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“Un popolo si conosce quando si verifica attraverso il teatro; quando si teatralizza” e, inversamente,
“un teatro si verifica quando si definisce conoscendosi attraverso la sua popolarità: quando si
popolariza”.
A questa conoscenza “teatrale”, Bergamin oppone la conoscenza come “ordine alfabetico internazionale
della cultura, che nacque con gli enciclopedisti ed è una specie di antecipazione mortale dell’Inferno”. I
due saggi che, accanto agli afforismi, si presentano qui al lettore italiano, appartengono infatti al
Bergamin catalogatore instancabile dei dèmoni del nostro tempo (in questo caso, una malintesa
concezione della cultura come alfabetizzazione universale contrapposta alla poesia, che è sempre
analfabetismo integrale, e quella “superstizione del certo” che è lo scientismo).10 (p.26-27)

Con l’acuta coscienza della condizione umana che sta a fondamento della sua sensibilissima
coscienza storica, Bergamin rifiuta la nozione tradizionale di colpa per tornare a una forma di
coscienza del male che ricorda quella della tragedia grega (il “colpevole-innocente” di cui parla Hegel):
l’uomo – egli dice – pur essendo innocente è necessariamente nel male, e questo è il fondamento e,
insieme, la particolarità della sua situazione nella storia. La letteratura testimonia di questa eredità
d’ombra della storia umana, in lotta contro i propri dèmoni e i propri angeli, per i suoi incerti dèi e
dietro i suoi incerti fantasmi.11 (p.28-29)

AGAMBEN, Giorgio. La “notte oscura” di Juan de la Cruz. In: CRUZ, San Juan de la. Poesie.
Trad. Giorgio Agamben.Torino: Einaudi, 1974, p.V-XIII. 12

Il primo problema che queste poesie pongono al loro lettore è che esse si collocano come “figure e
similitudini stravaganti”(Nota 1: Prologo a Cántico espiritual.) nel contesto di un’esperienza mistica.
Questa esperienza è indicata dall’autore con le parole notte oscura e teologia mistica. Piú volte, nelle
sue opere, san Juan spiega che cosa queste espressioni vogliano significare. “La contemplazione
attraverso la quale si legge Subida del Monte Carmelo – l’intelletto ha la piú alta conoscenza di Dio, si
chiama teologia mistica, cioè sapienza segreta di Dio, perché essa è nascosta all’intelletto stesso che la
riceve.13 (p.V)

Nel resoconto di san Juan, cioè, quella “conoscenza sperimentale di Dio”, in cui consisterebbe,
secondo l’opinione comune, lo stato mistico, non soltanto non si presenta come un’illuminazione, ma
non è nemmeno, in senso proprio, un conoscere. Ciò di cui in esso si fa l’esperienza non è
appropriazione o habitus, ma spossessamento e alienazione; non fulgore, ma offuscamento; non un
avanzare in chiarità e ricchezza, ma uno sprofondare e un incagliarsi in cecità e buiore. (Nota 3: La
nozione di “notte oscura” in san Juan può essere messa in rapporto con l’idea di “non-lettura” in
Simone Weil. Nei Cahiers della Weil il nome di san Juan compare per la prima volta proprio in margine
a un passo in cui si accena a questa idea e, più tardi, “lettura” e “notte oscura” sono giustapposti
come contrari. Poiché il mondo è paragonabile a un testo a diversi livelli di significato, la condizione di
ciascun uomo corrisponde in ogni istante al suo livello di lettura, all’incessante e quasi inconsapevole
lavoro di interpretazione del proprio rapporto fisico col mondo. La “non –lettura” è la sospensione di
questa prospettiva esistenziale, l’accettazione dell’opacità del testo come tale.)14 (p.V-VI)

[...] i simboli di cui talora si servono i mistici non appaiono come cifre di una scienza segreta, ma
piuttosto come mimesi dell’opacità, la cui lettura propria consiste nel comprendere che di essi non vi è
alcuna lettura possibile; e questo vale tanto, per quel che ci è dato saperne, per i semplici oggetti che
compaiono nelle iniziazioni mistericche dell’antichità quanto per gli emblemi e le incongrue metafore
alchemiche, per l’ambiguo spessore materico dei rituali e delle immagini gnostiche come per i tropi
poetici in cui san Juan cerca di fissare le sue stazioni nella notte oscura. I simboli, secondo la giusta
espressioni di Bachofen, “riposano in se stessi”, saturi e colmi di nulla, e non rimandano ad alcuna
nascosta. (Nota 1: A proposito di questa frase di Bachofen e sul il simbolo in generale, si vedano le
acute osservazioni di F. JESI, Simbolo e silenzio (ora raccolto in Letteratura e mito, Torino, 1968)15

10 Palavra-chave: teatro
11 Autores e conceitos-chave: culpa, mal, Hegel.
12 Giorgio Agamben, além de escrever o prefácio, traduz as Poesias de San Juan.
13 Conceitos-chave: poesia, noite, mísstica
14 A relação entre Simone Weil e San Juan marca momentos do trabalho de Agamben. Anos antes, em 1965,

Agamben defende, na universidade de Roma, a tese sobre o pensamento político de Simone Weil. Dez anos mais
tarde, entre 1974 e 1975, momento também em que escreve este texto, trabalha com F. Yates, estudioso do
ocultismo, no Instituto Warburg, de Londres sobre a relação entre linguagem e visões do conceito medieval de
melancolia, trabalho que resulta em Stanze: La parola e il fantasma nella cultura occidentale, publicado em 1977.
15 Conceitos-chave: mística, tropos.

Em 1973, Furio Jesi publica O mito. Livro no qual se pergunta como será possível atingir o “mito através da ciência
e da filosofia, se a investigação tem de ficar limitada à história e encontra sempre detrás de uma mitologia, uma
nova mitologia?” Este livro e tantos outros do estudioso do mito, principalmente da cultura alemã, são
referenciados por Agamben, que parece ver em Jesi uma compreensão da leitura entre filosofia e história.
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Il paradosso della teologia mistica è appunto questo: che, in quanto è opacità e spossessamento
integrale, l’espererienza finale che essa implica è quella, puramente negativa, di una presenza che non
si distingue in nulla da un’assenza; in senso proprio, essa non è anzi una teologia (una scienza di Dio),
ma una teo-alogia, che approda a un’inconoscibilità ultima, o, almeno, a un conoscere soltanto per
opacamento e negazione, a un’appropriazione il cui oggetto è l’Inappropriabile stesso, e che non è,
perciò, sostanziabile in un habitus dottrinale positivo, ma soltanto metaforizzabile e alludibile per
assimori, catacresi a altre “figure e similitudini stravaganti” .(Nota 2: Bataille, nella sua Somme
athéologique, in cui cerca di spingere fino al limite estremo l’esperienza del negativo accenna piú volte
al suo debito verso san Juan, che non è semplicemente terminologico (la nudité souveraine e la suma
desnudez di san Juan, il non-savoir e il saber). La differenza che egli pone fra la sua expérience
intérieure e quella della mistica ( e della poesia) è che la negatività mistica è ancora legata, in qualche
modo, a un’appropriazione (così come la poesia, secondo Bataille, cerca in fondo di sostituire lo
spossessamento alle cose possedute), mentre egli persegue una negavità assoluta, senza catarsi né
Aufhebung, riconosciuta “come tale” e “senza impiego”. In un certo senso, nei tre volumi che
compongono la sua Somma, Bataille non fa che portare alle ultime conseguenze il metodo della notte
oscura (“J’ai suivi sa méthode de desséchement jusqu’au bout”, egli scrive a proposito di san Juan),
recidendo ogni rapporto con una teologia positiva e con la nozione stessa di Dio (“Je tiens
l’appréhension de Dieu, fût-il sans forme et sans mode, comme un arrêt dans le mouvement qui nous
porte à l’appréhension plus obscure de l’inconnu”). Così nel tentativo di accedere a questo assoluto
ottenebramento, egli fu condotto a includere nella sua esperienza interiore anche l’opacità del male (in
particolare, l’eccesso sessuale) che san Juan menziona esplicitamente come potenza offuscatrice
(Subida del Monte Carmelo, I, 8) ma non considera come possibile gradus dell’esperienza mistica. In
questa prospettiva, san Juan può essere considerato come uno dei primi scopritori di quella potenza
del negativo che Hegel16, piú di due secoli dopo, doveva porre al centro della sua dialettica
celebrandone “il potere magico” e “la serietà e la pazienza”, e segnando cosí al pensiero una via di cui
stiamo ora percorrendo le ultime e piú oscure propaggini.)17 (p.VI-VII)

La “notte oscura” di san Juan non è però soltanto una metafora, ma anche un camino, un itinerario
che, nel suo gradus, delinea, sia pure in negativo, una dottrina delle potenze dell’anima e una
completa e articolata psicologica. Come tale, essa ha due parti: la prima corrisponde alla sfera
sensitiva (notte dei sensi) ed è una privazione e mortificazione di tutti gli appetiti che nascono dai
cinque sensi, ognuno dei quali deve essere oscurato nella sua potenza specifica per restituire all’anima
la sua nudità originale. Quanto alla seconda parte di questo itinerario nell’ombra, la notte dello spirito,
san Juan vi riprende l’elencazione agostiniana delle tre potenze dell’anima (che sant’Agostino
considerava nel De Trinitate come un riflesso della Trinità divina nell’uomo): intellectus, memoria,
voluntas. A ognuna di queste “potenze” corrisponde, per san Juan, una virtú teologale: la fede
all’intelletto, la speranza alla memoria, la carità alla volontà. Ma, con un audace rovesciamento della
teologia positiva, le virtú teologali sono intese da san Juan come potenze di offuscamento e di
negazione, e non come strumenti di edificazione: “Le tre virtú teologali producono tutte il vuoto nelle
potenze dell’anima: la fede causa vuoto e oscurità nell’intelletto: la speranza, nella memoria, il vuoto di
ogni possesso; la carità, nella volontà, vuoto e nudità di ogni affetto e godimento” (Subida del Monte
Carmelo, II, 6). Esponendosi all’azione di queste virtú nullificanti, ciascuna delle potenze dell’anima
realizza cosí quello spossessamento integrale dalle sue “proprietà” (le apprensioni per l’intelletto; i
ricordi per la memoria; le passioni o affezioni per la volontà) in cui consiste l’esperienza della notte
oscura.18 (Nota 1: Uno schema permetterà di chiarire le articolazioni o gradi di questo progressivo
desnudamento fino all’alienazione suprema qual è esposto in Subida del Monte Carmelo:
notte dell’udito
notte della vista
notte dell’olfatto
dei sensi notte del gusto
notte del tatto
NOTTE

16 É a partir da orientação de Heidegger que Agamben se dedica à leitura de Hegel. Entre 1966 e 1968, Agamben

assiste na França aos seminários de Martin Heidegger sobre Heráclito e Hegel. Conforme relato do próprio
Agamben, estes seminários ocorriam na região de Provence. O primeiro teve duração de um mês no ano de 1966.
Eram cinco os participantes, dentre os quais: Jean Beaufret e René Chant, mais dois alunos de Beaufret e ele, que
durante aquele período ficavam hospedados num hotel numa convivência cotidiana. O segundo acontece no ano de
1968, no mesmo lugar, e no mesmo formato, porém com um número maior de participantes, 12.
17 Conceitos-chave: teologia, teo-alogia, mística, potência.

Esclarece a divida de Bataille com San Juan. Nesse sentido, Agamben parece colocar Bataille, enquanto meio,
enquanto “através”, nunca enquanto o objeto principal, o foco, etc.
18 Conceitos-chave: metáfora, sentido, espírito.

Quando Agamben descreve a poesia de San Juan a partir das duas esferas, a dos sentidos e a do espírito, ao
mesmo tempo em que esclarece o método de leitura, confirma o ofuscamento, o obscuro que ele propõe enquanto
montagem de sentido à poesia de San Juan. Ou seja, Agamben cruza a organização cartesiana que ele tem de
montagem da leitura, com uma dissolução dos sentidos do texto, a partir de figuras, como a da noite.
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OSCURA
intelletto  virtú teologale: fede
dello spirito memoria  virtú teologale: speranza
volontà  virtú teologale: carità (p.VIII-IX)

Una tale fiducia nel linguaggio “ingenuo”, il poeta moderno non può ritrovare, salvo eccezioni, che in
malafede. L’alternativa che si presentava perciò al traduttore che avesse veramente inteso dare un
equivalente moderno dell’esperienza di san Juan, era o la parodia del testo o la sua riduzione a
meceria. Si è preferito, per ovvie ragioni, limitarsi a offrire niente piú che un ausilio di lettura a fronte
del testo in cui, forse prima volta così esplicitamente, l’esperienza della poesia si saldava, sia pure
soltanto come “figura e similitudine stravagente”, a quella sovrana nudità teopatica nella notte nuziale
e trasfiguratrice. (p. XIII)

AGAMBEN, Giorgio. L’io, l’occhio, la voce. In: VALERY, Paul. Monsieur Teste. Trad. Libero
Solaroli. Milano: Il saggiatore, 1980, p.8-24.19
L’io e l’occhio, I
La figura riprodotta qui a fronte si trova nel cap. V della Diottrica, che porta il titolo Delle immagini che
si formano sul fondo dell’occhio. Descartes se ne serve per illustrare il seguente esperimento:
“Se, prendendo l’occhio di un uomo appena morto” egli scrive “o, in mancanza, quello di un bue o di
qualche altro animale di grossa taglia, voi tagliere con destrezza verso il fondo le tre pelli che lo
ricoprono, in modo che una gran parte dell’umore che vi si trova rimanga allo scoperto, senza però che
alcuna parte di esso si versi fuori; poi, avendolo ricoperto di un qualche corpo bianco, che sia così
trasparente che la luce possa passarvi attraverso, come, ad esempio, un pezzo di carta o un guscio
d’uovo RST, voi metterete quest’occhio nel vano di una finestra appositamente aperta, come Z, in modo
che esso abbia la parte anteriore, BCD, rivolta verso il luogo in cui si trovano diversi oggetti, VXY,
illuminati dal sole, e la parte posteriore, in cui si trova il corpo bianco RST, rivolta verso l’interno della
camera P voi vi troverete e in cui non deve penetrare altra luce che quella che potrà filtrare attraverso
l’occhio, tutte le parti del quale, da C fino a S, sono, como sapete, trasparenti. Fatto ciò, se guarderete
il corpo bianco RST, vi vedrete, forse non senza ammirazione e piacere, una pittura che rappresenterà
molto ingenuamente in prospettiva tutti gli oggetti che saranno all’esterno...” (Nota 1: DESCARTES,
Oeuvres, a cura di Adam e Tannery, vol. VI, pag.115.) (p.9-10)

Ciò che Descartes vuole provare con questo esperimento è una teoria della visione secondo la quale
ogni atto di visione è, in realtà, un giudizio intelletuale del soggetto pensante; non visione concreta,
quindi, ma un ego cogito me videre, un “io penso di vedere”, una riflessione dell’Io a partire dai segni
sensibili dipinti sul fondo dell’occhio.20 (p.10)

Attraverso lo sdoppiamento ironico che l’immagine mette in opera, l’occhio guardante diventa occhio
guardato e la visione si trasforma in un vedersi vedere, in una rappresentazione nel senso filosofico,
ma anche nel senso teatrale del termine. 21(p.10-11)

L’Io, e l’occhio, 2
Nelle Osservazioni filosofiche, Wittgenstein propone un esperimento che ricorda, forse non
casualmente, quello della Diottrica di Descartes:
“Supponiamo” egli scrive “ che il mio globo oculare sia fissato dietro una finestra in modo che io veda
maggior parte delle cose attraverso questa. Allora la finestra potrebbe assumere il ruolo di una parte
del mio corpo. Quel che è vicino alla finestra è vicino a me. (Assumo di avere, anche con un occhio
solo, una visione tridimensionale). Assumo inoltre di essere in condizione di vedere il mio globo oculare
in uno specchio e di distinguere – eventualmente appesi fuori agli alberi – globi oculari simili. A questo
punto come posso riconoscere o pervenire all’ipotesi di vedere il mondo attraverso la pupilla del mio
globo oculare? Non essenzialmente in altro modo, se non in base al fatto che vedo il mondo attraverso
la finestra o caso mai da un uno spiraglio aperto in una tavola, subito dietro la quale se ne stia il mio
occhio...
Anzi, se il mio occhio se ne stesse isolato all’estremo di un ramo, mi si potrebbe rendere ben chiara la
sua condizione, avvicinandogli sempre più un anello, fino a che non vedessi tutto quanto attraverso
questo. Anzi, si potrebbe anche accostarse all’occhio l’antico intorno – archi sopracigliari, naso, ecc. –
e io saprei dove ogni cosa andrebbe messa.

19 Introdução à edição italiana de Monsieur Teste, de Paul Valéry. Para construir a imagem de senhor Teste,
Agamben parte do experimento descrito por Descartes, na Diottrica – cuja imagem está reproduzida no início do
texto, em seguida, compara-o com a descrição de Wittegenstein em Osservazioni filosofiche. Este texto foi
republicado em 2005, na coletânia de textos La potenza del pensiero. Organizado por Giorgio Agamben, o volume
contém conferências e ensaios do autor produzidos a partir da década de 80. Das três divisões da coletânea (I.
Linguaggio, II. Storia, III. Potenza), “L’io, l’occhio, la voce” faz parte da primeira, “Linguaggio”.
20 Conceitos-chave: experimento, visão.
21 Conceitos-chave: imagem, representação.
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Ora, però, tutto questo vuol dire che il quadro visivo contiene dopo tutto o pressupone essenzialmente
un soggetto? O non è vero piuttosto che da quei tentativi ottengo solo degli schiarimenti di natura
puramente geometrica? Vale a dire schiarimenti che continuano a riguardare soltanto l’oggetto.” (Nota
4: L. WITTGENSTEIN, Osservazioni filosofiche, trad. It. Torino 1976, pag. 57.) (p.11-12)

Confrontiamo questo ipotetico esperimento con quello della Diottrica. Anche qui vi è un occhio
strappato dalla sua orbita e fissato in un luogo estraneo, anche qui ciò che è in questione è il soggetto
del vedere. E, tuttavia, la feroce enucleazione dell’occhio non fonda qui alcun soggetto della visione,
non vi è alcun uomo barbuto che viene a appropriarsi delle immagini che una ingenua prospettiva
disegna sul fondo dell’occhio. Quand’anche l’occhio potesse osservare se stesso in uno specchio e
vedesse, appesi agli alberi in un paesaggio d’incubo, altri globi oculari, nulla, in ciò che è visto,
presupporebbe l’esistenza di un Io come fondamento della visione.22 (p.12)

Se l’uomo barbuto della Diottrica, nella sua camera oscura, è uno dei poli dell’esperienza che ha nome
Teste, l’Io puntuale e svanente di Wittgenstein, limite e non parte del mondo, ne è l’altro polo. Teste si
muove fra una scena teatrale e un limite invisibile, fra ciò che si può solo vedere e ciò che non si può
vedere in nessun caso. (p.13)

Il Teatro del signor Teste


L’operazione di Valèry è, però, ben più che una semplice ripresa dell’esperienza cartesiana del cogito.
La ripresa che egli attua è, infatti, nello stesso tempo, una decostruzione, in virtù della quale ciò che
era un principio e un fondamento, diventa una finzione teatrale e un limite impossibile. Più volte
Valéry insiste sull’aspetto funzionale e operazionale del suo “ego” contro ogni rischio di
sostanzializzazione. Ciò che egli cerca – leggiamo in un passo che documenta la nascita stessa del
sistema di Valéry – è “spingere all’estremo la funzione dell’Io, e non la sua personalizzazione”; (Nota 8:
P. Valéry, Cahiers,Pléiade, Paris 1973, vol. I, pag. 847) e, ancora nel 1941, ritornando, quattro anni
prima della morte, su Teste, egli ne identifica il senso, puramente funzionale, nella domanda: “que
peut un homme?” (Nota 9: Op. cit., 196)
È allora evidente che il suo “ego” – a differenza da quello di Descartes, che si è “lasciato incantare dallo
sguardo di Medusa del verbo Essere”23 (Nota 10: Op. cit., pag.610) non può aprire alcun varco
sull’essere. Al “penso, dunque sono” cartesiano, la testa oracolare che Valéry situa nell’isola
immaginaria di Xiphos (che potrebbe ben essere la patria di Teste) oppone il suo: “io non sono; io
penso”. (Nota 11: P. Valéry, Ouvres, Bibliothéque de la Pléiade, Paris, 1960, vol.II, pag. 439)24 (p.13-14)

L’Io e l’occhio, 3
L’idea di presenza (presenza dell’anima a se stessa e delle cose reali all’anima) che governa la
metafisica occidentale e il suo sapere, si fonda sulla possibilità di una presenza allo sguardo (l’occhio
che vede se stesso immediatamente in uno specchio: è su questa possibilità che si sofferma il mondo
antico) o su quella di una presenza alla coscienza (la possibilità del discorso di far riferimento
immediatamente, attraverso il pronome io, alla voce del locutore che lo pronuncia). (p.15)25

L’Io e la voce, I
Una volta teatralmente dissolta l’implicazione immediata fra l’io e l’occhio e la fondazione del soggetto
come unità di vedente e veduto nell’esperienza dello specchio, restava tuttavia l’altro principio in cui la
metafisica occidentale aveva cercato la consistenza del soggetto: la sua presenza immediata
nell’esperienza del discorso attraverso gli indicatori dell’enunciazione e, innanzitutto, il pronome io.
Valéry è stato così affascianato dal pronome io, che si può dire che tutta la sua opera (in primo luogo,
Il signor Teste) non sia altro che una riflessione su io e una lotta con io.26 (p.17)

In questo modo, fin dagli esordi della sua meditazione sul pronome, Valéry ha già identificato con
chiarezza quei caratteri che molti anni dopo Benveniste27 fisserà nei suoi studi sulla Natura dei
pronomi e sulla Soggettività nel linguaggio: la realtà puramente linguistica del soggetto e il suo definirsi
esclusivamente rispetto a un’istanza di discorso [...] (p.18)

Come il soggetto metafisico di Wittgenstein, l’Io di Valéry è un puro limite insostanziale; ma, a
differenza di quello (di cui il Tractatus dice che “non si può dire, ma mostra sé”), esso si può solo dire e
mai mostrare.

22 Conceitos-chave: sujeito, objeto, visão.


23 O olhar da medusa também da testemunha em O que resta de Auschwitz.
24 Conceitos-chave: teatro, eu, olhar da medusa.
25 Conceitos-chave: se, eu.

Até esse momento, o texto se detém sobre o olho, o olhar, teoria da visão, experiência da visão, enquanto ver-se, ou
ainda, o que vê e é visto por ele mesmo, para chegar ao falar-se, no momento seguinte do texto.
26 Conceitos-chave: discurso, eu.
27 Benveniste é, talvez, para Agamben a referência para a lingüística moderna e a teoria da linguagem. Ver, por

exemplo, Infância e história e A linguagem e a morte.

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