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Signi cato e verità.

Frege, Wittgenstein e il
neopositivismo

Il lavoro filosofico di Austin ha il suo sfondo storico-concettuale nella


tradizione analitica. Il lavoro di Austin si basa sulla critica alla concezione
della semantica che legava il segno al suo correlativo extralinguistico e
privilegiava l’analisi del discorso.
Un’impostazione simile aveva caratterizzato le analisi linguistiche di
Wittgenstein nella sua opera Tractatus Logico-Philosophicus e dia
neopositivisti del Circolo di Vienna.
Secondo Austin al linguaggio non poteva essere assegnata la sola funzione
descrittiva dei fatti realmente accaduti-

Il matematico tedesco Gottlob Frege, da molti considerato uno dei padri


fondatori della filosofia analitica, introduce il concetto di forza per dar conto
di come il contenuto concettuale di un enunciato può essere utilizzato in altri
modi come ad esempio assumere la forma di una domanda.
La nozione fregeana di “forza” venne mutuata da Austin nella sua
teorizzazione degli atti linguistici proprio per chiarire in che modo un
enunciato può assumere diverse forme.
Austin aveva ripreso da Frege non solo la nozione di forza ma anche quella di
significato come entità analizzabile in due componenti distinte: il “senso” e il
“riferimento”.
1) riferimento: in base al quale denotiamo l’oggetto concreto
extralinguistico;
2) Senso: il modo in cui lo stesso oggetto si presenta.
Il senso degli enunciati invece è un “pensiero” ossia un contenuto concettuale.
Sia i nomi che gli enunciati devono avere per forza un senso ma non devono
necessariamente avere un riferimento.

Obbiettivo di Frege: costruire un linguaggio logico-simbolico per la


matematica, privo della ambiguità presenti nel linguaggio di uso quotidiano.
Era dunque interessato a quei pensieri che potevano essere giudicati veri o
falsi. Aveva infatti ipotizzato l’esistenza di un “regno dei pensieri” accanto al
mondo fisico e al mondo psichico.

Questione del significato: pur dichiarando che esso «equivale a senso e


riferimento» non presenta argomentazioni a favore della propria assunzione,
infatti è maggiormente interessato alla forza e alla rilevanza degli enunciati.

Wittgenstein nel Tractatus si proponeva di rintracciare l’essenza del


linguaggio, ossia una struttura logica profonda comune a tutti i linguaggi. A
tal fine aveva elaborato una teoria “raffigurativa” della proposizione, secondo
fi
la quale una proposizione è un’immagine di un possibile stato di cose, cioè il
suo senso, ed è vera solo se questo concorda con la realtà, altrimenti è falsa.
Ma la proposizione è a sua volta un segno composto da nomi i quali hanno
significato solo se designano un oggetto.

Di ispirazione fregeana è senz’altro l’esigenza di Wittgenstein di adottare un


linguaggio segnico che obbedisca alla “grammatica logica e alla sintassi logica.
Dunque alla filosofia spetta primariamente il compito di portare alla luce la
logica del linguaggio pur senza ricorrere all’esistenza di un “regno dei
concetti”.

Il Tractatus è circolato ampiamente nell’ambiente inglese riscuotendo


particolare successo tra i neopositivisti che vi avevano individuato gli
strumenti utili alla costruzione di un linguaggio ideale.
In effetti nel primo manifesto del neopositivismo viennese era stata data
particolare enfasi alla ricerca di un simbolismo libero dalle scorie delle lingue
storiche.

L’analisi del linguaggio di Austin


Austin e la filosofia del linguaggio ordinario: significato e uso

Questo tipo di filosofia pur essendo considerata “filosofia analitica” si discosta


in modo considerevole dalla tradizione avviata dal Tractatus e dai
neopositivisti. L’oggetto teorico di questo studio è il linguaggio nelle sue
diverse forme e situazioni d’uso e si mantiene assolutamente estraneo a
progetti di costruzione di una lingua “ideale”.
Ad Oxford la ricezione del neopositivismo era stata mediata da Ayer e Austin
fu “l’antagonista” della posizione ayeriana.
Austin nei suoi primi lavori aveva già iniziato a scardinare il fatto che il
significato delle parole fosse univoco e determinato. Infatti affermava che non
aveva “senso” trovare il significato delle parole singolarmente, ma era più
interessato al significato degli enunciati nel loro complesso. Secondo il
“principio del contesto” la parole non hanno significato se non in quanto
inserite nella proposizione.
Austin, insomma, inizia a formulare una visione contestuale del significato, è
la situazione, il contesto d’uso a chiarire in larga parte come un termine debba
essere inteso.
Diversi scritti austiniani prendono spunto dalle idee di Platone.

Intorno agli anni Trenta durante il suo periodo di insegnamento Wittgenstein


aveva rivisto la sua concezione di linguaggio e iniziato a sostituire la nozione
di significato con quella di uso: il significato di una parola è il suo uso nel
linguaggio. Al contempo aveva ampliato il concetto di proposizione.
Austin invece si era mostrato scettico circa la sostituzione del termine. Negli
anni Trenta ad Oxford anche Gilbert Ryle aveva iniziato a trattare di concetti
filosofici nel loro uso, ossia della loro operatività, piuttosto che del loro
significato.

Performativi e constativi: verità e felicità


Austin insiste non solo nella possibilità di rintracciare diversi impieghi delle
frasi ma anche sull’evidenza che molte asserzioni sono solo apparentemente
descrittive pertanto non sottoponibili a un criterio che possa la verità tramite
un confronto con la realtà extralinguistica. Il giudizio circa al verità o falsità di
un enunciato non è l’unico possibile, ma rientra tra i diversi modi di valutare
ciò che diciamo ed è strettamente dipendente dalle circostanze e dagli scopi
dell’enunciazione. Il richiamo alle circostanze amplia il concetto di contesto
alla situazione, linguistica e non, in cui viene proferito l’enunciato, legandolo
a chi pronuncia e a chi ascolta.
Tra le asserzioni apparenti Austin annovera gli enunciati performativi i quali
equivalgono in tutto e per tutto a compiere un’azione. Austin fa una differenza
tra la prima persona è alcuni verbi esistenti e i loro modi di coniugazione:
ES-> “Prometto che verrò a cena” e “egli aveva promesso che sarebbe venuto
a cena”, il primo enunciato da modo di far capire che si sta compiendo
l’azione del promettere di venire mentre il secondo no.
Austin fornisce un’ampia trattazione delle peculiarità dei performativi: «A:
non “descrivono” o “riportano”, non sono veri o falsi. B: l’atto di enunciare la
frase costituisce l’azione».
È necessario che il performativo venga proferito in una situazione appropriata
altrimenti rimarrà in una condizione di infelicità.
Casi di infelicità del performativo possono darsi:
- se l’autore non è in condizione di compiere l’atto in questione oppure se
l’oggetto a cui ci si riferisce non è adatto ad essere sottoposto all’azione ->
perfomativo nullo.
- Se colui che proferisce l’atto non ha intenzione di compiere l’azione in
causa -> performativo abusato.
- Se tutto si è svolto regolarmente ma successivamente succede qualcosa in
disaccordo con l’atto -> rottura dell’impegno.
Nel concetto di “enunciato che equivale a compiere un’azione” Austin si rifà al
linguaggio giuridico chiamando in causa le clausole in cui si esegue l’azione
legale.
Il performativo risulterà eseguito felicemente se:
- esiste una procedura convenzionale accettata avente un certo effetto
convenzionale
- Le persone e le circostanze sono appropriate
- La procedura è eseguita da tutti i partecipanti sia completamente che
correttamente
La convezioni a cui si appella Austin non sono solo esclusivamente
linguistiche, ma sono culturalmente e storicamente situate, e fanno esplicito
riferimento alla dimensione sociale dell’agirà comunicativo. Non fornisce una
definizione esplicita di “convenzione” ma dà solamente alcune indicazioni.
Alla dimensione convenzionale è legata la “felicità” del performativo (es:
formule del battesimo o del matrimonio, in altri casi (es: promessa di
matrimonio o porgere delle scuse) l’accento si deve porre piuttosto
sull’intenzione del parlante; tuttavia anche il caso della promessa è legato a
delle convenzioni socialmente accettate.
Austin conclude il suo libro con il ritenere anche i constativi valutabili in
termini di felicità/infelicità.
Uno dei propositi di Austin è sicuramente quello di considerare l’uso
assertorio del linguaggio alla stregua di tutti gli altri usi, dunque anche per
l’enunciato assertorio si può parlare di convenzionalità, di dipendenza da un
contesto che lo rende usato “felicemente” o “infelicemente”. La verità dunque
ammette dei gradi di approssimazione.

Possibili criteri per i performativi: Austin e il


performativo esplicito
Austin aveva cercato di indicare una “forma normale” del performativo, che
potesse garantirne l’immediato riconoscimento:
• Verbo alla prima persona del presente singolare attivo
• Verbo alla seconda o terza persona indicativo passivo (siete autorizzati, siete
pregati di..)
• Modo imperativo
Tuttavia nessun criterio sembra essere pienamente soddisfacente, talvolta
anche gesti e intonazioni della voce possono essere utilizzati come
performativi.

Austin riconosce che «il linguaggio come tale non è preciso, e inoltre è, nel
nostro senso, non esplicito» avanzando l’ipotesi che le formulazioni
performative implicite precedano quelle esplicite. Nonostante ciò persevera
nella ricerca di di un dispositivo atto a rendere bene la “forza” dell’enunciato,
che renda conto non soltanto delle diverse funzioni del linguaggio ma anche
del rapporto tra linguaggio e azione.

AUSTIN E BENVENISTE
La ricerca di Austin lo aveva costretto a prendere in considerazione diversi
aspetti delle lingua storico-naturali nell’ambito della ricerca linguistica:
l’analisi delle forme verbali, le componenti paralinguistiche, la gestualità e
l’intonazione e il ruolo svolto dalla situazione enunciata. Benveniste aveva
commentato la versione francese delle tesi dei performativi e constativi di
Austin e di lui apprezza la propensione ad occuparsi del linguaggio «così
come esso viene parlato».
Benveniste aveva iniziato uno studio sulla distinzione degli enunciati, distinti
dall’uso presente o meno della prima persona singolare del presente attivo, e
aveva distinto tra enunciati che eseguono atti, esecutivi, ed enunciati che
informano. Si interessa al lavoro di Austin perché vuole rintracciare degli
elementi utili alla propria analisi della concreta situazione dell’enunciazione.
Per Benveniste l’enunciato esecutivo assume la dimensione dell’evento,
ancorato a un tempo e un luogo definiti, unico e non ripetibile.

Austin: atti linguistici


«L’atto linguistico totale nella situazione linguistica totale è il solo fenomeno
relae che, in ultima analisi, Simao impegnati a spiegare» (affermazione
cruciale per intendere il nocciolo della questione austiniana). Asserire è un
atto come lo è promettere, richiedere giudicare. Quale sarà il tipo di atto che
eseguiamo sarà largamente chiarito dal contesto, dalla situazione di
interazione linguistica in cui ci troviamo.
Quando parliamo i primi atti che compiamo sono:
a) emettere suoni -> atto fonetico
b) Pronunciare parole e vocaboli appartenenti a un certo lessico e a una certa
grammatica -> atto fàtico
c) Utilizzare questi vocaboli con un senso e un riferimento definiti -> atto
retico
Questi tre aspetti presi insieme formano l’atto locutorio ossia l’atto di dire
qualcosa. Bisogna stabilire se le parole utilizzate in un certo atto abbiano la
“forza” di una domanda, oppure di una promessa o altro. Qui Austin
introduce un secondo tipo di atto, l’atto illucutorio che determina ciò che si
fa nel dire qualcosa. L’atto locutorio è una sorta di “contenuto” che include
aspetti morfo-sintattici, lessicali e semantici cui vanno applicate le diverse
forze “illocutorie”. Un terzo tipo di atto individuato da Austin è l’atto
perlocutorio ossia l’atto che si compie col dire qualcosa riguardante la
produzione di effetti “non convenzionali” conseguenti a un’illocuzione.
ES -> se impartisco l’ordine di chiudere la porta a una persona e questa lo fa
la sua reazione rientra negli atti illocutori, se invece la reazione emotiva della
persona è quella di essere infastidita dal mio ordine questo rientra negli effetti
perlocutori.
Per assicurarsi che l’atto illocutorio abbia successo si devono avere degli
effetti e delle conseguenze necessari in particolare quello della recezione da
parte dell’uditorio.
La differenza fondamentale tra atti illocutori e perlocutori risiede nel fatto che
mentre i primi sono convenzionali e riconducibili a una forma performativa
esplicita, i secondi non lo sono.

Criteri per gli atti linguistici: classi di forza illocutoria


Abbiamo le seguenti “famiglie” generali di atti linguistici interconnessi tra
loro:
1) verdettivi: implicanti l’emissione di un verdetto
2) Commissivi: grazie ai quali si può promettere o assumersi un impegno
3) Comportativi: che riguardano atteggiamenti e comportamento sociale
4) Espositivi: con i quali è possibile esprimere opinioni, argomentare e
discutere.
Austin però ritiene che ci siano usi del linguaggio, come recitare una poesia,
che non rientrano in nessuna di queste categorie o al contrario che potrebbero
rientrare in più di una: è il caso dell’insinuazione che sembra
regolamentata da convenzioni come l’atto illocutorio ma non ammette la
forma performativa.
Chiarimenti finali di Austin: «la teoria della distinzione performativo/
constativo sta alla teoria degli atti locutori e illocutori come la teoria
particolare rispetto alla teoria generale».

Dopo Austin: alcuni aspetti del dibattito sugli speech


acts
INTENZIONE E CONVENZIONE: STRAWSON E SERALE
L’interesse per la filosofia del linguaggio austiniana si è manifestata dopo la
pubblicazione postuma delle sue opere. Paul Grice esponeva una teoria del
significato basata sull’intenzione del parlante di produrre determinati effetti
sull’uditorio. Ciò che conta non è tanto il significato letterale della frase
quanto lo speaker’s meaning, ossia il “significato del parlante”
Strawson in un articolo del 1964 prende spunto proprio dall’elaborazione di
Grice per evidenziare come, accanto alle convenzioni di cui diceva Austin,
l’esecuzione e la ricezione degli atti illocutori siano legate principalmente alle
intenzioni del parlante e al riconoscimento di queste da parte degli
ascoltatori. Il ruolo dell’intenzione del parlante non era stato molto
enfatizzato.
Esistono, inoltre, rapporti interpersonali convenzionalmente regolamentati
quali il presentare oppure l’arrendersi. L’intenzione gioca allora un ruolo
fondamentale: se dico «qui il ghiaccio è sottilissimo» il destinatario deve
comprendere, riconoscere la mia intenzione di avvertirlo e comportarsi di
conseguenza. Si delinea una sorta di dualità tra elemento intenzionale e
elemento convenzionale, che l’impostazione austiniana non sembra in grado
di risolvere.
Una proposta di mediazione tra questi due elementi è avanzata dal filosofo
statunitense John R. Searle. Secondo Searle per la buona riuscita dell’atto
illocutorio, il parlante non solo vuole che l’interlocutore riconosca la sua
intenzione, ma vuole che la riconosca in base al fatto che le regole per l’uso
dell’espressione utilizzata associano quell’espressione a quell’effetto.
Tuttavia si può obbiettare alla argomentazioni searleane che l’atto illocutorio
va a buon fine proprio sulla base dell’incomprensione del significato letterale
ossia quello che Searle chiama il “significato convenzionale” della frase.
Conclusione di Searle: il significato non può essere soltanto questione di
intenzioni ma è, almeno a volte, questione di convenzioni.
È anche possibile che alcuni atti illocutivi possano essere eseguiti in maniera
aconvenzionale e dirsi riusciti solamente sulla base del riconoscimento delle
intenzioni dei parlanti da parte degli ascoltatori.
Quello che Austin aveva chiamato effetto di recezione legato alla
comprensione di significato e forza illocutoria è per Searle l’effetto illocutorio
per eccellenza. È pur vero che Searle individua una categoria di atti illocutori
nuova che chiama “dichiarativi” in tutto e per tutto equivalenti ai performativi
austiniani. Nell’articolo per una tassonomia degli atti illocutori, Searle
evidenzia come le dichiarazioni, a differenza delle altre categorie di atti,
provochino delle modifiche dello status degli oggetti ai quali si riferiscono
soltanto in virtù del fatto che la dichiarazione è stata felicemente eseguita. Ad
ogni modo le convenzioni di cui dice Searle sono prettamente linguistiche e su
di esse si basa la possibilità stessa di eseguire atti linguistici.
! -> differenza con Austin: Austin richiamava a una convenzionalità
extralingusitica che prevedeva la possibilità di compiere atti convenzionali
tramite mezzi non linguistici.
La “condizione di sincerità” searleana si riferisce al fatto che il parlante deve
avere l’intenzione appropriata per l’esecuzione dell’atto.
Secondo la “condizione essenziale” vuole che l’enunciazione «prometto di fare
x» lo obblighi a fare x, connette così l’enunciazione con l’assunzione di un
obbligo.
Le “condizioni preparatorie” specificano la situazione contestuale e una serie
di presupposizioni riguardanti le intenzioni di parlanti e ascoltatori.
“Condizione del contenuto proposizionale” che specifica quale tipo di
proposizione un parlante debba esprimere. Non tutti gli atti illocutori però
hanno un contenuto proposizionale.

Searlee Austin: fare cose con le parole versus ciò che


facciamo parlando
Searle non si limita a proporre una tassonomia degli atti linguistici diversa da
quella di Austin ma colloca l’atto linguistico in un quadro teorico che tenta di
essere al contempo filosofico e linguistico. Nel farlo tiene conto di tutti gli
interventi fatti a riguardo dai suoi colleghi passati e contemporanei. Searle
concorda con Chomsky nel ritenere che le scienze del linguaggio debbano
esplicitare le regole sottostanti alla competenza del parlante. In questo caso
l’atto illocutorio searleriano diventa una proposta di una semantica
generativa. Lo studio degli atti linguistici va collocato all’interno della
semantica, dalle regole sottostanti al funzionamento degli atti linguistici
derivano le “condizioni di soddisfazione” degli atti linguistici. A ognuna delle
quattro condizioni di soddisfazione corrisponde una regola:
- regola del contenuto proposizionale
- Regola preparatoria
- Regola di sincerità
- Regola essenziale
Dette da Searle costitutive perché rivestono in ruolo fondamentale nella
costruzione dell’attività stessa.
In questi suoi lavori Searle è consapevole di aver proposto un modello
largamente idealizzato del funzionamento di un atto linguistico e sottolinea il
fatto che non solo è possibile un atto senza invocare un atto di esplicita forza
illocutoria ma anzi è più frequente una formulazione implicita tramite
espressioni del tipo «lo farò».
“Principio dell’esprimibilità” -> tutto ciò che si vuole poter dire può, in linea
di principio, essere detto. Tuttavia dobbiamo sapere distinguere tra quel che il
parlante vuole dire e i diversi tipi di effetti che egli intende produrre nei suoi
ascoltatori. Searle sembra ritenere essenziale che le regole che governano gli
atti linguistici acquisiscano la stessa precisione delle regole grammaticali o
sintattiche in modo che la presenza di un preciso elemento ci faccia capire
davanti a quale atto linguistico ci troviamo.
Searle non ritiene metodologicamente sicuro fare appello a dei verbi
illocutori.
Per quanto riguarda la struttura interna degli atti linguistici Searle parla di
“dispositivo (o indicatore) di forza illocutoria”.
Individua nell’atto illocutorio di Austin un “atto enunciativo (enunciazione di
morfemi e parole) e un “atto proposizionale” (consiste nel fare riferimento e
predicare, ossia parlare di qualcosa o di qualcuno, “Paolo” e connettervi un
predicato, “fuma”). Per eseguire un atto illocutorio dovrò per forza eseguire
entrambi questi atti.
L’atto proposizionale non può mai occorrere da solo ma implicherà sempre la
presenza di un atto illocutorio quale fare una promessa, effettuare una
richiesta o impartire un ordine.
Classificazione dei tipi illocutori di Searle:
• Rappresentativi o assertivi: impegnano il parlante sulla verità di
quanto asserito
• Direttivi: tentativi di indurre l’interlocutore a fare qualcosa
• Commisivi: impegnano il parlante a fare qualcosa nel futuro
• Espressivi: esprimono uno stato psicologico
• Dichiarativi: equivalgono ai perforativi austiniani

Atto, azione, attività


Una differenza curiale tra la visione di Austin e quella di Searle risiede nel
fatto che laddove Austin si interessa del fatto che parlando un linguaggio
facciamo qualcosa, Searle si interessa di ciò che facciamo parlando.
Austin: identificava gli atti di cui parla con delle azioni senza però mai
esplicitare una vera e propria teoria dell’azione
Searle: si occupa di dar conto del funzionamento dell’attività del linguaggio e
assume gli atti linguistici come le unità minime alla base della comunicazione.
Nozione di azione (1) e attività (2):
1) implica l’idea di una sequenza ordinata orientata verso un risultato (idea
centrale: produzione di un cambiamento)
2) Non ha necessariamente un ordine di svolgimento o un termine finale

Atto come attività: può essere assimilato al proferimento di un enunciato


conformemente a regole (Searle)
Atto come azione: contribuisce al raggiungimento di un risultato, alla
produzione di un effetto (Austin)
Serale distingue tra: atti che adattano la parola al mondo e atti che adattano
il mondo alla parola.
Il rapporto tra linguaggio e quelli che Searle chiama “fatti istituzionali”
(matrimonio, proprietà)è rintracciabile nell’evidenza che sia le istituzioni che
le lingue sono basate su regole costitutive (le lingue sono essenzialmente fatti
istituzionali).

Maria E. Conte ha proposto un interessante criterio di classificazione degli


atti linguistici che distingue atti di praxis e atti di poiesis, la prima è un’azione
che ha uno scopo immanente (es: passeggiare), la seconda è un’azione che
produce un risultato (es: costruire una casa). Alla base di questa proposta vi è
una critica delle varie classificazioni degli atti linguistici.

Searle: dalla loso a del linguaggio alla loso a della mente


Searle inizia a prospettare alcune modifiche nella sua teoria degli speech acts
che esplicano l’interdipendenza tra la filosofia del linguaggio e la filosofa della
mente:
1) la direzione di adattamento: indica se sia il mondo esterno a doversi
adattare alle parole o viceversa
2) Espressione degli stati psicologici: una persona che promette,
garantisce, fa voto, esprime l’intenzione di fare qualcosa
3) Relazioni con il resto del discorso: il contesto circostante
Searle estende la proprietà degli atti linguistici agli stati mentali intenzionali,
ossia a quegli stati mentali direzionati verso o relativi a stati di cose o oggetti
del mondo.
In sintesi, attraverso l’introduzione del concetto di ‘intenzionalità’, Serale
riesce ad effettuare quella connessione tra linguaggio e azione che mancava
nella formulazione originaria della dottrina degli atti linguistici. Attraverso la
nozione di “sfondo”, invece, Searle sembra recepire istanze tipiche della
tradizione antropologico-linguistica.

Capitolo 4. Comunicazione, mente e scienza


cognitiva: quadro di problemi
La scienza cognitiva ha portato avanti un programma di ricerca basato sul
considerare la mente come un software che gira nell’hardware/cervello,
studiando i processi cognitivi a livello di algoritmo, cioè valutandoli come una
computazione che può essere interamente esplicitata attraverso una serie di
regole molte semplici, ed individuandoli in base alla funzione che svolgono.
fi
fi
fi
fi
Ciò che conta è quindi come si realizzi, non che cosa. Grazie a queste
premesse è possibile identificare un certo processo senza doversi misurare
con ciò che realizza fisicamente la funzione in questione, mantenendo
autonoma la scienza cognitiva che preserva la dimensione mentale
nell’intuizione dualista. Dal momento che per la scienza cognitiva
comprendere qualcosa significa saperlo riprodurre si è a lungo cercato di
riprodurre un processo cognitivo che abbia le stesse prestazioni umane.
Per il funzionalismo filosofico inaugurato da Putnam negli anni sessanta, gli
stati mentali vanno considerati secondo la loro funzione all’interno della
mente che svolge un ruolo causale, intermediario, tra gli input sensoriali e gli
output comportamentali.
4.3
Gli stati mentali presentano la proprietà dell’intenzionalità. Si è soliti
distinguere un’intenzionalità del riferimento, che è la caratteristica di un
pensiero di vertere su un oggetto, da un’intenzionalità del contenuto,
semanticamente valutabile in termini di verità. Le lingue sono fornite di
indicatori sintattici che permettono di identificare gli stati intenzionali
attraverso categorie di verbi, nei termini di Russell atteggiamenti
proposizionali, che esprimono un atteggiamento verso un contenuto che è la
proposizione, ossia un’entità astratta che ha condizioni di verità ed è
indipendente dalla mente.
Gli atteggiamenti proposizionali sono gli elementi costitutivi della folk
psychology (psicologia del senso comune) che comprende il mindreading cioè
la possibilità di attribuire stati atteggiamenti proposizionali per comprendere
il comportamento degli altri e descriverlo in termini psicologici. Si parte
quindi dal comportamento risalendo agli stati mentali che lo hanno causato,
oppure si attribuiscono stati mentali nel caso della predizione del
comportamento: sono possibili così le generalizzazioni nomologiche, che
presentano la caratteristica di leggi, per stabilire nessi causali tra stati mentali
intenzionali e comportamenti. Si preserva in questo modo l’autonomia della
dimensione psicologico- intenzionale da qualsiasi riduzione in termini
materialistici, mantenendo il livello esplicativo della sfera mentale nello
spazio delle cause del livello funzionale.
4.4
Fodor è il principale fautore del realismo intenzionale che unisce la teoria
rappresentazionale della mente (gli atteggiamenti proposizionali sono
costituiti da rappresentazioni) con la teoria computazionale della mente (i
processi cognitivi sono computazioni che operano su quelle
rappresentazioni). Sia gli stati mentali che i simboli presentano proprietà
semantiche e proprietà causali: Fodor sfrutta questa analogia per spiegare gli
stati mentali sulla base della proprietà dei simboli. L’ipotesi è che i simboli
alla base delle prestazioni del sistema cognitivo costituiscano un linguaggio
del pensiero, o un mentalese. I simboli mentalesi si combinerebbero tra loro
spiegando la produttività (la creatività del linguaggio che produce frasi con
componenti finite) e sistematicità (la possibilità di produrre molte altre frasi)
del pensiero. Le rappresentazioni mentali degli stati intenzionali sono
espresse in strutture simboliche, cioè in simboli del linguaggio del pensiero,
che hanno la forma giusta per essere manipolate dalle computazioni mentali e
si riferiscono e sono causati inoltre da determinati aspetti del mondo. Si ha
così una naturalizzazione del mentale, che spiega l’intenzionalità sulla base
dell’ambito naturale, senza perdere per questo l’autonomia esplicativa
cognitiva, poiché i simboli fanno sempre parte dell’ambito mentale e la
formulazione resta di tipo astratto.
In merito alla possibilità di migliorare la teoria grazie all’integrazione delle
neuroscienze, Marconi si è espresso considerando la scienza cognitiva già
come una prima formulazione astratta di una spiegazione naturalistica del
mentale, che potrà essere soppiantata in futuro da una spiegazione
neuroscientifica più adeguata. Chomsky e Fodor considerano, invece, la
scienza cognitiva come scienza speciale fondata sul modello
rappresentazionale e computazionale, proponendola come psicologia
cognitiva.
4.5
La riduzione è la possibilità, tipicamente scientifica, di dedurre un insieme di
leggi di una teoria (la teoria ridotta) dall’insieme di leggi di un’altra (la teoria
riducente), in modo che un fenomeno di alto livello sia spiegato come un
prodotto causato da processi di basso livello. Il riduzionismo epistemologico è
la relazione tra due teorie attraverso l’individuazione di leggi-ponte che
rendano possibile la traduzione di asserzioni della teoria da ridurre in quella
di base. Nel dibattito della filosofia della mente una riduzione in senso stretto
del mentale al fisico è stata rifiutata da più tesi. Tra queste, quella del
monismo anomalo di Davidson e quella della realizzabilità multipla di
Putnam. Entrambi le tesi non sconfessano il fisicalismo, ma preservano il
mentale da una completa riduzione, portando così al fisicalismo
antiriduzionista.
4.6.7
Chomsky abbraccia invece il naturalismo metodologico, cioè la necessità di
procedere nello studio del linguaggio e della mente con gli stessi canoni e
metodi delle scienze naturali, che hanno ottenuto il progresso cognitivo più
importante in assoluto, criticando quindi il dualismo metodologico secondo il
quale dovremmo abbandonare i criteri del razionalismo scientifico quando
studiamo gli esseri umani “al di sopra del collo”.
Chomsky si è più volte richiamato al razionalismo e agli argomenti
dell’innatismo per criticare il comportamentismo. Promotori della psicologia
comportamentista furono gli studiosi Watson e Skinner, per cui lo studio del
mentale doveva prescindere dalla postulazione di entità mentali e basarsi, per
essere realmente scientifico, solo sui dati osservabili per ricavare leggi che
connettano classi di stimoli e classi di risposte. La mente è da questo punto di
vista una tabula rasa, di cui non possiamo sapere niente, scolpita
dall’esperienza.
Chomsky oppone a questo approccio l’argomento della povertà dello stimolo,
che considera assurdo che un bambino possa acquisire una competenza
linguistica tanto sistematica e complessa semplicemente dagli stimoli esterni
troppo banali e discontinui, senza postulare una qualche sorta di innatismo.
La facoltà di linguaggio si dimostra, per Chomsky, intesa come un sistema
innato di principi e regole che presiede alla produzione e comprensione
linguistica, rendendo la linguistica una branca della psicologia. Questa facoltà
presenta tuttavia uno stato iniziale prodotto dal corredo biologico: ogni
bambino nasce con una predisposizione innata ad acquisire una qualsiasi
lingua grazie ad un insieme di regole che fanno parte della grammatica
universale. Secondo la teoria dei principi e dei parametri, i principi
costituiscono la grammatica universale, fissati per tutti dalla nascita, mentre i
parametri sono le possibilità predisposte della grammatica universale affinché
siano fissate regole specifiche in base alla lingua particolare incontrata
nell’ambiente. Per Chomsky vi è dunque un’unica lingua, e le molteplici
lingue sono valutate solo come un’unica variazione sul tema.
A queste tesi si accompagna e si integra quella modularista riguardante
l’architettura dei dispositivi mentali. I moduli sono blocchi di conoscenze di
regole volte a sviluppare una determinata capacità cognitiva (nel caso del
linguaggio il modulo è proprio la grammatica universale). Fodor propone una
teoria leggermente diversa, parlando di modulo computazionale, che
appartiene ai soli sistemi periferici della mente ad esempio quelli legati ai
processi percettivi.
L’approccio di Chomsky si è sviluppato negli anni fino a pervenire a quello
che viene definito programma minimalista per cui il sistema linguistico deve
essere il più economico possibile, di conseguenza per spiegarlo bisogna usare
l’insieme di strumenti il più piccolo possibile. Inoltre, introduce nel 2002 le
definizioni di FLN, cioè la facoltà del linguaggio in senso stretto, incastonata
nella FLB, cioè quella in senso ampio, che comprenderebbe anche una parte
relativa al suono (il sistema senso-motorio che elabora i segnali fonico-
acustici) una relativa al significato (il sistema concettuale-intenzionale che
elabora significati). Tuttavia, solo la FLN permette la produzione di enunciati
sulla base della combinabilità dei suoi costituenti. Questo avviene grazie alla
Merge, ossia la più semplice operazione combinatoria che unisce due oggetti
costruendone uno nuovo.
4.8.9
Alcune posizioni teoriche si sono distinte riguardo all’evoluzione del
linguaggio verbale e la rilevanza della sua funzione comunicativa:
• l’approccio chomskyano afferma che essa non si è evoluta sulla base della
selezione naturale, sfruttando alcune posizioni di naturalisti come Stephen
Jay Gould (contrapposti agli ultradarwinisti come Richard Dawkins) che
introdusse il concetto di exaptation, in cui un carattere evoluto per una
particolare funzione ne assume una nuova. Così per Chomsky il linguaggio si
è evoluto per il pensiero interno e la pianificazione e solo dopo è stato
cooptato per la comunicazione. La FLN, troppo complessa per essere il
risultato di un’evoluzione graduale, sarebbe quindi un effetto secondario di
meccanismo destinato ad altri scopi, ciò che Chomsky chiama Merge, in grado
di produrre strutture mentali gerarchicamente strutturate. Infine, la FLN è
divenuto un modulo per collegare diversi moduli mentali, come quello senso-
motorio a quello concettuale-intenzionale.
• Pinker, Bloom e Sperber, sempre all’interno del cognitivismo, diversamente
da Chomsky affermano una tesi adattazionista, secondo cui il linguaggio si è
adattato proprio grazie alla selezione naturale per il fine comunicativo, e
soprattutto in modo graduale che è quello che spiega la sua complessità.
• per Deacon, Tomasello e altri, il linguaggio è invece una manifestazione di
altre capacità cognitive (ma solo queste modellate dalla selezione naturale),
come la capacità simbolica o i meccanismi di imitazione e condivisione di
intenzioni.
• Bickerton cercò di coniugare alcuni aspetti della prospettiva chomskyana
con elementi di impianto darwiniano: introduce il concetto di
protolinguaggio, un linguaggio molto semplice che si sarebbe poi evoluto nel
linguaggio vero e proprio, che ha portato un radicale cambiamento
nell’articolazione del pensiero. Per Bickerton, all’opposto di Chomsky, il
pensiero ha reso possibile il linguaggio.
4.10
La scienza cognitiva odierna considera il linguaggio nella sua funzione
comunicativa, ma solo nel senso che i processi comunicativi rappresentano il
risultato finale della funzione essenziale del linguaggio in quanto strumento,
cioè quella di esprimere pensieri prodotti dalla mente, tesi classica del
cognitivismo. All’altro estremo c’è il principio di formatività di Saussure e
Humboldt che considera il linguaggio essenziale per la stessa formazione dei
pensieri. Questa dipendenza concettuale del pensiero dal linguaggio è stata
sostenuta anche da alcuni esponenti della filosofia analitica come Davidson,
Dummett e McDowell.
Sta di fatto che nessun autore cognitivista ha mai affermato una radicalità
della funzione comunicativa, cioè la totale indipendenza del pensiero dal
linguaggio, poiché chiaramente indispensabile nella formazione di almeno
alcuni concetti (come quelli di elettrone o DNA).
4.11.12
Per molti autori è chiaro come il linguaggio non basti per esplicitare l’effettivo
funzionamento dei processi comunicativi. A questo proposito, Grice
differenzia il sentence’s meaning cioè il significato letterale dell’enunciato
dallo speaker’s meaning, ciò che è effettivamente inteso dal locutore, grazie al
quale possiamo arrivare solo ad inferenze non dimostrative, implicature, che
sfruttano tutte le informazioni possibili nel contesto.
Sperber e Wilson, partendo dalla massima della pertinenza di Grice, hanno
elaborato la teoria della pertinenza, che sfrutta i processi inferenziali per
esplicitare il modo in cui la mente sceglie le informazioni adeguate al
raggiungimento di certi scopi. Importanti sono le metarappresentazioni, cioè
mentalizzazioni del comportamento altrui (fornite dal TOMM, un modulo
mentale che giunge a maturazione verso i quattro anni).
La fama di Sperber e Wilson è tuttavia dovuta al loro modello ostensivo-
referenziale della comunicazione. Esso si realizza attraverso due livelli: c’è
un’intenzione informativa che vuole informare il destinatario di uno stato di
cose ed un’intenzione comunicativa, che consiste nel manifestare l’intenzione
di voler comunicare un’informazione. La comunicazione è dunque ostensiva
poiché il comunicatore vuole che il destinatario riconosca la sua intenzione
comunicativa, creando un’aspettativa di pertinenza; è inferenziale poiché il
destinatario compie inferenze per cogliere l’intenzione comunicativa, il suo
“voler dire”.
Si ha così un ribaltamento delle posizioni cognitiviste: la comunicazione non
si riduce al codice, ma è essenzialmente riconoscimento di intenzioni e può
determinarsi anche in assenza completa di codice.
4.13
Il dilemma evolutivo precedentemente introdotto sembra oggi risolto da
Sperber e Origgi che includono anche qui la comunicazione inferenziale. Il
linguaggio si sarebbe evoluto nei nostri antenati perché essi erano già
impegnati in una comunicazione inferenziale e quindi anche in un
mindreading. Tutta la comunicazione umana diventa così effetto della
capacità metarappresentazionale, che si sviluppa nelle specie che hanno a che
fare con la cooperazione, e fornendo una giustificazione in termini gradualisti
della complessità sintattico-formale del linguaggio. Questo perde quindi la
sua accezione di strumento indifferente di pensieri preformati, definendosi
come un meccanismo in grado di rendere più articolata e sofisticata ogni
capacità di mentalizzazione.

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