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PUBBLICAZIONI DELLA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI «S.

PAOLO»
DI ASSISI

GIOVANNI ROMANO BACCHIN

I
FONDAMENTI
DELLA
FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

ISTITUTO EDITORIALE UNIVERSITARIO - ASSISI


1965
Unione Arti Grafiche· • CJttà di Caatello 1966
I NT R O D UZI O NE

Non credo di esagerare se dico che le uniche opere di filosofia


del linguaggio che possano dirsi veramente tali - a parte spunti
e note ed osservazioni sparsi un pò ovunque - e non solo di
questi ultimi anni, sono opere che non intendono trattare ex
professo del linguaggio e sono, anzi, opere metafisiche. E ciò non
stupisce se alla filosofia del linguaggio si chiede innanzitutto di
essere filosofia ed alla filosofia di essere << metafisica >> nel senso
più rigomso della parola.
Il migliore esito della contemporanea attenzione prestata al
linguaggio da parte di studiosi di provenienze culturali le più
disparate è, penso, l'acuirsi della sensibilità critica nel suo uso,
nella scelta appropriata dei termini in vista di un rigore effettivo
delle varie ricerche. E si ha un linguaggio delle scienze (in cui
pare che le scienze si risolvano) e si ha un linguaggio della filo­
sofia (che si risolve- come tale- in filosofia teoretica, nell'atto
del filosofare che esso non può esaurire nè <<definire >>) e si hanno
altri linguaggi, circoscritti e circoscriventi l'umana esperienza. In
ciascuno va cercato il <<rigore >> che è metodologicamente la neces­
sità di non estendere un linguaggio ad ambiti per i quali non sia
stato <<costruito» o nei quali più non si riconosca ciò che l'ha
fatto nascere.
Ora, il rigore stesso della ricerca filosofica importa che ad essa
non si pervenga trascinandosi dietro i pesi di un linguaggio che,
nato in altro terreno, induca estrapolazioni, falsi miraggi, rap­
presentazioni inadeguate, crisi apparenti. Di fatto, l'opera del
filosofo nei confronti delle attuali ricerche intorno al linguaggio
si risolve proprio nel liberare (meglio : purificare) la filosofia con
la sua autentica problematica da problemi fittizi, rivelando criti­
camente i punti in cui si generano più facilmente gli equivoci e le
discussioni meramente verbali.
V! INTRODUZIONE

Tale opera è, tuttavia, condizionata all'attuarsi effettivo della


filosofia, per cosi dire all'interno di se stessa e non solo in con­
fronto con altre attività umane.
Ma è proprio questo collocarsi e radicarsi profondo del filo­
sofo nella filosofia, che, escludendo rigorosamente ogni interesse
che non sia autenticamente filosofico, accredita anche una filo­
sofia del linguaggio che non sia solo una <<riflessione critica » sul
linguaggio, o un'analisi di linguaggi effettivamente disponibili, o
linguistica generale od anche curiosità erudita.
Una volta chiarito - ed è chiarimento molto importante -
che la filosofia non è da risolversi nel pensiero così detto « scien­
tifico>>, non ha più senso per la filosofia condizionarsi alle tecniche
operative di cui si avvalgono le scienze e i loro linguaggi parti­
colari. Del resto, la stessa espressione <<filosofia del linguaggio 1>
come l'espressione <<filosofia della scienza>>, rivela che scienza e
linguaggio sono passibili di una ricerca che non coincide semplice­
mente con la posizione - anche critica - dei loro termini.
In ogni caso, se l'intima intenzione delle <<filosofie del linguag­
gio>>, dai frammenti di Parmenide, al Cratilo platonico, alla Spra­
chenphilosophie di VoN HuMBOLDT, alla <<Languistique gènèrale>>
del De Saussure al Tractatus di Wittgenstein, alla <<Sintassi logica
del linguaggio>> di R. Carnap, alle ultime rielaborazioni a carattere
più informativo che costruttivo (e che caratterizzano la produzione
italiana in materia), secondo vari intenti, è di raggiungere una
sufficiente consapevolezza del linguaggio fino alla sua giustifica­
zione fondante, è non solo possibile, ma necessario enucleare
tale <<intenzione>> nella sua purezza e vederne l'intima consistenza
ed è questo, appunto, il compito della filosofia o il modo di con­
siderare il linguaggio in filosofia.
Con che il filosofo è ancora a casa sua dove del linguaggio
non si chieda come psicologicamente o socialmente si origini, nè
come si possa adeguare alle cose che con esso si vuole « dire » o
<<comunicare>>, ma si chieda a quali condizioni il linguaggio, o
segno o semantizzazione o forma di pensiero, sia pensabile. Por­
tata al limite, là dove solo il filosofo può pervenire con il suo
totale ricercare, la ricerca sul linguaggio radica in se stessa la
differenza di cui ci si serve, di fatto, tra <<linguaggio>> e <<lingua))
e non solo per una proposta, ma per una intrinseca necessità :
<<linguaggio>> volendo essere il pensiero in quanto dicibile o signi­
jicabile e tale a prescindere dai <<segni>> di cui una lingua di fatto
dispone.
INTRODUZIONE VII

E questo importa che del linguaggio si determini la <<struttura ))


nella sua originarietà ; che è l'originarietà stessa del concetto di
<<struttura)) e del <<concetto», appunto, o <<pensiero l> di cui è
<<struttura».
La presente ricerca dei « fondamenti>> della filosofia del lin­
guaggio si collega, pertanto, direttamente a due gruppi di lavori,
per un verso affini anche se nati indipendentemente e in altro
clima: ovviamente i miei lavori teoretici precedenti, a cominciare
dal lavoro Su le implicazioni teoretiche della struttura formale (r) ,
ed i lavori teoretici di Emanuele Severino, specialmente la Strut­
tura originaria (2) e Studi di filosofia della prassi (3) nei quali
risultano rigorosamente tolte le pregiudiziali da cui ci si muove
per considerare <<filosofia)) ciò che è, al più, <<cultura>>, interesse
alle <<cose», più che al loro intimo senso, che è poi il senso del­
l'essere.
Non tutto del pensiero metafisica del Severino io accolgo,
ma molto del suo pensiero io incontro sulla mia strada proce­
dendo indipendentemente da lui, ed a partire dalla originaria
impostazione problematica del pensiero classico che ritengo sia
stata fatta valere nella sua purezza da Marino Gentile (4), del
quale mi onoro di essere discepolo.
Se nella pura problematicità, che è il totale problematizzare
o discussione totale, i singoli contenuti di asserzione sono revo­
cabili in dubbio, dissolvibili nella loro pretesa consistenza, indis­
solubile, irrevocabile appare, invece, la <<struttura>> ed il <<con­
cetto» che la dà ed in cui la struttura è, piuttosto, l'originario
strutturarsi del <<trascendentale>>, che è essere e pensare, pensare
perchè essere.
Di un più chiaro recupero del livello trascendentale si avvale
questo mio ultimo lavoro nei confronti del lavoro Sulle impli­
cazioni teoretiche della struttura formale, perchè il trascendentale si
chiarisce qui non solo come struttura, ma come l'impossibilità che
in esso <<struttura» e <<funzione>> si distinguano, e non, piuttosto,
che << funzione>> del trascendentale sia dissolversi o vanificarsi
come «oggetto» non appena lo si pensi, essendo esso ciò in virtù
di cui si pensa e si dice.

(r) Roma, 1963.


(2) E. SRV BRINO, La struttura originaria, Brescia, 1958.
(3) E. SBV BRINO, Studi di filosofia della prassi, Milano, 1962.
(4) Si veda soprattutto di M. GENTILE, Filosofia e Umanesimo, Brescia, 1948.
VIII INTRODUZIONE

Questo vanificarsi del trascendentale è dialettico ed è l'at­


testazione dialettica che il �inguaggio, nato per « significare •,
non può valere dove non valgano 1'<1 aggettivazione,>, l'<1 entifi­
cazione )}, la << cosalizzazione >> dell'esperienza e che l'uso filosofico
del linguaggio è la critica dissoluzione della sua pretesa di significare
la totalità. Ed ogni cosa è, nella sua concretezza o pienezza d'essere,
la totalità di se stessa.
Del linguaggio ci si serve dunque, in filosofia, per dire che
con il linguaggio non si dice di filosofico se non la necessità di
considerarlo tutto condizionato, necessità d} dire nonostante il
linguaggio, dialetticamente.
CAPITOLO PRIMO

SOMMARIO : 1. Il carattere filosofico della presente ricerca. - 2. Il carattere dialettico,


o negatorio della filosofia. - 3· La dialettica dell'identico livello. - 4· La dia­
letticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. - 5·
I limiti di validità dell'analisi nella filosofia del linguaggio. - 6. Limùi di vali­
dità e valore. - 7· Come è possibile una filosofia del linguaggio. -8. Concetto
di « teoria" e sua riduzione. - g. La riduzione del concetto di teoria e la radice
pragmatica dell'intellettualismo. - IO. La nozione ateoretica dello« in generale •
come base della teoria. - II. Riduzione del procedimento analitico all'inde·
terminato, cioè al contraddittorio. - I2. Differenza antologica tra il contraddit­
torio ed il negato. - I3. La dialetticità come impossibilità di un procedimento
analitica sulla totalità. - I4. La domanda totale e la totalità domandata. - 15.
L'intero della domanda totale e della totalità domandata. - I6. La conversione
dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare. - I7. La
domanda come riferirsi in atto alla risposta. - 1 8 . La problematicità della« de­
finizione" concettuale. - Ig. L'intersoggettività come dimensione dialettica. -
20. La struttura dialettica dell'implicazione.

§ I. - Il carattere filosofico della presente ricerca.

La presente ricerca sul linguaggio si colloca sul piano filoso­


fico puro (r) e, da un punto di vista esclusivamente filosofico, si
svolge in ordine alla domanda di come il linguaggio possa venire
giustificato e perciò di come possa giustificarsi una ricerca filo­
sofica intorno ad esso, chè le due cose coincidono.
Coincidono perchè la giustificazione è, essenzialmente, la fon­
data attribuzione di un valore in base al quale si giustifica il pro­
cesso stesso onde si perviene a questa attribuzione ; e così la giu­
stificazione del linguaggio è il linguaggio nel suo valore e la filo­
sofia del linguaggio procede consapendo o sapendo insieme, se
stessa e il valore del linguaggio nel suo essere tale. Con che si

(1) La parola « puro », detta per indicare la filosofia nella sua teoreticità,
determina il carattere intrinseco della filosofia, ossia la filosofia è pura o non è
filosofia.

x
2 CAPITOLO PRIMO

chiarisce che la filosofia del linguaggio è il linguaggio stesso nel


suo venire considerato dalla filosofia od anche il linguaggio nella
filosofia.
È così che si rivendica la piena autonomia del filosofare, an­
che nel caso della filosofia del linguaggio, in quel caso, cioè, in cui,
di fatto e per le molteplici implicanze dei vari linguaggi disponi­
bili, più difficile appare l'autonomia del filosofare.
La facile - invero banale - osservazione che definire la filo­
Sofia come <<giustificazione>> è presupporre qualcosa alla ricerca
e che la stessa parola <<giustificazione>> appartiene al linguaggio
Che si intende giustificare, onde non sarebbe legittimo porsi ori­
ginariamente ad un livello filosofico puro nei confronti del reale,
e del linguaggio in particolare (r), va tolta con quest'altra osserva­
zione, che ogni ricerca, a qualsiasi livello, in tanto legittimamente
si pone in quanto <<motivata>> in ordine al valore che le si attri­
buisce e questa motivazione ha però senso solo dove il valore venga
consaputo nel suo autentico senso, ossia come << giustificazione>>,
la quale è, si voglia o no, filosofia.
E la filosofia, come totale e perciò pura problematicità (2), non
può risultare (3) <<condizionata>> senza cessare di essere ; il che
significa che è indispensabile porre in questione ogni forma di
<<condizionamento>> che di essa si pretende e da parte delle scienze
e da parte dei linguaggi dei quali esse si strutturano e da parte
del <<linguaggio comune>> di cui pure si abbisogna per farsi inten­
dere, e da parte di quella particolare scienza che è la scienza delle
strutture logiche o <<sintassi logica del linguaggio >>.
Così, se questi <<condizionamenti>> vanno messi in questione,
e se filosofia si intende questo radicale epperò totale questionare,
non sarà mai possibile rinunciare alla autonomia del filosofare e
non sarà il linguaggio, nella sua struttura e nella sua funzione,
a compromettere questa autonomia ; chè, se ciò si pensasse, si
dovrebbe pur sempre pensare o che il linguaggio è tutta la filo­
sofia e, di conseguenza, non è linguaggio perchè altro non avrebbe

(r) È l'osservazione che mi muoveva L. GEYMONAT a proposito in "Sapere


scientifico e sapere filosofico Simposio a Padova, rg6o.
»,
(2) Rimando il lettore agli altri miei lavori teoretici, rispetto ai quali il presente
è un ulteriore approfondimento della problematicità come è intesa nel pensiero
di M. Gentile.
(3) Una filosofia che «risultasse » sarebbe già tutta condizionata e ripropor­
rebbe il problema del valore di ciò da cui la si fa risultare, problema teoretica­
mente spostato, mai risolto.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 3

da comunicare se non se stesso e non potrebbe, perciò, <<comuni­


carsi>>, o che esso è un particolare <<caso>> (particolare anche se
insopprimibile e sempre presupposto) di una totalità in cui si
inscrive ed è tale da non potersi mai convertire in essa.
Questa totalità, appunto, che pur con il linguaggio si comunica,
è dal linguaggio indipendente se questo si inscrive in essa e tale in­
dipendenza è già l'autonomia del dire la totalità, che è la totalità
nel suo affermarsi o filosofia che afferma se stessa : il pieno ep­
però concreto affermarsi della filosofia.

§ 2. - Il carattere dialettico, o negatorio (1) , della filosofia.


La forma più comune- e perciò stesso più banale- in cui,
implicitamente od esplicitamente, appare il dubbio intorno al
significato ed al valore della filosofia è quella vagamente <<stori­
cistica>> che pretende alla misura del vero come <<attuale>> e della
<<attualità>> come <<contemporaneità>>, nel senso delle rappresen­
tazioni collettive (2) delle quali si materia ciò che è, di volta in
volta, e per tutti i tempi, <<il nostro tempo>>, <<la moda del tempo>>.
Tale forma è in effetti la domanda : <<la filosofia ha ancora
qualcosa da dire nel nostro tempo ? >>, la quale domanda, presa
nel suo significato preteso, suppone in ogni caso risolto o mai
discusso che cosa significhi <<dire qualcosa>> ed <<avere ancora da
dire>> e <<nostro tempo>>; essa suppone tutto questo perchè è dal
senso comune che essa muove ed è in esso che si mantiene, co­
sicchè il suo valore dipenderebbe solo e tutto dalla rilevanza di
quel <<senso comune>> in filosofia, ma, dove si pervenga a tale
consapevolezza, è già dissolta la pretesa di porre una simile
domanda intorno alla filosofia, perchè la consapevolezza critica
del limite del senso comune (nonchè delle questioni che esso
suscita ed alimenta) è già <<filosofia>> (3).
Quella domanda, presa nel suo effettivo significato, si sempli­
fica nella seguente : <<la filosofia ha qualcosa da dire ? >>. Perchè,

(1) « Negatorio>> diciamo e non "negativo>> , perchè la negazione vi com­


pie la funzione positiva della riaffermazione del limite o dialetticità essenziale al
filosofare, per la quale il negativo è condizione al rilevamento del vero, dove tutto
sia messo in discussione (ipotetizzato come non vero). Cfr. G. R. BACCHIN, Origi­
narietà e mediazione nel discorso metafisica, Roma, 1963.
(2) Per "rappresentazioni collettive>> intendo l'uso comune di parole non suf­
ficientemente consaputo nelle sue ragioni : di tutti e di nessuno.
(3) Si veda, a proposito, il Cap. II, § 3·
4 CAPITOLO PRIMO

se essa, come filosofia, ha avuto qualcosa da dire, essa, resta:ndo


filosofia, ha ancora ed avrà sempre qualcosa da dire e se ora risul­
tasse che come filosofia essa non ha nulla da dire, ciò significhe­
rebbe che essa non ha mai avuto qualcosa da dire, nonostante
l'apparenza contraria.
Qui l'appello alla storicità, per dire che la filosofia svolgen­
dosi ha perso di attualità, dovrebbe significare che la filosofia ha
cessato di essere filosofia, donde la necessità di tornare ad essere
ciò che era per essere ancora filosofia, oppure che essa non è mai
stata filosofia e perciò non è mai stata attuale e che lo svolgimento
storico all'interno di essa, quello che porterebbe alla dissoluzione
della filosofia, vale solo a mostrarne l'illusorietà; illusorietà però
che solo la filosofia ora potrebbe rilevare, perchè dovremmo chia­
mare filosofia almeno questa consapevolezza raggiunta, nonchè
il processo per raggiungerla.
E la filosofia avrebbe per unico compito di eliminare se stessa ;
il quale compito è ovviamente contraddittorio e perciò si elimina,
restituendo così il compito incontraddittorio della filosofia, quel
compito che è, a rigore, tutto nella sua stessa incontraddittorietà,
nella incontraddittorietà dell'essere che per esso si rivela (nel
tentativo frustrato di negarlo), precisamente il compito <<meta­
fisico >> (r).
È fuori dubbio, comunque, che alla domanda se la filosofia
abbia qualcosa da dire, nel senso che si giustifichi come filosofia,
si suppone che solo la filosofia possa rispondere, chè ad essa ci si
rivolge e non avrebbe senso attendere una risposta da chi non
tende o pretende alla filosofia; dove è almeno implicito che, se
tale domanda ha un senso, questo senso è ancora filosofia, per cui,
a rigore, non ha alcun senso porsi questa domanda se non come
consapevolezza che la filosofia attua di se stessa (2) ; dovrebbe pen­
sarsi cioè fuori dubbio ciò che darebbe <<senso>>, o valore, alla
domanda relativa intorno ad esso e il dubbio così non avrebbe
senso.
La massima concessione che si può dunque fare a chi pone
domande filosoficamente banali (3) è che queste domande pos­
sono venire poste solo banalizzando il loro stesso senso, cioè sup-

(r) Cfr. G. R. BACCHIN, Originarietà -ecc., cit., p. 40; L'originario come im­
plesso esperienza - discorso, Roma, 1963, p. 79·
('z) Cfr. G. R. BACCHIN, Su l'autentico nel filosofare, Roma, 1963, p. 12.
(3) È filosoficamente banale il discutere sulla base di «presupposti».
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 5

ponendo che la filosofia sia l'unico senso che esse potrebbero


avere : che se ciò di cui si dubita è il senso stesso del dubitare,
dubitare non ha più senso.

§ 3· - La dialettica dell'identico livello.

Il rifiuto della filosofia a prendere in considerazione queste


pretese è per lo meno giustificato quanto il rifiuto della filosofia
da parte di chi non ne vede la ragione; per lo meno, diciamo,
non perchè effettivamente sia così, ma perchè così si pretende e
solo tanto si è disposti a concedere alla filosofia se ci si pone a
discuterla a partire dal senso comune (e mantenendosi in esso).
Questa parità di diritti compare con l'atteggiamento di generica
tolleranza con cui il senso comune può contraffare l'autentica
ricerca che è problematicità ; generica tolleranza, proprio perchè
si può <<tollerare>> solo genericamente, ossia come atteggiamento
o disposizione, non come critica consapevolezza dell'<< oggetto>>,
cosicchè la <<tolleranza>> si rivela piuttosto una rinuncia alla cri­
tica che una disposizione ad attuare pienamente la critica.
Ma anche a porsi in questo atteggiamento di tolleranza, che è
rinuncia, la filosofia e chi la nega negandole ciò che le spetta si
dispongono inevitabilmente al medesimo livello, quello stabilito
dalla supposta parità di diritti, il quale, proprio perchè identico
per entrambi gli atteggiamenti, deve essere filosofia, la quale,
cosi, nega la negazione che si pretende di essa e, non subendo
negazione, caccia dal suo piano chi pretende negarla.
Non si può negare, cioè, che la parità di diritti venga inizial­
mente supposta, perchè la questione sorge solo a condizione che
si suppongano inizialmente compossibili i suoi termini, che sono
qui la filosofia e la sua negazione, compossibilità che è l'assunzione
ad un medesimo livello dei due opposti (non v'è opposizione se
non all'interno di una supposta omogeneità) (I), per cui, tolta
l'identità di livello tra i termini in questione, è tolta la questione,
la quale si toglie sdoppiandosi in una negazione mai pertinente e
in un negato sempre fuori negazione : la negazione della filosofia,
non orientata a questa, non sarebbe e la filosofia, mai veramente
negata, continuerebbe ad essere.
È cosi che, a partire dall'identico livello, nella figura da chiun-

(I) Cfr. ARISTOTELE, Metaph., III, 2 ; IV, 6 ; Cat. , X .


6 CAPITOLO PRIMO

que facilmente concessa della iniziale parità di diritti tra la filo­


sofia e chi la nega, mettendo in evidenza con un atto di natura
filosofica che almeno questa identità di livello sarebbe filosofia
(se i livelli fossero diversi, la negazione non sarebbe mai perti­
nente), si conclude escludendo (r) proprio quella parità di diritti,
riducendola a semplice pretesa che è discussione teoreticamente
nulla.
L'identico livello, supposto nella figura della parità di diritti,
sarebbe dunque in qualche modo << filosofia)), perchè, se non lo fosse,
di essa non si potrebbe dire che è, nè si potrebbe pretendere che
essa non sia. Ora, basta che essa sia in qualche modo filosofia perchè
sia veramente filosofia, perchè l'insufficienza del modo è qui, piut­
tosto, l'insufficienza di chi lo intende (o pretende) vero, mentre
che la filosofia sia già annunciata in questo << qualche modo )) de­
riva dal fatto che essa è sempre presente anche se oscuramente
consaputa (2).

§ 4· - La dialetticità della filosofia e il momento analitico della fi­


losofia del linguaggio.

Se la filosofia è il porsi e l'attuarsi del processo di giustifica­


zione, la filosofia del linguaggio è il linguaggio come tale, ossia
la presenza del linguaggio nel suo concetto (3) ; con ciò resta escluso

(r) «Concludere escludendo'' è, propriamente, procedere negando valore


alla premessa da cui si parte (cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc. cit., App. § 14,
la riflessione esplicativa dell'unità).
(z) Questa perenne presenza della filosofia non viene constatata come un feno­
meno che l'esperienza offre constantemente (ciò potrebbe valere, al più, per stabi­
lire che vi sono, ossia esistono, taluni che si dicono" filosofi»), ma viene recuperata
col tentativo di negarla, ossia dialetticamente ; la dialetticità del metodo filosofico
importa la dialetticità della sua affermazione : è dialettica anche l'affermazione
della dialetticità del filosofare, essa è una cosa sola, cioè, con la filosofia stessa.
(3) Quali e quanti sono i problemi del linguaggio ? Il problema dell'origine ,

dello sviluppo del linguaggio, della struttura dei sistemi linguistici, del significato
delle espressioni linguistiche, della funzione del linguaggio.
Di fatto, questi problemi vengono distinti tra loro ed è, invero, utile circoscri­
vere ciascun problema onde approfondire la conoscenza dei suoi termini, ma una
attenta riflessione su tale problematica rivelerebbe che ciascun problema richiama
l'altro e della soluzione eventuale dell'altro si avvale. Cosi, ad esempio, il problema
della funzione del linguaggio si collega con quello dell'origine e costituisce insieme
a questo il problema più fondamentale della « natura» del lingua ggio.
Usando delle classificazioni di Morris e di Carnap si potrebbe denominare
« sintattico» il problema della struttura e «semantico '' quello del «significato ,,.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 7

che si possa pensare una critica al concetto come tale mediante


l'analisi del linguaggio ; che è quanto dire che il linguaggio, nel
suo concetto, non può venire considerato analizzando un parti­
colare linguaggio, procedendo questa analisi solo a supporre la
unità -unicità del concetto di linguaggio.
Questa considerazione ci consente di osservare come il valore
della cosidetta <<filosofia analitica >> sia da demandare a quel
senso lato per cui <<analisi filosofica>> sarebbe <<ogni filosofia
fondata su generiche operazioni di analisi, di riflessione, di inter­
pretazione, e simili (cioè ogni filosofia non meramente mistica
o intuizionistica)>> (r) ; e bisognerà subito stabilire come si possa
parlare di filosofia analitica o d'analisi filosofica, se la filosofia è
essenzialmente dialettica e se il linguaggio deve essere anche il
linguaggio della filosofia.
Si vedrà più avanti l'intreccio tra filosofia del linguaggio e lin­
guaggio filosofico ; per ora è sufficiente determinare che cosa venga
presupposto al concetto di una filosofia << fondata (z) su operazioni

Sintassi e semantica rappresentano cosi le due dimensioni fondamentali dell'ana­


lisi linguistica : come « sintassi» il linguaggio è pura forma logica, come semantica »
«

il linguaggio è pura esperienza, donde la necessità di riesaminare il rapporto espe­


rienza-struttura (cfr., a proposito, il mio lavoro che ritengo fondamentale all'in­
telligenza della presente indagine : Su le implicazioni teoretiche della struttura for­
male, Roma, Iandi-Sapi, 1963 ; specialmente capp. IV, VII, VIII).
(1) A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza e filosofia, Bologna 1962, p. 19.
(z) Si sa che la parola fondamento è metaforica e richiama l'immagine della
« costruzione » : è fondamento ciò su cui si costruisce. Ricercare il fondamento

significa, cioè, determinare ciò su cui posare l'intera costruzione filosofica, la quale
costruzione non può venire posata su di una qualche base, se non si possiede, pre­
viamente, la conoscenza del rapporto tra la base e la costruzione stessa, rapporto
che determini la proporzione tra costruzione e (5uo) fondamento : non ogni costru­
zione abbisogna del medesimo fondamento. Nel caso della costruzione filosofica
poichè la filosofia si pone intenzionalmente in ordine alla totalità, la determina­
zione del fondamento sarà ordinata a « sopportare » la totalità. Ora, essendo il
fondamento della totalità inevitabilmente interno alla totalità, fondare la totalità
non è possibile senza intendere che è la totalità a fondare se stessa (nel senso che
il fondamento della totalità è determinabile all'interno della stessa totalità e che
lo si può determinare solo a condizione di possedere questa totalità). Paradossal­
mente, per trovare il fondame nto della costruzione filosofica bisogna disporre
dell'intera costruzione filosofica, per trovare ciò su cui poggia la filosofia bisogna
disporre della filosofia. Pertanto, la determinazione del fondamento non precede
la costruzione filosofica, nè la segue, ma l'accompagna in qualsiasi momento del
suo processo: non la precede, perchè senza la costruzione il fondamento sarebbe
fondamento di nulla, non la segue perchè senza il fondamento la costruzione,
« infondata », è nulla, ma l'accompagna nell'intero processo perchè l'intero pro-
8 CAPITOLO PRIMO

d'analisi ecc. )). Dove si prenda per <(filosofia)) un discorso fondato


direttamente su operazioni anzichè su valori, bisognerà anche
riconoscere che una filosofia che si fondasse su operazioni dovrebbe
essere tutta nelle operazioni che la fondano e queste dovrebbero
esaurire in se stesse il valore in funzione del quale però si costi­
tuiscono come operazioni.
Il valore della ((filosofia analitica)) dovrebbe consistere, cioè,
non in ciò cui l'analisi, come operazione tende, ma nell'analisi stessa,
che, se è solo un metodo ( se non fosse solo un metodo sarebbe anche
dottrina) , è un metodo considerato fuori relazione, ((metodo))
e non ((metodologia)), ossia òMc; che non ha termine, un <( andare))
senza meta.
Che, se si vuole dare ((consistenza)) all'operazione, bisogna
presupporle una filosofia che, condizionando l'analisi, non può
subirne i procedimenti nè strutturarsi degli stessi termini nei
quali l'analisi si pone e si attua ; d'altro canto, l'analisi è possi­
bile solo dove si assuma l'oggetto da analizzare come ((analizza­
bile)), come già analiticamente disposto : l'analisi del linguaggio
suppone una filosofia che consenta di considerare il linguaggio come
un complesso di termini, costatandone i modi e i nessi, precisa­
mente la concezione empirica del linguaggio, quella che solo l'em­
pirismo può consentire.
L'empirismo sarebbe qui scelto come filosofia per la duplice
ragione che di una filosofia si ha bisogno per condizionare (e si­
tuare culturalmente) l'analisi del linguaggio e che solo l'empiri-

cesso è « presente " in ogni sua « parte "• costituendo appunto il « senso " o il « verso »
dello svolgimento, presenza che è la totalità per cui ed in cui solo può dirsi che
« qualcosa" è o diviene.
Il metodo teoretico della determinazione del fondamento è dunque la consta­
tazione che il fondamento della totalità, o fondamento filosofico, non può essere
estraneo alla totalità, che anzi solo nella totalità esso è reperibile, per cui, in
effetti, la totalità non si costruisce come fondata, bensl come condizione alla
sua possibilità di fondare, essendo ciò entro cui ha senso porre il fondamento, od
anche è essa il porsi stesso di quel fondamento
Con ciò dovrebbe concluder;,i che la totalità, coincidendo con il fondamento,
non ha fondamento, ossia che è la totalità a fondare se stessa, ad essere ciè il pro­
prio fondamento.
Ma, in questi termini, fac�ndo coincidere il fondamento filosofico con la co­
struzione filosofica, si è dissolto il problema del fondamento di tale costruzione
e si è resa vana la ricerca del fondamento. Dire che la totalità fonda se stessa
e dire che il fondamento è fuori ricerca, è dire la stessa cosa : che il fondamento
non può non esserci e che questa necessità non è essa il fondamento.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 9

smo consente di guardare il linguaggio come un <<meccanismo


scomponibile pezzo (r) >>. Dal disposto combinato delle due ra­
gioni si evince facilmente che il motivo della preferenza data
all'empirismo da parte degli analisti è tutto condizionato alla
loro intenzione di operare sul linguaggio empiricamente e non è,
perciò un motivo, venendo a coincidere con l'azione che esso do­
vrebbe motivare.
Del resto lo stesso empirismo non ha una sua ragione, perchè
esso rinuncia esplicitamente a giustificarsi, dal momento che as­
sume come giustificazione proprio ciò che abbisogna di venire
giustificato : quell'empirico cui esso riduce l'esperienza, costi­
tuendosi come funzione logica di questa, non riesce ad assorbire
l'esperienza, nè a giustificarla; cosicchè si può dire che il <<no­
minalismo>> è ancora empirismo, nonostante l'apparenza : il nomen
è fatto sussistere come <<cosa >> tutta mentale (flatus vocis), ma an­
cora come <<cosa» che in qualche modo sussista.
Il grande movente, chè di moventi si può qui parlare più che
di motivi, dell'analisi del linguaggio è la difficile situazione in cui
ci si viene a trovare quando si affronta un discorso filosofico man­
tenendosi al livello empirico, che è per l'impossibilità non con­
saputa di ridurre all'empirico l'intero arco del filosofare : non po­
tendo intendere il linguaggio filosofico e tanto meno comprenderne
le ragioni, si decide di commisurarlo con il linguaggio usuale previa
mente assunto come ordinario >> (2), rifiutando ciò che di quello
appare irriducibile a questo; dove la ragione del rifiuto è solo
il fatto che non si vede perchè si debba accettare, e si rifiuta, così
senza una vera ragione. Si può dire con Filiasi-Carcano che le dif­
ficoltà presentate dal neopositivismo potrebbero valere, piuttosto,
come una <<incapacità di intendere >> (3).

§ 5· - I limiti di validità dell'analisi in filosofia del linguaggio.


Per poter parlare di <<analisi filosofica >> o di <<filosofia anali­
tica >> (4) è necessario precisare il senso in cui si attua in filosofia

(r) Cfr. U. ScARPELLI, I Fondamenti e il metodo della analisi del linguaggio,


in "Il pensiero americano contemporaneo », Milano, 1958, p. r86.
(z} Cfr. U. SCARPELLI, op. cit., p. r86.
(3) Cfr. P. FrLrAsr-CARCANO, Dall'analisi alla filosofia del linguaggio, in
• Archivio di Filosofia » , 1955, p. rg.
(4) Non si può veramente utilizzare l'analisi come strumento di chiarifica-
IO CAPITO LO PRIMO

l'analisi e, precisamente, se l'analisi sia compossibile con la filo­


sofia e, in caso, se essa sia un momento del processo filosofico o
ne esaurisca l'intero processo.
Ma, per stabilire se l'analisi sia compossibile con la filosofia,
va stabilito il senso in cui l'analisi può dirsi un processo in sè con­
cluso anzichè un procedimento finalizzato a momenti ulteriori;
per <<processo 1> intendo qui lo svolgimento di un'iniziale assunzione
da cui non è dato uscire e il cui risultato è già <<preconcetto 1> al­
l'inizio ; per <<procedimento 1> intendo il passaggio da un <<mo­
mento >> ad un altro, nessuno dei quali. <<proconcetto 1> in altro,
epperò passaggio che presuppone il disporsi dei termini l'uno
all'altro ulteriore.
In questo senso, anche il procedimento, ove venga totalmente
consaputo, si inserisce in un processo, e non si converte perciò
in esso e mantiene, pur sempre,u la distinzione da qesto, così
come si mantiene in atto la distinzione tra atto e operazione.
Ora, se l'analisi è un procedimento, è anche un'operazione,
epperò un agire su termini presupposti, il cui valore è tutto in
quei termini e quindi tutto presupposto e la funzione dell'analisi
s:1rebbe allora quella di disporre quei termini nel modo più chiaro,
ma non per questo più vero, che la <<chiarezza 1> è sempre relativa
alla necessità di uscire da una precedente oscurità o confusione (r),
la quale può venire riconosciuta solo dove già si sia in qualche
modo usciti da essa, usciti in virtù di quell'atto stesso che stabilisce
l a necessità di uscire.
Non potrei, infatti, sapere che debbo chiarificare un discorso
se non sapessi che esso è oscuro, se non sapessi, cioè, che esso è
insufficientemente chiaro, chiaro solo relativamente ad una situazione
che ho già superato, situazione variabile, quindi, e che, variando,
determina di volta in volta, come per una funzione matematica,
i diversi gradi di chiarezza.
Se l'analisi, come procedimento e quindi operazione, ha dunque
la funzione (=il compito) di chiarificare il discorso, essa non può
non dipendere da un canto dalla effettiva distinzione dei termini

zione e «consapevolizzazione n del linguaggio, se non si perviene alla piena consa­


pevolezza della utilizzabilità dell'analisi come tale : è quanto manca per lo più
alle impostazioni essenzialmente « storiche n, meglio « informative », delle quali si
comincia ad abbondare anche in Italia ; si veda, ad esempio, l'opera citata del
Pasquinelli.
(r) È da esaminare a parte il nesso tra«chiaro >> e«distinto >>, non due criteri.
ma uno : è chiaro ciò che è distinto.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO II

sui quali si esercita, dall'altro dalla variabile situazione conoscitiva


di chi la esercita: il suo valore è, così, da una parte tutto presup­
posto, dall'altra tutto costruito ; in entrambi i casi sempre prede­
terminato all'analisi da qualcos'altro che resta sempre esterno alla
analisi e perciò ad essa essenzialmente irrilevante.
Perchè l'analisi abbia, come analisi, un qualche valore bisogna
che essa si consapevolizzi, a sua volta, come processo nel quale
i termini, tra loro distinguendosi e rapportandosi, mantengano un
inscindibile nesso con la totalità in cui si collocano, nesso che è,
dialetticamente, la presenza della totalità in essi, quella presenza
che l'analisi deve solo presupporre e su cui essa non può venire
esercitata: il nesso con la totalità che l'analisi suppone non ha
carattere analitico. Dove la totalità venisse meno, meno verrebbe
la possibilità dell'analisi, la quale non può modificare la totalità
proprio perchè, al limite, non la può mai escludere; e se <<filoso­
fia>> diciamo, con termine operativo, questa totalità, l'analisi in
filosofia non ha alcun valore.

§ 6. - Limiti di validità e valore.


Cosi, la ricerca dei limiti di validità dell'analisi in filosofia
approda alla esclusione di valore all'analisi in filosofia, ma non
esclude la necessità dell'analisi come procedimento inerente alla
precisa determinazione nel linguaggio dei semantemi che vi com­
paiono, chè la funzione dell'analisi è insostituibile nella misura in
cui questi semantemi si distinguono effettivamente tra loro.
Di qui la necessità di procedere con rigore e di valutare l'ana­
lisi in relazione a questo rigore, non, viceversa, il rigore in base
all'analisi dei singoli termini dei quali si fa imprescindibile uso.
Se, infatti, il rigore fosse da progettare come risultato della
analisi, l'analisi dovrebbe progettarsi non in funzione della chia­
rezza, ma in funzione della verità del discorso e questa sarebbe da
pensarsi alla fine dell'analisi, la quale, invece, analiticamente, non
ha <<fine>> (essa procede, infatti, estendendosi entro i limiti che
ad essa impone, di volta in volta, l'analizzato) e non è in grado
di stabilire la verità, di << farla nascere>>.
Rigore e verità sono, dunque, rispetto all'analisi, la stessa
cosa, perchè sono, anzi, la <<cosa stessa>> come valore di ciò che
si dice di essa ; cosicchè l'analisi ha valore solo se è <<rigorosa>>,
cioè tale da rispettare l'intero valore della cosa su cui si esercita,
l'intero entro cui la cosa si colloca ; ma allora il valore dell'analisi
12 CAPITOLO PRIMO

dipende dalla filosòfia, perchè essa è rigorosa se rigorosamente pen­


sata è la <<cosa>> su cui essa si esercita.
La << cosa>> è poi rigorosamente pensata s� non si esclude il
suo esser(si) la totalità di se stessa, se non si esclude, cioè, l'<<es­
sere>> che è totalità <<intima>> di qualsiasi cosa, l'essere che è
<<metafisica>> (r) . Qui l'analisi del linguaggio sarebbe, al più, il
linguaggio i.n quanto <<analizzabile », ciò che del linguaggio non
è <<totalità>>, <<essere>>, <<valore>>, ma <<insieme>>, <<termini>>, <<ope­
razioni>> (2), dei quali la filosofia pur abbisogna per dire se stessa,
ma che essa deve negare come valori se intende veramente dirsi ;
questo negare ciò di cui si abbisogna non ha senso, analiticamente
parlando, ma ha tuttavia un suo senso, precisamente il senso dia­
lettico della filosofia (§ z) .

§ 7· - Come è possibile una filosofia del linguaggio.

Per determinare il modo in cui è legittimo parlare di <<filo­


sofia del linguaggio>> è indispensabile che si precisi fin dall'inizio
il valore di quel << di>> con cui si pongono sintatticamente in rap­
porto il linguaggio e la filosofia, supponendo che il linguaggio si
inserisca nella filosofia, come entro la totalità, e che la filosofia
si strutturi e si comunichi con il linguaggio che la significa.
Poichè vanno mantenute e la presenza del linguaggio nella

(r) Cfr. G. R. BACCHIN, Su l'autentico, cit., pp. 37-38.


(2) Che cosa si intende per « linguaggio » ? Un utile punto di riferimento è
rappresentato dalla formula « linguaggio è ogni sistema di segni che serve per
comunicare» (cfr. A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza, filosofia, cit., p. 45) .
Notiamo, però, che, come « sistema», il linguaggio è un insieme ordinato e
di esso si può dire quanto si dice appunto di tali « insiemi », come caso particolare
di questi ; come sistema "di segni» esso rimanda direttamente ai "significati »
ed involve la questione di che cosa sia effettivamente possibile significare, come
• comunicazione" esso involve la duplice questione della "intersoggetività » (esclu­
sivamente filosofica) e della « oggettività» delle cose comunicabili (anche questa
filosofica e snodabile solo al livello del rapporto teoretico tra " presenza» ed " ag­
gettivazione». Se il fondamento della "comunicazione», essenziale al linguaggio
come sua "funzione "• è la « comunione», essenziale al linguaggio è il modo di essere
di coloro che lo usano, che è, perciò, l'essere stesso degli enti comunicanti tra loro
(cfr. G. R. BACCHIN, Tempo e comunione come senso della storia, in "Rivista inter­
nazionale di filosofia politica e sociale» (1964) pp. 206-zu). Non si dà una
qualche "informazione >> che non sia anche "espressione " di chi informa e del
suo modo d'essere.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 13

totalità entro cui esso ha un senso e la funzione del linguaggio


rispetto alla filosofia che esso significa, la filosofia del linguaggio
abbisogna di chiarire inizialmente il valore del semantema <<di>),
rilevandone l 'ambiguità.
Tale semantema può venire considerato, come i semantemi
affini <<per>), <<da>), <<con>), <<a>), ecc., consignificante o sincate­
gorematico, per usare una espressione scolastica (r), in quanto esso
dice qualcosa solo insieme (sin-cum) ad altro semantema e, tut­
tavia, ne determina il senso e, quindi, la possibilità di uso nei
vari contesti. Il << di>) presenta, dunque, una bivalenza strutturale,
in quanto esso ha, insieme, funzione sintattica e valore semantico
e i due aspetti non sono tra loro scindibili se il nesso tra seman­
temi è sintattico e se i semantemi vengono determinati in virtù
di tale nesso che li modifica, ossia li condetermina.
Ma, oltre all'ambivalenza ( sintassi-semantica) , per la quale
esso è, insieme, <<connettivo logico>) (2) e <<semantema>) (3) , il
<<di>) cela una ambiguità, proprio perchè esso può indicare le due

(r) Cfr.PIETRO lsPANO, Summ. Log. VII, 5, II; ma anche Stuart Mill la usa
(Logic. , I, cap. II, par. 2) ; più recentemente HussERL (Logische Untersuchungen,
II, par.4) nel senso di parti del nome. Cfr.anche E. CASARI, Lineamenti di logica
matematica, Milano, 1961, p. Ig.
(2) Nella logica contemporanea la parola «connettivo, viene usata nel senso
del«simbolo improprio» che, combinato con una o più costanti, dà luogo ad una
nuova costante.
(3) Uso di questo termine nel senso indicato dal <Jil[LOti:\le:W, ossia, in quello
aristotelico di «designazione» e «denotazione n, perchè questi due sensi, di­
stinti nell'uso contemporaneo, valgono ad indicare, comunque, il riferimento
di un segno al suo oggetto. La dimensione semantica del linguaggio è già tutta
implicitamente nel "segno». Ogni segno è di natura semantico perchè indica
qualcosa di determinato (segno «di .. . . . , ; dove si tolga il «di » il segno si
chiude in se stesso, come segno nullo, non segno) . Ne deriva: I. L'impossibi­
lità di una mancanza assoluta di significato e, di conseguenza, la relatività
della mancanza di significato ; ossia il variare dei significati in rapporto ai di­
versi contesti. Uno scarabocchio, ad esempio, non ha alcun significato solo in rap­
porto alla scrittura, ma lo psichiatra se ne duò servire come trumento clinico
di indagine.
2. Il segno non produce il significato, ma lo investe totalmente senza esaurirlo:
non lo produce, perchè dove mancasse il «significato n, non vi sarebbe «segno »;
lo investe totalmente, in quanto si colloca al posto del«significato», lo sostituisce
in ordine alla comunicazione; non lo esaurisce, perchè il significato può avere
innumerevoli aspetti a loro volta significabili (per avere un segno che esaurisca
il suo significato, bisogna disporre di un significato tutto costruito insieme al (suo)
segno (come nel linguaggio matematico).
CAPITOLO PRIMO

funzioni dell aggettivazione e della specificazione : la prima come


'

operazione connessa al rapporto conoscitivo soggetto-oggetto (co­


noscenza di qualcosa) e per lo più implicita nel discorso (io penso
che . . .), la seconda connessa, come operazione, con il processo
di determinazione ulteriore, il quale costituisce l'asserzione in­
torno a qualcosa (questa cosa è così e così e ...).
Nell'aggettivazione, il << di)), indicando ciò di cui v'è conoscenza,
non entra a costituire la cosa se non in quanto rapportata al sog­
getto che la conosce, dove, invece, il <<di)) specificante entra nella
asserzione stessa e riguarda intrinsecamente l'asserito. L'intreccio
tra il <<di>> oggettivante e il << di)) specificante entra dunque nel­
l'asserzione stessa ed è intreccio fra asserzione ed asserito nel
. senso che la specificazione può dirsi anche dell'asserzione come
tale (p. es. l'asserzione di me, mia).
Non entro qui nell'analisi dettagliata dei valori linguistici di
appartenenza, di attribuzione, ecc., ma è sufficiente avere stabi­
lito che il <<di>> cela questa ambiguità ,per chiarire che questa
ambiguità si riproduce anche nel caso della filosofia del linguaggio :
se il <<di)) vi indica l'aggettivazione, deve potersi pensare la filo­
sofia come attività oggettivante, come tale, cioè, da avere un
suo oggetto, oggetto che essa teorizza come esterno ad essa e
che essa investirebbe del proprio metodo, ma che sarebbe sempre
uno degli oggetti cui essa potrebbe applicarsi (altri esempi si
avrebbero con la <<filosofia del diritto >>, <<filosofia della scienza>>,
<<filosofia della storia>>, ecc.).
Questo <<applicarsi>> della filosofia agli <<oggetti>> è oltremodo
ambiguo se si mantiene, come si pretende comunemente, di molti­
plicare nella filosofia gli oggetti che essa assumerebbe, tali da divi­
dere la filosofia fra i suoi oggetti : la filosofia dovrebbe risultare
composta, di volta in volta, di se stessa e del proprio oggetto e
quindi non essere mai <<se stessa)) senza l'oggetto che la conde­
termina.
Se avesse oggetti suoi, la filosofia dovrebbe porre in se stessa
una irriducibile molteplicità, che è l'impossibilità di avere un og­
getto veramente suo, dovendo essa assumere necessariamente og­
getti diversi tra loro. È quanto accrediterebbe una riduzione della
filosofia ad attività di <<riflessione critica>> sugli oggetti, equivo­
cando appunto tra filosofia e <<pensiero scientifico)), <<pensiero
giuridico>>, ecc., quel <<pensiero)), cioè, che indica semplicemente
la consapevolezza di se stessa cui tende qualsiasi scienza e che è,
perciò, ancora <<scienza>>, non mai <<filosofia>>. Solo una volta
l :FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 15

caduti in questo equivoco, l'eliminazione della filosofia come auto­


noma appare inevitabile, proprio perchè una <<filosofia>> che non
fosse riflessione o coscienza critica che le scienze, strutturazioni
dell'esperienza, acquistano progressivamente di se stesse, sarebbe
almeno superflua e, quindi, ingombrante. Ma codesta elimina­
zione della filosofia consegue all'equivoco ed è, perciò, tutta equi­
voca ; essa, infatti, suppone o che la filosofia sia riflessione sul
modo di costituirsi degli oggetti o che pretenda di vincolare a
priori gli oggetti al suo modo di vederli: riflessione critica sulla
scienza o dogmatismo. Alla « riflessione » si connette il concetto
di << teoria ».

§ 8. - Concetto di << teoria >> e sua riduzione.


Il concetto di <<teoria>> si rivela insignificante se lo si riporta
a ciò che comunemente con questa parola si intende. Comune­
mente, per quel linguaggio il cui valore, identificandosi con l'uso,
è sempre solo presupposto, si dice <<teoria>> per indicare il momento
espositivo o descrittivo di un qualche ordine di operazioni o di
norme e, in questo senso, <<teorico>> si oppone a <<pratico>>, come
momento in cui, più che il fare o agire o produrre, si vuole dire
il modo che si ritiene di poter o dovere tener in quel fare o agire
o produrre.
Al termine <<teoria>> è infatti connesso il senso negativo di qual­
cosa di insufficiente o di inadeguato rispetto all'esperienza effet­
tiva ed esso viene fatto equivalere, perciò, ad <<astratto>>: in teoria
le cose starebbero in un modo, praticamente, cioè in effetti, le
cose andrebbero altrimenti.
Ed anche se si vuole evitare la contrapposizione di <<teorico>>
a <<pratico>> come di negativo a positivo, di disvalore a valore,
la parola <<teoria>> conserva almeno il significato di esposizione
preliminare o, ed è lo stesso, di riesposizione riassuntiva di un
ordine di realtà che, rispetto alla teoria, si presuppone concreto.
Una teoria generale della scienza (una epistemologia), ed una
teoria del metodo, sarebbero pur sempre momenti distinti da
quell'effettivo operare che viene fatto o precedere o seguire al
discorso intorno ad esso. Tale distinzione il senso comune (ed
il comune linguaggio) mantiene sempre, chè di essa si materia
appunto ogni esposizione di <<criteri>> o di <<valori>> che non
ritenga di coincidere concretamente con quei valori e fare essa
stessa uso di quei <<criteri>>.
16 CAPITOLO PRIMO

L'insignificanza teoretica della <<teoria>> è, così, la stessa pre­


tesa di esporre con un discorso l'intera consistenza del discorso.
Essa si rivela dove si dispongano analiticamente i termini nei
quali un dato discorso si struttura, in modo che l'esposizione
abbia il carattere della provvisorietà rispetto a ciò che vi si espone,
provvisorietà che consisterebbe tutta nella impossibilità di ridurre
l'esposizione a ciò di cui è esposizione, il dire al <<dire se stessa>>
da parte di quella cosa.
La provvisorietà è così da ridursi alla costruzione di un lin­
guaggio che si esaurisca nell'indicazione semantica della cosa,
appunto quale indice di valori e di criteri, nonchè del loro nesso.
Ogni descrizione provvisoria del sapere avviene così per mezzo
di una costruzione del sapere stesso, il quale in tanto sarebbe
autentico sapere in quanto la costruzione fosse ad esso estranea,
ma anche ad esso identica : estranea, perchè quel discorso è indi­
cativo e non risolutivo del sapere ; identica, perchè il sapere è
risolutivo di qualsia . si discorso epperò dello stesso discorso con
cui lo si dice.
Questa situazione aporetica, consistente nel fatto che nel sa­
pere si distingue ciò che col sapere si identifica, domanda che il
senso comune che determina l'aporia non possa costituirsi come
ciò in base a cui risolvere l'aporia, superandola.
Il concetto di teoria, quale provvisoria indicazione di cose
concrete fuori di essa, si riduce a quel senso comune mediante la
costruzione dell'aporia in cui il sapere e la sua indicazione si eli­
dono reciprocamente nell'impossibilità di indicare un <<sapere >>
senza che si inglobi tale indicazione nel sapere indicato, con la
consapevolezza del valore dell'indicazione come tale : indicare il
sapere è necessariamente sapere che l'indicazione vale come indi­
cazione ed è, quindi, sapere il proprio sapere.
In tal modo, dire il sapere significa soltanto il <<dire se stesso >>
da parte del sapere ed anche che il proprio dirsi, il proprio mo­
strarsi del pensiero, venga detto : soltanto dirsi ed anche venire
detto sono, appunto, la contraddizione in cui ci si viene a trovare
se si vuole erigere il concetto di teoria, con la sua immanente
aporia, in assoluto, teorizzando all'infinito la sua validità.
Ciò che <<teoria>> può significare è allora niente più che il <<pre­
supposto>>, il quale non può giustificarsi come tale proprio in
quanto, come tale, non può non presupporre sempre la propria
giustificazione.
Il senso comune è così, nella sua stessa avversione alla teoria
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 17

e nel suo stesso contrapporsi ad essa come concreto ad astratto,


affatto teorico perchè presuppone appunto un termine da cui si
cominci, il quale termine non sia, perchè inizio, quel processo
che da esso comincia.
Infatti, il senso comune considera la teoria o come momento
indicativo di cose da fare o come momento riassuntivo di cose
fatte, come insufficiente o come superfluo ; ma insufficienza e
superfluità conseguono, in ogni caso, all'assunzione della teoria
come momento che, sempre presupposto, astrae dalla giustificazione
di se stesso.

§ g. - La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica


dell' intellettualismo.

Ridurre la teoria al senso comune significa mostrare la radice


dell'intellettualismo, il quale, come atteggiamento di fronte alla
realtà, suppone, appunto, questo trovarsi di fronte alla propria
ed insieme estranea realtà.
Atteggiamento che è scelta non consaputa, perchè è presup­
posizione alle operazioni da compiere e queste sono rese possibili
dalla situazione fuori operazione in cui ci si pone per scegliere e
che, perciò, non può venire scelta nè consaputa.
Pervenire a sapere che questa situazione è il presupposto alle
operazioni è, d'altra parte, nient'altro che una particolare opera­
zione, la quale non fa che riproporre, in quanto tale, la situazione
di tutte le operazioni e, quindi, non è mai tale da mutare la
situazione saputa.
Per cui, se quella situazione è ateoretica, la consapevolezza
della sua ateoreticità non si sostituisce ad essa nè le conferisce
'
teoreticità, negando quella ateoreticità di cui è consapevolezza.
E quella situazione è precisamente ateoretica perchè sempre
e solo presupposta e quindi, estranea a se stessa, <<astratta 1> o
teorica (§ 8) : essa presuppone, infatti, la sua giustificazione e
si pone, perciò, arbitrariamente come definitiva.
È impossibile, infatti, operare senza supporre <<definitivo 1> e
concluso il momento da cui si prende ad operare : l'operazione
(sulla realtà ) domanda, per se stessa, la definitività del suo inizio
quale applicazione tecnica di un concetto già elaborato.
La cosa è anche storicamente importante, perchè l'interpre­
tazione scolastica e moderna del << concetto 1> classico (ossia della

2
CAPITOLO PRIMO

teoreticità come « teoria ») deriva, appunto, dalla necessità di uno


strumento valido d'operazione sul reale e, quindi, obbedisce a due
fondamentali istanze : r0 che il concetto sia valido come << stru­
mento )) da applicarsi al reale ; zo che il << concetto )) sia da veri­
ficarsi come << strumento )) valido mediante un confronto con quel
rea,le.
La duplice istanza, operando per se stessa una dicotomia con
il rapporto concetto-realtà, rende insolubile il problema, da essa
emergente, della verificazione del concetto, in quanto la realtà
con la quale il concetto dovrebbe venire confrontato onde sta­
bilirne il valore, non potrebbe essere estranea al concetto stesso.
Ma quella duplice istanza deriva precisamente dall'avere ri­
dotto il concetto a strumento, il cui valore non può venire giusti­
ficato dalla sua effettiva applicazione al reale se non identifican­
dosi semplicemente con quel reale e cessando, così, di essere solo
strumento : la giustificazione dello strumento dovrebbe semplice­
mente presupporsi e non giustificarsi (cfr. § 5). Questo presupporre
la validità dello strumento significa, allora, nulla più che operare :
lo strumento è essenzialmente l'operazione stessa che esso con­
sente. Così la radice dell'intellettualismo è il pragmatismo e l'esito
coerente del lognoseologismo moderno non è l'idealismo come recu­
pero dell'identità tra pensiero ed essere, ma il pragmatismo come
identificazione tra valore ed operazione.

§ ro. - La nozione ateoretica dello << in generale )) come base della


teoria.

La parola << teoria )), riportata a ciò che lo stesso etimo dice,
non può significare ciò che con essa polemicamente si crede di
poter dire : la &e:Cùp(OG è, piuttosto, << visione )) e vale ad indicare
la pienezza di quell'atto per cui ciò - che - è è presente, e,
perciò, equivalentemente, l'attualità della cosa che si conosce e
l'attuazione stessa del conoscente come conoscente.
Bisognerà approfondire questa assunzione della parola << teo­
ria )) ; per ora ci limitiamo ad usare, in questo senso, della parola
<< teoretico )) e riserviamo la parola << teoria )) a ciò che comune­
mente si intende, come si è visto, per << dottrina )) nel senso intel­
lettualistico e formalistico dell'esposizione o della riesposizione.
Questa distinzione di parole si giustifica con la considerazione
del fatto che si dà un caso in cui la teoria si rivela ateoretica,
I FONDAMENTI DELLA FI LOSOFIA DEL LINGUAGGIO 19

ossia ingiustificabile. Questo è precisamente il caso in cm s1 usa


dell'espressione << in generale >> e ci si riferisce a qualcosa a pre­
scindere da certe determinazioni, astraendo da ciò che ne costi­
tuisce pienamente la concretezza.
La nozione dello << in generale >> è ateoretica ed equivale all'uso
della parola generica << cosa >>, con la quale non ci si riferisce a
qualcosa di determinato, ma si intende una certa sostituzione di
qualcosa di determinato con un aspetto di questa cosa che valga
a dire tutti gli altri aspetti, senza che si incorra nella necessità
di procedere a dire << che cosa >> esso sia, all'interno di quella pren­
sione globale, appunto.
Dove manchi l'intenzione di procedere verso la determina­
tezza, la nozione di << cosa >> non può significare nulla, perchè la
prensione globale di qualcosa non è qualcosa se non per l'opera­
zione del << prendere insieme >>, del << comprendere >>, del conside­
rare tutto simul.
La parola << cosa >>, cioè, può voler dire la nozione generica
come globalità all'interno della quale si intende procedere alla
determinazione dei singoli aspetti o caratteri di ciò che si consi­
dera, ma anche può voler dire la possibile sostituzione dei singoli
aspetti o caratteri della cosa da parte di un determinato aspetto
in cui tutti gli altri, mantenendosi tali, si riconoscono.
Nel primo senso, la parola << cosa >> ha carattere operativo,
perchè, dove manchi l'intenzione di procedere nella determina­
zione, la cosa è solo l'indeterminato, cioè il nulla e la cosa è tutta
nella intenzione di dire che cosa essa sia ; nel secondo senso, la
parola << cosa >> indica quell'aspetto che non può venire ulterior­
mente determinato, essendo la determinatezza stessa di ogni altro
aspetto e che non è, allora, propriamente << altro >> rispetto ai sin­
goli determinati aspetti.
Dove, nel primo senso, la parola << cosa )), fuori dell'intenzione
operativa, è indeterminabile perchè assolutamente indeterminata
(determinare il nulla non è determinare) , nel secondo senso la
parola << cosa >> è indeterminabile perchè assolutamente prede­
terminata quale determinatezza antologica di ciò che si considera.
Il discorso che si articola sulla nozione di << cosa >> è, in ogni
caso, posizione all'interno di una assunzione i cui limiti sono
due indeterminabili : l'indeterminabile << nulla >> e l'indeterminabile
<< tutto >>.
I limiti, tuttavia, non sono analiticamente inventati, perchè
il nulla e il tutto non sono dati immediflti dell'esperienza (il nulla
20 CAPITOLO PRIMO

è operazione, in quanto negazione ; il tutto è la dialetticità del­


l'impossibile che non sia), per cui dovremmo dire, piuttosto, che
il discorso nel suo svolgimento (in atto) pone come suoi limiti
il nulla e il tutto e, precisamente, pone il tutto come impossibilità
del nulla e pone il nulla come la negazione intrinseca a tale im­
possibilità.
Il tutto è l'impossibilità del nulla nel senso che, dove il tutto
non fosse, ogni singola determinazione e l'insieme ipotetico di
tutte le determinazioni non sarebbero ; diciamo, dunque, che la
nozione di << totalità >>, analiticamente considerata, è contraddittoria :
dire che << domandare tutto è tutto domandare >> è tautologia nello
stesso senso in cui << domandare tutto >> è contraddizione ; quella
tautologia è la ripetizione indefinita di una contraddizione, nello
stesso senso in cui il tutto di esaustione è l'indeterminato in una
serie determinata di determinati (i singoli momenti del processo
non potendo non coesistere, nel mentre che il processo, per ogni
termine che è la possibilità e quindi la necessità del suo ulte­
riore (r) , non può non essere infinito).
La totalità di esaustione ha, al più, carattere postulatorio,
non essendo mai << determinabile >> ; ma questa postulazione si rivela
contraddittoria dovendosi porre come intrinsecamente irriducibile
all'<< indeterminato >>, chè postulare l'indeterminato è postulare il
nulla ; coerentemente non postulare, o postulare e non postulare,
contraddirsi appunto.
La contraddizione analitica della domanda di tutto è, così,
costruzione analitica di un rapporto tra termini i quali escludono
precisamente quel rapporto, perchè il domandare importa una
dualità tra l'atto e la cosa che in esso e per esso si pone come
domandata ; la quale, da parte sua, non può non includere lo
stesso atto del domandare, il quale, nel tutto, domanderebbe se
stesso, vanificandosi in un processo all'infinito.
Fin da questo momento possiamo dire che la problematicità
pura, quale domanda della totalità, analiticamente considerata,
sarebbe contraddittoria, perchè la reiezione universale della cer­
tezza con cui il dubbio si attua domanda che si assuma l'uni­
versale come inattaccabile dal dubbio : dubitare di tutto è possi­
bile solo dove il tutto sia ; ma, dove il tutto è, non è possibile
dubitare di << tutto >> : dell'esservi del tutto non è possibile dubi-

(1) Cfr., per la struttura della « determinazione ulteriorizzante », G. R. BAC·


CHIN, L'Originario ecc . , cit., I, par. z.
l FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 2I

tare ; nè, d'altro canto, è possibile dubitare di qualcosa che non


sia nel tutto, perchè se del tutto non si dubita, non si può dubi­
tare di ciò che fuori del tutto non sarebbe (il tutto non sarebbe
se qualcosa gli fosse estraneo) .
Analiticamente considerato, il dubbio o problema è insoste­
nibile se non al livello tutto psicologico e quindi empirico di una
attività presupponente ; al livello teoretico o filosofico, il problema
sarebbe la dissoluzione di se stesso : sarebbe un porsi che si toglie
da solo ; esso mai sarebbe se l'<< altro >> da esso non fosse, ma non
potrebbe mai attuarsi come universale se questo << altro >> non
fosse risolubile in esso (se il domandare tutto non fosse tutto
domandare) : l'<< altro >> è così posto e tolto, ed il problema che in
funzione dell'<< altro >> si pone, risolvendo l'altro in se stesso, da
se stesso si toglie (poichè domandare tutto è tutto domandare,
domandare tutto è domandare niente, non è domandare) .

§ II. -Riduzione del procedimento analitico all'indeterminato, cioè


al contraddittorio.

L'analiticità domanderebbe dunque un processo all'infinito,


perchè il porsi di un termine è, nella sua determinazione, la po­
sizione indicata da un termine ad esso ulteriore.
Questo progressus in indefinitum suppone che l'indefinito sia,
il che contraddice alla nozione stessa di progressus, perchè questo
domanda che ciascun termine sia ulteriore rispetto a tutti gli altri,
nel porsi di tutti i termini compresenti tra loro.
Così il progressus in indefinitum è assurdo, perchè, suppo­
nendo la definitività dell'indefinito, contraddice a ciò che esso,
come progresso, dovrebbe porre : il suo presupposto è tolto da
ciò di cui è presupposto ; ma questo toglimento stesso presuppone
quel presupposto di cui è toglimento, chè l'ulteriorità vi consiste
nella presupposizione indefinitamente presupposta.
Tale progresso risulta nullo perchè, presupponendo indefini­
tamente se stesso, non sorge mai : la sua nullità è tutta nel suo
presupporsi ·a se stesso ed è questa la ratio della sua contraddit­
torietà e si può anche dire che, rispetto all'indefinitum, progresso
e regresso non solo si equivalgono ( la discriminazione è estrin­
=

seca al processo che essi indicherebbero) , ma s'identificano, nel


senso che l'atto che pone è il medesimo atto che toglie.
La contraddittorietà (o nullità) del progressus in indefinitum
22 CAPITOLO PRIMO

è, precisamente, l'identità tra posizione e toglimento : la pro­


gressione è la sua stessa regressione, ed allora nè si progredisce
nè si regredisce, cioè non v'è processo.
Ciò che dal rivelamento di tale contraddittorietà consegue non
è che il tutto sia finito, e, perciò, esauribile da parte di un pro­
gresso che ne svolga fino al termine la finitezza, bensì che un
processo inteso alla determinazione radicale non può non essere
finito ; che il fondamento, cioè, non può non esservi.
Un tutto << finito >> equivarrebbe, infatti, ad un tutto << indefi­
nito >>, perchè esso non potrebbe non includere quell'atto onde è
detto come tale, ma quell'atto verrebbe sempre riproposto per
dire la sua inclusione e, quindi, verrebbe sempre negato dal suo
stesso dirsi incluso : dire che il tutto include l'atto del dire il
tutto implica indefinitivamente 'Un atto che dica tale inclusione,
la quale, perciò, non può non restare indefinita.
La risoluzione del procedimento analitico al contraddittorio
importa la determinazione del procedimento come dialettico : la
dialetticità è provata con la negazione dell'analiticità. Ma è proprio
questa determinazione che domanda il duplice chiarimento della
distinzione tra negazione contraddittoria e negazione dialettica :
la prima come negazione indeterminata, la seconda come deter­
minatezza ulteriormente indeterminabile. Il duplice chiarimento
si ottiene con l'esame della differenza ontologica tra il contrad­
dittorio ed il negato.

§ 12. - Differenza antologica tra il contraddittorio ed il negato (1) .

<< Contraddittorio >> è ciò che è posto e tolto ; l'atto che pone
è lo stesso atto che toglie ; quest'atto non pone nè toglie, sempli­
cemente non è.
<< Negato >> è ciò che è posto per venire tolto ; l'atto che pone
non è lo stesso atto che toglie ; cioè gli atti sono due ed entrambi
reali, ma solo uno dei due è vero, perchè se è vero l'atto che pone,
non può non essere falso l'atto che toglie, e viceversa.
Il contraddittorio esce, così, dalla considerazione teoretica ;
esso è ateoretico, ossia il nulla non è (radice pragmatica della no-

(r) Cfr. G. R. BACCHIN, Intero metafisica e problematicità pura, in « Rivista


di Filosofia Neoscolastica » (1965). articolo in risposta a E. SEVERINO, Ritornare
a Parmenide, in « Riv. di Filos. Neosc. ». (1964), pp. 138-175·
\

I J.l'ONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 23

zione di non-essere) . Se il contraddittorio è il non-essere, tuttavia


esso << è )) in quanto è detto come essere e, perciò, dire il contrad­
dittorio significa << negare )) che esso sia.
Ne segue che la considerazione teoretica del contraddittorio è
la riduzione del << contraddittorio )) al << negato )) (e non viceversa) ,
dire il contraddittorio non è contraddirsi, perchè l'atto che lo
pone non è lo stesso atto che lo toglie : dire il contraddittorio si­
gnifica dire che in esso porre e togliere sono un unico atto, ma
sono un unico atto appunto in esso.
Il negato è posto in funzione del suo venire tolto ; poichè i
due atti sono entrambi reali ma uno solo è vero, resta fondata
rigorosamente la differenza antologica fra reale e vero : per dire
che qualcosa non è vero, è necessario che esso venga preso in con­
siderazione, la quale considerazione non può essere non reale,
appunto non può non esserci.
Tuttavia, questa considerazione non può non esserci rispetto
al suo venire negata e, perciò, non può pretendere veramente
all'essere. In tal modo la differenza antologica fra reale e vero
non ha carattere analitico, ma dialettico ; se avesse carattere
analitico, bisognerebbe infatti postulare il genere entro cui porre
tale differenza, riproponendo all'infinito un'identità (astratta) tra
reale e vero entro cui porre la loro differenza o, in altri termini,
bisognerebbe far cadere la loro differenza, contraddittoriamente,
nell'uno e nell'altro, nel reale o nel vero (la differenza dovrebbe
poter essere, indifferentemente reale e vera) .
Che la differenza fra reale e vero abbia carattere dialettico
resta provato dal fatto che, nel << negato )), ciò che è posto lo è
soltanto per venire tolto, per cui uno dei due risulta << tolto )) in
ogni caso e quindi, in ogni caso uno dei due deve restare. Che
tale differenza sia dialettica significa che nessuna analisi di essa
la può dissolvere nella stessa impossibilità di una vera e propria
<< analisi )) di tale differenza.
Il negativo, ove sia presente, è anche operante e questo può
dirsi la radice teoretica del nichilismo e dell'acosmismo. L'opera­
zione propria del negativo è ovviamente la nientificazione ; ma la
presenza del negativo rivela che il nulla non è assoluto : ciò in
cui o colui al quale la presenza del negativo risulta non è nulla ;
il che significa che il negativo non è il nulla.
Ma, poichè il nulla non è, il negativo non si distingue dal nulla
e, in quanto non vi si distingue, vi si identifica ; tuttavia, in quanto
è vi si distingue. Allora, il negativo è ed anche non è, esso è con-
CAPITOLO PRIMO

traddittorio ; ma esso non è, dunque esso è piuttosto il contrad­


dirsi, ossia è il proprio togliersi, ma è contraddittorio anche come
togliersi, perchè per togliersi bisogna essere e per essere bisogna ,
almeno non togliersi.
Ciò significa che il contraddittorio si deve togliere, ma nel
senso che esso non - può - essere (è il nulla) ; e, perciò, non lo
si può considerare nemmeno per toglierlo : esso contraddice anche
la propria assunzion e: assumere il contraddittorio è non-assumere.
Del contraddittorio tuttavia si dice almeno implicitamente,
dicendo che qualcosa - può - essere : non può essere che il reale
non possa essere, non può essere che il possibile non possa essere.
Ma, non appena ci si mette ad esplicitare la contraddizione, si
cade appunto nella contraddizione, perchè la si considera come
<< essente >>.
Allora la contraddizione non è implicita, ma solo implicita­
mente detta, nel senso che la si dice solo indirettamente, dicendo
l'impossibilità che essa sia, che è la possibilità di contraddirsi :
l'impossibilità che è contraddizione è la stessa possibilità che ci
si contraddica.
Cioè la contraddizione si rileva nella sua possibilità di venire
evitata, la quale è per se stessa la possibilità che non la si eviti ;
la necessità di evitare la contraddizione è, per se stessa, la possi­
bilità di contraddirsi.
Ma la nullità teoretica che è la contraddizione essendo teore­
ticamente indicata, è indicata incontraddittoriamente. Se la con­
traddizione è il nulla e se questo nulla viene teoreticamente indi­
cato come contraddizione, il nulla è pos!o dalla sua indicazione,
è nella sua indicazione, senza alcun residuo.
Ma il nulla, totalmente presente nella· sua indicazione, non
rende nulla questa indicazione ; chè, se la rendesse nulla, non
sarebbe mai possibile riconoscerlo e dirlo. Del resto, rendere nullo
qualcosa, nientificare, è impossibile, perchè questa operazione do­
manderebbe, in ogni caso, che vi sia la cosa da nientificare la quale,
se non è, rende nulla la nientificazione che si pretende di essa.
Nientificare equivale, così, a riconoscere nullo qualcosa, la
quale cosa si presenta come << qualcosa >>, ma non è ciò che sembra
essere ; dove il nulla non è mai assoluto, perchè qualcosa può
<< sembrare >> qualcosa e non esserlo solo se è, in ogni caso, qual­
cosa : dire che qualcosa non è come sembra equivale a dire che essa
è qualcos' altro.
Allora, ciò che viene nientificato è già nullo in se stesso e nien-
\

I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 25

tificare significa solo dire questa sua nullità : nientificare è dire il


nulla e, perciò, il nulla non può nientificare questo suo venir detto.
Ciò significa che è possibile dire il nulla senza che il nulla sia
e senza che sia possibile dire che << qualcosa >> non è ; se il nulla
non è, dire il nulla è non-dire ; ed è questo non dire che viene
detto, ed è in questo non-dire (impossibilità di venire detto) che
il nulla interamente si risolve.
Dove il risolversi del nulla è, ovviamente, il dissolversi della
sua parvenza ed esso è nullo anche come dissoluzione di se stesso,
proprio perchè la dissoluzione di sè è impossibile, riguardando essa
la posizione di qualcosa da togliersi e che si toglie nel suo stesso
venire posto.
Con ciò la dissoluzione della parvenza si attua in un rapporto
tra l'attività posta da colui al quale la cosa appare diversa da
come è e quella cosa che non è come appare e che, perciò, sarebbe
anche se non apparisse.
Poichè, nella parvenza (che è essere diversamente da come si
appare) è presente ciò che appare e che è come appare e che è,
perciò, anche se non appare, non è possibile risolvere l'essere nel-
'apparire : se l'essere si risolvesse nell'apparire, la distinzione
tra apparire dell'essere ed essere parvente (ciò che non è come
appare) non potrebbe mai apparire e non potrebbe mai venir
detta ; ma essa viene detta almeno con il dire che essere e appa­
rire non sono cose diverse : dicendo che essi sono la medesima cosa,
si distingue tra questa loro pretesa medesimezza e quella par­
venza che consisterebbe nel sembrare cose diverse.
Ciò non significa che essere ed apparire siano tali per cui vi
sia un discriminante in virtù di cui qualcosa che appare abbià ri­
spetto all'essere, una propria caratteristica, ma significa che non
tutto ciò che appare è e che è questa e solo questa la presenza
del negativo.
Tra il contraddittorio ed il negativo non v'è differenza, nel
senso che il contraddittorio è il nulla ; ma v'è differenza radicale fra
il contraddittorio ed il negato, perchè questo è la stessa funzione
incontraddittoria di dire il vero, il vero che è incontraddittorio.

§ 13. - La dialetticità come impossibilità di un procedimento anali­


tico sulla totalità.
L'intrinseca contraddizione dell'analisi, al livello della fonda­
zione dei termini, ci ha fatto proporre in esame la nozione di
26 CAPlTOLO PRIMO

negativo e quella di contraddittorio e si è trovato, insieme, che il


rapporto tra negazione, negatività, contraddittorietà importa la
considerazione del rapporto fra essere e suo apparire, perchè nel­
l'apparire dell'essere come esso non è si trova la presenza del
negativo che è il nulla e che è la contraddizione.
L'intrinseca contraddizione dell'analisi è tale solo al livello
della fondazione ultima dei termini (di ciò che è) ed è, perciò,
una cosa sola con l'aporia del cominciamento.
Ma se, a proposito del cominciamento si dà aporia, l'autentico
cominciamento è l'aporia ; o cominciamento di essa con il ricono­
scimento dell'aporia e, perciò, con l'invenzione di ciò che la de­
termina ; il che significa consapevolezza della dualità fra ciò
che provoca l'aporia e ciò che, sapendo l'aporia come aporia, la
dissolve.
Questa dualità è l'impossibilità di considerare una cosa sola
l'iniziale (empirico) e l'originario, che è come abbiamo esposto al­
trove (r) , il trascendentale ; considerazione che caratterizza l'ana­
liticità, per la quale i termini sono due solo sul medesimo piano
e, perciò, radicalmente, per quel piano, non sono due ma uno.
Il piano dell'analisi è quello in cui si presuppone ciò di cui si
dà l'analisi e, perciò, dove ci si ponga nel cominciamento, si pre­
suppone almeno il qualcosa in generale entro cui si pongano i
singoli termini da prendere in esame.
Ora, la filosofia come astratta presupposizione è la << nozione ))
di filosofia, ciò di cui ci si chiede che cosa sia, presupponendo
che sia e presupponendo che si sappia che cosa significhi << essere )).
Questa nozione è ineliminabile e la determinazione di tale ineli­
minabilità è la conversione della filosofia da astratta presupposi­
zione alla filosofia come posizione concreta (2) .
Ma la concreta posizione della filosofia non può essere un
risultato, perchè il risultato è vero e concreto solo dove lo siano
i termini e l'operazione da cui esso risulti ; da termini astratti
non è possibile far risultare nulla di concreto ; analiticamente,
il risultato della conversione sarebbe ancora l'insieme dei ter­
mini che entrano in essa e non vi sarebbe conversione della pre­
supposizione astratta in posizione concreta, ma solo riproposi­
zione indefinita dell'astratto, trascrizione dell'astratto all'infinito.
Ciò significa che la filosofia come concreta posizione è l'atto

(1) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario come implesso ecc., cit., p. 83.


(z) Cfr. G. R. BACCHIN, Su l'autentico ecc., cit. I.
I FONDAMENTI DELLA FILOSbll'IA DEL LINGUAGGIO 27

stesso del convertirsi, che non può essere astratto se è consape­


volezza (o posizione) dell'astratto come tale e della impossibilità
di eliminare l'astratto dalla considerazione del filosofare o impos­
sibilità di ridurre il momento iniziale all'originario e, perciò, di
accreditare la risoluzione monista.
La consapevolezza del presupposto, che è consaputo come
tale solo in virtù di ciò che, rinvenendone l'insopprimibilità em­
pirica, ne toglie la pretesa di valere come innegabilità originaria,
è atto che non può eliminare quel presupposto e non può ridur­
visi : non può ridurvisi senza emergere sulla sua riduzione (ed è
questa la portata dell'attualismo) , non lo può eliminare senza
anche presupporlo, senza presupporre, appunto, ciò di ·cui si pro­
getta come eliminazione (ed è, radicalmente, l'istanza dell'esi­
stenzialismo, l'incontrovertibile affermazione del residuo esisten­
ziale) (r) .
S e l a filosofia è concreta posizione solo i n quanto è l'atto del
convertirsi da astratta (la nozione presupposta) in concreta (la
innegabilità) , la filosofia è concreta dialetticamente : il convertirsi
è, infatti, dialettico, chè se fosse solo analitico non sarebbe mai
concreto, nè potrebbe mai far risultare il concreto : non sarebbe
mai concreto perchè l'operazione su astratti non può modificare
il loro carattere astratto, ed è, in questo senso, operazione astratta,
cioè nulla ; non potrebbe far risultare il concreto perchè sarebbe,
analiticamente, somma di astratti, cioè sarebbe concretamente o
veramente astratta.
La dialetticità del filosofare è dunque con l'aporia del comin­
ciamento che è, dicevamo, il cominciamento come aporia. E
l'aporia si pone come l'impossibilità di venire accettata (contrad­
dittorietà) e, cioè, come posizione originaria della problematicità
che in tanto è problematicità in quanto è incontraddittoria, ossia
improblematizzabile (2).
La problematicità è così la duplice impossibilità di sopprimere
l'aporia e di accettare l'aporia : la soppressione dell'aporia sarebbe
ancora aporetica, perchè domanderebbe all'infinito la posizione
aporetica del fondamento in virtù di cui, ad un tempo, spiegare
l'insorgere dell'aporia e la necessità di eliminarla (contradditto­
rietà dell'aporia assunta in assoluto) ; l'accettazione dell'aporia è

{ 1 ) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit . , III, par. 4·


(2) Cfr. M. GENTILE, La probtematicità pura, Padova, 1 942 ; e G. R . BAc­
CHIN, Su le implicazioni ecc., cit., pp. 47-52.
28 CAPITOLO PRIMO

aporetica, perchè assumere l'aporia in assoluto è mantenere


l'aporia all'infinito, riproporre infinitamente l'aporia (r) .
L a problematicità è così originaria solo in quanto è dialet­
tica e non soltanto dialetticamente provata e la dialettica non è
un metodo di filosofare, bensì la intrinseca validità del filosofare,
cioè del domandare radicalmente, ossia totalmente.
Qualsiasi affermazione è posizione della domanda e si rivela
esplicita risposta ad una almeno implicita domanda (2) .

§ 14. - L a domanda totale e la totalità domandata.

La domanda ('t'( �cr-nv ; ) si mantiene possibile finchè si pone


intorno a qualcosa di determinatamente << questo l) , come domanda
delle differenze . esperibili, dei limiti esperibili, supponendo la
dualità della posizione tra domanda e cosa domandata : comunque
la domanda investa la cosa, la cosa non è la domanda intorno
ad essa.
Con le riserve da fare nell'uso della parola << parte l>, parola
oltremodo ambigua, si potrebbe dire che domandarsi che cosa
sia una data cosa è possbile solo in quanto quella cosa è solo
una << parte l) e la domanda di essa è, quindi, domanda parziale.
La dualità che la domanda << parziale l) suppone è, in effetti,
la struttura analitica della domanda, per la quale, supponendo
noto il significato dell'espressione << qualcosa l) ed << essere, in gene­
rale, una cosa l), si ridomanda << che cosa l) sia una qualche cosa.
La struttura analitica si rivela qui nella supposizione della
notizia dell'essere e questa supposizione è la radice, appunto,
della parzialità della domanda rispetto alla corrispondente ri­
sposta, è quel divenire che è ulteriorità continua dell'esperiente
a se stesso, quell'andare oltre senza di cui l'esperienza, assolutiz­
zandosi, cesserebbe d'essere.
Il trascendimento in cui l'esperienza si attua è analiticamente
la stessa esperienza quale parziale domanda e parziale risposta e,
perciò, quale costante ed intrascendibile dualità o alterità ; una
volta detta la parte, è detto l'altro da essa e la determinazione della
parte è, così, anche ulteriorizzazione rispetto ad essa.
Non appena, con il porsi della domanda analitica, dualizzante,

(1) Cfr. M. F. SciACCA, Filosofia e metafisica, Brescia, 1950, p. 40.


(2) Cfr. Su l'autentico ecc., cit., I, § 1 .
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 29

parziale, trascendibile, si pone l'ulteriore rispetto alla domanda


ed alla corrispondente risposta, con la posizione analitica resta
escluso che tale ulteriore possa mai << essere >> : esso è sempre, per
definizione, sospinto oltre se stesso, esso è costantemente ulterio­
rizzato, chè la parte domanda all'infinito, cioè indefinitamente,
di non essere tutto ; per cui il tutto, che dalla parte è implicato,
è anche dalla parte necessariamente escluso : così la posizione ana­
litica della domanda parziale è anche la contraddizione intrinseca
della posizione analitica della domanda totale.
In tal modo si perviene alla posizione della domanda totale
e, insieme, all'esclusione che tale posizione possa essere mai ana­
litica, cioè strutturalmente identica alla posizione della domanda
parziale, della medesima sua natura.
La domanda totale è in effetti mai eludibile, perchè qualsiasi
domanda, ponendosi intorno a qualcosa, suppone che quella cosa
non sia il tutto e suppone, quindi, che il tutto sia. Ma, se la do­
manda parziale è necessariamente tale da supporre noto che cosa
sia lo << essere >> o << essere qualcosa >> o il << qualche-cosa-che-è >>,
la domanda totale, nella sua totalità, nega tale supposizione e si
pone, radicalmente, come domanda dell'<< essere >> e del << qual­
cosa >> e di qualsiasi cosa : la domanda totale è domanda della
totalità.
Ora, la totalità, non ponendosi analiticamente se non come
costantemente superata e negata e quindi contraddetta dal suo
stesso venire sempre postulata, non si pone come ulteriore rispetto
alla parzialità intorno a cui si pongono (si dis-pongono) le varie
domande, ma si pone necessariamente nelle singole domande e il
tutto di cui essa è domanda è il tutto di ciascuna cosa doman­
data, l'<< essere >> di quella cosa.
L'<< essere >> non è, in tal modo, se non il tutto della cosa e la
domanda totale si pone con il porsi stesso di ciascuna domanda
parziale ; se v'è così un tutto analiticamente posto, questo tutto
è contraddittorio, e v'è, nella necessità di togliere questa con­
traddizione, il tutto dialetticamente recuperato che è l'incontrad­
dittorio, il fondamento della possibilità di costruire e di togliere
la contraddizione : l'<< essere >>.
Così, la domanda totale è la totalità inesperibile.
Il tutto è inesperibile, se l'esperienza è trascendimento, chè
oltre al tutto non è possibile andare : quel trascendimento in cui
si attua l'esperire esclude che del tutto si dia esperire. L'esperire,
nel suo essere possibile domanda, è tale per i limiti esperibili che
30 CAPITOLO PRIMO

sono dati nel loro stesso venire trascesi e, perciò, nel loro non
essere il tutto.
Il tutto, senza di cui quei limiti non sarebbero perchè dovreb­
bero necessariamente convertirsi in esso, è dunque limite e limite
inesperibile. Cosi, la posizione del limite inesperibile è posizione
inesperibile e, perciò, intrascendibile.

§ 15. - L'intero della domanda totale e della totalità domandata.

L'intero, una volta che se ne chiarisca il recupero dialettico,


si rivela l'integrale, perchè recuperato dal decadimento ad un
tutto risultante di parti (a parte moltiplicata all'infinito, che è il
progressus in indefinitum, (cfr. § 13) : l'intero non è il risultato
di una qualche operazione.
Ne segue che l'intero è da dirsi di qualsiasi cosa che si dica,
in quanto l'intero non è una cosa (le <( altre )) cose che da esso si
distinguessero sarebbero (( parti )) di esso e da esso non si distin­
guerebbero) , nè si può dire che esso sia l'insieme di tutte le cose
(o ciascuna cosa è già intera o nessuna di esse può aggiungersi
ad altra, chè l'aggiunzione è determinata solo se è aggiunzione a
qualcosa di determinato) .
Se ciascuna cosa, in quanto può essere detta, è l'intero, non
si può moltiplicare l'intero per ciascuna cosa : questa moltipli­
cazione sarebbe nient'altro che la riproposizione dell'intero all'in­
finito ; non che tale moltiplicazione non sia operazionalmente pos­
sibile, ma essa è possibile solo a condizione che l'<( intero )) sia
identico in ciascuna cosa ; ma, se esso è identico in ciascuna cosa,
la moltiplicazione dell'intero per ciascuna cosa è del tutto superflua.
Ne segue che nessuna cosa è l'<( intero )), perchè ciascuna cosa
lascia fuori di sè tutte le altre e implica una congiunzione tra se
stessa e tutte le altre ; questa implicazione è l'unità dualizzata
del tutto ; il che significa che essa, potendosi ripetere all'infinito,
è il processo inverso della moltiplicazione, la dicotomia all'infinito.
I due processi, inversi tra loro, teoreticamente si equivalgono
(cfr. § 13) : dividere una cosa per se stessa è come moltiplicarla
per se stessa : progressione e regressione sono aspetti empirica­
mente opposti del processo di numerazione, di un processo che è,
piuttosto, un procedimento inconcludente.
Ma dividere una cosa per se stessa non equivale a dividerla
da se stessa ; la dicotomia suppone, infatti, la identità della cosa
I FONDAMENTI DEL;LA lìiLOSOFI,A.. DEL LINGUAGGIO 3I

o che la cosa, anche divisa, permanga ciò che è (r) (per cui la divi­
sione, ponendosi qui come operazione sull'indivisibile, si pone
come estrin!)eca a ciò su cui si esercita, irrilevante ai suoi termini) ;
laddove, invece, l'astrazione suppone che ciò da cui qualcosa è
tolto non sia ciò che da esso viene tolto : non è possibile astrarre
tutto da una cosa (sarebbe o assumere interamente la cosa o inte­
ramente negarla) .
Nella dicotomia l'identico è supposto indivisibile da se stesso
(p. es. l '<< estensione )) è dicotomizzabile, in quanto la si può divi­
dere solo perchè essa è sempre, identicamente, divisibilità) ; nella
astrazione l'identico è supposto come ciò che precede e condiziona

(I) SEVERINO, op. cit., pp. 375-410, La metafisica originaria.


Non penso che si possa dire con il Severino che « una qualsiasi determina­
zione o contenuto semantico x » può assumere anche il significato (valore) del­
l'essere « formale », ossia può valere come l'essere stesso, tale che la proposizione
«x è » sia da interpretarsi, per il valore di x, come la proposizione significante
«l'essere è ». Non Io si può dire, perchè l'espressione « l'essere è » è una proposi­
zione che esprime proprio ciò che in ogni altra proposizione non può venire mai
espresso e, perciò, è tale da porsi al di fuori di tutte le proposizioni possibili, tale
da non essere una vera proposizione.
La « proposizione » che dice l'esseF.e è, come proposizione, identica a tutte
le altre e, pertanto, lo x, che nelle altre è da determinarsi semanticamente, in que­
sta proposizione è già determinato nel suo essere x e non può quindi, venire so-
·

stituito o interpretato.
Ogni proposizione è strutturalmente significabile con la forma « x è », dove « x »
non può non venire determinato da un qualche contenuto semantico, che è, a suo
modo, variamente, l'esperienza come « esperito » ; ma la forma « x è », presa nel
suo essere tale, è determinata in modo da non poter venire ulteriormente deter­
minata ; l'assunzione di « x è » come tale può venire significata con la forma
« « x è » », dove le virgolette esterne indicano che « x è » è già assunto nella sua
determinatezza. Chè, se si escludesse questa possibilità di assumere « x è » come
determinatezza, la sostituzione di x in essa non potrebbe mai dirsi determinata,
proprio perchè x non sarebbe affatto.
Con ciò resta escluso che si possa dire che l'essere di « x è » è distinto da x
per tutti i casi meno uno, quello di x come « essere », perchè il caso di x come « es­
sere » non è un caso che si ponga tra gli altri, univocamente, e la proposizione
che lo significa non è perciò, una proposizione, ma la proposizione nella sua strut­
tura, presente, anche se non sempre consaputa, in tutte le possibili proposizioni.
Si dirà, allora, che « x è >> è la esplicazione « intera » di « x è >>, valendo per
tutti i valori in cui « x è » risulti determinabile ; od anche che « x è >> è sostituibile
per qualsiasi valore, meno che per se stesso.
Quel valore che, secondo il Severino, sarebbe l'unico ad escludere la distin­
zione significata da « x è >> è, in realtà, lo stesso « x è >>, il quale non può, come
tale, venire sostituito e non può venire sostituito, distinguendo in esso lo « x »
dallo « è >>, prop-io perchè qualsiasi sostituzione (e distinzione) avviene in esso
o non avviene.
CAPITOLO PRIMO

il risultato dell'astrazione (p. es. dell'identico << Socrate 1> si può


astrarre il suo essere << filosofo 1> solo se, una volta astratto da que­
sto, << Socrate 1> non è più l'identico da cui si astraeva) .
A questo punto il nostro discorso si sdoppia secondo una du­
plice prospettiva, quello dell'intero come domanda totale e tota­
lità domandata e quella dell'impossibilità di un intero risultante
da una moltiplicazione o, inversamente, passibile di una dico­
tomia o dualizzazione qualsiasi.

§ r6. - La conversione dialettica della totalità domandata nella


esclusività del domandare.
Non si dà domanda filosofica se non come posizione filosofica
della domanda che è la piena consapevolezza del domandare, la
domanda consaputa come domanda.
Ciò significa che la filosofia è presente in qualsiasi domanda
consaputa, per cui non v'è bisogno di una particolare domanda
per porre la filosofia e, perciò, la domanda intorno alla filosofia
si risolve nella filosofia presente nella domanda come tale o attua­
lità del domandare.
<< Domandare tutto è tutto domandare 1> significa, cosi, che la
coscienza del limite è il limite della coscienza, ossia la coscienza
che trova se stessa come proprio limite : la coscienza non trova
(non ha limiti, non subisce limitazioni) , chè li troverebbe in se
stessa o mai ; la coscienza è piuttosto tutta il suo limite : essa è
determinata solo se infinita o aperta a quanto in essa si coglie.
La coscienza del limite è, infatti, superamento del limite, il
quale resta solo a condizione di venire superato : un limite che
non sia superabile è un limite che coincide con il tutto, è quel
tutto di cui è limite.
La domanda di tutto è coscienza del limite, in quanto il limite
è la posizione del tutto, del tutto che non avendo qualcosa oltre
se stesso, si può dire che limita se stesso, che è il proprio limite,
il quale limite, coincidendo con il tutto, non può venire trasceso
e cessa, perciò, di essere propriamente limite.
La coscienza di tutto è il tutto della coscienza, ossia la coscienza
è tutto e solo coscienza e da essa nulla si distingue perchè ogni
distinzione è in essa ed un distinguersi da essa sarebbe ancora
coscienza.
La quale cosa può venire detta anche così : la coscienza del­
l'essere è l'essere della coscienza, la filosofia dell'essere (valere
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 33

come) è l 'essere come filosofia, perchè la domanda di tutto è


domanda dell'essere, ossia l'essere stesso della domanda, il << do­
mandare puro >>.
Il senso in cui la filosofia si pone è così lo stesso senso in cui
ogni cosa si pone in essa : questo porsi nella posizione (questa
attualità inconvertibile in altro) diciamo, senza indugio, trascen­
dentale, perchè di essa si dice solo in quanto non la si può negare
e I'innegabilità non è un << carattere » del trascendentale, ma la
sua stessa posizione che è la sua necessarietà, incomponibile con
altro, ad altro irriducibile, inanalizzabile.
Una considerazione analitica del trascendentale equivarrebbe
alla sua negazione e, poichè esso è di per sè innegabile, equivale
effettivamente alla impossibilità dell'analisi : l'analisi è possibile
solo di ciò che si presuppone che sia e che è, perciò, almeno nel
suo presentarsi, non innegabile.
<< Domandare tutto >> non significa domandare questo e quello :
la congiunzione è il rapporto tra cose, di modo che si possa dire
<< altro >> rispetto a qualcosa di presupposto o, ed è lo stesso, do­
mandare questo o quello : la disgiunzione è l'alternativa per la
quale si pone un termine e non necessariamente si pone l'altro, o
un termine si pone solo se un altro termine non si pone ; congiun­
zione e disgiunzione sono momenti tali che ciascun termine si
fissa nella totalità, assorbendola o riproducendola.

§ 17. - La domanda come riferirsi in atto alla risposta.

La domanda perchè la << filosofia prima >> venga dopo la « fi­


sica >> (r) nell'ordine del sapere nasce da una originaria << mera­
viglia >>, dovuta alla constatazione che si dispone della primalità
in due diversi sensi : l'essere primo che è proprio della << filosofia
prima >>, e che è primo per valore, e l'essere primo che dell'inizio
del nostro sapere e che è, nell'ordine la << fisica >>.
La << meraviglia >> (2} è dovuta alla constatazione che il primo
per valore non è il primo di fatto. Siamo precisamente alla questione
del << cominciamento >> del filosofare, per il quale si deve evitare
di fare della filosofia un momento di un processo del sapere che

(r) Cfr. ARISTOTELE, Metaph., l, 3, 983 l. I I ; III, 3, 998 l. 30.


{2) Cfr, PLATONE, Teet., I55 d ; ARISTOTELE, Metaph. A, 982 b.

3
34 CAPITOLO PRIMO

non sia tutto filosofia. La domanda riguardante il rapporto tra


esperienza e filosofia all'interno del << sapere >>, domanda che può
venire trascritta in qualsiasi contesto storiografico, presenta un
insieme di termini che indicano varie possibilità del discorso :
I} un inizio del sapere, 2) un inizio del filosofare, 3) l'esperienza,
4) il rapporto tra esperienza, sapere, filosofia e, perciò : 5) il fon­
damento (del sapere o dell'esperienza o della filosofia) da deter­
minarsi come << esperienza >> o come << sapere >> o come << filosofia >>.
La questione, ridotta all'essenziale, si pone nei seguenti ter­
mini : può la filosofia essere << fondante >> se essa è nulla più che
un momento di un processo più comprensivo ossia più universale ?
Il discorso intorno al << prima >> ed al << dopo >>, in termini di filo­
sofia e di esperienza (esperienza scientificamente strutturata od
anche ambito di possibili strutturazioni) , sembra implicare in ogni
caso una identità quale originario << implesso >> (I) in cui possano
distintamente porsi e l'esperienza e la filosofia ed ogni loro rap­
porto : non v'è un << prima >> che non sia indicazione di una unità
che ad esso sottenda.
Proprio questa unità va riesaminata per vedere che cosa essa
importi rispetto a quei termini che ad essa rinviano. Il rinvio
dei termini del rapporto all'unità che vi sottende è la questione
dell'originario che è rinvio fondante, nel senso almeno che l'unità
non può essere << arbitraria >> o << costruita >> : è lo stesso rinvio
all'unità che pone la questione dell'originario come fondamento,
la quale è questione di che cosa sia in se stessa, propriamente,
la filosofia, in modo che resti stabilito che il discorso filosofico
si fonda in termini inequivocabili e garantisce se stesso come
discorso autentico.
Se si intende che è << primo >> ciò che è più vicino al << principio >>,
il punto di riferimento è da pensarsi come indipendente da rife­
rimenti, nè << anteriore >> nè << posteriore >> e questa indipendenza può
dirsi la << forma >> dell'assoluto (ab-solutus o sufficiente a se stesso) .
Tuttavia, il concetto di << indipendenza >> è negativo perchè,
dove non sia ciò da cui qualcosa non dipende, non si può parlare
di indipendenza, anche se può dirsi << indipendente >> solo ciò che
<< è >> senza che altro sia ; è il caso di dire che la nozione di indi­
pendente >> non è sic et simpliciter ciò che essa indica : parlando
di << indipendente >> ci si riferisce a qualcosa che consenta un di-

(r) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit., cap. III.


I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 35

scorso su ciò che è, invece, dipendente dalla possibilità di un


discorso su di esso.
Si hanno, insomma, due punti di << riferimento )) che non coin­
cidono tra loro : r) ciò che diciamo << indipendente )) perchè può
sussistere senza che altro sia, 2) ciò che si presenta come dipen­
dente e in rapporto al quale diciamo che qualcosa è, invece, indi­
pendente. I due punti di riferimento non coincidono e, tuttavia,
sono entrambi presenti nella necessità di quel riferirsi in atto che
struttura il discorso.
Ciò significa che, mantenendoli tra loro distinti, si eviterà
anche di << separarli )), proprio perchè uno solo di essi sussiste
<< separatamente )) ; ciò importa anche che la pretesa che essi siano
una cosa sola (immanentismo) costringe a far sussistere << separa­
tamente )) anche ciò che invece << è )) assunto quale richiesta che
vi sia qualcosa che non dipenda. Diciamo, così, che il concetto
di << indipendente )) non è l'indipendente, proprio perchè ciò che
è indipendente è indipendente almeno dal suo concetto.
Diciamo << indipendente )) qualcosa in quanto esso risponde alla
domanda posta con il darsi di qualcosa che, domandando, si rivela
<< dipendente )) : è all'interno del rapporto tra domanda (cio che
dipende) e risposta (ciò che non dipende) che ha un senso il con­
cetto di << indipendente )), ma è solo fuori di questo rapporto che
l'<< indipendente )) può essere veramente tale.
In base (o in riferimento) a ciò che dipende, conosceremo nel
concetto, che è formulazione problematicamente pura, ciò che non
dipende, per cui possiamo dire che il concetto di indipendente
dipende dal dipendente, senza che quest'ultimo cessi di dipendere.
Il <<primo )) a venir conosciuto sembra allora il <<dipendente )), ma
esso non si giustifica come tale se non si dispone, in qualche modo,
della nozione di << assoluto )) ; il << primo )) ad essete conosciuto è,
nell'assunzione del dipendente, l'indigenza che è domanda o richie­
sta di qualcosa che non abbia bisogno a sua volta di domandare.
Ciò che è veramente << primo )) è il domandare e nel domandare
è dato il << concetto )) come riferimento di ciò che dipende a ciò
che non dipende. Se il concetto << formula )) la domanda e se la
domanda è domanda di qualcosa, quel riferirsi in atto che è il
dipendere si trova nel concetto, è, anzi, una cosa sola con esso.
Questa formulazione evita, ci sembra, la domanda intorno alla
conoscibilità del principio, il quale principio è ciò da cui la cono­
scenza dipende, ed esclude la possibilità di dire che esso è cono­
sciuto a sua volta in forza di altro << principio )).
CAPITOLO PRIMO

§ r8. - La problematicità nella << definizione >> concettuale.

Come si sa, Platone nel Carmide sente la difficoltà di una


scienza della scienza : egli fa dire a Socrate, infatti, che non v'è
una scienza dei discorsi, separata dalla conoscenza di quelle cose
concrete delle quali i discorsi sono discorsi. (Carmide, r65 c). Non
è concepibile, insomma, un'autocoscienza astratta che sia cono­
scenza di sè, senza essere anche conoscenza di un'adeguata realtà.
Se l'esperienza è continuo problema, il problema tuttavia non
sarebbe se non per la coscienza, chè esso non è originato dai singoli
<< dati >> : la mancanza, l'indigenza, che pongano domande, non
sono mero fatto ; e, d'altro canto, non c'è coscienza che si attui
senza problema, senza indicare se c'è un rapporto con il valore :
se la << riflessione >> è presenza concreta, diciamo che la presenza
è concreta come rapporto tra fatto e valore.
Per la connessione del valore con il volere, possiamo dire che
il problema << vuole >> la sua soddisfazione, come suo essenziale
costituirsi, volontà che corrisponde alla mancanza, mancanza che
si rivela nella riflessione, la quale non risponde nè soddisfa ma
solo presenta il problema nella sua interezza.
Se ci chiediamo, allora, quale sia il nesso tra l'attuale io pro­
blematizzante e l'inattuale, che è la possibilità della problema­
ticità, tale nesso si rivela quell'identità della coscienza che può
dirsi l'unità operante nella stessa dualità limitante.
Se la << teoria >> fosse riflessione S'Ulla cosa, la riflessione si pre­
tenderebbe autosufficiente ed essenzialmente << altra >> rispetto alla
cosa ed al suo valore. Anche qui si profila nettamente la necessità di
non equivocare fra teoretico e teorico (cfr. § r), fra l'astratto preso in
assoluto (con il seguente rifiuto di quanto dell'esperienza non coin­
cide con la teoria) ed il concreto assumere che è la << riflessione >>.
E mi sembra che Platone dica questo nel Carmide. La defini­
zione vi è detta infatti problematicamente quale indicazione od
orientamento versola definizione vera e propria : definire non è
<< formulare >> il vero, bensì, piuttosto, verificare il vero mediante
ciò che di esso appare (esperienza) senza che esso si risolva tutto
nell'apparire (doxa) . L'esperienza v'è corrilevata come assuntiva
delle possibilità del vero, in base alla constatazione che il vero è
per se stesso improgredibile.
Possiamo dire che la << verificazione >> è la forma che l'espe­
rienza assume all'interno della « definizione >> : se << definire >> è iden-
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 37

tificare, negando la dualità di cose che si presentano come due,


ma sono una cosa sola, il loro presentarsi come due è l'esperienza,
il loro rivelarsi come una stessa cosa è la definizione. Qui identifi­
care equivale a << riconoscere >> l'unità, non a << ridurre >> operazional­
mente i termini ad una qualche unità costruita a partire da essi.
<< Soltanto mi devi far noto in qual senso tu applichi la parola
che vuoi adoperare >> (Carmide, 163 d) . Il convenire non è, cioè,
convenibile ed è questa la normatività stessa del convenire : il
linguaggio è costituito da convenzioni, che sono parole alle quali
viene connesso un significato e questo è indipendente dalla parola
alla quale lo si connette ed è regolato da norme intrinseche alla
convenzione : il linguaggio è intrinsecamente << semantico >>.
Trovare che, per l'intrinseco limite all'arbitrio, non vi può
essere assoluta convenzione significa negare lo storicismo, dove
questo si ponga come pretesa di assoluta relatività o intrinseca
temporalità del vero.
Non possiamo qui parlare di idea chiara e distinta, ma di chia­
rezza che è anche distinzione, in tanto la cosa è << chiara >> in quanto
è << distinta >>. Questo << chiarificarsi distinguendosi >> ci consente
l'uso di una duplice nozione di << discussione >>, rispettivamente, la
discussione di tipo eristico o sofistico e quella di tipo socratico.
Il primo tipo di discussione consiste nell'usare dell'equivoco
che è dato dal limitarsi arbitrariamente alle parole ; il secondo
tipo consiste, invece, nel riferirsi direttamente ai significati intesi
e, quindi, nel dissipare l'equivoco possibile della parola.

§ 19. - L'intersoggettività come dimensione dialettica.


Dimensione del discorso, sua misura, è l'<< intersoggettività >>,
chè il discorso si pone in funzione dell'altro di cui si dice perchè
è funzione dell'altro che si dice. L'altro << a cui >> è essenziale al
discorso e, perciò, il << dire a se stessi >> non è fingersi altri, ma porsi
come altri da se stessi : se questa è finzione, la sua inevitabilità
elimina la sua negatività e ne rileva l'intrinseca struttura ; l'altro
è presente nell'atto e perciò il suo coglimento non domanda che .
si integri l'atto con qualcosa di estraneo ad esso. In questo senso,
ma solo in questo senso, il discorso è sempre analitico, perchè i
suoi termini sono compresenti con il porsi di almeno uno di essi.
In altre parole, non è possibile aggiungere un termine nel di­
scorso se non fuori dell'aspetto strutturale ; il quale significa la
correlazione dei molti nell'uno : l'universale << intersoggettivo >> e
CAPITOLO PRIMO

l'<< intersoggettivo >> come universalizzante si dispongono in modo


tale che si può pervenire all'intersoggettivo senza accedere all'uni­
versale, ma, in tal caso, la dimensione è negata dallo stesso atto.
L'intersoggettivo è la stessa comunicabilità, la quale, essendo
supposta in qualsiasi dimostrazione, non può essere oggetto di
dimostrazione : essa è anapodittica ed il problema della comunica­
bilità è fittizio ; nella dissoluzione di tale preteso problema si
rivela una duplice presenza : r) l'apparire del problema fittizio, che
si coglie solo nella dimostrazione della sua insolubilità ; 2) il fatto
insopprimibile di questo apparire : dire che un qualche problema
è falso non è ancora dire perchè si diano problemi falsi, chè il pro­
blema si ripropone in forma negativa per il fatto della sua falsità.
Il quale fatto non può essere falso come fatto e non può essere
vero come problema, ma ciò suppone una dicotomia tra il vero
come esso << è >> ed il vero come esso << appare >> ; la distinzione tra
essere ed apparire suppone, come distinzione, l'unità entro cui
attuarsi, la quale non può non essere vera, perchè è veramente
implicata : in essa, almeno, essere ed apparire coincidono.
Ci troviamo così di fronte ad una unità richiesta dalla distinzio­
neche, una volta posta, elimina la distinzione in funzione di cui s1
pone ; il che significa che questa unità è solo fittizia, ed ogni distin­
zione da essa condizionata, non può non essere distinzionefittizia.
Ma la fittizietà è qui tale solo perchè l'unità che sottende alla
distinzione è pretesa come analitica e, perciò, non è contingente.
Ora, tale unità si mantiene vera unità nel suo stesso dissolversi
come unità analitica e questa è lo strutturarsi dialettico della
stessa << implicazione >>.

§ 20. - La stntttura dialettica dell'implicazione.


Per dire che qualcosa implica qualcos'altro, bisogna poter dire
che quella cosa non sarebbe se quest'altra non fosse (r) ; in altre
parole, bisogna poter escludere la possibilità che quella cosa escluda
quest'ultima. Non sarebbe possibile parlare di << implicazione >> di
B da parte di A, se B non fosse << altro >> rispetto ad A ; ma questa
alterità escluderebbe l'implicazione se questa fosse estranea al
costituirsi di A e di B : la formula analitica dell'implicazione (A
implica B) si rigorizza nella formula dialettica A è implicazione
di B : A e B sono implicazione in atto, sono l'atto dell'implicazione.

(r) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit. , cap. II.


I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 39

L'atto d'implicazione si rivela così nella negazione dell'attua­


lità di qualcosa che escluda o non includa la posizione di altro.
Questo atto è, nel suo porsi, la stessa integralità dell'esperienza.
Nessuna cosa è l'esperienza, ma nessuna cosa può essere detta
senza che con essa si dica l'esperienza : in ogni cosa asserita è
asserita l'asserzione come atto dell'asserire che è la stessa sua
struttura.
La struttura dell'esperienza è il rapporto tra una qualsiasi
cosa e l'altro da essa (la determinazione ulteriorizzante) e, al
limite, il tutto : se il tutto non fosse, nulla sarebbe ; cioè vi sarebbe,
contraddittoriamente il nulla. Il rapporto si esplica come impli­
cazione che dice il questo per il porsi di quello. Se quello non
fosse << altro )), non sarebbe implic"ato, ma, nella misura in cui è
implicato perchè il questo sia se stesso, esso, che è essenziale al
questo, vi si identifica e nega così il rapporto onde si costituisce
distinto dall'altro.
<< Essere identico )) significa essere fuori rapporto e, per la rela­
zionalità essenziale dell'esperienza, significa essere fuori esperienza,
inesperibile. La struttura dell'implicazione è dialettica, perchè
l'implicazione è uso della negazione (che esclude l'assunzione posi­
tiva del negativo) : se << questo )) implica << quello )), questo non è
<< questo )) se << quello )) non è ; l'implicazione è così anche esclusoine
che la cosa implicante sia assoluta.
La struttura dialettica dell'implicazione è l'esclusione in atto
dell'assolutezza dell'esperienza. Se v'è teoreticamente qualcosa che
può essere detto rigorosamente, questo è l'esclusione dell'assolu­
tezza dell'esperienza, perchè il << rigore )) si attua nella pienezza
della cosa che si dice e questa è esclusione di tutto ciò che è << al­
tro )) da essa : il rigore è l'indivisibile ed indimostrabile attualità
dell'escludere, è la negazione in atto, l'atto che emerge sull'autone­
gazione, l'incontraddittorio.
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CAPITOLO SECONDO

SOMMARIO : I. L'insignificanza teoretica del disaccordo. - 2. La preoccupazione


di raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua. - 3·
Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune. - 4· La superfluità del pro­
blema del « solipsismo ». - 5· Presenza e coscienza. - 6. La realtà come pensiero
si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione (l' attual smo come attualismo
puro) . - 7· La realizzazione come negazione e come posizione. (L'attualismo
monistico come naturalismo) . - 8. La presenza pura. - g. La coscienza della
presenza pura. - IO. Il rapporto tra atto ed aggettivazione tra presenza e pre­
sentificazione. - I I . Importo teoretico dell'espressione " Verum et esse conver­
tuntur » . - I2. La metaforicità intrinseca delta parola.

§ I. - L'insignificanza teoretica del disaccordo.


Le parole << accordo >> e << disaccordo >> (r) indicano un rapporto
tra << qualcosa >> e coloro che su di essa << convengono >> o << non
convengono >>, attribuendo a tale cosa un diverso significato, ep­
però un diverso valore.
Ora, anche non convenendo su qualcosa, non può non esserci
qualcosa su cui si debba necessariamente convenire e che è, nella
cosa, lo stesso suo esserci ; il quale esserci della cosa è da consi­
derarsi a sua volta, come una cosa e, precisamente, come l'imman­
cabile << dato >> che condiziona la possibilità dell'accordo e del
disaccordo su ciò che esso di volta in volta può valere.
Non che si convenga su qualcosa che, in un secondo tempo,
si rivelerebbe invece da discutersi, ma non si può non convenire
su qualcosa se questa non può rivelarsi discutibile : l'unico valore
che l'accordo universale (z) su qualcosa può esibire è che esso

(I) « Accordo » e « concordanza » indicano un modo di convenire intimo, cosi


come l'etimo dice : cum-corde, anche se l'uso comune ha perduto questo aspetto
della parola (come l'ha perduto per la parola « ricordo >> che viene usata per « me­
moria •, « rammentare »).
(2) Dovrei dire : il « fatto » dell'accordo universale.
CAPITOLO SECONDO

rappresenti l'impossibilità assoluta di un qualsiasi disaccordo su


di essa, che è la riduzione a nulla dell'apporto ad esso da parte
di chi lo considera.
L'accordo universale, come fatto, ha valore (ossia è veramente
universale e non solo generale) solo se non è un semplice fatto,
perchè l'eventuale fatto che è il disaccordo sia da qualificarsi
<< errore )), come negazione pretesa di un valore. Il fatto del di­
saccordo non può mai assurgere a valore che si opponga all'accordo
e lo escluda, solo a condizione che questo accordo sia un valore
per se stesso indiscutibile, tale, cioè, che l'eventuale sua discus­
sione sia da qualificarsi erronea.
Ciò importa che l'universalità dell'accordo non possa venire
tolte da un eventuale disaccordo di fatto e che, perciò, tale even­
tuale disaccordo non ha rilevanza teoretica alcuna.
In questa prospettiva per la quale l'accordo universale è tale
da falsificare ogni disaccordo di fatto, la preoccupazione di perve­
nire ad un accordo effettivo e verificabile da parte di tutti è fuori
luogo e denuncia, piuttosto, che si è mancato di distinguere la
nozione teoretica dell'<< universale )) così da avere previamente e
inconsciamente inficiato il valore inteso (o preteso) di qualsiasi
asserzione.

§ 2. La preoccupazione di raggiungere un accordo effettivo è


-

empirica e filosoficamente ingenua.

Da questo punto di vista (r) , il confronto tra asserzioni opposte


(in base alla distinzione numerica tra asserzioni che convergono
e asserzioni che non convergono su qualcosa) onde pervenire al
dubbio circa la possibilità di un effettivo giudizio su quella cosa
avrebbe origine da una distorsione ateoretica dell'interesse nella
ricerca : il confronto non avviene, come qui si pretenderebbe,
tra asserzioni, bensì tra << asseribilità )) ed asserzione, tra le asser­
zioni effettivamente disponibili e l'asseribilità che vale come
critica di quelle asserzioni ; per sapere, cioè, se questa particolare
asserzione è vera, non basta chiedersi se essa sia sostenuta anche
da altri, ma bisogna chiedersi se la cosa stessa non venga in essa
in qualche modo alterata.

(r) Punto di vista che non è arbitrario, perchè corrisponde alla riduzione del
�110 opposto ad impossibile.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 43

L'accordo effettivo, di tutti o della maggioranza, ha bensì


rilevanza sulle decisioni da prendere in questioni riguardanti l'in­
teresse di un << gruppo >> e che debbono a loro volta venire control­
late dall'esito pratico che da esse si attende ; non ha rilevanza
però dove l'interesse, essendo esclusivamente teoretico, ossia in
ordine al vero, non può risultare controllato da applicazioni
pratiche.
Il << controllo >> del vero da parte di un gruppo o di una maggio­
ranza non ha senso alcuno ed è perciò un non senso la ricerca
di un effettivo accordo su ciò che è nella ricerca del vero, ed è
parimenti privo di senso il mettere in questione una << theoria >> (r)
in base al << fatto >> che taluni la discutono : non è sufficiente al
livello teoretico, o del valore, che quasi nessuno (o non tutti) con­
venga su qualcosa perchè si possa concludere che questa cosa
sia veramente discutibile, così come non basta che io l'abbia pen­
sata perchè essa sia vera (il solipsimo empirico che fa coincidere
il vero con il mio pensamento equivale, infatti, al collettivismo
che identifica l'opinione della maggioranza con il vero).
Il << controllo >> del vero con le sue immanenti contraddizioni
verrebbe preteso anche dove si commisurasse il vero alla fecondità
delle sue << conseguenze >> nell'ordine sperimentale : la distinzione
tra teoreticità e teoricità (cfr. § ro) opera qui un ruolo importante,
se una << teoria >> scientifica è considerata valida in ordine al nu­
mero dei fenomeni che essa consente di << spiegare >> e quindi, subor­
dinatamente, in ordine alle applicazioni (tecnica) che essa è in
grado di regolare. Se si usasse della << fecondità come criterio di
verità, si dovrebbe demandare la misura della << fecondità >> stessa
ai vari ordini in cui essa si affermerebbe, con la conseguente pro­
blematizzazione del criterio onde stabilire l'importanza di un ordine
a preferenza di tutti gli altri (ciò che si rivela << fecondo >> in mate­
matica non lo è necessariamente in filosofia e viceversa) .
Si rivela anche a questo proposito, la riducibilità di un cri­
terio che si presupponga indicativo del filosofare ed estraneo ad
esso (fecondità, interessi di gruppo ecc.) alla nozione filosofica­
mente nulla di << presupposto >> : il << presupposto >> ha posto ovunque,

( r ) È quanto accade alla metafisica : la ratio dubitandi del suo valore viene
ingenuamente ( acriticamente ) posta nel fatto che di essa si dubita in quanto.
=

su di essa comunemente non sì conviene : la ragione del dubbio, sarebbe, cosi, il


fatto che di essa si dubita e si dubita, perciò, senza una vera ragione.
44 CAPITOLO SECONDO

fuorchè in filosofia, sB la filosofia, ponendosi in ordine alla totalità,


è di per se stessa dissoluzione di qualsiasi presupposto.
Non si tratta, solo della necessità di fare a meno del presup­
posto, come può sembrare dal procedimento stesso di chi per­
viene intelligentemente a cogliere l'intimo senso del filosofare
chiudendosi, tuttavia, in esso, ma anche soprattutto dell'essere
filosofia come eliminazione in atto del << presupposto )), come pro­
cesso interno al presupposto in quanto sua negazione e ulteriore
ad esso in quanto affermazione critica del suo essere mero pre­
supposto (r).
Ora, l'accordo effettivo dovrebbe valere o come << presupposto ))
alla ricerca o come << esito )) critico della ricerca : se come presup­
posto esso sarebbe eliminabile (contraddicendosi come accordo
valido) , come esito, esso domanderebbe un disaccordo iniziale da
cui partire e la filosofia empiricamente data come la << patria del
disaccordo )) sarebbe appunto valida proprio in ciò che le si imputa
a disonore : il massimo disaccordo tra filosofi.
L'unico movente della preoccupazione dell'accordo effettivo,
cui si orientano per lo più i filosofi del linguaggio od anche, sem­
plicemente, coloro che fanno dell'analisi del linguaggio uno stru-

(1) È la questione del valore che potrebbe avere in filosofia ciò che precedesse
il discorso filosofico : va chiarito il senso in cui si parla di precedere in filosofia, pre­
cedere che è, d'altra parte, inizialmente e continuamente richiesto perchè la filosofia
non si converta in assoluto sapere (conversione che renderebbe impensabile lo
stesso assoluto, in quanto un assoluto che abbisognasse di venire instaurato sa­
rebbe un assoluto perennemente « insufficiente » epperò relativo a ciò che gli manca
per essere « assoluto ») . HEGEL (Encicl., par. I) afferma la duplice necessità : I che
la filosofia nulla presupponga ; 2 che la filosofia presupponga una certa notizia
dei suoi oggetti non fosse altro per questo, che la coscienza, nell'ordine del tempo,
se ne formi prima rappresentazioni e poi concetti ; e lo spirito pensante, solo attra­
verso le rappresentazioni e, lavorando sopra di queste, progredisce alla conoscenza
pensante ed al concetto ».
« Rigorosamente - dice E. SEVERINO (La struttura originaria, cit. , p. 109)
- la filosofia non presuppone nemmeno la « notizia » agli oggetti : tale pre­
supposizione equivarrebbe alla posizione di un piano semantico che, estraneo
all'autosignificazione, sarebbe lo stesso piano dell'insignificanza ». Ma la stessa
affermazione « La filosofia non presuppone » ha senso solo presupponendo ciò che la
filosofia non presuppone, per cui mi sembra più esatto dire che il « presupposto »
è cdnsopprimibilen (cfr. G. R. BAcCHIN, L'originario ecc., cit., pag. 95) e che coincide
con l'« iniziale » (cfr. Originarietà ecc., cit., pp. 57-62) che è immagine empirica del
trascendentale, il quale iniziale non abbisogna di venire giustificato (eliminato
come iniziale) perchè esso è sempre e nello stesso senso (univocità-univocizzazione)
e non è eliminabile proprio perchè, se lo si nega come valore, deve valere almeno
come ambito della sua negazione.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 45

mento di ricerca filosofica, è la pretesa che il senso comune valga


in filosofia, senza avere chiarito (filosoficamente) il concetto filo­
sofico di << comune )) o << valido per i più l> o << valido per tutti l>.

§ 3· - Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune.


È importante considerare ora il senso comune, perchè ad esso
si fa riferimento quando si usa della espressione << linguaggio ordi­
nario )) o << linguaggio quotidiano l>. Di fatto, il rapporto tra filo­
sofia e senso comune viene considerato indiscutibile, perchè tale
rivelasi con la constatazione della priorità degli interessi pratici
su quelli speculativi, priorità che il senso comune non discute ; ma
tale rapporto non può venire discusso solo a mantenersi entro
l'ambito del senso comune, inglobando la stessa filosofia in quel­
l'insieme di esperienze delle quali la filosofia non sarebbe se non
uno dei momenti, accanto agli altri, epperò non << fondamentale ))
rispetto ad essi.
Ma questo rapporto, affatto indeterminato, propriamente non
sussiste : esso è indeterminato proprio perchè privo di determi­
natezza è quel senso comune al quale dovrebbe riferirsi indiscu­
tibilmente ; la distinzione tra << senso comune l> e filosofia è dovuta
solo alla filosofia essendo essa a giustificarlo tale, emergendo su
di esso con quel suo processo che è la revoca in discussione : dire
che una qualche asserzione appartiene al senso comune è possibile
. solo a condizione che si sappia già che il senso comune non è,
per se stesso, filosofia.
La ricerca filosofica, proprio come revoca totale, ha appunto
carattere personale (1) e non per l'apporto della persona al vero,
ma per il modo personale del rivelarsi del vero (il modo non iden­
tificante o univocizzante del vero nell'atto che lo rivela) . Chè se
ci si mantiene effettivamente in quello che si dice << senso comune l>,
ci si dovrebbe contraddittoriamente distinguere da esso almeno
nel dire che esso è << comune )) rispetto a ciò che consente çli qualifi­
carlo tale : non v'è un << comune )) se non per un << proprio )) od
<< esclusivo l) che su esso emerga nel dirlo.
Il che significa che il rapporto tra filosofia e senso comune
potrebbe venire determinato solo a partire dalla filosofia (e man­
tenendosi in essa) e, di conseguenza, il senso comune sarebbe

( r ) Cfr. M. GENTILE, 5� e come è possibile la storia della filosofia, Padova,


1 964 : vi si connette la questione del modo di fare filosofia.
CAPITOLO SECONDO

parallelamente un momento interno della filosofia, la quale do­


vrebbe assumersi il compito di determinarlo prima di entrare in
rapporto con esso ; la quale determinazione, essendo solo presup­
posta, non è mai veramente data.
In questo senso, si può dire che il << comune >> è solo una postu­
lazione, postulazione che si formula solo in quanto la filosofia
non può porsi senza anche distinguersi ; ma se la filosofia è atto
mai <<compiuto >>, questo distinguersi non va preso come un << fatto >>
da cui sia dato muovere per filosofare : esso è con il farsi della
filosofia e non è assoluto che esca dalla possibilità di venire discusso
dalla filosofia.
Del resto, per determinare il rapporto tra senso comune e filo­
sofia, bisognerebbe presupporre l'ambito entro cui operare nella
determinazione, ambito che sarebbe stabilito solo per quei limiti
che la determinazione dovrebbe stabilire : per determinare biso­
gnerebbe avere già determinato e determinare sarebbe solo trovare
il limite tra il pensare filosofico e il pensare << comune >>, comune a co­
loro che, convenendo su qualcosa, possono non convenire su altro.
Non si dà, insomma, un << senso comune >> a tutti, quasi univer­
sale convincimento del valore (o del disvalore) ma, se mai, il
senso comune è funzione di interessi comuni e vi sarà ,cosi, un
senso comune ai matematici, uno comune ai biologi, e così via ;
senso comune (r) che, variando in funzione dello spiegamento
effettivo di interessi, non può venire effettivamente considerato
se non nella misura in cui davvero si partecipa a quegli interessi.
E solo il matematico potrebbe parlare effettivamente di matematica
ma è ancora il senso comune ai matematici che opererebbe nelle
sue prese di posizione nei confronti di ciò che matematica non è.
Allora, anche la filosofia dovrebbe porsi con un suo particolare
<< senso >> che sia comune a quanti si dicono filosofi. E a questo
punto che si pone la questione del « solipsismo », in connessione
con la personalità della ricerca filosofica.

§ 4· - La superfluità del problema del << solipsismo >>.


Il problema del << solipsismo >> (2) è una cosa sola con il proble­
ma della << comunicazione >>, perchè mettere in questione la

(1) La parola " senso , che compare nell'espressione "senso comune, equi­
vale a « sentire "·
(2) Il solipsismo più rigorosamente filosofico non può subire alcuna dissolu-
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 47

comunicazione equivale a considerare il solus ipse come esclu­


dente ogni relazione con l'altro (od anche, e con il medesimo
esito teoretico, come includente o conglobante ogni << altro >>) :
se io sono l'<< unico >>, o perchè gli altri non sono o perchè, es­
sendo in me, non sono << altri >>, ogni mio discorso è esclusiva­
mente << mio >> e, pertanto, non importa alcuna dimensione in­
tersoggettiva.
Ma se il solipsismo si presenta come un problema, e come
problema si presenta se non altro nell'intenzione di giustifi­
carsi, ciò vuoi dire che il solus ipse è messo in questione dalla
presenza dell'<< altro >>, essendo appunto l'<< altro >> a mettermi
in questione, a togliermi la pretesa di essere l'unico. Con ciò
il solipsismo si dissolve non appena lo si considera, di modo
che l'analisi del linguaggio quando giunge a porsi sul solipsi­
smo non ha più sotto di sè quel solipsismo, perchè questo,
problematizzandosi, rivela la necessità che l'<< altro >> sia come
problematizzante, non potendo pensarsi un problema assoluto,
od un assoluto che sia intrinsecamente problematico.
Se è vero che il problema del solipsismo, << quello più ge­
nerale ad esso collegato del fenomenismo, hanno travagliata la
filosofia moderna dai suoi stessi inizi, da quando Cartesio e
Locke si sono sforzati di fondare la conoscenza sulle idee,
intese come oggetto immediato del pensiero >> (r), una volta che
si chiarisca la sua intima natura di << problema >>, si perviene alla
restituzione critica di quanto veniva messo in questione dall'ipo­
tesi della sua verità e il pensiero moderno dissolverebbe da se
stesso la propria istanza, consumandosi in una serie fittizia di
problemi.
Il modo in cui viene formulato il problema solipsistico da
parte del pensiero scientifico rivela, però, che esso non deriva
punto dalla problematica della filosofia moderna, o almeno non
deriva da essa il solipsismo come ipotesi scientifica : chiedersi se
<< il rosso viene visto da tutti allo stesso modo >> (z) suppone un
uso empirico delle parole << vedere >>, << tutti >>, << modo >>, un uso

zione da parte dell'analisi del linguaggio, inscrivendosi in esso la stessa analisi


che di esso si pretende ; al più potrebbe presentarsi come linguisticamente ana­
lizzabile il " solipsismo scientifico "• quello formulato ad es. dallo Schriidinger (E.
ScHR ODINGER, L'immagine del mondo, tr. it., Torino, 1963, cap.V) .
(1) A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza e filosofia, cit., pag. 9 1 .
(2) Cfr. E. ScHRODINGER, op. cit., pag. r88.
CAPITOLO SECONDO

cioè per il quale il loro significato si colloca e si mantiene su un


piano in cui l'ipotesi solipsistica è solo imposta fittiziamente, co­
me << ipercritica >>, e proprio perchè ciascuna di quelle parole viene
di forza portata nella formulazione del solipsismo, facendo violenza
ai loro rispettivi significati. Tale violazione dei significati potrebbe
venire operata solo dalla filosofia, in quanto critica radicale o
totale discussione, non dalla scienza che intende collocarsi nel
<< mondo >> ed operare in esso.
D'altra parte, in filosofia non avrebbe alcuna rilevanza l'ipo­
tesi che il rosso non sia visto da tutti allo stesso modo, dal mo­
mento che io e gli altri dovremmo convenire almeno nei termini
che entrano a formulare questa proposizione : noi dovremmo, co­
munque, sapere allo stesso modo il diverso modo di vedere il
rosso e dovremmo sapere che è il rosso, ad esempio, che non ve­
diamo allo stesso modo. Così, l'ipotesi solipsistica perde total­
mente rilievo, perchè in filosofia dovrebbe formularsi come asso­
luta tesi o non avrebbe alcun senso, nella scienza dovrebbe negare
valore a se stessa, negando significato effettivo ai termini nei
quali viene formulata.
Ma v'è un solipsismo che è la struttura originaria stessa e che
incentra in se stessa l'intero filosofare ed è quello che con espres­
sione drasticamente rigorosa dice di se stesso che << la filosofia è
la mia filosofia >> (r) .
Ma questo solipsismo non si pone come esclusione dell'altro,
nè come problema delle possibilità dell'altro che, per il suo tro­
varsi nell'esperienza, domanda di non venire escluso, ma che non
riesce a giustificarsi di fronte alla mia esperienza : il solipsismo
che enuncia questa proposizione è l'unicità dell'atto del filosofare
in cui la proposizione << La filosofia è la mia filosofia >> si converte
nella proposizione « La mia filosofia è la filosofia >>, in cui l'essere
<< mia >> non va inteso nel senso dell'appartenenza limitata ed esclu­
siva all'individuo, bensì in quello della presenza inobliabile della
persona, rispetto alla quale la filosofia non è qualcosa che si può
accettare, rifiutare, limitare, essendo la stessa << personalità >> del
filosofare : l'<< essere mia >> della mia filosofia non significa che la
filosofia sia valida solo perchè << mia », ma che, se essa non è << mia >>,
non è filosofia, in quanto non vi può essere << altra >> filosofia all'in­
fuori dell'atto del filosofare, il quale è unico e indivisibile, epperò

{r) Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 23.


I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 49

<< mio nello stesso senso in cui io sono suo )) : la filosofia appartiene
a me nello stesso senso in cui io, come filosofo, appartengo ad essa (r) .
La persona in filosofia è essenziale nel senso in cui è essenziale
alla persona il filosofare, filosofare che è la consapevolezza nel
senso concreto (cioè fondante perchè innegabile e intranscendi­
bile) (2).

§ 5· - Presenza e coscienza.

Dalla coscienza e mantenendosi in essa ci si muove per com­


piere l'iter teoretico, o processo che attua la visione pura, per la
quale le cose sono la verità di se stesse, essendo per noi ciò che
sono in se stesse, ciò che sono, semplicemente.
Si muove dalla coscienza, la quale è attuale presenza ; ci si
mantiene in essa, perchè fuori della presenza nulla propriamente
<< è )) , chè essere assente è come non essere ; e questo muoversi
non modifica la presenza, alterandola, ma ritrova l'identità del­
l'essere presente nella diversità stessa delle cose che di volta in
volta lo sono.
Questo movimento è, dunque, piuttosto, il ritrovarsi dell'iden­
tico nel diverso ; per il quale ritrovarsi il diverso, lungi dal venire
annullato, viene conservato tale e viene conservato in virtù di
quello identico senza di cui ogni cosa dovrebbe sostituire ogni
altra cosa, perchè nessuna cosa potrebbe disporsi accanto ad altra
ed anzi l'<< altro )) non sarebbe e la stessa sostituzione sarebbe
impossibile.
L'identico che è l'essere presente o, più semplicemente, << pre­
senza )) è, così, da ritrovare non come la soppressione o negazione
del diverso, bensì come sua condizione, anzi come il diverso stesso
nel suo essere intelligibile, come l'intrinseca possibilità che il
diverso sia.
Ma l'identico, che è la presenza stessa del diverso, non rende
intelligibile il diverso più di quanto questo non lo sia, perchè
solo ne mostra, o ne rivela, l'intelligibilità, manifestando l'iden­
tità di ciascuno con se stesso e la non-identità che ne consegue
con l'altro da esso ; ossia, l'identità della coscienza, per la quale

( r ) Cfr. G. R. BACCHIN, Il concetto di meditazione e la teoresi del fondamento,


Roma, landi-Sapi, 1963, p. Io.
(2) Cfr. M. GENTILE, Se e come è possibile la storia della filosofia, cit.
CAPITOLO SECONDO

il diverso è << presente )) o consaputo come tale, è l'identico man­


tenersi tale del diverso.
Si elimina così un equivoco, che di fatto ha una sua storia in
filosofia, l'equivoco tra quell'identico che è la presenza o coscienza
e quell'identico che è ciò di cui appunto v'è coscienza ; l'equivoco
tra la considerazione, che è tale per qualsiasi cosa che si consi­
deri, e l'identità di ogni cosa con se stessa onde, nel rapporta­
mento o confronto, è dato riconoscere appunto la diversità. Solo
se le due identità non si confondono, è possibile evitare la duplice
risoluzione monista nell'essere e nel pensare ; e del resto, non è
possibile confondere le due identità, perchè la coscienza non è
ciò a cui la cosa si presenta se non come il presentarsi stesso della
cosa, la cosa nel suo stesso venire consaputa.
Si tratta, dunque, di due identità in quanto tra loro irriduci­
bili ; ma esse si mantengono due solo se non si pretende di sepa­
rarle, facendo di esse due diverse << cose )), perchè non appena si
pensa la coscienza come qualcosa, sia pure per ridurre monisti­
camente ad essa ogni altra cosa che in essa e per essa si presenti
non la coscienza si pensa ma la << cosa )) che si pretende essa sia,
non la coscienza che è << presenza )) ma la << presenza )) ridotta a
sua volta ad una qualche particolare << cosa )),
La riduzione delle due identità, equivalenti alla loro << separa­
zione )) come di due diverse << cose )), importerebbe pur sempre la
dualità tra il processo della riduzione e l'uno al quale pervenire
con la riduzione stessa, rendendo così impossibile o solo fittizia
la riduzione, o negando con la riduzione la stessa unità.
La dualità, dunque, di identica considerazione del diverso e
di identica posizione di ciò che si rivela diverso si mantiene solo
in quanto non si equivoca facendo della considerazione, che è la
coscienza o << presenza )), una delle cose che si possono considerare,
solo, cioè, se non si pretende di oggettivare la stessa coscienza,
cosalizzandola.
L'equivoco è piuttosto, come si vede, una costruzione arbi­
traria, chè esso si svela come processo in cui si identifichino tra
loro diversi in base al fatto, assunto almeno implicitamente come
ragione, che ogni cosa, in quanto << presente )) alla coscienza, equi­
vale ad ogni altra e che, di conseguenza, sia negabile nella sua
pecularietà, onde si possa affermare la risoluzione di tutte le cose
nell'unità, di ciascuna cosa in quel << tutto )) che è, equivalente­
mente, tutto essere o tutto pensiero.
Il monismo è allora precisamente questo equivoco e, perciò,
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 51

questo arbitrio, per il quale, contraddicendosi, si dice che l'identità


dell'essere o del pensare, per la quale le cose si risolvono nell'uno,
altera la cosa stessa, almeno nel senso che ne rivelerebbe la fitti­
zietà del suo presentarsi come << altra )), e si mantiene, tuttavia,
l'alterità della cosa nella dualità tra il suo presentarsi come << altra ))
e del suo intrinseco non essere << altra )),
In altre parole, il processo di identificazione che sottende al
monismo si risolve in una vanificazione dei suoi stessi termini,
perchè separa la cosa da se stessa, epperò la nega, ma la nega
contraddicendosi, perchè pur la mantiene nel dire che essa si
risolve in quell'identico che non si riduce ad essa ; la contraddi­
zione stessa, per la quale la cosa si presenterebbe come non è e
si rivelerebbe poi diversa da ciò che è nel suo presentarsi, ripro­
pone all'infinito quella diversità che si pretende negare e se questa
contraddizione è inevitabile quella identificazione è assurda.

§ 6. - La presenza pura.
Il muovere della coscienza ha dunque senso solo per il mante­
nersi in essa, chè non è possibile fare di essà ciò da cui si parta
onde pervenire a qualcosa di estraneo ad essa. Tuttavia, il movi­
mento che la coscienza stessa attua è un pervenire a ciò che
non è possibile ridurre a coscienza ; ossia non è possibile che quel
mantenersi inevitabilmente all'interno della coscienza importi la
necessità di assumere la coscienza come assoluta, come l'uno di
cui bisognerebbe avere pur coscienza, riproducendo all'infinito la
figura della dualità nella stessa tentata dimostrazione dell'unità ;
perchè un'assoluta unità che abbisognasse di venire dimostrata a
partire dalla presupposta molteplicità, dovendosi dimostrare a se
stessa, si contraddice.
Ciò che importa, dunque, esaminare è proprio la nozione di
quel movimento che, attuandosi sempre all'interno della coscienza,
non può valere a porsi · come operazione sulla coscienza onde asso­
lutizzarla ; così, ciò che sembrava fornire all'idealista la giusti­
ficazione del suo proc�sso di risoluzione nella coscienza è invece
la ratio stessa dell'impossibilità dell'idealismo, perchè, se ogni
operazione è intrinseca alla coscienza, non si può pensare quella
operazione che definisce la coscienza, facendone il tutto o l'as­
soluto.
Il movimento che consentirebbe la risoluzione immanentista
deve, cioè, assumere come suo inizio la coscienza ed uscire con-
CAPITOLO SECONDO

traddittoriamente da essa per progredire nel processo di risolu­


zione, per procedere, cioè, veramente da un punto ad un altro ;
ed il punto da cui si muoverebbe deve pur essere - contraddit­
toriamente - lo stesso movimento ; ma partire dal movimento
è andare oltre il movimento, è non muoversi più.
Ora l'idealismo non può negare quel movimento che è almeno
implicitamente detto nel riconoscersi assoluto del pensiero o co­
scienza ; senonchè l'idealista riduce appunto la coscienza a questo
riconoscersi o ritrovarsi da parte della coscienza stessa ; e questo
egli dice << assoluto )), ma ciò importa proprio quello che l'idea­
lista intende negare, importa un ritorno o riflessione a partire da
un punto che per consentire il passaggio deve essere estraneo,
altro da sè : deve non essere assoluto.
La nozione di quel movimento che parte dalla coscienza im­
plica la coscienza come l'intero entro cui quel movimento si attua,
ma non importa la riduzione della coscienza a questo movimento,
nè ad un punto da cui muovere per andare oltre, per pro-cedere
alla determinazione di ciò che è << oggetto )) di coscienza.
Se la coscienza, o pensiero, fosse tutta nel riconoscersi o ritro­
varsi da parte di se stessa, dovrebbe contraddittoriamente postu­
larsi un punto estraneo alla coscienza che ne spieghi l'alienazione
da cui appunto ritornare. Di un ritorno a sè si può parlare solo
se a questo ritorno è predeterminato il << sè )), di modo che il ritorno
sia un processo orientato ad un suo telos ; chè se fosse lo stesso
ritorno a determinare quel << sè )), il ritorno non sarebbe mai de­
terminato, epperò mai effettivo, sarebbe un andare che non va ;
d'altro canto, se il << sè )) fosse pre-determinato al ritorno che ne
lo recupera, il ritorno, comunque. determinato od orientato, sa­
rebbe superfluo e si riproporrebbe in questione la ragione di esso,
proprio perchè in effetti quel << sè )) non sarebbe mai alienato da
se stesso.
È così che non si può parlare di pensiero che << circola dentro
di se medesimo )) (r) , dove questa circolarità del pensiero sia << un
punto che si muove e torna a se stesso )) (2) : o il punto non è

(r) G. GENTILE, Sistema di Logica come teoria del conoscere, capo Il, § I .
(z) I l punto e l a circonferenza possono venire fatti valere come " figure empi­
riche " del trascendentale.
Ma è da notare che il passaggio dalla circonferenza al punto è ancora " in­
terno " al punto, perchè, se, all'inizio, del passaggio dalla circonferenza al punto,
il punto non fosse consaput:>, il passaggio sarebbe indeterminato, ossia non sarebbe ;
d'altro canto, se il punto è consaputo già all'inizio, di passare non v'è bisogno per
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 53

una cosa sola con il suo movimento, ed allora esso è anche senza
questo movimento e il movimento si aggiunge al punto che esso
presuppone ed il ritorno del punto a se stesso sarebbe l'elimina­
zione dello stesso movimento onde ottenere quel punto come puro
punto, senza movimento ; o quel movimento è una cosa sola con
il punto, ed allora del tutto inconcepibile risulta il ritorno, perchè
il punto, per quanto si muova, non può allontanarsi da se stesso
e perciò non può avere bisogno di ritornare a sè.
In altre parole, ciò che non è pensabile è proprio l'alienazione
da sè, senza di cui non è possibile del resto parlare di ritorno,
nè di pensiero-astratto << da cui ritornare >> a quel punto che è il
pensiero : ciò che opererebbe l'alienazione è pur sempre quel << sè >>
che sarebbe intrinsecamente tutto alienazione e l'alienazione non
sarebbe l'astratto ma il concreto ; oppure, nell'alienazione, il << sè >>,
essendo sempre operante, non è mai alienabile veramente, ed
allora l'alienazione è non solo astratta ma intrinsecamente im­
possibile.
Se ben si guarda, l'alienazione di sè riproduce la situazione
logica della posizione di se stesso propria dell'Assoluto, nonchè

determinare il punto, ed ogni passaggio effetttivo al punto sarebbe superfluo.


L'aporia che si configura qui è data, però, dalla necessità che il passaggio dalla
circonferenza al punto sia anche « esterno " al punto, perchè la circonferenza non
è il punto e il punto non è il passaggio, essendo ciò cui il passaggio perviene (chè
se il punto fosse il passaggio al punto, del passaggio non vi sarebbe bisogno) .
La nozione di « passaggio >> è cosi tutta ambigua, supponendo il rapporto
secondo cui attuarsi e un'attività che si svolga in conformità a quel rapporto :
v'è inclusa la duplice nozione di " struttura » (rapporto) e di " attività "• (pro­
gressiva assunzione di quel rapporto) . Solo dove si ritrovi l'« intero » (la indivisi­
bile condizione alla divisibilità dei procedimenti o passaggi) è possibile dissolvere
tale aporia.
Ma l'intero non è ciò che " è diviso da ciascun significato e dall'altro da quel
significato " (E. SEVERINO, op. cit.), perchè, in tal caso, il significato risulte­
rebbe dalla moltiplicazione di ciascun significato per se stesso o per tutti
gli altri, i quali non sarebbero mai tutti, anche nell'ipotesi di un numero finito di
significati, chè la moltiplicazione di un qualsiasi significato per se stesso ( il=

numero di volte in cui un significato è considerabile) è necessariamente indefi­


nito.
Se la divisione dell'intero fosse possibile, ogni cosa lascerebbe fuori di sè
l'intero, nessuna cosa sarebbe interamente se stessa, nessuna cosa sarebbe ; e la
divisione che suppone l'intero, domandando l'intero in ogni suo momento, non è
divisione dell'intero, ma nell'intero, il quale è divisibile solo astrattamente, come
indefinitamente riproposto per ciascuna cosa che risultasse dalla divisione : il tutto
non è la somma delle cose poste, ma il porsi di qualcosa (cfr. G. R. BACCHIN, L'ori­
ginario come implesso esperienza-discorso, cit., p. 15).
54 CAPITOLO SECONDO

della gnoseologistica posizione della cosa in sè, la cui formulazione


è strutturalmente priva di senso : lo << in )) dello << in sè )) dovrebbe
porsi a sua volta << in sè )), chè la relazione che lo << in )) sta ad indi­
care viene tolta da quella identità che è il << sè )).
Perchè di circolarità si possa parlare nel senso assoluto, biso­
gnerebbe che l'allontanarsi coincidesse con il ritornare, di modo
che << la massima distanza da se stesso coincida con la negazione
di ogni distanza )) (r) ; ma i termini che indicano le opposte fun­
zioni dell'allontanarsi e dell'avvicinarsi hanno senso determinato
solo in riferimento a qualcosa che non si allontana nè si avvicina
e ciò ripropone la distinzione del punto dal qual movimento onde
esso si aliena e si ritrova ; proprio la distinzione che la circolarità
assoluta intenderebbe eliminare.
Del resto, se allontanarsi è anche avvicinarsi, le due funzioni
non si riferiscono in senso opposto ad un punto di cui si dicono,
ma, riferendosi nello stesso senso all'identico punto, si identificano
concretamente con esso, di modo che da quel punto non è pos­
sibile allontanarsi nè avvicinarsi ; e quel punto è semplicemente
immobile.
Chè, se quel punto coincidesse senza residuo con il suo muo­
versi, l'immobilità si riproporrebbe almeno per questa impossi­
bilità di non muoversi e il punto, comunque, resterebbe immo­
bile ; ossia il movimento dovrebbe risultare solo come interno al
punto, proprio perchè, se il movimento fosse lo stesso punto, da
una parte dovrebbe dirsi che esso si muove dal suo stesso muo­
versi e, quindi, che cessa di muoversi, dall'altra che esso non può
non muoversi e che questo significa, rispetto alla possibilità di
muoversi e di non muoversi, l'impossibilità di muoversi, l'im­
mobilità.
Con ciò, il movimento per cui dalla coscienza si parte rende
impossibile che dalla coscienza si esca, epperò nega la possibilità
di fare della coscienza un assoluto, chè dirla assoluta significhe­
rebbe considerarla a sua volta come qualcosa di cui si abbia co­
scienza ; onde ci è dato concludere che, se la coscienza è pre­
senza, questa presenza è pura solo se, nell'assumerla, non si pre­
tende di assolutizzarla : la coscienza assolutizzata sarebbe, in­
fatti, la coscienza e l'operazione che l'assolutizza, l'insieme, ovvia­
mente fittizio, di coscienza e operazione su di essa.

(r) G. GENTILE, Sistema ecc., cit. , II.


I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 55

§ 7. - La coscienza della presenza pura.

Va chiarito, e sempre approfondendo ciò che è dato cogliere


nel concetto di presenza pura, il modo in cui della coscienza si
parla senza dare, tuttavia, aggettivazione, nè per analizzarla come
i dati che in essa e per essa si presentano, nè per assolutizzarla
come l'unico che veramente sussista, risolvendo ed inverando ogni
altro che ad essa si opponga.
Restano escluse, cioè, sia l'operazione più propriamente fenome­
nologica dell'analizzare la coscienza come contenuto o peculiare
contenuto offerente, sia l'operazione più propriamente metafisica
dell'identificare la coscienza con quelle identità che in essa si
pongono e si presentano. Se l'atteggiamento fenomenologico cosa­
lizza la coscienza nella forma del dato, l'atteggiamento monistico
la cosalizza nella forma dell'assoluto e, in entrambi i casi, la co­
scienza stessa dell'operazione richiesta per << cosalizzare >>, rivelando
la sua intrinseca contraddizione, restituisce la necessità di dire
la coscienza senza ridur/a ad << altro >> e senza risolvere l'altro in essa.
Importa intanto chiarire l'intrinseca contraddittorietà del mo­
nismo. La ratio pretesa del monismo idealistico è, come si sa, la
conclusività innegabile della autocoscienza che è il sapere del
sapere, qualunque sia il sapere di cui si ha sapere ; senonchè,
quel sapersi che è autocoscienza è ancora il sapersi come sapere,
ossia l'intendersi come intendere, il pensiero che si porta su se
stesso e che si mantiene intero ed indivisibile in questo suo mo­
vimento.
Non si può dire, cioè, che l'autocoscienza sia l'atto per il quale
si intende di intendere, perchè questo atto non sarebbe se non
la moltiplicazione della coscienza all'infinito o la riproposizione
all'infinito dello stesso intendere, sarebbe cioè una presenza del­
l'oggetto senza la consapevolezza del suo essere << presente >> ; non
sarebbe veramente << presenza >>. Ciò significa che l'atto dell'essere
consapevoli non si pone sull'atto che presenta ciò di cui si è con­
sapevoli e che l'autocoscienza non è un momento diverso della
coscienza o particolare e conclusivo intenzionamento della co­
scienza stessa e significa, di conseguenza, che nessuna filosofia
può darsi della filosofia, quale ricerca (all'infinito) del criterio stesso
del filosofare, perchè tale ricerca non potrebbe che riproporre se
stessa senza mai pervenire alla sua soddisfazione : non v'è un
problema filosofico della filosofia, perchè non v'è una coscienza
CAPITOLO SECONDO

della coscienza come atto in sè concluso ed oggettivante ed il


problema che la filofosia pone di se stessa è solo e tutto interno
alla filosofia, così come l'autocoscienza è ancora l'intera coscienza,
l'intero della coscienza.
Quell'intero che è la coscienza si mantiene, dunque, entro i
limiti invalicabili dettati dalla presenza che è, simultaneamente
ma non congiuntamente, la cosa e il sapere questa cosa, la rela­
zione in atto epperò indisgiungibile di presenza come cosa che si
presenti e di presenza come persona a cui la cosa si presenta ; ed
esso si mantiene purchè non lo si riduca ad apparenza e non lo
si risolva in Assoluto.
E non di posizione intermedia tra due limiti si tratta, bensì
della consapevolezza dell'invalicabilità di questi limiti, che è
ancora il mantenersi della coscienza in se stessa, il muoversi stesso
della coscienza che rivela a sè l'impossibilità duplice di dirsi solo
« apparente >> o senz'altro << assoluta >>. Essa non è sapere appa­
rente, perchè << è >> e, se non fosse, nessuna cosa potrebbe mai
dirsi che sia ; e non è sapere assoluto, perchè abbisogna di attuarsi
come processo che, pur rimanendo all'interno di un invalicabile
limite, tuttavia permane come divenire.

§ 8. - La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto .


La realizzazione (l'attualismo come attualismo puro) .

Non si può dire che il pensiero realizzi una realtà, nel senso
che esso renda << reale >> qualcosa che è solo << possibile >>, perchè
quella stessa possibilità è pensiero e la realizzazione di essa è
ancora il pensiero della sua possibilità. Si dovrebbe, allora, poter
dire che il pensiero, realizzando una possibilità come pensiero di
tale possibilità, realizza se stesso ; ma una realizzazione di sè
suppone che il pensiero sia solo realizzazione e mai realtà, mentre
il pensiero << è >> epperò è reale ; comunque la realtà del pensiero
venga pensata, essa << è >> , e la realizzazione stessa o è realtà che
non si realizza o è realizzazione all'infinito che non può essere mai
realtà se consiste tutta nel suo farsi.
La realtà come realizzazione si presenta come un concetto
particolare di realtà che, all'interno di una nozione più ampia
ed anzi la più ampia, distingua quella realtà che consiste nel­
l'<< essere >> che non abbisogna di venire realizzato e quella realtà
che consiste nella << realizzazione >>, la quale è solo come attò, e
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 57

quella realtà che consiste nell'<< essere >> che può venire realizzato.
Il quale atto propriamente non può dirsi << reale >>, nè << rea­
lizzabile >>, nè << realizzato >>, ma atto e basta, irriducibile a qual­
siasi concetto ; per cui la distinzione di esso dagli altri concetti
di << realtà >> è, piuttosto, la negazione che esso sia un concetto
di realtà e quella nozione piu ampia di « realtà >> è solo astratta­
mente la più ampia, perchè solo astrattamente comprensiva e
della realtà e della realizzazione e del realizzato e dell'atto che
non è realtà nè realizzazione nè realizzato.
L'atto non è, infatti, pensabile se esso è il pensiero e il pen­
samento di esso è appunto quella nozione ampia che è tale solo
astrattamente e che è l'<< essere >> nella sua formulazione generica
ed astratta.
Dire che anche il pensiero << è >>, epperò è << reale >>, e che, di
conseguenza, il concetto di << realtà >> (o di << essere >>) è il più am­
pio e fondante, significa porre il pensiero, che è atto, al di là della
sua posizione, significa << pensare >> che il pensiero << è >>, significa
ancora affermare l'atto del pensiero che assume se stesso come
essente e, come tale, si assume.
Il pensare come atto è, così, in qualsiasi pensamento ed anche
nel massimo pensamento che è il pensamento dell'<< essere >>, l'atto
che non può venire pensato.
E l'atto che non può venire pensato viene per se stesso pen­
sato come impensabile (1) e come tale si mantiene di fronte a se
stesso, ma ciò non contraddice all'impensabilità, perchè è solo e
sempre affermazione dell'impensabilità.
E chi crede di intravvedere una contraddizione nella affer­
mazione (pensiero) dell'atto come pensiero impensabile scambia
l'impensabilità dell'atto con l'impensabilità di tale impensabilità ;
ma l'atto si rivela << impensabile >> solo di contro al pensiero e
l'impensabilità è negazione di ciò che esso non è, e l'atto, in se
stesso, non è negazione.
Perciò, chi crede di vedere nell'attualismo una contraddizione
si contraddice, perchè suppone che quel pensiero che pensa l'im­
pensabilità del pensiero sia' quello stesso pensiero che è impen­
sabile e suppone questa identità perchè riduce l'impensabilità a
un concetto positivo (ad un pensiero analiticamente posto), dimen-

(r) L'impensabile di cui si parla qui non è l'inoggettivabile, ma l'anapodittico,


in quanto è contraddittorio che si pensi ciò in virtù di cui si pensa : l'atto, il fonda­
mento.
CAPITOLO SECONDO

ticando che l'impensabilità è solo negazione (dialettica) della pos­


sibilità di venire pensato e questa negazione non è un concetto,
bensì la sua negazione : il concetto di negazione è negazione del
concetto ; il concetto del nulla è, infatti, il nulla di ogni concetto.
Così la contraddizione non è tanto nell'attualismo, quanto nella
sua formulazione monistica.

§ g. - La realizzazione come negazione e come posizione. (L'attua­


lismo monistico come naturalismo) .

Se il pensiero è atto, nulla sta di contro ad esso, ed il natura­


lismo della realtà distinta od opposta al pensiero è la dicotomia
contradditoria del pensiero separato da se stesso ; ma anche nulla
sta dentro ad esso e l'attualismo come assoluta posizione del pen­
siero che pone se stesso è l'assunzione di quella dicotomia in asso­
luto e non, come pretende di essere, il superamento di quella con­
tradditoria dicotomia.
Infatti, distinguere dentro, il pensiero, il pensiero come atto e il
pensato come ciò che tale atto, pensando, in se stesso pone, rea­
lizzandosi, significa riprodurre all'interno del pensiero quella dico­
tomia che si riscontra al livello del naturalismo ; ma, interna od
esterna al pensiero, quella dicotomia resta dicotomia e il na­
turalismo resta naturalismo indiscutibilmente.
Del resto, il riconoscimento della contraddizione naturalistica
è già pensiero e il pensiero che riconosce tale contraddizione non
la risolve e assumere il pensiero della contraddizione come solu­
zione della contraddizione equivale a dire che la contraddizione
si risolve da sola, cioè che quella contraddizione è solo apparente
e l'attualismo sarebbe, di conseguenza, solo apparentemente vero.
Se non si può dire che la realtà stia di contro al pensiero (fal­
lacia naturalistica) , nemmeno si può dire che essa stia nel pen­
siero (fallacia monistica), perchè solo nel pensiero sarebbe dato
di cogliere una realtà di contro al pensiero e il naturalismo si
pone nello stesso attualismo monistico con il porsi dell'opposi­
zione al pensiero nel pensiero che ne è consapevole.
Con che resta escluso che il pensiero in assoluto possa superare
il naturalismo, risolvendone la contraddizione, perchè lo stesso pen­
siero naturalistico si pone nel pensiero e il pensiero di esso non
è che la sua posizione e assolutizzare tale pensiero equivale ad
assolutizzare quella posizione e il naturalismo non è superato,
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 59

ma riprodotto ad un livello che lo mantiene all'infinito : assu­


mere la contraddizione in assoluto non è risolvere la contraddizione
nell'assoluto, ma riproporre la contraddizione assolutamente, cioè in-
·

definitamente.
In tal modo, è dato riscontrare che il presupposto naturali­
stico è presente e perciò operante (o, meglio, inibente) nella stessa
posizione che ne inficia la validità, perchè, ove la posizione oppo­
sta venga pensata come monismo, cioè come assoluta unicità,
quell'opposto ad essa che è il naturalismo diventa ad essa essen­
ziale e, come tale, si mantiene con il porsi dell'assoluto, perchè
si pone in assoluto o, ed è lo stesso, l'assoluto viene pensato co­
me il porsi stesso della opposizione che è i due termini insieme,
e l'uno e l'altro, inscindibilmente.
Così, coerentemente, l'attualismo monistico è anche naturali­
smo, avendo bisogno di esso per sorgere e per negarlo ; ma è evi­
dente che in tanto può sorgere da esso, o insorgere su di esso,
in quanto lo nega e, perciò, o sorge senza negarlo (e lo porta in
sè) o lo nega senza mai sorgere e separarsi da esso (e così, negan­
dolo, si nega) .

§ ro. - Il rapporto tra atto ed aggettivazione, tra presenza e presen­


tificazione.

Nella funzione ( attività) del pensare è implicita la funzione


=

dell'<< oggettivare >> e nell'oggettivare si rivela con chiarezza l'emer­


gere del pensante come tale sulla propria attività e sul termine
di essa che è l'oggetto : non è possibile, cioè, che nel pensare si
pensi veramente il pensante, che il pensante sia oggetto (sarebbe
oggetto di se stesso) .
Si ha così il profilarsi di due presenze indicate da una mede­
sima parola (l'aggettivazione) : r) la presenza della. << cosa >> come
oggetto che è di << esperienza >>, il quale oggetto non può inglobare
il pensante (questa presenza è totalmente << presentificata >> al pen­
sante) ; 2) la presenza del pensante che attua la presentificazione
e non può, perciò, venire presentificato ; quest'ultima presenza è
necessariamente implicata dalla prima, assolutamente irriduci­
bile ad essa.
Sorge allora il problema di come sia possibile << dire >> la presenza
implicata del pensante, se << dire >> è presentificare, in qualche
modo << oggettivare >> : non basta ovviamente dire che la presenza
6o CAPITOLO SECOND O

del pensante è implicata dalla presenza del pensato, perchè la


implicazione è, a sua volta, pensabile per i termini implicante­
implicato ed è in questione precisamente la possibilità di dire
il termine implicato.
Ciò che va preso in esame è appunto il modo di << essere pre­
sente >>, che è, a rigore, il modo d'essere della presenza, ossia
l'essere nel suo << presentarsi >> ; dico nel suo presentarsi e non nel
suo << venire presentato >>, perchè il << presentarsi >> è intrinsecamente
indicativo della duplice presenza che è la cosa pensata e l'atto
del pensarla, duplice presenza non divisibile, perchè non sarebbe
pensabile l'eventuale divisione se non per un atto indivisibile che
dia in uno la divisione e la presenza divisa, atto indivisibile che
è il pensiero. Questo pensiero è, allora, l'essere nel suo presentarsi,
c iò che diciamo semplicemente << presenza >> .
In questi termini risulta abbastanza evidente che la presenti­
ficazione, come funzione implicita dell'oggettivare, non è l'intrin­
seco costitutivo del pensare, ma è tale da essere pienamente con­
dizionata dall'atto essere-pensare : si può << presentificare >> qual­
cosa in quanto sussiste una presenza che è lo stesso presentarsi
dell'essere, che è lo stesso essere del pensiero.
L'esito di questo nostro discorso è teoreticamente importante
in un duplice ordine di aspetti : da una parte si ridimensiomt la
portata del discorso attualistico, articolato tutto sulla impossibi­
lità di oggettivare l'atto (il pensante non può decadere a pensato) ,
perchè l'atto non può venire oggettivato ( presentificato) solo
=

in quanto non ne ha bisogno essendo sempre presente, essendo


anzi la stessa presenza (essere-pensare) ; dall'altra, si elimina ra­
dicalmente la pretesa di una filosofia che rinunci a se stessa in
base alle difficoltà originate dal linguaggio, dove il linguaggio nel
suo uso comune si riveli inadeguato a << dire >> interamente ciò che
deve venire detto, perchè non è necessario dire la << presenza >> che
è l'atto nello stesso senso in cui si dicono le cose presenti ( presen­
=

tificate) , anche se la parola per dire la presenza nel senso del­


l'atto è la medesima parola che dice la presenza nel senso del
dato, della cosa presentificata. In effetti, va << penetrata >> questa
parola per coglierne, dietro le resistenze provocate da immagini
indotte, quella << intenzionalità >> intrinseca al pensiero, per la
quale non va contrapposto o giustapposto qualcosa ad esso, ma
qualunque cosa per esso si pensi è se stessa nel suo venire pensata,
è se stessa a prescindere dal suo eventuale venire << oggettivata >>.
Proprio per l'intenzionalità, la funzione dell'oggettivare-
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 6r

presentificare si rivela inessenziale in quanto non intrinseca al


pensiero come atto, intrinseca tuttavia alle << rappresentazioni ))
nelle quali si struttura via via il linguaggio. La funzione del pen­
sare non è, dunque, << presentificare )) la cosa, ma assumere la
cosa nel suo intrinseco presentarsi ; e la cosa non si presenta in
quanto assunta dal pensante, ma è veramente (= effettivamente)
assunta dal pensante, perchè essa stessa attua il proprio presen­
tarsi ad esso.
Il rapporto che dice la presenza a se stesso del pensante non
è, perciò, considerabile alla stregua del rapporto che dice il pre­
sentarsi della cosa al pensante, solo se si riduce ogni presenza al
<< venire presentificato )), riduzione, s'è visto, impossibile : il pen­
sante non può venire presentificato perchè esso è sempre presente,
come sempre presente è l'essere, onde si ha la duplice conversione
dell'atto di pensare nell'essere e dell'essere nel suo << presentarsi )).
Questa conversione è, in effetti, la radice teoretica della << inten­
zionalità )) la quale, cosi, non è un rapporto tra il pensante e il
pensato, ma è piuttosto l'essere stesso del pensante nel suo rap­
portarsi al pensato ed anche l'essere stesso del pensato nel suo
darsi come tale al pensante.
Parleremo, dunque, di una << presenza intenzionale )), e che è,
piuttosto, una totale assunzione della cosa, la intenzionalità che,
lascia essere la cosa nel suo essere presente : non ha bisogno, così
il pensiero di << cercare )) la cosa uscendo da se stesso, perchè lo
stesso oggetto-intenzionato non cade fuori dalla posizione pura
dell'atto in atto ; << oggetto intenzionato )) significa semplicemente
I'intenzionalità dell'oggetto : la penetrazione totale della cosa nel
suo essere considerata tale.

§ II. - Importo teoretico dell'espressione << Verum et esse con­


vertuntur )) (r) .
La ratio del loro convertirsi l'uno nell'altro è, ovviamente,
l'identità di ciascuno dei due con l'altro ; il che significa che essi
nel loro essere idem, sono tali che è possibile ed anche necessario
distinguerli tra loro come verum et esse.
Ma la congiunzione verum et esse suppone proprio ciò che la
conversione stessa nega, e la conversione suppone quella con-

( r ) Si veda l'interpretazione che ne da G. GENTILE, (Sistema ecc., cit., I, r,


I r) riferendosi al RosMINI, (Logica, n. 1048 e n) .
62 CAPITOLO SECONDO

giunzione per cui, più che di identità, si dovrebbe parlare di iden­


tificazione, di processo, cioè, consistente nell'attuarsi del ricono­
scimento dell'identità ; per il quale riconoscimento, l'identità
preceda e condizioni la validità del processo (riconoscimento di
qualcosa che è come viene riconosciuto) e, tuttavia, segua quel
processo perchè riconoscibile solo in esso e per esso.
Ma come è possibile che il verum e l'esse siano due se sono idem
tra loro ? E come è possibile dire che essi convertuntur se non
sono tra loro idem ?
Se penso l'esse e il verum come due, l'esse non essendo il
<� vero )} è affatto impensabile e il verum, non « essendo )>, è pari­
menti impensabile. La contraddizione inerente a questa duplice
impensabilità impone, dunque, una chiarificazione del termine
« pensiero )} : il pensare vi viene assunto equivocamente come
riconoscimento di qualcosa che è e come aggiunzione di qualcosa
che non è senza il pensiero.
r . Se il pensare è lo stesso verum in cui l'esse si converte, pen­
sare è semplicemente questo convertirsi e, tuttavia, è aggiunzione
della conversione all'esse, perchè è appunto nel pensiero che l'esse
si rivela verum.
2. Se il pensare è il prendere atto di ciò che è, ossia semplice­
mente il riconoscere, il convertirsi dell'esse nel verum <� è )} a pre­
scindere dal fatto che venga pensato ; e cioè il convertirsi stesso
è l'esse nel verum ; ed anche, come convertirsi dell'uno nell'altro,
non è questo nè quello. E v'è così un'eccedenza del pensiero sul
convertirsi nel pensiero dell'esse, eccedenza per la quale il pen­
siero è atto ed è procedimento ; atto, ossia indivisibile consapevo­
lezza di ciò che è, procedimento, ossia passaggio e quindi divi­
sione dei momenti di quel convertirsi che domanda la dualità
tra ciò che si converte e ciò in cui la conversione avvenga.
Il convertirsi è dunque una <� dimostrazione )}, perchè è un
procedimento che suppone (come ipotesi) la possibilità della sua
negazione : dire che il verum e l'esse sono uno equivale a dire che
non è vero che siano due come appare dalla loro congiunzione ;
equivale a dimostrare cioè che la loro congiunzione è solo fittizia.
D'altro canto, la conversione potrebbe venire dimostrata solo
come questione della legittimità del problema della conversione stes­
sa e se il convertirsi dell'esse nel verum fosse da dimostrare, la di­
mostrazione stessa potrebbe valere solo in base a quel convertirsi,
chè una dimostrazione è vera solo in quanto v'è ciò che essa dimostra.
La formula di congiunzione <� verum et esse )}, si chiarisce come
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 63

formula di identità << verum est esse >>, identità che non abbisogna
di venire dimostrata ed è tuttavia dimostrabile, dimostrabile nella
forma della negazione del negativo che è l'impensabilità dell'ipo-,
tesi opposta : << verum non est esse >>, ossia << non verum est esse >> e
<< non esse est verum >>, e << non esse est >> (l'assurdo del nulla che è) .
E si ha così anche occasione di chiarire che della dimostrazione
si danno due tipi : r) la dimostrazione che è il fondamento, quale
situazione metafisica ; 2) la dimostrazione della indimostrabilìtà
del fondamento (l'apodissi dell'anapoditticità) .
Il nostro discorso sul pensiero della conversione dell'esse nel
verum importa una posizione da cui si parta per parlare di pen­
siero in cui la conversione avvenga è il pensiero che è la stessa
conversione in atto. Questa distinzione è appunto solo iniziale e
non va mantenuta, perchè il pensiero non è solo il piano su cui
la conversione avviene, ma è la stessa conversione in atto.
Come piano di conversione o unità implicata, la funzione del
pensare è inconvertibile nella congiunzione di << verum et esse >>,
ossia irriducibile alla conversione stessa ; e il vero vi appare come
modo d'essere nel pensiero ; ma, poichè non è possibile, per la
conversione stessa, che l'essere non sia vero, l'essere non è tale
se non è anche pensiero ; chè, se si volesse affermare l'indipen­
denza dell'essere dal pensiero, si dovrebbe poter dire che non ogni
essere è vero. E allora il pensiero, che si annuncia piano di con­
versione, su cui la conversione avviene, risolve in se stesso questa
conversione, è l'atto stesso della conversione. Risoluzione in cui
è dato enunciare : r) La unità implicata dalla dualità non è estra­
nea alla dualità implicata e, quindi, è da esplicitare, non da dimo­
strare ; 2) non vi può essere vero pensiero che non sia pensiero
del vero e, quindi, l'errore non è pensiero (ateoreticità dell'errore).
Non è, perciò esatto dire che l'essere è intelligibile, poichè
ciò suppone che si possa pensare l'essere, che si possa anzi indicare
l'essere come << qualcosa-che-è >> ; si dovrà dire, piuttosto, che
l'intelligibilità degli enti, il loro intrinseco essere pensabili, è l'es­
sere, e che, quindi, il loro effettivo venire pensati si mantiene nel
loro costitutivo essere pensabili, nel senso che nulla apporta loro
il nostro pensamento, l'attività del prenderli in considerazione.

§ 12. - La metaforicità intrinseca della parola.


Pensiero, perciò, non è rappresentazione, la quale è inconver­
tibile nell' <<essere >> se l'essere è << presenza >>.
CAPITOLO SECONDO

La rappresentazione, nel suo essere << ripresentazione », è anche


<< figura >> e come tale si pone nella forma del simbolo. Caratteri­
stica operativa del simbolo è la sostitutività : l'operazione sul reale
è, in effetti, operazione sui simboli, che sono << segni tipici >>, per
usare l'espressione del Blaèk (r), e che vanno perciò usati in modo
che possano venire interpretati. Uso ed interpretazione sono stret­
tamente connessi nel simbolo, sono anzi, a rigore, il modo d'es­
sere proprio del simbolo, cosicchè il simbolo è da un canto la
regola stessa del suo uso, dall'altro la necessità di venire inter­
pretato.
Non è qui luogo di uno studio sui simboli, ma ci basta rilevare
che l'uso e l'interpretazione del simbolo non possono costituire
problema, al livello filosofico puro, se non può pensarsi un sim­
bolo che non sia utilizzabile ed interpretabile. Si vedrà a suo tempo
che l'uso e l'interpretazione sono, in realtà, la medesima cosa , ·
purchè l'uso venga portato alla sua piena consapevolezza.
Prescindiamo intanto dalle possibili suddivisioni dei simboli in
<< segni convenuti >> per analogia, o per associazione e ideografia,
o per allusione, e consideriamo del simbolo il carattere fondamen­
tale della rappresentatività, per il quale non è possibile confon­
derlo con il << concetto >> che è << presenza >>.
La rappresentatività che è del sinbolo è anche struttura del
<< mito >>, dove questo sia inteso come segno di cosa << nascosta >>
(come altro rispetto al suo segno) (2) . Il mito è cosa adombrata
ed è caratterizzato dalla << verosimiglianza >> (3) che lo connette con
la verità e stabilisce in che senso lo si possa capire.
Non interessa qui l'aspetto genetico del mito, onde stabilire
che cosa determini il suo insorgere nella realtà umana e la do­
manda del perchè si elabori il mito cade fuori della presente ri­
cerca. Ora, infatti, che il mito sia il tentativo di rispondere per via
immaginativa a domande che investono la realtà nei suoi fonda­
menti equl.vale a dire che il mito rivela esigenze e bisogni del­
l'uomo e che è, perciò, anche una proiezione dell'uomo nella realtà.
Con ciò si sa solo che il mito .rivela l'uomo, non si sa ancora quale
ne sia l'intima struttura.
In ogni caso, l'elaborazione del mito si attua dove non si possa

(r) Cfr. M. BLACK, Language and philos., VI, 2 ; trad. it., p. r 8 I .


(2) Da (LUC» ( = nascondo)
(3) Cfr. PLATONE, Gorgia, 523 a ; la verosimiglianza è tipica del discorso umano
(PLATONE, Tim . , 29 d) , ed è via alla « persuasione ».
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 65

procedere a dimostrare ciò che si dice : ci si affida a garanzie


che non possono pretendere all'evidenza e che si pongono perciò,
di forza, al posto dell'evidenza. Di qui il fatto che il mito affidi
il suo credito alla tradizione, la quale è tanto più attendibile
quanto più antica (più vicina alle origini) ed in modo tale che
l'antichità diventa il criterio di verità : di qui gli elementi con­
nessi : l'iniziazione come forma di comunicazione, la immobilità
come condizione di validità.
L'interpretazione del mito, identica alla piena consapevolezza
del suo uso, equivale insieme alla sua valorizzazione ed al suo
superamento : si valorizza il mito trovando in esso la presenza
della cosa che esso adombra o << nasconde ,>, si supera il mito to­
gliendo ad esso la pretesa di indicare una realtà effettivamente
esperibile (o pensabile) . L'interpretazione è, essenzialmente, una
lettura in cui il mito è segno di cose che vanno oltre le esperienze
e tali da rivelare il valore.
Già nel caso del mito si annuncia la distinzione teoreticamente
importante tra il reale ed il vero : reale è ciò che in qualche modo
<< è ,>, vero è il valore di ciò che << è ,>, di modo che non tutto ciò
che si presenta ha, perchè si presenta, un valore ; e l'atto critico
si giustifica proprio in questa necessità di giustificare il reale
con il vero, che è necessità di togliere a determinate << rappresen­
tanzioni ,> la pretesa di valere come << presenza ,>, alle << immagini ,>
la pretesa di valere come << concetti ,>.

5
CAPITOLO TERZO

SoMMARIO : I . La " cosa stessa » come l'intero di se stessa. - 2 . L'identità pensare­


essere. - 3· Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola
" cosa ». - 4· La duplice funzione della parola " cosa ». - 5· Le condizioni
ad un'indagine critica. - 6. L'atto critico o negatorio come atto di pensiero .
nella coscienza. - 7· La ricerca del mezzo logico adeguato e l'interrogazione
- 8. I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi. - g. La ridu­
zione pretesa del " sapere » al " potere » e il concetto ateoretico di " teoria ». -
IO. L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti. - I I . La teoria come for­
mulazione generale. - 1 2 . La radice dell'interpretazione matematicistica. -
IJ. Le condizioni imposte dal concetto d'interpretazione. - 14. Il carattere teore­
tico del controllo sull'esperienza. - 1 5 . Lo spostamento dtl limite come essen­
ziale alle determinazioni. - 16. La determinazione come ritorno dell'atto : tota­
lità di definizione e totalità di esaustione. - I 7. La totalità di definizione come
" essenza ». - r 8 . L'atteggiamento fondamentale umano operante nella defi­
nizione concettuale. - 19. Il modo indiretto di dire l'essenza.

§ r. - La « cosa stessa » come l'intero di se stessa.

La piena consapevolezza di una cosa è, dunque, quella cosa


nella sua interezza ; nel caso del linguaggio la consapevofezza
<< piena >> di esso è la consapevolezza di che cosa << è >> il linguaggio ;
il linguaggio consaputo nella sua << essenza >> ( 1) . E si potrebbe evi­
tare un discorso intorno all'essenza del linguaggio solo se si po­
tesse evitare la domanda intorno ad esso, la quale, invece, è
presente almeno nelle varie asserzioni intorno ad esso.
Di qui l'importanza fondamentale che nel linguaggio consa­
puto acquistano le parole << intero >>, << pienezza >>, « domanda to­
tale >>, << totalità domandata >>, << essenza >> ; importanza che è
una cosa sola con la criticità della consapevolezza al livello teore­
tico e non meramente teorico ; e, pertanto, la necessità di proce-

(i) La parola " essenza » è qui presa nella correlatività alla domanda nella sua
struttura : al " ·rlÈa't'LV >> ; al " che cosa è ? ».
68 CAPITOLO TERZO

dere a stabilirne il senso, ossia l'aspetto sotto il quale è possibile


usare di esso senza involvere contraddizione.
Ora la ricerca della piena consapevolezza, ossia la domanda
della totalità di una cosa, suppone, in ogni caso, nota la cosa
di cui è domanda, epperò la domanda intorno alla nozione di
<< cosa >> è impossibile se la si pone in modo << assoluto >>, come esclu­
sione, cioè, di qualsiasi presupposto ; non è possibile chiedersi
<< che cosa >> sia la << cosa >>, perchè con tale domanda si userebbe
la risposta stessa come domanda : non si domanderebbe nè si
risponderebbe.
La domanda intorno a qualsiasi cosa si serve, infatti, della
nozione di << cosa >> e la stessa ricerca della genesi della nozione
di << cosa >> non può prescindere dall'uso della nozione << cosa >>.
La quale nozione è convertibile in una posizione indeterminata ;
<< cosa >> e << indeterminato >> sono il medesimo, sono cioè il modo di
dire ciò che esce dalla possibilità di venire << detto >> : l'assenza
di determinazioni, che è assenza di termini esperibili e comunque
semanticamente presenti nell'asserzione, in qualsiasi asserzione.
L'indeterminato non è qualcosa-che-ha-la determinazione-della­
indeterminatezza, ma è appunto assenza di ogni ( = qualsiasi)
determinatezza ; l'assenza non è però indeterminata, ma deter­
minatamente << assenza >>, che è la negazione di una presenza do­
vuta, e constatabile proprio perchè << dovuta » : l'assenza non è se
non come il rilevamento di una determinazione mancante, epperò
di una determinazione insufficientemente presente, ma pure << pre­
sente >> in qualche modo per potersi dire << mancante >> o << dovuta >>.
Con ciò, il livello in cui è dato stabilire la mancanza della
determinazione non può essere il medesimo livello in cui se ne
stabilisce la innegabile << presenza >>, ossia, appunto, l'essere stesso
di quella determinazione che si constata mancante ; perciò, se il
livello della constatazione di una mancanza è quello dell'espe­
rienza-analiticità della << cosa >>, il livello della << nozione >> o << pre­
senza >> della determinazione che manca è quello che consente il
rapporto costitutivo della cosa come essa si presenta di fatto e di
volta in volta e come essa deve essere. Ma, riguardo alla pat ola
<< cosa >>, che è l'<< indeterminato >>, l'assenza della determinazione è
totale e, perciò, il piano della constatazione delle determinazioni
mancanti è inglobato tutto in quello della loro << presenza >> e non si
ha la cosa come << è >> di fatto e la cosa come essa << deve essere >>, ma
la cosa è tutta come non deve essere, perchè totalmente destituita
delle sue determinazioni : non è possibile il confronto, pur impli-
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 69

cito, tra la cosa e le determinazioni che le mancano, perchè manca


tutto della cosa e la cosa, perciò, non << è >>, epperò non è confronta­
bile. A rigore, quindi, nemmeno è dato sapere che cosa le manchi,
perchè non è possibile stabilire che cosa non le manchi : mancan­
dole tutto, di essa nulla può venir detto, nemmeno che è << qual­
cosa >> e se, tuttavia, si dice che è una << cosa >> , si indica con la
parola << cosa >> questo suo non essere ; e la parola << cosa >> è il modo
positivo di dire il puro negativo, modo << costruito >> e tutto interno
al suo venire costruito (1).
Appunto, perchè non è possibile pensare il niente (sarebbe
non-pensare), il << niente >> (il non-ente) è pensabile solo in quanto
si costruisce la << nozione >> di qualcosa, solo, cioè, come costru­
zione che si avvale, come qualsiasi operazione, di termini presup­
posti. E si profila ora il problema di come sia possibile costruire
la nozione di << cosa >> , se ogni operazione suppone che vi sia << qual­
cosa >> su cui operare, chè operare sul nulla non è possibile e l'ope­
razione è qui piuttosto il pervenire al << nulla >> mediante la sot­
trazione progressiva di determinazioni previamente assunte, an­
zichè una costruzione di termini.
Sottrarre progressivamente, del resto, importa che rton si
sottragga mai totalmente, perchè il procedimento aprirebbe quella
serie indefinita (il progressus in indefinitum) che è anzi contrad­
dittoria (cfr. p. 21) : non v'è un termine ultimo della sottra­
zione e, perciò, il termine al quale di volta in volta si perviene
funge da ultimo od è considerato come ultimo. Così, se è la sottra­
zione di tutte le determinazioni ad originare la nozione di << cosa >>,
e se la sottrazione di tutte le determinazioni non è possibile, l'unico
modo di togliere tutte le determinazioni è di considerare la cosa
come se si potesse pervenire a toglierle tutte le determinazioni.
Questo << come se >> si serve, ovviamente della nozione di to­
talità il cui opposto è, come totale assenza, il nulla ; ma, appunto
perchè il nulla è totale assenza, esso è la totalità delle determinazioni
considerate come non-essenti, considerate tuttavia e poi annul­
late come entro una parentesi a carattere << psicologico >> , paren­
tesi riguardante l'atteggiamento in cui si colloca chi considera la
cosa ; si ha, dunque, non proprio una opposizione tra totalità

( 1 ) Si noti che il carattere " operativo " della parola " cosa » è detto dalla sua
stessa etimologia : " cosa » è dal latino " causa », indicante, cioè, un'azione ; il
greco ha l'espressione n;pciy(Lcx, indicante la " cosa compiuta », " fatta ».
CAPITOLO TERZO

presente (l'essere) e la totalità assente (il nulla) , perchè la tota­


lità assente è ancora la totalità (presente) considerata come as­
sente (r) e questa considerazione, avendo carattere psicologico, non
si oppone ad altro : si opporrebbe ad altra considerazione, se­
nonchè le considerazioni non si succedono, si sostituiscono, non si
oppongono (per opporsi dovrebbero coesistere e si dovrebbe proce­
dere considerando in opposizione a se stessi : contraddirsi, appunto) .

§ 2. - L'identità pensare-essere.

Poichè pensare è sempre pensare qualcosa (<< io penso che . . . >>) ,


i l pensiero non abbisogna di << costruire >> n è d i << cercare >> ciò di
cui è pensiero : non c'è problema del rapporto tra pensiero ed
essere, proprio perchè manca la possibilità di qualsiasi rapporto tra
di essi, ciascuno dei quali sussistente nell'altro, ciascuno dei due
convertibile nell'altro e perciò non propriamente << altro >>.
Tale impossibilità di pensare un rapporto pensiero-essere vale
come fondazione dell'identità essere-pensiero, che è anche l'iden­
tificarsi dell'uno nell'altro, di modo che l'altro è tolto come << al­
tro >> non appena lo si pensa per quello che esso << è >> : se si pensa
il pensiero per quello che esso << è >>, si pensa l'<< essere >>, pensando
l'essere del pensiero ; se si pensa l'essere come << essere >>, pensando
di pensare l'essere, si pensa il << pensiero >> nel suo essere tale ; nè
dall'essere si passa al pensiero nè dal pensiero all'essere, se il << pas­
sare >> è pensabile solo come pensiero che << è >> ed è tale ; << passare >>
dovrebbe valere uscire dall'uno per entrare nell'altro e questo
uscire e questo entrare sarebbero << pensiero >> e si pensorebbero
perciò come << essere >> ; del resto uscire è anche entrare in altro,
non due atti, ma un atto solo.
Con ciò, il rapporto pensiero-essere non si << costruisce )), nè si
<< cerca >> , ma, piuttosto, si toglie ; ma lo si toglie dopo averlo tut­
tavia presupposto, ossia considerato inizialmente come reale e
vero, proprio perchè si distingue nel linguaggio tra << pensiero >>
ed << essere >> e si distingue in modo che si è poi costretti a provare,
con un ragionamento (che è quello fatto sopra) che essi non si di­
stinguono, ossia che il linguaggio non rispetta la loro identità e

( r ) Cfr. G. R. BACCHIN, Su le implicazioni teoretiche della struttura formale,


ci t. , pp. 52-58 ; con ulteriore approfondimento in Originarietà ecc., cit., p. r6.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 7I

che, se si vuole ritrovare tale identità, bisogna forzare appunto


il linguaggio, eliminare la semantizzazione da esso operata.
A questo punto va dunque cercata l'origine della distinzione,
ossia il motivo della duplice semantizzazione propria del linguag­
gio : << pensiero 1> ed << essere 1> ; per quale ragione si usano due pa­
role per dire la medesima cosa ? Si sa che storicamente la radice
della distinzione, proposta in termini di verum et esse, venne in­
dicata nel rapportarsi dell'essere all'intelletto, donde il << verum 1>,
ciò che diciamo << pensiero l> (e il rapportarsi dell'esse alla volontà
sarebbe il << bonum 1>) . È abbastanza evidente che tale rappor­
tarsi non può riguardare l'essere (che è tale anche per l'intelletto
nonchè per la volontà) e che, perciò, deve riguardare gli enti nel
loro diverso disporsi nei confronti dell'esperiente-conoscente, per
cui la radice della distinzione dovrebbe essere di natura psicolo­
gica o quanto meno fenomenologica.
L'intelletto sarebbe, così, considerante l'essere come verum
(= pensiero) e la volontà sarebbe appetente il medesimo essere
come bonum e l'intelletto, ancora, dovrebbe considerare se stesso
e la volontà come radici degli aspetti dell'essere o come rilevanti
la radicale diversità di questi aspetti tra loro. Con questa distin­
zione, la differenza fra intelletto e volontà può venire chiamata
in causa solo in rapporto alla presenza dell'essere in quanto << rap­
presentato 1> dall'esperiente, cioè in quanto è istituito un qualche
rapporto con l'essere.
Ma il rapporto con l'essere è possibile solo dove l'essere venga
considerato come un ente, dove cioè sia venuto meno l'intrinseco
modo di dirlo nella negazione di poterlo dire per se stesso. Se,
dunque, da una parte non è possibile un rapporto con l'essere,
dall'altro, è possibile considerare l'essere come un ente solo nella
<< intenzione 1> di istituire un rapporto con l'essere. Questa ultima
possibilità però non è legittima ed è anzi tutt'uno con la possi­
bilità di errare : è l'errore come possibile, come tale da doversi
evitare.
A questo punto vi sono due vie da battere nella nostra ricerca :
1) la posizione della dualità pensare-essere nella forma del con­
vertirsi del << verum 1> nell'essere 1> ; 2), la ricerca della genesi del
rapporto istituito, per il venir meno dell'intenzionalità, tra l'espe­
riente e l'essere (di cui non si dà << esperienza 1> ). Il rapporto con
l'essere è la << rappresentazione l> ed è in termini di << rappresenta­
zione 1> che si può parlare ancora di << cosa l> nel senso in cui se ne è
parlato sopra.
CAPITOLO TERZO

§ 3· - Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della


parola << cosa >>.

Se il pensiero è intrinsecamente essere, non si può più dire


che esso sia un orientarsi all'essere od un rapportarsi ad esso : il
pensiero, essendo l'essere stesso di cui è pensiero, non si dirige al­
l'essere come al suo termine e, perciò, non può dirigersi a se stesso
reduplicandosi come pensiero sul pensiero. Nello stesso senso in
cui il pensiero è essere, il pensiero non può porsi su se stesso, senza
essere già se stesso anche in questo sovrapporsi che è la sua rifles­
sione. Ma dove il pensiero, che è già intrinsecamente riflessione
o non è pensiero, che è già << autocoscienza >> o non è << coscienza >>,
venga distinto dal suo stesso atto e si ponga una dualità tra l'atto
del pensare e ciò di cui l'atto è pensiero, il pensiero si avvolge
in un processo senza termini e che è circolare in quanto total­
mente indicato in ogni suo momento : il pensiero del pensiero del
pensiero (penso che penso che penso . . . ) : dove si ponga la rifles­
sione e si sdoppi l'atto del riflettere, la riflessione continua a sdop­
piarsi senza un termine ultimo.
L'arresto di tale processo che, una volta iniziato, da solo non
si estingue, è dovuto allora all'inserimento di un termine << nuovo >>
rispetto alla riflessione in corso, un termine che segni il punto
in cui è dato di distinguere il pensiero in quanto pensante dal
medesimo pensiero in quanto pensato, distinzione fittizia (proprio
perchè il pensante emerge sempre sul pensato epperò su se stesso) ,
ma senza di cui non sarebbe possibile dire di pensare, dire questa
<< cosa >> : che si pensa.
Ho detto << inserimento >>, ma dovrei precisare che si tratta,
piuttosto, di una esplicitazione se, non appena si pone l'atto
di pensare sul pensare, si distingue il pensiero da se stesso, in se
stesso sdoppiandolo. Ciò che arresta il processo iniziato dal pensiero
sul pensiero è ancora ciò che lo ha pensato, ma solo una volta
consaputo come tale, ossia nel suo venire tamatizzato : il << che >>
del << senso che . . . >> (il << di >> oggettivante) , appunto la << cosa >>.
In altre parole, se il pensiero viene scisso da ciò di cui è pen­
siero, esso non cessa di essere pensiero, perchè è impossibile cessare
di pensare (sarebbe un cessare per un pensiero che lo pensi) .
Ogni riproposizione del pensiero su se stesso non è un amplia­
mento nè un arricchimento nè un approfondimento del pensiero,
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 73

ma solo una reiterazione (r) del medesimo, spostato sempre e man­


tenuto tale. Il pensare è in realtà tutto << pensare >>, atto, non stato ;
atto, non l'oggetto pensante, cosa pensante (res cogitans) , ma la
conversione dell'essere nella sua attualità. Il dire << cosa pensante >>
è pensare (atto) una cosa pensante, la quale << cosa >> è inglobata
e superata in questo atto.
Dove si pensi l'atto e lo si tenga davanti, non si pone l'atto
davanti ad altro atto, di modo che l'atto che è posto davanti di­
venga << oggetto >> di pensiero, ma si sdoppia questo atto stesso in
atto che pone l'atto davanti a sè ed atto che è posto davanti a sè,
di modo che l'uno e l'altro atto si rivelino il medesimo, proprio
in questo << sè >>.
Lo sdoppiarsi dell'atto, dunque, è la radice della << entificazione »
dell'atto, la radice, cioè della considerazione dell'atto come << stato >>
o del decadimento dell'atto essere-pensare ad ente, a << cosa pensante >>
e << cosa pensata >>. Il dire questo atto è, infatti, già sostantivare
l'atto e tale sostantivazione appare chiaramente nell'articolo << il >> :
il pensare, il dire. L'uso dell'articolo nella lingua italiana non si
considera qui come determinante (esso corrisponde alle indica­
zioni esplicite di parole private di desinenza) , ma solo come indi­
cativo della situazione logica del sostantivare che è considerare
l'atto come sussistente, al medesimo modo di quel << reale >> che si
<< pretende >> tale davanti all'esperiente : la sostantivazione è, dun­
que, un'estensione (2) della << sostanzialità >> oltre la sua diretta affer­
mazione, se sostanzialità si dice questo sussistere ; sostantività è
considerazione dell'atto come se sussistesse. Ne segue che è all'in­
terno della sostantivazione che si può distinguere ciò che è sostan­
ziale (il << separato >> da altro, << l'altro >> come separato) da ciò
che non lo è : potremmo dire che il pensiero, che è distinzione in
atto, si attua nella sostantivazione, si attua sostantivando.
Per intenderei, possiamo dire << cosa >> lo <<schema >> della sostan­
tivazione, che è il luogo in cui il pensiero si attua e che senza il
pensiero è nulla : la nozione di << cosa >>, che è nozione vuota se
indica lo indeterminato, è nozione imprescindibile come di uno
« spazio >> logico in cui possono collocarsi i termini stessi del pen-

(1) « Reiterazione » più che « ripetizione », se ripetere è rinnovare la do-


'
=�
(2) Il concetto di « estensione » e l 'azione dello « estendere » verranno presi
in esame più avanti, a proposito di spostamento del limite.
74 CAPITOLO TERZO

siero ed è unità del pensiero che li mantiene tali in se stesso, sepa­


randoli o tenendoli separati tra loro.
In tal modo, la nozione di << cosa )) rivela la sua intrinseca
ambiguità che ne segna anche la fecondità in ordine alla nostra
ricerca : essa indica lo indeterminato come assolutamente insi­
gnificabile e, insieme, la condizione stessa alla possibilità di un
riferirsi del pensiero (che come pensiero è anche essere) , a qual­
cosa di estraneo ad esso, alla cosidetta << realtà )) ad esso esterna
e che si porrebbe a suo contenuto conoscitivo o presenza di cosa
esperita e conosciuta. Così, se da un canto la nozione di << cosa ))
si considera nella sua indeterminatezza ed è puro luogo logico in
cui si collocano le determinazioni da esso inderivabili, dall'altro,
considerando la cosa come << nozione )), essa si dissolve come
<< cosa )) per rivelarsi intrinseca all'atto del pensare, essa << è ))
allora il pensare stesso, lo stesso atto d'essere nella sua intelligi­
bilità.

§ 4· - La duplice funzione della parola << cosa )) .


Perchè la nozione di << cosa )) possa rivelare tutta la sua portata,
è necessario distinguere, come si è fatto nel paragrafo precedente,
il duplice rapporto r) tra cosa e pensiero e 2) tra pensiero e << no­
zione )) di cosa : se la nozione di cosa viene considerata come estrin­
seca al pensiero (<< posta davanti )>) , essa si rivela un nulla teore­
tico, nozione che non è veramente tale, perchè l'indeterminato
che essa sostituisce come parola è del tutto impensabile ; se la
medesima nozione viene considerata nello intrinseco distinguersi
e rapportarsi che è il pensiero (<< penso che )) ; << pensiero di . . )>) , essa
rivela la sua identità con il pensare ed è perciò indicativa del­
l'essere nel suo senso trascendentale ed è, perciò, massimamente
determinata.
Nel primo senso, essa è indeterminabile perchè è assoluta­
mente indeterminata, nel secondo senso essa non può venire de­
terminata perchè è la stessa determinatezza, l'atto-valore di qual­
siasi determinazione possibile. Il duplice senso è dunque mante­
nuto tale ed ogni tentativo di superarlo in una identità che ponga
la << cosa )) in un senso pienamente univoco si converte in una ri­
proposizione della dualità ad altro livello.
Allora, se la nozione di << cosa )) nel senso trascendentale è l'es­
sere-pensare e non può separarsi dall'essere e dal pensare, essen­
done l'intrinseco distinguersi e rapportarsi in atto, di essa non ci
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 75

si può servire come di uno strumento per operare sul reale : essa è
semplicemente una parola che semanticamente si pone in ordine
al reale nella sua totalità ed equivale appunte alla parola << tutto ))
ed è per questo che vale per ciascuna realtà, valendo per la tota­
lità di qualsiasi << cosa )),
Ma se la nozione di << cosa )) è presa nel senso operativo, appunto,
la sua intrinseca indeterminatezza consente di servirsi di essa in
una univocità di senso che è, piuttosto, la perdita di qualsiasi
senso determinato : univocità tutta negativa che si dice negando
le determinazioni in sostituzione delle quali si pone.
Va considerata attentamente questa situazione teoretica,
perchè, se la nozione di << cosa )) è considerata senza che si distin­
gua l'accezione trascendentale da quella univoca, poichè l'univoco
ha funzione operativa (è univocizzante) , in essa si toglie ogni pos­
sibilità di pensare determinatamente il linguaggio, perchè questo
perde totalmente senso con il venire meno delle << cose )) che ad
esso sottendono ed a cui le parole si riferiscono : è il caso di qual­
siasi monismo, a cominciare da Parmenide, per il quale la << cosa ))
ingloba la totalità e la solidifica, per cosi dire, in una << cosa )),
quella cosa che è assoluta, conclusa e quindi, a rigore, indicibile.
Ma poichè l'empirismo considera ciascuna realtà come << cosa )),
l'origine teoretica dell'empirismo è la medesima del monismo ;
si potrebbe anche dire che l'empirismo è un monismo moltipli­
cato per ciascuna cosa nella sua individualità, nel suo essere se­
parata, epperò << assoluta )) (ab-saluta) .
Si può dire, così, che della parolà << cosa )) bisogna fare un uso
chiaramente controllato, perchè senza di essa non è possibile dire
nulla e con essa, presa a sè, si dice l'opposto di ciò che si intende
dire : si dice sempre e solo il nulla rivestendolo di << positività )) :
e nulla essenzialmente dicono l'empirismo nella sua pretesa di af­
fidarsi all'esperienza (1) con la sua molteplicità di << cose )) ed il

(r) Che senso ha dire che ogni conoscenza procede dalla esperienza ? (cfr. KANT,
Crit. ragion pura, I, r ) . È quel « procedere » da discutersi, perchè, se effettiva­
mente si può conoscere solo ciò che l'esperienza attesta, le parole « esperienza »
e « conoscenza » dicono la medesima cosa, dicono, cioè, il rapporto tra quella
« presenza » che è la cosa conosciuta (o esperita) e quella « presenza » che è il
conoscente (o l'esperiente) ; ed è, in fondo, una tautologia : è conosciuto ciò che
è esperito. perchè è esperito ciò che è conosciuto.
Per evitare il truismo, bisogna supporre che « esperienza » e « conoscenza »
non siano perfettamente sinonimi, che vi sia, cioè, un conoscere che non è espe­
rire, e che, quindi, non ogni conoscenza proceda dall'esperienza ; bisogna supporre,
insomma, proprio l'opposto di ciò che si vuole dire.
CAPITOLO TERZO

monismo nella conseguente intenzione di risolvere le cose nella


unità del loro venire pensate. Empirismo e monismo escono cosi
dai limiti dell'indagine critica.

§ 5· - Le condizioni ad un'indagine critica.

La condizione fondamentale è che l'oggetto sia sufficiente­


mente << precisato >>, ossia che la sua considerazione sia per un
sapere i limiti della cosa considerata, giacchè << preciso >> significa,
dialetticamente, non confondibile con altro : la << precisione >> è,
infatti, relativa al rapporto tra termini, ciascuno dei quali << altro >>
non per se stesso, ma in rapporto alla considerazione dell'insieme
in cui si colloca.
La definizione di << preciso >> è dunque negativa, poichè la pre­
cisione non è una << premessa >> nè un presupposto, bensì un risul­
tato dell'indagine ; la prima assunzione della cosa, infatti, è sin­
eretica o globale ed è allo interno di questa sincresi che si attua
la consapevolezza, la quale è << critica >> in quanto tende alla pie­
nezza ; questo tendere consiste in un passare << da . . . a . . . >> , e

In effetti, la proposizione kantiana usa del termine « esperienza » in un senso


ambiguo : 1 . l'esperienza che è modificazione dell'esperiente " causata » dall'espe­
rito (la cosidetta " esperienza esterna » di impronta empiristica) ; 2. l'esperienza
che è la presenza conoscitiva come tale, a prescindere dall'esperienza " esterna »
e che potrebbe dirsi di idee o nozioni innate (contenuti conoscitivi a-priori, che
precedono l'esperienza non derivando da essa).
Ciò che Kant intende negare è appunto che vi siano « conoscenze » (idee,
nozioni) precedenti l'esperienza o a-priori rispetto ad essa.
È evidente che Kant deve supporre strutturato il reale in termini di « esterno »­
" interno », di esperienza come causazione della cosa nell'esperiente e di conoscenza
pensata come incausata e preesistente rispetto alla nozioni derivate ; ora, le distin­
zioni esterno-interno, prima-dopo, delle quali si struttura la realtà ilella supposi­
zione kantiana, sono, ovviamente, spazializzazioni e temporalizzazioni assunte
presuntivamente alla stessa discussione critica delle nozioni di « spazio » e di " tem­
po » : ossia quello spazio (esterno-interno) e quel tempo {derivazione) senza dei
quali non si potrebbe parlare di « esperienza » nel senso di a-posteriori, sono usati
come fondamento dell'intero reale, come fondanti appunto il rapporto tra espe­
riente ed esperito e tra conoscente e conosciuto.
Cosi spazio e tempo non cadono, è vero, tra gli esperiti e di essi non si dà
esperienza, ma nemmeno cadono nell'esperiente o nel conoscente come costitu­
tivi della sua soggettività e sono, piuttosto, oltre la stessa relazione tra esperiente
ed esperito, sono oltre ad essa proprio perchè presunti come suo fondamento e,
perciò, il rapporto interno-esterno, prima-dopo è tutto conglobato in essi e da essi
identificato con l'assolutezza del « fondamento ».
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 77

il passare è tale da supporre una continuità tra i termini, che è


presente e sottende appunto ad essi (passare senza questa conti­
nuità sarebbe cessare d'essere o << passare al nulla >>) . È questo
il senso in cui il passare può attuarsi solo all'interno di questa
sua assunzione.
L'assunzione è qui una cosa sola con la << presentificazione >>,
epperò con 1'<< aggettivazione >>. L'attività obbiettivante è dunque :
r . porre davanti a sè la cosa ( = separarsi da essa) ; 2. cogliere
la relazione che si viene a costituire tra oggetto ed atto oggetti­
vante (= ritrovarsi in essa) . La relazione, interna all'aggetti­
vazione, non è estrinseca rispetto all'oggetto, se questo, fuori
relazione, è oggetto di nulla, propriamente nullo.
La critica, operando all'interno di una assunzione globale,
può togliere, escludere, negare solo in quanto la presa iniziale
della cosa in questione va oltre la cosa stessa : per attuare il togli­
mento, che è, critica, deve attuarsi il coglimento che è consapevolezza.
In tal modo il coglimento iniziale, essendo da precisare, deve
eccedere l'ambito della cosa da sapere. Precisare significa, in­
fatti, togliere ciò che è in più ed è questo togliere una scelta con­
saputa, che è anche consapevolezza della cosa da togliere. Ed
è quanto segna la differenza tra << assunzione fenomenologica ed
<< atto critico >> : l'assunzione fenomenologica è essenzialmente
a carattere opzionale (tra << questo >> e << quello >>, presi insieme,
scelgo << questo >>) e la scelta può essere motivata senza che il mo­
tivo sia pienamente saputo (1) ; l'<< atto critico >> è, invece, essen­
zialmente negatorio ( tra << questo >> e il suo opposso, presi insieme,
io escludo « questo » o il suo « opposto ») , scelta escludente che
ha in sè la propria ragione.
L'assunzione fenomenologica è sempre demandata ad altro
ed è sempre aperta a possibilità opposte, l'atto critico, invece
come necessariamente escludente è anche assoluto. Con ciò si ri­
vela insieme e che l'assunzione fenomenologica non è sufficiente
alla critica e che la critica opera all'interno dell'assunzione feno­
menologica e, pertanto, non può mai pervenire ad escluderla o a
superarla.
Ma questa impossibilità di superarla è appunto l'impossibilità

(r) La differenza tra " motivo » e « movente » è tale che il motivo è necessa­
riamente saputo, il movente può non esserlo : la ricerca dei moventi è di natura
psicologica.
CAPITOLO TERZO

di trascendere l'esperienza con la negazione, chè esperienza e ra­


gione sono non due termini di un procedimento, ma una compre­
senza e innegabile (perciò criticamente connessa) all'atto unico dello
esperire.

§ 6. - L'atto critico o negatorio come atto di pensiero nella cosctenza.

La negazione, o toglimento, che si opera all'interno dell'assun­


zione fenomenologica, è irriducibile ai singoli termini assunti ed è
coincidente con l'atto che sceglie in funzione del valore della cosa
stessa : atto e valore sono appunto la coscienza.
Ora, poichè la coscienza è essenzialmente presenza del valore
e dell'atto (più precisamente : presenza del valore che è << atto >>)
lo stesso pensiero, che è giudizio (perciò atto critico) (r) è presente
nella coscienza in quanto saputo come tale (coscienza del pensiero) ;
ma poichè il pensiero è giudizio di valore su ciò che ad esso invia,
anche la coscienza è nel pensiero in quanto pensata (giudicata)
come tale (pensiero della coscienza) .
Dunque, se la coscienza è tale nel pensiero ed il pensiero è tale
nella coscienza, tra pensiero e coscienza non si dà un vero e proprio
rapporto, perchè, se ciò fosse, si postulerebbe una estraneità del­
l'una all'altro, la quale importerebbe una impossibilità di incon­
trare l'una nell'altro.
L'estraneità domanderebbe una qualche spazialità, quasi di
<< luoghi >> nei quali si vengano a collocare e l'uno e l'altra. La pre­
senza dovrebbe indicare un doppio << esserci >>, l'uno all'altro esterno :
l'<< esserci >> del pensiero oltre 1'<< essersi >> della coscienza.
Tolto il preteso carattere spaziale alla coscienza ed al pen­
siero (2) , è tolta la possibilità di confondere la << presenza >> con la
<< presentificazione >> e, quindi, con la << rappresentazione >> : la pre­
senza è << atto >>, la rappresentazione è << stato >>, stato che dà origine,
per esempio, alla costituizione grammaticale dello << stato in luogo
figurato >>, che è figurato a partire dallo stato in luogo empirico
del senso comune.
La differenza tra << presenza >> e << rappresentazione >> ricalca

( r ) giudico (xplvro), vale come attribuzione di « valore » : « iustum dicere de . »


. .

(z) Questa spazialità è sempre indicata e supposta quando si considerano


empiricamente la coscienza e il pensiero, alla stregua di quei termini ehe in essi
compaiono.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 79

dunque quella, più radicale, tra atto e stato e va approfondita


per le implicanze strette del linguaggio con la << rappresentazione ))
che, essendo figurata, ha inevitabilmente carattere << spaziale )).

§ 7· - La ricerca del mezzo logico adeguato e l'interrogazione.


La ricerca, nel senso critico della piena consapevolezza, si
risolve in ricerca del mezzo logico adeguato, anche se l'adeguatezza
del mezzo non sarebbe misurabile se non a partire dalla cosa stessa :
l'autentica posizione del mezzo è il fine, in quanto un mero stru­
mento non sarebbe nemmeno strumento, mancandogli il senso .
della sua stessa funzione.
In ordine a qualsiasi ambito di ricerca, la ricerca del mezzo
logico adeguato è l'atto dell'interrogare con cui si precisa un
rapporto tra soggetti in ordine ad un interesse comune. Poichè
la ricerca si struttura come << domanda )), vanno esplicitate qui
subito le condizioni intrinseche alla distinzione possibile tra << in­
terrogare )) e << domandare )),
L'interrogazione [inter-rogo] si struttura come un << rivolgersi a
qualcuno per sapere intorno a qualcosa )) ; dove, appunto, il << qual­
cuno )) - soggetto (persona) cui è rivolto l'atto dell'interrogare
si situa in linea diretta, mentre la << cosa )) da sapere si situa, ri­
spetto al medesimo atto, in linea obliqua : l'atto dell'interrogare
ha origine dall'intenzionamento della cosa da sapere, ma questo
intenzionamento non raggiunge la cosa da sapere se non mediante
il soggetto che la dovrebbe far sapere, per cui l'atto dell'inter­
rogare termina non alla cosa, ma alla << persona )) che dovrebbe
<< rispondere )),
Se questo è il caso del quaerere latino, il caso del petere latino
trova nella << domanda )) più che nella << interrogazione )), il suo
equivalente : si domanda qualcosa a qualcuno ; dove l'atto del
domandare si rivolge direttamente alla cosa intenzionata, onde
ottenere quella cosa da qualcuno e rivela un rivolgersi obliquo
al soggetto.
È da rilevare, intanto, la bivalenza strutturale dell'interro­
gazione, in quanto essa rivela l'interesse dell'interrogante ; la
quak rivelazione non è necessariamente intenzionata dall'in­
terrogante, ma solo implicitamente presentata nell'interrogazione
in forma di motivazione.
Un esempio può venire portato, a proposito : all'interrogazione
<< cosa pensi di questa cosa ? )) può venire risposto direttamente
Bo CAPITOLO TERZO

e può venire elusa la risposta mediante un'altra interrogazione


da essa suscitata : << perchè me lo chiedi ? >>.
L'atto che penetra la bivalenza dell'interrogazione è atto cri­
tico, in quanto ricerca della piena consapevolezza dell'assunto,
mediante la determinazione di quegli elementi che concorrono a
situarlo nella sua pienezza. Si avrebbe con ciò la seguente serie
strutturale : a) l'asserzione su qualcosa, b) la radice logica dell'as­
serzione che è l'interrogazione, c) la motivazione dell'interroga­
zione che è l'aspetto sotto il quale si considera quella cosa.
Con ciò si mostra che l'asserzione [ad-firmatio] si inserisce in
un suo contesto che è la posizione dell'interrogare e si inscrive
come una delle possibilità ipotetizzate dall'interrogazione stessa :
la asserzione è, dunque, una << risposta >> ad una interrogazione che
ipotetizza possibilità tra loro opposte : << A è così od è così ? » ;
la risposta appunto adfirmat, ossia tiene ferma una delle possi­
bilità ipotetizzate, chè l'interrogazione lascia trascorrere il pen­
siero dall'una all'altra possibilità, non fissandosi in una piuttosto
che in altra.
Ora, la struttura dell'interrogazione, ponendosi come origi­
nario contesto dell'asserzione, condiziona nel suo porsi il valore
dell'asserzione stessa e si può dire che, se l'interrogazione è motivata
da interessi ateoretici, non è possibile che la risposta (asserzione)
da essa condizionata abbia valore teoretico.
Si stabilisce così un criterio importante per valutare le asser­
zioni intorno a qualcosa (asserire è già, come si è visto, << inter­
pretare >>) , che è il risalire alle condizioni senza le quali l'asserzione
non sarebbe possibile.
L'interrogazione e la domanda, pertanto, sono autentica posi­
zione nei confronti del richiesto e del domandato solo nella misura
in cui l'interesse di chi le pone si rivela nullo (non che non rive­
lino l'interesse, ma che lo rivelino nullo) , la qual cosa è possibile
solo se esse coincidono totalmente con la cosa richiesta e domandata,
ossia se è la cosa stessa a porsi nella richiesta o nella domanda come
insufficiente al proprio << essere se stessa >>, per cui ciò che la cosa
domanda (e ciò che di essa si chiede) è la sua pienezza, il suo essere
interamente se stessa.
Si può dire, così, che la risposta (l'asserzione) è teoreticamente
adeguata solo se restituisce la cosa come essa << è >>, senza alterazioni
di sorta. La quale restituzione è assicurata negativamente dalla
considerazione della cosa a prescindere dagli interessi che spin­
gono a considerarla. Questa considerazione, nata da interessi, è
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 81

piuttosto un inserire la cosa nello inter-esse come entro un insieme


di operazioni da compiere su di essa (onde si darebbe luogo ad una
duplice struttura : la struttura del rapporto tra la cosa conside­
rata e l'interesse ad essa e la struttura del rapporto tra la mede­
sima cosa e l'operazione su di essa) .
L'interesse è, piuttosto, nullo a condizione che si attui un
<< distacco )), per così dire, da essa, che è distacco propriamente
da se stessi come piena aderenza al valore della cosa presa per se
stessa, ed è appunto rottura di ogni relativizzazione della cosa a
chi domanda ed è rimando alla << teoreticità )) dello irrelativo ;
l'interesse, infatti, non esclude la teoreticità della cosa, ma la na­
sconde ; per cui non si tratta di << attuare )) la teoreticità, bensì
di togliere gli impedimenti (gli << ostacoli )>) al suo << manifestarsi )).
Teoreticamente parlando, il soggetto interrogante è la nega­
tività della cosa stessa, perchè la cosa manifesta se stessa solo
dove l'interrogante non consideri se stesso, solo nell'oblio otte­
nuto dall'interrogante sugli interessi che lo portano ad inserire
la cosa nel proprio << mondo )). Questo non considerarsi è d'altronde
possibile come intenzione di non asservire la cosa a se stessi.
Il recupero della cosa nella sua interezza teoretica è dunque
il senso della intenzione fondamentale della ricerca e perciò vale
come << criterio )) per stabilirne il valore.

§ 8. - I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi.

Può essere utile, per compiere un'analisi della situazione lo­


gica che caratterizza le asserzioni condizionate da interessi, l'ana­
lisi della medesima situazione logica in un caso semplificato e
tale caso può essere indicato, ad esempio, dall'asserzione << io
domando il mio libro a te )).
Tale asserzione (che dice in forma assertoria un particolare
stato di domanda) è, in effetti, un insieme di asserzioni, che vanno
esplicitate, se si intende coglierne l'intera portata.
Le asserzioni implicite sono, ad esempio : I. esiste un libro ;
2. questo libro appartiene a me ; 3· qualcuno possiede questo
libro ; 4· questo qualcuno è colui al quale io mi rivolgo ; s. io in­
tendo possedere questo libro che mi appartiene, ecc. (è evidente
che l'esplicitazione potrebbe proseguire e, del resto, non è neces­
sario esplicitare ogni implicito, poichè in effetti, la implicitezza
è proprio il modo d'essere continuo dell'esperienza) .
6
82 CAPITOLO TERZO

Ciò che importa rilevare è che questo esplicitare tende a ri­


durre la linea obliqua (cfr. par. 7) su cui si pongono i singoli ter­
mini del discorso a linea diretta, ossia a portare l'intero discorso
a quella sua forma fondamentale che è quella del discorso ogget­
tivo (la proposizione soggetto-predicato) , il << logo apofantico del
pensiero classico.
Questa riconduzione delle linee oblique a linee dirette rivela
ad un tempo r. che le linee nelle quali si situa il discorso non sono
tutte dirette alla cosa (ossia la cosa non è sempre intesa diretta­
mente come tale) ; 2 . che le linee non dirette possono venire ridotte
a linee dirette rispetto alla co.sa (ma, in tal caso, si stabilisce che
la cosa è sempre intenzionata sotto aspetti diversi che danno ori­
gine alle varie domande, ma che non possono valere come l'in­
tero della cosa stessa) .
Ora, nella interpretazione scientifica (1) dell'esperienza si rileva
facilmente come l'interrogazione in cui essa si situa è rivolta
obliquamente alla << cosa >>, perchè direttamente essa considera
della cosa un aspetto, che è anzi quella << parte >> che è la natura
in quanto << controllabile >> in termini di misura : si interroga la
cosa chiedendo ad essa solo ciò che di essa è controllabile, ossia
si limita la cosa alla sua controllabilità con strumenti che la
assicurano ; ed il controllo è senza residuo quando è misurazione.
L'atto pienamente critico scopre allora la necessità di non
ridurre l'intero fenomeno ad un momento della serie in cui esso
viene considerato ; l'asserzione scientista nel senso del matema­
tismo è condizionata dalla particolare modalità del suo porsi nella
realtà, quella modalità che è propria del porre la domanda come
estranea alla cosa (dove, invece, la domanda intorno alla cosa
è interamente vera solo se sorge dalla cosa stessa, non appena la
si dice) , nel senso che, se non si adegua la nostra domanda alla
intrinseca domanda della cosa, è già detto che ogni nostra do­
manda deriva dall'inserimento della cosa nel nostro uso di essa.
Il che significa che la domanda che il matematico (o lo << speri­
mentatore >>) pone alla cosa potrebbe venire considerata come
« teoretica >> solo se risultasse teoreticamente che non c'è altro
possibile atto di pensiero ( razionalità) all'infuori di quello ma­
=

tematico. Il che significa anche che l'orientarsi alla matematica


da parte del filosofo potrebbe venire teoreticamente giustifi-

(1) Il rapporto tra "discorso oggettivo " e "discorso obliquo » apre una que­
stione che qui non interessa.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 83

cato solo se non derivasse, come effettivamente deriva, dalla ri­


duzione del << sapere •> al << potere •> che è commisurazione del sapere
agli strumenti che garantiscono il << potere •>.
Con ciò si stabilisce fin d'ora che i limiti propri delle asserzioni
scientifiche (condizionate da interessi) sono da qualificarsi << teo­
rici •> , nel senso in cui la scienza è, al più, << teoria •>, non mai << teo­
resi •> o << teoreticità •> (cfr. I, par. 8) .

§ 9· - La riduzione pretesa del << sapere •> al << potere •> e il concetto
ateoretico di << teoria )).

L'idea (meglio : l'ideale) del << potere )) è ovviamente connessa


con l'idea di << controllo )) sull'esperienza, controllo che è essen­
zialmente per una riduzione pregiudiziale del concetto di << verità ))
a quello di << verificazione )) (riduzione del concetto entitativo a
quello operativo).
Nella << verificazione )) è già implicitamente richiesto che la
<< razionalità )) dell'esperienza sia considerata come << razionaliz­
zazione )) (r) dei suoi contenuti, che è, piuttosto, una misurazione
di essi in rapporto a modelli previamente << costruiti •>. << Verificare )�,
infatti, ha senso come << confermare •> o << rettificare •> o << falsifi­
care )) il modello supposto, che è il concetto « scientifico )) di ipo­
tesi e che è, perciò, tutto operativo.
Si sa che il successo della scienza moderna è precisamente do­
vuto alla creazione ed alla verifica di questi << modelli )) ; ma ciò che
va discusso non è la creazione e l'uso di tali << modelli )), bensi la
tendenza a generalizzare l'importo di essi, generalizzazione che
è tutt'uno con la riduzione detta sopra della verità alla verifi­
cazione, della << verità •> alle operazioni da compiere per ottenerla.
La generalizzazione che si diceva va esaminata a parte nei
termini della differenza (che essa trascura) fra << modello )) ed
<< esempio )) (che riproduce quella tra generale e universale, fra
teorico e teoretico) .
Qui prendiamo in esame la differenza da essa trascurata fra
il sapere e l'agire (essenziale al << potere ))) .

Il sapere finalizzato ipoteticamente al << potere •> (sapere per


potere) è sapere relativizzato a qualcosa di esterno ad esso, per cui

(1) La razionalizzazione avviene qui come " relatività » costruita di dati a


valori metrici (il riportare [
= misurare] i dati a questi valori).
CAPITOLO TERZO

si suppone che il valore di un tale sapere sia tutto in ciò cui esso
si orienta. Sapere relativizzato è sapere orientato da un fine ad
esso imposto e che non cade all'interno di esso.
Ora il sapere esclude precisamente questo suo venire orien­
tato ad altro (da altro), perchè il termine cui esso si orientasse do­
vrebbe venire << saputo )), dovrebbe cioè cadere nel sapere e il
sapere orienterebbe, così, se stesso (del puro << ignoto )), della
<< incognita totale )) non v'è sapere) , in quanto esso ingloberebbe
·

il termine del suo orientamento.


È in questi termini che si pone la differenza tra sapere ed agire :
l'agire è essenzialmente finalizzato a qualcosa che è esterno ad esso ;
il valore dell'azione è nella cosa cui l'azione si finalizza ; l'agire
per agire è agire senza una vera ragione, agire casualmente, epperò
irrazionalmente (anzi, a rigore, un agire irrazionale o agire per agire
non sorgerebbe mai, dovendosi pensare un agire che faccia sorgere
l'agire : il << per )) della finalizzazione sdoppia, infatti, l'agire va­
nificandolo) . Dire questo equivale ovviamente a dire che nessun
agire è veramente casuale, ossia che un'azione non relativizzata,
essendo casuale, non sarebbe.
Ne segue che quel particolare sapere che può finalizzarsi a
qualcosa di estraneo ad esso è un sapere condizionato che non esau­
risce il sapere come tale, sarebbe un sapere tutto particolare e re­
lativo perchè condizionato.
Il sapere in cui (e per cui) si sanno le cose da fare e il modo
in cui le si deve fare (teoria) implica irriducibilmente un sapere
che inglobi tutti i termini possibili ( pensabili) , implica un sa­
=

pere che non sia esaurito dai suoi termini (se ci fosse un termine
che lo esaurisse, ci sarebbe un sapere che è tutto e solo in quel
termine) .
L'avere finalizzato il sapere al potere deriva, allora, dall'avere
identificato il sapere con l'agire, in base al fatto che nel sapere
v'è un agire che si svolge da cosa a cosa, dal noto al conosciuto :
la dimensione attiva del sapere viene considerata come l'unica,
di modo che il sapere fuori dell'azione non avrebbe alcun valore ;
il valore del sapere-azione è, come per ogni azione, estrinseco al
sapere, ossia il sapere è misurato e non è misura, ed è invertito,
così, l'ordine che costituisce o rivela il valore.
In tale inversione di ordine non il valore fonda l'azione (la << giu­
stifica )>) , ma l'azione nel suo prodotto fonda (stabilisce, fa essere)
il valore, e poichè il prodotto dell'azione è valido in quanto serve,
un sapere sarebbe vero sapere solo se fosse veramente << fecondo ))
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 8S

di azioni da esso regolate epperò condizionato agli interessi ai quali


esso si commisura come inteso soddisfacimento.
L'attività intrinseca al sapere fonderebbe una serie di ridu­
zioni : a) il sapere ridotto all'agire, b) l'agire ridotto all'azione
transitiva, c) l'azione transitiva commisurata esclusivamente al
suo prodotto, d) il prodotto valutato in base all'interesse che esso
dovrebbe soddisfare, quell'interesse che abbraccia tutti i livelli
umani, e quello antropologico e vitale.
In tal modo, l'ideale del sapere viene commisurato alla fun­
zione e presenza attiva dell'uomo nell'esperienza, perchè il sapere
per potere relativizza i fenomeni all'uomo nello stesso momento
in cui riduce l'uomo alle sue operazioni (donde un circolo vizioso) :
sapere per potere suppone che il sapere senza il potere sia affatto
sterile e che, perciò, il potere sia la misura verificativa del sapere.
Un sapere << puro >> , essendo sterile o infecondo, sarebbe un sa­
pere << nullo >>, sarebbe una curiosa ed inerte ripetizione dell'<< uni­
verso >> nella coscienza dell'uomo, una inutile e compiaciuta imi­
tazione di Dio da parte dell'uomo, per la quale l'uomo limita la
propria natura a << copia >> : estetismo e << cultura >> tendono così a
soppiantare la dimensione puramfmte teoretica o << contemplativa >>
dell'essere. E l'umanesimo è rappresentato così nella sua va­
lenza più appariscente, ma non più vera.

§ IO. - L 'interpretazione matematicistica nei s uoi limiti.

L'interpretazione matematicistica propria della scienza mo­


derna è - piuttosto - un << inserimento >> dei fenomeni nella no­
stra considerazione utilizzante : si assume del fenomeno solo ciò
che di esso importa alla nostra scelta, la quale scelta è una sele­
zione che si attua in base ad interessi e per essa il fenomeno non
viene considerato nella sua interezza, proprio perchè nella sua
interezza esso non può interessare.
L'inserimento del fenomeno, inserimento utilizzante per lo
orientamento delle operazioni da compiere su di esso, suppone
costituito il piano degli interessi e suppone, perciò, la serie delle
<< rappresentazioni >> come determinante il nostro orientamento.
La confusione appunto tra << rappresentazione >> e << presenza >>
è responsabile della << interpretazione >> del sapere puro come sa­
pere infecondo, di un sapere in cui l'uomo non riesce a trovare
una utilità.
86 CAPITOLO TERZO

L'umanesimo, quale centralità dell'uomo, v'è operante nella


sua valenza più appariscente ma non per questo più vera, che è
l'ideale del << regnum hominis )) o del << potere )) sulle cose, potere
che è funzionalmente un << riprodurre )) il fenomeno, facendo di
esso non un << oggetto )) da sapere ma un « fatto )) da utilizzare ;
di qui la riduzione del sapere alla determinazione dei nessi tra
un fenomeno ed un altro onde assicurare il controllo su un feno­
meno in base alle connessioni con altri fenomeni. Il << controllare ))
diventa, infatti, l'effettivo ideale del sapere. È da considerare
così, ciò che importa una riduzione del sapere al << controllo )).
Il << controllo )) è, essenzialmente un inserimento per il quale si
seziona l'esperienza << applicando )) ad essa una funzione che la rap­
porta all'interesse : si può controllare solo ciò che può subire il
nostro intervento ; questo intervento sull'esperienza è, però, un
impoverimento teoretico dell'esperienza stessa, perchè è limita­
zione e quindi esclusione.
La situazione logica che si viene a creare con il << controllo ))
è caratterizzata da una duplice impossibilità (che ne stabilisce
il duplice limite) : a) non è possibile scegliere tutto ; b) non è possi­
bile, tuttavia, escludere il tutto in cui si situa la scelta. Ora, il
controllo dell'esperienza inteso dal matematismo è effettivamente
consapevole della necessità di << limitare )) insita nella scelta, ma
non sembra altrettanto consapevole dell'impossibilità di esclu­
dere il tutto, se esso dimentica che l 'impossibilità di escludere
il tutto è già, di per se stessa, la necessità teoretica di dire il tutto.
Questo tutto, che si dice già con l'impossibilità della sua escl­
sione, si dice ovviamente in modo radicalmente diverso da quello
in cui è possibile dire ogni cosa che in esso si situi e si trovi :
se per dire il tutto bisogna negare che lo si possa escludere, dire
il tutto equivale a negare la negazione che di esso si pretende.
La negazione da negare è la limitazione che pretende di esau­
rire il tutto ; la negazione negante è la consapevolezza che quella
limitazione, insita nel controllo, non può esaurire il tutto perchè
si pone e si attua in esso : nessuna negazione può essere negazione
di ciò entro cui è negazione.
Ora, se il tutto in matematica è impossibile (v'è sempre un << nu­
mero )) maggiore del numero dato) , v'è una negazione del << tutto ))
che è intrinseca alla matematica ; ma ciò che la fa negazione è
un tutto entro cui essa si situa e che essa, perciò, non può negare.
Con ciò è già detto l'intrinseco limite dell'interpretazione ma­
tematicistica, che è da una parte la impossibilità di esaurire la to-
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL L INGUAGG IO 87

talità, dell'altra il rimando ad una totalità che venga << detta >> in un
modo radicalmente diverso da quello matematico, epperò ad un lin­
guaggio che non può essere nè matematico nè matematizzato.
Se si tiene conto del fatto che il controllo sull'esperienza è
ideato in funzione di un agire su di essa, l'esperienza, così sezio­
nata, viene ridotta all'esperimento e ad esso decade dove non si
veda che l'esperimento è fecondo ma teoreticamente nullo ed è
nullo proprio perchè è teoretica quell'esperienza che ad esso non
si riduce, essendo la totalità entro cui si colloca la stessa riduzione
che di essa si tenta.
Il sapere il nesso tra i fenomeni, o prescindere da quell intero '

che è il fenomeno per se stesso, domanda ovviamente l'ideale


della esattezza come valore del sapere, esattezza (1) che non è il
<< rigore >> della cosa stessa, ma la corrispondenza tra il fenomeno
e l'unità di misura cui esso viene riferito.
Ciò che consegue alla riduzione << sperimentalistica >> del sa­
pere al sapere i nessi tra i fenomeni è precisamente un duplice
equivoco : a) che l'esatto esaurisca il vero (che la razionalizzazione
operata dalla << misura >> esaurisca il razionale) ; b) che l'empirico, o
individuale o collettivo, esaurisca il reale. Questo duplice equivoco,
per il quale è razionale solo ciò che è esatto ed è concreto e reale
solo ciò che è empirico, esige che l'opera della ricerca sia essenzial­
mente un procedimento per il quale si accostino tra loro, come
due diversi ordini, l'empirico (= esperienza) e l'esatto (= la
matematica) .
E questo << accostare >>, che vale, insieme, l'applicare la mate­
matica all'esperienza e il formulare matematicamente ipotesi
orientative dell'esperimento, domanda che il << razionale >> a carat­
tere matematico sia per se stesso vuoto di contenuti empirici,
epperò sia, piuttosto, lo in generale (2) .
Prescindiamo qui dall'indagine sulla genesi storica di questa
situazione << culturale >> e ne rintracciamo piuttosto le costanti ideo­
logiche come esse si rivelano nella storia e che si sforzano di accre­
ditare la scienza come modo autentico di sapere. Risulta, allora,
che l'esatto (= la matematica) può venire concretamente utiliz­
zato solo se lo si pensa come << astratto >> rispetto all'empirico e

( 1 ) " Esatto » si dice propriamente per una corrispondenza esigita fra termini.
(2) Cosi come il numero 2, ad esempio, potendosi dire di realtà tra loro in di­
pendenti e diverse, abbia contenuti empirici e per se stesso, sia solo una vuota
generalità.

\
88 CAPITOLO TERZO

la loro rapportazione sarebbe cosi la misurazione utilizzante. Sono


fuori questione, così, le domande veramente teoretiche << che cosa è
il fenomeno >>, << che cosa è il numero >>, << che cosa è la misurazione >>,
proprio perchè la questione si pone con le seguenti domande :
a) << come posso utilizzare questo fenomeno riproducendolo >>, b)
<< come posso utilizzare il numero, accostandolo alla natura >>, ossia,
c) << in quale rapporto sta questo fenomeno con quel valore che
lo rende utilizzabile >>. Ora, proprio questo ordine di domande a
carattere operativo suppone già una duplice interpretazione della
esperienza e del valore : a) interpretazione dell'esperienza che
riduce la razionalità alla sua traducibilità in << formule », b) in­
terpretazione del numero che riduce il suo valore alla sua fun­
zione (che è, precisamente, l'interpretazione opposta a quella
magico-simbolica del numero-armonia (r) in quanto si può dire
che un numero vale per ogni cosa numerata, indifferentemente,
solo in base alla sua isolabilità come numero dalla << realtà » di
cui si dice) .
Questa duplice interpretazione, rispettivamente dell'esperienza
e del numero, equivale alla riduzione ateoretica della teoreticità
a << teoria >>, o a formulazione generale o generalizzante del con­
cetto ; di qui la necessità di riesaminare e la formulazione come
tale e il numero nella sua portata teoretica.

§ II. - La teoria come formulazione generale.

L'approfondimento della situazione logica venutasi a creare


con il decadimento dell'esperienza ad esperimento importa che
si chiarisca in quale senso il controllo sull'esperienza sia la ragione
di questo decadimento.
Rileviamo, intanto, che l'accenno a questa riduzione (della
esperienza ad esperimento) è già in Bacone (il modo di interro­
gare l'esperienza condiziona, infatti, il modo suo di rispondere),
se Bacone intende istituire un apparato metodologico per control­
lare l 'esperienza (la ricerca è pur sempre del mezzo logico adeguato
e suppone pur sempre la nozione di questa adeguatezza) . Le sue
tabulae (Praesentiae, graduum, absentiae) , per ottenere l'enumera-

( r ) L'interpretazione magico-simbolica neoplatonica o neopitagorica è quella


del numero come " qualità », la qualità che consente di distinguere i numeri in
• perfetti » e " imperfetti n.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 89

zione degli elementi che compaiono e la relazione di alcuni elementi


onde determinare le costanti, sono già una interpretazione della
esperienza come se essa fosse, essenzialmente, tutta in ciò che
di essa è controllabile.
È vero che l'intuizione delle essenze, una volta obliata, viene
reintrodotta da Bacone nella forma della << natura naturante >> o
fonte di emanazione che spieghi il processo latente dei corpi (lo
<< schematismo latente ») , ma questa << essenza >> è già qualcosa di
diverso dall'essenza nella sua portata teoretica, perchè è vista
come una spiegazione richiesta, dove ciò che si constata non è
sufficiente a questa spiegazione.
Lo sviluppo di questa riduzione dell'esperienza è, comunque,
in Galilei, per il quale la natura risponde se la si interroga mate­
maticamente. È risaputo che il presupposto galileiano (presup­
posto di natura teorica e non teoretica) è quello del rapporto
matematica-natura. In effetti, il rapporto matematica-natura
non è in Galilei un problema ma un << postulato >> : Dio crea la
natura << scrivendo >> in figure matematiche, donde la << lettura >>
matematica della natura da parte dello scienziato.
Il fondamento dell'applicazione della matematica all'espe­
rienza è, dunque, solo presupposto, ossia non giustificato.
Perchè il numero possa venire considerato come valore metrico
(misura) bisogna che lo si intenda come essenzialmente indiffe­
rente ai valori dei quali si dice, ossia che non lo si prenda come
un predicato.
Questa indifferenza deve, d'altra parte, non porsi come costi­
tutiva del numero, perchè l'indifferenza come tale non è un ca­
rattere, ma, al più, la possibilità di esso (e come possibilità non
può essere << indifferente >>) : se l'indifferenza è pensata come una
determinazione, con essa cessa ogni possibilità di usarla come tale,
essendo indifferenza a qualsiasi uso.
La situazione che si viene a creare, dunque, è la seguente :
il numero può venire pensato (ed usato) solo a condizione di essere
indifferente ai valori numerabili, la numerabilità di tali valori
non può, cioè, essere a sua volta un valore ; d'altra parte, la
indifferenza non può venire considerata come essenziale al numero.
È questa situazione appunto che segna la possibilità di parlare
di << astrazione >> a proposito del numero considerato come tale.
Appellarsi al concetto di << quantità >>, o << pura quantità >>, non
importa alcun esito se non si chiarisce il nesso ofiginario fra il
numero e la cosa numerabile. Il concetto di << astrazione >> può

\
90 CAPITOLO TERZO

qui venire considerato sotto quell'aspetto per cui l'astrazione man­


tiene un nesso con ciò da cui si astrae ; l'atto dell'astrarre è, gene­
ricamente, atto del prescindere, dove è preconcetto ciò da cui si
prescinde.
All'atto (del prescindere-astrarre) è presupposta una cono­
scenza e l'atto non è, così, conoscitivo ed è perciò soltanto << ope­
rativo l>. Si rinnova, a proposito dell'astrazione, la situazione logica
dell'isolamento (un isolamento assoluto sarebbe assurdo, perchè
sempre isolamento da qualcosa, che è l'impossibilità di escludere
il nesso che tuttavia si toglie nell'isolarsi) .
L'atto che toglie (intrinseco all'astrarre) non può togliere com­
pletamente ciò che s'intende togliere : lo toglie solo secondo un
aspetto. Un aspetto secondo cui il nesso può venire tolto senza
risolvere l'eliminazione della cosa da cui esso si toglie, può << pro­
gettarsi l) come la numerabilità della cosa.
In termini entitativi per la risposta alla domanda << che cosa
è ? l>, il numero sarebbe definibile come una operazione : il numero
sarebbe la numerazione che esso consente ; esso cosi non sussiste come
valore e non esiste come cosa (r) , essendo solo un'attività tra limiti
presupposti e che esso non consapevolizza. In tal modo, resterebbe
anche spiegato perchè il numero si possa pensare come << relazione l>.
Una volta chiarito in che senso il numero è numerazione, restano
da chiarire le condizioni a tale numerazione, dopo che si è escluso
che il numero sussista come << valore l>. Il numero è da pensarsi,
insomma, come l'assunzione della cosa secondo le volte in cui
si considera la medesima cosa.
La radice del numero, da questo punto di vista, è la consi­
derazione della cosa a prescindere dalla cosa, ossia la conside­
razione come attività del considerare (2) : di qui le volte in cui
si considera la cosa, quella modesima cosa. Si può dire che il nu­
mero è << dato )) dalle volte in cui si assume il medesimo, e che, perciò,
esso si presenta in un insieme così costituito : r) si suppone che
vi sia ( = sussista) almeno l'uno ; 2) si suppone che la cosa sia
la medesima nella considerazione possibile di essa ; 3) si suppone
il nesso intercorrente tra l'identità e la medesimezza della cosa ;

(1) Il valore non può non esserci (la sua negazione è già la sua contradditto­
ria posizione) ; il valore non può esserci nello stesso senso in cui sono le cose, es­
sendo queste in virtù di esso.
(2) La parola " considerazione » qui si prende senza riferimento all'etimo della
parola e vale semplicemente « assumere ».
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 9I

4) si suppone la dimensione temporale nello << ancora quello )) in


cui si struttura il medesimo che si deve dire di qualcosa.
L'uno, in tal modo, uscirebbe dalla serie di cui è il primo e
importerebbe la questione di come possa darsi una serie a cui
manchi l'uno.
In ogni caso, l'uno, che è primo della serie numerica, importa
in se stesso la relazione tra la serie cosiddetta dei numeri cardi­
nali e la serie cosiddetta dei numeri ordinali, se non appena
si considera l'uno in rapporto alla serie che da esso si origina,
di esso si dice che è il primo. Qualunque considerazione dell'uno
deve lasciare come indiscusso che esso venga considerato almeno
implicitamente in qualsiasi altro numero ; la serie dei numeri,
infatti, è tale che il 2, 3, 4, siano non disposti sulla medesima
linea, orizzontalmente, accanto all'uno, quasi posti dopo di esso,
ma è tale che si costituiscono via via sull'uno, considerando nella
reiterata (e sempre reiterabile) assunzione dell'uno.
L'uno non è << numero )), se numero è le volte in cui si assume
l'unità : l'uno non lo si assume se già non è ; esso è, insieme, posi­
zione ed assunzione, perchè assumere una volta l'uno è tutt'uno
con porre l'uno. Non lo stesso si può dire del 2, del 3, ecc., perchè
il 2, il 3, ecc. sono rispettivamente due, tre, ecc. assunzioni del­
l'uno, che si suppone già posto : il 2, il 3 , ecc. non sono posti come
tali, essendo le assunzioni dell'uno che è, invece, posto come
tale, che è, infine, la posizione di se stesso, il suo porsi.
La cosa può subire numerazione solo a condizione che essa
(identica a se stessa) sia la medesima nel processo di numerazione
(nelle volte in cui la si assume) , la medesima, ossia ancora quella
della posizione che l'assunzione sempre suppone. Nel << medesimo ))
(nell'ancora quello, che è il medesimo) è presente la dimensione
temporale ; dove si può notare subito che la temporalità non è
essenzialmente << successività )) (l'altro che è oltre il momento dato).
La successione numerica, come successione appunto, non deriva
dal tempo in se stesso, ma consegue alla rappresentazione del
tempo, alla spazializzazione che è inerente alla figura del tempo
in una linea in cui si dispongono i suoi moménti (1) .
Il prima e il poi sono tali che il 3, ad esempio, segue il 2 e precede
il 4 e questo precedere e seguire non sono definizioni del tempo, ma

(1) Il tempo della scienza non è perciò il tempo, ma la sua rappresentazione,


donde l'impossibilità di formulare il concetto di tempo a partire dall'uso matema­
tizzato che di esso fa la scienza. Cfr. E. BERGSON, Ev. créatr., 1907, pag. 2.
92 CAPITOLO TERZO

sono modi di rappresentare il tempo, quel tempo che deve venire


definito. Quel << tempo )), che si indica nella medesimezza non è
misurabile (matematizzabile) essendo condizione alla possibilità
del suo venire misurato.

§ 12. - La radice dell'interpretazione matematicistica.

Il concetto di << funzione )) e quello strettamente connesso di


<< variabile )) compaiono, nel discorso, come indicativi di quel rap­
porto che potremmo dire delle << variazioni connesse )) : il variare
di A importa il variare di B .
Queste variazioni in tanto hanno rilevanza in quanto v'è una
<< corrispondenza )) nello stesso variare, corrispondenza che è << de­
ducibile )), teoreticamente, dal concetto stesso di variazione per
il rapporto all'invariato che essa necessariamente dice. Ma, se la
variazione di qualcosa ha senso almeno per il permanere invariato
del << qualcosa )), il nesso tra variazione e invariato, cadendo entro
il concetto stesso di variazione, non può valere a stabilire le con­
nessioni intercorrenti fra variazioni di cose diverse ; e si ha, così,
l'occasione di precisare che nella variazione come tale sussiste
il rapporto, o nesso, variare-invariare (nesso che non abbisogna
del confronto costruito con il variare di altro) e che il confronto
fra il variare di qualcosa e il variare di altro può rivelare il nesso
tra le due variazioni, nesso indeducibile da quello che ciascuna
variazione dice in se stessa, come variazione.
In altre parole, il nesso variare-invariare non è sufficiente a
fondare il nesso tra cose che variano, perchè esso entra a costi­
tuire la variazione come tale, nel senso che senza di esso la va­
riazione sarebbe affatto impensabile ; il che comporta una diversa
operazione per stabilire le << variazioni connesse )) tra cose diverse
da quella che coglieva il nesso intrinseco al concetto di << variazione )}
o variazione come tale : quest'ultima operazione è da intendersi
come ricerca delle condizioni di intelligibilità della cosa considerata,
mentre la prima è da intendersi come reperimento, a carattere feno­
menologico o constatativo, della cosa in un insieme che ne comprenda
i nessi possibili con altre.
Risulta parimenti evidente che, trattandosi di << operazioni ))
fra loro irriducibili, sarebbe vano pretendere di eliminare una
operazione con l'altra od anche, ed è lo stesso, di sostituire una
operazione all'altra : ciò che determina il variare di A rispetto al
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 93

variare di B non può escludere che il variare di A in tanto sia


possibile in quanto questo A è sempre il medesimo ossia, come
A stesso, necessariamente invariato.
Con ciò, una ricerca intorno alla modalità del suo variare tra
cose diverse (o, il che è lo stesso, tra diverse variazioni) può pre­
scindere dalla piena consapevolezza, che è di altro ordine, di ciò
che importa analiticamente (r) , il concetto di variazione, ma non
può accreditare un esito che comprometta tale concetto, proprio
perchè, se le variazioni connesse, nel senso che diciamo, non
sono deducibili dal concetto di variazione, implicano, tuttavia,
tale concetto e lo implicano comunque vengano via via deter­
minate e teorizzate. Che, se una qualche interpretazione di tali
variazioni pretende di porsi come esclusiva (epperò effettivamente
escludente) , l'implicazione del concetto di variazione da essa oscu­
rato, una volta ritrovato, consente di ridimensionare tale pretesa,
stabilendo i limiti entro i quali essa effettivamente può farsi
valere.
È questo il caso, crediamo, dell'interpretazione matematica
delle << variazioni >>, che in tanto può venire fatta valere in quanto
si estende tra quei limiti entro i quali hanno senso le sue opera­
zioni, operazioni essenzialmente riferibili a quel reperimento al
livello constatativo che implica l'intelli:gibilità. L'interpreta­
zione matematicistica delle variazioni può venire, dunque, rie­
saminata proprio mettendo in evidenza l'implicazione senza di
cui essa non sarebbe matematicamente possibile e stabilendo,
d'altra parte, un confronto critico tra essa e quelle condizioni
soddisfacendo le quali essa può dirsi << interpretazione >> ; le con­
dizioni ad essa imposte, appunto, dal concetto di interpretazione.

§ 13. - Le condizioni imposte dal concetto d'interpretazione.

L'<< interpretazione >> o << momento interpretativo >> si inserisce


nel contesto dell'esperienza in connessione stretta con il momento
<< descrittivo >> e si chiarisce riferendovisi : la descrizione, intesa
inizialmente come momento pianamente assertorio, o preliminare
ad ogni intervento problematizzante, ad ogni possibile domanda
intorno alla cosa che si considera, viene facilmente contrapposta

(1) Si prescinde qui dal carattere « costruttivo " delle matematiche.


94 CAPITOLO TERZO

all'interpretazione, intesa inizialmente come attribuzione proble­


matica ( discutibile) di un valore piuttosto che di altro valore ;
=

in tal modo, il momento descrittivo si profilerebbe come indiscu­


tibile perchè constatabile, e l'interpretativo si profilerebbe come
quello in cui si pone la stessa possibilità di discutere perchè ordi­
nato a stabilire della cosa il << valore » in un giudizio su di essa.
Se non che, da una parte il momento pianamente assertorio, ad
un'analisi più attenta, si rivela non proprio cosi iniziale, dal­
l'altra, il valore del momento interpretativo è una cosa sola con ciò
di cui esso enuncia il valore e non ha senso un'interpretazione
che non restituisca la cosa interpretata nella sua interezza e il
valore che della cosa si dice in tanto è valore di quella cosa in
quanto essa non sarebbe veramente o interamente senza di esso ;
con che resta escluso, insieme, che il momento descrittivo possa
venire isolato da quello interpretativo e che il momento interpre­
tativo possa sopraggiungere dall'esterno alla cosa, come un inter­
vento qualsiasi su di essa : l'interpretazione è, al limite, ossia
nella sua essenziale posizione, il senso stesso in cui si assume
un qualche significato e, pertanto, quel significato senza inter­
pretazione non ha alcun senso.
In termini di << descrizione >> e di << interpretazione >> , il momento
assertorio e quello problematico entrano a costituire l'intero come
<< universo >> del fenomeno che noi diciamo, a ragion veduta,
husserlianamente la << cosa stessa >> che non è però la cosa come
si presenta, ma la cosa e tutto ciò senza di cui essa non sarebbe
pensabile, semplicemente non sarebbe.
Non può dirsi, pertanto, << interpretazione >> una qualsiasi
« concezione del mondo >> che si componga ad esso per valori
sopraggiunti e non sia, piuttosto, la restituzione intesa (inten­
zionata) dell'intero, entro cui si collocano e il << mondo >> e le
<< concezioni >> di esso e la intrinseca possibilità di stabilire il valore
e del << mondo », e delle << concezioni, e dello stesso concetto di
<< valore >> . Questo << intero >> , senza la di cui consapevolezza è pur
possibile fare scienza epperò << matematizzare >>, consente che si
stabilisca fino a che punto ( entro quali limiti) operazioni varie
=

all'interno di esso possano valere e, quindi, per quale ragione non


possano venire assunte come valori coincidenti semplicemente con
esso : se l'operazione si situa nell'intero, nessuna operazione può
essere l'intero stesso entro cui si situa.
Con ciò resta stabilito che l'interpretazione impone un suo
<< canone >>, che è poi una cosa sola con la sua ragione d'essere :
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 95

dare del fenomeno tutto e solo ciò che esso << è )). Nella quale norma
è già segnato il duplice limite operativo dell'interpretare che è
nulla togliere e nulla aggiungere della << realtà )) del fenomeno ; ma
v'è anche indicata l'impossibilità di concepire l'interpretazione
in senso meramente operativo, quale intervento sul fenomeno a
carattere di << procedimento )) esteso, come se si potesse pensare
che l'interpretazione risulta vera solo dopo che la si sia confron­
tata con il fenomeno (il << confronto )) è appunto un'operazione) .
È evidente che, se l'interpretazione avesse carattere opera­
tivo, la sua verità dipenderebbe dal confronto istituito fra una
qualsiasi interpretazione ed il fenomeno da essa · << inteso )), con­
fronto che mirerebbe a detrarre dall'interpretazione ciò che il
soggetto, intervenendo, vi apporterebbe, chè << vero )) è, almeno,
il non-alterato dal conoscente e la interpretazione è tale, almeno,
se non è deformante. Ma questo confronto e la << detrazione )) che
ne conseguirebbe sarebbero, in realtà, pregiudicati dal previo
<< possesso )) del fenomeno fuori di quella interpretazione, di modo
che si dovrebbe supporre un insieme costituito dal fenomeno,
dall'interpretazione confrontata con il fenomeno, dall'interpre­
tazione coincidente con esso.
In altre parole, per sapere se, interpretando, nulla aggiungo
e nulla tolgo al fenomeno, debbo possedere previamente il feno­
meno ; ma se possiedo il fenomeno prima di stabilire la verità del­
l'interpretazione di esso, possiederei la sua vera interpretazione,
cosicchè più non avrei bisogno di sapere se la mia interpretazione
sia vera e, pertanto, sarebbe del tutto superfluo istituire il con­
fronto, iniziarne la critica. L'insieme fittizio che si verrebbe a
produrre sarebbe costituito dal fenomeno e dall'operazione, sup­
posta, dell'aggiungere o del togliere e dall'operazione che sop­
prime l'operazione supposta ; ma questo insieme è fittizio proprio
perchè esso si dissolve solo che si sappia il fenomeno ; quell'insieme
non ha bisogno, cioè, di venire dissolto perchè è già nullo nei
termini che lo costituiscono.
Con questo si perviene ad un momento non controllabile con
operazioni, che condiziona qualsiasi procedimento che su di esso
si << costruisca )) : deve esserci, ossia non può non esserci, un darsi
semplice del fenomeno perchè qualsiasi oper�zione è su qualcosa
che non deriva da quell'operazione. Ed è questo << darsi )) che fa
essere per me il fenomeno come esso è per se stesso.
Le condizioni imposte dal concetto di interpretazione sono
dunque tali da escludere che possa dirsi << interpretazione )) un pro-
g6 CAPITOLO TERZO

cedimento od operazione sull'universo del fenomeno che pretenda


di esaurire l'intero nelle operazioni che vi si collocano e vi si svol­
gono ; che è quanto dire l'impossibilità di una interpretazione
in termini di (( controllo )> della esperienza ; che se la struttura di
questo (( controllo )} è appunto l'operazione, un'interpretazione
che derivasse da tale « controllo )> non sarebbe vera interpreta­
zione, così come l'esperienza che si riducesse a funzione di con­
trollo decadrebbe, se mai, ad esperimento.
Solo per una postulazione sarebbe possibile stabilire li valore
generale della <( formulazione )>, se (( le formule generali - con pa­
role di Leibniz - danno solo ciò che si domanda )> ossia ciò che
in esse si pone ( = si postula) ( r) . Il concetto di (( formulazione )>
è strettamente connesso con quello di (( teoria )}, nel senso visto,
nel senso cioè che in teoria le cose dovrebbero andare in un certo
modo (quello che si suppone (( giusto )>) .
(( Si chiama teoria - dice Kant - un complesso di regole
(anche pratiche) quando siano pensate come principii generali e
si faccia astrazione da una quantità di condizioni )} (2) . Regola sa­
rebbe una qualsiasi proposizione precettiva, il cui valore è ovvia­
mente condizionato alla circoscrizione di esperienza per la quale
è fatta valere. Il significato della regola è quella del modello di cui
ci si serve per operare (l'operazione è già preindicata nella forma
del modello) .
La teoria-regola-modello ha carattere congetturale, in quanto
interpretazione anticipata che domanda una verificazione nella
esperienza ; questo suo carattere congetturale, la pone come spie­
gazione provvisoria, perchè la verificazione è progettata anche co­
me falsificazione.
È precisamente questa provvisorietà, essenziale al modello,
che caratterizza la sua mera (( teoricità )} e segna la radicale distin­
zione tra (( teorico )> e (( teoretico )> ; la teoreticità non può dirsi
dell'ipotesi (convertirebbe l'ipotesi in tesi) , non può dirsi cioè di
una posizione provvisoria (la renderebbe definitiva ponendola come
effettiva) .
È questo il senso rigoroso in cui diciamo che il (( teoretico )}
non è oggetto di scienza, non essendo oggettivabile perchè condi­
zione trascendentale ad ogni aggettivazione possibile, possibilità

(1) Cfr. LEIBNIZ, Mat. Schriften, VIII, 2 1 7.


(2) Cfr. KANT, Uber den Gemeinspruch, 1 7 93 ; cfr. N. ABBAGNANO, Dizionario
di Filosofia, Torino, 1 96 1 .
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 97

stessa di oggettivare. Se si dovesse stabilire una rigorosa distin­


zione tra la mera teoricità del modello e la piena teoreticità che
sfugge ad esso, si potrebbe ricorrere alla parola << esempio >> per
indicare appunto la teoreticità del valore.
Il modello indica la << imitazione >> possibile e il suo fonda­
mento è la somiglianza e questa può venire sempre costruita :
in esso il valore è tale da variare in base alla sua considerazione ;
valori e disvalori non sono in esso assoluti, ma relativi al punto
di riferimento ; così, nella serie dei numeri relativi il valore di
tali numeri varia con il variare dell'ordine di numerazione, a
partire dallo zero.
L'esempio, a differenza del modello, ha valore a prescindere
dalla considerazione ed è esemplificante appunto, ossia valido
solo se è scelto (trascelto) da una quantità di << cose >> omogenee
tra loro : esso è valido all'interno del « concetto n che esso stesso
esemplifica. Che se si assume l'esempio fuori dal nesso-concetto,
esso ha due possibili esiti : esso, o decade ad << evento >>, del
tutto irrilevante, perchè non indicabile veramente nel discorso,
o si formula come << astratto >> e decade a << generale >> (i due esiti
si equivalgono : se l'evento ha carattere empirico ed astratto, la
formulazione dello << in generale >> ha carattere astratto) .
Con ciò si chiarisce che l'esempio (r) non è un evento staccato,
a sè stante, ma è, piuttosto, il verificarsi totale del valore-con­
cetto ; dell'<< essere uomo >>, ad esempio, è esempio << Socrate >>
e << Socrate >> è esempio dell'essere uomo in quanto egli verifica
in Sè totalmente l'essere uomo ; ossia il nesso fra lui, considerato
a sè, e l'essere uomo è essenziale al costituirsi stesso di lui.
D'altra parte, l'esempio non esaurisce la totalità esemplificata ;
se ciò avvenisse, infatti, esso si identificherebbe con ciò di cui è
esempio e cesserebbe di essere << esempio >> : << Socrate >> è totalmente
uomo, ma non è l'unico uomo, uomo è anche << Platone >> ecc. Si
stabilisce, cosi, l'interna relazionalità operante tra l'esempio e il
valore esemplificato, per la quale si potrebbe dire che l'esempio è in
ordine agli archetipi essenziali, dove invece il modello é in ordine
alle figure convenibili (2) : le figure possono venire costruite, gli
archetipi invece non si costruiscono, potendosi << costruire >> solo

( r ) Lo ex-emplum è dal verbo èximo ( = cavar fuori) ed implica semanticamente


l'omogeneità tra esempio ed esemplificato, omogeneità che è tutto il valore del­
l'esempio.
(2) Cfr. PorNCARÈ, La science et l'hypothèse, 1902, cap. I X ; E. MACH, Erkennt­
nis und Irrtum, 1905, cap. XIV.

7
,
1
CAPITOLO TERZO

in base ad archetipi (non può darsi, infatti, una figura che contrad­
dica un archetipo se per archetipo si intende la forma prima,
che fonda le variazioni possibili) .
La struttura della scienza moderna è dunque tale da uscire
dalla possibilità veramente teoretica, proprio in base ai << modelli ))
dei quali essa si materia e nei quali si articola : la loro costruibi­
lità è già di per se stessa l'interno limite della loro funzionalità,
limite che non si pone alla fecondità della loro applicazione, ma
alla surrettizia pretesa di far valere questa fecondità -:- talvolta
innegabile - come valore totale della << cosa stessa )), come tale da
inglobare ed esaurire appunto la totalità dell'esperienza.

§ 14. - Il carattere teorico del controllo sull'esperienza.

Il controllo sull'esperienza, onde l'esperienza decade ad espe­


rimento (e, una volta consaputo questo suo decadere, essa viene
restituita alla sua originarietà sempre implicata) è inteso già da
Bacone quando egli espone un apparato di intervento sull'espe­
rienza : la pars destruens di tale apparato organologico, o nega­
tiva, corrisponde alla necessità di togliere ciò che arbitraria­
mente si aggiunge all'esperito (gli idola, errori o pre-giudizi,
sono tali appunto in quanto nascondono il fenomeno, componen­
dosi con esso) ; la pars adstruens vi si intende, d'altro canto, come la
necessità di raggiungere il fenomeno nella sua interezza, interpre­
tandolo nella experientia litterata ; ma è ovvio che questa interezza,
per validamente ed inevitabilmente intenzionata che sia, è intesa
solo come gli strumenti adottati lo possono permettere, e gli stru­
menti sono già di per se stessi sezioni dell'esperienza, quelle se­
zioni che presentano la possibilità dell'errore (non ha senso, in­
fatti, che l'errore, gli idola, sia detto come essenziale all'esperienza,
perchè se ciò fosse, nessuna esperienza potrebbe rilevarlo e non vi
sarebbe esperienza effettivamente in grado di superarlo) .
Già nel rapportare i l fenomeno all'apparato di controllo è impli­
cata una << matematizzazione )) dell'esperienza, poichè v'è operante
in tale rapportamento la corrispondenza dei termini dei quali si
dispone : al fenomeno a è possibile far corrispondere il valore a' ;
ed è così preparata la strada alla matematizzazione vera e propria
che compare con Galilei. Compito della scienza ( linguaggio =

scientifico) diventa precisamente la misurazione dei fenomeni,


chè, ad esempio, solo una volta misurata, la forza può venire sfrut-
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 99

tata a vantaggio dell'uomo. L'introduzione galileiana in mecca­


nica del concetto di << accellerazione 1> è scientificamente feconda
a condizione che la si supponga originariamente uniforme (se non
fosse così supposta non la si potrebbe misurare) . Dove intervenga
una scala metrica, lì la ricerca non può concernere il fenomeno
nel suo essere tale, ma solo il modo (e le condizioni) della sua uti­
lizzabilità da parte dell'uomo. I concetti che qui si suppongono
sono, nella misurabilità dell'accellerazione, quello di velocità, di
lunghezza, di tempo ; concetti supposti ossia non analizzati, usati
come li usa empiricamente il linguaggio comune.

§ 15 . - Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni.

Di spostamento del limite si può parlare ad una duplice condi­


zione : I . che la cosa di cui si tratta varii, 2. che la cosa che varia
sia essa a variare e, in questo senso, perciò permanga. Le due con­
dizioni non si contraddicono purchè : r. la cosa non sia identica al
suo limite, 2. che sia, perciò, pensabile la medesima cosa con limiti
diversi (che lo spostamento di limite non alteri la cosa) . La cosa,
non identica al suo limite, è passibile di limitazione, che è limite
<< imposto 1>.
Si ha in tal modo una struttura tale da condizionare la duplice
azione del conservare la cosa, fissandola nella sua identità e del
modificare la cosa, spostandone il limite : azioni correlative perchè
<< fissare >> equivale ad << implicare >> il limite della cosa. È questa
equivalenza che deve venire spiegata, evitando la contraddizione.
Si può pensare uno spostamento del limite solo a partire da un
limite << dato >> e dentro una serie di limiti << possibili >> (dati come
possibili) : lo spostamento è rilevabile solo a mantenere il limite
dato così come esso è dato (Aa. è A con il limite spostato solo in
riferimento ad Aa1, per il limite a1 di A) . Così, spostare il limite
non può equivalere ad annullarlo chè annullare il limite equivar­
rebbe a sopprimere la cosa : Aa1 senza a1 non è Aa1, ma nemmeno
è A, perchè A senza limite è in realtà A con tutti i limiti possibili,
A indifferente a qualsiasi limite, indifferente anche al suo opposto.
Spostare il limite all'infinito equivarrebbe ancora ad annul­
larlo, chè il limite si << approssima >> senza mai coincidere e una
cosa limitata all'infinito è cosa illimitata e spostare all'infinito è,
in realtà, porre una serie indefinita, la quale, essendo tale da ogni
sua parte, da nessun punto di vista sarebbe veramente una serie.
IOO CAPITOLO TERZO

Ora, il modo di spostare il limite (e di conservare la cosa nello


spostamento del suo limite) varia con il variare della << natura >>
di tale limite (fondamento qualitativo della variazione come spo­
stamento del limite) :
A) se si sposta il limite che divide un gruppo da un altro,
in base ad una proprietà tipica di quel gruppo, si ha, propriamente,
lo << estendere >> (si estende all'elemento a di A la proprietà B di b :
si estende B in modo da includere in esso a di A ; si sopprime cioè,
la differenza tra A e B nel caso a) che vale per il concetto di
<< classe >> o di << estensione >> di un concetto, o di concetto di << nu­
mero >> dei termini cui si estende una data proprietà.
B) Se si sposta il limite secondo un interno porsi della cosa
da un punto ad un altro, si ha, propriamente il << crescere >>, donde
le espressioni derivate di << concreto 1> o << concresciuto 1> (immanenza
dello spostamento che è caratteristica dell'organismo) .
C) Se si sposta il limite in modo di togliere la insufficienza
di qualcosa in funzione di cui essa si pone (onde attenerla), si ha,
propriamente, lo << aggiungere >> (per giungere al punto A debbo
disporre anche di b e lo aggiungo, ad esempio, ad a che è in fun­
zione di A) .
D) Se si sposta il limite in modo da togliere l'insufficienza
della cosa in se stessa, si ha, propriamente, la << integrazione >> che è
a rigore, una << reintegrazione >> perchè implica la ricostituzione
della cosa restituendo ad essa ciò che le è stato tolto restituendola
intera.

§ r6. - La determinazione come ritornQ dell'atto : totalità di defini­


zione e totalità di esaustione.

Ora, considerato il modo di spostare il limite, importa de­


terminare il modo in cui è possibile stabilire il limite, e siamo alla
questione di come sia possibile esperire il limite della cosa.
Ciò che qui si può rilevare è che ad arrestare l'atto (dello espe­
rire, del pensare, ecc.) è la << differenza )) come rottura di una con­
tinuità, << rottura 1> della continuità dell'atto. L'arresto non pro­
viene dall'atto epperò non determina una << inerzia 1> improvvisa
dell'atto, bensì un ripiegarsi dell'atto che è caratteristica del << sa­
persi 1>.
Con la rottura della sua continuità dovuta alla << differenza 1>,
l'atto si dirige secondo due versi opposti tra loro : l'uno è indica-
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 101

tivo del (( ritorno >> dell'atto sulla cosa, l'altro è indicativo di ciò
su cui l'atto <( può >> ritornare.
È questo il senso in cui si può dire che ogni definizione è una
determinazione ulteriorizzante rispetto al definito : il duplice esito
dell'arresto dell'atto è, cioè, un ritornare sulla cosa dopo che essa
si sia percepita ed è un procedere oltre quella medesima cosa. La
figura che ne consegue è quella dell'<( avvolgere >>, per il quale (( av­
volgere >> l'esperiente non si trova davanti alla « cosa >>, bensì tra
cosa e cosa. Ci si trova <( immersi >> nella <( realtà >>, epperò non ci
si trova mai di fronte ad essa.
Potremmo dire, così, che l'atto nel suo ritornare non (( tocca >>
la cosa in un suo punto, ma la (( avvolge >> cogliendola nel suo
essere intera ; e così il limite della cosa non lo si (( trova >>, ma
lo si (( ritrova >>, chè il ritorno non è dell'atto su se stesso, ma
dell'atto sulla medesima cosa ed è, perciò, un riportare quella cosa
al punto in cui la si distingue da (( altro >>. (Il ritorno dell'atto su
se stesso avrebbe altrimenti esito nullo) .
L'atto è così (( riflessione >> e non è atto >> reiterato >> , ma sem­
pre (( potenziato >>, ossia atto che acquista· un valore. In forma
immaginativa si può dire, così, che il ritorno dell'atto sulla cosa è
possibile solo in quanto la cosa è tutta avvolta dal medesimo atto :
l'immagine dell' (( avvolgere >> adombra la totalità che non può
venire pensata analiticamente, per un disporsi di termini lineari,
come (( pura estensività >> ; ed una pura estensività è infatti solo
immaginabile, non veramente (( pensabile >> .
Se l'atto non avvolgesse la cosa, verrebbe dalla cosa (( assorbito >>
e non ritornerebbe a se stesso, ma solo su se stesso (come vuoto)
o si ridurrebbe alla cosa (come cieco) : la coscienza inerente al­
l'atto è appunto questo avvolgere che riporta la cosa nel circuito
del suo venire pensata e porta colui che pensa a sapere il proprio
essere pensante.
L'atto come pura linearità è dunque impensabile nello stesso
senso in cui è da distinguere una duplice nozione di <( totalità >>,
duplice inizialmente chè una delle due nozioni o si converte nel­
l'altra o si annulla : la totalità di (( definizione >> e la totalità di
<( esaustione >>.
La prima non è mai (( data >> ed è sempre (( supposta >> la si
(( ritrova >>, non la si (( trova >>, pbichè è detta con il ritorno sulla cosa
riportata alla sorgente dell'atto : essendo sempre supposta, essa è in­
negabile, ed è dialettico, non analitico il modo di (( averla >> (si usa
della negazione per tentare di eliminarla, tentativo che risulta vano) .
102 CAPITOLO TERZO

La seconda è l'alterità all'infinito, l'indefinita ulteriorità ed ha


carattere contraddittorio essendo sempre (inevitabilmente) oltre se
stessa, donde il suo carattere meramente postulatorio, in quanto
costruito per soddisfare determinate esigenze.
La totalità di definizione potrebbe venire anche detta dimen­
sione teoretica della << pura profondità >>, l'altra è, allora, la dimen­
sione pseudo-teoretica della « pura estensione >> ; la << pura profon­
dità >> è però pensabile, la << pura estensione >> è solo rappresenta­
bile in immagini.
Per << pura profondità >> intendo l'essere coestensivo a tutto,
così come lo è la definizione che non ha estensione propria ; è d'al­
tro canto impensabile una estensione che sia solo ( puramente)
=

estensione, chè una sola dimensione è impensabile sul piano del­


l'essenza, mentre è operabile o << costruibile >> come postulato.

§ IJ. - La totalità di definizione come << essenza >>.


Come atto avvolgente, dunque, la << definizione >> della cosa è
restituzione della cosa nel suo essere pienamente se stessa, nel
suo essersi << intera >> È questo il senso in cui diciamo che la tota­
lità di definizione non è << descrivibile >> nè << rapportabile >> e non è
tale da escludere qualche elemento della cosa stessa contrappo­
nendosi : essa è assunzione della cosa in quella semplice interezza,
per la quale la cosa è se stessa con tutte le sue mutazioni.
Con ciò è anche detto che la << medesimezza >> della cosa nel
suo essere intesa non può venire pensata solo come << qualcosa che
permanga >> nel divenire della cosa, proprio perchè quello stesso di­
venire detto anche della medesima cosa, ha senso solo in essa e per
essa, cosicchè le mutazioni per le quali si esperisce la cosa non
possono valere ad escludere la necessità dell'essenza.
Ciò che consegue a questo importante chiarimento è che della
<< pura divisibilità >> come della << pura indivisibilità >> non è possi­
bile dare definizione vera e propria : la pura estensione come il
mero atomo, fuori relazione, non sono dati in concetto e se un
concetto di essi si pretende, questo è solo in senso improprio, come
<< rappresentazione >> mascherata : la pura estensione esclude, in­
fatti, l'atto avvolgente che è proprio del definire concettuale
e il mero atomo esclude, da parte sua, la relazionalità in cui è
convertibile la nozione stessa di totalità ; si può dire; così, che
l'esteso come tale e l'inesteso come tale non riescono a porsi con­
cretamente non riuscendo ad avere una loro propria totalità.
\

I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO I03

L'espressione << come tale )) varrebbe per essi ad indicare la


loro impossibilità di essere << tali )), ossia la necessità di togliere ad
essi questa possibilità che è la loro stessa pensabilità : essi sono
pensabili solo come impensabili e, per quanto si pensino, la loro
impensabilità emerge sempre sul tentativo di pensarli ed emerge
sfuggendo totalmente al pensiero.
Questi rilievi ci mettono ora in condizione di chiarire che cosa
va inteso correttamente per << definizione )), dove si intenda avva­
lersi della definizione per << intendere )) la cosa nella sua verità
( nel suo << essere tale)>) .
=

Se con Aristotele diciamo che la definizione è << dichiarazione


non dimostrabile dell'essenza )> ( !) dove si chiarisca che questa << indi­
mostrabilità )) sta ad indicare il fatto che l'essenza non è pensa­
bile come un << qualcosa )) a sè stante o come parte univoca di un
tutto da cui si muova od a cui si pervenga come per una << dimostra­
zione )), dell'essenza si dice che si mostra da sola, che è, anzi, il
suo stesso mostrarsi nella impossibilità che essa non sia.
Che l'essenza non sia << dimostrabile )) vale qui che essa non è
<< descrivibile )) come << qualcosa )), non avendo parti, nè essendo
parte e non è << osservabile )) perchè nessuna esperienza può, come
particolare atteggiarsi sezionante o limitante, orientarsi ad essa se
essa non è già << presente )) e condizionante questo stesso orienta­
mento. Con ciò si dimostra, insieme, e che l'essenza non è ter­
mine di dimostrazione e che l'essenza non è possibile termine di
negazione (la ragione per cui essa è << indimostrabile )) è la sua inne­
gabilità) .
È agevole da questo punto di vista, rilevare come la formula­
zione kantiana della << definizione )) sia inadeguata, se la << defini­
zione )) Kant pensa quale << esporre originariamente in concetto
esplicito di una cosa entro i suoi limiti )) (2) . Ma definizione domanda,
infatti, che si sappia la cosa precedentemente alla determinazione
dei suoi limiti, e rimanda perciò, ad un altro concetto di defini­
zione che dia in uno cosa e suoi limiti. D'altra parte, la defini­
zione in senso meramente operativo perde proprio ciò che do­
vrebbe accreditarne il valore ; se si dice << ogni qualvolta le con­
dizioni sono cosi e cosi, il termine T sarà usato così e così )) (3) ,
resta da stabilire di che genere di << condizioni )) si tratti : se esse

(r) ARISTOTELE, A n. post., II, 96 a-I I .


(2) Cfr. E . KANT, Critica R . pura, Dott. del metodo, I, sez. I , par. r.
(3) Cfr. M. BLACK, Problemi d i Analisi, 1954, pag. 34·
104 CAPITOLO TERZO

sono << intrinseche >> alla cosa, la definizione è ancora quella aristo­
telica, se esse le sono << estrinseche >> non escludono, perciò, il ri­
mando all'essenza.
Va preso dunque in considerazione l'uso definitivo della pa­
rola << tutto », proprio perchè è solo come << definizione-concetto >>
che essa ha un senso. L'atto che dice il tutto della cosa include di
essa tutto, ossia nulla esclude : allora il << tutto >> è tutto nell'inclu­
sione, ed è perciò tutto o solo << inclusione >> tutto o solo l'atto del­
l'includere.
Se il tutto, così, si rivela essere un atto, anzichè un termine for­
mulabile in una dottrina che pretenda di possederlo e di comuni­
carlo, come atto esso non può venire dato. L'<< essenza >>, dunque,
non potendo venire << data >>, non può venire << detta >> perchè ciò
che si dà e che si dice viene dato e viene detto in virtù di essa. In
altre parole, chi nega della cosa l'essenza e chi pretende dirla si
pongono, rispetto ad essa, sul medesimo piano, cosicchè anche
storicamente, si tende ad oscillare tra la fiduciosa asserzione sulle
essenze e la esplicita rinuncia a prenderle in considerazione, - e
si può dire che non vi sia << convenzionalismo >> o << operativismo >>
che non intenda reagire ad una qualche metafisica delle essenze,
rivelandone l'arbitrarietà.

§ r8. - L'atteggiamento fondamentale umano operante nella defini­


zione concettuale.

La necessità che VI sm l'essenza della cosa corrisponde al­


l'atteggiamento fondamentale umano che della cosa non intende
cogliere ciò che interessa, ma intende la cosa nella sua interezza.
L'intendere l'intimità della cosa è intendere la << dignità >> della
persona, per cui non di strumentalizzare la cosa importa, nè co­
lui che la considera (strumentalizzando tutto, si strumentalizza
l'uomo stesso). L'atteggiarsi nei confronti del reale è anche disporre
il reale in modo che possa venire considerato da chi si atteggia in
rapporto ad esso.
Ogni atteggiamento particolare nei confronti della realtà si
inscrive in quello fondamentale e non può valere a sostituirlo,
così come la necessità dell'essenza (che l'essenza vi sia) risponde
alla domanda originaria << che cosa è ? >>, domanda che è l'origi­
nario atteggiarsi nei confronti della realtà. Tale domanda, infatti,
non si pone in ordine alla cosa, sezionata, divisa, limitata, ma
I FONDAMENTI DELLA F ILOSOFIA DEL LINGUAGGIO I05

in ordine alla totalità della cosa che è, così, voluta tutta intera.
In altre parole, non si può volere tutto (ogni cosa) , chè il tutto
in questo senso è sempre oltre, � sempre << indefinito >> solo << po­
stulato >> ; ma si deve volere la totalità di ciò che si vuole, chè
se si rinuncia a questa totalità si rinuncia in effetti e contraddit­
toriamente alla fondamentale struttura umana : l'oblio dell'intero
è anche decadenza dell'uomo.
Se << atteggiamento teoretico >> diciamo questo volere della cosa
il suo tutto, ogni altro atteggiamento può valere come uso pos­
sibile della cosa, non come soddisfazione totale (la soddisfazione
o è totale o non è soddisfazione) intesa dalla domanda.

§ rg. - Il modo indiretto di dire l'essenza.

L'essenza non può venire << detta >>, ma l'atteggiamento fonda­


mentale umano è la ricerca dell'essenza, l'essenza deve perciò
venire << detta >> : dalla contraddizione si esce solo rilevando il modo
indiretto di dire l'essenza. Dove si rilevi, come si è fatto sopra,
che l'atteggiamento fondamentale nei confronti del reale è quello
della domanda e che la struttura della domanda è il << 't'( �cr"t'LV ; >>
si può parlare di un modo diretto di dire ; in tal modo la cosa è
<< presente >> nel suo venire detta, per cui, piuttosto, la cosa << si
lascia dire >>.
La cosa, presente nel suo venire detta, equivale all'atto uno
e indivisibile che è cosa e parola, il loro logos, il rivelarsi della cosa
nella forma della parola. Il discorso diretto non può venire negato,
proprio per quella originarietà che è del tendere all'essenza ; ma
il nostro pensiero, che si struttura nel discorso diretto, trova a
questo discorso un limite, che lo costringe a strutturarsi come
discorso indiretto.
Se il discorso diretto è presenza della cosa nella parola, il di­
scorso indiretto è l'assenza della cosa che si << intende >> dire, la
quale, per essere detta << assente >> deve essere presente nella inten­
zione di dirla (non esiste, infatti, un'assenza assoluta, chè non
potrebbe venire pensata) ; ancora una volta il discorso diretto è
presente in quello indiretto, cosicchè i due discorsi si intersecano
tra loro e non sono pensabili come posti l'uno sull'altro.
Con ciò si stabilisce una doppia presenza : I. presenza della
cosa, 2. presenza della necessità della cosa nel suo doversi rive­
lare. Le due presenze corrispondono rispettivamente all'apodissi
I06 CAPITOLO TERZO

e all'anapodissi : si dà appunto apodissi anche dell'anapodissi , si


dà dimostrazione della indimostrabilità dell'essenza. Il discorso si
pone, tuttavia, intenzionalmente come discorso diretto e dove la
cosa non si possa dire direttamente, direttamente si dice almeno
l'impossibilità di dirla e con il linguaggio, dunque, si dice, ma
il tutto della cosa, l'intero ehe è la « la cosa stessa » si dice,
piuttosto, nonostante il linguaggio, dialetticamente.
La filosofia del linguaggio, che è il linguaggio in filosofia,
che è il modo . di dire il tutto di ciascuna cosa, è il modo dialet­
tico di dire l'essere, negando le negazioni (o fraintendimenti}
che di esso si pretendono.
CONCLUSIONE

La struttura del linguaggio è la struttura del dire.


<< Dire >> è originariamente << affermare >> [ad-firmare] ; affermare
è propriamente << rispondere >> ad una domanda che si struttura
di possibilità opposte od ipotetizzate come opposte (si afferma
che la cosa è così, avendo ipotetizzato con la domanda che essa
sia << cosi >> o << non così >>, ma altrimenti) ; la risposta è dunque una
delle possibilità proposte nella domanda e la domanda, con le sue
proposte, è cosi il contesto originario della affermazione e, perciò,
del discorso.
Domandare è domandare qualcosa, ossia la domanda è determi­
nata se è determinato ciò di cui è domanda : il valore della do­
manda è tutto nella cosa domandata.
Domandare qualcosa è domandare tutto di quella cosa, ossia
la domanda è intenzionalmente domanda totale, perchè la cosa è
veramente se stessa se è totalmente o interamente ciò che è ;
il tutto della cosa è il suo << essere >>.
Domandare tutto è tutto domandare (r) , ossia la domanda to­
tale si converte dialetticamente nell'esclusività del domandare,
perchè il tutto della domanda totale, implicito nella domanda, è
presente in essa e quindi da esso inglobato.
Ogni cosa, nella totalità di se stessa, è il domandare in atto ,
ossia l'esclusività del domandare è la non-assolutezza di qualsiasi
cosa che rientra nella totalità del domandare ; il tutto che si con­
verte nel domandare non è assoluto.
Il domandare in atto è non essere totalmente atto, ossia la non
assolutezza della domanda totale è la restituzione dialettica del­
l'Assoluto come Atto puro, l'attestazione dialettica della << tra­
scendenza >> dell'Assoluto.
In tal modo, il linguaggio che << dice >> la totalità della cosa si con­
verte nel dire se stessa da parte di quella cosa ed è, radicalmente,
il suo domandare ragione, il non essere << ragione >> a se stessa.

(1) La formula è di M . Gentile ; si leggano, a proposito i lavori che la pre­


parano e quelli che la svolgono (citati nel testo).
I ND I CE

INTRODUZIONE Pag. v

CAPITOLO PRIMO

SoMMARIO : § I . Il carattere filosofico della presente ricerca,


pag. I . - § 2 . Il carattere dialettico, o negatorio, della filosofia,
pag. 3 · - § 3. La dialettica dell'identico livello, pag. 5 · - § 4·
La dialetticità della filosofia e il momento analitico della filo­
sofia del linguaggio, pag. 6. - § 5 · I limiti di validità dell'ana­
lisi in filosofia del linguaggio, pag. 9. - § 6. Limiti di validità
e valore, pag. 1 1 . - § 7· Come è possibile una filosofia del lin­
guaggio, pag. 1 2 . - § 8. Concetto di « teoria » e sua riduzione,
pag. 1 5 . - § g . La riduzione del concetto di teoria e la radice
pragmatica dell'intellettualismo. pag. 1 7 . - § I o . La nozione
ateoretica dello « in generale » come base della teoria, pag. 1 8 .
- § 1 1 . Riduzione del procedimento analitico all'indetermi­
nato, cioè al contraddittorio, pag. 2 1 . - § 1 2 . Differenza on­
tologica tra il contraddittorio ed il negato, pag. 2 2 . - § 1 3 .
La dialetticità come impossibilità d i u n procedimento anali­
tico sulla totalità, pag. 2 5 . - § 1 4 · La domanda totale e la to­
talità domandata, pag. 28. - § 1 5 . L'intero della domanda to­
tale e della totalità domandata, pag. 30. - § 1 6. La conversione
dialettica della totalità domandata nella esclusività del do­
mandare, pag. 3 2 . - § 1 7. La domanda come riferirsi in atto
alla risposta, pag. 3 3 · - § 1 8 . La problematicità nella « defi­
nizione >> concettuale, pag. 36. - § 1 9 . L'intersoggettività
come dimensione dialettica, pag. 37· - § 20. La struttura
dialettica dell'implicazione, pag. 38.

CAPITOLO SECONDO

SoMMARIO : § 1 . L'insignificanza teoretica del disaccordo,


pag. 41 . - § 2. La preoccupazione di raggiungere un accordo
effettivo è empirica e filosoficamente ingenua, pag. 4 2 . - § 3 ·
Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune, pag. 45 ·
- § 4· La superfluità del problema del « solipsismo », pag. 46.
I lO INDICE

- § 5· Presenza e coscienza, pag. 49. - § 6. La presenza pura,


pag. 5 1 . - § 7· La coscienza della presenza pura, pag. 55· -
§ 8. La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto.
La realizzazione (l'attualismo come attualismo puro) , pag. 56.
- § g . La realizzazione come negazione e come posizione. (L'at­
tualismo monistico come naturalismo), pag. 5 8 . - § Io. Il
rapporto tra atto ed aggettivazione, tra presenza e presenti­
ficazione, pag. 59· - § I I . Importo teoretico dell'espressione
« Verum et esse convertuntur "· pag. 6 r . - § I 2 . La metafori­
cità intrinseca della parola, pag. 63.

CAPITOLO TERZO

SoMMARIO : § r. La « cosa stessa " come l ' intero di se stessa,


pag. 67. - § 2. L'indentità pensare-essere, pag. 70. - § 3 ·
I l riproporsi del pensiero su s e stesso come origine della parola
" cosa "• pag. 72. - § 4· La duplice funzione della parola << cosa "•
pag. 74· - § 5· Le condizioni ad un'indagine critica, pag. 76.
- § 6. L'atto critico o negatorio come atto di pensiero nella
coscienza, pag. 78. - § 7· La ricerca del mezzo logico ade­
guato e l'interrogazione, pag. 79. - § 8. I limiti teoretici
delle asserzioni condizionate da interessi, pag. 8r . - § g. La
riduzione pretesa del << sapere " al << potere " e il concetto ateo­
retico di << teoria " · pag. 8 3 . - § I o . L'interpretazione matema­
ticistica nei suoi limiti, pag. 85. - § rr. La teoria come for­
mulazione generale, pag. 88. - § 12. La radice dell'inter­
pretazione matematicistica , pag. 9 2 . - § I 3 . Le condizioni im­
poste dal concetto d'interpretazione, pag. 9 3 · - § 1 4 . Il ca­
rattere teorico del controllo sull'esperienza, pag. g8. - § 1 5 .
L o spostamento del limite come essenziale alle determinazioni,
pag. 99. - § 1 6 . La determinazione come ritorno dell'atto : to­
talità di definizione e totalità di esaustione, pag. Ioo. - § 1 7.
La totalità di definizione come " essenza " · pag. 1 0 2 . - § 1 8 .
L'atteggiamento fondamentale umano operante nella defini­
zione concettuale, pag. 104. - § 1 9 . Il modo indiretto di dire
l'essenza, pag. 105.

CoNCLUSIONE Pag. 107

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