cioè se il concetto di segno viene usato senza nessun controllo, se le persone che dicono “senso”
vogliono dire “valore” o “realtà”, se le persone che dicono “significante” vogliono dire “segno”,
se la gente per “significato” vuole dire “il senso in generale” se non addirittura gli “effetti di realtà
“; davanti a questa confusione concettuale forse un po’ di interdefinizione concettuale è
necessaria. Cioè anche lì è un problema di equilibrio delicato: fino a che punto si può andare
avanti in una interdefinizione concettuale e fino a che punto puoi invece utilizzare un termine con
tutta la sua gamma di significato quotidiano, con il risultato che non capisci nulla.
Nel suo libro Structuralists poetics, J. Culler identifica lo strutturalismo con la semiotica.
Secondo Lei la semiotica fa necessariamente parte di un paradigma strutturalistico?
Questo è un problema che andrebbe chiarito storicamente. Culler vede il mondo dal punto di vista
americano, e pensa che c’è stato lo strutturalismo poi il generativismo, poi il decostruzionismo,
ecc. Ma questa è la storia delle case editrici, e la storia delle case editrici non è la storia
concettuale. Io credo che chiamare Greimas post-strutturalista “makes no sense” (però Greimas è
stato tradotto negli Stati Uniti, dalla Minnesota University Press, come “a post-structuralist”), e la
semiotica è una disciplina non identificabile con dei momenti di organizzazione di altre discipline
come la linguistica.
Quello che Eco sta cercando di fare – ritrovare una tradizione semiotica – mi sembra molto
notevole. Con qualche rischio: siccome si trova la parola “semiotics” o trovi la parola “sema” o
“semaion”, si pensa che siano le stessa cosa. Questo modo di argomentare non è corretto. La
parola “atomo” usata da Niels Bohr non è la stessa cosa di “atomo” usato da Democrito. Però si
chiamano “atomo” tutte e due. Bisogna ritrovare una storia, come direbbe Braudel10 “di lunga
durata”, però non bisogna neanche fare degli errori concettuali. Per esempio, in La ricerca della
lingua perfetta nella cultura europea11 Eco tratta il Volapyk e l’Esperanto, ma prima parla di
Leibniz e di Lullo. Ma Lullo e Leibniz non creavano lingue, creavano sistemi logici di
combinatorie concettuali. Non c’era fonetica, non c’erano forme dell’Espressione. Per parlare
della logica concettuale di Lullo, lui usava il catalano e Leibniz usava il tedesco. Mentre il
Volapyk e l’Esperanto sono forma dell’espressione e forma del contenuto più sostanza
dell’espressione e sostanza del contenuto. Da una parte ci sono le lingue, dall’altra i sistemi logici,
che possono essere parlati in diverse lingue. Non sono comparabili! Sfortunatamente non si riesce
a discutere abbastanza per chiarire dei problemi così semplici. Però, resta giusta l’esigenza di Eco
per uscire dall’attualità (post-)decostruzionista, di costruire una storia.
Prima di seguire l’insegnamento a Bologna avevo l’impressione che il progetto greimasiano fosse
un progetto fallito il cui epitaffio era l’introduzione del S/Z di Barthes. Come evita la semiotica
generativa di vedere in ogni testo la conferma della teoria? In altre parole come si comporta la
semiotica davanti alla differenza di ogni testo?
Barthes aveva già preso le sue distanze in S/Z dall’ipotesi hjelmsleviana, che lui stesso aveva per
primo affermato. E le aveva prese in due modi: prima sulla nozione di connotazione. Hjelmslev
diceva che la connotazione è un aspetto sistematico, cioè c’è una categoria connotativa (per
esempio, volgare / elegante). Al contrario Barthes dice: “non! la connotation c’est de l’or”, oro
che è sparso sul testo. D’altra parte se si guarda alla teoria dei codici, che usa per S/Z, ci si accorge
che sono molto poveri sul piano della struttura narrativa: sono molto diversi l’uno dall’altro, e
sono molto empirici. Non hanno mai fatto scuola: S/Z era Barthes con categorie costruite da
Barthes – geniali a volte. Io trovo che S/Z è un eccellente libro di retorica e dell'”analyse de texte”
francese, ma non trovo che sia un libro di semiotica. C’è stata una risposta a S/Z, che è
indefinitamente meno attraente dal punto di vista dei risultati, però molto più efficace dal punto di
vista del tentativo di una descrizione testuale: il libro di Greimas che si chiama Maupassant12. In
questo libro esplicita quasi tutti i concetti che ha usato in precedenza applicandoli e scopre e
verifica concetti diversi.
https://www.paolofabbri.it/interviste/spiegazioni_mondo/ 4/10
24/02/22, 14:49 Spiegazioni semplici a un mondo complicato – Paolo Fabbri
Il boom della semiotica è stato contemporaneo con l’impegno politico del ’68 e la critica
dell’ideologia. Com’è oggi la relazione fra semiotica e impegno politico?
Qui ci sono due problemi. Il primo – e in questo Barthes ha giocato un ruolo considerevole – è che
la semiotica è stata pensata come una critica delle ideologie, intendendo come diceva Barthes che
l’ideologia fosse l’aspetto di visione del mondo che si possedeva appartenendo ad una certa classe
sociale. Quindi era una teoria della stratificazione sociale e dei diversi linguaggi sociali, legati a
diversi classi e gruppi sociali.
Il secondo: l’ideologia è stata considerata come una rappresentazione distorta. Oggi si intende
ideologia come una rappresentazione concettuale. Invece ideologia era intesa allora come
rappresentazione distorta. L’idea era di costruire una disciplina che fosse capace, manipolando la
retorica – che era la faccia significante di una ideologia – di distruggere le ideologie. Era una
macchina scientifica da guerra contro l’ideologia, nel caso specifico l’ideologia borghese. E
specialmente una forma dell’ideologia borghese che era quella della naturalizzazione del
significato. L’idea di Barthes era che il borghese è una persona che dice “una donna è una donna,
un uomo è un uomo, un cane è un cane – le cose stanno così” e dimentica sempre (o mai) che in
realtà il mondo è così perché lui ha il potere e vuole che sia così. Quindi l’idea nell’epoca era di
usare uno strumento semiotico come una articolazione esplicita di una teoria delle ideologie che
servisse come strumento contro la naturalizzazione che la borghesia dava della propria visione del
mondo. E quindi la sua efficacia doveva misurarsi nell’arbitrarietà. Più era arbitrario il segno,
meno la borghesia aveva il diritto di dire “i cani sono cani, gli uomini sono uomini, le macchine
sono macchine, Dio è Dio, ecc.”. Da questo punto di vista, Miti di oggi è stato un esempio
insuperato. Resta il fatto che in Italia nessuno aveva letto Bachelard e ad una lettura attenta di Miti
di oggi ci si accorge che Barthes si era ispirato non soltanto a Brecht (perché Barthes era un
critico teatrale, molto appassionato di Brecht e delle sue teorie), ma molto profondamente anche a
Bachelard.
Sempre negli anni ´70 Eco parlava di una “guerriglia semiotica”. Si potrebbe dire che senza
avere lo scopo rivoluzionario di una guerriglia, la semiotica usa il “metodo guerrigliero”? Nel
senso che non si serve di grandi manuali, ma si serve di articoli, di antologie e di voci di
enciclopedie, insomma che senza avere i suoi propri territori, opera con piccoli assalti dentro il
territorio delle altre discipline?
L’idea della guerriglia semiotica veniva prevalentemente dalla televisione. In quell’epoca c’era
una sola televisione che era nelle mani del partito al potere13. E quindi non potendo controllare la
televisione, l’unico modo era in qualche modo di formulare una ricezione critica della televisione.
L’idea di Eco di una “guerriglia semiologica”, che è una metafora simpatica, era quello di tentare
di leggere i testi in altra maniera. Un po’ come diceva Barthes. Ma oggi la sinistra è al potere e
quindi il problema non è soltanto la critica ideologica. Oggi non è importante soltanto fare una
guerriglia semiologica, al livello del ricevente, ma proporre testi nuovi, idee nuove. E come lottare
contro le ideologie al potere che in questo caso sono le nostre? Eco era un’avanguardia che lottava
contro l’establishment. Ora la sinistra è diventata l’establishment e come vuoi che lottino contro
l’establishment?
Sarebbe interessante all’interno di una teoria semiotica che viene considerata secondo me troppo
argomentativa, troppo rappresentativa, troppo consensuale, introdurre degli elementi di carattere
conflittuale. La definizione che noi diamo di un racconto come non soltanto sequenza di azioni
programmate, ma come conflitto tra prospettive e programmi di azione, reintroduce dentro la
semiotica stessa un’idea di guerra, di conflitto.
Nell’enunciazione ci sono delle differenti istanze di soggettività che sono iscritte nel testo, cioè il
soggetto non è unificato, il soggetto è molteplice, emergente, a volte conflittuale, e tutto quello
che noi possiamo fare, è ricostruire dei simulacri di questo soggetto. Credo che sia una posizione
del tutto diversa dell’idea di postulare una soggettività razionale che si eserciterebbe nel mondo.
Semmai resterebbe da sapere rispetto all’idea del testo che ha la semiotica di Peirce – che è una
semiotica kantiana – in cui meno male una soggettività forte esiste. Questo soggetto che
argomenta, fa inferenze, abduzioni, deduzioni è per me un soggetto tutto razionale. Ebbene
l’affermazione della semiotica generativa: che il soggetto non è altro di un simulacro di
un’insieme di istanze, che sono rappresentate in conflitto e in contratto, nel testo, risponde molto
di più all’idea della psicanalisi contemporanea (tipo Klein, in cui si pensa la soggettività come
espressione di equilibri differenziati di conflitti tra istanze diverse in conflitto e in costante attività
di trasformazione) o di una rappresentazione per complessità e molteplicità, che è caratteristica
della postmodernità. Ecco, io credo che la semiotica contemporanea pensa più così, pensa al testo
come un luogo di molteplicità e complessità delle istanze della soggettività che ci sono iscritte,
non come risultato di un’operazione razionale costruttiva.
Spesso pare che la semiotica si consideri ancora oggi come una giovane disciplina ribelle. Com’è
la situazione oggi della semiotica?
Quando si crea un nuovo paradigma concettuale, vengono nel nuovo paradigma tutti gli esclusi
del paradigma precedente, che sono spesso o troppo intelligenti o troppo stupidi per stare nel
paradigma precedente. Quindi nella semiotica si sono trovati, come in tutti i nuovi paradigmi, un
numero molto forte di persone molto intelligenti e molto stupide insieme, con risultati diversi.
Ora, chi abbia vinto oggi, se quelli troppo stupidi o quelli troppo intelligenti è un problema che
lascio agli altri decidere. Ora il problema è la costruzione di un paradigma unificato. Non so se
esso sia necessario. In linguistica tutti dicono che esiste oggi una disciplina che si chiama
linguistica generale, ma nessuno metterebbe sullo stesso piano Halliday ed i postchomskiani.
Sento che Halliday con la sua teoria funzionale del linguaggio sia molto vicino a me e sento molto
lontano l’ipotesi dei generativisti, per esempio, come Chomsky. Ci deve essere un unico
paradigma? Io penso di no. Ci deve essere, io credo, una disciplina semiotica generale, come c’è
una disciplina che si chiama linguistica generale e all’interno della quale ci saranno dei diversi tipi
di orientamento. Vedo due possibilità: la prima è quella di tipo storico-ricostruttivo, ne abbiamo
già parlato: tracciare diverse storie della semiotica da una parte. Un’altra possibilità è quella di
esplorare la testualità in diversi campi: pittura, cinema, letteratura, balletto, gestualità, intelligenza
artificiale. E cercare in qualche modo di estrapolare e di interdefinire delle funzioni diverse. Un
esempio: in intelligenza artificiale la gente si interessa sempre di più ai fenomeni di emergenza,
cioè come cose molto elementari, che quando vengono combinate tra loro in maniera ricorsiva,
provocano fenomeni di emergenza di significati. La semiotica generativa è così: non pensa che in
una teoria di rappresentazione del significato ogni livello sia tautologico rispetto a quello
precedente. Postula un incremento di senso. Un logico direbbe: “che orrore, assurdo!”, invece uno
studioso di intelligenza artificiale direbbe: “sì, è normale, le forme di organizzazione provocano
fenomeni di emergenza di significato”. Noi non avevamo il termine negli anni ’70 per definire il
concetto di emergenza, ma lo praticavamo. Oggi invece siamo in grado di ripensare il concetto di
emergenza del senso nel modello generativo.
L’approccio semiotico ha avuto grande successo nel campo letterario, linguistico e pubblicitario.
Lei sostiene l’utilità di una semiotica delle arti visive. Ci sono dei campi che sono più adatti di
altri per l’approccio semiotico?
https://www.paolofabbri.it/interviste/spiegazioni_mondo/ 6/10