondo i momenti della giornata, tra il
soggetto metafisico e l'oggetto positivistico.

Un oggetto - diceva William James - è un prodotto dell’attenzione a “questo e non


a quello”. Questi pezzetti di attenzione etichettati con concetti e simboli, assumono
lo statuto immaginario di “cose” reali e indipendenti! E siccome “tutte le parole
sono dualistiche e separative, questo processo aggrava l’illusione che le cose sono
entità indipendenti che aspettano la percezione.” A questo punto confondiamo
completamente questi simboli con la realtà stessa e l’illusione è confermata.
Ogni cosa è un simbolo, in quanto rinvia sempre ad altro da sé, ovvero agli altri
fenomeni che la determinano sul suo stesso piano e all'interno di quel campo assoluto
che la accoglie e lascia che essa si determini in quella specifica modalità; e, in quanto
simbolo, ogni cosa è in sé paradosso: perché propriamente nessun ente, di per sé,
esiste, ma in quanto condizione determinante per l'esistenza di tutti gli altri, visto
sotto il suo aspetto insostanziale ed impermanente, esso è: dunque è e non è al
contempo. (Pasqualotto)
Presunta dualità soggetto-oggetto. Anche l'Oriente se ne occupa diffusamente.
Scrive infatti il Dalai Lama: <<Una volta tolta di mezzo qualsiasi possibilità di
fondare l'epistemologia in un mondo esterno (o in un mondo interno) veramente
esistente, riguardo all'argomento rimane una sola scelta: sviluppare un sistema
epistemologico in cui soggetto e oggetto siano interdipendenti. E' questo
l'approccio di base del sistema Madhyamica: in qualche senso la realtà del soggetto
è confermata dalla cognizione, e nel contempo la cognizione è confermata dalla
realtà dell'oggetto. Le due cose non sono realmente separabili. Sono così intrecciate
che parlare di una cognizione valida senza riferirsi alla realtà dell'oggetto è - si
potrebbe dire- semplicemente privo di senso. E analogamente, parlare di realtà di un
oggetto senza una cognizione che lo verifica è, di nuovo, priva di senso>>. Dunque
l'interpretazione che il Dalai Lama da della presunta dualità soggetto-oggetto

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concorda perfettamente sia con la meccanica quantistica che con la
fenomenologia di Merleau-Ponty.
L'imperialismo del soggetto ha libero corso, anche nei rapporti con la natura.
(Forte)
Non un soggetto puro e separato che opera su un oggetto ma un soggetto che si forma
e si trasforma.
Un oggetto infatti è tale solo in rapporto a un soggetto, cioè solo se esso viene
pensato.
Il soggetto che entra in crisi sul finire dell’Ottocento è un rifugio sicuro di
concetti, paradigmi e norme morali che per secoli hanno protetto l’uomo occidentale
dall’incubo del nomadismo, dalla mancanza di centro. Questo soggetto mostra in
questo momento storico tutta la propria inconsistenza e il proprio valore
“funzionale”, tanto da poter essere considerato come «dispositivo».

Il soggetto, al pari di qualsiasi prodotto della mano e del pensiero, o di qualsiasi


evento naturale, non è mai identico nel tempo. Il soggetto non è definibile come
forma fissa, ma esperibile come modo particolare di un universale formare senza
inizio e senza fine. Il soggetto è vuoto e impermanente. Ma anche l'oggetto è
vuoto e impermanente. Cosa resta? La relazione!

-IL CASO E LA NECESSITA’

Come scrive Umberto Eco nel Pendolo di Foucault, gli uomini amano pensare che
la loro vicenda non sia legata al Caso, bensì a un Piano. Ovviamente il Piano non
esiste; ma gli uomini vi credono al punto da uniformare al Piano le proprie
azioni e le proprie opinioni. Tale attitudine è sempre esistita, ma ha trovato ora un
formidabile moltiplicatore: la Rete. (Cazzullo)
Ogni processo subisce interferenze parziali o totali ad opera del caso. (Jung)
Il corso della Natura è regolato dal caso e dalla necessità e non da un fine.
(Empedocle)
Jaques Monod scrive, nel 1970, un libro dal titolo Il caso e la Necessità ove afferma:
“L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità
indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo
destino, non è scritto in nessun luogo”. Dunque il destino dell’uomo, un essere
emerso dal caso, la cui natura si è conservata grazie alla necessità dell’invarianza
riproduttiva dei viventi, non è scritto in alcun luogo: egli è solo e da solo deve
costruire il suo futuro, senza dover rendere conto ad altri delle sue azioni, se non a se

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stesso. Nessun finalismo, nessun progetto, nessuno scopo. Questa è la tesi dell’autore:
tesi però indimostrabile!

La libertà è riconoscere la necessità. (Platone)

Il fatto che “Dio non giochi a dadi” è una convinzione così forte che Einstein si
oppone fino agli ultimi anni della sua vita alla nuova impostazione vigente, quella
della meccanica quantistica. Non accetta, in primo luogo, la totale casualità in un
sistema come quello dell’Universo, rimanendo fedele all’idea di un cosmo
ordinato e di una materia altrettanto ordinata e costante nelle sue manifestazioni.
Il caso (tùkè) e la necessità (anankè): nulla di più inconciliabile, sembrerebbe, a
prima vista. Infatti il caso non ha regole mentre la necessità tutto costringe.
Eppure, alla fine, sono le due facce della stessa medaglia, come spesso accade. Per
spiegarci meglio facciamo un esempio semplice. All'inizio di ogni partita di calcio
l'arbitro lancia una monetina per stabilire chi sceglierà il lato del campo. Ovviamente
potrà uscire testa o croce. Nessuno lo può sapere essendo questo un dominio del puro
caso. Ma lo stesso lancio di monetina avviene in molti, moltissimi altri stadi di calcio:
in serie A, B, C, dilettanti, amatori, giovani, etc. etc. E ciò va esteso a tutti gli stadi
del mondo arrivando quindi a interessare migliaia e migliaia di diversi avvenimenti.
Ecco allora che il caso lascia il posto alla necessità. Infatti siamo quasi sicuri che, su
tanti eventi, la metà delle volte uscirà testa e l'altra metà delle volte uscirà croce.
Dunque il puro caso (senza legge alcuna) riguarda il singolo evento o i pochi
eventi mentre la necessità riguarda i grandi numeri. I due presunti contrari non
sono però così diversi come poteva sembrare a prima vista. E ciò vale, forse, per
molti altri dualismi: materia e spirito, bene e male, vero e falso, essere e non essere,
etc. etc. …
Il Caso, come è inteso da me, è un principio a sé, dato dalla osservazione, ed è
essenziale alla spiegazione della formazione naturale: ed è un principio, che non
contraddice punto quell’altro, pure sperimentale, della necessità. Si abbina con esso,
come, ad esempio, il principio della gravità dei corpi si abbina coll'altro della
dilatabilità loro per effetto del calore. E da ciò consegue, non solo che l’affermazione
del Caso non importa la negazione della necessità, ma anzi che il Caso stesso va
concepito come necessario. (Ardigò)
La necessità del caso! (Ardigò, positivista, afferma che esistono solo i fatti e
Nietzsche, prospettivista, afferma che esistono solo le opinioni).
Secondo Nietzsche la necessità meccanica non è un fatto: la necessità non è un fatto
ma una interpretazione. Infatti siamo stati noi a introdurre questo concetto
interpretando l'accadere come conseguenza di una necessità che impera al di sopra

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dell'accadere. Ciò perché abbiamo pensato ad autori delle cose e non a una rete di
relazioni fra eventi.
"Per caso" - questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito a tutte
le cose, io le ho redente dall'asservimento allo scopo. Lasciate che il caso venga a
me: egli è innocente, come un fanciullino. (Nietzsche)

Secondo la teoria evolutiva che Monod ratificherà in biologia molecolare nel 1964, il
caso innova e la necessità conserva.
Il caso, in quanto perturbatore, negatore delle leggi, del destino, della ragione ideale,
è eminentemente il “distruttore” di “ciò che c’è” e di ciò “che vale”. Ciò perché la
costanza della necessità (la causalità lineare) è ogni tanto rotta da un metaforico
irrompere del caso che sovverte tutto, trasforma, fa essere ciò che non c’era prima. Il
caso è l’irriverente per eccellenza, la bestia nera di tutte le teologie, l’intruso che
bisogna nascondere e negare. Nel migliore dei casi è antipatico, turba, fa paura e in
qualche caso terrorizza. (Tamagnone)
Il caso contro la ragione? Sicuramente contro la ragione di Parmenide, di Platone, di
Aristotele, degli Stoici, di Plotino, di San Tommaso, di Cartesio, di Spinoza, di
Leibniz e di Hegel! Ma in perfetto accordo con la ragione scientifica del XXI secolo.
Nel determinismo si sostiene che nei processi c’è “esclusivamente” necessità: il
caso viene escluso. Nell’indeterminismo c'è invece coesistenza del caso e della
necessità. La scienza del XX° secolo ha dimostrato, nei vari ambiti della realtà, che
l’indeterminismo esiste, ed è l’agente di tutti i processi innovativi dei sistemi atomici
e molecolari inorganici fino a quelli biologici e genetici.
Il grande matematico e filosofo del secolo scorso Bruno de Finetti afferma che
l'incertezza non è eliminabile: possiamo diminuirla ma non farla sparire e
dobbiamo, quindi, accettarla come compagna della nostra vita. Ovviamente il duce
del fascismo non gradì!
-LA SAGGEZZA E LA CONOSCENZA

Non bisogna mai confondere la conoscenza con la saggezza. La prima serve a


guadagnarsi da vivere, la seconda aiuta a vivere. (Carey)

La sapienza riguarda la conoscenza mentre la saggezza riguarda i


comportamenti. Si possono conoscere molte cose, cioè essere sapienti senza per
questo essere saggi e viceversa.
Il saggio socratico sa di non sapere, di non conoscere.

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La coscienza di sé non è la conoscenza di sé.
Il più grande nemico della conoscenza non è l'ignoranza, è l'illusione della
conoscenza. (Hawking)
La civiltà occidentale si è sempre basata sull'arco della conoscenza: induzione e
deduzione che porterebbero alla verità (ma così non è, purtroppo). Il pensiero
orientale invece è conscio che non si potrà mai dare la risposta definitiva: a ogni
domanda risponde anche con un'altra domanda.
Secondo la Mandukya Upanishad (terzo secolo a. C.) i primi due gradi della
conoscenza sono quelli tramite i sensi (quando l'oggetto è davanti a noi) e
tramite i concetti (quando l'oggetto manca). Siamo nel mondo duale della
apparenza e della rappresentazione direbbe Schopenhauer. Quando poi si supera il
dualismo di soggetto e oggetto e si coglie l'unità del tutto (ove esiste solo la pura
conoscenza senza più soggetto e oggetto) si è superato il mondo delle apparenze e
della rappresentazione quasi sognate. Il quarto e ultimo modo d'essere (turia) arriva
allorché sparisce anche la conoscenza e non c'è più differenza fra conoscenza e
non conoscenza. E' un modo di essere impensabile perché indefinibile e
innominabile! Esso è l'Atman-Brahman! Infinitamente!
Gli antichi greci indicavano la Saggezza e la Temperanza con il termine Sophrosyne.
Il lemma σωφροσύνη (Sophrosyne) ha la sua radice nel verbo greco antico σώζω
(sozo) che indica il verbo salvare, e nel sostantivo femminile φρήν (fren) che indica
per estensione l'anima intesa come sede della mente; ne deriva quindi che il
termine sophrosyne è da ritenersi che indichi la saggezza intesa come ricerca della
salvezza della mente, dello spirito, dell'intelletto e della ragione.
Vita e saggezza sono un tutt’uno per lo Zarathustra di Nietzsche, costituiscono un
riferimento che attrae e respinge, che ci lega attraverso la repulsione, un amore che è
tale solo a distanza. La saggezza (la vita) è donna in tutto e per tutto. La donna
appare, nelle descrizioni di Nietzsche, come imprendibile, multiforme, talmente
profonda da ingannare con la sua superficie. La donna è mutevole e dispersiva, ed è
proprio quest’ultima caratteristica a costituire il nucleo di mistero irrinunciabile, la
vita che produce la vita. Zarathustra, in definitiva, ha solo la capacità di annunciare
l’oltreuomo ma, per generarlo, deve rivolgersi alla donna e alla sua misteriosa
capacità generativa.

La saggezza è una particolare connotazione o capacità propria di chi è in grado di


valutare in modo corretto, prudente ed equilibrato le varie scelte e opportunità della
vita, optando di volta in volta, innanzi alle varie perplessità, per quella che si
riconosce essere quella più proficua secondo la conoscenza, alla luce della ragione e

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dell'esperienza, e comunque in aderenza alla morale e all'etica vigenti possibilmente
in ogni tempo e in ogni luogo.

L'amore dice: "Io sono tutto". La saggezza dice: "Io non sono niente". E la mia
vita scorre nel mezzo. (Nisargadatta Maharaj)

Una definizione filosofica dice che la saggezza è: "In generale, la disciplina razionale
delle faccende umane: cioè il comportamento razionale in ogni campo o la virtù che
determina ciò che è bene o male per l'uomo.".

Socrate], definito dalla Pizia «il più saggio» tra gli uomini, scopre che la saggezza
consiste nel «sapere di non sapere». Alla concezione della saggezza dei suoi
contemporanei, insieme con le altre virtù, egli applica il metodo della maieutica per
mettere in luce le contraddizioni nel loro pensiero. Non accontentandosi di un mero
elenco di casi da costoro additati quali esempi di saggezza, Socrate cercava di
definire che cos'è la saggezza in sé stessa.

Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio.


(Shakespeare)

Il problema dell'umanità è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli
intelligenti sono pieni di dubbi. (Russell)
Il tempo vuoto della meditazione è, in verità, il solo tempo pieno. Non dovremmo
mai arrossire di accumulare istanti vacui. Vacui in apparenza, di fatto ben riempiti.
Meditare è un ozio supremo, di cui si è perduto il segreto. (Cioran)
Chi cerca la vita eterna deve anche cercare il luogo di origine della vita (ming) e
dell’essere (sing). L’Uno dell’inizio e della fine! Solo lo spirito primordiale, vero
essere (sing), trascende spazio e tempo e ogni dualità.
Nel buddhismo «l’autorità delle Scritture non può mai prevalere su di una
comprensione fondata sull’esperienza e la ragione»; il Buddha stesso esortò i suoi
discepoli a non accettare i suoi insegnamenti sulla base della venerazione che
nutrivano nei suoi confronti, ma a esaminarli e verificarli personalmente. (Negri)

La posizione della “via di mezzo” respinge sia l’esistenza intrinseca e indipendente


della mente, sia la concezione dei fenomeni fisici come cose in sé. Questa corrente di
pensiero sostiene una teoria che non è estranea alla scienza: ciò che percepiamo è
inevitabilmente legato alle nostre modalità percettive, e il modo in cui
concepiamo i fenomeni è determinato dai nostri concetti e linguaggi. (Dalai
Lama)

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Ti faccio notare che tutto ciò che hai percepito succede nella tua mente, le cui
sensazioni sembrano poter farlo percepire, ma in realtà nulla di ciò è apparso
veramente come una serie di eventi sperimentati da te. Alla fine tu, come identità
indipendente, i cui sensi sembravano sperimentare tutto questo, sei introvabile. Come
può essere? Ricorda la storia dei monaci che litigavano a proposito di una bandiera
che sventolava al vento: se era la bandiera o il vento che si muoveva. Hui Neng (sesto
patriarca) disse loro che era solo la loro mente che ne era responsabile ed essi
riconobbero la verità.
«Che cosa fa l’illuminato prima dell’illuminazione? spacca la legna e tira il carretto.
Che cosa fa l’illuminato dopo l’illuminazione? spacca la legna e tira il carretto.»
Come a dire: «Che cosa fa chi si trova nel samsāra? spacca la legna e tira il carretto.
Che cosa fa chi si trova nel nirvāna? spacca la legna e tira il carretto.» I due fanno
esattamente la stessa cosa. Eppure si tratta di due cose del tutto diverse; sono anzi il
massimo della differenza: la differenza tra il positivo e il negativo. La stessa cosa
dunque, e contemporaneamente il massimo della differenza. Ossia la differenza che
in Michelstaedter c’è tra persuasione e rettorica. Sì e no. Positivo e negativo. (Tarca
interpretato da Uscotti)
L’insegnamento buddhista dice che può esistere la liberazione qui e ora, nella
quotidianità. Non serve andare lontano, fuggire. Si tratta di cambiare prospettiva,
si tratta cioè di vivere lo stesso in modo completamente differente. La liberazione
non sta in un altrove indefinito: la chiave sta nel vivere pienamente quello che è
dato, nel quotidiano, nel presente, l’unica dimensione e l’unico tempo che si
possano vivere. Il futuro, il passato, sono solo distrazioni. Come a dire: esiste un
tempo diverso da questo preciso istante, e un luogo differente da questo luogo
determinato, in cui è possibile essere autentici, persuasi, buddha? L’autenticità, la
persuasione, la buddhità, non si possono rimandare né altrove, né in un altro
tempo. L’autenticità è qui e ora, o non è affatto, non è mai. (Uscotti)
Quanta magia è nello spirito della Cina che sa elevare i lamenti più smisurati ma non
accusa il principio delle cose né si sottomette ciecamente all’inconcepibile,
rappresentato da un’autorità determinata o fondato su una rivelazione! (Jaspers)
Wu, l’“assenza” di Lao Zi evoca e si riferisce, in ultima istanza, all’assenza dello
sfruttamento e della sottomissione dell’essere umano a danno dell’altro essere umano.
È l’assenza d’“ingiustizia” quella che guida il ragionamento di Lao Zi e dei taoisti. un
profondo senso di giustizia anima il taoismo filosofico antico. giustizia terrena,
politica, sociale. Non divina, metafisica, ideale. (Cabella)

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