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PAOLO
DI ASSISI
I
FONDAMENTI
DELLA
FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO
INTRODUZIONE
VI
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
VII
Roma, 1963.
E . SEVERINO, La struttura originaria, Brescia, 1958.
E. SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, Milano, 1962.
Si veda soprattutto di M, GENTILE, Filosofia e Umanesimo, Brescia, 1948,
Vili
INTRODUZIONE
Questo vanificarsi del trascendentale dialettico ed l'attestazione dialettica che il linguaggio, nato per significare ,
non pu valere dove non valgano l'i oggettivazione , l' entificazione , la cosalizzazione dell'esperienza e che l'uso filosofico
del linguaggio la critica dissoluzione della sua pretesa di significare
la totalit. Ed ogni cosa , nella sua concretezza o pienezza d'essere,
la totalit di se stessa.
Del linguaggio ci si serve dunque, in filosofia, per dire che
con il linguaggio non si dice di filosofico se non la necessit di
considerarlo tutto condizionato, necessit di dire nonostante il
linguaggio, dialetticamente.
'
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da comunicare se non se stesso e non potrebbe, perci, comunicarsi , o che esso un particolare caso (particolare anche se
insopprimibile e sempre presupposto) di una totalit in cui si
inscrive ed tale da non potersi mai convertire in essa.
Questa totalit, appunto, che pur con il linguaggio si comunica,
dal linguaggio indipendente se questo si inscrive in essa e tale indipendenza gi l'autonomia del dire la totalit, che la totalit
nel suo affermarsi o filosofia che afferma se stessa : il pieno epper concreto affermarsi della filosofia.
2. II carattere dialettico, o negatorio (i), della filosofia.
La forma pi comune e perci stesso pi banale in cui,
implicitamente od esplicitamente, appare il dubbio intorno al
significato ed al valore della filosofia quella vagamente storicistica che pretende alla misura del vero come attuale e della
attualit come contemporaneit , nel senso delle rappresentazioni collettive (2) delle quali si materia ci che , di volta in
volta, e per tutti i tempi, il nostro tempo , la moda del tempo .
Tale forma in effetti la domanda : la filosofia ha ancora
qualcosa da dire nel nostro tempo ? , la quale domanda, presa
nel suo significato preteso, suppone in ogni caso risolto o mai
discusso che cosa significhi dire qualcosa ed avere ancora da
dire e nostro tempo ; essa suppone tutto questo perch dal
senso comune che essa muove ed in esso che si mantiene, cosicch il suo valore dipenderebbe solo e tutto dalla rilevanza di
quel senso comune in filosofia, ma, dove si pervenga a tale
consapevolezza, gi dissolta la pretesa di porre una simile
domanda intorno alla filosofia, perch la consapevolezza critica
del limite del senso comune (nonch delle questioni che esso
suscita ed alimenta) gi filosofia (3).
Quella domanda, presa nel suo effettivo significato, si semplifica nella seguente : la filosofia ha qualcosa da dire ? . Perch,
(1) Negatorio diciamo e non negativo , perch la negazione vi compie la funzione positiva della riaffermazione del limite o dialetticit essenziale al
filosofare, p e r l a quale il negativo condizione al rilevamento del vero, dove tutto
sia messo in discussione (ipotetizzato come non vero). Cfr. G. R. BACCHIN, Originariet e mediazione nel discorso metafisico, Roma, 1963.
(2) Per rappresentazioni collettive intendo l'uso comune di parole non sufficientemente consaputo nelle sue ragioni : di t u t t i e di nessuno.
(3) Si veda, a proposito, il Cap. I I , 3.
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si
X.
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que facilmente concessa della iniziale parit di diritti tra la filosofia e chi la nega, mettendo in evidenza con un atto di natura
filosofica che almeno questa identit di livello sarebbe filosofia
(se i livelli fossero diversi, la negazione non sarebbe mai pertinente), si conclude escludendo (i) proprio quella parit di diritti,
riducendola a semplice pretesa che discussione teoreticamente
nulla.
L'identico livello, supposto nella figura della parit di diritti,
sarebbe dunque in qualche modo filosofia , perch, se non lo fosse,
di essa non si potrebbe dire che , n si potrebbe pretendere che
essa non sia. Ora, basta che essa sia in qualche modo filosofia perch
sia veramente filosofia, perch l'insufficienza del modo qui, piuttosto, l'insufficienza di chi lo intende (o pretende) vero, mentre
che la filosofia sia gi annunciata in questo qualche modo deriva dal fatto che essa sempre presente anche se oscuramente
consaputa (2).
4. La dialetticit della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio.
Se la filosofia il porsi e l'attuarsi del processo di giustificazione, la filosofia del linguaggio il linguaggio come tale, ossia
la presenza del linguaggio nel suo concetto (3) ; con ci resta escluso
(1) Concludere escludendo , propriamente, procedere negando valore
alla premessa da cui si p a r t e (cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc. cit., App. 14,
la riflessione esplicativa dell'unit).
(2) Questa perenne presenza della filosofia non viene constatata come un fenomeno che l'esperienza offre constantemente (ci potrebbe valere, al pi, per stabilire che vi sono, ossia esistono, taluni che si dicono filosofi ), m a viene recuperata
col tentativo di negarla, ossia dialetticamente ; la dialetticit del metodo filosofico
importa la dialetticit della sua affermazione : dialettica anche l'affermazione
della dialetticit del filosofare, essa una cosa sola, cio, con la filosofia stessa.
(3) Quali e quanti sono i problemi del linguaggio ? Il problema dell'origine,
dello sviluppo del linguaggio, della struttura dei sistemi linguistici, del significato
delle espressioni linguistiche, della funzione del linguaggio.
Di fatto, questi problemi vengono distinti t r a loro ed , invero, utile circoscrivere ciascun problema onde approfondire la conoscenza dei suoi termini, m a una
a t t e n t a riflessione su tale problematica rivelerebbe che ciascun problema richiama
l'altro e della soluzione eventuale dell'altro si avvale. Cosi, ad esempio, il problema
della funzione del linguaggio si collega con quello dell'origine e costituisce insieme
a questo il problema pi fondamentale della natura del linguaggio.
Usando delle classificazioni di Morris e di Carnap si potrebbe denominare
sintattico il problema della s t r u t t u r a e semantico quello del significato.
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IO
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l'analisi e, precisamente, se l'analisi sia compossibile con la filosofia e, in caso, se essa sia un momento del processo filosofico o
ne esaurisca l'intero processo.
Ma, per stabilire se l'analisi sia compossibile con la filosofia,
va stabilito il senso in cui l'analisi pu dirsi un processo in s concluso anzich un procedimento finalizzato a momenti ulteriori ;
per processo intendo qui lo svolgimento di un'iniziale assunzione
da cui non dato uscire e il cui risultato gi preconcetto all'inizio ; per procedimento intendo il passaggio da un momento >> ad un altro, nessuno dei quali proconcetto in altro,
epper passaggio che presuppone il disporsi dei termini l'uno
all'altro ulteriore.
In questo senso, anche il procedimento, ove venga totalmente
consaputo, si inserisce in un processo, e non si converte perci
in esso e mantiene, pur sempre.u la distinzione da qesto, cos
come si mantiene in atto la distinzione tra atto e operazione.
Ora, se l'analisi un procedimento, anche un'operazione,
epper un agire su termini presupposti, il cui valore tutto in
quei termini e quindi tutto presupposto e la funzione dell'analisi
sarebbe allora quella di disporre quei termini nel modo pi chiaro,
ma non per questo pi vero, che la chiarezza sempre relativa
alla necessit di uscire da una precedente oscurit o confusione (i),
la quale pu venire riconosciuta solo dove gi si sia in qualche
modo usciti da essa, usciti in virt di quell'atto stesso che stabilisce
la necessit di uscire.
Non potrei, infatti, sapere che debbo chiarificare un discorso
se non sapessi che esso oscuro, se non sapessi, cio, che esso
insufficientemente chiaro, chiaro solo relativamente ad una situazione
che ho gi superato, situazione variabile, quindi, e che, variando,
determina di volta in volta, come per una funzione matematica,
i diversi gradi di chiarezza.
Se l'analisi, come procedimento e quindi operazione, ha dunque
la funzione ( = il compito) di chiarificare il discorso, essa non pu
non dipendere da un canto dalla effettiva distinzione dei termini
zione e consapevolizzazione del linguaggio, se non si perviene alla piena consapevolezza della utilizzabilit dell'analisi come tale : quanto manca per lo pi
alle impostazioni essenzialmente storiche , meglio informative , delle quali si
comincia ad abbondare anche in Italia ; si veda, ad esempio, l'opera citata del
Pasquinelli.
(i) da esaminare a parte il nesso t r a chiaro e distinto , non due criteri,
ma uno : chiaro ci che distinto.
II
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dipende dalla filosofia, perch essa rigorosa se rigorosamente -pensata la cosa su cui essa si esercita.
La cosa poi rigorosamente pensata sp non si esclude il
suo esser(si) la totalit di se stessa, se non si esclude, cio, l' essere che totalit intima di qualsiasi cosa, l'essere che
metafisica (i). Qui l'analisi del linguaggio sarebbe, al pi, il
linguaggio in quanto analizzabile , ci che del linguaggio non
totalit , essere , valore , ma insieme , termini , operazioni (2), dei quali la filosofia pur abbisogna per dire se stessa,
ma che essa deve negare come valori se intende veramente dirsi ;
questo negare ci di cui si abbisogna non ha senso, analiticamente
parlando, ma ha tuttavia un suo senso, precisamente il senso dialettico della filosofia ( 2).
7. Come possibile una filosofia del linguaggio.
Per determinare il modo in cui legittimo parlare di filosofia del linguaggio indispensabile che si precisi fin dall'inizio
il valore di quel di con cui si pongono sintatticamente in rapporto il linguaggio e la filosofia, supponendo che il linguaggio si
inserisca nella filosofia, come entro la totalit, e che la filosofia
si strutturi e si comunichi con il linguaggio che la significa.
Poich vanno mantenute e la presenza del linguaggio nella
(1) Cfr. G. R. BACCHIN, SU l'autentico, cit., pp. 37-38.
(2) Che cosa si intende per linguaggio ? Un utile punto di riferimento
rappresentato dalla formula linguaggio ogni sistema di segni che serve per
comunicare (cfr. A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza, filosofa, cit., p. 45).
Notiamo, per, che, come sistema , il linguaggio un insieme ordinato e
di esso si pu dire quanto si dice appunto di tali insiemi , come caso particolare
di questi ; come sistema di segni esso rimanda direttamente ai significati
ed involve la questione di che cosa sia effettivamente possibile significare, come
comunicazione esso involve la duplice questione della intersoggetivit (esclusivamente filosofica) e della oggettivit delle cose comunicabili (anche questa
filosofica e snodabile solo al livello del rapporto teoretico t r a presenza ed oggettivazione . Se il fondamento della comunicazione , essenziale al linguaggio
come sua funzione , la comunione , essenziale al linguaggio il modo di essere
d coloro che lo usano, che , perci, Vessere stesso degli enti comunicanti t r a loro
(cfr. G. R. BACCHIN, Tempo e comunione come senso della storia, in Rivista internazionale di filosofia politica e sociale (1964) pp. 206-211). Non si d una
qualche informazione che non sia anche espressione di chi informa e del
suo modo d'essere.
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(1) Cfr. PIETRO ISPANO, Summ. Log. VII, 5, 11 ; m a anche Stuart Mill la usa
[Logic, I, cap. I I , par. 2) ; pi recentemente HUSSERL (Logische Untersuchungen,
II, par. 4) nel senso di p a r t i del nome. Cfr. anche E. CASARI, Lineamenti di logica
matematica, Milano, 1961, p. 19.
(2) Nella logica contemporanea la parola connettivo viene usata nel senso
del simbolo improprio che, combinato con una o pi costanti, d luogo ad una
nuova costante.
(3) Uso di questo termine nel senso indicato dal <n][iatveiv, ossia, in quello
aristotelico di designazione e denotazione , perch questi due sensi, distinti nell'uso contemporaneo, valgono ad indicare, comunque, il riferimento
di un segno al suo oggetto. La dimensione semantica del linguaggio gi t u t t a
implicitamente nel segno . Ogni segno di natura semantico perch indica
qualcosa di determinato (segno di
; dove si tolga il di il segno si
chiude in se stesso, come segno nullo, non segno). Ne deriva : 1. L'impossibilit di una mancanza assoluta di significato e, di conseguenza, la relativit
della mancanza di significato ; ossia il variare dei significati in rapporto ai diversi contesti. Uno scarabocchio, ad esempio, non ha alcun significato solo in rapporto alla scrittura, m a lo psichiatra se ne duo servire come trumento clinico
di indagine.
2. Il segno non produce il significato, m a lo investe totalmente senza esaurirlo :
non lo produce, perch dove mancasse il a significato , non vi sarebbe segno ;
lo investe totalmente, in quanto si colloca al posto del significato , lo sostituisce
in ordine alla comunicazione ; non lo esaurisce, perch il significato pu avere
innumerevoli aspetti a loro volta significabili (per avere un segno che esaurisca
il suo significato, bisogna disporre di un significato t u t t o costruito insieme al (suo)
segno (come nel linguaggio matematico).
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caduti in questo equivoco, l'eliminazione della filosofia come autonoma appare inevitabile, proprio perch una filosofia che non
fosse riflessione o coscienza critica che le scienze, strutturazioni
dell'esperienza, acquistano progressivamente di se stesse, sarebbe
almeno superflua e, quindi, ingombrante. Ma codesta eliminazione della filosofia consegue all'equivoco ed , perci, tutta equivoca ; essa, infatti, suppone o che la filosofia sia riflessione sul
modo di costituirsi degli oggetti o che pretenda di vincolare a
priori gli oggetti al suo modo di vederli : riflessione critica sulla
scienza o dogmatismo. Alla riflessione si connette il concetto
di teoria .
8. Concetto di teoria e sua riduzione.
Il concetto di teoria si rivela insignificante se lo si riporta
a ci che comunemente con questa parola si intende. Comunemente, per quel linguaggio il cui valore, identificandosi con l'uso,
sempre solo presupposto, si dice teoria per indicare il momento
espositivo o descrittivo di un qualche ordine di operazioni o di
norme e, in questo senso, teorico si oppone a pratico , come
momento in cui, pi che il fare o agire o produrre, si vuole dire
il modo che si ritiene di poter o dovere tener in quel fare o agire
o produrre.
Al termine teoria infatti connesso il senso negativo di qualcosa di insufficiente o di inadeguato rispetto all'esperienza effettiva ed esso viene fatto equivalere, perci, ad astratto : in teoria
le cose starebbero in un modo, praticamente, cio in effetti, le
cose andrebbero altrimenti.
Ed anche se si vuole evitare la contrapposizione di teorico
a pratico come di negativo a positivo, di disvalore a valore,
la parola teoria conserva almeno il significato di esposizione
preliminare o, ed lo stesso, di riesposizione riassuntiva di un
ordine di realt che, rispetto alla teoria, si presuppone concreto.
Una teoria generale della scienza (una epistemologia), ed una
teoria del metodo, sarebbero pur sempre momenti distinti da
quell'effettivo operare che viene fatto o precedere o seguire al
discorso intorno ad esso. Tale distinzione il senso comune (ed
il comune linguaggio) mantiene sempre, che di essa si materia
appunto ogni esposizione di criteri o di valori che non
ritenga di coincidere concretamente con quei valori e fare essa
stessa uso di quei criteri .
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L'insignificanza teoretica della teoria , cos, la stessa pretesa di esporre con un discorso l'intera consistenza del discorso.
Essa si rivela dove si dispongano analiticamente i termini nei
quali un dato discorso si struttura, in modo che l'esposizione
abbia il carattere della provvisoriet rispetto a ci che vi si espone,
provvisoriet che consisterebbe tutta nella impossibilit di ridurre
l'esposizione a ci di cui esposizione, il dire al dire se stessa
da parte di quella cosa.
La provvisoriet cos da ridursi alla costruzione di un linguaggio che si esaurisca nell'indicazione semantica della cosa,
appunto quale indice di valori e di criteri, nonch del loro nesso.
Ogni descrizione provvisoria del sapere avviene cos per mezzo
di una costruzione del sapere stesso, il quale in tanto sarebbe
autentico sapere in quanto la costruzione fosse ad esso estranea,
ma anche ad esso identica : estranea, perch quel discorso indicativo e non risolutivo del sapere ; identica, perch il sapere
risolutivo di qualsiasi discorso epper dello stesso discorso con
cui lo si dice.
Questa situazione aporetica, consistente nel fatto che nel sapere si distingue ci che col sapere si identifica, domanda che il
senso comune che determina l'aporia non possa costituirsi come
ci in base a cui risolvere l'aporia, superandola.
Il concetto di teoria, quale provvisoria indicazione di cose
concrete fuori di essa, si riduce a quel senso comune mediante la
costruzione dell'aporia in cui il sapere e la sua indicazione si elidono reciprocamente nell'impossibilit di indicare un sapere
senza che si inglobi tale indicazione nel sapere indicato, con la
consapevolezza del valore dell'indicazione come tale : indicare il
sapere necessariamente sapere che l'indicazione vale come indicazione ed , quindi, sapere il proprio sapere.
In tal modo, dire il sapere significa soltanto il dire se stesso
da parte del sapere ed anche che il proprio dirsi, il proprio mostrarsi del pensiero, venga detto : soltanto dirsi ed anche venire
detto sono, appunto, la contraddizione in cui ci si viene a trovare
se si vuole erigere il concetto di teoria, con la sua immanente
aporia, in assoluto, teorizzando all'infinito la sua validit.
Ci che teoria pu significare allora niente pi che il presupposto , il quale non pu giustificarsi come tale proprio in
quanto, come tale, non pu non presupporre sempre la propria
giustificazione.
Il senso comune cos, nella sua stessa avversione alla teoria
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operazione, in quanto negazione ; il tutto la dialetticit dell'impossibile che non sia), per cui dovremmo dire, piuttosto, che
il discorso nel suo svolgimento (in atto) pone come suoi limiti
il nulla e il tutto e, precisamente, pone il tutto come impossibilit
del nulla e pone il nulla come la negazione intrinseca a tale impossibilit.
Il tutto l'impossibilit del nulla nel senso che, dove il tutto
non fosse, ogni singola determinazione e l'insieme ipotetico di
tutte le determinazioni non sarebbero ; diciamo, dunque, che la
nozione di totalit , analiticamente considerata, contraddittoria :
dire che domandare tutto tutto domandare tautologia nello
stesso senso in cui domandare tutto contraddizione ; quella
tautologia la ripetizione indefinita di una contraddizione, nello
stesso senso in cui il tutto di esaustione l'indeterminato in una
serie determinata di determinati (i singoli momenti del processo
non potendo non coesistere, nel mentre che il processo, per ogni
termine che la possibilit e quindi la necessit del suo ulteriore (i), non pu non essere infinito).
La totalit di esaustione ha, al pi, carattere postulatorio,
non essendo mai determinabile ; ma questa postulazione si rivela
contraddittoria dovendosi porre come intrinsecamente irriducibile
all' indeterminato , che postulare l'indeterminato postulare il
nulla ; coerentemente non postulare, o postulare e non postulare,
contraddirsi appunto.
La contraddizione analitica della domanda di tutto , cos,
costruzione analitica di un rapporto tra termini i quali escludono
precisamente quel rapporto, perch il domandare importa una
dualit tra l'atto e la cosa che in esso e per esso si pone come
domandata ; la quale, da parte sua, non pu non includere lo
stesso atto del domandare, il quale, nel tutto, domanderebbe se
stesso, vanificandosi in un processo all'infinito.
Fin da questo momento possiamo dire che la problematicit
pura, quale domanda della totalit, analiticamente considerata,
sarebbe contraddittoria, perch la reiezione universale della certezza con cui il dubbio si attua domanda che si assuma l'universale come inattaccabile dal dubbio : dubitare di tutto possibile solo dove il tutto sia ; ma, dove il tutto , non possibile
dubitare di tutto : dell'esservi del tutto non possibile dubi(i) Cfr., per la s t r u t t u r a della determinazione ulteriorizzante , G. R. BACCHIN, L'Originario
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, precisamente, l'identit tra posizione e toglimento : la progressione la sua stessa regressione, ed allora n si progredisce
n si regredisce, cio non v' processo.
Ci che dal rivelamento di tale contraddittoriet consegue non
che il tutto sia finito, e, perci, esauribile da parte di un progresso che ne svolga fino al termine la finitezza, bens che un
processo inteso alla determinazione radicale non pu non essere
finito ; che il fondamento, cio, non pu non esservi.
Un tutto finito equivarrebbe, infatti, ad un tutto indefinito , perch esso non potrebbe non includere quell'atto onde
detto come tale, ma quell'atto verrebbe sempre riproposto per
dire la sua inclusione e, quindi, verrebbe sempre negato dal suo
stesso dirsi incluso : dire che il tutto include l'atto del dire il
tutto implica indefinitivamente un atto che dica tale inclusione,
la quale, perci, non pu non restare indefinita.
La risoluzione del procedimento analitico al contraddittorio
importa la determinazione del procedimento come dialettico : la
dialetticit provata con la negazione dell'analiticit. Ma proprio
questa determinazione che domanda il duplice chiarimento della
distinzione tra negazione contraddittoria e negazione dialettica :
la prima come negazione indeterminata, la seconda come determinatezza ulteriormente indeterminabile. Il duplice chiarimento
si ottiene con l'esame della differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato.
12. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato (i).
Contraddittorio ci che posto e tolto ; l'atto che pone
lo stesso atto che toglie ; quest'atto non pone n toglie, semplicemente non .
Negato ci che posto per venire tolto ; l'atto che pone
non lo stesso atto che toglie ; cio gli atti sono due ed entrambi
reali, ma solo uno dei due vero, perch se vero l'atto che pone,
non pu non essere falso l'atto che toglie, e viceversa.
Il contraddittorio esce, cos, dalla considerazione teoretica ;
esso ateoretico, ossia il nulla non (radice pragmatica della no(i) Cfr. G. R. BACCHIN, Intero metafisico e problematicit pura, in Rivista
di Filosofia Neoscolastica (1965), articolo in risposta a E. SEVERINO, Ritornare
a Parmenide, in Riv. di Filos. Neosc. . (1964), p p . 138-175.
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traddittorio ; ma esso non , dunque esso piuttosto il contraddirsi, ossia il proprio togliersi, ma contraddittorio anche come
togliersi, perch per togliersi bisogna essere e per essere bisogna
almeno non togliersi.
Ci significa che il contraddittorio si deve togliere, ma nel
senso che esso non pu essere ( il nulla) ; e, perci, non lo
si pu considerare nemmeno per toglierlo : esso contraddice anche
la propria assunzione: assumere il contraddittorio non-assumere.
Del contraddittorio tuttavia si dice almeno implicitamente,
dicendo che qualcosa pu essere : non pu essere che il reale
non possa essere, non pu essere che il possibile non possa essere.
Ma, non appena ci si mette ad esplicitare la contraddizione, si
cade appunto nella contraddizione, perch la si considera come
essente .
Allora la contraddizione non implicita, ma solo implicitamente detta, nel senso che la si dice solo indirettamente, dicendo
l'impossibilit che essa sia, che la possibilit di contraddirsi :
l'impossibilit che contraddizione la stessa possibilit che ci
si contraddica.
Cio la contraddizione si rileva nella sua possibilit di venire
evitata, la quale per se stessa la possibilit che non la si eviti ;
la necessit di evitare la contraddizione , per se stessa, la possibilit di contraddirsi.
Ma la nullit teoretica che la contraddizione essendo teoreticamente indicata, indicata incontraddittoriamente. Se la contraddizione il nulla e se questo nulla viene teoreticamente indicato come contraddizione, il nulla posto dalla sua indicazione,
nella sua indicazione, senza alcun residuo.
Ma il nulla, totalmente presente nella' sua indicazione, non
rende nulla questa indicazione ; che, se la rendesse nulla, non
sarebbe mai possibile riconoscerlo e dirlo. Del resto, rendere nullo
qualcosa, nientificare, impossibile, perch questa operazione domanderebbe, in ogni caso, che vi sia la cosa da nientificare la quale,
se non , rende nulla la nientificazione che si pretende di essa.
Nientificare equivale, cos, a riconoscere nullo qualcosa, la
quale cosa si presenta come qualcosa , ma non ci che sembra
essere ; dove il nulla non mai assoluto, perch qualcosa pu
sembrare qualcosa e non esserlo solo se , in ogni caso, qualcosa : dire che qualcosa non come sembra equivale a dire che essa
qualcos'altro.
Allora, ci che viene nientificato gi nullo in se stesso e nien-
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stesso del convertirsi, che non pu essere astratto se consapevolezza (o posizione) dell'astratto come tale e della impossibilit
di eliminare l'astratto dalla considerazione del filosofare o impossibilit di ridurre il momento iniziale all'originario e, perci, di
accreditare la risoluzione monista.
La consapevolezza del presupposto, che consaputo come
tale solo in virt di ci che, rinvenendone Yinsopprimibilit empirica, ne toglie la pretesa di valere come innegabilit originaria,
atto che non pu eliminare quel presupposto e non pu ridurvisi : non pu ridurvisi senza emergere sulla sua riduzione (ed
questa la portata dell'attualismo), non lo pu eliminare senza
anche presupporlo, senza presupporre, appunto, ci di cui si progetta come eliminazione (ed , radicalmente, l'istanza dell'esistenzialismo, l'incontrovertibile affermazione del residuo esistenziale) (1).
Se la filosofia concreta posizione solo in quanto l'atto del
convertirsi da astratta (la nozione presupposta) in concreta (la
innegabilit), la filosofia concreta dialetticamente : il convertirsi
, infatti, dialettico, che se fosse solo analitico non sarebbe mai
concreto, n potrebbe mai far risultare il concreto : non sarebbe
mai concreto perch l'operazione su astratti non pu modificare
il loro carattere astratto, ed , in questo senso, operazione astratta,
cio nulla ; non potrebbe far risultare il concreto perch sarebbe,
analiticamente, somma di astratti, cio sarebbe concretamente o
veramente astratta.
La dialetticit del filosofare dunque con l'aporia del cominciamento che , dicevamo, il cominciamento come aporia. E
l'aporia si pone come l'impossibilit di venire accettata (contraddittoriet) e, cio, come posizione originaria della problematicit
che in tanto problematicit in quanto incontraddittoria, ossia
improblematizzabile (2).
La problematicit cos la duplice impossibilit di sopprimere
l'aporia e di accettare l'aporia : la soppressione dell'aporia sarebbe
ancora aporetica, perch domanderebbe all'infinito la posizione
aporetica del fondamento in virt di cui, ad un tempo, spiegare
l'insorgere dell'aporia e la necessit di eliminarla (contraddittoriet dell'aporia assunta in assoluto) ; l'accettazione dell'aporia
(1) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario
ecc., cit., I l i , p a r . 4.
(2) Cfr. M. GENTILE, La problematicit pura, Padova, 1942 ; e G. R. BACCHIN, Su le implicazioni ecc., cit., p p . 47-52.
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sono dati nel loro stesso venire trascesi e, perci, nel loro non
essere il tutto.
Il tutto, senza di cui quei limiti non sarebbero perch dovrebbero necessariamente convertirsi in esso, dunque limite e limite
inesperibile. Cos, la posizione del limite inesperibile posizione
inesperibile e, perci, intrascendibile.
15. L'intero della domanda totale e della totalit domandata.
L'intero, una volta che se ne chiarisca il recupero dialettico,
si rivela l'integrale, perch recuperato dal decadimento ad un
tutto risultante di parti (a parte moltiplicata all'infinito, che il
progressus in indefinitum, (cfr. 13) : l'intero non il risultato
di una qualche operazione.
Ne segue che l'intero da dirsi di qualsiasi cosa che si dica,
in quanto l'intero non una cosa (le altre cose che da esso si
distinguessero sarebbero parti di esso e da esso non si distinguerebbero), n si pu dire che esso sia l'insieme di tutte le cose
(o ciascuna cosa gi intera o nessuna di esse pu aggiungersi
ad altra, che l'aggiunzione determinata solo se aggiunzione a
qualcosa di determinato).
Se ciascuna cosa, in quanto pu essere detta, l'intero, non
si pu moltiplicare l'intero per ciascuna cosa : questa moltiplicazione sarebbe nient'altro che la riproposizione dell'intero all'infinito ; non che tale moltiplicazione non sia operazionalmente possibile, ma essa possibile solo a condizione che l' intero sia
identico in ciascuna cosa ; ma, se esso identico in ciascuna cosa,
la moltiplicazione dell'intero per ciascuna cosa del tutto superflua.
Ne segue che nessuna cosa l' intero , perch ciascuna cosa
lascia fuori di s tutte le altre e implica una congiunzione tra se
stessa e tutte le altre ; questa implicazione l'unit dualizzata
del tutto ; il che significa che essa, potendosi ripetere all'infinito,
il processo inverso della moltiplicazione, la dicotomia all'infinito.
I due processi, inversi tra loro, teoreticamente si equivalgono
(cfr. 13) : dividere una cosa per se stessa come moltiplicarla
per se stessa : progressione e regressione sono aspetti empiricamente opposti del processo di numerazione, di un processo che ,
piuttosto, un procedimento inconcludente.
Ma dividere una cosa per se stessa non equivale a dividerla
da se stessa ; la dicotomia suppone, infatti, la identit della cosa
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o che la cosa, anche divisa, permanga ci che (i) (per cui la divisione, ponendosi qui come operazione sull'indivisibile, si pone
come estrinseca a ci su cui si esercita, irrilevante ai suoi termini) ;
laddove, invece, l'astrazione suppone che ci da cui qualcosa
tolto non sia ci che da esso viene tolto : non possibile astrarre
tutto da una cosa (sarebbe o assumere interamente la cosa o interamente negarla).
Nella dicotomia l'identico supposto indivisibile da se stesso
(p. es. l'i estensione dicotomizzabile, in quanto la si pu dividere solo perch essa sempre, identicamente, divisibilit) ; nella
astrazione l'identico supposto come ci che precede e condiziona
(1) SEVERINO, op. cit., pp. 375-410, La metafisica originaria.
Non penso che si possa dire con il Severino che una qualsiasi determinazione o contenuto semantico x pu assumere anche il significato (valore) dell'essere formale , ossia pu valere come l'essere stesso, tale che la proposizione
x sia da interpretarsi, per il valore di x, come la proposizione significante
l'essere . Non lo si pu dire, perch l'espressione l'essere una proposizione che esprime proprio ci che in ogni altra proposizione non pu venire mai
espresso e, perci, tale da porsi al di fuori di t u t t e le proposizioni possibili, tale
da non essere una vera proposizione.
La proposizione che dice l'esser-e , come proposizione, identica a t u t t e
le altre e, pertanto, lo x, che nelle altre da determinarsi semanticamente, in questa proposizione gi determinato nel suo essere x e non pu quindi, venire sostituito o interpretato.
Ogni proposizione strutturalmente significabile con la forma x , dove x
non pu non venire determinato da un qualche contenuto semantico, che , a suo
modo, variamente, l'esperienza come esperito ; m a la forma x , presa nel
suo essere tale, determinata in modo da non poter venire ulteriormente determinata ; l'assunzione di x come tale pu venire significata con la forma
x , dove le virgolette esterne indicano che x gi assunto nella sua
determinatezza. Che, se si escludesse questa possibilit di assumere x come
determinatezza, la sostituzione di x in essa non potrebbe mai dirsi determinata,
proprio perch x non sarebbe affatto.
Con ci resta escluso che si possa dire che l'essere di x distinto da x
per t u t t i i casi meno uno, quello di x come essere , perch il caso di x come essere non un caso che si ponga tra gli altri, univocamente, e la proposizione
che lo significa non perci, una proposizione, m a la proposizione nella sua struttura, presente, anche se non sempre consaputa, in tutte le possibili proposizioni.
Si dir, allora, che x la esplicazione intera di x , valendo per
tutti i valori in cui x risulti determinabile ; od anche che x sostituibile
per qualsiasi valore, meno che per se stesso.
Quel valore che, secondo il Severino, sarebbe l'unico ad escludere la distinzione significata da x , in realt, lo stesso x , il quale non pu, come
tale, venire sostituito e non pu venire sostituito, distinguendo in esso lo x
dallo , prop-'o perch qualsiasi sostituzione (e distinzione) avviene in esso
o non avviene.
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CAPITOLO PRIMO
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CAPITOLO PRIMO
DEL
LINGUAGGIO
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I FONDAMENTI DELLA
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CAPITOLO PRIMO
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L'atto d'implicazione si rivela cos nella negazione dell'attualit di qualcosa che escluda o non includa la posizione di altro.
Questo atto , nel suo porsi, la stessa integralit dell'esperienza.
Nessuna cosa l'esperienza, ma nessuna cosa pu essere detta
senza che con essa si dica l'esperienza : in ogni cosa asserita
asserita l'asserzione come atto dell'asserire che la stessa sua
struttura.
La struttura dell'esperienza il rapporto tra una qualsiasi
cosa e l'altro da essa (la determinazione ulteriorizzante) e, al
limite, il tutto : se il tutto non fosse, nulla sarebbe ; cio vi sarebbe,
contraddittoriamente il nulla. Il rapporto si esplica come implicazione che dice il questo per il porsi di quello. Se quello non
fosse altro , non sarebbe implicato, ma, nella misura in cui
implicato perch il questo sia se stesso, esso, che essenziale al
questo, vi si identifica e nega cos il rapporto onde si costituisce
distinto dall'altro.
Essere identico significa essere fuori rapporto e, per la relazionalit essenziale dell'esperienza, significa essere fuori esperienza,
inesperibile. La struttura dell'implicazione dialettica, perch
l'implicazione uso della negazione (che esclude l'assunzione positiva del negativo) : se questo implica quello , questo non
questo se quello non ; l'implicazione cos anche esclusoine
che la cosa implicante sia assoluta.
La struttura dialettica dell'implicazione l'esclusione in atto
dell'assolutezza dell'esperienza. Se v' teoreticamente qualcosa che
pu essere detto rigorosamente, questo l'esclusione dell'assolutezza dell'esperienza, perch il rigore si attua nella pienezza
della cosa che si dice e questa esclusione di tutto ci che altro da essa : il rigore l'indivisibile ed indimostrabile attualit
dell'escludere, la negazione in atto, l'atto che emerge sub"autonegazione, l'incontraddittorio.
CAPITOLO SECONDO
SOMMARIO : i. L'insignificanza
teoretica del disaccordo. 2. La preoccupazione
di raggiungere un accordo effettivo empirica e filosoficamente ingenua. 3.
Fittiziet del rapporto tra filosofia e senso comune. 4. La superfluit del problema del solipsismo . 5. Presenza e coscienza. 6. La realt come pensiero
si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione (l'attuai smo come attualismo
puro). 7. La realizzazione come negazione e come posizione.
(L'attualismo
monistico come naturalismo). 8. La presenza pura. 9. La coscienza della
presenza pura. io. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra presenza e presentificazione. 11. Importo teoretico dell'espressione Verum et esse convertuntur . 12. La metaforicit intrinseca delia parola.
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CAPITOLO SECONDO
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( 1 ) quanto accade alla metafisica : la ratio dubitandi del suo valore viene
ingenuamente ( = acriticamente) posta nel fatto che di essa si dubita in quanto
su di essa comunemente non si conviene : la ragione del dubbio, sarebbe, cosi, il
fatto che di essa si dubita e si dubita, perci, senza una vera ragione.
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CAPITOLO SECONDO
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Padova,
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CAPITOLO SECONDO
parallelamente un momento interno della filosofia, la quale dovrebbe assumersi il compito di determinarlo prima di entrare in
rapporto con esso ; la quale determinazione, essendo solo presupposta, non mai veramente data.
In questo senso, si pu dire che il comune solo una postulazione, postulazione che si formula solo in quanto la filosofia
non pu porsi senza anche distinguersi ; ma se la filosofia atto
mai compiuto , questo distinguersi non va preso come un fatto
da cui sia dato muovere per filosofare : esso con il farsi della
filosofia e non assoluto che esca dalla possibilit di venire discusso
dalla filosofia.
Del resto, per determinare il rapporto tra senso comune e filosofia, bisognerebbe presupporre l'ambito entro cui operare nella
determinazione, ambito che sarebbe stabilito solo per quei limiti
che la determinazione dovrebbe stabilire : per determinare bisognerebbe avere gi determinato e determinare sarebbe solo trovare
il limite tra il pensare filosofico e il pensare comune , comune a coloro che, convenendo su qualcosa, possono non convenire su altro.
Non si d, insomma, un senso comune a tutti, quasi universale convincimento del valore (o del disvalore) ma, se mai, il
senso comune funzione di interessi comuni e vi sar ,cos, un
senso comune ai matematici, uno comune ai biologi, e cos via ;
senso comune (1) che, variando in funzione dello spiegamento
effettivo di interessi, non pu venire effettivamente considerato
se non nella misura in cui davvero si partecipa a quegli interessi.
E solo il matematico potrebbe parlare effettivamente di matematica
ma ancora il senso comune ai matematici che opererebbe nelle
sue prese di posizione nei confronti di ci che matematica non .
Allora, anche la filosofia dovrebbe porsi con un suo particolare
senso che sia comune a quanti si dicono filosofi. a questo
punto che si pone la questione del solipsismo , in connessione
con la personalit della ricerca filosofica.
4. La superfluit del problema del solipsismo .
Il problema del solipsismo (2) una cosa sola con il problema della comunicazione , perch mettere in questione la
(1) La parola senso che compare nell'espressione senso comune equivale a sentire .
(2) Il solipsismo pi rigorosamente filosofico non pu subire alcuna dissolu-
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comunicazione equivale a considerare il solus ipse come escludente ogni relazione con l'altro (od anche, e con il medesimo
esito teoretico, come includente o conglobante ogni altro ) :
se io sono l' unico , o perch gli altri non sono o perch, essendo in me, non sono altri , ogni mio discorso esclusivamente mio e, pertanto, non importa alcuna dimensione intersoggettiva.
Ma se il solipsismo si presenta come un problema, e come
problema si presenta se non altro nell'intenzione di giustificarsi, ci vuol dire che il solus ipse messo in questione dalla
presenza dell' altro , essendo appunto l' altro a mettermi
in questione, a togliermi la pretesa di essere l'unico. Con ci
il solipsismo si dissolve non appena lo si considera, di modo
che l'analisi del linguaggio quando giunge a porsi sul solipsismo non ha pi sotto di s quel solipsismo, perch questo,
problematizzandosi, rivela la necessit che l' altro sia come
problematizzante, non potendo pensarsi un problema assoluto,
od un assoluto che sia intrinsecamente problematico.
Se vero che il problema del solipsismo, quello pi generale ad esso collegato del fenomenismo, hanno travagliata la
filosofia moderna dai suoi stessi inizi, da quando Cartesio e
Locke si sono sforzati di fondare la conoscenza sulle idee,
intese come oggetto immediato del pensiero (i), una volta che
si chiarisca la sua intima natura di problema , si perviene alla
restituzione critica di quanto veniva messo in questione dall'ipotesi della sua verit e il pensiero moderno dissolverebbe da se
stesso la propria istanza, consumandosi in una serie fittizia di
problemi.
Il modo in cui viene formulato il problema solipsistico da
parte del pensiero scientifico rivela, per, che esso non deriva
punto dalla problematica della filosofia moderna, o almeno non
deriva da essa il solipsismo come ipotesi scientifica : chiedersi se
il rosso viene visto da tutti allo stesso modo (2) suppone un
uso empirico delle parole vedere , tutti , modo , un uso
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CAPITOLO SECONDO
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CAPITOLO SECONDO
il diverso presente o consaputo come tale, l'identico mantenersi tale del diverso.
Si elimina cos un equivoco, che di fatto ha una sua storia in
filosofia, l'equivoco tra quell'identico che la presenza o coscienza
e quell'identico che ci di cui appunto v' coscienza ; l'equivoco
tra la considerazione, che tale per qualsiasi cosa che si consideri, e l'identit di ogni cosa con se stessa onde, nel rapportamento o confronto, dato riconoscere appunto la diversit. Solo
se le due identit non si confondono, possibile evitare la duplice
risoluzione monista nell'essere e nel pensare ; e del resto, non
possibile confondere le due identit, perch la coscienza non
ci a cui la cosa si presenta se non come il presentarsi stesso della
cosa, la cosa nel suo stesso venire consaputa.
Si tratta, dunque, di due identit in quanto tra loro irriducibili ; ma esse si mantengono due solo se non si pretende di separarle, facendo di esse due diverse cose , perch non appena si
pensa la coscienza come qualcosa, sia pure per ridurre monisticamente ad essa ogni altra cosa che in essa e per essa si presenti
non la coscienza si pensa ma la cosa che si pretende essa sia,
non la coscienza che presenza ma la presenza ridotta a
sua volta ad una qualche particolare cosa .
La riduzione delle due identit, equivalenti alla loro separazione come di due diverse cose , importerebbe pur sempre la
dualit tra il processo della riduzione e l'uno al quale pervenire
con la riduzione stessa, rendendo cos impossibile o solo fittizia
la riduzione, o negando con la riduzione la stessa unit.
La dualit, dunque, di identica considerazione del diverso e
di identica posizione di ci che si rivela diverso si mantiene solo
in quanto non si equivoca facendo della considerazione, che la
coscienza o presenza , una delle cose che si possono considerare,
solo, cio, se non si pretende di oggettivare la stessa coscienza,
cosalizzandola.
L'equivoco piuttosto, come si vede, una costruzione arbitraria, che esso si svela come processo in cui si identifichino tra
loro diversi in base al fatto, assunto almeno implicitamente come
ragione, che ogni cosa, in quanto presente alla coscienza, equivale ad ogni altra e che, di conseguenza, sia negabile nella sua
peculariet, onde si possa affermare la risoluzione di tutte le cose
nell'unit, di ciascuna cosa in quel tutto che , equivalentemente, tutto essere o tutto pensiero.
Il monismo allora precisamente questo equivoco e, perci,
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CAPITOLO SECONDO
traddittoriamente da essa per progredire nel processo di risoluzione, per procedere, cio, veramente da un punto ad un altro ;
ed il punto da cui si muoverebbe deve pur essere contraddittoriamente lo stesso movimento ; ma partire dal movimento
andare oltre il movimento, non muoversi pi.
Ora l'idealismo non pu negare quel movimento che almeno
implicitamente detto nel riconoscersi assoluto del pensiero o coscienza ; senonch l'idealista riduce appunto la coscienza a questo
riconoscersi o ritrovarsi da parte della coscienza stessa ; e questo
egli dice assoluto , ma ci importa proprio quello che l'idealista intende negare, importa un ritorno o riflessione a partire da
un punto che per consentire il passaggio deve essere estraneo,
altro da s : deve non essere assoluto.
La nozione di quel movimento che parte dalla coscienza implica la coscienza come l'intero entro cui quel movimento si attua,
ma non importa la riduzione della coscienza a questo movimento,
n ad un punto da cui muovere per andare oltre, per pro-cedere
alla determinazione di ci che oggetto di coscienza.
Se la coscienza, o pensiero, fosse tutta nel riconoscersi o ritrovarsi da parte di se stessa, dovrebbe contraddittoriamente postularsi un punto estraneo alla coscienza che ne spieghi l'alienazione
da cui appunto ritornare. Di un ritorno a s si pu parlare solo
se a questo ritorno predeterminato il s , di modo che il ritorno
sia un processo orientato ad un suo telos ; che se fosse lo stesso
ritorno a determinare quel s , il ritorno non sarebbe mai determinato, epper mai effettivo, sarebbe un andare che non va ;
d'altro canto, se il s fosse pre-determinato al ritorno che ne
lo recupera, il ritorno, comunque, determinato od orientato, sarebbe superfluo e si riproporrebbe in questione la ragione di esso,
proprio perch in effetti quel s non sarebbe mai alienato da
se stesso.
E cos che non si pu parlare di pensiero che circola dentro
di se medesimo (i), dove questa circolarit del pensiero sia un
punto che si muove e torna a se stesso (2) : o il punto non
(1) G. GENTILE, Sistema di Logica come teoria del conoscere, capo II, i.
(2) Il punto e la circonferenza possono venire fatti valere come figure empiriche del trascendentale.
Ma da notare che il passaggio dalla circonferenza al punto ancora interno al punto, perch, se, all'inizio, del passaggio dalla circonferenza al punto,
il punto non fosse consaput J, il passaggio sarebbe indeterminato, ossia non sarebbe;
d'altro canto, se il punto consaputo gi all'inizio, di passare non v' bisogno per
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una cosa sola con il suo movimento, ed allora esso anche senza
questo movimento e il movimento si aggiunge al punto che esso
presuppone ed il ritorno del punto a se stesso sarebbe l'eliminazione dello stesso movimento onde ottenere quel punto come puro
punto, senza movimento ; o quel movimento una cosa sola con
il punto, ed allora del tutto inconcepibile risulta il ritorno, perch
il punto, per quanto si muova, non pu allontanarsi da se stesso
e perci non pu avere bisogno di ritornare a s.
In altre parole, ci che non pensabile proprio l'alienazione
da s, senza di cui non possibile del resto parlare di ritorno,
n di pensiero-astratto da cui ritornare a quel punto che il
pensiero : ci che opererebbe l'alienazione pur sempre quel s
che sarebbe intrinsecamente tutto alienazione e l'alienazione non
sarebbe l'astratto ma il concreto ; oppure, nell'alienazione, il s ,
essendo sempre operante, non mai alienabile veramente, ed
allora l'alienazione non solo astratta ma intrinsecamente impossibile.
Se ben si guarda, l'alienazione di s riproduce la situazione
logica della posizione di se stesso propria dell'Assoluto, nonch
determinare il punto, ed ogni passaggio effetttivo al punto sarebbe superfluo.
L'aporia che si configura qui data, per, dalla necessit che il passaggio dalla
circonferenza al punto sia anche esterno al punto, perch la circonferenza non
il punto e il punto non il passaggio, essendo ci cui il passaggio perviene (che
se il punto fosse il passaggio al punto, del passaggio non vi sarebbe bisogno).
La nozione di passaggio cosi t u t t a ambigua, supponendo il rapporto
secondo cui attuarsi e un'attivit che si svolga in conformit a quel rapporto :
v' inclusa la duplice nozione di s t r u t t u r a (rapporto) e di attivit , (progressiva assunzione di quel rapporto). Solo dove si ritrovi l' intero (la indivisibile condizione alla divisibilit dei procedimenti o passaggi) possibile dissolvere
tale aporia.
Ma l'intero non ci che diviso da ciascun significato e dall'altro da quel
significato (E. SEVERINO, op. cit.), perch, in t a l caso, il significato risulterebbe dalla moltiplicazione di ciascun significato per se stesso o per t u t t i
gli altri, i quali non sarebbero mai tutti, anche nell'ipotesi di un numero finito di
significati, che la moltiplicazione di un qualsiasi significato per se stesso ( = il
numero di volte in cui un significato considerabile) necessariamente indefinito.
Se la divisione dell'intero fosse possibile, ogni cosa lascerebbe fuori di s
l'intero, nessuna cosa sarebbe interamente se stessa, nessuna cosa sarebbe ; e la
divisione che suppone l'intero, domandando l'intero in ogni suo momento, non
divisione dell'intero, m a nell'intero, il quale divisibile solo astrattamente, come
indefinitamente riproposto per ciascuna cosa che risultasse dalla divisione : il tutto
non la somma delle cose poste, ma il porsi di qualcosa (cfr. G. R. BACCHIN, L'originario come implesso esperienza-discorso, cit., p . 15).
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CAPITOLO SECONDO
(i) G. G E N T I L E , Sistema
ecc.,
cit.,
II.
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CAPITOLO SECONDO
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CAPITOLO SECONDO
ticando che l'impensabilit solo negazione (dialettica) della possibilit di venire pensato e questa negazione non un concetto,
bens la sua negazione : il concetto di negazione negazione del
concetto ; il concetto del nulla , infatti, il nulla di ogni concetto.
Cos la contraddizione non tanto nell'attualismo, quanto nella
sua formulazione monistica.
9. La realizzazione come negazione e come posizione. (L'attualismo monistico come naturalismo).
Se il pensiero atto, nulla sta di contro ad esso, ed il naturalismo della realt distinta od opposta al pensiero la dicotomia
contradditoria del pensiero separato da se stesso ; ma anche nulla
sta dentro ad esso e l'attualismo come assoluta posizione del pensiero che pone se stesso l'assunzione di quella dicotomia in assoluto e non, come pretende di essere, il superamento di quella contradditoria dicotomia.
Infatti, distinguere dentro, il pensiero, il pensiero come atto e il
pensato come ci che tale atto, pensando, in se stesso pone, realizzandosi, significa riprodurre all'interno del pensiero quella dicotomia che si riscontra al livello del naturalismo ; ma, interna od
esterna al pensiero, quella dicotomia resta dicotomia e il naturalismo resta naturalismo indiscutibilmente.
Del resto, il riconoscimento della contraddizione naturalistica
gi pensiero e il pensiero che riconosce tale contraddizione non
la risolve e assumere il pensiero della contraddizione come soluzione della contraddizione equivale a dire che la contraddizione
si risolve da sola, cio che quella contraddizione solo apparente
e l'attualismo sarebbe, di conseguenza, solo apparentemente vero.
Se non si pu dire che la realt stia di contro al pensiero (fallacia naturalistica), nemmeno si pu dire che essa stia nel pensiero (fallacia monistica), perch solo nel pensiero sarebbe dato
di cogliere una realt di contro al pensiero e il naturalismo si
pone nello stesso attualismo monistico con il porsi dell'opposizione al pensiero nel pensiero che ne consapevole.
Con che resta escluso che il pensiero in assoluto possa superare
il naturalismo, risolvendone la contraddizione, perch lo stesso pensiero naturalistico si pone nel pensiero e il pensiero di esso non
che la sua posizione e assolutizzare tale pensiero equivale ad
assolutizzare quella posizione e il naturalismo non superato,
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ma riprodotto ad un livello che lo mantiene all'infinito : assumere la contraddizione in assoluto non risolvere la contraddizione
nell'assoluto, ma riproporre la contraddizione assolutamente, cio indefinitamente.
In tal modo, dato riscontrare che il presupposto naturalistico presente e perci operante (o, meglio, inibente) nella stessa
posizione che ne inficia la validit, perch, ove la posizione opposta venga pensata come monismo, cio come assoluta unicit,
quell'opposto ad essa che il naturalismo diventa ad essa essenziale e, come tale, si mantiene con il porsi dell'assoluto, perch
si pone in assoluto o, ed lo stesso, l'assoluto viene pensato come il porsi stesso della opposizione che i due termini insieme,
e l'uno e l'altro, inscindibilmente.
Cos, coerentemente, l'attualismo monistico anche naturalismo, avendo bisogno di esso per sorgere e per negarlo ; ma evidente che in tanto pu sorgere da esso, o insorgere su di esso,
in quanto lo nega e, perci, o sorge senza negarlo (e lo porta in
s) o lo nega senza mai sorgere e separarsi da esso (e cos, negandolo, si nega).
io. Il rapporto tra atto ed oggettivazione, tra presenza e presentificazione.
Nella funzione ( = attivit) del pensare implicita la funzione
dell' oggettivare e nell'oggettivare si rivela con chiarezza l'emergere del pensante come tale sulla propria attivit e sul termine
di essa che l'oggetto : non possibile, cio, che nel pensare si
pensi veramente il pensante, che il pensante sia oggetto (sarebbe
oggetto di se stesso).
Si ha cos il profilarsi di due presenze indicate da una medesima parola (l'oggettivazione) : i) la presenza della. cosa come
oggetto che di esperienza , il quale oggetto non pu inglobare
il pensante (questa presenza totalmente presentificata al pensante) ; 2) la presenza del pensante che attua la presentificazione
e non pu, perci, venire presentificato ; quest'ultima presenza
necessariamente implicata dalla prima, assolutamente irriducibile ad essa.
Sorge allora il problema di come sia possibile dire la presenza
implicata del pensante, se dire presentificare, in qualche
modo oggettivare : non basta ovviamente dire che la presenza
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CAPITOLO SECONDO
per
l'intenzionalit, la funzione
dell'oggettivare-
"
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CAPITOLO SECONDO
giunzione per cui, pi che di identit, si dovrebbe parlare di identificazione, di processo, cio, consistente nell'attuarsi del riconoscimento dell'identit ; per il quale riconoscimento, l'identit
preceda e condizioni la validit del processo (riconoscimento di
qualcosa che come viene riconosciuto) e, tuttavia, segua quel
processo perch riconoscibile solo in esso e per esso.
Ma come possibile che il veruni e l'esse siano due se sono idem
tra loro ? E come possibile dire che essi convertuntur se non
sono tra loro idem ?
Se penso l'esse e il verum come due, l'esse non essendo il
vero affatto impensabile e il verum, non essendo , parimenti impensabile. La contraddizione inerente a questa duplice
impensabilit impone, dunque, una chiarificazione del termine
pensiero : il pensare vi viene assunto equivocamente come
riconoscimento di qualcosa che e come aggiunzione di qualcosa
che non senza il pensiero.
1. Se il pensare lo stesso verum in cui l'esse si converte, pensare semplicemente questo convertirsi e, tuttavia, aggiunzione
della conversione all'esse, perch appunto nel pensiero che l'esse
si rivela verum.
2. Se il pensare il prendere atto di ci che , ossia semplicemente il riconoscere, il convertirsi dell'esse nel verum a prescindere dal fatto che venga pensato ; e cio il convertirsi stesso
l'esse nel verum ; ed anche, come convertirsi dell'uno nell'altro,
non questo n quello. E v' cos un'eccedenza del pensiero sul
convertirsi nel pensiero dell'esse, eccedenza per la quale il pensiero atto ed -procedimento ; atto, ossia indivisibile consapevolezza di ci che , procedimento, ossia passaggio e quindi divisione dei momenti di quel convertirsi che domanda la dualit
tra ci che si converte e ci in cui la conversione avvenga.
Il convertirsi dunque una dimostrazione , perch un
procedimento che suppone (come ipotesi) la possibilit della sua
negazione : dire che il verum e l'esse sono uno equivale a dire che
non vero che siano due come appare dalla loro congiunzione ;
equivale a dimostrare cio che la loro congiunzione solo fittizia.
D'altro canto, la conversione potrebbe venire dimostrata solo
come questione della legittimit del problema della conversione stessa e se il convertirsi dell'esse nel verum fosse da dimostrare, la dimostrazione stessa potrebbe valere solo in base a quel convertirsi,
che una dimostrazione vera solo in quanto v' ci che essa dimostra.
La formula di congiunzione verum et esse , si chiarisce come
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CAPITOLO SECONDO
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CAPITOLO TERZO
SOMMARIO: I . La cosa stessa come l'intero di se stessa. 2. L'identit pensareessere. 3. Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola
cosa . 4. La duplice funzione della parola cosa . 5. Le condizioni
ad un'indagine critica. 6. L'atto critico 0 negatorio come atto di pensiero
nella coscienza. 7. La ricerca del mezzo logico adeguato e l'interrogazione
8. / limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi. 9. La riduzione pretesa del sapere al potere e il concetto ateoretico di teoria .
io. L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti. 11. La teoria come formulazione generale. 12. La radice dell'interpretazione matematicistica.
13. Le condizioni imposte dal concetto d'interpretazione. 14. Il carattere teoretico del controllo sull'esperienza. 15. Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni. 16. La determinazione come ritorno dell'atto : totalit di definizione e totalit di esaustione. 17. La totalit di definizione come
essenza . 18. L'atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale. 19. Il modo indiretto d dire l'essenza.
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CAPITOLO TERZO
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(1) Si noti che il carattere operativo della parola cosa detto dalla sua
stessa etimologia : cosa dal latino causa , indicante, cio, un'azione ; il
greco ha l'espressione Tzp.t\ui, indicante la cosa compiuta , fatta .
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CAPITOLO TERZO
presente (l'essere) e la totalit assente (il nulla), perch la totalit assente ancora la totalit (presente) considerata come assente (i) e questa considerazione, avendo carattere psicologico, non
si oppone ad altro : si opporrebbe ad altra considerazione, senonch le considerazioni non si succedono, si sostituiscono, non si
oppongono (per opporsi dovrebbero coesistere e si dovrebbe procedere considerando in opposizione a se stessi : contraddirsi, appunto).
cit.,
"\
/I
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CAPITOLO TERZO
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ma solo una reiterazione (i) del medesimo, spostato sempre e mantenuto tale. Il pensare in realt tutto pensare , atto, non stato ;
atto, non l'oggetto pensante, cosa pensante (res cogitans), ma la
conversione dell'essere nella sua attualit. Il dire cosa pensante
pensare (atto) una cosa pensante, la quale cosa inglobata
e superata in questo atto.
Dove si pensi l'atto e lo si tenga davanti, non si pone l'atto
davanti ad altro atto, di modo che l'atto che posto davanti divenga oggetto di pensiero, ma si sdoppia questo atto stesso in
atto che pone l'atto davanti a s ed atto che posto davanti a s,
di modo che l'uno e l'altro atto si rivelino il medesimo, proprio
in questo s .
Lo sdoppiarsi dell'atto, dunque, la radice della entificazione
dell'atto, la radice, cio della considerazione dell'atto come stato
o del decadimento dell'atto essere-pensare ad ente, a cosa pensante
e cosa pensata . Il dire questo atto , infatti, gi sostantivare
l'atto e tale sostantivazione appare chiaramente nell'articolo il :
il pensare, il dire. L'uso dell'articolo nella lingua italiana non si
considera qui come determinante (esso corrisponde alle indicazioni esplicite di parole private di desinenza), ma solo come indicativo della situazione logica del sostantivare che considerare
l'atto come sussistente, al medesimo modo di quel reale che si
pretende tale davanti all'esperiente : la sostantivazione , dunque, un'estensione (2) della sostanzialit oltre la sua diretta affermazione, se sostanzialit si dice questo sussistere ; sostantivit
considerazione dell'atto come se sussistesse. Ne segue che all'interno della sostantivazione che si pu distinguere ci che sostanziale (il separato da altro, l'altro come separato) da ci
che non lo : potremmo dire che il pensiero, che distinzione in
atto, si attua nella sostantivazione, si attua sostantivando.
Per intenderci, possiamo dire cosa lo schema della sostantivazione, che il luogo in cui il pensiero si attua e che senza il
pensiero nulla : la nozione di cosa , che nozione vuota se
indica lo indeterminato, nozione imprescindibile come di uno
spazio logico in cui possono collocarsi i termini stessi del pen-
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CAPITOLO TERZO
siero ed unit del pensiero che li mantiene tali in se stesso, separandoli o tenendoli separati tra loro.
In tal modo, la nozione di cosa rivela la sua intrinseca
ambiguit che ne segna anche la fecondit in ordine alla nostra
ricerca : essa indica lo indeterminato come assolutamente insignificabile e, insieme, la condizione stessa alla possibilit di un
riferirsi del pensiero (che come pensiero anche essere), a qualcosa di estraneo ad esso, alla cosidetta realt ad esso esterna
e che si porrebbe a suo contenuto conoscitivo o presenza di cosa
esperita e conosciuta. Cos, se da un canto la nozione di cosa
si considera nella sua indeterminatezza ed puro luogo logico in
cui si collocano le determinazioni da esso inderivabili, dall'altro,
considerando la cosa come nozione , essa si dissolve come
cosa per rivelarsi intrinseca all'atto del pensare, essa
allora il pensare stesso, lo stesso atto d'essere nella sua intelligibilit.
4. La duplice funzione della parola cosa .
Perch la nozione di cosa possa rivelare tutta la sua portata,
necessario distinguere, come si fatto nel paragrafo precedente,
il duplice rapporto 1) tra cosa e pensiero e 2) tra pensiero e nozione di cosa : se la nozione di cosa viene considerata come estrinseca al pensiero (posta davanti), essa si rivela un nulla teoretico, nozione che non veramente tale, perch l'indeterminato
che essa sostituisce come parola del tutto impensabile ; se la
medesima nozione viene considerata nello intrinseco distinguersi
e rapportarsi che il pensiero ( penso che ; pensiero di . . ), essa
rivela la sua identit con il pensare ed perci indicativa dell'essere nel suo senso trascendentale ed , perci, massimamente
determinata.
Nel primo senso, essa indeterminabile perch assolutamente indeterminata, nel secondo senso essa non pu venire determinata perch la stessa determinatezza, Tatto-valore di qualsiasi determinazione possibile. Il duplice senso dunque mantenuto tale ed ogni tentativo di superarlo in una identit che ponga
la cosa in un senso pienamente univoco si converte in una riproposizione della dualit ad altro livello.
Allora, se la nozione di cosa nel senso trascendentale l'essere-pensare e non pu separarsi dall'essere e dal pensare, essendone l'intrinseco distinguersi e rapportarsi in atto, di essa non ci
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(1) La differenza tra motivo e movente tale che il motivo necessariamente saputo, il movente pu non esserlo : la ricerca dei moventi di natura
psicologica.
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di trascendere l'esperienza con la negazione, che esperienza e ragione sono non due termini di un procedimento, ma una compresenza e innegabile (perci criticamente connessa) all'atto unico dello
esferire.
6. L'atto critico 0 negatorio come atto di pensiero nella coscienza.
La negazione, o toglimento, che si opera all'interno dell'assunzione fenomenologica, irriducibile ai singoli termini assunti ed
coincidente con l'atto che sceglie in funzione del valore della cosa
stessa : atto e valore sono appunto la coscienza.
Ora, poich la coscienza essenzialmente presenza del valore
e dell'atto (pi precisamente : presenza del valore che atto )
lo stesso pensiero, che giudizio (perci atto critico) (1) presente
nella coscienza in quanto saputo come tale (coscienza del pensiero) ;
ma poich il pensiero giudizio di valore su ci che ad esso invia,
anche la coscienza nel pensiero in quanto pensata (giudicata)
come tale (pensiero della coscienza).
Dunque, se la coscienza tale nel pensiero ed il pensiero tale
nella coscienza, tra pensiero e coscienza non si d un vero e proprio
rapporto, perch, se ci fosse, si postulerebbe una estraneit dell'una all'altro, la quale importerebbe una impossibilit di incontrare l'una w^'altro.
L'estraneit domanderebbe una qualche spazialit, quasi di
luoghi nei quali si vengano a collocare e l'uno e l'altra. La presenza dovrebbe indicare un doppio esserci , l'uno all'altro esterno :
l' esserci del pensiero oltre l' essersi della coscienza.
Tolto il preteso carattere spaziale alla coscienza ed al pensiero (2), tolta la possibilit di confondere la presenza con la
presentificazione e, quindi, con la rappresentazione : la presenza atto , la rappresentazione stato , stato che d origine,
per esempio, alla costituizione grammaticale dello stato in luogo
figurato , che figurato a partire dallo stato in luogo empirico
del senso comune.
La differenza tra presenza e rappresentazione ricalca
(1) giudico (xpvto), vale come attribuzione di valore : iustum dicere de . . .
(2) Questa spazialit sempre indicata e supposta quando si considerano
empiricamente la coscienza e il pensiero, alla stregua di quei termini ehe in essi
compaiono.
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Ci che importa rilevare che questo esplicitare tende a ridurre la linea obliqua (cfr. par. 7) su cui si pongono i singoli termini del discorso a linea diretta, ossia a portare l'intero discorso
a quella sua forma fondamentale che quella del discorso oggettivo (la proposizione soggetto-predicato), il logo apofantico del
pensiero classico.
Questa riconduzione delle linee oblique a linee dirette rivela
ad un tempo 1. che le linee nelle quali si situa il discorso non sono
tutte dirette alla cosa (ossia la cosa non sempre intesa direttamente come tale) ; 2. che le linee non dirette possono venire ridotte
a linee dirette rispetto alla cosa (ma, in tal caso, si stabilisce che
la cosa sempre intenzionata sotto aspetti diversi che danno origine alle varie domande, ma che non possono valere come l'intero della cosa stessa).
Ora, nella interpretazione scientifica (1) dell'esperienza si rileva
facilmente come l'interrogazione in cui essa si situa rivolta
obliquamente alla cosa , perch direttamente essa considera
della cosa un aspetto, che anzi quella parte che la natura
in quanto controllabile in termini di misura: si interroga la
cosa chiedendo ad essa solo ci che di essa controllabile, ossia
si limita la cosa alla sua controllabilit con strumenti che la
assicurano ; ed il controllo senza residuo quando misurazione.
L'atto pienamente critico scopre allora la necessit di non
ridurre l'intero fenomeno ad un momento della serie in cui esso
viene considerato ; l'asserzione scientista nel senso del matematismo condizionata dalla particolare modalit del suo porsi nella
realt, quella modalit che propria del porre la domanda come
estranea alla cosa (dove, invece, la domanda intorno alla cosa
interamente vera solo se sorge dalla cosa stessa, non appena la
si dice), nel senso che, se non si adegua la nostra domanda alla
intrinseca domanda della cosa, gi detto che ogni nostra domanda deriva dall'inserimento della cosa nel nostro uso di essa.
Il che significa che la domanda che il matematico (o lo sperimentatore ) pone alla cosa potrebbe venire considerata come
teoretica solo se risultasse teoreticamente che non c' altro
possibile atto di pensiero ( = razionalit) all'infuori di quello matematico. Il che significa anche che l'orientarsi alla matematica
da parte del filosofo potrebbe venire teoreticamente giustifi(1) Il rapporto tra discorso oggettivo e discorso obliquo apre una questione che qui non interessa.
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cato solo se non derivasse, come effettivamente deriva, dalla riduzione del sapere al potere che commisurazione del sapere
agli strumenti che garantiscono il potere .
Con ci si stabilisce fin d'ora che i limiti propri delle asserzioni
scientifiche (condizionate da interessi) sono da qualificarsi teorici , nel senso in cui la scienza , al pi, teoria , non mai teoresi o teoreticit (cfr. I, par. 8).
9. La riduzione pretesa del sapere al potere e il concetto
ateoretico di teoria .
L'idea (meglio : l'ideale) del potere ovviamente connessa
con l'idea di controllo sull'esperienza, controllo che essenzialmente per una riduzione pregiudiziale del concetto di verit
a quello di verificazione (riduzione del concetto entitativo a
quello operativo).
Nella verificazione gi implicitamente richiesto che la
razionalit dell'esperienza sia considerata come razionalizzazione (1) dei suoi contenuti, che , piuttosto, una misurazione
di essi in rapporto a modelli previamente costruiti . Verificare ,
infatti, ha senso come confermare o rettificare o falsificare il modello supposto, che il concetto scientifico di ipotesi e che , perci, tutto operativo.
Si sa che il successo della scienza moderna precisamente dovuto alla creazione ed alla verifica di questi modelli ; ma ci che
va discusso non la creazione e l'uso di tali modelli , bens la
tendenza a generalizzare l'importo di essi, generalizzazione che
tutt'uno con la riduzione detta sopra della verit alla verificazione, della verit alle operazioni da compiere per ottenerla.
La generalizzazione che si diceva va esaminata a parte nei
termini della differenza (che essa trascura) fra modello ed
esempio (che riproduce quella tra generale e universale, fra
teorico e teoretico).
Qui prendiamo in esame la differenza da essa trascurata fra
il sapere e Vagire (essenziale al potere).
Il sapere finalizzato ipoteticamente al potere (sapere per
potere) sapere relativizzato a qualcosa di esterno ad esso, per cui
(1) La razionalizzazione avviene qui come relativit costruita di dati a
valori metrici (il riportare [ = misurare] i dati a questi valori).
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CAPITOLO TERZO
qui venire considerato sotto quell'aspetto per cui l'astrazione mantiene un nesso con ci da cui si astrae ; l'atto dell'astrarre , genericamente, atto del prescindere, dove preconcetto ci da cui si
prescinde.
All'atto (del prescindere-astrarre) presupposta una conoscenza e l'atto non , cos, conoscitivo ed perci soltanto operativo . Si rinnova, a proposito dell'astrazione, la situazione logica
dell'isolamento (un isolamento assoluto sarebbe assurdo, perch
sempre isolamento da qualcosa, che l'impossibilit di escludere
il nesso che tuttavia si toglie nell'isolarsi).
L'atto che toglie (intrinseco all'astrarre) non pu togliere completamente ci che s'intende togliere : lo toglie solo secondo un
aspetto. Un aspetto secondo cui il nesso pu venire tolto senza
risolvere l'eliminazione della cosa da cui esso si toglie, pu progettarsi come la numerabilit della cosa.
In termini entitativi per la risposta alla domanda che cosa
? , il numero sarebbe definibile come una operazione : il numero
sarebbe la numerazione che esso consente ; esso cos non sussiste come
valore e non esiste come cosa (i), essendo solo un'attivit tra limiti
presupposti e che esso non consapevolizza. In tal modo, resterebbe
anche spiegato perch il numero si possa pensare come relazione .
Una volta chiarito in che senso il numero numerazione, restano
da chiarire le condizioni a tale numerazione, dopo che si escluso
che il numero sussista come valore . Il numero da pensarsi,
insomma, come l'assunzione della cosa secondo le volte in cui
si considera la medesima cosa.
La radice del numero, da questo punto di vista, la considerazione della cosa a prescindere dalla cosa, ossia la considerazione come attivit del considerare (2) : di qui le volte in cui
si considera la cosa, quella medesima cosa. Si pu dire che il numero dato dalle volte in cui si assume il medesimo, e che, perci,
esso si presenta in un insieme cos costituito : 1) si suppone che
vi sia ( = sussista) almeno l'uno ; 2) si suppone che la cosa sia
la medesima nella considerazione possibile di essa ; 3) si suppone
il nesso intercorrente tra l'identit e la medesimezza della cosa ;
(1) Il valore non pu non esserci (la sua negazione gi la sua contraddittoria posizione) ; il valore non pu esserci nello stesso senso in cui sono le cose, essendo queste in virt di esso.
(2) La parola considerazione qui si prende senza riferimento all'etimo della
parola e vale semplicemente J assumere .
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CAPITOLO TERZO
I FONDAMENTI
LINGUAGGIO
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CAPITOLO TERZO
all'interpretazione, intesa inizialmente come attribuzione problematica ( = discutibile) di un valore piuttosto che di altro valore ;
in tal modo, il momento descrittivo si profilerebbe come indiscutibile perch constatabile, e l'interpretativo si profilerebbe come
quello in cui si pone la stessa possibilit di discutere perch ordinato a stabilire della cosa il valore in un giudizio su di essa.
Se non che, da una parte il momento pianamente assertorio, ad
un'analisi pi attenta, si rivela non proprio cos iniziale, dall'altra, il valore del momento interpretativo una cosa sola con ci
di cui esso enuncia il valore e non ha senso un'interpretazione
che non restituisca la cosa interpretata nella sua interezza e il
valore che della cosa si dice in tanto valore di quella cosa in
quanto essa non sarebbe veramente o interamente senza di esso ;
con che resta escluso, insieme, che il momento descrittivo possa
venire isolato da quello interpretativo e che il momento interpretativo possa sopraggiungere dall'esterno alla cosa, come un intervento qualsiasi su di essa : l'interpretazione , al limite, ossia
nella sua essenziale posizione, il senso stesso in cui si assume
un qualche significato e, pertanto, quel significato senza interpretazione non ha alcun senso.
In termini di descrizione e di interpretazione , il momento
assertorio e quello problematico entrano a costituire l'intero come
universo del fenomeno che noi diciamo, a ragion veduta,
husserlianamente la cosa stessa che non per la cosa come
si presenta, ma la cosa e tutto ci senza di cui essa non sarebbe
pensabile, semplicemente non sarebbe.
Non pu dirsi, pertanto, interpretazione una qualsiasi
concezione del mondo che si componga ad esso per valori
sopraggiunti e non sia, piuttosto, la restituzione intesa (intenzionata) dell'intero, entro cui si collocano e il mondo e le
concezioni di esso e la intrinseca possibilit di stabilire il valore
e del mondo , e delle concezioni, e dello stesso concetto di
valore . Questo intero , senza la di cui consapevolezza pur
possibile fare scienza epper matematizzare , consente che si
stabilisca fino a che punto ( = entro quali limiti) operazioni varie
all'interno di esso possano valere e, quindi, per quale ragione non
possano venire assunte come valori coincidenti semplicemente con
esso : se l'operazione si situa nell'intero, nessuna operazione pu
essere l'intero stesso entro cui si situa.
Con ci resta stabilito che l'interpretazione impone un suo
canone , che poi una cosa sola con la sua ragione d'essere :
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dare del fenomeno tutto e solo ci che esso . Nella quale norma
gi segnato il duplice limite operativo dell'interpretare che
nulla togliere e nulla aggiungere della realt del fenomeno ; ma
v' anche indicata l'impossibilit di concepire l'interpretazione
in senso meramente operativo, quale intervento sul fenomeno a
carattere di procedimento esteso, come se si potesse pensare
che l'interpretazione risulta vera solo dopo che la si sia confrontata con il fenomeno (il confronto appunto un'operazione).
evidente che, se l'interpretazione avesse carattere operativo, la sua verit dipenderebbe dal confronto istituito fra una
qualsiasi interpretazione ed il fenomeno da essa inteso , confronto che mirerebbe a detrarre dall'interpretazione ci che il
soggetto, intervenendo, vi apporterebbe, che vero , almeno,
il non-alterato dal conoscente e la interpretazione tale, almeno,
se non deformante. Ma questo confronto e la detrazione che
ne conseguirebbe sarebbero, in realt, pregiudicati dal previo
possesso del fenomeno fuori di quella interpretazione, di modo
che si dovrebbe supporre un insieme costituito dal fenomeno,
dall'interpretazione confrontata con il fenomeno, dall'interpretazione coincidente con esso.
In altre parole, per sapere se, interpretando, nulla aggiungo
e nulla tolgo al fenomeno, debbo possedere previamente il fenomeno ; ma se possiedo il fenomeno prima di stabilire la verit dell'interpretazione di esso, possiederei la sua vera interpretazione,
cosicch pi non avrei bisogno di sapere se la mia interpretazione
sia vera e, pertanto, sarebbe del tutto superfluo istituire il confronto, iniziarne la critica. L'insieme fittizio che si verrebbe a
produrre sarebbe costituito dal fenomeno e dall'operazione, supposta, dell'aggiungere o del togliere e dall'operazione che sopprime l'operazione supposta ; ma questo insieme fittizio proprio
perch esso si dissolve solo che si sappia il fenomeno ; quell'insieme
non ha bisogno, cio, di venire dissolto perch gi nullo nei
termini che lo costituiscono.
Con questo si perviene ad un momento non controllabile con
operazioni, che condiziona qualsiasi procedimento che su di esso
si costruisca : deve esserci, ossia non pu non esserci, un darsi
semplice del fenomeno perch qualsiasi operazione su qualcosa
che non deriva da quell'operazione. Ed questo darsi che fa
essere per me il fenomeno come esso per se stesso.
Le condizioni imposte dal concetto di interpretazione sono
dunque tali da escludere che possa dirsi interpretazione un pr-
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CAPITOLO TERZO
Dizionario
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stessa di oggettivare. Se si dovesse stabilire una rigorosa distinzione tra la mera teoricit del modello e la piena teoreticit che
sfugge ad esso, si potrebbe ricorrere alla parola esempio per
indicare appunto la teoreticit del valore.
Il modello indica la imitazione possibile e il suo fondamento la somiglianza e questa pu venire sempre costruita :
in esso il valore tale da variare in base alla sua considerazione ;
valori e disvalori non sono in esso assoluti, ma relativi al punto
di riferimento ; cos, nella serie dei numeri relativi il valore di
tali numeri varia con il variare dell'ordine di numerazione, a
partire dallo zero.
Uesempio, a differenza del modello, ha valore a prescindere
dalla considerazione ed esemplificante appunto, ossia valido
solo se scelto (trascelto) da una quantit di cose omogenee
tra loro : esso valido all'interno del concetto che esso stesso
esemplifica. Che se si assume l'esempio fuori dal nesso-concetto,
esso ha due possibili esiti : esso, o decade ad evento , del
tutto irrilevante, perch non indicabile veramente nel discorso,
o si formula come astratto e decade a generale (i due esiti
si equivalgono : se l'evento ha carattere empirico ed astratto, la
formulazione dello in generale ha carattere astratto).
Con ci si chiarisce che l'esempio (i) non un evento staccato,
a s stante, ma , piuttosto, il verificarsi totale del valore-concetto ; dell' essere uomo , ad esempio, esempio Socrate
e Socrate esempio dell'essere uomo in quanto egli verifica
in S totalmente l'essere uomo ; ossia il nesso fra lui, considerato
a s, e l'essere uomo essenziale al costituirsi stesso di lui.
D'altra parte, l'esempio non esaurisce la totalit esemplificata ;
se ci avvenisse, infatti, esso si identificherebbe con ci di cui
esempio e cesserebbe di essere esempio : Socrate totalmente
uomo, ma non l'unico uomo, uomo anche Platone ecc. Si
stabilisce, cos, l'interna relazionalit operante tra l'esempio e il
valore esemplificato, per la quale si potrebbe dire che l'esempio in
ordine agli archetipi essenziali, dove invece il modello in ordine
alle figure convenibili (2) : le figure possono venire costruite, gli
archetipi invece non si costruiscono, potendosi costruire solo
(1) Lo ex-emplum dal verbo ximo ( = cavar fuori) ed implica semanticamente
l'omogeneit t r a esempio ed esemplificato, omogeneit che t u t t o il valore dell'esempio.
(2) Cfr. P O I N C A R , La science et l'hypothse, 1902, cap. I X ; E . MACH,
1905, cap. X I V .
Erkennt-
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CAPITOLO TERZO
in base ad archetipi (non pu darsi, infatti, una figura che contraddica un archetipo se per archetipo si intende la forma prima,
che fonda le variazioni possibili).
La struttura della scienza moderna dunque tale da uscire
dalla possibilit veramente teoretica, proprio in base ai modelli
dei quali essa si materia e nei quali si articola : la loro costruibilit gi di per se stessa l'interno limite della loro funzionalit,
limite che non si pone alla fecondit della loro applicazione, ma
alla surrettizia pretesa di far valere questa fecondit -7- talvolta
innegabile come valore totale della cosa stessa , come tale da
inglobare ed esaurire appunto la totalit dell'esperienza.
14. Il carattere teorico del controllo sull'esperienza.
Il controllo s^Z'esperienza, onde l'esperienza decade ad esperimento (e, una volta consaputo questo suo decadere, essa viene
restituita alla sua originariet sempre implicata) inteso gi da
Bacone quando egli espone un apparato di intervento sull'esperienza : la pars destruens di tale apparato organologico, o negativa, corrisponde alla necessit di togliere ci che arbitrariamente si aggiunge all'esperito (gli idola, errori o pre-giudizi,
sono tali appunto in quanto nascondono il fenomeno, componendosi con esso) ; la pars adstruens vi si intende, d'altro canto, come la
necessit di raggiungere il fenomeno nella sua interezza, interpretandolo nella experientia litterata ; ma ovvio che questa interezza,
per validamente ed inevitabilmente intenzionata che sia, intesa
solo come gli strumenti adottati lo possono permettere, e gli strumenti sono gi di per se stessi sezioni dell'esperienza, quelle sezioni che presentano la possibilit dell'errore (non ha senso, infatti, che l'errore, gli idola, sia detto come essenziale all'esperienza,
perch se ci fosse, nessuna esperienza potrebbe rilevarlo e non vi
sarebbe esperienza effettivamente in grado di superarlo).
Gi nel rapportare il fenomeno all'apparato di controllo implicata una matematizzazione dell'esperienza, poich v' operante
in tale rapportamento la corrispondenza dei termini dei quali si
dispone : al fenomeno a possibile far corrispondere il valore a' ;
ed cos preparata la strada alla matematizzazione vera e propria
che compare con Galilei. Compito della scienza (= linguaggio
scientifico) diventa precisamente la misurazione dei fenomeni,
che, ad esempio, solo una volta misurata, la forza pu venire sfrut-
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tata a vantaggio dell'uomo. L'introduzione galileiana in meccanica del concetto di accellerazione scientificamente feconda
a condizione che la si supponga originariamente uniforme (se non
fosse cos supposta non la si potrebbe misurare). Dove intervenga
una scala metrica, l la ricerca non pu concernere il fenomeno
nel suo essere tale, ma solo il modo (e le condizioni) della sua utilizzabilit da parte dell'uomo. I concetti che qui si suppongono
sono, nella misurabilit dell'accellerazione, quello di velocit, di
lunghezza, di tempo ; concetti supposti ossia non analizzati, usati
come li usa empiricamente il linguaggio comune.
15. Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni.
Di spostamento del limite si pu parlare ad una duplice condizione : 1. che la cosa di cui si tratta varii, 2. che la cosa che varia
sia essa a variare e, in questo senso, perci permanga. Le due condizioni non si contraddicono purch : i. la cosa non sia identica al
suo limite, 2. che sia, perci, pensabile la medesima cosa con limiti
diversi (che lo spostamento di limite non alteri la cosa). La cosa,
non identica al suo limite, passibile di limitazione, che limite
imposto .
Si ha in tal modo una struttura tale da condizionare la duplice
azione del conservare la cosa, fissandola nella sua identit e del
modificare la cosa, spostandone il limite : azioni correlative perch
fissare equivale ad implicare il limite della cosa. questa
equivalenza che deve venire spiegata, evitando la contraddizione.
Si pu pensare uno spostamento del limite solo a partire da un
limite dato e dentro una serie di limiti possibili (dati come
possibili) : lo spostamento rilevabile solo a mantenere il limite
dato cos come esso dato (Aa2 A con il limite spostato solo in
riferimento ad Aa1( per il limite ^ di A). Cos, spostare il limite
non pu equivalere ad annullarlo che annullare il limite equivarrebbe a sopprimere la cosa : Aat senza a t non Aax, ma nemmeno
A, perch A senza limite in realt A con tutti i limiti possibili,
A indifferente a qualsiasi limite, indifferente anche al suo opposto.
Spostare il limite all'infinito equivarrebbe ancora ad annullarlo, che il limite si approssima senza mai coincidere e una
cosa limitata all'infinito cosa illimitata e spostare all'infinito ,
in realt, porre una serie indefinita, la quale, essendo tale da ogni
sua parte, da nessun punto di vista sarebbe veramente una serie.
IOO
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post., I I , 96 a-11.
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sono intrinseche alla cosa, la definizione ancora quella aristotelica, se esse le sono estrinseche non escludono, perci, il rimando all'essenza.
Va preso dunque in considerazione l'uso definitivo della parola tutto , proprio perch solo come definizione-concetto
che essa ha un senso. L'atto che dice il tutto della cosa include di
essa tutto, ossia nulla esclude : allora il tutto tutto nell'inclusione, ed perci tutto o solo inclusione tutto o solo l'atto dell'includere.
Se il tutto, cos, si rivela essere un atto, anzich un termine formulabile in una dottrina che pretenda di possederlo e di comunicarlo, come atto esso non pu venire dato. L' essenza , dunque,
non potendo venire data , non pu venire detta perch ci
che si d e che si dice viene dato e viene detto in virt di essa. In
altre parole, chi nega della cosa l'essenza e chi pretende dirla si
pongono, rispetto ad essa, sul medesimo piano, cosicch anche
storicamente, si tende ad oscillare tra la fiduciosa asserzione sulle
essenze e la esplicita rinuncia a prenderle in considerazione, e
si pu dire che non vi sia convenzionalismo o operativismo
che non intenda reagire ad una qualche metafisica delle essenze,
rivelandone l'arbitrariet.
18. L'atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale.
La necessit che vi sia l'essenza della cosa corrisponde all'atteggiamento fondamentale umano che della cosa non intende
cogliere ci che interessa, ma intende la cosa nella sua interezza.
L'intendere l'intimit della cosa intendere la dignit della
persona, per cui non di strumentalizzare la cosa importa, n colui che la considera (strumentalizzando tutto, si strumentalizza
l'uomo stesso). L'atteggiarsi nei confronti del reale anche disforre
il reale in modo che possa venire considerato da chi si atteggia in
rapporto ad esso.
Ogni atteggiamento particolare nei confronti della realt si
inscrive in quello fondamentale e non pu valere a sostituirlo,
cos come la necessit dell'essenza (che l'essenza vi sia) risponde
alla domanda originaria che cosa ? , domanda che l'originario atteggiarsi nei confronti della realt. Tale domanda, infatti,
non si pone in ordine alla cosa, sezionata, divisa, limitata, ma
IO5
in ordine alla totalit della cosa che , cos, voluta tutta intera.
In altre parole, non si pu volere tutto (ogni cosa), che il tutto
in questo senso sempre oltre, sempre indefinito solo postulato ; ma si deve volere la totalit di ci che si vuole, che
se si rinuncia a questa totalit si rinuncia in effetti e contraddittoriamente alla fondamentale struttura umana : l'oblio dell'intero
anche decadenza dell'uomo.
Se atteggiamento teoretico diciamo questo volere della cosa
il suo tutto, ogni altro atteggiamento pu valere come uso possibile della cosa, non come soddisfazione totale (la soddisfazione
o totale o non soddisfazione) intesa dalla domanda.
19. Il modo indiretto di dire l'essenza.
L'essenza non pu venire detta , ma l'atteggiamento fondamentale umano la ricerca dell'essenza, l'essenza deve perci
venire detta : dalla contraddizione si esce solo rilevando il modo
indiretto di dire l'essenza. Dove si rilevi, come si fatto sopra,
che l'atteggiamento fondamentale nei confronti del reale quello
della domanda e che la struttura della domanda il xi <mv ;
si pu parlare di un modo diretto di dire ; in tal modo la cosa
presente nel suo venire detta, per cui, piuttosto, la cosa si
lascia dire .
La cosa, presente nel suo venire detta, equivale all'atto uno
e indivisibile che cosa e parola, il loro logos, il rivelarsi della cosa
nella forma della parola. Il discorso diretto non pu venire negato,
proprio per quella originariet che del tendere all'essenza ; ma
il nostro pensiero, che si struttura nel discorso diretto, trova a
questo discorso un limite, che lo costringe a strutturarsi come
discorso indiretto.
Se il discorso diretto presenza della cosa nella parola, il discorso indiretto l'assenza della cosa che si intende dire, la
quale, per essere detta assente deve essere presente nella intenzione di dirla (non esiste, infatti, un'assenza assoluta, che non
potrebbe venire pensata) ; ancora una volta il discorso diretto
presente in quello indiretto, cosicch i due discorsi si intersecano
tra loro e non sono pensabili come posti l'uno sull'altro.
Con ci si stabilisce una doppia presenza : i. presenza della
cosa, 2. presenza della necessit della cosa nel suo doversi rivelare. Le due presenze corrispondono rispettivamente all'apodissi
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CONCLUSIONE
INDICE
INTRODUZIONE
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CAPITOLO PRIMO
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INDICE
CAPITOLO TERZO
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