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Il Mulino - Rivisteweb

Massimiliano Vignolo
Sull’olismo semantico
(doi: 10.1413/16651)

Rivista di filosofia (ISSN 0035-6239)


Fascicolo 3, dicembre 2004

Ente di afferenza:
Università di Firenze (unifi)

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MASSIMILIANO VIGNOLO

Sull’olismo semantico

I. Jerry Fodor e Ernest Lepore hanno sostenuto, in Ho-


lism: A Shopper’s Guide1, che l’olismo riguarda le proprietà
semantiche, come avere un certo significato e riferirsi a una
certa cosa, le quali possono essere atomiche, anatomiche o
olistiche. Una proprietà è atomica se può essere esemplifica-
ta da una sola cosa, come la proprietà di essere un tavolo;
è anatomica se per esemplificarla è necessaria più di una
cosa, come la proprietà di avere un fratello; è olistica se
per esemplificarla sono necessarie moltissime cose, o addirit-
tura infinite, come la proprietà di essere un numero natura-
le. L’idea che le proprietà semantiche siano o atomiche o
anatomiche o olistiche dipende dal tipo di teoria del signifi-
cato che si propone. Esistono tre principali teorie del signi-
ficato: quelle vero-condizionali ispirate al programma di
Donald Davidson; quelle fisicalistiche ispirate alla semanti-
ca informazionale; quelle del ruolo concettuale. In genera-
le, le semantiche vero-condizionali implicano l’olismo,
quelle fisicalistiche l’atomismo e quelle del ruolo concet-
tuale l’anatomismo.
Secondo Davidson, una teoria del significato è una teoria
dell’interpretazione radicale, che consente di interpretare in
una lingua nota una lingua del tutto sconosciuta specificando
le condizioni di verità dei suoi enunciati. Secondo questa teo-
ria non è possibile individuare fatti isolati che consentano di
interpretare le espressioni della lingua ignota in quelle della
lingua nota; al contrario, ogni corrispondenza dovrà coinvol-
gere tutte le espressioni.

1 Cfr. J. Fodor – E. Lepore, Holism: A Shopper’s Guide, Oxford,


Blackwell, 1992, p. 1.

RIVISTA DI FILOSOFIA / vol. XCV, n. 3, dicembre 2004


494 Massimiliano Vignolo

Le teorie fisicalistiche2 fanno dipendere il significato delle


espressioni linguistiche dal contenuto degli stati psicologici e
offrono una definizione riduzionistica delle nozioni semanti-
che primitive. La nozione principale impiegata nelle riduzioni
è quella di covarianza. Uno stato psicologico acquisisce un
contenuto se si trova in una relazione causale con una pro-
prietà in base alla quale le esemplificazioni della proprietà
causano l’occorrenza dello stato psicologico: in questo caso si
dice che la proprietà e lo stato psicologico covariano. Le teo-
rie fisicalistiche sono atomistiche: in esse la relazione di cova-
rianza tra una proprietà e l’occorrenza di uno stato psicologi-
co è indipendente dall’esistenza di altri stati psicologici dotati
di contenuto. Secondo i fisicalisti è possibile immaginare
l’esistenza di un unico stato psicologico dotato di contenuto,
cioè possiamo concepire coerentemente un sistema provvisto
di un unico stato rappresentazionale, un sistema, come lo
chiama Fodor, «puntuato»3.
Le teorie del ruolo concettuale4 sono, come si è già osser-
vato, teorie anatomistiche. Secondo queste teorie il significato
di un’espressione linguistica sopravviene rispetto alle regolari-
tà di uso con cui l’espressione è impiegata nell’esercizio di
capacità inferenziali e referenziali. Che un’espressione abbia
un significato dipende dal fatto che alcune altre espressioni
siano dotate di significato, ma non dal fatto che ne siano do-
tate tutte le espressioni appartenenti alla medesima lingua. Il
problema principale di questo tipo di teoria sta nel distingue-
re gli usi costitutivi da quelli che tali non sono. Senza questa
distinzione la proposta delle semantiche del ruolo concettuale
scivolerebbe nell’olismo.

2 Due tra gli autori più rappresentativi del fisicalismo sono Fred
Dretske (Knowledge and the Flow of Information, Oxford, Blackwell, 1981)
e Jerry Fodor (Psychosemantics, Cambridge, Mass., MIT Press, 1987, trad.
it. di G. Farabegoli con il titolo Psicosemantica, Bologna, Il Mulino, 1990).
3 Cfr. J. Fodor – E. Lepore, Holism: A Shopper’s Guide, cit., p. 1.
4 Tra i principali sostenitori della semantica del ruolo concettuale si
possono annoverare Ned Block (Advertisement for a Semantics for Psycholo-
gy, «Midwest Studies in Philosophy», vol. X, 1986, pp. 615-78), Gilbert
Harman ((Nonsolipsistic) Conceptual Role Semantics, in New Directions in
Semantics, a cura di E. Lepore, London, Academic Press, 1987, pp. 58-81),
Brian Loar (Mind and Meaning, Cambridge, Cambridge University Press,
1981) e Paul Horwich (Meaning, Oxford, Clarendon Press, 1998).
Sull’olismo semantico 495

L’opinione che una tale distinzione possa essere legittimata


soltanto accettando la nozione di analiticità, insieme alla criti-
ca di Quine alla nozione di analiticità, hanno condotto Fodor
e Lepore alla formulazione del seguente argomento:

(a) se un’espressione E ha un significato, allora esiste una


espressione E* che deve avere un significato affinché E abbia
il significato che ha;
(b) non c’è modo di individuare le espressioni che devono
avere un significato affinché E abbia il significato che ha;
(c) il fatto che E abbia il significato che ha dipende dal
fatto che tutte le altre espressioni hanno il significato che
hanno.

Accettare (a) equivale ad assumere la tesi dell’anatomismo,


e da questa segue la tesi dell’olismo (c). Gli olisti ritengono
che l’argomento sia valido e corretto. Gli atomisti ritengono
che sia valido ma non corretto, e denunciano la falsità della
premessa (a). Gli anatomisti devono invece far valere la falsi-
tà di (b). Ma essi non possono appellarsi alla distinzione tra
analitico e sintetico. Dopo Quine i filosofi per lo più hanno
abbandonato la nozione di analiticità, secondo la quale un
enunciato analitico è vero in virtù solo del suo significato.
Gli argomenti di Quine5 hanno condotto al principio episte-
mologico dell’olismo della conferma, secondo cui ciò che vale
come giustificazione di un enunciato dipende dalla rete di
conoscenze e di teorie a nostra disposizione. Se queste ultime
cambiano, allora cambia anche ciò che vale come giustifica-
zione per l’enunciato, e non esistono enunciati immuni da re-
visione.
L’olismo della conferma pone un problema alle teorie del
ruolo concettuale. L’uso delle parole nelle inferenze e la loro
applicazione in condizioni di stimolazione sensoriale costitui-
scono proprio ciò che conta come giustificazione degli enun-
ciati: ma questo, secondo l’olismo della conferma, dipende
dall’intero complesso di conoscenze e quindi dall’intero lin-

5 Cfr. W.V.O. Quine, Two Dogmas of Empiricism, in From a Logical


Point of View, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1953, trad. it.
di E. Mistretta in Il problema del significato, Roma, Ubaldini, 1966, pp. 20-
45.
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guaggio. Se non si possono isolare usi inferenziali e referen-


ziali privilegiati, in quanto immuni da revisione, si deve con-
cludere che non ci sono usi costitutivi del significato. Questo
argomento è stato criticato da alcuni, tra i quali Cesare Coz-
zo, che si propone di individuare una nozione che consenta
di fissare gli usi costitutivi pur accettando l’olismo della con-
ferma6.
La proposta di Cozzo consiste nell’identificare gli usi costi-
tutivi con le occorrenze delle parole in quegli enunciati (e in-
ferenze) la cui verità (e validità) non è necessario e neppure
possibile giustificare per mezzo di argomenti. Ci sono appli-
cazioni di parole che riteniamo corrette senza il bisogno di
giustificazione; e consideriamo la devianza da tali usi come
un criterio per giudicare la competenza dei parlanti. Sono
giudicati competenti soltanto quei parlanti il cui comporta-
mento linguistico si accorda con tali usi. Per esempio, di un
parlante che si rifiutasse di asserire «questo è rosso» in certe
condizioni favorevoli di stimolazione sensoriale o di inferire
«questo non è verde» da «questo è rosso» diremmo che non
conosce il significato di «rosso». In breve, secondo Cozzo, un
uso inferenziale o referenziale è costitutivo se i parlanti com-
petenti si adeguano a tale uso senza né la necessità né la
possibilità di fornirne una giustificazione e se trattano ogni
devianza da tale uso come prova della mancanza di compren-
sione.

II. Il principio di composizionalità afferma che il signifi-


cato di un’espressione complessa dipende dal significato delle
espressioni componenti e dal modo di composizione. Inter-
pretati come principi di determinazione metafisica del signifi-
cato, composizionalità e olismo sembrano essere in tensione:
la prima riconosce che il significato di un’espressione dipen-
de dai significati che la compongono, il secondo stabilisce
che il significato di una qualsiasi espressione dipende dai si-
gnificati di tutte le altre espressioni, non soltanto di quelle
componenti. Viene così a mancare l’ordine della determina-
zione richiesto dalla composizionalità, secondo cui la determi-

6 Cfr. C. Cozzo, Does Epistemological Holism Lead to Meaning-Holism?,


«Topoi», XXI, 2002, pp. 25-45.
Sull’olismo semantico 497

nazione del significato delle espressioni semplici è anteriore a


quella del significato delle espressioni complesse.
A questo proposito Peter Pagin propone due soluzioni7.
La prima consiste nel negare che la composizionalità sia un
principio metafisico di determinazione del significato. Essa
non sarebbe nulla più che una funzione matematica la quale
ha come dominio l’insieme dei significati delle espressioni
semplici e come codominio l’insieme dei significati delle
espressioni complesse. Questa soluzione contrasta però con il
ruolo esplicativo che la composizionalità svolge all’interno di
teorie olistiche come quelle vero-condizionali alla Davidson.
La composizionalità ci permette infatti di escludere le teorie
vero-condizionali che, pur essendo estensionalmente corrette,
non possono essere accettate come teorie del significato. Ad
esempio, una teoria vero-condizionale che inferisse il teorema
«“snow is white” è vero se e solo se l’erba è verde» sarebbe
estensionalmente corretta, ma come teoria del significato sa-
rebbe falsa: la struttura composizionale ce ne mostra la falsi-
tà. Secondo la composizionalità i contributi di «snow» e di
«white» alle condizioni di verità di «snow is white» devono
essere gli stessi per tutti gli altri enunciati come «this is whi-
te», «this is snow», «snow is cold», e via dicendo; una teoria
che interpretasse «snow» con «erba» e «white» con «verde»
sarebbe falsificata, poiché fornirebbe condizioni di verità sba-
gliate per alcuni di tali enunciati. Se però la composizionalità
svolge questo ruolo esplicativo, allora dev’essere interpretata
proprio come principio metafisico che riguarda la natura del
significato.
La seconda soluzione di Pagin rispetta la lettura metafisica
della composizionalità. Essa suppone che l’interdipendenza oli-
stica del significato valga soltanto per le espressioni semplici. Il
significato di ciascuna espressione semplice è determinato in
maniera olistica dal significato di tutte le altre espressioni sem-
plici. Ma non è necessario che il significato delle espressioni
semplici dipenda dal significato delle espressioni complesse. Al
contrario, i significati delle espressioni complesse dipendono
dai significati delle espressioni semplici in accordo con la com-
posizionalità. Pagin illustra questa proposta nel modo seguente:

7 Cfr. P. Pagin, Is Compositionality Compatible with Holism?, «Mind


and Language», XII, 1997, pp. 11-33, trad. it. in Olismo, a cura di M.
Dell’Utri, Macerata, Quodlibet, 2002, pp. 113-42.
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si consideri una lingua L, si scelga una espressione complessa


E di L e si escludano da L tutte le espressioni che contengo-
no E: si ottiene così una sottoclasse L* di L. Ogni espressio-
ne di L* ha lo stesso significato che aveva in L. Dunque, L*
conserva la semantica che aveva come sottoclasse di L, e i si-
gnificati delle espressioni di L* sono indipendenti dai significa-
ti delle espressioni che sono state sottratte. Inoltre, se si ag-
giungono a L* come semplici oggetti sintattici le espressioni
sottratte, esse ricevono i significati che avevano in L.
Un problema distinto riguarda le teorie anatomistiche,
come la semantica del ruolo concettuale, secondo cui il signi-
ficato di un’espressione dipende dalle sue occorrenze in certi
enunciati impiegati nell’esercizio di capacità inferenziali e re-
ferenziali. Secondo il principio di composizionalità, il signifi-
cato di un enunciato dipende dai significati delle espressioni
che lo compongono. Ma come può questo essere spiegato da
un anatomista che accetta la semantica del ruolo concettuale?
La risposta di Cozzo8 è che il sostenitore dell’anatomismo
può fare appello al principio di composizionalità per la de-
terminazione del significato della maggior parte degli enun-
ciati, ma non di tutti. Il significato degli enunciati che fissano
gli usi costitutivi è infatti determinato insieme al significato
delle espressioni che vi occorrono.
La semantica del ruolo concettuale incorre in un’altra dif-
ficoltà. Tra gli usi costitutivi del significato di certe parole ci
sono capacità di riconoscimento di casi paradigmatici del loro
riferimento. Fodor e Lepore ritengono che le capacità refe-
renziali e la composizionalità siano incompatibili9. La loro ar-
gomentazione procede come segue:

(1) i significati obbediscono alla composizionalità;


(2) le capacità referenziali non obbediscono alla composi-
zionalità;
(3) le capacità referenziali non possono essere utilizzate
per fissare gli usi costitutivi del significato.

8 Cfr. C. Cozzo, Olismo epistemologico senza olismo linguistico, in Oli-


smo, cit., pp. 179-230.
9 Cfr. J. Fodor – E. Lepore, The Red Herring and The Pet Fish: Why
Concepts Still Can’t Be Prototypes, «Cognition», LVIII, 1994, pp. 257-70, e
J. Fodor, There Are No Recognitional Concepts; Not Even Red, «Philo-
sophical Issues», IX, 1999, pp. 1-14.
Sull’olismo semantico 499

La tesi (2) è sostenuta mostrando la possibilità che un


parlante applichi correttamente due espressioni, senza però
essere in grado di riconoscere casi paradigmatici del riferi-
mento dell’espressione che si ottiene componendo le due
espressioni. Fodor presenta questo esempio: un parlante po-
trebbe riconoscere casi paradigmatici del riferimento di «fish»
e di «pet» senza perciò saper riconoscere casi paradigmatici
di «pet fish». Occorre osservare che il problema posto da (2)
si basa sul principio – che Fodor chiama di «uniformità» –
secondo cui l’uso costitutivo del significato di un’espressione
complessa, formata da espressioni i cui usi costitutivi richie-
dono l’esercizio di capacità referenziali, deve richiedere a sua
volta l’esercizio di capacità referenziali.
Contro il principio di uniformità è stato sostenuto, per
esempio da parte di Paul Horwich10, che padroneggiare l’uso
costitutivo di un’espressione complessa richiede che si padro-
neggino gli usi costitutivi delle espressioni componenti e che
si conosca (implicitamente) lo schema di composizione. Per
esempio, per comprendere l’espressione «black dog» sarebbe
sufficiente conoscere gli usi costitutivi delle espressioni
«black» e «dog», e saper usare lo schema di composizione
«nome + aggettivo». La proposta di Horwich consente a
Christopher Peacocke11 di sostenere che, se le circostanze in
cui si esercitano le capacità di riconoscimento dei riferimenti
delle espressioni componenti coincidono, allora anche l’uso
costitutivo dell’espressione complessa richiede l’esercizio di
capacità di riconoscimento. Un esempio di questo tipo è
l’espressione «black dog». Ci sono però casi in cui le circo-
stanze di riconoscimento non coincidono. Consideriamo
l’espressione «glowing thing» (= cosa che irradia una luce
rossa e tenue) e l’espressione «reduv» che si applica alle cose
che appaiono rosse alla luce ultravioletta. Le circostanze in
cui applichiamo l’espressione «glowing thing» sono diverse
dalle circostanze in cui applichiamo l’espressione «reduv».
L’espressione complessa «reduv glowing thing» non è tale
che coloro che la padroneggiano devono essere in grado di

10 Cfr. P. Horwich, The Composition of Meanings, «The Philosophical


Review», CVI, 1997, pp. 503-31, e Concept Constitution, «Philosophical Is-
sues», IX, 1998, pp. 15-19.
11 Cfr. C. Peacocke, Fodor on Concepts: Philosophical Aspects, «Mind
and Language», XV, 2000, pp. 327-40.
500 Massimiliano Vignolo

applicarla in certe circostanze. In circostanze normali si può


saper applicare «glowing thing» ma non «reduv», e sotto la
luce ultravioletta si può sapere applicare «reduv» ma non
«glowing thing». Una volta rifiutato il principio di uniformità
il passaggio da (2) a (3) è bloccato. Dal fatto che le capacità
referenziali non sempre obbediscono alla composizionalità,
non consegue che non siano mai costitutive del significato.

III. Secondo l’olismo, il cambiamento del significato di


una qualsiasi parte del linguaggio produce un cambiamento
più o meno diretto in ogni altra parte del linguaggio. Ciò mi-
naccia la stabilità diacronica del significato: diventa difficile
stabilire in quale misura i significati cambiano, e in quale mi-
sura il parlante singolo e la comunità linguistica continuano a
usare il linguaggio con gli stessi significati nel corso del tem-
po. Inoltre, diventa difficile assicurare la comprensione e la
comunicazione. Non si ha comprensione se non si ha la com-
pleta padronanza dell’intero linguaggio, che però difficilmente
si può acquisire se il linguaggio è in continuo cambiamento.
Non si può comprendere ciò che un altro parlante dice se
non si comprende il linguaggio che usa, e senza comprensio-
ne reciproca non può esservi comunicazione.
Queste obiezioni si fondano sull’idea che la stabilità dia-
cronica del significato, la comprensione e la comunicazione
siano processi del tipo tutto o niente che non ammettono
sviluppi per gradi. Contro questa idea si sono pronunciati al-
cuni sostenitori dell’olismo come James Young, Eric Lor-
mand e Pagin12, i quali suggeriscono di parlare di «gradi di
significato».
Lormand propone di suddividere il significato di
un’espressione in unità semantiche. Consideriamo, per esem-
pio, l’espressione «oro»: in essa c’è un’unità semantica che
interessa ai chimici, un’altra che interessa ai gioiellieri, un’al-
tra che interessa ai direttori di banca, un’altra che interessa
agli atleti, ecc. Pur costituendo nel loro complesso il signifi-

12 Cfr. J. Young, Holism and Meaning, «Erkenntnis», XXXVII, 1992,


pp. 309-25; E. Lormand, How to Be a Meaning Holist, «The Journal of
Philosophy», XCIII, 1996, pp. 51-73; P. Pagin, Is Compositionality Compa-
tible with Holism?, cit.
Sull’olismo semantico 501

cato di «oro», queste unità semantiche godono di una certa


autonomia, nel senso che una può cambiare senza che neces-
sariamente cambino tutte le altre. Quando parliamo del cam-
biamento del significato di un’espressione ci riferiamo al
cambiamento di una o più delle sue unità semantiche. Secon-
do le teorie olistiche è certamente vero che, se il linguaggio
cambia in qualche sua parte, allora esso cambia in ogni sua
parte. Ma possono cambiare soltanto alcune delle unità se-
mantiche che costituiscono il significato delle espressioni. Se
non cambiano tutte, allora è possibile stabilire una certa mi-
sura di stabilità del significato. Per avere stabilità diacronica
del significato è sufficiente che la maggior parte delle unità
semantiche che formano il significato di un’espressione ri-
mangano invariate. Per lo più questo è ciò che accade di fat-
to: i cambiamenti del linguaggio sono graduali e riguardano
singoli aspetti del significato delle espressioni, non il loro si-
gnificato nella sua totalità.
L’interdipendenza dei significati rende di fatto impossibile
acquisire la padronanza di una lingua in tutte le sue parti.
Ma ciò pone un problema soltanto se si accetta l’idea che si
padroneggia una lingua a condizione che si conoscano i si-
gnificati di tutte le sue espressioni. Young, Lormand e Pagin
concedono che è impossibile che un parlante conosca il signi-
ficato di tutte le espressioni di un linguaggio. Allo stesso
tempo, però, sostengono che per parlare una lingua non è ri-
chiesta una conoscenza di questo tipo. La padronanza della
lingua da parte del parlante può essere parziale, ed è ragio-
nevole supporre che lo sia per tutti i parlanti. L’obiezione,
dunque, è fondata su una concezione della comprensione del
tipo tutto o niente. Questa concezione appare particolarmente
controintuitiva, soprattutto alla luce dei fenomeni della divi-
sione del lavoro linguistico e della deferenza. Spesso i parlan-
ti usano alcune – o molte – espressioni linguistiche senza pa-
droneggiare pienamente il loro significato, a condizione, però,
che nella stessa comunità linguistica ci siano altri parlanti più
esperti e pienamente competenti sul significato di quelle
espressioni.
Neppure i sostenitori dell’anatomismo accettano una no-
zione di comprensione del tipo tutto o niente. Sul piano me-
tafisico, infatti, l’anatomismo afferma che, se un’espressione
ha un significato, allora esistono altre espressioni che devono
avere un significato. Ma se passiamo al piano epistemologico
502 Massimiliano Vignolo

della comprensione, possiamo fornire un’interpretazione più


debole: se un parlante comprende un’espressione, allora è ne-
cessario che esistano altre espressioni che egli comprende,
non già che esistano espressioni il cui significato egli deve
conoscere. Sul piano epistemologico, a un parlante che cono-
sce il significato di un’espressione non è richiesto di conosce-
re il significato di tutte le espressioni che contribuiscono a
fissarne gli usi costitutivi; è necessario, però, che conosca il
significato di alcune di esse. Ciò equivale ad accettare la no-
zione di comprensione parziale.
L’altra obiezione contro l’olismo si fonda sul presupposto
che parlante e ascoltatore debbano conoscere gli stessi signifi-
cati. Tuttavia, considerata la natura parziale della comprensio-
ne, l’identità dei significati diventa una condizione difficil-
mente realizzabile. Occorre indebolire tale condizione sosti-
tuendola con una nozione di somiglianza: affinché due par-
lanti possano comunicare è sufficiente che i significati che
conoscono siano abbastanza simili. La comunicazione da tra-
smissione di significati identici diventa così la convergenza
delle competenze dei singoli parlanti.

IV. Una difficoltà di fondo s’incontra sia nelle teorie oli-


stiche sia nelle teorie atomistiche del significato. Si tratta del
problema dell’indeterminatezza del riferimento formulato da
Quine, che all’interno di quelle teorie conduce all’indetermi-
natezza del significato.
Le teorie olistiche ispirate al programma di Davidson ri-
corrono alla composizionalità per risolvere il problema delle
teorie estensionalmente equivalenti. I T-enunciati – cioè gli
enunciati del metalinguaggio con cui si attribuiscono le con-
dizioni di verità agli enunciati del linguaggio-oggetto, per
esempio, «“snow is white” è vero se e solo se la neve è bian-
ca» – non devono semplicemente essere estensionalmente
corretti; devono anche essere derivati dagli assiomi della teo-
ria sfruttando la struttura composizionale degli enunciati. Le
derivazioni devono mostrare in quale modo le proprietà se-
mantiche degli enunciati sono determinate dalle proprietà se-
mantiche delle espressioni che li formano insieme alla struttu-
ra sintattica. Secondo Davidson, nessuna teoria in cui fosse
possibile derivare «“snow is white” è vero se e solo se l’erba
è verde» potrebbe descrivere correttamente la struttura com-
Sull’olismo semantico 503

posizionale di tutti gli enunciati in cui «snow» e «white» oc-


corrono. Una teoria fondata sugli assiomi «“snow” si riferisce
a erba» e «“white” si applica alle cose verdi» fornirebbe con-
dizioni di verità erronee per alcuni enunciati, come «this is
snow» e «this is white». Ma Davidson si sbaglia: non è vero
che esista un’unica teoria che sia estensionalmente corretta e
descriva correttamente la struttura composizionale fornendo
condizioni di verità empiricamente adeguate. Quine13 e Hilary
Putnam14 hanno mostrato che esistono schemi di riferimento
incompatibili ma tutti ugualmente corretti. Distorcendo uno
schema di riferimento per mezzo di una permutazione del-
l’universo di discorso, ovvero ridistribuendo i valori semantici
di tutte le espressioni, si ottengono schemi di riferimento che
preservano i valori di verità di tutti gli enunciati. Poiché non
riusciamo a isolare l’unico schema di riferimento corretto, il
riferimento risulta indeterminato. Se la teoria vero-condizio-
nale è intesa come una teoria del significato, otteniamo l’in-
determinatezza del significato.
Un tentativo di soluzione è quello delle teorie fisicalisti-
che. La nozione di riferimento viene ridotta per mezzo di no-
zioni causali come quella di covarianza. Tuttavia si pone un
problema anche per le teorie fisicalistiche: esistono proprietà
che, pur essendo necessariamente coesemplificate, si applica-
no a cose diverse: per esempio la proprietà di essere un coni-
glio e la proprietà di essere una parte non separata di coni-
glio. Se un’espressione covaria con la prima proprietà allora
covaria anche con la seconda, sebbene le due proprietà si ap-
plichino a cose diverse. La covarianza da sola non ci permet-
te di discriminare quale delle due proprietà costituisce il si-
gnificato.

13 Cfr. W.V.O. Quine, Word and Object, Cambridge, MIT Press,


1960, trad. it. di F. Mondadori con il titolo Parola e oggetto, Milano, Il
Saggiatore, 1970, e Ontological Relativity and Other Essays, New York, Co-
lumbia University Press, 1969, trad. it. di M. Leonelli con il titolo La rela-
tività ontologica ed altri saggi, Roma, Armando, 1986.
14 Cfr. H. Putnam, Realism and Reason, in Meaning and the Moral
Sciences, London, Routledge and Kegan Paul, 1978, pp. 123-38; Models
and Reality, «Journal of Symbolic Logic», XLV, 1980, pp. 464-82; A
Problem about Reference, in Reason, Truth and History, Cambridge,
Cambridge University Press, 1981, pp. 22-48, trad. it. di A.N. Radicati
di Brozolo in Ragione, verità e storia, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp.
29-56.
504 Massimiliano Vignolo

Fodor propone la seguente soluzione15. Supponiamo di


dover interpretare le espressioni «triangolo» e «quadrato».
Consideriamo i seguenti schemi di riferimento: (a) «triango-
lo» è soddisfatto da un oggetto o se e solo se o è un triango-
lo; «quadrato» è soddisfatto da un oggetto o se e solo se o è
un quadrato; (b) «triangolo» è soddisfatto da un oggetto o se
e solo se o è la parte non separata di un triangolo; «quadra-
to» è soddisfatto da un oggetto o se e solo se o è la parte
non separata di un quadrato. Il suggerimento di Fodor è che
possiamo mettere in pratica il seguente test: indichiamo la
parte di un triangolo che si sovrappone a un quadrato e as-
seriamo:

(1) quello è un triangolo;


(2) quello è un quadrato.
Se i parlanti danno il proprio assenso a entrambe le asser-
zioni, allora possiamo escludere (a): il test assume che i par-
lanti siano consapevoli del fatto che usiamo il dimostrativo
«quello» per riferirci allo stesso oggetto. L’assunto presuppo-
ne la determinatezza del riferimento di «quello» e ciò vizia il
test di circolarità. Fodor propone allora una modifica del
test. Questa volta indichiamo la medesima parte del triangolo
e asseriamo:

(3) quello è un triangolo e un quadrato.

Se i parlanti danno il loro assenso a (3), allora possiamo


escludere (a). Per eseguire questo test dobbiamo assumere
che i parlanti usino «e» come la congiunzione per predicati.
Secondo Fodor, che un’espressione sia usata come congiun-
zione per predicati può essere verificato osservando le infe-
renze che i parlanti compiono. Per esempio, se «A» è un ter-
mine singolare e «F» e «G» sono predicati e «*» sta per la
congiunzione di predicati, allora i parlanti devono considera-
re le seguenti inferenze come valide:

(i) A è F*G (ii) A è F e A è G


AèFeAèG A è F*G

15 Cfr. J. Fodor, The Elm and the Expert, Cambridge, Mass., MIT
Press, 1994.
Sull’olismo semantico 505

Per eseguire il test occorre usare dei dimostrativi e garan-


tire che le loro occorrenze in (ii) siano coreferenziali. Fodor
pone perciò la condizione che i parlanti siano disposti a dare
il loro assenso a «A è F*G» prima di inferirlo da «A è F e
A è G». Se i parlanti considerano valide le inferenze (i) e (ii)
sotto la condizione suddetta, allora usano «*» come la con-
giunzione di predicati e possiamo eseguire il test con (3).
Se l’argomento di Fodor fosse valido, allora le disposizioni
inferenziali dei parlanti determinerebbero il riferimento, e
quindi, se restiamo all’interno di una teoria vero-condizionale,
il significato. Ma la proposta di Fodor non funziona. Il fatto
è che Fodor presenta il suo argomento come un tentativo di
salvare la determinatezza del riferimento all’interno di una te-
oria vero-condizionale del significato. Ma può esserci più di
uno schema di riferimento in accordo con le disposizioni a
compiere inferenze manifestate dai parlanti16. L’argomento
non riesce, da solo, a salvaguardare la determinatezza del ri-
ferimento.
La semantica del ruolo concettuale può affrontare il pro-
blema dell’indeterminatezza del significato meglio delle teorie
rivali. Ciò si spiega perché, secondo la semantica del ruolo
concettuale, il significato di un’espressione non è identificato
con il suo valore semantico. Il significato è individuato in
base alle regolarità con cui l’espressione è impiegata dai par-
lanti nell’esercizio di capacità inferenziali e referenziali. Per
esempio, osservando il modo in cui i parlanti dell’esperimen-
to mentale costruito da Quine usano l’espressione «gavagai»,
possiamo verificare se danno il proprio assenso a «gavagai»
quando compare unito a predicati contraddittori ed è perce-
pito un solo coniglio. Se i parlanti negano sempre il loro as-
senso, allora «gavagai» non può avere lo stesso significato di
«parti non separate di coniglio», poiché noi diamo il nostro
assenso a – per esempio – «parti non separate di coniglio
bianche e nere» quando percepiamo un solo coniglio con il
pelo a macchie bianche e nere. Poiché «gavagai» e «parti
non separate di coniglio» possiedono regolarità d’uso diverse,

16 L’esistenza di molteplici schemi di riferimento compatibili con le di-


sposizioni inferenziali manifestate dai parlanti è provata da Paolo Casale-
gno in The Referential and the Logical Component in Fodor’s Semantics,
«Dialectica», LII, 1998, pp. 339-63.
506 Massimiliano Vignolo

se si accetta la semantica del ruolo concettuale si può conclu-


dere che le due espressioni hanno significati diversi.

V. Secondo la semantica del ruolo concettuale il signi-


ficato sopravviene rispetto agli usi costitutivi delle espressio-
ni. Questi sono caratterizzati specificando il modo in cui
sono impiegati certi enunciati in cui le espressioni occorro-
no. Il significato delle espressioni è implicitamente definito
per mezzo delle asserzioni di tali enunciati. Alcuni filosofi,
per esempio Paul Boghossian e Christopher Peacocke, riten-
gono che le definizioni implicite forniscano verità analiti-
che che sono conosciute a priori17. Secondo la concezione
standard dell’analiticità si afferma che un enunciato è ana-
litico se:

(i) la sola comprensione delle parole che lo compongono è


sufficiente a giustificarne l’asserzione;
(ii) l’enunciato è vero;
(iii) la verità dell’enunciato dipende unicamente dal suo si-
gnificato, cioè da (i).

Un enunciato analitico non può essere falsificato da nessu-


na esperienza, ed è pertanto immune da revisione. Quine ha
criticato la nozione di analiticità sostenendo che tutti gli
enunciati sono rivedibili per ragioni empiriche e nessuno è
analiticamente vero. Alcuni filosofi cercano di salvare la no-
zione di analiticità indebolendo le condizioni (i)-(iii). Boghos-
sian18 sostiene che esistono una nozione metafisica e una no-
zione epistemologica di analiticità, e che soltanto quella meta-
fisica ricade sotto la critica di Quine. A differenza di quella
metafisica, la nozione epistemologica rifiuta (iii). In base ad
essa non ha senso parlare di enunciati che sono veri in virtù
del solo significato: un enunciato deve il proprio valore di
verità al modo in cui stanno le cose che descrive. Ma come
può la sola comprensione di un enunciato analitico giustifi-
carne l’asserzione? Boghossian e Peacocke ritengono che certi

17 Cfr. P. Boghossian, Analyticity Reconsidered, «Noûs», XXX, 1996,


pp. 360-91, e C. Peacocke, How are A priori Truths Possible?, «European
Journal of Philosophy», I, 1993, pp. 175-99.
18 Cfr. P. Boghossian, Analyticity Reconsidered, cit.
Sull’olismo semantico 507

insiemi di enunciati forniscano le definizioni implicite delle


espressioni che li costituiscono.
Ecco come procede la loro argomentazione: supponiamo
che il significato di un’espressione «F» sia definito implicita-
mente da un insieme di enunciati che la contengono, «#F».
Ebbene, secondo Boghossian e Peacocke sappiamo a priori
che

(a) se «F» ha un significato, allora «#F» sono veri;

inoltre sappiamo a priori che

(b) «F» ha un significato;

e quindi sappiamo a priori che

(c) «#F» sono veri.

L’argomento sembra valido, ma è anche corretto? Se con-


cediamo che «#F» fornisca la definizione implicita di «F», ne
consegue che sappiamo a priori che (a) è vero? La spiegazio-
ne – adottata da Boghossian e Peacocke – del modo in cui
funzionano le definizioni implicite afferma che, in una defini-
zione implicita, decidendo di considerare veri «#F», decidia-
mo di attribuire a «F» il significato che deve avere affinché
«#F» siano veri. Dunque «F» riceve il significato in base al
quale «#F» risultano veri. Horwich obietta che questa spiega-
zione solleva il problema dell’esistenza e dell’unicità di tale
significato. Come possiamo essere sicuri che un tale significa-
to esista, che esso sia unico e che sia assegnato proprio a
«F»? Una risposta sarebbe che, per essere sicuri di assegnare
il significato desiderato a «F», dobbiamo sapere che «#F»
sono veri. Ma questa risposta genera due problemi19. In pri-
mo luogo, essa priva la nozione di definizione implicita del
valore epistemologico che si suppone sia invece posseduto
dalla nozione di analiticità. L’analiticità è usata per giustifica-
re il fatto che la verità di un enunciato sia conosciuta a prio-
ri. Ma non possiamo essere convinti che «F» abbia il signifi-
cato che ha sulla base della nostra conoscenza della verità di

19 Cfr. P. Horwich, Implicit Definition, Analytic Truth, and Apriori


Knowledge, «Noûs», XXI, 1997, pp. 423-40.
508 Massimiliano Vignolo

«#F», e nello stesso tempo credere che «#F» siano analitica-


mente veri poiché costituiscono la definizione implicita di
«F». Non possiamo cioè trattare «#F» come enunciati che
non hanno bisogno di una giustificazione che trascenda la
loro comprensione, e allo stesso tempo richiedere una giusti-
ficazione che ci convinca della loro verità. In secondo luogo,
non è vero che le definizioni implicite richiedono la verità
degli enunciati impiegati: basti pensare alle definizioni impli-
cite dei termini teorici delle teorie scientifiche. In questi casi
trattiamo gli enunciati utilizzati come se fossero veri, cioè sia-
mo disposti ad asserirli; ma non siamo certi della loro verità,
tanto che le teorie che li contengono possono rivelarsi false.
Pensiamo, per esempio, all’enunciato «il flogisto è presente in
tutti i materiali infiammabili»20, che poteva essere utilizzato
per definire il significato di «flogisto» fino alla fine del secolo
XVIII, e che è oggi ed era già allora falso.
Altri autori, come Horwich e Cozzo, propongono una di-
versa spiegazione delle definizioni implicite, abbandonando
del tutto il progetto epistemologico di fondare la conoscenza
a priori. Essi accentuano gli aspetti che contraddistinguono la
semantica del ruolo concettuale, secondo cui il significato so-
pravviene alle regolarità d’uso delle espressioni linguistiche21.
L’idea è che il significato attribuito a «F» non è il significato
che «F» deve avere affinché «#F» siano veri, ma il significato
che è costituito dal fatto che usiamo «#F» come se fossero
veri. Sappiamo che «F» acquisisce il suo significato sapendo
che ha un certo uso all’interno di «#F», Tuttavia, sebbene sia
costitutivo del significato di «F» che trattiamo «#F» come
veri, è possibile che «#F» siano falsi; e se sono falsi è possi-
bile scoprirlo e di conseguenza smettere di asserirli e abban-
donare la teoria che li contiene. Questa spiegazione delle de-
finizioni implicite è dunque compatibile con l’olismo della
conferma, secondo cui non esistono enunciati immuni da re-
visione. Ma proprio per questo nessun enunciato è vero a
priori, anche se è costitutivo del significato delle espressioni
che lo costituiscono. Nessun enunciato può essere ritenuto
vero indipendentemente dal modo in cui contribuisce a orga-

20 L’esempio è di C. Cozzo, Does Epistemological Holism Lead to Mea-


ning-Holism?, cit.
21 Cfr. P. Horwich, Implicit Definition, Analytic Truth, and A priori
Knowledge, cit.
Sull’olismo semantico 509

nizzare l’esperienza. I sostenitori della semantica del ruolo


concettuale hanno bisogno di questa conclusione. Infatti, se
implicasse la distinzione tra enunciati analitici ed enunciati
sintetici, il ricorso alle definizioni implicite apparirebbe come
una sorta di reductio ad absurdum.

Summary. This is an overview on the principle of semantic holism,


according to which an expression cannot have a meaning in isola-
tion from all other expressions of the same language. In section
one I discuss the levels of commitment to semantic holism of the
three main conceptions of meaning: (a) the truth-conditional con-
ception; (b) the physicalistic conception; (c) the conceptual role
conception. In section two I confront the principle of semantic ho-
lism with the principle of compositionality, according to which the
meaning of a complex expression is a function of the meaning of
its component expressions and of their mode of composition. In
section three I discuss the relevance of semantic holism for the no-
tions of understanding and communication. In section four I draw
some conclusions on the role semantic holism plays in the attempts
to solve the problem of the indeterminacy of meaning. In section
five I investigate the contacts between semantic holism and the no-
tion of analyticity.

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