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L’ipertensione arteriosa è un aumento a carattere stabile della pressione arteriosa nella circolazione sistemica.
Una persona è ipertesa, o ha la pressione alta, quando:
- la pressione arteriosa minima (ipertensione diastolica) supera "costantemente" il valore di 90 mmHg;
- la pressione massima (ipertensione sistolica) supera "costantemente" il valore di 140 mmHg
La pressione arteriosa è data dal prodotto della GITTATA CARDIACA per le RESISTENZE PERIFERICHE.
Questi due fattori sono a loro volta influenzati da numerosi parametri.
- La GITTATA CARDIACA (frequenza cardiaca x volume sistolico) è regolata dal ritorno venoso: maggiore è la
quantità di sangue in arrivo all’atrio destro, maggiore sarà la forza di contrazione del cuore (legge di Frank
Starling) e la frequenza del battito (stiramento del nodo S-A).
I fattori periferici che influenzano il ritorno venoso regolano indirettamente anche la gittata cardiaca e quindi
la pressione arteriosa; tra essi vi sono: la pressione in atrio destro, la pressione venosa periferica (che dipende
dalla volemia e dalla compliance venosa) e, soprattutto, le resistenze periferiche (vedi sotto).
- Le RESISTENZE PERIFERICHE sono rappresentate dall’attrito che si sviluppa tra il sangue e le pareti dei vasi in
cui circola. Tale attrito è determinato in parte dalle caratteristiche proprie del sangue (viscosità) e in parte dal
grado di costrizione delle arterie. Nella circolazione sistemica i 2/3 delle resistenze totali si trovano nelle
arteriole, che sono in grado di modificare il diametro del loro lume fino a 4 volte tanto. La vasocostrizione,
come abbiamo già visto in precedenza, è regolata da fattori paracrini (endotelina, ossido di azoto), endocrini
(adrenalina, noradrenalina, sistema renina-angiotensina, vasopressina) e nervosi.
IPERTENSIONE PRIMITIVA
L’ipertensione primitiva (o essenziale o idiopatica) indica un tipo ipertensione in cui non si riconosce una causa
specifica del rialzo pressorio, per cui la terapia sarà solo sintomatica.
La familiarità (influenza genetica) sembra essere il fattore predisponente: i fattori ambientali (dieta ipersodica,
obesità, stress) sembrano agire soltanto in persone geneticamente predisposte.
L'ipertensione primitiva rappresenta la forma di ipertensione più diffusa in età adulta ed anziana (circa il 95% dei casi).
I meccanismi patogenetici che sono alla base di tale patologia devono provocare un incremento della gittata cardiaca,
un aumento delle resistenze periferiche totali mediante vasocostrizione, o entrambi, in quanto, come abbiamo visto,
la pressione arteriosa è data dal prodotto della gittata cardiaca per le resistenze periferiche.
L'espansione del volume intravascolare (ipervolemia) può elevare i valori di pressione arteriosa sia provocando un
aumento della gittata cardiaca (grazie all'aumento del ritorno venoso al cuore) sia delle resistenze periferiche (perché
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causa vasocostrizione ) o entrambe le cose insieme. Anche un aumento di attività del sistema ortosimpatico può avere
un effetto ipertensivo.
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La vasocostrizione tutela i tessuti da un’eccessiva quantità di sangue.
L'ipertensione genera ipertensione: l'ipertrofia delle cellule muscolari lisce delle arteriole, dovute a uno stato
ipertensivo di lunga durata, riducono il calibro del lume aumentando conseguentemente le resistenze periferiche.
L’aumento delle resistenze periferiche provoca a sua volta un'ipertrofia cardiaca, sopratutto a carico del ventricolo
sinistro; l’irrorazione del cuore diventa a questo punto insufficiente e il cuore può andare più facilmente incontro a
infarto.
Ciò spiega perché, più a lungo persiste uno stato ipertensivo, meno facilmente un intervento correttivo ripristinerà i
valori pressori normali.
Nelle persone affette da ipertensione primitiva si riscontrano spesso dei polimorfismi a carico di geni che controllando
la sintesi:
- di aldosterone;
- degli elementi del sistema renina-angiotensina;
- dei recettori per questi ormoni o per altre sostanze vasoattive.
Nella maggior parte dei casi, i polimorfismi non sono sufficienti a determinare ipertensione, ma devono essere
associati a determinati fattori ambientali. Per fare un esempio, i contraccettivi orali che determinano una maggiore
secrezione di angiotensinogeno possono favorire l’insorgenza di ipertensione nei soggetti che presentano forme
mutate del gene per l’angiotensinogeno. Diete ricche di sodio sono spesso accompagnate da un’ipertensione stabile,
che rappresenta un meccanismo compensatorio per l’eliminazione del sodio in eccesso (natriuresi da pressione).
IPERTENSIONE SECONDARIA
L’ipertensione secondaria comprende tutte quelle forme di ipertensione secondarie a patologie ben definite, come le
malattie renali o cardiache. E' poco diffusa e rappresenta soltanto il 5% dei casi.
Cause di ipertensione arteriosa secondaria possono essere le seguenti.
- Causa renale: vi può essere un’alterata secrezione di molecole vasoattive da parte del rene, in seguito a
modificazioni del tono arteriolare renale (ad esempio, in seguito a stenosi dell'arteria renale) oppure a causa
di tumori renali (soprattutto della zona iuxtaglomerulare).
- Causa endocrina: alcune patologie delle ghiandole endocrine possono determinare ipertensione. Alcuni
esempi sono:
• Sindrome di Conn, o iperaldosteroinismo primario, una malattia dovuta ad un eccesso di produzione
di aldosterone da parte della corticale del surrene. Può portare a ipopotassemia e alcalosi; è la causa
più comune di ipertensione secondaria.
• Sindrome di Cushing, quadro clinico derivante da un eccesso di produzione dell’ormone cortisolo da
parte del surrene. Il cortisolo ha un effetto diretto sulla gittata cardiaca (aumenta la forza
contrattile del cuore) e sulla produzione di aldosterone.
• Feocromocitoma, raro tumore che secerne catecolamine; adrenalina e noradrenalina provocano
forte vasocostrizione e aumento della forza di contrazione del cuore.
• Ipertiroidismo, provoca ipertrofia cardiaca e quindi aumento della gittata cardiaca.
La terapia non farmacologica costiuisce un’importante componente del trattamento di tutti i pazienti ipertesi. In molti
ipertesi la pressione arteriosa può essere adeguatamente controllata dall’associazione di calo ponderale (nei soggetti
sovrappeso), restrizione dell’apporto di sodio, incremento dell’attività fisica e moderato consumo di alcol.
I farmaci riducono i livelli pressori mediante un’azione sulle resistenze periferiche, sulla gittata cardiaca o entrambi i
fattori. I farmaci ipertensivi possono essere classificati in base al loro sito e meccanismo di azione.
- Diuretici.
- ACE-inibitori.
- Antagonisti del recettore dell’angiotensina II.
- Farmaci simpaticolitici (antagonisti adrenergici e agenti ad azione centrale).
- Calcio-antagonisti.
- Vasodilatatori.
L’associazione di farmaci che appartengono a classi diverse rappresenta una strategia comunemente impiegata per
ottenere un controllo efficace della pressione arteriosa.
DIURETICI
Prima di descrivere il meccanismo di azione dei diuretici è opportuno fare un accenno alla fisiologia del rene.
La formazione dell’urina dipende da tre processi: 1) la filtrazione glomerulare; 2) il riassorbimento di sostanze nel
sangue dai tubuli renale; 3) la secrezione di sostanze dal sangue nei tubuli.
2) RIASSORBIMENTO E SECREZIONE NEI TUBULI RENALI. Il liquido filtrato dal glomerulo passa in successione
nelle varie porzioni tubulari: tubulo prossimale, ansa di Henle, tubulo distale, tubulo collettore e dotto
collettore. Poichè una sostanza sia assorbita occorre che sia trasportata 1) attraverso la membrana
dell’epitelio tubulare 2) attraverso l’endotelio dei capillari peritubulari per ritornare in circolo. Il
riassorbimento attraverso l’epitelio tubulare fino al liquido interstiziale può avvenire per trasporto attivo o
passivo, sia attraverso la membrana cellulare (via transcellulare) sia attraverso gli interstizi tra cellule (via
paracellulare); il trasporto attraverso l’endotelio capillare avviene per diffusione, secondo forze idrostatiche o
colloido-osmotiche (in maniera analoga a ciò che avviene all’estremità venosa dei capillari sistemici).
• Riassorbimento e secrezione nel tubulo prossimale. Avviene qui l’assorbimento del 65% del filtrato
totale; le cellule sono infatti particolarmente specializzate nell’assorbimento (orletto a spazzola e
mitocondri per il trasporto). L’assorbimento riguarda sodio, acqua, cloro, glucosio e aminoacidi.
Il sodio viene assorbito per diffusione facilitata grazie ad un gradiente di concentrazione favorevole
che viene mantenuto grazie ad una pompa ATPasica presente nella membrana basolaterale delle
cellule che pompa continuamente ioni sodio fuori dalla cellula nell’interstizio mantendone bassa la
concentrazione intracellulare (pompando al tempo stesso potassio all’interno delle cellule tubulari).
Proteine carrier responsabili della diffusione facilitata permettono il co-trasporto del sodio con altre
sostanze, che nella prima metà del tubulo prossimale sono glucosio e aminoacidi, nella seconda
prevalentemente ioni cloro.
Il sodio che non viene riassorbito con i cotrasportatori viene assorbito da scambiatori (antiporto)
Na+/H+, che permettono alle cellule del tubulo di secernere nel lume ioni idrogeno. La produzione di
idrogenioni all’interno delle cellule tubulari avviene nel seguente modo: acqua e CO2 si combinano
tra di loro grazie all’azione dell’anidrasi carbonica con formazione di acido carbonico (l’anidrasi
carbonica si trova sia nel citoplasma delle cellule tubulari che nelle membrane luminali e
basolaterali); l’acido carbonico(H2CO3) si dissocia in ioni H+ e bicarbonato. Gli idrogenioni vengono
quindi escreti nel lume tubulare attraverso l’antiporto con il sodio (mentre gli ioni bicarbonato sono
assorbiti dalla membrana baso-laterale). Una volta nel lume, gli idrogenioni si combinano con il
bicarbonato (HCO3-) per formare nuovamente acido carbonico che a sua volta si dissocia in acqua e
anidride carbonica.
Insieme al sodio, viene riassorbita dai tubuli molta acqua, secondo un meccanismo passivo di
osmosi: quindi, variazioni del riassorbimento del sodio influenzano il riassorbimento dell’acqua e di
molti soluti. Sebbene nel tubulo prossimale venga riassorbito circa il 65% del filtrato, la sua
concentrazione non cambia lungo il tubulo perché la velocità di riassorbimento dell’acqua è simile a
quella del sodio.
• Riassorbimento e secrezione nell’ansa di Henle. L’ansa è costituita da tre segmenti: la branca
discendente sottile, la branca ascendente sottile e la branca ascendente spessa.
Branca discendente sottile. Le sue cellule non possiedono orletto a spazzola e hanno pochi
mitocondri (indice di scarso assorbimento); la sua funzione è principalmente il
riassorbimento dell’acqua (a cui la branca discendente è molto permeabile).
Branca ascendente sottile. E’ impermeabile all’acqua e ha scarse capacità di riassorbimento.
Branca ascendente spessa. Anche questa è impermeabile all’acqua. Le sue cellule però
hanno orletto a spazzola e mitocondri per il riassorbimento, che interessa sodio, cloro,
potassio, calcio, magnesio e bicarbonato. Come nel tubulo prossimale il riassorbimento dei
soluti è dipendente dalla pompa sodio/potassio che mantiene bassa la concentrazione
intracellulare del sodio. Poichè la branca ascendente è impermeabile all’acqua, mentre
grandi quantità di sodio vengono riassorbite, il liquido tubulare diventa molto diluito.
Questo segmento inoltre secerne idrogenioni nel lume tubulare (attraverso antiporto col
sodio).
• Riassorbimento e secrezione nel tubulo contorto distale. Anche nel tubulo contorto distale si
distinguono tre parti. La prima parte contribuisce a formare il complesso iuxta-glomerulare. La parte
intermedia ha le stesse caratteristiche della branca ascendente spessa, cioè assorbe molti ioni ma è
impermeabile all’acqua. L’ultima parte ha le caratteristiche del successivo tubulo collettore.
• Riassorbimento e secrezione nel tubulo collettore. E’ costitiuto da due popolazioni cellulari: le cellule
principali e le cellule intercalari.
Le cellule principali assorbono sodio e acqua (attraverso il meccanismo pompa
sodio/potassio basolaterale). L’assorbimento di acqua è regolato dalla concentrazione
ematica di ADH (vasopressina): in sua assenza, il tubulo collettore è praticamente
impermeabile.
Le cellule intercalari hanno un ruolo nella regolazione acido-base: al loro interno acqua e
CO2 si combinano tra di loro grazie all’azione dell’anidrasi carbonica; l’acido carbonico si
dissocia in ioni H+ e bicarbonato. Gli idrogenioni vengono escreti nel lume tubulare
attraverso un sistema di trasporto ATP-dipendente; gli ioni bicarbonato sono assorbiti dalla
membrana baso-laterale.
• Riassorbimento e secrezione nel dotto collettore. Anche qui la permeabilità all’acqua è regolata
dall’ADH. E’ permeabile all’urea (a differenza del tratto precedente) e secerne idrogenioni.
I tubuli renali sono in grado di variare la velocità di escrezione dei diversi soluti e dell’acqua (talvolta
indipendentemente l’uno dall’altro). Innanzitutto i tubuli hanno la capacità intrinseca (indipendente da
ormoni) di aumentare la velocità di riassorbimento in risposta all’aumento della VFG. La velocità di
riassorbimento dipende dal prodotto Kf x forza netta di riassorbimento dei capillari peritubulari. La forza
netta di riassorbimento è data dalla somma delle forze idrostatiche e colloido-osmotiche che facilitano o si
oppongono al riassorbimento. In generale le forze che aumentano il riassorbimento dei capillari peritubulari
aumentano anche il riassorbimento dai tubuli e viceversa: un aumento della pressione arteriosa, ad esempio,
provoca un innalzamento della pressione idrostatica dei capillari peritubulari e quindi una diminuzione della
velocità di assorbimento (aumenta l’escrezione urinaria).
Anche molti ormoni regolano la velocità di assorbimento dei tubuli renali.
• Aldosterone. Secreto dalle surrenali, ha come bersaglio le cellule principali del tubulo collettore;
agisce sulla pompa sodio/potassio basolaterale, aumentando la sua attività (aumenta il
riassorbimento di sodio e la secrezione di potassio). Quando manca l’aldosterone, per lesione o
malfunzionamento delle surrenali (morbo di Addison), l’organismo perde grandi quantità di sodio e
accumula potassio. Al contrario, l’eccesso di aldosterone, dovuto a tumore delle surrenali (morbo di
Conn), è associato alla ritenzione di sodio e alla perdita di potassio.
• Angiotensina II. La sua formazione aumenta in caso di ridotta pressione del sangue e/o ridotto
volume del liquido extracellulare (emorragia, disidratazione). L’angiotensina II aumenta il
riassorbimento del sodio (e dell’acqua) attraverso tre meccanismi:
aumenta la produzione di aldosterone;
provoca la vasocostrizione delle arteriole efferenti: la vasocostrizione delle efferenti riduce
la pressione idrostatica dei capillari peritubulari; inoltre, riducendo il flusso nei capillari
peritubulari, ne aumenta la pressione colloido-osmotica;
Stimola direttamente il riassorbimento del sodio (specie nei tubuli prossimali)
incrementando l’attività della pompa sodio/potassio.
• ADH. Aumenta la permeabilità all’acqua del tubulo distale, del tubulo collettore e del dotto
collettore; permette all’organismo di conservare acqua in condizioni di disidratazione.
• Peptide natriureitco atriale. Aumenta la natriuresi, cioè l’escrezione di sodio (e quindi di acqua) dei
dotti collettori. E’ prodotto da alcune cellule atriali specializzate in risposta all’aumento del volume
atriale.
• Ormone paratiroideo. Aumenta il riassorbimento del calcio nella branca ascendente spessa dell’ansa
di Henle e nel tubulo distale.
Infine, anche il sistema ortosimpatico regola l’assorbimento dei tubuli renali: aumenta il riassorbimento di
sodio nel tubulo prossimale e nella branca ascendente spessa dell’ansa di Henle; aumenta il rilascio di renina
(e quindi la formazione di angiotensina II).
PRINCIPI DELL’ATTIVITA’ DIURETICA
I diuretici sono farmaci che determinano un aumento della diuresi, cioè della produzione di urina. La maggior parte dei
diuretici aumenta anche l’escrezione urinaria dei soluti, in particolare sodio e cloro. Infatti, la maggior parte dei
diuretici usati in clinica agisce diminuendo la velocità di riassorbimento tubulare del sodio, che provoca natriuresi
(aumento dell’escrezione di sodio), e conseguente diuresi (aumento dell’escrezione di acqua). In altri termini,
l’aumentata espulsione di acqua è per lo più secondaria all’inibizione del riassorbimento tubulare del sodio, perchè il
sodio trattenuto nei tubuli agisce osmoticamente riducendo il riassorbimento dell’acqua. Poichè anche il
riassorbimento dai tubuli renali di molti soluti quali potassio, cloro, magnesio e calcio è influenzato secondariamente
dal riassorbimento del sodio, molti diuretici aumentano anche l’escrezione renale di questi soluti.
I diuretici vengono comunemente usati in clinica per produrre la diminuzione dei liquidi extracellulari, in particolare
nelle patologie associate a edema e ipertensione.
Alcuni diuretici possono aumentare la produzione di urina fino a 20 volte entro pochi minuti dalla somministrazione.
Tuttavia, l’effetto di molti diuretici sull’escrezione renale di sali e acqua cessa entro pochi giorni. Ciò è dovuto
all’attivazione di altri meccanismi compensatori conseguente alla diminuzione del volume del liquido extracellulare.
Ad esempio, una riduzione del volume del liquido extracellulare spesso riduce la pressione arteriosa e la VFG e
aumenta la secrezione di renina e la formazione di angiotensina II; l’insieme di queste risposte finisce col superare
l’effetto cronico del diuretico sulla produzione di urina. Quindi, a lungo andare, l’azione del diuretico viene meno, ma
solo dopo aver provocato la diminuzione del volume del liquido extracellulare, che allevia l’ipertensione o l’edema
responsabili dell’uso del diuretico.
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Gli ioni bicarbonato non vengono riassorbiti come tali: si combinano prima con gli idrogenioni secreti dalle cellule
tubulari formando acido carbonico; l’acido carbonico si dissocia poi in anidride carbonica e acqua. La CO2 attraversa
facilmente la membrana tubulare e all’interno della cellula si ricombina di nuovo con l’acqua riformando acido
carbonico e quindi ioni bicarbonato e idrogenioni.
Con gli inibitori dell’anidrasi carbonica si verificano raramente fenomeni gravi di tossicità. Il maggior limite al loro
utilizzo è lo sviluppo di acidosi metabolica e di alcalinizzazione delle urine (con possibile formazione di calcoli dovuti
alla precipitazione di sali di fosfato di calcio nell’urina). Inoltre, poichè questi farmaci sono derivati dei sulfamidici,
possono causare, come gli altri sulfamidici, depressione del midollo osseo, tossicità cutanea e reazioni allergiche nei
pazienti con ipersensibilità ai sulfamidici. A dosi elevate, molti pazienti manifestano sonnolenza e parestesie.
DIURETICI OSMOTICI
I diuretici osmotici sono sostanze filtrate spontaneamente nel glomerulo, riassorbite in maniera limitata nel tubulo
renale e inerti farmacologicamente. Se somministrati a dosi sufficientemente elevate innalzano in modo significativo
l’osmolalità del plasma e del liquido tubulare. I quattro diuretici osmotici attualmente disponibili sono la glicerina,
l’isosorbide, il mannitolo e l’urea. Il principale sito d’azione di questi diuretici è l’ansa di Henle.
Come si evince dal nome, l'azione di queste sostanze è dovuta alla loro proprietà di esercitare un effetto osmotico.
Negli anni 50 e 60 si pensava che l'azione osmotica fosse esercitata nel tubulo prossimale dove la presenza di questi
soluti (metabolicamente inerti) si sarebbe opposta al richiamo di acqua secondario al trasporto del sodio; negli anni 70
è stato chiarito che questo meccanismo, contribuisce solo per un 25% all'effetto totale.
In realtà l'effetto osmotico è esercitato in primo luogo nel sangue, dove queste sostanze richiamano acqua dal
compartimento intracellulare aumentando il volume extracellulare. Questa aumentato volume plasmatico si traduce
in un aumento della perfusione renale e al dilavamento del gradiente osmotico midollare (in condizioni normali il
liquido interstiziale della midollare presenta un’alta osmolarità, che provoca un massiccio riassorbimento di acqua a
livello della branca discendente dell’ansa di Henle). Il dilavamento del gradiente osmotico midollare porta ad un
diminuito riassorbimento di acqua nel tratto discendente dell'ansa. I diuretici osmotici provocano un aumento
dell’escrezione urinaria di quasi tutti gli elettroliti, tra cui sodio, potassio, calcio, magnesio, cloro, bicarbonati e fosfati.
La glicerina e l’isosorbide possono essere assunti per via orale, mentre il mannitolo e l’urea devono essere
somministrati per via endovenosa. L’emivita è inferiore alle due ore per la glicerina e il mannitolo, dalle 5 alle 10 ore
per l’isosorbide (non sono disponibili dati sufficienti per quanto riguarda l’urea). L’eliminazione è prevalentemente
renale.
I diuretici osmotici (in particolare il mannitolo) sono efficaci nell’attenuare la riduzione della VFG associata
all’insufficienza renale acuta da necrosi tubulare acuta. Inoltre, determinando un aumento della pressione osmotica
del plasma, questi diuretici estraggono acqua dall’occhio e dal cervello. Tutti e quattro i farmaci di questa classe sono
impiegati per controllare la pressione endoculare durante gli attacchi acuti di glaucoma e per ridurla nei pazienti che
richiedono interventi chirurgici all’occhio. Il mannitolo e l’urea sono anche utilizzati per ridurre l’edema cerebrale
prima e dopo interventi di neurochirurgia.
I diuretici osmotici si distribuiscono nei fluidi extracellulari, contribuendo così ad aumentarne l’osmolarità. L’acqua è
perciò richiamata dai compartimenti intracellulari e il volume extracellulare aumenta. Nei pazienti affetti da
insufficienza cardiaca o con congestione polmonare, ciò può provocare edema polmonare conclamato. La fuoriuscita
di acqua determina anche iponatriemia, spiegando così l’insorgenza di alcuni effetti indesiderati, tra cui cefalea,
nausea e vomito. In generale, i diuretici osmotici sono sconsigliati nei pazienti affetti da anuria conseguente a
patologia renale grave. Se si verifica fuoriuscita nei tessuti, l’urea può provocare trombosi e non deve essere
somministrata a pazienti con alterata funzionalità epatica. La glicerina è metabolizzata e può provocare iperglicemia.
I reni posseggono un altro potente meccanismo in grado di controllare la pressione oltre alla capacità di influenzare il
volume dei liquidi extracellulari. Alla base di questo meccanismo vi è il sistema renina-angiotensina.
La renina è una piccola proteina enzimatica rilasciata dal rene quando la pressione arteriosa discende troppo. Questa
sostanza è capace di aumentare in diversi modi la pressione arteriosa ficilitando così il ripristino della pressione a
livello normale.
La renina è sintetizzata ed immagazzinata in una forma inattiva, cioè la prorenina, nelle cellule iuxta-glomerulari del
rene. Tali cellule sono cellule muscolari lisce modificate, localizzate nelle pareti delle arteriole afferenti ed efferenti in
immediata vicinanza dei glomeruli. Quando la pressione arteriosa diminuisce, una reazione intrinseca nello stesso
rene causa la scissione delle molecole di prorenina e la liberazione di renina. La maggior parte della renina entra in
circolo e si distribuisce in tutto il corpo, mentre una piccola parte rimane nei liquidi locali del rene dove avvia
numerose funzioni intrarenali.
La renina è di per sé un enzima e non una sostanza vasoattiva. Essa agisce su un’altra proteina plasmatica, una
globulina chiamata substrato della renina (o angiotensinogeno), liberando un decapeptide: l’angiotensina I.
Quest’ultima sostanza ha una modesta proprietà vasocostrittrice che non modifica in modo significativo la funzione
circolatoria. La renina rimane nel sangue dai 30 ai 60 minuti e continua ad indurre la formazione di angiotensina I per
tutto questo tempo.
Entro pochi secondi dalla formazine di angiotensina I, altri due aminoacidi sono rimossi per formare l’angiotensina II,
che è un octapeptide. Questa conversione avviene quasi interamente nei pochi secondi in cui il sangue passa
attraverso i piccoli vasi polmonari ed è catalizzata dall’enzima convertitore che è presente nell’endotelio dei vasi
polmonari. L’angiotensina II è una sostanza vasocostrittrice estremamente potente, ed ha anche altri effetti sulla
circolazione. Resta nel sangue soltanto 1-2 minuti perchè è inattivata immediatamente da numerosi enzimi del sangue
e dei tessuti chiamati nel loro insieme angiotensinasi.
Durante la sua permanenza nel sangue, l’angiotensina presenta due principali effetti che possono innalzare la
pressione arteriosa.
1) Il primo è la vasocostrizione, che avviene rapidamente. La vasocostrizione è molto intensa nelle arteriole e
molto minore nelle vene. La costrizione delle arteriole aumenta la resistanza periferica per cui la pressione
arteriosa risale. Inoltre, la modesta costrizione delle vene promuove un aumento del ritorno venoso del
sangue al cuore, facilitando così l’azione cardiaca contro livelli pressori più elevati. Il sistema vasocostrittore
della renina-angiotensina richiede circa 20 minuti per divenire pienamente attivo. Di fatto esso agisce molto
più lentamente dei riflessi norvosi e del sistema noradrenalina-adrenalina dell’ortosimpatico.
2) Il secondo principale effetto dell’angiotensina sulla pressione arteriosa si attua a livello renale dove riduce
l’escrezione di acqua e sale. Ciò aumenta lentamente il volume di liquido extracellulare e innalza la
pressionearteriosa nel giro di ore o giorni. Questo effetto a lungo termine è ancora più potente rispetto a
quello della vasocostrizione acuta nel far ritornare la pressione alla norma.
L’angiotensina causa a livello renale la ritenzione di cloruro di sodio ed acqua in due modi.
• Agisce direttamente sul rene inducendo l’attività della pompa sodio potassio e provocando la
vasocostrizione delle arteriole efferenti (la vasocostrizione delle efferenti riduce la pressione
idrostatica dei capillari peritubulari; inoltre, riducendo il flusso nei capillari peritubulari, ne aumenta
la pressione colloido-osmotica).
• Stimola la secrezione di aldosterone dalle ghiandole surrenali e questo ormone, a sua volta, provoca
il riassorbimento di sale e acqua da parte dei tubuli renali.
L’effetto degli inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina sul sistema renina-angiotensina è l’inibizione della
conversione dell’angiotensina I in angiotensina II. Inoltre, poichè l’enzima convertitore dell’angiotensina degrada
anche la bradichina (che invece è un vasodilatatore, incrementando così l'attività vasocostrittrice), gli ACE-inibitori
inducono un aumento dei livelli di bradichinina e quest’ultima stimola la sintesi di prostaglandine. Infine, gli ACE-
inibitori interferiscono anche nei cicli di feedback negativi del rilascio di renina. Di conseguenza, gli ACE-inibitori
provocano un maggior rilascio di renina e un aumento della velocità di formazione di angiotensina I. Considerando che
la trasformazione mtabolica dell’angiotensina I in angiotensina II è bloccata da questi farmaci, l’ngiotensina I ha un
destino metabolico alternativo che consiste nella produzione di altri tipi di angiotensine (come la cosiddetta
angiotensina 1-7). Non è noto se questi altri tipi di angiotensine (tra cui l’angiotensina 1-7) contribuiscano o meno alla
risposta farmacologica agli ACE-inibitori.
Gli ACE-inibitori sono stati classificati, in base alla loro struttura chimica, in tre ampi gruppi:
1) ACE-inibitori contenenti un gruppo sulfidrilico (-SH), di cui il maggior rappresentante è il captopril;
2) ACE-inibitori contenenti due gruppi carbossilici, di cui il maggior rappresentante è l’enalapril (lisinopril,
benazepril, quinapril, moexipril, ramipril, trandolapril e perindopril);
3) ACE-inibitori contenenti un atomo di fosforo, di cui il maggior rappresentante è il fosinopril.
In linea generale, gli ACE-inibitori si differenziano in base a tre proprietà: 1) modalità dell’inibizione dell’ACE; 2)
parametri farmacocinetici (per esempio entità dell’assorbimento, emivita, distribuzione nei tessuti; meccanismi di
eliminazione); 3) potenza.
Gli ACE-inibitori sono farmaci che trovano largo impiego in clinica.
- IPERTENSIONE ARTERIOSA. Per quest'indicazione, gli ACE-inibitori vengono considerati farmaci di prima
scelta, somministrati da soli (monoterapia) o assieme ad altri antipertensivi (terapia combinata, soprattutto
con diuretici o con calcio-antagonisti). Al contrario, nelle forme di ipertensione che si accompagnano a livelli
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diminuiti di renina nel plasma sanguigno (ad esempio Sindrome di Conn ), gli ACE-inibitori mostrano un
effetto insufficiente.
- DISFUNZIONE SISTOLICA DEL VENTRICOLO SINISTRO. La disfunzione sistolica del ventricolo sinistro può essere
di diversa entità, spaziando da una riduzione della performance sistolica modesta e asintomatica ad
un’insufficienza grave della funzionalità sistolica del ventricolo sinistro, con scompenso cardiaco congestizio.
In assenza di controindicazini, gli ACE-inibitori dovrebbero essere somministrati a tutti i pazienti che
presentano una funzione sistolica ridotta del ventricolo sinistro, indipendentemente dalla manifestazione di
sintomi di scompenso cardiaco conclamato. L’inibizione dell’ACE nei pazienti con disfunzione sistolica
previene o ritarda la progressione dello scompenso cardiaco e riduce l’incidenza di infarto del miocardio.
Sebbene i meccanismi con cui gli ACE-inibitori portano ad un miglioramento dei pazienti con disfunzione
sistolica non siano ancora del tutto chiari, l’induzione di condizioni emodinamiche più favorevoli svolge molto
probabilmente un ruolo importante. L’inibizione dell’enzima in genere riduce il postcarico e lo stress sistolico
della parete; la gittata cardiaca aumenta e di norma diminuisce la frequenza cardiaca.
- INFARTO MIOCARDICO ACUTO. Gli ACE-inibitori riducono la mortalità se il trattamento viene iniziato durante
il periodo per-infartuale. Gli effetti benefici degli ACE-inibitori nell’infarto del miocardio sono particolarmente
evidenti nei pazienti ipertesi e diabetici.
- INSUFFICIENZA RENALE CRONICA. Il diabete mellito è la prima causa di insufficienza renale. Nei pazienti con
diabete mellito di tipo 1 e nefropatia diabetica, gli ACE-inibitori prevengono o ritardano la progressione della
malattia renale. Numerosi meccanismi concorrono alla protezione renale esercitata dagli ACE-inibitori.
L’aumento della pressione nei capillari glomerulari provoca un danno a livello del glomerulo e questi farmaci
riducono tale aumento sia diminuendo la pressione arteriosa sia dilatando le arteriole renali efferenti. Gli
ACE-inibitori determinano una maggiore selettività nella permeabilità della membrana filtrante, riducendo
perciò il contatto del mesangio con fattori proteici in grado di stimolare la proliferazione delle cellule
mesangiali (tipica della nefropatia diabetica). Poichè l’angiotensina II è un fattore di crescita, la riduzione dei
suoi livelli all’interno del rene può attenuare ulteriormente la proliferazione delle cellule mesangiali.
Le reazioni avverse gravi agli ACE-inibitori sono rare e, in generale, questi farmaci sono ben tollerati. I più comuni
effetti collaterali sono:
- ipotensione: in pazienti con pressione arteriosa elevata, dopo la prima dose di un ACE-inibitore si può
verificare un calo drastico nella pressione arteriosa; a questo proposito si deve prestare attenzione ai pazienti
con carenze saline, a quelli trattati con farmaci antipertensivi e a coloro che manifestano scompenso cardiaco
congestizio: in tali situazioni la terapia iniziale dovrebbe prevedere dosi molto basse di ACE-inibitore, oppure
un aumento dell’apporto di sale o l’interruzione dell’assunzione di diuretici prima di iniziare il trattamento;
- tosse: il 5-20% dei pazienti in terapia con un ACE-inibitore presenta tosse secca; questo effetto può essere
mediato dall’accumulo nei polmoni di bradichinina e di prostaglandine;
- iperkaliemia: nonostate la riduzione delle concentrazioni di aldosterone, si riscontra raramente una
ritenzione significativa di potassio nei pazienti con normale funzionalità renale non in terapia con altri farmaci
che provocano ritenzione di potassio; tuttavia, gli ACE-inibitori possono causare iperkaliemia nei pazienti con
insufficienza renale oppure in coloro che assumono diuretici risparmiatori di potassio, supplementi di
potassio, β-bloccanti o FANS;
- insufficienza renale acuta: l’angiotensina II, inducendo una vasocostrizione dell’arteriola efferenze,
contribuisce a mantenere una filtrazione glomerulare adeguata in caso di bassa pressione di perfusione
renale (come in caso di stenosi delle arterie renali); di conseguenza, l’inibizione dell’ACE può provocare
insufficienza renale acuta in questi pazienti;
- tossicità fetale: il protrarsi della somministrazione di questi farmaci nel secondo e terzo trimestre può
determinare deficienza di liquido amniotico, ritardo dell’accrescimento e morte del feto; questi effetti
patologici possono essere in parte dovuti all’ipotensione fetale; una volta diagnosticata la gravidanza, quindi,
è imperativo interrompere la terapia con ACE-inibitori il più presto possibile;
- eruzioni cutanee: gli ACE-inibitori provocano occasionalmente un’eruzione cutanea che può risolversi
spontaneamente o rispondere alla riduzione del dosaggio o ad un breve trattamento con antistaminici;
- proteinuria: in generale, la proteinuria non rappresenta una controindicazione per questi farmaci, poichè essi
esercitano una protezione sul rene in alcune nefropatie associate a proteinuria;
3
La sindrome di Conn è un altro termine per identificare l'iperaldosteronismo primario, che molto spesso é causa di
ipertensione secondaria. Questa condizione è caratterizzata da un eccesso di secrezione di aldosterone da parte
della corteccia delle ghiandole surrenali, prodotto a causa di uno o più tumori della ghiandola surrenale
(generalmente benigni), per iperplasia (aumento di numero di cellule producenti aldosterone), per ragioni sconosciute
(idiopatiche). L’eccesso di aldosterone sopprime a sua volta la produzione di renina (feedback negativo).
- angioedema: nello 0,1-0,5% dei pazienti gli ACE-inibitori provocano un rigonfiamento rapido di naso, gola,
bocca, glottide, laringe, labbra e lingua; questo evento, denominato angioedema, è probabilmente dovuto
all’accumolo di bradichinina e, se si verifica, si presenta entro la prima settimana di trattamento,
normalmente entro le poche ore che seguono l’assunzione della dose iniziale; quando gli ACE-inibitori
vengono sospesi, l’angioedema scompare nell’arco di ore; in ogni caso, le vie aeree del paziente dovrebbero
essere protette e, se necessario, vanno somministrati adrenalina, un antistaminico e/o glicocorticoidi.
Pe quanto riguarda le interazioni con altri farmaci, gli antiacidi possono ridurre la biodisponibilità degli ACE-inibitori; i
FANS, inclusa l’aspirina, possono ridurre la risposta antipertensiva agli ACE-inibitori; i diuretici risparmiatori di potassio
e i supplementi di potassio possono aggravare l’iperkaliemia indotta dagli ACE-inibitori. Questi ultimi, infine, possono
far aumentare i livelli plasmatici della digossina e del litio.
I bloccanti recettoriali dell’angiotensina II legano il recettore AT1 con grande affinità. Questi farmaci inibiscono in
modo potente e selettivo la maggior parte degli effetti biologici dell’angiotensina II, tra cui: la contrazione della
muscolatura liscia vascolare, le risposte pressorie rapide, le risposte pressorie lente, la sete, la secrezione di
aldosterone, il rilascio di catecolamine dal surrene, l’aumento del tono ortosimpatico, i cambiamenti della funzione
renale.
Sono in corso studi per chiarire se gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II siano equivalenti o meno agli ACE-
inibitori per quanto riguarda l’efficacia terapeutica. Sebbene entrambe le classi di farmaci blocchino il sistema renina-
angiotensina, gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II differiscono dagli ACE-inibitori per diversi aspetti
importanti:
1) gli ACE-inibitori riducono la biosintesi di angiotensina II provocata dall’azione dell’ACE, ma non inibiscono la
via alternativa di formazione dell’angiotensina II non ACE-dipendente; dal momento che gli ARB bloccano i
recettori AT1, gli effetti dell’angiotensina II mediati dai recettori AT1 vengono inibiti indipendentemente dalla
via biologica che porta alla formazione di angiotensina II;
2) al contrario degli ACE-inibitori, gli ARB consentono l’attivazione dei recettori AT2; gli ACE-inibitori aumentano
il rilascio di renina; tuttavia, poichè questi farmaci bloccano la conversione di angiotensina I in angiotensina II,
determinano una riduzione dei livelli di angiotensina II; l’inibizione dei recettori AT1 stimola il rilascio di
renina, che traduce in un aumento significativo dei livelli di angiotensina II circolante; questa maggiore
quantità di angiotensina II è in grado di attivare i recettori AT2;
3) gli ACE-inibitori possono aumentare le concentrazioni di angiotensina 1-7 in misura maggiore rispetto agli
ARB (l’ACE è coinvolto nell’eliminazione dell’angiotensina 1-7);
4) gli ACE-inibitori aumentano i livelli di alcuni substrati dell’ACE, come la bradichinina.
Tutti gli ARB sono stati approvati per il trattamento dell’ipertensione arteriosa. L’irbesartan e il losartan sono inoltre
stati approvati per il trattamento della nefropatia diabetica, il losartan per la profilassi dell’ictus e il valsartan per il
trattamento dello scompenso cardiaco nei pazienti intolleranti gli ACE-inibitori. L’efficacia degli ARB nel diminuire la
pressione arteriosa è analoga a quella degli altri farmaci antipertensivi.
A differenza degli ACE-inibitori, gli ARB non provocano tosse e l’incidenza di angioedema associato all’uso di questi
farmaci è molto più bassa rispetto a quella correlata all’uso degli ACE-inibitori. Come gli ACE-inibitori, gli ARB
presentano una potenziale tossicità fetale e dovrebbero essere sospesi prima del secondo trimestre di gravidanza. Gli
ARB dobrevvero essere usati con cautela dai pazienti la cui pressione arteriosa o funzionalità renale dipende
strettamente dal sistema renina-angiotensina (per esempio con stenosi dell’arteria renale). In questi pazienti, gli ARB
possono provocare ipotensione, oliguria, insufficienza renale acuta. Questi farmaci possono provocare iperkaliemia
nei pazienti con nefropatia o che assumono un supplemento di potassio o diuretici risparmiatori di potassio. Gli ARB
aumentano l’effetto ipotensivo di altri farmaci antipertensivi; ciò rappresenta un effetto favorevole, ma può
richiedere un aggiustamento della dose.
FARMACI SIMPATICOLITICI
Comprendono: gli antagonisti dei recettori α1-adrenergici, gli antagonisti dei recettori β-adrenergici (β-bloccanti) ed
alcuni agenti ad azione centrale.
- Antagonisti dei recettori α1-adrenergici (prazosin, terazosin).
Il blocco dei recettori α1-adrenergici inibisce la vasocostrizione indotta dalle catecolamine endogene; può
verificarsi vasodilatazione sia nei vasi arteriosi che venosi. Il risultato è la caduta della pressione arteriosa a
causa della diminuita resistenza periferica. A seconda del volume plasmatico, gli α1-adrenergici determinano
l’insorgenza di ipotensione ortostatica di varia entità. Gli α1-bloccanti non sono consigliati come monoterapia
nel trattamento dell’ipertensione. Essi vengono principalmente usati con i diuretici, i β-bloccanti o altri agenti
ipertensivi.
- Antagonisti dei recettori β-adrenergici.
Gli antagonisti dei recettori β-adrenergici, o β-bloccanti, inibiscono l’interazione dell’adrenalina, della
noradrenalina e dei farmaci simpaticomimetici con i recettori β.
I β-bloccanti possono essere distinti in:
• β-bloccanti non selettivi (di prima generazione): propranololo, nadololo;
• β-bloccanti selettivi per il recettore β1 (di seconda generazione): metoprololo, atenololo;
• β-bloccanti con azioni cardiovascolari aggiuntive (di terza generazione): labetalolo, carvedilolo.
I principali effetti terapeutici degli antagonisti dei recettori β vengono esercitati a livello del sistema
cardiovascolare. Dal momento che le catecolamine possiedono attività cronotrope e inotrope positive, i β-
bloccanti rallentano la frequenza cardiaca e diminuiscono la contrattilità miocardica. Quando la stimolazione
dei recettori β è bassa, questo effetto è modesto; tuttavia, quando il sistema nervoso simpatico risulta
attivato, come durante l’esercio fisico o lo stress, gli antagonisti dei recettori β diminuiscono l’atteso
innalzamento della frequenza cardiaca. La somministrazione a breve termine di antagonisti dei recettori β
provoca una diminuzione della gittata cardiaca; la resistenza periferica aumenta proporzionalmente per
l’azione dei riflessi compensatori rappresentati da un aumento dell’attività del sistema nervoso simpatico,
che porta all’attivazione dei recettori vascolari α. Comunque, con l’utilizzo prolungato degli antagonisti dei
recettori β, la resistenza periferica totale ritorna ai valori iniziali o diminuisce nei pazienti ipertesi. Il
meccanismo di questo effetto non è noto; sicuramente ha importanza l’effetto di inibizione sulla secrezione
di renina, ma possono intervenire anche altri meccanismi: alcuni β-bloccanti (carvedilolo), per esempio,
possiedono la capacità di bloccare i recettori α1 e l'ingresso di ioni calcio nelle
fibrocellule arteriolari provocando vasodilatazione periferica e un ulteriore effetto antipertensivo; altri β-
bloccanti (ad esempio il nebivololo) attivano i recettori endoteliali β3, con conseguente produzione di NO e
dilatazione.
I β-bloccanti sono quindi principalmente usati nel trattamento dell’ipertensione, dell’angina, delle sindromi
coronariche acute, dell’insufficienza cardiaca congestizia e nella terapia delle aritmie.
I β-bloccanti hanno effetto anche a livello respiratorio. Gli antagonisti dei recettori β non selettivi, come il
propranololo, bloccano i recettori β2 della muscolatura liscia a livello bronchiale. Ciò in genere ha un effetto
limitato sulla funzione polmonare negli inidividui normali, mentre in pazienti affetti da BPCO tale blocco può
portare ad una broncocostrizione potenzialmente fatale. Sebbene gli antagonisti β1-selettivi abbiano una
probabilità minore rispetto al propranololo di aumentare la resistenza delle vie respiratorie, questi farmaci
dovrebbero essere utilizzati solo con grande attenzione, o non utilizzati affatto, nei pazienti con malattie
broncospastiche.
Nonostante il coinvolgimento dei recettori β-adrenergici nell’azione ipoglicemizzante dell’adrenalina, i loro
antagonisti causano cambiamenti metabolici di entità trascurabile nell’individuo normale. Nei pazienti
diabetici, l’uso di β-bloccanti non selettivi aumenta la possibilità di ipoglicemia secondaria all’esercizio fisico,
poichè si ha una riduzione della liberazione di glucosio dal fegato (glicogenolisi), che normalmente viene
indotta dall’adrenalina.
Gli antagonisti del recettore β sono in grado di ridurre l’attivazione della lipasi ormono-sensibile, attenuando
il rilascio di acidi grassi liberi dal tessuto adiposo. Gli antagonisti non selettivi del recettore β riducono in
maniera consistente il colesterolo HDL, mentre aumentano il colesterolo LDL e i trigliceridi. Al contrario, gli
antagonisti β1-selettivi migliorano il profilo lipidico plasmatico nei pazienti con dislipidemia (elevate
concentrazioni di lipidi nel sangue).
Gli antagonisti dei recettori β sono molto utili nel trattamento del glaucoma: il meccanismo d’azione di questi
farmaci è rappresentato dalla diminuzione della produzione di umor acqueo.
I β-bloccanti controllano molti dei sintomi a livello cardiaco indotti dall’ipertiroidismo e risultano quindi utili
nella terapia di questa malattia.
- Agenti ad azione centrale. I principali sono la metildopa, gli agonisti selettivi dei recettori α2 adrenergici, il
guanadrel, la reserpina e la metirosina.
• Metildopa. La metildopa, per via dei significativi effetti collaterali, ha un impiego limitato alla sola
ipertensione in gravidanza, in cui ha dimostrato la sua sicurezza d’azione. La metildopa viene
metabolizzata nei neuroni adrenergici, mediante decarbossilazione, ad α-metil-dopamina, che in
seguito viene convertita ad α-metil-noradrenalina. Quest’ultima viene immagazzinata nelle vescicole
neurosecretorie dei neuroni adrenergici, in sostituzione della noradrenalina stessa. Così, quando il
neurone adrenergico libera il suo neurotrasmettitore, viene rilasciata α-metil-noradrenalina invece
di noradrenalina. L’α-metil-noradrenalina esplica la sua azione ipertensiva probabilmente agendo
come un agonista a livello dei recettori adrenergici α2 presinaptici cerebrali, riducendo il rilascio di
noradrenalina e pertanto riducendo i segnali adrenergici vasocostrittivi in uscita verso il sistema
nervoso periferico.
La metildopa determina una riduzione delle resistenza periferiche senza provocare notevoli
variazioni della gittata cardiaca. Con la riduzione della pressione arteriosa, le concentrazioni
plasmatiche di noradrenalina subiscono un brusco calo che rispecchia la diminuzione del tono
simpatico. Anche la secrezione di renina viene ridotta dalla metildopa, ma questo non è l’effetto
principale del farmaco e non è necessario per l’effetto ipotensivo.
La metildopa viene assunta oralmente; viene assorbita grazie ad un sistema di trasporto attivo per
gli aminoacidi. L’emivita è di circa 2 ore. Anche il trasporto della metildopa nel SNC sembra essere
un processo attivo. La metildopa viene escreta nelle urine principalmente come coniugato solfato e
come farmaco immodificato.
Oltre ad abbassare la pressione arteriosa, i metaboliti attivi della metildopa agiscono sui recettori
α2-adrenergici del tronco encefalico inibendo i centri responsabili della veglia e della vigilanza,
provocando sedazione transitoria. Vengono inibiti anche i centri bulbari che controllano la
salivazione e la metildopa può quindi causare secchezza della fauci. Altri effetti collaterali
comprendono riduzione della libido, sintomi parkinsoniani e iperprolattinemia (che può diventare
talmente pronunciata da causare galattorrea). Nei soggetti che presentano una disfunzione del nodo
del seno, la metildopa può causare grave bradicardia e arresto cardiaco.
Le metildopa induce anche alcuni effetti collaterali non correlati alla sua funzione farmacologica,
come l’epatotossicità e l’insorgenza di anemia emolitica.
• Agonisti selettivi dei recettori α2 adrenergici. Un esempio di agonista adrenergico selettivo per i
recettori α2 è la clonidina. Essa non rappresenta un’opzione per la monoterapia dell’ipertensione,
ma riduce la pressione arteriosa in molti pazienti che non hanno risposto adeguatamente ad altri
farmaci utilizzati in associazione. La risposta ipotensiva deriva da una diminuzione degli impulsi
simpatici inviati dal SNC. Questo effetto sembra essere dovuto all’attivazione dei recettori α2 nella
regione inferiore del tronco encefalico.
• Guanadrel. Il guanadrel inibisce in modo specifico la funzionalità dei neuroni adrenergici
postgangliari periferici. Il guanadrel è un falso neurotrasmettitore esogeno che viene accumulato,
immagazzinato e rilasciato come la noradrenalina, ma è inattivo a livello dei recettori adrenergici.
Praticamente tutti gli effetti farmacologici e avversi del guanadrel derivano dal blocco ortosimpatico.
L’effetto antipertensivo si ottiene mediante la riduzione delle resistenze vascolari periferiche dovuta
all’inibizione della vasocostrizione mediata dagli α-recettori. L’ipotensione in posizione eretta,
durante l’attività fisica, l’ingestione di alcol e il caldo, è dovuta alla mancata compensazione
ortosimpatica in queste condizioni di stress. Si può manifestare una disfunzione sessuale; può
insorgere anche diarrea.
Anche il guanadrel viene impiegato principalmente come farmaco supplementare nei pazienti in cui
non si ottiene un effetto antipertensivo soddisfacente con due o più agenti diversi.
• Reserpina. La reserpina è un alcaloide che si lega alle vescicole adrenergiche di deposito a livello dei
neuroni adrenergici centrali e periferici e rimane legata per un periodo di tempo prolungato.
L’interazione inibisce il trasporto vescicolare di catecolamine che facilita l’immagazzinamento
vescicolare. Pertanto, le terminazioni nervose perdono la loro capacità di concentrare e
immagazzinare noradrenalina e dopamina. Le catecolamine vengono riversate nel citosol dove
vanno incontro a distruzione a opera delle MAO.
Durante la terapia cronica con reserpina si verifica riduzione sia della gittata cardiaca sia delle
resistenza periferiche. Può insorgere ipotensione ortostatica, ma solitamente è asintomatica.
La maggior parte degli effetti collaterali della reserpina è ascrivibile al suo effetto sul SNC. Gli effetti
collaterali più comuni sono la sedazione e l’incapacità di concentrarsi. Più preoccupante è la
depressione psicotica che occasionalmente può condurre al suicidio (il farmaco va interrotto ai primi
sintomi di depressione). Altri effetti collaterali comprendono congestione nasale e recidiva di ulcera
peptica.
La reserpina è impiegata a basso dosaggio in associazione con diuretici nel trattamento
dell’ipertensione, specie negli anziani.
• Metirosina. La metirosina è un inibitore della tirosina idrossilasi, l’enzima che catalizza la
conversione di tirosina a DOPA, reazione di biosintesi delle catecolamine. Viene utilizzata come
coadiuvante dei bloccanti α-adrenergici
CALCIO ANTAGONISTI
Nel muscolo striato la contrazione del sistema actina-miosina è mediata dal legame del calcio alla troponina.
Nel nel muscolo liscio la contrazione è invece regolata primariamente dalla fosforilazione di una delle catene leggere
della miosina, detta “catena leggera regolatoria”. La fosforilazione della catena leggera regolatoria promuove
l’interazione actina-miosina e la contrazione muscolare.
L’enzima che catalizza la fosforilazione, detto “myosin light-chain kinase” (MLCK) è regolato dall’associazione con la
proteina che lega il calcio, la calmodulina. L’aumento del calcio citosolico è quindi responsabile, sebbene
indirettamente, dell’attivazione della miosina nel muscolo liscio.
I livelli intracellulari di calcio possono aumentare tramite tre diversi meccanismi:
- apertura di canali del calcio voltaggio-dipendenti;
- apertura di canali del calcio recettore-dipendenti (per esempio recettore del glutamato NMDA);
- stimolazione della fosfolipasi C (cascata di trasduzione mediata dall’IP3 che porta ad una fuoriuscita di calcio
dal reticolo sarcoplasmatico).
I canali del calcio voltaggio-dipendenti consentono l'ingresso di una notevole quantità di calcio nelle cellule in seguito
a depolarizzazione della membrana (come nel caso del potenziale d'azione). Questi canali voltaggio-attivati sono
altamente selettivi per calcio e non permettono il passaggio di sodio o potassio. Tra i canali al Ca voltaggio dipendenti
si individuano i canali LVA (low voltage activate) che si attivano a voltaggi negativi (intorno a −50 mV) e danno origine
a una corrente transiente di bassa intensità, venendo perciò definiti canali al calcio di tipo T (dall'inglese Tiny and
Transient). Sono presenti altri canali voltaggio dipendenti, i quali si attivano a potenziali più positivi (da −30 mV a
valori più positivi) e vengono perciò definiti HVA (high voltage activate). Quest'ultimi danno origine a correnti ampie e
durevoli qualche centinaio di millisecondi, venendo anche denominati canali al Ca di tipo L (large and long).
Gli antagonisti dei canali al calcio producono il loro effetto legandosi alla subunità α1 dei canali al calcio di tipo L
riducendo il flusso di calcio attraverso il canale.
Sebbene siano anche coinvolte correnti al sodio, la depolarizzazione delle cellule muscolari lisce vascolari dipende
principalmente dall’ingresso di calcio. Tutti i calcio-antagonisti riducono la pressione arteriosa inibendo il flusso
trasmembrana di calcio, determinando alla fine il rilassamento della muscolatura liscia vascolare e riducendo le
resistente vascolari periferiche. Come conseguenze della riduzione delle resistenze periferiche, i calcio-antagonisti
provocano una scarica ortosimpatica mediata dai barocettori. Se si tratta di diidropiridine, si può avere tachicardia per
stimolazione simpatica del nodo del seno; questa risposta è modesta, a meno che il farmaco non sia stato
somministrato rapidamente. L’effetto cronotropo negativo di verapamile e diltiazem previene la tachicardia riflessa; di
conseguenza, l’uso di questi due farmaci in associazione con β-bloccanti può essere problematico.
I calcio-antagonisti in uso in clinica hanno struttura chimica diversa fra loro.
1. Il verapamile è una fenil-alchil-ammina.
2. Il diltiazem è una benzotiazepina.
3. Nifedipina, amlodipina, isradipina, nicardipina, nisoldipina e nimodipina sono diidropiridine.
Tutti i calcio-antagonisti sono efficaci nella terapia dell’ipertensione, ma non sono considerati adatti in monoterapia,
ad eccezione dei casi di ipertensione sistolica isolata (patologico aumento della pressione sistolica, in presenza di
valori normali di pressione diastolica), tipica degli anziani.
Sebbene l’assorbimento orale di questi farmaci sia pressoché completo, la loro biodisponibilità può essere
marcatamente ridotta dall’effetto di primo passaggio. L’effetto di questi farmaci è evidente 30-60 minuti dopo
somministrazione orale, con l’eccezione di amlodipina, isradipina e felodipine che sono assorbite ed eliminate molto
lentamente.
Tutti calcio-antagonisti sono legati a proteine plasmatiche per il 70-98%; l’emivita di eliminazione varia da 1,3 a 64
ore. Se si satura il metabolismo epatico o se è presente danno epatico, l’emivita plasmatica di alcuni farmaci può
aumentare.
Il profilo degli effetti collaterali varia fra i diversi calcio-antagonisti. Gli effetti collaterali più frequenti, specie con le
diidropiridine, sono conseguenti ad un eccesso di vasodilatazione. I sintomi comprendono capogiro, ipotensione,
cefalea, vampate, formicolii alle dita e nausea. Possono comparire costipazione, edemi alle estremità, tosse, respiro
affannoso ed edema polmonare.
La nimodipina a dosi elevate può dare crampi muscolari.
Le diidropiridine a breve durata d’azione possono indurre ischemia coronaria.
Le formulazioni a rapido rilascio di nifedipina inducono frequentemente cefalea e vampate e non sono indicate nel
trattamento di lungo termine a causa dei riflessi ortosimpatici che determinano. Le formulazioni a lento rilascio o
l’uso di diidropiridine a lunga durata d’azione non presentano questi problemi.
L’edema alle estremità non è il risultato di una ritenzione idrica generalizzata; più verosimilmente consegue ad
un’aumentata pressione idrostatica dovuta alla dilatazione delle arteriole precapillari associata alla costrizione riflessa
delle venule post-capillari.
VASODILATATORI
Rientrano in questa classe tutti i principi attivi che, con meccanismi differenti rispetto ai calcio-antagonisti, rilasciano
la muscolatura liscia delle arteriole, riducendo quindi le resistenze periferiche.
- Attivi per via orale. Sono utilizzati per il trattamento ambulatoriale a lungo termine dell'ipertensione.
Rientrano in questa categoria l'idralazina (che agisce tramite un'azione vasodilatatrice arteriosa diretta) e
il minoxidil (che agisce attivando i canali del potassio nella muscolatura liscia, causando l’iperpolarizzazione
della cellule e il rilassamento della stessa).
- Attivi per via parenterale: utilizzati prevalentemente nel trattamento delle emergenze ipertensive,
comprendono il nitroprussiato di sodio (che agisce rilasciando NO; il meccanismo di rilascio dell’NO sembra
coinvolgere sia via enzimatiche che non enzimatiche).
La scelta del farmaco antipertensivo dovrebbe essere eseguita tenendo in considerazione le malattie concomitanti
(per esempio il diabete mellito), gli effetti collaterali importanti di farmaci specifici e il costo.
Le recenti linee guida raccomandano l’impiego dei diuretici come terapia iniziale nella maggior parte dei pazienti con
ipertensione in stadio 1, non complicata, insensibile alle misure non farmacologiche. I pazienti sono anche
comunemente trattati con altri composti: β-bloccanti, ACE-inibitori, antagonisti dei recettori AT1 e calcio-antagonisti. I
pazienti con ipertensione in stadio 2 non complicata possono richiedere la precoce introduzione di un diuretico e di un
farmaco di un’altra classe.
Altri pazienti possono presentare condizioni fisiopatologiche più o meno gravi che possono influenzare la scelta
farmacologica (scompenso cardiaco, pregresso infarto miocardico, malattia renale cronica, diabete). Per esempio, un
paziente iperteso con scompenso cardiaco cronico dovrebbe essere idealmente trattato con un diuretico, un β-
bloccante, un ACE-inibitore/antagonista dei recettori AT1 a causa dei benefici di questi composti nello scompenso
cardiaco, anche in assenza di ipertensione. Allo stesso modo, gli ACE-inibitori/antagonisti dei recettori AT1 dovrebbero
essere i farmaci di prima scelta nel trattamento del diabete con ipertensione grazie ai benefici dimostrati da questi
composti nella nefropatia diabetica.
TERAPIA DELLO SCOMPENSO CARDIACO
L'insufficienza cardiaca o scompenso cardiaco e definita come l'incapacita del cuore di fornire il sangue in quantita
adeguata rispetto all'effettiva richiesta dell'organismo.
Esistono diversi criteri classificativi relativi allo scompenso cardiaco.
In relazione all'evoluzione.
- Insufficienza acuta, che si sviluppa in pochi minuti oppure qualche ora.
- Insufficienza cronica.
La terapia attuale per il trattamento dello scompenso cardiaco congestizio comprende la riduzione del precarico, la
riduzione del postcarico e il miglioramento dello stato inotropo (forza di contrazione del miocardio).
DIURETICI
I diuretici mantengono un ruolo centrale nel trattamento dei sintomi “congestizi” nei pazienti affetti da scompenso
cardiaco. I diuretici sono in grado di diminuire il volume dei liquidi extracellulari e la pressione di riempimento
ventricolare (precarico).
Diuretici dell’ansa come furosamide, bumetanide e torsemide sono ampiamente utilizzati per il trattamento dello
scompenso cardiaco.
In seguito a somministrazione prolungata di un diuretico dell’ansa, si può verificare un processo di adattamento tale
da produrre un aumento compensatorio del riassorbimento di sodio.
L’uso dei diuretici è sintomatico e tende a ripristinare e mantenere una normale volemia in pazienti con sovraccarico.
Non ci sono però evidenze che essi prolunghino la sopravvivenza e i loro uso può attivare in alcuni casi sistemi neuro-
ormonali come il sistema renina-angiotensina-aldosterone.
Studi clinici indicano un aumento di mortalità con i diuretici che determinano una perdita di potassio, al contrario di
quanto osservato con i risparmiatori di potassio.
ANTAGONISTI DELL’ALDOSTERONE
Una delle caratteristiche principali dello scompenso cardiaco congestizio è la marcata attivazione del sistema renina-
angiotensina-aldosterone. Nei pazienti affetti da scompenso cardiaco la concentrazione plasmatica di aldosterone può
aumentare fino a valori 20 volte superiori a quelli normali. Questo suggerisce che l’antagonismo dell’aldosterone
possa, di per sé, esercitare effetti positivi sullo scompenso cardiaco.
Il sistema renina-angiotensina riveste un ruolo importante nella fisiopatologia dello scompenso cardiaco. Di
conseguenza, l’antagonismo dell’angiotensina II rappresenta la base del trattamento dello scompenso cardiaco. Gli
ACE-inibitori, nello scompenso cardiaco, sono in grado di inibire la produzione di angiotensina II e di aldosterone, di
diminuire l’attività del sistema nervoso ortosimpatico e di potenziare gli effetti dei diuretici. Tuttavia, in seguito a un
trattamento cronico con ACE-inibitori, spesso i lievelli di angiotensina II ritornano ai valori basali; tale fenomeno è in
parte una conseguenza della produzione di angiotensina II attraverso enzimi ACE-indipendenti, per esempio
attraverso l’azione della chimasi, una proteasi tissutale. La significativa efficacia clinica degli ACE-inibitori, nonostate la
loro incapacità di mantenere bassi i livelli di angiotensina II, può essere dovuta al fatto che essi impediscono la
degradazione della bradichinina da parte dell’ACE; la bradichinica a sua volta stimola la produzione di NO e di sostanze
vasoattive che determinano vasodilatazione e contrastano gli effetti dell’angiotensina II.
La maggior parte degli effetti deleteri dell’angiotensina II è mediata dall’attivazione del recettori AT1. Il blocco del
recettore mediato dagli antagonisti AT1 rappresenta uno strumento farmacologico attraverso il quale ridurre l’azione
dell’angiotensina II.
FARMACI SIMPATICOLITICI
Comprendono principalmente gli antagonisti dei recettori β-adrenergici (β-bloccanti). I β-bloccanti sono una pietra
miliare della terapia dello scompenso cardiaco, dato che l’attivazione ortosimpatica cronica ha un ruolo chiave nella
progressione della malattia: il sistema ortosimpatico stimola la contrattilità cardiaca (inotropia), aumenta il
rilassamento e il riempimento ventricolare (lusotropia) e aumenta la frequenza cardiaca (cronotropia).
Gli effetti benefici sono stati osservati in aggiunta all’inibizione di base degli ACE-inibitori, quindi ACE-inibitori e β-
bloccanti sono considerati i trattamenti obbligati nello scompenso cardiaco.
I β-bloccanti sono attualmente raccomandati per l’impiego abituale nei pazienti con sintomi di classe II o III in aggiunta
a un ACE-inibitore e ai diuretici, se questi ultimi sono necessari ad alleviare i sintomi.
La terapia dovrebbe essere iniziata a dosi molto basse e la dose dovrebbe essere aumentata molto lentamente, nel
corso di alcune settimane. L’istituzione rapida di una terapia con dosi di β-bloccanti comunemente impiegate per
l’ipertensione può provocare scompenso in molti pazienti che sarebbero stati in grado di tollerare una regolazione più
lenta della posologia.
Alcuni β-bloccanti approvati per il trattamento dello scompenso sono il metoprololo e il carvedilolo. Il metoprololo è
un antagonista β1-selettivo; numerosi studi clinici hanno dimostrato che la terapia con metoprololo ha effetti benefici
sull’insufficienza cardiaca con una riduzione della mortalità globale, dovuta sia alla diminuzione delle morti cardiache
improvvise sia alla riduzione del numero di morti conseguenti a peggioramente dello scompenso cardiaco. Il
carvedilolo è un antagonista non selettivo del recettore β-adrenergico e un antagonista α1-selettivo.
ALTRI TRATTAMENTI
Altri trattamenti sono considerati di seconda linea perchè non sembrano comportare benefici consistenti in termini di
sopravvivenza.
- Digossina. La digossina è un farmaco digitalico utilizzato per aumentare la forza di contrazione delle fibre
miocardiche sia atriali che ventricolari (effetto inotropo positivo); è inoltre in grado di ridurre la frequenza
sinusale (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione cardiaca in modo particolare a livello del
nodo atrioventricolare (AV). La digossina riveste ancora un ruolo importante in pazienti con insufficienza
cardiaca e fibrillazione atriale concomitante, ma ha uno scarso impatto sulla sopravvivenza.
- Idralazina cloridrato. L’idralazina e i nitrati possono essere di utilità clinica nei pazienti che rispondono poco
agli ACE-inibitori.
- Calcio-antagonisti. I calcio-antagonisti sembrano avere un effetto neutro nell’insufficienza cardiaca, e quindi
possono essere utilizzati in quei pazienti che necessitano di questi farmaci per altre indicazioni (ipertensione,
angina pectoris).
TERAPIA DELLE ARITMIE
Il ritmo sinusale è il fisiologico ritmo con cui si contrae il muscolo cardiaco; più correttamente si definisce "sinusale" un
ritmo che presenta onde P in successione regolare, in rapporto costante con il complesso QRS che segue. La frequenza
del ritmo sinusale oscilla normalmente nell’adulto tra 60 e 80 battiti al minuto. Qualunque ritmo differente da quello
1
sinusale rientra a far parte delle "aritmie" .
Nel cuore sono presenti due tipi principali di tessuto muscolare cardiaco: quello costituito dalle fibre atriali o
ventricolari, che presentano una contrazione simile a quella del muscolo scheletrico ma più prolungata, e quello
costituito dalle fibre specializzate nell’eccitabilità e nella conducibilità.
1
La tachicardia sinusale e la bradicardia sinusale non comportano un’irregolarità nella successione dei battiti cardiaci,
ma solo rispettivamente una accellerazione o un rallentamento; non dovrebbero quindi essere classificate tra le
aritmie.
COMPORTAMENTO DELLE CELLULE PACEMAKER
È nelle cellule pacemaker che nasce lo stimolo cardiaco vero e proprio. Per questo motivo il comportamento di dette
cellule differisce in maniera consistente rispetto a quella di ogni altra cellula e conseguentemente il comportamento
elettrico assume delle modalità particolari.
La particolarità delle "cellule pacemaker" è proprio quella di non avere un vero e proprio potenziale di riposo: a
riposo, le fibre nodali mostrano un numero esiguo di canali aperti per gli ioni sodio; pertanto, l’ingresso di ioni sodio
positivi induce un lento innalzamento del potenziale di membrana. Tra un potenziale d'azione ed un altro si registra
una progressiva depolarizzazione della cellula partendo da un valore di circa -65 mV. Quando esso arriva ad un
voltaggio soglia di circa -40mV, si attivano i canali calcio-sodio e il rapido ingresso di cariche positive genera il
potenziale di azione. Pertanto, fondamentalmente, è la scarsa capacità della membrana delle fibre nel nodo S-A a
trattenere gli ioni sodio che sta alla base del meccanismo di autoeccitazione.
L’eccitabilità della cellula dipende principalmente dallo stato di attivazione dei canali del sodio e del calcio voltaggio-
dipendenti e dai canali del potassio della membrana a riposo. Qualsiasi cosa aumenti il numero dei canali del sodio e
del calcio disponibili o riduca la loro soglia di attivazione tenderà ad aumentare l'eccitabilità, mentre l'aumento della
conduttanza del potassio a riposo la ridurrà. Agenti che determinano il blocco dei canali produrranno l'effetto
opposto.
FARMACI ANTIARITMICI
ADENOSINA
L’adenosina è un nucleoside somministrato rapidamente per via endovenosa per bloccare in fase acuta l’aritmia
sopraventricolare da rientro. La somministrazione avviene “in bolo”, cioè in dose massiva e non frazionata nel tempo,
per permettere all'agente terapeutico il rapido raggiungimento di una concentrazione efficace nel sangue.
Gli effetti dell’adenosina sono mediati dalla sua interazione specifica con i recettori muscarinici dell’acetilcolina
presenti nelle cellule del pacemaker cardiaco. Agendo sui recettori muscarinici, l’adenosina (al pari dell’acetilcolina
rilasciata dal nervo vago) attiva rapidamente i canali del potassio rendendo le cellule autoritmiche del cuore (nodo del
seno e nodo AV) iperpolarizzate e quindi meno eccitabili. La somministrazione di adenosina rallenta la conduzione del
nodo AV e aumenta la refrattarietà dello stesso, diminuendo l’automatismo e provocando un rallentamento del
battito.
Uno dei principali vantaggi della terapia con adenosina è il fatto che gli effetti avversi sono di breve durata, poiché il
farmaco viene trasportato all’interno delle cellule e deaminato rapidamente. L’asistolia transitoria è comune, ma
generalmente dura meno di 5 secondi e rappresenta, infatti, un obiettivo terapeutico. La maggioranza dei pazienti
avverte come un senso di ostruzione delle vie aeree e di dispnea quando vengono somministrate dosi terapeutiche di
adenosina. E’ raro che una singola somministrazione di adenosina possa provocare grave broncospasmo.
Le metilxantine (per esempio teofillina e caffeina) bloccano i recettori dell’adenosina; perciò sono richieste dosi
maggiori rispetto a quelle abituali per produrre l’effetto antiaritmico in pazienti che hanno assunto queste sostanze in
bevande o come agenti terapeutici.
AMIODARONE
L'amiodarone è un farmaco anti-aritmico ampiamente utilizzato nella fibrillazione atriale resistente ad altri farmaci e
nella prevenzione delle tachicardie ventricolare ricorrenti. La somministrazione è orale ma può essere somministrata
anche in via endovenosa per il controllo acuto della tachicardia o della fibrillazione ventricolare. L’amiodarone è un
analogo strutturale dell’ormone tiroideo e alcune delle sue azioni potrebbero essere attribuibili all’interazione con il
recettore nucleare dell’ormore tiroideo. L’amiodarone è altamente lipofilo, si concentra in molti tessuti ed è eliminato
molto lentamente; di conseguenza gli effetti collaterali sono molto difficili da contrastare.
L’amiodarone blocca i canali per il sodio inattivati e ha una velocità di recupero dal blocco molto rapida (costante di
recupero 1,6 secondi). Esso blocca anche i canali per il potassio (quest’ultima azione è testimoniata dall’allungamento
del tratto QT); il blocco dei canali per i potassio comporta una incapacità da parte della cellula miocardica di ritornare
nei tempi fisiologici al potenziale di riposo; in particolare, viene ad essere prolungato il periodo refrattario, condizione
che comporta un impedimento elettrico nella genesi di nuovi potenziale d'azione nelle cellule con bassa soglia di
eccitabilità, con conseguente marcato effetto anti-aritmico. L’amiodarone blocca anche i canali per il calcio e svolge un
effetto di blocco non competitivo del recettore adrenergico (si comporta da β-bloccante).
Con la somministrazione endovenosa di amiodarone si verificano frequentemente ipotensione dovuta a
vasodilatazione e ridotta performance cardiaca. Durante la terapia orale a lungo termine i pazienti possono
presentare nausea durante la fase di carico, situazione che migliora con la riduzione della dose giornaliera. Gli effetti
collaterali durante una terapia a lungo termine riflettono sia l’entità delle dosi giornaliere di mantenimento, sia la
dose comulativa , suggerendo un possibile coinvolgimento dell’accumolo del farmaco a livello tissutale. L’effetto
tossico più grave (ma relativamente poco comune) durante somministrazione terapeutica cronica di amiodarone è la
fibrosi polmonare. Altri effetti avversi durante la terapia a lungo termine sono costituiti da microdepositi corneali,
disfunzioni epatiche, sintomi neuromuscolari (neuropatie periferiche o debolezza muscolare), fotosensibilità e ipo- o
ipertiroidismo.
L’amiodarone inibisce nettamente il metabolismo epatico di molti composti. I meccanismi identificati fino ad oggi
includono l’inibizione dei citocromi P450 34A e 2C9 e della glicoproteina P. Di solito, durante la terapia con
amiodarone è necessaria una riduzione dei dosaggi del warfarin, di altri antiaritmici (per esempio flecainide,
procainamide e chinidina) o della digossina.
GLICOSIDI DIGITALICI
I glicosidi digitalici, di cui il più importante esempio è la digossina, sono farmaci in grado aumentare la forza di
contrazione delle fibre miocardiche sia atriali che ventricolari (effetto inotropo positivo), ma anche in grado di ridurre
la frequenza sinusale (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione cardiaca (effetto dromotropo negativo)
in modo particolare a livello del nodo atrioventricolare.
Il meccanismo d'azione è conseguente al legame relativamente stabile con una frazione precisa della
Na+/K+ ATPasi, pompa della membrana delle cellule muscolari, in particolare cardiache. Questo legame determina il
blocco del 10-30% dell'ATPasi di membrana, determinando un aumento del sodio intracellulare, ma con un rapporto
Na+/K+mantenuto.
Un fenomeno interessante, che spiega il meccanismo d'azione dei digitalici, è che il blocco della Na+/K+ ATPasi,
incrementando il sodio intracellulare, va a rallentare l'attività dello scambiatore Na+/Ca++, determinando un aumento
della concentrazione di calcio nella cellula, che aumenta la contrattilità muscolare o inotropismo. Ne risulta pertanto
un effetto inotropo positivo.
Col blocco di più del 30% della pompa sodio potassio si hanno invece effetti tossici, poiché all'aumentare del sodio si
ha una diminuzione relativa di potassio, viene abbassato il potenziale di membrana e aumenta la tendenza all'attività
spontanea.
Il suo effetto cronotropo negativo è invece dovuto ad una triplice azione: aumento del tomo vagale, riduzione dello
stimolo simpatico, prolungamento del periodo refrattario del nodo AV.
La digossina è utilizzata nell’insufficienza cardiaca congestizia, nel flutter o nella fibrillazione atriale. Nell'insufficienza
cardiaca, l'effetto inotropo positivo comporta un aumento della gittata cardiaca, una diminuzione del volume
cardiaco, una riduzione della pressione venosa, della pressione telediastolica, del volume di sangue circolante, degli
edemi e, infine, un aumento della diuresi.
Nei pazienti con flutter o fibrillazione atriale, la digossina abbassa la frequenza ventricolare (a causa dell’aumento
della refrattarietà a livello del nodo AV). L’effetto antiaritmico può essere ottenuto sia con somministrazione orale che
endovenosa.
In caso di intossicazione acuta da digitale si ha un aumento progressivo del potassio plasmatico dovuto al blocco della
pompa Na-K-ATPasi. Il tempo di latenza dei sintomi del sovradosaggio da digossina è di 1-6 ore dopo assunzione orale
e di 5-30 minuti dopo somministrazione endovenosa. Il primo segno può essere il vomito di origine centrale, spesso
incoercibile. Altri segni sono: sonnolenza, astenia, agitazione fino al delirio con allucinazioni visive. La tachicardia
atriale con blocco A-V è un “classico” effetto collaterale, ma possono verificarsi anche altre aritmie. Se compare
bradicardia grave, si può tentare l'atropina per prevenire il blocco AV completo.
L’emivita della digossina è di circa 36 ore. Il suo metabolismo è accellerato da farmaci che inducono il metabolismo
epatico, come la fenitoina e la rifampicina. L’amiodarone, la chinidina, il verapamil e altri farmaci diminuiscono la
clearance della digossina, probabilmente inibendo la glicoproteina P, che è la principale via di eliminazione della
digossina.
TERAPIA DELL’ISCHEMIA DEL MIOCARDIO
L'angina pectoris è un dolore al torace provocato dall'insufficiente ossigenazione del muscolo cardiaco a causa di una
diminuzione del flusso sanguigno attraverso le arterie coronariche.
La classificazione clinico prognostica dell'angina è principalmente di due tipi.
- Angina STABILE. E' la forma più diffusa della malattia e per questo viene denominata anche angina pectoris
tipica. Insorge generalmente durante sforzi fisici ed in generale in tutte quelle situazione che richiedono un
maggiore afflusso di sangue al cuore. In questi casi la gravità della sintomatologia è costante e non peggiora
significativamente con il trascorrere dei mesi. Oltre a rappresentare la forma più diffusa, l'angina stabile o da
sforzo è anche la meno grave, dato che gli episodi acuti sono prevedibili in frequenza ed intensità.
- Angina INSTABILE. Le due caratteristiche più importanti di questa forma di angina sono la recente insorgenza
(<1 mese) e l'ingravescenza, ovvero l'aggravamento in durata ed intensità degli episodi anginosi. Con il
passare del tempo gli attacchi si manifestano anche per sforzi fisici di modesta entità (riduzione della soglia
ischemica), fino a comparire già in condizioni di assoluto riposo. Tra le due forme l'angina instabile è la più
pericolosa e si colloca come gravità tra la forma stabile e l'infarto miocardico.
Una forma particolare di angina è l'angina variante o angina di Prinzmetal, dovuta ad un vasospasmo coronarico. I suoi
sintomi sono simili a quelli dell’angina instabile, in quanto si manifestano anche a riposo, spesso durante la notte.
Le principali caratteristiche del dolore anginoso comprendono la qualità, la sede, le eventuali irradiazioni, le modalità
di insorgenza e risoluzione.
Il dolore ischemico è oppressivo, di solito descritto come una morsa o un macigno. Esso è tipicamente caratterizzato
da inizio e cessazione graduali e, elemento importante, non è influenzato dagli atti respiratori, dalla posizione del
corpo e dalla digitopressione sulla parete toracica. Tipicamente esso è localizzato in sede retrosternale e il paziente lo
indica spesso ponendo la mano sulla regione sternale. Il dolore anginoso può irradiarsi verso varie sedi: l’arto
superiore sinistro, le spalle e il collo.
Tipicamente l’angina pectoris dura solo alcuni minuti (da 1-2 a 5-10 minuti). Tuttavia, nelle forme più gravi, la durata
può arrivare anche a 20-30 minuti. E’ importante sottolineare che una durata maggiore di un tipico dolore ischemico
cardiaco indica una condizione di persistenza dell’ischemia che porta inevitabilmente a necrosi miocardica.
L’angina è anche una delle complicazioni più frequenti del cuore trapiantato. Poichè si solito il cuore trapiantato è
denervato, l’episodio decorre senza dolore.
Tutti i farmaci antianginosi migliorano il bilancio tra offerta e domanda miocardica di ossigeno, aumentando l’offerta
attraverso la vasodilatazione coronarica o riducendo la domanda mediante la riduzione del lavoro cardiaco.
Tra i principali farmaci utilizzati per il trattamento dell’angina vi sono i nitroderivati, gli antagonisti dei recettori β-
adrenergici, i calcio-antagonisti e gli antiaggreganti piastrinici.
FARMACI NITRODERIVATI
Nitrati (cioè esteri dell’acido nitrico), nitriti (esteri dell’acido nitroso), composti nitrosi e una varietà di altre sostanze
contenenti azoto ossidato determinano in vivo la formazione di NO reattivo. L’NO interagisce, in ambiente
intracellulare, con la guanilato ciclasi, la cui attivazione stimola una proteina chinasi GMP ciclico dipendente, con
conseguente alterazione della fosforilazione di varie proteine nel muscolo liscio. Ciò eventualmente conduce alla
defosforilazione della catena leggera della miosina (la fosforilazione della catena leggera regola il mantenimento dello
stato contrattile nel muscolo liscio).
TERAPIA DEL DIABETE E FARMACI IPOGLICEMIZZANTI
TERAPIA INSULINICA
L’insulina è il caposaldo della terapia per pressocchè tutti i pazienti con diabete mellito di tipo I e per molti affetti da
diabete mellito di tipo II. Se necessario, l’insulina può essere somministrata per via endovenosa o intramuscolare;
comunque, il trattamento a lungo termine prevede essenzialmente iniezioni sottocutanee dell’ormone.
Le preparazioni insuliniche vengono classificate, in funzione della loro durata d’azione, in brevi, intermedie e a lunga
durata.
- Insuline a durata d’azione breve. La loro attività si manifesta in modo piuttosto rapido; comprendono
l’insulina solubile e gli analoghi ultrarapidi (l’insulina lispro e l’insulina aspart).
L' insulina solubile è una forma di insulina che ha breve durata d'azione. Ha il grande vantaggio di poter
essere somministrata sia per via endovenosa e intramuscolare, sia per via sottocutanea. Quando viene
iniettata sottocute, l'insulina solubile ha effetto rapido (dopo 30-60 minuti), ha un picco d'azione tra 2 e 4 ore
e una durata fino a 8 ore.
Quando viene iniettata per via endovenosa, l'insulina solubile ha una emivita molto breve di circa 5 minuti e il
suo effetto scompare entro 30 minuti.
In regimi di mantenimento, viene di solito iniettata per via sottocutanea dai 30 ai 45 minuti prima dei pasti.
L'insulina solubile è l'unica forma di insulina adatta per essere somministrata in caso di coma diabetico o di
interventi chirurgici.
Gli analoghi dell'insulina umana (l'insulina lispro e l' insulina aspart), di introduzione più recente, hanno un
inizio ancora più veloce e una durata d'azione ancora più breve rispetto all'insulina solubile tradizionale. La
somministrazione sottocutanea di insulina lispro o di insulina aspart è in genere preferita da coloro che
vogliono iniettarsi la dose poco prima o, quando necessario, appena dopo un pasto. Queste insuline possono
anche aiutare coloro che tendono ad avere un'ipoglicemia preprandiale e coloro che cenano tardi la sera e
che tendono a presentare eventi ipoglicemici notturni precoci.
- Insuline a durata d’azione intermedia (sospensione di insulina isofano e sospensione di zinco insulina) e lunga
(sospensione di zinco insulina a lunga durata). Queste insuline sono formulate in modo tale da dissolversi più
gradualmente quando vengono somministrate per via sottocutanea; presentano quindi una maggiore durata
d’azione. Quando somministrate per via sottocutanea, le insuline ad azione intermedia e lunga iniziano la loro
attività dopo circa 1-2 ore, hanno un picco d'azione tra 4 e 12 ore e una durata di 16-35 ore.
Alcune vengono somministrate 2 volte al giorno in associazione a insulina a breve durata d'azione (insulina
solubile), altre vengono somministrate 1 volta al giorno, in particolare nei pazienti anziani.
La determinazione della dose dell’insulina a lunga durata d’azione è difficoltosa perchè sono necessari diversi
giorni per ottenere una concentrazione costante di insulina circolante. A causa di questi limiti farmacocinetici,
si è avvertita la necessità si è avvertita la necessità di un analogo dell’insulina che non presentasse un picco
signitificativo nel suo profilo di azione. L' insulina glargina è un analogo dell'insulina umana a lunga durata
d'azione (basale) che si somministra in genere una volta al giorno. Studi clinici hanno rilevato che l’insulina
glargina provoca una minore ipoglicemia, una un profilo di assorbimento prolungato nel tempo con assenza
di picchi e fornisce, con una sola somministrazione giornaliera, una migliore copertura per 24 ore rispetto alle
altre insuline a lunga durata d’azione. La glargina può essere somministrata a qualsiasi ora durante il giorno e
può essere utilizzata in associazione con vari agenti orali anti-iperglicemizzanti.
Un altro approccio per prolungare l’azione degli analoghi solubili dell’insulina è l’aggiunta di un acido grasso
saturo alla molecola insulinica, che permette di ottenere un’insulina chiamata insulina detemir. Quando
l’insulina detemir è somministrata per via sottocutanea, si lega all’albumina tramite le sue catene di acido
grasso. Somministrata due volte al giorno, produce un profilo d’azione temporale più omogeneo e riduce la
prevalenza di ipoglicemia rispetto a quanto si osserva per esempio con l’insulina isofano.
La più comune reazione avversa legata al trattamento insulinico è l’ipoglicemia, che può essere conseguenza di una
dose eccessivamente elevate, di un disaccoppiamento fra tempo del picco di liberazione di insulina e apporto di cibo o
di fattori che aumentano la sensibilità all’insulina (per esempio insufficienza surrenalica o ipofisaria), o che potenziano
la capacità insulino-indipendente del glucosio (per esempio esercizio fisico).
Se l’insulina provoca una caduta della glicemia a valori troppo bassi, il metabolismo del sistema nervoso viene
depresso e può insorgere la sindrome dello shock insulinico. Quando la glicemia cade a valori compresi tra 20 e 50
mg/100 ml è facile che si verifichino convulsioni e perdita di coscienza e, se la glicemia scende ulteriormente, le
convulsioni cessano e il paziente entra in coma ipoglicemico. Talore è difficile distinguere il coma diabetico da carenza
di insulina dal coma dovuto ad ipoglicemia da eccesso di insulina. A questo proposito, quindi, si deve tenere presente
che l’alito acetonico e il tipo di respiro frequente e profondo del coma diabetico mancano nel coma ipoglicemico.
L’insulina può provocare anche forme di allergia. Le più frequenti manifestazioni allergiche sono reazioni cutanee a
livello locale mediate da IgE, sebbene i pazienti possano sviluppare, seppur raramente, risposte sistemiche
potenzialmente fatali o un’insulina resistenza dovuta ad anticorpi IgG. In questi casi si deve tentare di identificare la
causa dell’ipersensibilità mediante il dosaggio degli anticorpi insulino-specifici IgG e IgE. Gli antistaminici possono
apportare benefici ai pazienti con reazioni cutanee, mentre i glicocorticoidi sono stati impiegati nei pazienti con
insulino-resistenza o reazioni sistemiche più gravi.
In alcuni pazienti l’insulina può provocare atrofia del tessuto adiposo sottocutaneo: si tratta, probabilmente, di una
reazione immunitaria verso l’ormone. A volte si può osservare lipoipertrofia (ipertrofia dei tessuti adiposi
sottocutanei), che è attribuita all’azione lipogenica esercitata da elevate concentrazioni locali di insulina. Questi
problemi sono entrambi rari; tuttavia, l’ipertrofia può comparire se i pazienti effettuano l’iniezione ripetutamente
nello stesso sito.
In molti pazienti con iperglicemia grave trattata con insulina si sviluppa un certo grado di edema, gonfiore addominale
e visione offuscata. L’edema, in generale, scompare spontaneamente nell’arco di alcuni giorni o di una settimana, ed è
essenzialmente attribuito alla ritenzione renale di sodio.
Numerosi farmaci possono provocare ipoglicemia o iperglicemia, oppure alterare la risposta di soggetti diabetici
all’insulina. A parte l’insulina e i farmaci ipoglicemizzanti orali, i più comuni stati ipoglicemici farmaco-indotti sono
quelli causati da etanolo, antagonisti β-adrenergici e salicilati.
- L’effetto principale dell’etanolo è di inibire la gliconeogenesi.
- Nei diabetici gli antagonisti β-adrenergici determinano un rischio ipoglicemico a causa della loro capacità di
inibire gli effetti delle catecolamine sulla gliconeogenesi e la glicogenolisi.
- I salicilati accentuano la sensibilità delle cellule β del pancreas al glucosio e potenziano quindi la secrezione di
insulina.
IPOGLICEMIZZANTI ORALI
Gli ipoglicemizzanti orali sono farmaci di prima scelta per il trattamento del diabete di tipo 2, ma del tutto inefficaci in
caso di completa deficienza delle cellule β delpancreas (situazione tipica del diabete di tipo 1).
Gli ipoglicemizzanti orali, così detti perché somministrati per via orale, agiscono iperattivando le poche cellule ancora
funzionanti del pancreas e sensibilizzando i tessuti periferici alla captazione di insulina.
- SULFANILUREE. Le sulfaniluree sono una famiglia di farmaci utilizzata per il trattamento del diabete mellito di
tipo 2. La loro azione avviene a livello delle cellule insulari del pancreas, che vengono stimolate a produrre
maggiori quantità di insulina.
Le sulfaniluree di prima generazione comprendono tolbutamide, acetoesamide, tolazamide e clorpropamide.
Il gruppo di seconda generazione è composto da glibenclamide, glipizide, gliclazide e glimepiride.
Le sulfaniluree si legano al canale del potassio ATP-dipendente, situati nella membrana delle cellule beta del
pancreas. Ciò inibisce la fuoriuscita di potassio dalle cellule e, quindi, fa diventare più positivo il potenziale
elettrico della membrana. Questa depolarizzazione apre i canali del calcio voltaggio-dipendenti. L'aumento
del calcio intracellulare conduce ad una maggiore fusione dei granuli dell'insulina con la membrana delle
cellule e la sua secrezione, quindi, aumenta.
Tutte le sulfaniluree vengono efficacemente assorbite a livello del tratto GI, sebbene il cibo e l’iperglicemia
possano ridurne l’assorbimento. Considerando il tempo richiesto per l’assorbimento, le sulfaniluree
(soprattutto quelle caratterizzate da una breve emivita) possono essere più efficaci se somministrate 30
minuti prima dei pasti. Nel plasma questi composti sono ampiamente legati all’albumina (90-99%). L’emivita
delle sulfaniluree di prima generazione varia dalle 4 (tolazamide) alle 48 ore (clorpropamide). Le molecole di
seconda generazione hanno una breve emivita (3-5 ore), ma gli effetti ipoglicemizzanti si osservano per 12-24
ore ed è spesso possibile un’unica somministrazione giornaliera.
Tutte le sulfaniluree vengono metabolizzate per via epatica e i metaboliti escreti nelle urine.
Le sulfaniluree possono indurre reazioni ipoglicemiche, fra cui il coma, in particolare nei pazienti anziani che
presentano un’alterata funzionalità epatica o renale e assumono farmaci a lunga durata d’azione. Le
sulfaniluree possono essere classificate in base al rischio di causare ipoglicemia. Per quanto concerne quelle
di prima generazione, le sulfaniluree a lunga durata d’azione sono associate ad un maggior rischio di
ipoglicemia). Le sulfaniluree di seconda generazione sono associate a un rischio molto diverso di ipoglicemia,
nonostante le emivite simili. La gliburide, per esempio, determina ipoglicemia nel 20-30% dei pazienti,
mentre la glimepiride causa ipoglicemia solo nel 2-4% dei pazienti.
Un gran numero di farmaci è in grado di potenziare gli effetti delle sulfaniluree, soprattutto se appartenenti
alla prima generazione, attraverso l’inibizione del metabolismo o dell’escrezione. Inoltre, alcuni composti
spiazzano le sulfaniluree dal sito di legame con le proteine, aumentando quindi la concentrazione di farmaco
libero. Tra questi composti vi sono le sulfonamidi e i salicilati. Altri composti, come l’etanolo, possono
potenziare l’azione delle sulfaniluree causando ipoglicemia.
Gli altri effetti collaterali associati alle sulfaniluree includono nausea e vomito, ittero colestatico,
agranulocitosi, anemia aplastica e emolitica, reazioni di ipersensibilità generalizzata ed eruzioni cutanee. Le
sulfaniluree possono indurre iponatriemia, potenziando gli effetti della vasopressina. Questo effetto sulla
ritenzione di acqua è stato sfruttato a scopo terapeutico nei pazienti con lievi forme di diabete insipido di
origine centrale.
- REPAGLINIDE. La repaglinide è un farmaco utilizzato per il trattamento del diabete mellito di tipo 2. Come per
le sulfaniluree, la sua azione avviene a livello delle cellule insulari del pancreas, che vengono stimolate a
produrre maggiori quantità di insulina (attraverso la chiusura dei canali del potasio ATP-dipendenti).
Il farmaco è rapidamente assorbito dal tratto GI; l’emivita è di circa 1 ora. Queste caratteristiche permettono
un utilizzo multiplo preprandiale, in sostituzione del classico impiego delle sulfaniluree, una o due volte al
giorno. Il farmaco è metabolizzato prevalentemente dal fegato e dovrebbe essere utilizzato con cautela nei
pazienti con insufficienza epatica. Il principale effetto collaterale è l’ipoglicemia.
- METFORMINA. La metformina è un farmaco per il trattamento del diabete di tipo 2. Il meccanismo d'azione
della metformina non è ancora chiarito nei dettagli ma non sembra dipendere dalla presenza di cellule
β nel pancreaspoiché non pare stimolare la secrezione di insulina, come le sulfaniluree. Al momento si ritiene
che essa riduca la glicemia, cioè i valori diglucosio nel sangue, sia riducendone la produzione da parte
del fegato, per diminuzione della glIconeogenesi sia aumentandone il consumo da parte dei tessuti periferici,
per aumento della glicolisi, sia riducendone l'assorbimento da parte dell'intestino.
La metformina viene assunta per bocca e viene assorbita a livello intestinale e nel plasma circola in forma
libera. Il farmaco non viene metabolizzato ed è eliminato come tale attraverso le urine.
La sua emivita è di circa 2 ore.
Generalmente la metformina non provoca ipoglicemia, nemmeno a dosi elevate. I più comuni effetti
collaterali causati dall'uso della metformina sono di natura GI: nausea, vomito, anoressia,
diarrea, dolore addominale. Sono generalmente dose dipendenti (cioè compaiono più frequentemente in
persone che assumono dosaggi alti di farmaco), compaiono soprattutto all'inizio della terapia e tendono ad
essere transitori. Talvolta si può sviluppare uno stato di acidosi lattica che compare più frequentemente in
persone con insufficienza renale, con malattie epatiche, alcoliste o con condizioni tali da facilitare la
comparsa di ipossia (tipo malattie cardiopolmonari croniche). In persone in tali condizioni, perciò, l'uso della
metformina è controindicato.
- TIAZOLIDINDIONI. I tiazolidinedioni sono una classe di farmaci in grado di aumentare la sensibilità
all'insulina nel fegato, nel tessuto adiposo e nei muscoli.
I Tiazolidinedioni agiscono legandosi al PPARγ, un tipo di recettore localizzato all'interno del nucleo
cellulare delle cellule del fegato, delle cellule miocardiche, muscolari liscie e striate, della milza, dell’intestino
e del surrene. Il ligando naturale di questo recettore è rappresentato dagli acidi grassi e dagli eicosanoidi.
Quando attivato, il recettore migra verso il DNA ed attiva la trascrizionedi un gruppo specifico di geni che
regolano il metabolismo dei carboidrati e dei lipidi. I tiazolidindioni esercitano i loro effetti principali
aumentanto la sensibilità all’insulina nei tessuti periferici (e sono pertanto efficaci solo in presenza di
insulina) ma possono anche ridurre la produzione epatica di glucosio. I tiazolidindioni aumentano il trasporto
di glucosio nel muscolo e nel tessuto adiposo incrementando la sintesi e la traslocazione di specifiche forme
dei trasportatori del glucosio. I tiazolidindioni possono anche attivare geni che regolano il metabolismo degli
acidi grassi nei tessuti periferici, stimolando la lipogenesi nel tessuto adiposo.
I tiazolidindioni vengono somministrati una volta al giorno; sono assorbiti all’incirca entro 2 ore, ma l’effetto
clinico massimo non si osserva prima di 6-12 settimane. I tiazolidindioni sono metabolizzati dal fegato; non
dovrebbero essere utilizzati in presenza di patologie epatiche. Altri farmaci che inducono o inibiscono gli
enzimi epatici coinvolti nel metabolismo dei tiazolidindioni (citocromi P450 34A e 2C8) possono causare
interazioni farmacologiche.
Durante la terapia con tiazolidindioni deve essere monitorata la funzionalità epatica in quanto, seppur
raramente, essi sono associati a epatotossicità. E’ stato anche riportato che i tiazolidindioni causano anemia,
aumento di peso, edema. Si possono verificare ritenzione di liquidi e persino insufficienza cardiaca,
generalmente entro 6 mesi dall’inizio della terapia.
- INIBITORI DELL’α-GLUCOSIDASI. Gli inibitori dell’α-glucosidasi riducono l’assorbimento intestinale di amido,
destrina e disaccaridi inibendo l’azione dell’α-glucosidasi nell’orletto a spazzola intestinale. Il rallentato
assorbimento dei carboidrati che ne deriva fa sì che il picco postprandiale di glucosio plasmatico venga
appiattito sia negli individui normali sia nei diabetici. Gli inibitori dell’α-glucosidasi sono tipicamente utilizzati
in associazione con altri antidiabetici orali o con l’insulina. La somministrazione deve avvenire all’inizio del
pasto.
Gli inibitori dell’α-glucosidasi non determinano ipoglicemia, ma causano malassorbimento dose-dipendente,
flautolenza, diarrea e distensione addominale.
FASE VASCOLARE
Non appena un vaso sanguigno viene reciso o si rompe, per lo stimolo rappresentato dal trauma vascolare, la sua
parete si contrae riducendo così immediatamente il flusso e la fuoriuscita del sangue. La contrazione deriva sia da
riflessi nervosi, spasmo miogeno locale, sia da fattori locali chiamati endoteline, prodotti dallo stesso endotelio.
FASE PIASTRINICA
Le piastrine aderiscono al collagene della parete vasale danneggiata (che viene esposto in seguito alla rottura del vaso)
e formano aggregati chiamati tappi emostatici primari.
L’adesione piastrinica richiede la partecipazione di una proteina denominata fattore di Von Willebrand, secreta
principalmente dall’endotelio, che permette alle piastrine di aderire ad esso. Le piastrine, una volta avvenuta
l’adesione alla parete vasale, si attivano, espellendo ADP (potente fattore di stimolazione per l'aggregazione
piastrinica) e trombossano A2 (con l'effetto di richiamare altre piastrine).
L’attivazione piastrinica si accompagna a modificazioni morfologiche-strutturali e biochimiche, attraverso le quali le
piastrine perdono la loro forma: da forma discoide assumono una forma sferica con superficie spinosa dovuta alla
protrusione di pseudopodi; gli pseudopodi contengono filamenti contrattili di actina e di miosina che vengono attivati
dalla liberazione intracellulare di ioni calcio. Gli stessi ioni calcio attivano la fosfolipasi C, che agisce sui fosfolipidi di
membrana liberando acido arachidonico (necessario per la sintesi di trombossano) e il fattore attivante le piastrine
(PAF).
Vediamo ora, più nello specifico, cos’è il fattore di fattore di Von Willebrand. Si tratta di una glicoproteina plasmatica
che si trova normalmente a ridosso delle cellule endoteliali, pronta a intervenire quando si verifica una lesione
endoteliale; la sua funzione principale è infatti quella di fare da ponte tra la parete endoteliale e le piastrine in caso di
danno vascolare. L’adesione alle piastrine avviene attraverso la glicoproteina Ib e la glicoproteina IIb-IIIa; l’ancoraggio
sulle strutture endoteliali è garantito invece da dei siti di legame per il collagene sottoendoteliale.
Il fattore di Von Willebrand è sintetizzato dalle cellule endoteliali e dai megacariociti (si ritrova infatti anche negli α
granuli delle piastrine). Piccole quantità di questo fattore si trovano già depositate fisiologicamente nella matrice
sottoendoteliale (è secreto dalle cellule endoteliali).
FASE PLASMATICA
Se la lesione della parete in un vaso è piccola, il tappo piastrinico da solo è in grado di arrestare completamente la
perdita di sangue, ma nel caso di una grossa apertura, per arrestare l’emorragia è necessario che si formi un coagulo
sanguigno che stabilizzi il tappo piastrinico.
La fase plasmatica è finalizzata alla trasformazione del fibrinogeno (una proteina solubile presente in grandi quantità
nel circolo sanguigno) in un coagulo di fibrina, una trama densa di natura proteica che occlude completamente il sito
di rottura del vaso. Nel sangue la fibrina si trova normalmente sotto forma di fibrinogeno, che non può dar luogo ad
un aggregato. Per far sì che il fibrinogeno venga attivato esistono due vie, una intrinseca ed una estrinseca, che
differiscono tra di loro principalmente per l'agente iniziale che le attiva e il numero di fattori coinvolti nella cascata. Le
due vie si congiungono, originando la via comune, che ha inizio con l'attivazione del fattore X.
- La via intrinseca è più lenta, perché comprende, oltre i fattori della via estrinseca, anche tutti fattori
plasmatici. Questa via è innescata dall'attivazione del fattore XII (o fattore di Hageman) che si verifica quando
il sangue entra a contatto con la matrice extracellulare, in particolare con le macromolecole di collagene. Il
fattore XII da il via all’attivazione sequenziale del fattore XI, del fattore IX e infine del fattore X. Il fattore IX
può essere attivato anche dalla via estrinseca (vedi dopo).
- La via estrinseca è più rapida per il minor numero di fattori che vi prendono parte. Essa viene attivata quando
una lesione di un vaso sanguigno produce la liberazione, dalle cellule danneggiate, di un complesso proteico
detta fattore tissutale (o fattore III o tromboplastina, formato da una una parte proteica e da una parte
fosfolipidica). Quest’ultimo si lega al fattore VII e, in presenza di ioni calcio, attiva il fattore X. Il fattore VII può
attivare anche il fattore VIII, il quale è in grado di attivare il fattore IX della via intrinseca; quindi la via
intrinseca che può funzionare anche in assenza del fattore XII.
La via comune comincia con la formazione di un complesso, formato dal fattore X attivato e dal fattore V, che, in
presenza di ioni calcio, attiva la protrombina, operando su di essa un taglio proteolitico. La trombina neoformata
esegue un taglio simile sul fibrinogeno, trasformandolo in fibrina.
Il fibrinogeno è una glicoproteina del plasma sintetizzata dal fegato e dal tessuto endoteliale, presente nel sangue
sotto forma di molecole dimeriche. La molecola del fibrinogeno è composta a sua volta da tre catene più semplici di
aminoacidi, indicate rispettivamente come α, β e γ. La trombina agisce sul fibrinogeno staccando due frammenti a e b
( chiamati anche fibrinopeptidi) dalla catena α e dalla catena β; cioè che rimane dal distacco di questi due frammenti
costituisce un monomero di fibrina. I monomeri di fibrina si uniscono tra loro formando vari dimeri, che sono
stabilizzati dal fattore XIII e da ioni calcio.
- Fibrinolitici: agiscono come trombolitici trasformando il plasminogeno in plasmina, una proteina plasmatica
in grado di degradare la fibrina sciogliendo quindi i trombi. Tra i trombolitici includiamo le seguenti sostanze
(endogene ed esogene).
• ATTIVATORE TISSUTALE DEL PLASMINOGENO (prodotto dalle cellule endoteliali). Infusioni di
attivatore del plasminogeno sono utili nella lisi dei trombi nel corso di infarto miocardico acuto.
• UROCHINASI. Si tratta di unenzima ad azione diretta nei confronti del plasminogeno e prodotto
fisiologicamente dal rene.
• STREPTOCHINASI. E’ una proteina prodotta da alcuni ceppi di Streptococcus; si lega al plasminogeno
innescando un'attività autocatalitica con formazione di plasmina.
Un prodotto di degradazione della fibrina misurato comunemente nei laboratori clinici è il D-dimero. Consiste
di due frammenti D, appartenenti a catene γ differenti unite da legami crociati. Anticorpi monoclonali diretti
contro questo prodotto sono utilizzati per monitorare il processo fibrinolitico in vivo. La concentrazione del D-
dimero nel sangue è utile nella diagnosi di trombosi.
L’acido aminocaproico è un potente inibitore della fibrinolisi ed è capace di far regredire condizioni
patologiche associate a un eccesso di fibrinolisi. Esso si lega al plasminogeno e alla plasmina, bloccando così il
legame della plasmina al suo bersaglio, la fibrina.
- Anticoagulanti: agiscono inibendo l’azione della trombina (e quindi la scissione del fibrinogeno in fibrina).
Includono l’ANTITROMBINA III (chiamata anche cofattore eparinico I), il COFATTORE EPARINICO II e le
PROTEINE C ed S.
• L’antitrombina III non inibisce soltanto la trombina, ma anche altri fattori. E’ un α2
globulina, sintetizzata dal fegato, che inibisce i fattori della coagulazione appartenenti al
gruppo delle serin-proteasi, formando con essi complessi irreversibili. I principali bersagli
dell’antitrombina III sono: la trombina, il fattore X, il fattore IX, il fattore XI, il fattore XII e il
fattore VII. L’antitrombina III di per sé agisce lentamente nel processo di attivazione di
questi fattori, ma la presenza di eparina ne aumenta la velocità. L’eparina è una molecola
prodotta dai basofili e dai mastociti. Il sito di legame dell’eparina per l’antitrombina III è un
pentasaccaride (costituito da 5 unità cariche negativamente) che forma un legame con
regioni ricche di aminoacidi carichi positivamente dell’antitrombina III.
• Circa 1/3 dell’eparina circolante viene legato dall’antitrombina III, mentre gli altri 2/3
catalizzano l’effetto antitrombotico del cofattore eparinico II, una glicoproteina prodotta
dal fegato. Questo agisce inibendo solo la trombina.
• La proteina C e la proteina S inibiscono gli altri due fattori della coagulazione che non
vengono inibiti dall’antitrombina III, ovvero il fattore V e il fattore VIII. L’attivazione di
queste due proteine richiede la presenza di trombina e di trombomodulina (una
glicoproteina della membrana delle cellule endoteliali). Quando la trombina si lega alla
trombomodulina subisce dei cambiamenti conformazionali che le permettono di attivare la
proteina C. In questo modo, la trombina perde la sua capacità di attivare il fibrinogeno e si
trasforma, da enzima procoagulante, in un enzima in grado di attivare un potente
anticoagulante.
1
La colestiramina è una resina che lega gli acidi biliari nell'intestino formando un complesso insolubile
escreto via feci. È utilizzata come farmaco antiipercolesterolemico, perché evitando il riassorbimento
enteroepatico degli acidi biliari permette la neosintesi degli stessi da parte degli epatociti.
2
Un'analisi del sangue in grado di quantificare il tempo necessario alla formazione di un coagulo di fibrina.
L’effetto indesiderato principale degli anticoagulanti orali è rappresentato dalle manifestazioni emorragiche. Il rischio
di emorragie aumenta con l’intensità e la durata della terapia anticoagulante, l’uso di altri farmaci che inteferiscono
con l’emostasi e la presenza di potenziali fonti anatomiche di emorragia. Durante la terapia con warfarin è opportuno
tenere sotto controllo l’INR. La sigla “INR” sta per “International Normalized Ratio” ed esprime un rapporto tra il
tempo di protrombina (PT) di un soggetto in terapia ed un tempo di protrombina di controllo. Per fare un esempio,
una persona con INR pari a 2 ha un tempo di coagulazione approssimativamente doppio rispetto alla norma. Valori
maggiori (e al contrario valori decrescenti di PT) indicano che il sangue è sempre meno coagulato. L’incidenza degli
episodi di emorragia importante è generalmente basso (meno del 5%) in pazienti in cui l’INR venga mantenuto tra 2 e
3. Se l’INR è maggiore di 5 può essere somministrata vitamina K per via orale; la vitamina K causa generalmente una
diminuzione sostanziale dell’INR entro 24 o 48 ore senza rendere il paziente resistente ad un’ulteriore terapia con
warfarin. Nel caso vi sia un’immediata necessità emostatica a causa di un’emorragia abbondante o di un
sovradosaggio importante di warfarin (INR maggiore di 20), adeguate concentrazioni di fattori della coagulazione
possono essere rispristinate attraverso la trasfusione di plasma, integrato con vitamina K attraverso un’infusione
lenta.
Un altro effetto collaterale è la tossicità fetale: la somministrazione di warfarin durante la gravidanza causa difetti
congeniti e aborto. Per questo motivo gli anticoagulanti orali non sono usati in gravidanza; in questa situazione di può
usare senza rischio l’eparina.
La sindrome delle dita viola (una colorazione bluastra, reversibile, delle superfici plantari e dei lati delle dita dei piedi,
che si schiarische con l’elevazione delle gambe) può manifestarsi da 3 a 8 settimane dopo l’inizio della terapia con
warfarin). Sono stati indiziati come causa emboli di colesterolo liberati da placche ateromatose.
Reazioni poco frequenti al warfarin comprendono alopecia, orticaria, dermatite, febbre, nausea, diarrea e anoressia.
FARMACOLOGIA DELLA TIROIDE
La tiroide, situata subito al di sotto della laringe, bilateralmente e anteriormente alla trachea, è una delle ghiandole
più grosse di tutto l’organismo. Essa secerne due importanti ormoni, la tiroxina e la triiodotironina, indicati anche
come T4 e T3, aventi un profondo effetto di stimolazione sul metabolismo corporeo. La secrezione tiroidea è
controllata soprattutto dall’ormone TSH secreto dall’ipofisi anteriore.
La tiroide secerne alche la calcitonina, ormone coinvolto nel metabolismo del calcio (ipocalcemizzante).
L’unità funzionale elementare della ghiandola tiroide è il follicolo tiroideo, piccola cavità rotondeggiante delimitata da
uno strato di cellule epiteliali responsabili della sintesi dell’ormone, che viene poi raccolto nel lume follicolare. Il lume
follicolare contiene una sostanza amorfa detta colloide, da cui può essere riassorbito l’ormone e riversato nel sangue.
In prossimità dei follicoli si trovano le cellule C parafollicolari, responsabili della secrezione di calcitonina.
GOZZI SEMPLICI
La presenza di gozzo non significa necessariamente incapacità di secernere adeguati quantitativi di ormoni tiroidei.
Nonostante sia vistosamente allargata, questa ghiandola può infatti avere un'attività normale.
Nei pazienti affetti dal gozzo semplice la tiroide produce ormoni in minor quantità per varie cause; l'ipofisi aumenta
allora la produzione di TSH che, stimolando la tiroide, la "obbliga" a produrre i suoi ormoni in quantità normale,
causandone contestualmente un aumento di volume talvolta anche cospiquo (ipertrofia).
Si tratta quindi di una sorta di meccanismo di compenso che può essere tollerato solo sino a quando l'aumento
dimensionale della tiroide non inizia a causare sintomi fastiosi. Tra le cause di gozzo semplice abbiamo:
- carenza alimentare di iodio; di solito tale carenza di iodio colpisce delle regioni specifiche, in Italia le aree più
colpite sono alcune zone del Friuli, del Bergamasco e della Sardegna; poiché nella sintesi degli ormoni tiroidei
durante la fase di iodazione è indispensabile la presenza dello iodio, se si è in una condizione di carenza di
iodio la ghiandola sopperisce a ciò aumentando il suo volume; ecco che nel gozzo semplice diffuso la
ghiandola è uniformemente aumentata di volume e presenta consistenza parenchimatosa per aumento del
numero di follicoli e del connettivo interfollicolare;
- tiroidite; una forma particolare di gozzo semplice è quello della tiroidite acuta in cui si ha un aumento
uniforme di volume della ghiandola, alla palpazione la ghiandola è spiccatamente dolente, ci può essere
edema ed aumento della temperatura della cute sovrastante;
- difetti genetici; la Sindrome di Pendred, malattia genetica autosomica recessiva che si manifesta prima
dell’adolescenza con la sordità, è dovuta ad un difettoso trasporto dello iodio; a lungo andare questa
anomalia determina la comparsa di un gozzo;
- carcinoma tiroideo; anche il tumore alla tiroide in fase iniziale può assumere i caratteri di un gozzo semplice.
1
La tempesta tiroidea, o crisi tireotossica, è caratterizzata dall'insorgenza improvvisa di una sintomatologia
ipertiroidea più accentuata, con esacerbazione di alcuni sintomi e presenza di segni atipici. Vi sono compresi febbre,
astenia e deperimento muscolare marcati, irrequietezza estrema, confusione, psicosi o perfino coma ed epatomegalia.
Il paziente può presentarsi con collasso cardiocircolatorio e shock. La crisi tireotossica è il risultato di un ipertiroidismo
non trattato o trattato inadeguatamente e può essere precipitata da un'infezione, un trauma, un intervento
I farmaci antitiroidei vengono utilizzati nel trattamento dell’ipertiroidismo, per controllare il disturbo in
attesa di una remissione spontanea del morbo di Basedow, mentre si attendono gli effetti della terapia
radiante e durante la preparazione per un intervento chirurgico sulla tiroide. La risposta al trattamento va
monitorata attraverso i test di funzionalità tiroidea, ricordando che i valori del TSH possono rimanere inferiori
alla norma anche dopo che si è ripristinata una condizione di eutiroidismo. Una volta raggiunto
l’eutiroidismo, generalmente in 12 settimane, il farmaco antitiroideo può essere somministrato a dosi ridotte,
ma non deve essere sospeso a causa della possibilità che si verifichi una ricaduta dello stato di ipertiroidismo.
Un trattamento eccessivo e prolungato con farmaci antitiroidei può indurre ipotiroidismo, spesso
preannunciato da un aumento di volume della tiroide.
Sebbene sia accertato che la malattia di Graves può andare incontro a remissione, ciò avviene in meno del
50% dei casi. Pertanto, molti endocrinologi preferiscono ricorrere all’ablazione con iodio radioattivo per la
terapia definitiva.
Le donne gravide con tireotossicosi rappresentano un sottogruppo particolare di pazienti. In queste donne lo
iodio radioattivo è chiaramente controindicato. Il propiltiouracile e il metimazolo attraversano la placenta
nella stessa misura ed entrambi i farmaci possono essere utilizzati in gravidanza. Il dosaggio del farmaco
antitiroideo deve essere ridotto al minimo per evitare un possibile ipotiroidismo fetale; l’obiettivo è di
mantenere i livelli di T4 libera nella metà superiore dell’intervallo di normalità. Nelle madri che allattano il
farmaco di scelta è il propiltiouracile, in quanto solo piccole quantità si rinvengono nel latte materno.
Il più grave effetto avverso dei farmaci antitiroidei è l’agranulocitosi, che si osserva nello 0,2% dei pazienti.
Generalmente si manifesta durante le prime settimane di terapia, ma può comparire anche più tardi. La
reazione è reversibile in seguito alla sospensione della terapia con il farmaco responsabile.
La reazione avversa più comune è una reazione orticarioide che spesso si risolve spontaneamente senza che
sia necessario sospendere la terapia e che può essere mitigata somministrando antistaminici o glicocorticoidi,
oppure sostituendo il farmaco. Altre manifestazioni meno frequenti sono rappresentate da parestesie,
cefalea, nausea, perdita di capelli. Epatite e nefrite dovute al farmaco sono rare, sebbene non sia infrequente
il riscontro di alterazioni dei test di funzionalità epatica in seguito all’assunzioni di dosi elevate di
propiltiouracile.
- INIBITORI IONICI. Gli inibitori ionici interferiscono con la concentrazione dello ioduro da parte della tiroide. Si
tratta di anioni monovalenti di dimensioni simili a quelle dello ioduro. I principali solo il tiocianato e il
perclorato. Il tiocianato differisce dagli altri in quanto non viene concentrato dalla tiroide. Il perclorato,
quando somministrato a dosi elevate, ha causato gravi anemie aplastiche.
- IODURO. A elevate concentrazioni, lo ioduro inibisce la sua stessa captazione, così come le reazioni di
accoppiamento e il rilascio di ormoni tiroidei. La risposta allo ioduro nei pazienti con ipertiroidismo è spesso
eclatante. Col tempo, però, gli effetti benefici scompaiono anche se si prosegue la terapia. Pertanto, lo ioduro
è spesso utilizzato nel trattamento preoperatorio dell’ipertiroidismo in attesa dell’intervento chirurgico sulla
tiroide. Può essere inoltre somministrato, come misura profilattica, per proteggere la tiroide dallo iodio
radioattivo in seguito ad incidente nucleare. Alcuni individui presentano una marcata ipersensibilità allo
ioduro. L’angioedema è la manifestazione principale e l’edema della laringe può provocare asfissia.
- IODIO RADIOATTIVO. Lo iodio 131 ha un’emivita di 8 giorni ed emette sia raggi γ che particelle β. L’ablazione
della tiroide con iodio 131 è utilizzata nel trattamento dell’ipertiroidismo e come terapia del cancro tiroideo.
L’unica controindicazione assoluta all’impiego dello iodio 131 è la gravidanza, pochè dopo il primo trimestre
la tiroide fetale è in grado di concentrare l’isotopo e verrebbe pertanto danneggiata. Non vi è evidenza di un
aumento della mortalità per cancro o di un incremento dell’incidenza di leucemia nei pazienti trattati con
iodio radioattivo (anche se in uno studio è stato rilevato un aumento dell’incidenza di cancro colorettale).
Lo iodio 131 è da molti considerato la terapia di scelta per l’ipertiroidismo. Il decorso dell’ipertiroidismo in un
paziente che riceve una dose efficace di iodio 131 è caratterizzato da un miglioramento progressivo, che inizia
nell’arco di qualche settimana dopo il trattamento e continua successivamente per un periodo di 2-4 mesi.
Una terapia adiuvante con un antagonista β-adrenergico o un farmaco antitiroideo può essere istituita
nell’attesa che si rendano pienamente evidenti gli effetti dello iodio 131. Il farmaco antitiroideo deve essere
sospeso per alcuni giorni prima e dopo la somministrazione dello iodio 131 per evitare l’inibizione della
captazione dello iodio.
La terapia di ablazione per l’ipertiroidismo con iodio radioattivo ha costi relativamente bassi, non richiede il
ricovero ospedaliero ed è relativamente priva di effetti avversi. E’ tuttavia associata ad un elevata incidenza
chirurgico, un'embolia, un'acidosi diabetica o una tossiemia gravidica o da parto. La crisi tireotossica è un'emergenza
che mette in pericolo la vita e che richiede un trattamento immediato e specifico.
di ipotiroidismo permanente; pertanto tutti i pazienti devono essere messi al corrente di questa possibilità e
seguiti in maniera adeguata al fine di individuare prontamente i primi segni di ipotiroidismo.
Lo iodio 123 è invece principalmente utilizzato a scopi diagnostici nei test di captazione e nella scintigrafia
tiroidea.
FARMACI ANTINFIAMMATORI NON STEROIDEI
FANS è l'acronimo dell'espressione farmaci antinfiammatori non steroidei e individua una classe
di farmaci dall'effetto anti-infiammatorio, analgesico ed antipiretico.
Tali farmaci agiscono sul metabolismo di alcuni eicosanoidi (prostaglandine, prostacicline, trombossani), molecole
coinvolte nel processo infiammatorio e prodotte a partire dall’acido arachidonico.
L’acido arachidonico è un componente dei fosfolipidi di membrana (fosfatidilinositolo, fosfatidilcolina,
fosfatidiletanolamina) dove è presente in forma esterificata; viene rilasciato da questi ultimi attraverso l’azione di
fosfolipasi cellulari (fosfolipasi A), che possono essere attivate da stimoli meccanici, chimici e fisici o da altri mediatori.
Gli eicosanoidi sono sintetizzati (a partire dall’acido arachidonico liberato dalle fosfolipasi) da due classi di enzimi:
ciclossigenasi e lipossigenasi, entrambi appartenenti alla classe delle ossidoreduttasi. I FANS agiscono bloccando in
maniera più o meno reversibile l’attività delle ciclossigenasi.
Esistono due tipi di ciclossigenasi: COX-1 e COX-2. La COX-1 è espressa costitutivamente su molti tessuti, ed è
coinvolta sia nell’infiammazione, sia nel mantenimento dell’omeostasi (ad esempio bilancio idroelettrico nei reni);
la COX-2 è invece inducibile: la sua espressione nelle cellule immunitarie aumenta in seguito alla stimolazione da parte
di fattori di crescita, promotori tumorali, citochine, sostanze batteriche e trombina (sostanze che possono essere
presenti in caso di infiammazione).
Attraverso le ciclossigenasi si ottengono prostaglandine, prostacicline e trombossani.
- Le prostaglandine sono prodotte dai leucociti; determinano vasodilatazione e permeabilizzazione vascolare, e
sono mediatori della febbre e del dolore.
- Le prostacicline sono sintetizzate prevalentemente dalla COX-1 delle cellule endoteliali; causano
vasodilatazione ed hanno un’azione antitrombotica.
- I trombossani sono prodotti dalle piastrine; determinano vasocostrizione e favoriscono aggregazione
piastrinica (azione protrombotica); hanno effetti opposti a quelli delle prostacicline.
Esistono due categorie principali di FANS: gli inibitori non selettivi delle ciclossigenasi e gli inibitori selettivi delle COX-
2.
1
La sindrome di Reye è una malattia pediatrica di grave intensità secondaria alla somministrazione di acido
acetilsalicilico. Si manifesta con nausea, vomito incontrollabile e sintomi neurologici come perdita della
memoria, disorientamento e torpore; inoltre è caratterizzata da disturbi epatici talmente gravi da portare a uno stato
di coma fino alla morte. Per molto tempo la causa della malattia è stata sconosciuta ma grazie a approfonditi studi
condotti negli anni settanta negli USA è stato possibile individuare un'associazione stretta tra la patologia e la
somministrazione di acido acetilsalicilico a bambini sotto i 12 anni affetti da varicella o sindromi simil-influenzali, per
un potenziamento da parte dell'acido dell'azione delle tossine virali.
2
La spondilite anchilosante è inserita nel gruppo delle Malattie Reumatiche Infiammatorie Croniche e Autoimmuni.
Nelle cartilagini articolari vi è una infiltrazione di macrofagi ed altre sostanze del sistema immunitario; queste sostanze
provocano l'infiammazione dell'articolazione che, se non curata, darà vita ad un tessuto "cicatriziale" (si cicatrizza e si
irrigidisce) formando dei "ponti ossei" tra le articolazioni che, quindi, non si possono più muovere liberamente.
3
La gotta è una malattia del metabolismo caratterizzata da cinque componenti, che possono presentarsi in
combinazione variabile: presenza di elevati tassi ematici di acido urico, accumulo di cristalli di urato monosodico
all'interno delle articolazioni e in altri tessuti, accessi acuti intermittenti di artrite dovuti alla deposizione di questi
cristalli nel liquido sinoviale, alterazioni renali spesso associate a ipertensione, formazione di calcoli renali di acido
urico.
presentino problemi a questo riguardo. Essi diminuiscono la formazione di prostaglandina D2 da parte delle
cellule endoteliali senza una concomitante inibizione del trombossano da parte delle piastrine. La
prostaglandina 2 contrasta gli effetti cardiovascolari del trombossano: quando la sua produzione viene inibita
aumenta il rischio di trombosi.
- EFFETTI RENALI. I FANS hanno pochi effetti sulla funzionalità renale o sulla pressione arteriosa nei soggetti
normali. Tuttavia, nei pazienti con scompenso cardiaco congestizio, cirrosi epatica, malattia renale cronica,
ipovolemia e altre condizioni di attivazione sei sistemi ortosimpatico e renina-angiotensina, la produzione di
prostaglandine diventa cruciale. I FANS sono associati a perdita dell’inibizione indotta da prostaglandine sia
del riassorbimento del cloro che dell’azione dell’ormone ADH, portando alla ritenzione di acqua e sale e a
complicanze ipertensive.
L’uso cronico di alte dosi di FANS predispone ad una lenta e progressiva insufficienza renale, con diminuzione
della capacità di concentrazione dell’urina del tubulo renale. Se riconosciuta in tempo, la sospensione dei
FANS permette il recupero della funzione renale.
- GRAVIDANZA E ALLATTAMENTO. I FANS possono provocare un prolungamento della gestazione. Alcuni FANS
(come l’indometacina, utilizzata a volte per prevenire le contrazioni uterine) sono associati a stenosi del dotto
arterioso e alla compromissione della circolazione fetale in utero. Infine, l’uso di FANS nella gravidanza
avanzata può aumentare il rischio di emorragia post-partum.
- IPERSENSIBILITA’. Alcuni individui mostrano ipersensibilità all’aspirina e ai FANS, che si manifesta con sintomi
che spaziano dalla rinite, all’angioedema, all’orticaria generalizzata e all’asma bronchiale, fino all’edema
laringeo, alla broncocostrizione e allo shock.
INTERAZIONI FARMACOLOGICHE
Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-inibitori) agiscono, almeno in parte, prevenendo l’idrolisi
delle chinine che stimolano la produzione di prostaglandine. Quindi, è logico che i FANS possano attenuare l’efficacia
degli ACE-inibitori bloccando la produzione di prostaglandine ad azione vasodilatatrice e natriuretica.
I FANS possono incrementare la frequenza o la gravità di ulcerazioni gastrointestinali quando associati ai
glicocorticoidi e aumentano il rischio di sanguinamento nei pazienti che assumono warfarin. Il problema con il
warfarin è più rilevante sia perchè quasi tutti i FANS sopprimono la normale funzione piastrinica, sia perchè alcuni
aumentano i livelli di warfarin interferendo con il suo metabolismo.
Molti FANS sono ampiamente legati alle proteine plasmatiche e questo può spiazzare altri farmaci dai loro siti di
legame.
PRINCIPALI FANS
SALICILATI
I salicilati sono sostanze scoperte empiricamente apprezzando gli effetti analgesici ed antipiretici del masticare pezzi
di corteccia ricavati da alcune piante ed in particolare dal salice. All'interno di queste cortecce è infatti presente una
sostanza, chiamata salicina, che in seguito alla masticazione si idrolizza lentamente a dare glucosio più acido
salicilico. L'acido salicilico possiede una blanda attività antipiretica ed un modesto effetto antinfiammatorio. In terapia
non viene più utilizzato a causa delle sue spiccate caratteristiche acide, quindi irritanti sulle mucose gastriche ed
esofagee. Permane invece l'utilizzo esterno, ad esempio per l'eliminazione delle verruche o cheratosi (formazioni
fibrose della pelle), dove si sfrutta il suo effetto cheratolitico.
Con una semplice modifica chimica, chiamata acetilazione, l'acido salicilico dà origine al famosissimo acido
acetilsalicilico, meglio conosciuto come aspirina. L’aspirina è ancora il farmaco analgesico, antipiretico e
antinfiammatorio maggiormente utilizzato.
Le principali proprietà farmacologiche dei salicilati sono le seguenti.
- Analgesia. I salicilati sono farmaci validi per il sollievo non specifico del dolore di entità lieve-moderata (per
esempio cefalea, artrite, dismenorrea, nevralgia e mialgia). A questo scopo essi sono prescritti alle stesse dosi
e con le medesime modalità utilizzate nella terapia antipiretica.
- Antipiresi. Solitamente i salicilati abbassano rapidamente ed efficacemente la temperatura corporea elevata.
La dose antipiretica di salicilato per gli adulti è di circa 500mg ogni 4 ore. I salicilati sono controindicati per la
febbre associata ad infezione virale nei bambini.
- Respirazione. I salicilati aumentano il consumo di ossigeno e la produzione di CO2; questo effetto è il risultato
di un disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa. L’incrementata produzione di CO2 stimola la
respirazione.
- Equilibrio acido-base ed elettrolitico ed effetti renali. Dosi terapeutiche elevate di salicilato sono associate ad
alcalosi respiratoria primaria e ad acidosi renale compensatoria (diminuzione del riassorbimento tubulare di
bicarbonato). La bassa pCO2 plasmatica aumenta anche l’escrezione renale di sodio, potassio e acqua.
I salicilati possono causare ritenzione di sale e acqua.
- Effetti cardiovascolari. L’aspirina, in quanto inibitore della sintesi del trombossano, è un potente
antiaggregante. Basse dosi di asprina (<100mg/die) sono ampiamente utilizzate con lo scopo di prevenire
ostruzione arteriosa dovuta a formazione di trombi in prevenzione secondaria, cioè dopo un evento
come infarto del miocardio o sindrome coronarica acuta. Nella prevenzione primaria, cioè in persone che non
hanno avuto eventi cardiovascolari, non è al momento consigliata, poiché, a fronte di una riduzione di infarto
miocardico non fatale, l'assunzione non porta ad una riduzione della morte cardiovascolare totale, ma
incrementa invece i sanguinamenti clinicamente importanti. I pazienti con ipotrombinemia, deficit di
vitamina K o emofilia dovrebbero evitare l’aspirina a causa del rischio di emorragia. Molta attenzione va
posta anche nell’uso dell’aspirina durante il trattamento con agenti anticoagulanti orali. Se possibile, la
terapia con aspirina dovrebbe essere interrotta almeno una settimana prima di un intervento chirurgico.
Ad alte dose terapeutiche (>3 g/die), come quelle somministrate per la febbre reumatica acuta, la ritenzione
di acqua e sale può portare ad un incremento della volemia e ad una diminuzione dell’ematocrito (effetto di
diluizione). Vi è una tendenza dei vasi periferici a dilatarsi per un effetto diretto sulla muscolatura liscia. La
gittata e il lavoro cardiaci sono aumentati. Gli individui con compromissione della funzione cardiaca possono
non rispondere adeguatamente all’aumentata richiesta e possono sviluppare scompenso cardiaco
congestizio.
- Effetti GI. I salicilati possono causare ulcere gastriche, esacerbazione dei sintomi dell’ulcera peptica,
emorragia GI e gastriti erosive. Questi effetti si verifcano principalmente con l’aspirina. Il sanguinamento
gastrico indotto dall’aspirina è talvolta indolore e, se non riconosciuto, può portare ad anemia da deficit di
ferro.
- Effetti epatici. I salicilati possono causare danno epatico. L’insorgenza del danno avviene di solito dopo molti
mesi di trattamento. Di solito non si osservano sintomi, ma semplicemente un incremento dei livelli sierici
delle transaminasi epatiche. Di solito il danno è reversibile dopo la sospensione dei salicilati.
- Effetti sul SNC. Ad alte dosi, i salicilati hanno effetti tossici sul SNC, che consistono in stimolazione (incluse le
convulsioni) seguita da depressione. Possono manifestarsi confusione, vertigini, tinnito, sordità per i toni alti,
delirium, stato di incoscienza e coma.
- Effetti metabolici. Dosi elevate di salicilati possono causare iperglicemia e glicosuria e ridurre il glicogeno
epatico e muscolare.
- Effetti irritanti locali. L’acido salicilico è irritante per la cute e per le mucose e distrugge le cellule epiteliali.
L’azione cheratolitica è utilizzata per il trattamento topico di verruche, calli, infezioni fungine e alcuni tipi di
dermatiti.
I salicilati assunti per via orale vengono assorbiti rapidamente, per la maggior parte dalla porzione superiore
dell’intestino tenue. La presenza di cibo ritarda l’assorbimenti dei salicilati. L’80-90% dei salicilati è legato alle proteine
plasmatiche. I salicilati competono con molti composti per i siti di legame sulle proteine plasmatiche; questi includono
gli ormoni tiroidei, la penicillina, le fenitoina, la bilirubina, l’acido urico e altri FANS come il naprossene.
La biotrasformazione dei salicilati avviene in molti tessuti, ma in modo particolare nel fegato.
L’emivita plasmatica dell’aspirina è di circa 20 minuti.
Cambiamenti del pH urinario hanno effetti significativi sull’escrezione dei salicilati. Per esempio, l’eliminazione dei
salicilati è circa quattro volte migliore a pH 8 che a pH 6.
PARACETAMOLO
Il paracetamolo rappresenta una valida alternativa all’aspirina come composto analgesico-antipiretico; tuttavia, i suoi
effetti antinfiammatori sono marcatamente inferiori. Il paracetamolo è particolarmente importante nei pazienti in cui
l’aspirina è controindicata (per esempio quelli con ulcera peptica o i bambini con malattie febbrili). Esso non
rappresenta un adeguato sostituto dell’aspirina o di altri FANS in condizioni di infiammazione cronica come l’artrite
reumatoide.
Il paracetamolo per via orale mostra un’eccellente biodisponibilità. L’emivita plasmatica è pari a due ore. Il suo legame
con le proteine plasmatiche è inferiore a quello di altri FANS. Il farmaco viene eliminato principalmente attraverso le
urine, coniugato con l’acido glucuronico o l’acido solforico.
Il paracetamolo è solitamente ben tollerato. Può verificarsi rash cutaneo, accompagnato da febbre e lesioni delle
mucose. L’effetto collaterale più grave dovuto al sovradosaggio di paracetamolo è la necrosi epatica. Il meccanismo
attraverso il quale il sovradosaggio conduce al danno epatocellulare coinvolge la conversione del farmaco nel
metabolita tossico NAPQI. Quando la via della coniugazione con glucuronide e con solfato viene saturata, quantità
maggiori subiscono la N-idrossilazione a formare NAPQI.
FARMACOLOGIA DELLA CORTICALE DEL SURRENE
Le ghiandoli surrenali sono poste una per lato al polo superiore dei reni. Ciascuna è costituita da due parti distinte, la
midollare e la corticale. La prima secerne gli ormoni adrenalina e noradrenalina, che producono nell’organismo
pressocchè gli stessi effetti di una stimolazione dei nervi ortosimpatici. La corteccia surrenale secerne invece i
corticosteroidi, ormoni che vengono sintetizzati a partire dal colesterolo ed hanno strutture chimiche similiari. Si
possono distinguere due tipi principali di corticosteroidi: i mineralcorticoidi (di cui il principale è l’aldosterone) e i
glicocorticoidi (di cui il principale è il cortisolo). Oltre ai corticosteroidi, sono secrete dalla corteccia del surrene anche
piccole quantità di ormoni sessuali, soprattutto ormoni androgeni, che posseggono gli stessi effetti del testosterone.
Normalmente gli androgeni non hanno molta importanza, ma in certe patologie della corteccia surrenale possono
essere prodotti in quantità notevoli e causare effetti mascolinizzanti.
La corteccia del surrene è composta da tre differenti strati coinvolti nella sintesi ormonale:
- la zona glomerulosa, che produce aldosterone;
- la zona fascicolata, che secerne i glicocorticoidi oltre a piccole quantità di ormoni androgeni ed estrogeni;
- la zona reticolare, che produce esclusivamente ormoni androgeni ed estrogeni.
ALDOSTERONE
L’aldosterone promuove il trasporto di sodio in scambio con il potassio nelle cellule principali del tubulo collettore e
nel tubulo distale e nel dotto collettore. Esso perciò fa sì che il sodio venga trattenuto nel liquido extracellulare
mentre il potassio venga escreto con le urine. L’aldosterone, nonostante la sua potente azione nel ridurre
l’eliminazione di ioni sodio da parte dei reni, fa aumentare solo di poco la concentrazione del sodio nel liquido
extracellulare. Il motivo di tutto ciò è che il riassorbimento del sodio da parte dei tubuli si accompagna al
riassorbimento osmotico di quantità quasi equivalenti di acqua. L’aldosterone, a livello dei tubuli renali, promuove
non solo la secrezione nel lume tubulare di ioni potassio che vengono scambiati con il sodio, ma anche la secrezione di
ioni idrogeno in scambio con gli ioni sodio (nelle cellule che effettuano antiporto sodio/idrogeno.
La secrezione di aldosterone è regolata:
- dalla concentrazione di ioni potassio nel liquido extracellulare (un aumento incrementa la secrezione di
aldosterone);
- dal sistema renina-angiotensina, in risposta ad una riduzione della pressione arteriosa (un aumento di attività
del sistema incrementa la secrezione di aldosterone);
- dalla concentrazione di ioni sodio (un aumento riduce leggermente la secrezione di aldosterone);
- l’ormone adrenocorticotropo (ACTH), escreto dall’adenoipofisi ha uno scarso effetto nel controllo della
velocità di secrezione.
Tra questi fattori, la concentrazione degli ioni potassio e il sistema renina-angiotensina sono di gran lunga i più potenti
nella regolazione della secrezione dell’aldosterone.
CORTISOLO
Il cortisolo ha effetti sul metabolismo dei carboidrati, dei grassi e delle proteine.
- CARBOIDRATI. L’effetto più conosciuto è è quello relativo alla capacità di stimolare la gliceneogenesi epatica
e provocare quindi un aumento delle scorte di glicogeno. Il cortisolo riduce anche l’utilizzazione del glucosio
da parte delle cellule, anche se questo effetto è piuttosto modesto. L’incremento della gliconeogenesi e la
riduzione dell’utilizzazione del glucosio da parte delle cellule fanno aumentare la glicemia e,
conseguentemente, cresce la secrezione di insulina. Per motivi ancora poco chiari, alti livelli di cortisolo
riducono la sensibilità all’insulina di molti tessuti; si verifica quindi una diminuzione dell’assunzione e
dell’utilizzazione del glucosio.
- GRASSI. Il cortisolo promuove la mobilizzazione degli acidi grassi dal tessuto adiposo. Ciò a sua volta eleva la
concentrazione plasmatica degli acidi grassi liberi e ne incrementa l’utilizzazione a fini energetici.
L’aumentata mobilizzazione dei grassi rappresenta uno dei fattori che, in caso di digiuno, o in altre condizioni
di stress, concorrono a far deviare i sistemi metabolici dall’utilizzazione a fini energetici dei glucosio a quella
di acidi grassi. Nonostante il fatto che il cortisolo possa indurre una mobilizzazione degli acidi grassi dal
tessuto adiposo, molti soggetti con ipersecrezione di questo ormone presentano spesso un particolare tipo di
obesità, caratterizzato da un’eccessiva deposizione di grasso nelle regioni del torace e del capo, che
conferisce alla parte postero-superiore del loro tronco il tipico aspetto “a gibbo di bufalo”, e al viso la
caratteristica “facies lunare”. Si pensa che questa obesità sia dovuta ad un eccessivo impulso all’assunzione di
alimenti, per cui in alcuni distretti dell’organismo si forma grasso con una velocità maggiore di quella con cui
esso viene mobilizzato ed ossidato.
- PROTEINE. Uno dei principali effetti del cortisolo sui sistemi metabolici dell’organismo è la riduzione delle
scorte proteiche in tutte le cellule, salvo che in quelle del fegato. Ciò è dovuto sia ad una diminuzione della
sintesi proteica, sia ad un aumento del catabolismo delle proteine già formate all’interno delle cellule. Se i
livelli di cortisolo sono troppo alti, la muscolatura può indebolirsi e le funzioni del tessuto linfoide possono
essere fortemente depresse.
Il cortisolo ha anche un forte effetto antiflogistico: la somministrazione di forti dosi di cortisolo è di solito in grado di
bloccare la comparsa dell’infiammazione o anche di farne regredire gran parte degli effetti una volta che ha avuto
inizio.
A differenza dell’aldosterone, la cui secrezione è controllata principalmente dal potassio e dal sistema renina-
angiotensina, nel caso del cortisolo il controllo viene effettuato quasi interamente dall’ormone adrenocorticotropo
(ACTH), secreto dall’ipofisi anteriore. Come per altri ormoni adenoipofisari, anche per l’ACTH l’ipotalamo secerne un
ormone liberatore che ne controlla la secrezione: l’ormone liberatore della corticotropina.
I corticosteroidi possono essere utilizzati in clinica sia in patologie endocrine che non endocrine
IPOCORTICOSURRENALISMO
Una insufficiente produzione di ormoni da parte della corticale del surrene determina il cosiddetto Morbo di Addison.
Questa ipofunzione ha una base autoimmunitaria nell’80% dei casi, ma spesso è anche provocata da distruzione
dovuta a tubercolosi o da un’invasione tumorale della corteccia surrenale.
Esaminiamo adesso i disturbi fondamentali che si hanno nel morbo di Addison.
Un ipocorticosurrenalismo (secondario) può essere realizzato anche da un’insufficiente escrezione di ormone
adrenocorticotropo (ACTH): il quadro clinico ricorda quello della malattia di Addison, ma manca la melanodermia. La
maggior parte dei casi di ipocorticosurrenalismo secondario è provocata da distruzione dell’ipofisi; la TAC o l’RMN
possono essere utili per escludere la presenza di tumori o atrofia.
- DEFICIENZA DI MINERALCORTICOIDI. La carenza di secrezione di aldosterone fa abbassare il riassorbimento di
sodio e, conseguentemente, si ha perdita nell’urina di una grande quantità di ioni sodio, di ioni cloro e di
acqua. Ne consegue una forte diminuzione del volume del liquido extracellulare (diminuzione della volemia,
aumento della concentrazione ematica, diminuzione della gittata cardiaca e rischio di shock). Inoltre, nel
paziente si sviluppa una iperpotassiemia ed una modesta acidosi per difetto dell’eliminazione degli
idrogenioni, che abitualmente vengono scambiati con il sodio riassorbito.
- DEFICIENZA DI GLICOCORTICOIDI. Il paziente colpito da morbo di Addison, per la mancanza di cortisolo, non è
più in grado di mantenere la glicemia negli intervalli tra un pasto e l’altro, in quanto non possono essere più
essere sintetizzate significative quantità di glucosio mediante la gliconeogenesi. Inoltre, in assenza del
cortisolo, si riduce la mobilitazione di proteine e di grassi dai tessuti, per cui molte altre funzioni metabiliche
vengono depresse. La mancanza di un’adeguata secrezione di glicorticoidi, inoltre, rende il paziente affetto
da morbo di Addison molto sensibile agli effetti debilitanti di diverse forme di stress, ed anche una modesta
infezione respiratoria può talvolta risultare letale.
- PIGMENTAZIONE DA MELANINA. Un’altra caratteristica di quasi tutti i colpiti da morbo di Addison è la
pigmentazione melaninica delle mucose e della cute. Per quanto riguarda l’origine di questa deposizione di
melanina, l’opinione corrente è che quando la deposizione di cortisolo è carente, viene meno anche il
feedback negativo da esso esercitato sull’ipotalamo e sull’adenoipofisi. Quest’ultima ghiandola diventa così
libera di secernere quantità elevatissime di ACTH, cui si accompagnano anche maggiori quantitativi di
lipomelanotropina.
In caso di ipocorticosurrenalismo le analisi di laboratorio dimostrano:
- diminuzione del cortisolo plasmatico e urinario;
- diminuzione dell’aldosterone;
- aumento dell’ACTH.
I pazienti con insufficienza surrenalica cronica richiedono un trattamento giornaliero con corticosteroidi. I regimi di
sostituzione prevedono l’impiego di idrocortisone, assunto per via orale, in dosi refratte, con i due terzi della dose
somministrati al mattino e un terzo al pomeriggio (nel tentativo di mimare i normali ritmi circadiani della secrezione di
cortisolo).
Per i pazienti con insufficienza surrenalica secondaria, la somministrazione di un glicocorticoide da solo è
generalmente adeguata, dato che la secrezione di mineralcorticoidi è intatta (la secrezione di aldosterone è
controllata principalmente dal potassio e dal sistema renina-angiotensina, e non dall’ormone adrenocorticotropo).
Le dosi standard di glicocorticoidi devono essere spesso innalzate nei pazienti che contemparaneamente assumono
anche farmaci che aumentano la loro clearance metabolica (fenitoina, barbiturici, rifampicina). Sono anche richiesti
aggiustamenti della dose per compensare lo stress dovuto a malattie intercorrenti.
Nella maggior parte dei casi l'insufficienza surrenalica si instaura con gradualità, con sintomi sfumati e lentamente
ingravescenti che rendono molto difficile il riconoscimento precoce della malattia. In alcuni casi, però, le
manifestazioni cliniche dell'insufficienza surrenalica possono manifestarsi improvvisamente e in maniera severa fino al
punto da risultare letali in assenza di un adeguato trattamento; si parla in questi casi di iposurrenalismo acuto o crisi
surrenalica acuta. L’iposurrenalismo acuto, o crisi surrenalica acuta, è una condizione di emergenza medica che può
insorgere in seguito ad errori dietetici (alimenti ricchi di potassio, diete povere di sale) o più spesso a causa della
repentina interruzione o del ritardo di inizio della terapia corticosteroidea sostitutiva o, infine, nel corso di un evento
stressante, come un'infezione, un trauma, un intervento chirurgico che colpisca un individuo affetto da una
insufficienza corticosurrenalica misconosciuta e fino a quel momento in equilibrio labile. Questa patologia
potenzialmente fatale è caratterizzata da sintomi GI (nausea, vomito, dolori addominali), disidratazione, iponatriemia,
iperkaliemia, debolezza e ipotensione. Il trattamento acuto iniziale di pazienti con insufficienza surrenalica acuta
comprende l’infusione endovenosa massiccia di corticosteroidi insieme ad una soluzione isotonica di NaCl (per
riequilibrare lo stato idroelettrico), oltre ad un’appropriata terapia per contrastare le cause scatenanti, quali infezioni,
traumi o emorragie. Quando il paziente ha raggiunto una condizione stabile, va trattato nello stesso modo di quelli
con insufficienza surrenalica cronica.
MALATTIE REUMATICHE
I glicocorticoidi sono ampiamente utilizzati nel trattamento di numerose patologie reumatiche (condizioni morbose
che interessano l'apparato muscolo-scheletrico ed i tessuti connettivi dell'organismo), soprattutto a carattere
autoimmune, come il LES, e di numerose patologie vasculitiche (infiammazioni dei vasi sanguigni), come l’arterite a
cellule giganti. I glicocorticoidi sono spesso utilizzati in associazione con altri agenti immunosoppressori quali la
ciclofosfamide e il metotrexato; viene così garantito un controllo a lungo termine migliore di quello che si può
ottenere con gli steroidi da soli. Nell’artrite reumatoide i glicocorticoidi sono utilizzati soltanto temporaneamente per
guadagnare tempo e fornire un sollievo fino a quando altri farmaci antireumatici ad azione più lenta (per esempio il
metotrexato) iniziano a fare effetto. In alternativa, i pazienti con sintomatologia più importante confinata ad una o
poche articolazioni possono essere trattati con la somministrazione di steroidi per iniezione intra-articolare.
MALATTIE RENALI
I pazienti con glomerulopatia a lesioni minime (una patologia idiopatica del rene, frequente nei bambini ma possibile
anche negli adulti, che causa sindrome nefrosica) generalmente rispondono bene alla terapia con glicocorticoidi.
Anche ai pazienti con malattia renale secondaria a lupus eritomatoso sistemico viene generalmente prescritto un ciclo
terapeutico con glicocorticoidi.
MALATTIE ALLERGICHE
L’inizio dell’azione dei glicocorticoidi nelle patologie allergiche è ritardato e i pazienti con gravi reazioni allergiche
come la crisi anafilattica necessitano di un’immediata somministrazione di adrenalina. Le manifestazioni delle
patologie allergiche di durata limitata, come la febbre da fieno, l’orticaria, le reazioni da farmaci, le punture di api,
possono essere soppresse con adeguati dosi di glicocorticoidi, somministrati in aggiunta alla terapia primaria. Nella
terapia delle riniti allergiche molti considerano la somministrazione intranasale di steroidi come trattamento di prima
scelta.
NEONATI PREMATURI
Glicocorticoidi come il betametasone o il desametasone vengono frequentemente utilizzati in caso di travaglio
pretermine per diminuire l’incidenza della sindrome da sofferenza respiratoria e di morte nei nati prematuri.
MALATTIE GASTROINTESTINALI
La terapia con glicocorticoidi è indicata in pazienti selezionati affetti da malattie infiammatorie intestinali (colite
ulcerosa cronica e malattia di Crohn).
MALATTIE TUMORALI
I glicocorticoidi sono utilizzati nella chemioterapia della leucemia linfocitica acuta e dei linfomi per il loro effetto anti-
linfocitario.
TRAPIANTI D’ORGANO
Nei trapianti d’organo la maggior parte dei pazienti viene sottoposta ad un regime di mantenimento che comprende
glicorticoidi in associazione con altri farmaci immunosoppressori.
DISLIPIDEMIE
La dislipidemia è una qualsiasi condizione clinica nella quale sono presenti nel sangue elevate concentrazioni di lipidi.
Poiché il termine comprende non una, ma svariate patologie, è più corretto parlare di dislipidemie al plurale, giacché
le varie forme possono avere origine diversa, trattamenti diversi e soprattutto conseguenze diverse sulla salute
dell'individuo affetto.
Le dislipidemie sono uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato convenzionalmente una classificazione in sei tipi, che non tiene
conto della causa o dell'eventuale base genetica della dislipidemia, ma solo del fenotipo, del conseguente aspetto
del siero e dei livelli di lipoproteine presenti.
A seconda delle cause, le dislipidemie si distinguono tradizionalmente in primitive (su base genetica) e secondarie (o
acquisite). Tra le secondarie si classificano anche quelle forme che, pur partendo da una predisposizione familiare,
vedono come causa principale fattori legati all'alimentazione o a stili di vita errati. I questo caso si parla di
dislipidemie multifattoriali.
Indipendentemente dal fenotipo, la manifestazione principale della dislipidemie è l'aterosclerosi, soprattutto quando
ad essere interessato dall'aumento dei livelli plasmatici è il colesterolo.
L’aterosclerosi è un’arteriopatia delle arterie di grande e medio calibro, dovuta alla progressiva formazione di un
ateroma, ovvero una placca lipidica (il termine deriva dal greco athere, che significa "pappa", ad indicare un materiale
grasso, poltaceo) nello spessore dell'intima (lo strato più interno delle arterie, che è rivestito dall'endotelio ed è in
diretto contatto con il sangue).
Le lesioni, che hanno come caratteristica specifica una componente lipidica più o meno abbondante (si parla di
placche fibro-lipidiche), si evolvono con il tempo: iniziano nell'infanzia come strie lipidiche (a carattere reversibile) e
tendono a divenire placche aterosclerotiche, che nelle fasi avanzate possono restringere (stenosi) il lume arterioso.
L’aterosclerosi si instaura a causa di numerosi fattori di rischio cardiovascolare, si può quindi considerare una malattia
multifattoriale.
Sono inclusi i seguenti fattori.
- Iperlipoproteinemia (familiare e/o acquisita).
- Diabete di tipo II e obesità.
- Sindrome metabolica; quest’ultima determina un accumulo di grasso, soprattutto a livello addominale e
iperproduzione di glicocorticodi.
- Ipertensione: alti valori pressori sembrano danneggiare le pareti della arterie e accelerare lo sviluppo di
aterosclerosi.
- Fumo : Il fumo di sigaretta agisce in senso negativo sull'assetto lipidico; inoltre il monossido di carbonio
contenuto nel fumo può ledere le cellule endoteliali provocando, come l’ipertensione, un danno diretto
all’endotelio.
- Menopausa: gli estrogeni contribuiscono a mantenere unrapporto salutare tra colesterolo HDL e colesterolo
LDL; di conseguenza, la caduta dei livelli di questi ormoni con l'entrata in menopausa tende ad aumentare i
livelli di colesterolo cattivo e a diminuire quello buono.
- Virus: si è scoperto recentemente che le difese immunitarie attivate in risposta all’infezione da parte di alcuni
virus come il Cytomegalovirus sono dirette anche contro l’endotelio, dando così inizio al processo
aterosclerotico (si tratta di un vero e proprio processo autoimmune).
- Stress : un qualsiasi stress patologico cronico può portare alla massiccia secrezione di adrenalina i
glicocorticoidi e favorire così il processo aterosclerotico.
Il fattore di rischio più determinante rimane l’iperlipoproteinemia di tipo II, o ipercolesterolemia.
STATINE
Le statine sono gli agenti più efficaci e meglio tollerati per il trattamento delle dislipidemie.
Le statine sono farmaci che inibiscono la sintesi del colesterolo endogeno agendo sull’enzima idrossimetilglutaril-CoA
reduttasi, che converte la molecola del 3-idrossi-3-metilglutaril-CoA in acido mevalonico, un precursore
del colesterolo. In risposta al ridotto contenuto di colesterolo libero negli epatociti, la sintesi dei recettori delle LDL è
aumentata e la loro degradazione ridotta. L’aumentato numero di recettori delle LDL sulla superficie degli epatociti
determina una maggiore rimozione delle LDL dal sangue, abbassando così i livelli di colesterolo LDL. Quindi le statine
riducono il colesterolo totale agendo soprattutto sul colesterolo LDL (riduzione dal 20-60%, a seconda della statina
utilizzata), ma in misura minore su quello VLDL; si riducono sensibilmente anche i trigliceridi plasmatici (-10%), mentre
il colesterolo HDL rimane invariato o tende addirittura ad aumentare (+10%).
Le statine si possono dividere in due gruppi: naturali e sintetiche. Le principali statine naturali utilizzate in clinica sono
la l’atorvastatina, la lovastatina, la pravastatina e la simvastatina, mentre le più importanti statine sintetiche sono la
fluvastatina e la rosuvastatina.
Dopo somministrazione orale, l’assorbimento intestinale delle statine varia tra il 30 e l’85%. Tutte le statine
presentano un importante effetto epatico di primo passaggio, che limita la biodisponibilità delle statine tra il 5 e il
30%. I metaboliti di tutte le statine, tranne quelli della fluvastatina e della pravastatina, possiedono una certa attività
di inibizione nei confronti della idrossimetilglutaril-CoA reduttasi. Nel plasma, più del 95% delle statine e dei loro
metaboliti è legato alle proteine, con l’esclusione della pravastatina e dei suoi metaboliti (legati per il 50%). Le emivite
sono comprese tra 1 e 4 ore, eccetto l’atorvastatina e la rosuvastatina, che hanno un’emivita di circa 20 ore che può
contribuire alla maggiore capacità ipocolesterolemizzante. Più del 70% delle statine è eliminato con le feci.
Le statine hanno i seguenti effetti avversi.
- EPATOTOSSICITA’. L’epatotossicità è un evento raro; ciò nonostate, è opportuno misurare l’alanino
aminotransferasi (ALT).
- MIOPATIE. L’effetto collaterale di maggiore significato clinico associato all’uso di statine è la miopatia. Il
rischio di insorgenza di miopatia aumenta proporzionalmente alle concentrazioni plasmatiche delle statine.
Conseguentemente, i fattori che inibiscono il catabolismo delle statine sono associati ad un aumentato
rischio di miopatia; tra questi vi sono l’età avanzata, disfunzioni epatiche o renali, periodo perioperatorio,
patologie multisistemiche (soprattutto il diabete mellito), ridotta taglia corporea e ipotiroidismo non trattato.
Anche alcuni farmaci possono ridurre il metabolismo delle statine: le interazioni più comuni si hanno con
alcuni fibrati, in modo particolare il gemfibrozil, ma anche con la ciclosporina, la digossina, il warfarin, gli
antibiotici macrolidi, gli antifungini azolici, la niacina, gli inibitori della proteasi virale utilizzati nel trattamento
dell’HIV. Esistono svariati meccanismi mediante i quali questi farmaci aumentano il rischio di miopatie quanto
co-somministrati insieme alle statine. Il gemfibrozil, per esempio, inibisce la captazione negli epatotici delle
statine, e questo pressoché raddoppia la concentrazione plasmatica delle statine. I macrolidi, gli antifungini
azolici, gli inibitori della proteasi virale inibiscono il citocromo P450 34A e quindi rallentano il metabolismo
delle statine, determinando un aumento della loro concentrazione plasmatica.
La sindrome miopatica è caratterizzata da intensa mialgia, dapprima alle braccia e alle cosce e poi in tutto il
corpo, assieme a debolezza e affaticamento. I sintomi progrediscono finché dura l’assunzione della statina.
Sono stati riportati mioglobinuria, insufficienza renale e morte. Le concentrazioni sieriche di creatin chinasi
nei pazienti affetti sono tipicamente 10 volte più alte del limite superiore alla norma. Quando si sospetta una
miopatia, la terapia con statine dovrebbe essere interrotta .
La sicurezza delle statine durante la gravidanza non è stata dimostrata. Le donne che desiderano avere figli non
dovrebbero assumere statine.
Una volta che il trattamento con statine è stato iniziato, esso prosegue quasi sempre per tutta la vita. La
determinazione dei livelli di ALT è raccomandata e il test dovrebbe essere ripetuto dopo 3-6 mesi. Se i valori di ALT
sono normali dopo i primi 3-6 mesi, in seguito è sufficiente ripetere la determinazione ogni 6-12 mesi. Le valutazioni
della CK normalmente non sono necessarie, a meno che il paziente non stia assumendo un farmaco che aumenta il
rischio di miopatia.
NIACINA
Con il termine di niacina (o vitamina PP, Pellagra-Preventing, o vitamina B3) si intendono due molecole tra loro simili:
l'acido nicotinico (la niacina propriamente detta) e l'ammide di quest'ultimo, la nicotinammide (o niacinammide).
L’acido nicotinico è in grado di modificare tutti i parametri lipidici. A livello del tessuto adiposo, la niacina inibisce la
lipolisi dei trigliceridi da parte della lipasi ormono-sensibile; di conseguenza, vengono ridotti il trasporto degli acidi
grassi al fegato e la sintesi epatica di trigliceridi. A livello epatico, la niacina diminuisce la sintesi di trigliceridi; la ridotta
sintesi di trigliceridi diminuisce la produzione epatica di VLDL e ciò comporta un abbassamento dei livelli di LDL. La
niacina stimola anche l’attività della lipoproteina lipasi, che idrolizza i trigliceridi provenienti dalle VLDL producendo
acidi grassi e glicerolo. La niacina, infine, innalza i livelli del colesterolo HDL.
La nacina è in grado di ridurre i livelli di trigliceridi del 35-50% e l’effetto si verifica entro 4-7 giorni. E’ possibile
ottenere riduzione del 25% del colesterolo LDL, ma sono necessarie 3-6 settimane per osservare il massimo effetto.
La nacina è somministrata oralmente attraverso 2-3 dosi al giorno (emivita di circa 60 minuti). Il farmaco viene
eliminato, in parte modificato e in parte immodificato, con le urine.
L’aderenza al trattamento da parte del paziente è limitata dagli effetti collaterali. Gli effetti a livello cutaneo
comprendono vampate e prutiro al viso e alla parte superiore del tronco ed eruzioni cutanee. Le vampate e il prurito
sono sono effetti mediati dalle prostaglandine. Le vampate peggiorano all’inizio della terapia ma nella maggior parte
dei pazienti cessano dopo 1-2 settimane. L’assunzione di aspirina può alleviare le vampate. Si possono ridurre le
vampate iniziando la terapia a dosaggi bassi e assumento il farmaco dopo la colazione o la cena. Altre frequenti
lamentele sono episodi di nausea, vomito e diarrea che possono essere ridotti assumendo il farmaco dopo i pasti. I
pazienti con ulcera peptica non dovrebbero assumere niacina perchè essa può riattivare questa patologia. Tra gli
effetti collaterali più gravi vi sono l’epatotossicità, che si manifeta con aumento delle transaminasi sieriche e
iperglicemia (aumento dell’insulino-resistenza). La niacina dovrebbe essere assunta con cautela dai pazienti con
diabete mellito. La niacina è potenzialmente teratogena e perciò non dovrebbe essere assunta durante la gravidanza.
FIBRATI
I fibrati sono agonisti del recettore nucleare PPAR-α, presente nel tessuto adiposo, nel fegato ed in altri tessuti.
L'attivazione del recettore PPAR-α si traduce in:
- incremento della β-ossidazione nel fegato
- riduzione della secrezione di trigliceridi nel plasma da parte del fegato
- aumento dell'espresione genica della lipoprotein-lipasi e della sua attività mediante aumento
dell'espressione genica della Apo CII; con conseguente incremento della clearance delle VLDL e riduzione
della trigliceridemia;
- aumento delle HDL, grazie ad un aumento dell'espressone della Apo A1, l'apolipoproteina che è in grado di
costituire le HDL;
- aumento della clearance delle particelle di remnant.
I fibrati sono in genere i farmaci di prima scelta per il trattamento dell’ipertrigliceridemia grave. L’intervento principale
consiste nel ridurre gli alcolici e il più possibile il contenuto di lipidi nella dieta, ma i fibrati possono agire in qualità di
coadiuvanti aumentanto da un lato l’eliminazione di trigliceridi e dall’altro diminuendo la sintesi epatica di trigliceridi.
Tutti i fibrati vengono assorbiti in modo rapido ed efficiente quando sono somministrati durante i pasti e in misura
minore quando sono assunti a stomaco vuoto. Nel plasma più del 95% del farmaco è legato alle protein. L’emivita è
molto variabile e oscilla tra 1 e 20 ore. I fibrati vengono escreti prevalentemente come glucuronati nelle urine; una
piccola quantità si rileva anche nelle feci.
I fibrati sono farmaci generalmente ben tollerati. Effetti collaterali, molto spesso a livello GI, si possono verificare nel
5-10% dei pazienti, ma il pià delle volte non sono tali da imporre l’interruzione della somministrazione. Altri effetti
collaterali comprendono eruzioni cutanee, alopecia, mialgia, stanchezza, cefalea, anemia. Sono stati osservati lievi
aumenti di transaminasi epatiche e fosfatasi alcalina. Alcuni fibrati possono potenziare l’azione degli anticoagulanti
orali, forse perchè sono in grado di spiazzarli dal loro sito di legame all’albumina. Il dosaggio delle statine dovrebbe
essere ridotto quando queste vengono utilizzate in associazione con i fibrati; vari meccanismi possono essere alla base
di tali effetti desiderati: alcuni fibrati inibiscono la captazione epatica delle statine, altri competono per le stesse
glucuronil trasferasi che metabolizzano la maggior parte delle statine. Conseguentemente, le concentrazioni di
entrambi i farmaci possono aumentare in caso di co-somministrazione. L’uso di alcuni fibrati è associato a un aumento
del rischio di formazione di calcoli biliari. I fibrati non dovrebbero essere somministrati a bambini o a donne in
gravidanza.
EZETIMIBE
L’ezetimibe è un composto in grado di inibire l’assorbimento del colesterolo da parte degli enterociti dell’intestino
tenue, approvato per l’assorbimento del colesterolo plasmatico, sia totale che legato alle LDL. Esso è principalmente
utilizzato come terapia adiuvante delle statine. Riducendo l’assorbimento del colesterolo, l’ezetimibe causa un
aumento compensatorio della biosintesi endogena del colesterolo, evitabile mediante la somministrazione di statine.
La conseguenza dell’inibizione dell’assorbimento intestinale del colesterolo è la riduzione dell’incorporazione dei
chilomicroni. Il ridotto apporto epatico di colesterolo intestinale da parte dei remnant dei chilomicroni stimola
l’espressione dei geni epatici che regolano l’espressione dei recettori delle LDL e la biosintesi del colesterolo.
L’aumentata espressione dei recettori epatici delle LDL aumenta la clearance delle LDL dal plasma.
L’ezetimibe non altera l’assorbimento intestinale dei trigliceridi.
L’ezetimibe è altamente insolubile in solventi acquosi. Dopo l’ingestione, il farmaco viene glucuronidato nell’epitelio
intestinale, viene assorbito ed entra nel circolo enteroepatico. Viene escreto per la maggior parte per via fecale. I
sequestranti degli acidi biliari inibiscono l’assorbimento dell’ezitimibe e i farmaci di queste due classi non dovrebbero
essere somministrati contemporaneamene. Oltre a questa interazione, non se ne conoscono altre di rilievo.
L’ezetimibe può causare reazioni allergiche. Il suo utilizzo è stato associato all’insorgenza di miopatia, più
comunemente in associazione con statine ma anche quando somministrato in monoterapia.
ESTROGENI E PROGESTINICI
Il sistema ormonale femminile consiste di tre differenti categorie di ormoni organizzate gerarichicamente.
1. Un ormone ipotalamico, l’ormone liberatore delle gonadotropine (GnRH).
2. Due ormoni adenoipofisari, l’ormone follicolostimolante (FSH) e l’ormone luteinizzante (LH), secreti entrambi
in risposta al suddetto ormone liberatore ipotalamico.
3. Gli ormoni ovarici, estrogeni e progestinici, secreti dall’ovaio in risposta ai due ormoni adenoipofisari.
Questi ormoni non vengono secreti in modo costante e continuo, ma in quantità nettamente differenti nel corso delle
diverse fasi del ciclo sessuale femminile.
Gli estrogeni e i progestinici sono i due tipi di ormoni ovarici femminili. Gli estrogeni hanno principalmente la funzione
di promuovere la proliferazione e lo sviluppo di cellule specifiche dell’apparato riproduttivo femminile e sono
responsabili dello sviluppo della maggior parte dei caratteri sessuali secondari femminili. I progestinici, invece, sono
quasi interamente deputati al completamento della preparazione dell’utero per la gravidanza e dell’apparato
mammario per la lattazione.
Nella femmina normale, non gravida, gli estrogeni sono secreti in quantità notevoli solo dalle ovaie e in piccola dose
dalla corticale dei surreni. Nel corso della gravidanza, vengono escreti anche dalla placenta in quantità enorme. Sono
stati isolati dal plasma della donna vari estrogeni, ma di essi soltanto tre sono presenti in misura significativa: il β-
estradiolo, l’estrone e l’estriolo. Il principale estrogeno secreto dalle ovaie è il β-estradiolo.
Il più importante tra i progestinici è il progesterone. Nella donna non gravida, esso viene secreto in quantità
significative solo durante la seconda metà di ciascun ciclo ovarico, ad opera del corpo luteo. Durante la prima metà del
ciclo compaiono nel plasma solo minime quantità di progesterone, secrete dalle ovaie (cellule della granulosa) e dalla
corteccia surrenale. Ma forti quantità vengono escrete anche dalla placenta specialmente dopo il terzo mese di
gestazione.
Sia gli estrogeni che i progestinici sono steroidi. Essi vengono sintetizzati nelle ovaie prevalentemente a partire dal
colesterolo ematico, ma in piccola parte anche dall’acetil-CoA. Durante la sintesi, il progesterone e il testosterone,
l’ormone sessuale maschile, vengono sintetizzati per primi; poi, durante la fase follicolare del ciclo ovarico, prima che
questi due ormoni possano lasciare le ovaie, quasi tutto il testosterone e gran parte del progesterone vengono
convertiti in estrogeni dalle cellule della granulosa. Nel sangue gli estrogeni e il progesterone vengono trasportati
combinati principalmente con albumine e globuline specifiche. A livello del fegato gli estrogeni vanno incontro a
coniugazione con formazione di glucuronidi e di solfati, che vengono per circa 1/5 escreti con la bile e per il resto
eliminati con le urine. Come per gli estrogeni, il fegato riveste un ruolo di primaria importanza anche per il
metabolismo del progesterone: il principale prodotto di degradazioneè il pregnandiolo; sotto questa forma viene
eliminato con le urine circa il 10% della quantità totale di progesterone prodotto.
Il controllo ipofisario e ipotalamico sulla secrezione di estrogeni dipende dalla loro concentrazione nel sangue: una
bassa concentrazione di estrogeni stimola a livello ipotalamico una secrezione di ormone liberatore delle
gonadotropine, mentre a livello ipofisario stimola la liberazione di FSH e LH (feedback positivo). Un’alta
concentrazione di estrogeni inibisce invece la secrezione di ormone liberatore delle gonadotropine e di FSH e LH
(feedback negativo). Un sistema di controllo analogo esiste per il progesterone.
Due sono i principali utilizzi degli estrogeni: come componenti di associazioni per la contraccezione orale (vedi oltre) e
la terapia ormonale della menopausa.
I modulatori selettivi del recettore degli estrogeni, più usualmente definiti SERM (dalla corrispondente terminologia
inglese Selective estrogen receptor modulator) sono una classe di farmaciche agiscono sui recettori degli estrogeni.
La caratteristica che li distingue dagli agonisti ed antagonisti puri dei recettori, è il fatto che, a seconda dei vari tessuti
dove agiscono, esplicano una differente attività, garantendo la possibilità di fungere da agonista degli estrogeni su
alcuni tessuti (per esempio osso, cervello e fegato) e da antagonista su altri (per esempio mammella e endometrio). I
SERM attualmente approvati sono il tamoxifene, il raloxifene e il toremifene. Alcuni usi terapeutici dei SERM sono i
seguenti.
- CARCINOMA DELLA MAMMELLA. Molte forme di carcinoma mammario sono ormonodipendenti, cioè hanno
bisogno della presenza degli ormoni, in particolare dell’estrogeno, per crescere. Quando sulla superficie delle
cellule tumorali sono presenti delle proteine che si chiamano recettori, si parla di tumori ER-positivi, ossia
positivi ai recettori per gli estrogeni. Questi tumori rispondono bene al trattamento con tamoxifene. Il
tamoxifene è il farmaco più utilizzato nella terapia adiuvante in pazienti con recettori ormonali positivi
(estrogeni e progesterone). Per terapia ormonale adiuvante si intende la somministrazione del farmaco dopo
intervento chirurgico (per ridurre il rischio di recidiva) sia in pazienti in post-menopausa che in pre-
menopausa con recettori positivi.
- OSTEOPOROSI. Il raloxifene riduce la perdita di massa ossea. Influenza positivamente anche il metabolismo
delle lipoproteine, riducendo sia il colesterolo totale che le LDL.
- INFERTILITA’. Il clomifene viene usato per il trattamento dell’infertilità femminile dovuta a mancata
ovulazione. Facendo aumentare i livelli di FSH, aumenta il reclutamento dei follicoli.
I due utilizzi più frequenti dei progestinici riguardano la contraccezione, da soli o con un estrogeno, e la terapia
ormonale post-menopausale in combinazione con gli estrogeni. I progestinici sono utilizzati anche nei casi di
amenorrea secondaria (mancanza di periodi mestruali per 6 o più mesi in una donna che ha già iniziato le mestruazioni
e che non è in stato di gravidanza, allattamento o menopausa), per il sanguinamento uterino anomalo in pazienti che
non presentano fibromi o cancro, nonchè come supporto nella fase luteinica durante il trattamento dell’infertilità e
nel travaglio prematuro. I progestinici sono altamente efficaci nel ridurre la comparsa di iperplasia e carcinoma
dell’endometrio causati dalla somministrazione di soli estrogeni. I progestinici sono anche utilizzati nel trattamento
palliativo del carcinoma metastatico dell’endometrio.
Il mifepristone è uno steroide sintetico utilizzato come farmaco per l'aborto chimico nei primi due mesi
della gravidanza. Il mifepristone blocca l'azione progestinica sui recettori inibendo così lo sviluppo embrionale. Una
prostaglandina viene somministrata 48 ore dopo l’antiprogestinico per assicurare l’espulsione della blastocisti
distaccata. Il mifepristone non va confuso con la pillola del giorno dopo (che invece è un farmaco per
la contraccezione d'emergenza), da cui si differenzia sia per i meccanismi di azione che per i tempi di assunzione.
Infatti la pillola del giorno dopo, oltre a dover essere somministrata entro 72 ore (3 giorni) dal rapporto sessuale,
agisce semplicemente bloccando l'ovulazione ma senza avere effetti sull'impianto di un eventuale embrione, per cui
non è in alcun modo in grado di indurre un aborto.
Il principale effetto collaterale è l’emorragia vaginale, che generalmente dura da 1 a 2 settimane, ma solo raramente è
così grave da richiedere trasfusioni si sangue. Un’alta percentuale di onne presenta dolore addominale e crampi
uterini, nausea, vomito e diarrea, dovuti all’uso delle prostaglandine. Le donne in terapia cronica con glicocorticoidi
non dovrebbero essere trattate con mifepristone a causa della sua attività antiglicocorticoide, e il farmaco dovrebbe
essere utilizzato con estrema cautela in donne anemiche o in terapia con anticoagulanti.
CONTRACCETTIVI ORMONALI
I contraccettivi orali sono usati in tutto il mondo e hanno avuto un impatto rivoluzionario come mezzo di
contraccezione conveniente ed affidabile. Sono disponibili diversti tipi di contraccettivi ormonali.
- CONTRACCETTIVI ORALI IN ASSOCIAZIONE. Gli agenti più utilizzati sono i contraccettivi orali in preparazioni
combinate contenenti sia un estrogeno che un progestinico. L’efficacia teorica è considerata pari al 99.9%. I
due estrogeni impiegati sono l’etinilestradiolo e il mastranolo. I progestinici sono composti della serie
dell’estrano e del gonano.
I contraccettivi orali in associazione sono generalmente venduti in confezioni che contengono 21 pillole di
contraccettivo e altre 7 pillole costituite solo da ingredienti inerti. Sono presenti quantità fisse di estrogeno e
progestinico in ogni pillola che va assunta quotidianamente per 21 giorni, con successivo periodo di 7 giorni
“senza farmaco”.
I contraccettivi in associazione agiscono prevenendo l’ovulazione. I livelli di LH e di FSH sono soppressi, il
picco di LH di metà ciclo è assente, i livelli degli steroidi endogeni sono diminuiti e l’ovulazione non avviene.
Sebbene uno solo dei componenti possa esercitare questi effetti, l’associazione diminuisce sinergicamente i
livelli di gonadotropine plasmatiche e sopprime l’ovulazione in maniera più costante.
I contraccettivi orali a basse dosi comportano rischi minimi per le donne che non presentano fattori di rischio
predisponenti ed esercitano anche effetti favorevoli sulla salute.
• Effetti cardiovascolari. Nelle donne che non fumano e non presentano altri fattori di rischio quali
ipertensione e diabete, non si registra alcun aumento significativo del rischio di infarto del miocardio
o di ictus. Si osserva un aumento molto piccolo del rischio di tromboembolia venosa, che tuttavia il
rischio aumenta significativamente nelle donne che fumano o che presentano altri fattori che
predispongono alla trombosi. Alcuni studi hanno messo in evidenza significativi cambiamenti del
colesterolo sierico totale o dei profili delle lipoproteine.
• Neoplasie maligne. Non vi è una chiara associazione tra l’uso di contraccettivi orali e l’insorgenza di
tumori maligni. L’uso di contraccettivi orali può aumentare il rischio di cancro alla cervice di circa
due volte, ma solo in utilizzatrici per lunghi periodi e con infezioni da papilloma-virus. Sono stati
riportati aumenti dell’incidenza di adenoma epatico e carcinoma epatocellulare, ma questa forza di
cancro è rara. Il rischio di cancro alla mammella è molto basso, e le utilizzatrici presentano soltanto
un aumento molto esiguo del rischio, da 1,1 a 1,2 in funzione di altre variabili.
I contraccettivi orali in associazione determinano una diminuzione del 50% dell’incidenza di cancro
endometriale, effetto che si mantiene per 15 anni dopo la sospensione della pillola. Si ritiene che
questo effetto sia dovuto all’inclusione del progestinico, che si oppone alla proliferazione indotta
dagli estrogeni durante l’intero ciclo. Inoltre, questi agenti diminuiscono l’incidenza del carcinoma
ovarico e potrebbero ridurre anche il rischio di cancro del colon-retto.
• EFFETTI METABOLICI. I contraccettivi orali non solo non alterano, ma possono addirittura migliorare i
profili lipidici e la sensibilità all’insulina.
• ALTRI EFFETTI. In alcune donne si manifestano nausea, edema e lievi cefalee; inoltre l’uso di
contraccettivi orali può scatenare episodi di emicrania in una piccola percentuale di casi. In alcune
donne si può manifestare un improvviso sanguinamento durante i 21 giorni del ciclo in cui vengono
assunte le pillole attive. Acne e irsutismo possono essere dovuti all’attività androgenica dei
progestinici.
- CONTRACCETTIVI ORALI DI SOLI PROGESTINICI. I contraccettivi di soli progestinici sono solo leggermente
meno efficaci dei contraccettivi in associazione, con un’efficacia teorica del 99%. Episodi di lieve perdita
ematica e cefalea sono i più frequenti effetti collaterali. Alcuni studi hanno messo in evidenza un aumento del
rischio di osteoporosi. La pillola con soli progestinici non aumenta gli eventi tromboembolici né causa nausea
e dolorabilità mammaria. Queste preparazioni possono essere indicate per le madri che allattano poichè, al
contrario dei prodotti contenenti estrogeni, esse non diminuiscono la lattazione.
- PILLOLA DEL GIORNO DOPO. La pillola del giorno dopo è un farmaco utilizzato come metodo
di contraccezione post-coitale (ossia per la contraccezione di emergenza) entro le 72 ore (3 giorni) successive
a un rapporto sessuale. Benché siano disponibili diverse preparazioni, il principio attivo oggi maggiormente
utilizzato è il progestinico Levonorgestrel, una sostanza presente anche in molte pillole contraccettive,
impiegata però in un dosaggio 10-15 volte maggiore rispetto al dosaggio giornaliero. Il Levonorgestrel agisce
bloccando l'ovulazione. Secondo gli studi più recenti non ha effetti sull'impianto e non è quindi in alcun modo
abortivo. Nausea e vomito sono i principali effetti avversi. Le piccole contraccettive d’emergenza sono
controindicate, ovviamente, nei casi di gravidanza confermata.
FARMACI ATTIVI SULLA FUNZIONE GASTRICA
Le ghiandole gastriche vengono suddivise, per posizione e struttura, in tre diversi tipi:
- ghiandole cardiali (situate nella regione prossimale dello stomaco);
- ghiandole del fondo e del corpo (le più abbondanti), dette oxintiche;
- ghiandole piloriche.
Una tipica ghiandola oxintica è costituita da diversi tipi di cellule:
- le cellule parietali (che costituiscono la porzione superiore della ghiandola e secernono acido cloridrico
e fattore intrinseco);
- le cellule principali (che secernono pepsinogeno, proenzima importante per la digestione delle proteine che si
trasforma in pepsina a contatto con l'acido cloridrico);
- le cellule cromaffini (che secernono principalmente istamina);
- le cellule mucosecernenti del colletto.
Pepsinogeno, acido cloridrico e muco rappresentano i principali costituenti del succo gastrico.