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Lexia 15-16 LEX

15-16
|Lexia
Rivista di semiotica
Journal of semiotics 15-16
Estasi

Estasi / Ecstasy
Ecstasy
È estatico ogni discorso che, costruendosi nel linguaggio e col linguaggio, rappresenta
nondimeno una fuoriuscita da esso, un bloccarsi della semiosi, un venir meno del-
le distinzioni che fondano il senso. Trattasi dunque di un’impostura? Dell’evoca-
ESTASI
zione impossibile, fra le maglie dell’immanenza, di una dimensione trascendente
nella quale e verso la quale la prima si sfaldi, perdendo la consistenza di struttu- ECSTASY
re e opposizioni? Rispondere affermativamente sarebbe forse semplicistico, sarebbe
considerare l’estasi come puro effetto ottico, come sorta di trompe-l’oeil mistico.
In realtà, come ogni trompe-l’oeil, anche l’estasi rimanda a qualcosa di più della
propria semplice rappresentazione. Essa rinvia ai pregiudizi inconfessati di un’ideologia a cura di
semiotica, alla trama nascosta, al negativo segreto che regge tutta la concezione
moderna del senso e del linguaggio. Il discorso mistico, che corre parallelo e invi-
Massimo Leone
sibile, spesso represso, a volte perseguitato, lungo tutta la storia delle religioni, espri-
me allora questo dubbio: e se il senso non fosse distinzione, separatezza, dualità?
Se l’immanenza articolatoria che lo viviseziona non fosse che illusoria? A questo
punta ogni racconto dell’estasi: al sospetto che i fondamenti della modernità, anti-
mistici per definizione, non siano altro che una delle possibilità dell’umano, e che
una storia non detta, in filigrana, si dipani accanto e sotto al moderno come trac-
cia sbiadita di un altro percorso, di un altro modo d’intendere e di dire.

Contributi di / Contributions by Mohamed Bernoussi, Ludmila Boutchilina-Nesselrode,


Gérard Chandès, Eleonora Chiais, Alessandra Chiàppori, Daniel F. Cortés, Gian Marco De
Maria, Yunhee Lee, Massimo Leone, Jia Peng, Hamid Reza Shairi, María Luisa Solís Zepeda,
Simona Stano, Federica Turco, Ugo Volli, Xingzhi Zhao, Francesco Zucconi.

In copertina / Cover
Parviz Tanavoli, Heech Orange 56, collezione privata.

ISBN 978-88-548-7394-0
ARACNE

ISSN 1720-5298-15

euro 35,00
LEXIA. RIVISTA DI SEMIOTICA
LEXIA. JOURNAL OF SEMIOTICS

–
Lexia
Rivista di semiotica

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Redazione / Editor co, non autorizzata
Massimo Leone
I edizione: luglio 2014
Editori associati di questo numero / ISBN 978-88-548-7394-0
Associated editors of this issue ISSN 1720-5298-15
Juan Alonso-Aldama, Fernando Andacht, Sémir Badir,
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Chiappori, Paul Cobley, Elena Codeluppi, Dario
Compagno, Giovanna Cosenza, Cristina Demaria,
int.le S.r.l. nel mese di luglio 2014 presso
Nicola Dusi, Daniela Ghidoli, Alice Giannitrapani, la tipografia « Ermes. Servizi Editoriali
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Francesco Marsciani, Tiziana Migliore, Neyla Pardo,
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referaggio anonimo
Proni, Ruggero Ragonese, Daniele Salerno, Elsa Soro, « Lexia » is a double-blind peer–reviewed
Lucio Spaziante, Simona Stano, Mattia Thibault journal
Lexia. Rivista di semiotica, –
Estasi
Lexia. Journal of Semiotics, –
Ecstasy

a cura di
edited by
Massimo Leone

Contributi di

Mohamed Bernoussi Jia Peng


Ludmila Boutchilina-Nesselrode Hamid Reza Shairi
Gérard Chandès María Luisa Solís Zepeda
Eleonora Chiais Simona Stano
Alessandra Chiàppori Federica Turco
Daniel F. Cortés Ugo Volli
Gian Marco De Maria Xingzhi Zhao
Yunhee Lee Francesco Zucconi
Massimo Leone
Copyright © MMXIV
ARACNE editrice int.le S.r.l.

www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it

via Quarto Negroni, 


 Ariccia (RM)
() 

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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

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senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: luglio 

La ricerca che ha portato a questo volume è stata svolta presso il Dipartimento


di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino.
Indice / Table of Contents

 Prefazione / Preface
Massimo Leone

 L’ineffabile e l’apparizione
Ugo Volli

 Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español


María Luisa Solís Zepeda

 Être pénétré par l’éclat du sacré. Une lecture sémiotique du


tawhid mystique décrit par Sohravardî dans Safîr–e Sîmorgh
Gérard Chandès

 Étude de la dimension sémiotique de l’extase: le cas de la


poésie persane
Hamid Reza Shairi

 Extase féminine : le cas de Rabia al Adaouia


Mohamed Bernoussi

 Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej


M. Ejzenštejn
Francesco Zucconi

 Verso un cinema estatico: quando i film vendono la pelle


dell’orso e sognano notti di mezza “Estasi”
Gian Marco De Maria

 Renoncer pour s’énoncer: l’extase dans ses parcours de l’ex-


pression
Ludmila Boutchilina–Nesselrode


 Indice / Table of Contents

 Las metamorfosis del suplicio


Daniel F. Cortés

 The Semiotics of Ecstatic Feeling and the Remediation of


Emotional Catastrophe from Peirce’s Semiotic Perspective
Yunhee Lee

 Semiotica dello slancio mistico


Massimo Leone

Recensioni

Reviews

 Marialaura Agnello, Semiotica dei colori, Carocci, Roma ,


 pp.
Eleonora Chiais

 Cristina Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone. La semio-


tica, il documentario e la rappresentazione del “reale”, Bononia
University Press, Bologna ,  pp.
Federica Turco

 Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche, voll.  e , Società


Editrice Esculapio, Bologna , pp.  e 
Alessandra Chiàppori

 Franciscu Sedda, Imperfette Traduzioni. Semiopolitica delle cul-


ture, Edizioni Nuova Cultura, Roma , p. 
Simona Stano

Notizie

News

 Semiotics at Sichuan University


Peng Jia and Zhao Xingzhi
Indice / Table of Contents 

 Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes

 Call for papers. Cibo e identità culturale

 Call for papers. Food and Cultural Identity


Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/97888548739401
pag. 9–12 (luglio 2014)

Prefazione / Preface
M L

In numerosi periodi storici, contesti socioculturali, e generi testuali,


l’estasi è evocata come uno stato nel quale la semiosi si arresta, la
presenza del senso si dissolve nella sua assenza, e la differenza è assor-
bita nell’unità. Tuttavia, al fine di essere evocata, l’estasi deve essere
rappresentata da forme semiotiche, vale a dire da differenze che ne sta-
biliscono il senso e la significazione. Il numero – di Lexia si occupa,
principalmente da un punto di vista semiotico, della contraddizione
paradossale tra il desiderio di evocare, rappresentare, e descrivere stati
estatici e l’impossibilità di farlo senza tradirne il carattere più profondo,
vale a dire la messa tra parentesi della semiosi.
L’estasi è stata sovente vissuta, rappresentata, e descritta in nume-
rose culture religiose, e specialmente nelle loro correnti mistiche.
Nonostante ciò, il numero – di Lexia si propone di considerare
tali fenomeni, e le loro manifestazioni testuali, come occorrenze fra
le più impressionanti di una dinamica più generale, che si potrebbe
denominare, in modo provvisorio, “auto–negazione del senso”.
Sembra che, al fine di mantenere il proprio equilibrio interno,
molti sistemi semiotici debbano essere capaci non soltanto di dar
luogo alla significazione e al senso tramite la dialettica tra due o
più elementi. Essi devono anche essere paradossalmente capaci
di negare, grazie alle risorse simboliche di questi stessi sistemi,
tale significazione, tale senso, e tali differenze. In altre parole, i
sistemi semiotici devono essere capaci di produrre senso attraverso
la semiosi, e allo stesso tempo devono essere in grado di negarlo
nell’estasi. Qui di seguito una lista non esclusiva di argomenti che il
numero – di Lexia intende trattare:

— L’evocazione dell’estasi nella letteratura mistica;


 Prefazione / Preface

— La rappresentazione dell’estasi nelle arti (pittura, scultura, ar-


chitettura, musica, cinema, etc.);
— L’estasi nell’estetica non religiosa;
— Le dinamiche di auto–negazione del senso secondo la semiotica
peirceana, strutturale, o lotmaniana.

L’articolo di Ugo Volli, L’ineffabile e l’apparizione, colloca il discorso


mistico all’interno di una limpida tipologia semiotica di discorsi reli-
giosi, e l’estasi fra le manifestazioni dell’esperienza mistica. L’articolo
non tratta direttamente dell’esperienza estatica ma della sua espres-
sione linguistica, distinguendo fra due posizioni. In quella estrema,
esemplificata da Wittgenstein, la riflessione sul rapporto fra esperienza
estatica e linguaggio conduce a risultati paradossali e ironici. In quella
moderata, invece, le diverse culture religiose adottano espedienti di-
versi per far apparire l’ineffabile nel linguaggio. L’articolo dimostra
che queste apparizioni non sono mai totalmente scevre dai condizio-
namenti della tradizione, all’insegna di una dialettica complessa fra
il desiderio mistico di dire l’ineffabile e la necessità comunitaria del
linguaggio.
Il saggio di María Luisa Solís Zepeda, intitolato Lugar y sentido
del éxtasis en el discurso místico español, verte sulla rappresentazione
dell’estasi nel discorso religioso, e in particolare in quello della misti-
ca spagnola del diciassettesimo secolo, con riferimento soprattutto a
due dei suoi autori principali, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce.
Utilizzando concetti della semiotica post–greimasiana, specialmente
di quella fenomenologica dell’ultimo Fontanille e di quella tensiva di
Zilberberg, l’autrice ipotizza che l’estasi si configuri, nei testi analizzati,
come una particolare occasione conoscitiva, nella quale la gnosi del
divino non avviene per via cognitiva ma corporea, attraverso l’espe-
rienza sensoriale che adotta appunto il corpo quale sua arena. Il saggio
registra le regolarità e le formule che caratterizzano la rappresenta-
zione verbale di questo momento esperienziale, soffermandosi in par-
ticolare sulla grammatica dei sensi e sulla configurazione temporale
dell’estasi.
L’articolo di Gérard Chandès, Être pénétré par l’éclat du sacré. Une
lecture sémiotique du tawhid mystique décrit par Sohravardî dans Safîr–e
Sîmorgh, legge in chiave semiotica tensiva la progressione estatica
così come viene descritta da un classico della mistica sciita, arrivando
Prefazione / Preface 

a ravvisarvi punti di contatto con alcuni frammenti pascaliani e po-


stulando dunque un’universalità del discorso estatico. La semiotica
tensiva sarebbe in grado di catturarne le strutture profonde, specie per
quanto concerne la dialettica paradossale fra intensità ed estensione,
assoluto e discorso.
Anche l’articolo di Hamid Reza Shairi, Étude de la dimension sémio-
tique de l’extase : le cas de la poésie persane, investiga le forme tensive
con cui si esprime l’estasi nella poesia persiana, ma sottolineando le
differenze fra i testi classici, in cui l’estasi è sprofondamento nella
fusione mistica attraverso l’abbandono della sostanza corporale, e i
testi moderni e contemporanei, in cui l’estasi è invece risultato di una
solitudine ritagliata nel quotidiano, ovvero di un incontro perturbante
con l’ebrezza del tutto.
L’articolo di Mohamed Bernoussi, Extase féminine : le cas de Ra-
bia al Adaouia, analizza la figura dell’estasi nei testi che delineano il
singolare personaggio di Rabia al Adaouia, mistica i cui detti e com-
portamenti sono fulcro attorno al quale ruotano alcune delle preoc-
cupazioni principali della semiosfera islamica: il rapporto della donna
con l’uomo; quello con la trascendenza; i mutamenti socio–politici
che si leggono in filigrana nei racconti dell’estasi.
L’articolo di Francesco Zucconi, Estasi ed “efficacia simbolica” nella
teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn, propone una rassegna degli
studi storici e filologici sul concetto di estasi nell’opera teorica e ci-
nematografica del grande autore russo, suggerendo l’ipotesi che il
momento estatico non vi rivesta solo un ruolo pragmatico ed emo-
tivo, ma coincida altresì con il dischiudersi di una svolta estetica ed
epistemica, la quale fonda l’efficacia simbolica. L’articolo sostiene la
tesi attraverso un raffronto con il modo in cui Lévi–Strauss interpreta
alcuni fenomeni sciamanici istituendo il concetto di efficacia simbolica
nell’antropologia strutturale.
Anche l’articolo di Gian Marco De Maria, Verso un cinema estatico:
quando i film vendono la pelle dell’orso e sognano notti di mezza “Estasi”,
verte sul concetto e sul dispositivo filmico dell’estasi in Ejzenštejn,
ma concentrandosi su tre aspetti in particolare: il rapporto fra la no-
zione di estasi e la creatività ermeneutica; l’estasi come commutatore
che consente l’incrocio e lo scambio fra diversi registri espressivi;
e l’estasi come asintoto che segna l’orizzonte di irrapresentabilità
dell’immagine.
 Prefazione / Preface

L’articolo di Ludmila Boutchilina–Nesselrode, Renoncer pour s’é-


noncer : l’extase dans ses parcours de l’expression, investiga la sintassi
passionale dell’estasi nel quadro degli studi della semiotica greimasia-
na sui procedimenti dell’enunciazione, adottando quale caso di studio
l’originale trasposizione cinematografica che Eugene Green propone
in A Religiosa Portuguesa, del .
L’articolo di Daniel F. Cortés, Las metamorfosis del suplicio, accosta
il concetto di estasi a una lettura, nella chiave di una semiotica ispirata
a Peirce ed Eliseo Verón, della spettacolarizzazione del corpo suppli-
ziato. Intorno al chiasmo fra dolore estremo del corpo squartato e
giubilo estatico della macchina punitiva si giocano processi antropolo-
gici profondi che riguardano la costituzione del potere del sovrano e
della sua aura sacrale. L’articolo analizza, in particolare, lo smembra-
mento (Leng–Tché) di Fu–Tchu Li, condannato a morte dall’imperatore
manciù il  marzo del .
Sviluppa un’interpretazione dell’estasi nel quadro della semiotica
di C.S. Peirce anche l’articolo The Semiotics of Ecstatic Feeling and the
Remediation of Emotional Catastrophe from Peirce’s Semiotic Perspective,
di Yunhee Lee.
Chiude la raccolta il saggio di Massimo Leone, il quale propone un
modello astratto del discorso mistico. A partire da un immaginario che
oppone unità e dualità, i testi mistici narrano la dialettica topologica
tra questi due poli attraverso vari tipi di racconto estatico. Il saggio
ne analizza diversi, nel tentativo di produrre una tipologia che sfidi i
criteri filologici e storici e si sviluppi lungo linee strutturali. Fenomeni
diversi, dai resoconti mistici di Castaneda al discorso cabalistico, dagli
“idioti” mistici agli eroi finzionali di Bukowski, dalla frenesia di fusioni
metalliche nell’alchimia a quella di principi morali nella casuistica,
sono messi a conronto per individuare i tratti principali della ideologia
semiotica che sottostà all’immaginario estatico.
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/97888548739402
pag. 13–43 (luglio 2014)

L’ineffabile e l’apparizione
U V

 : Ineffable and Apparition

: This paper tries to understand the ineffability of mysticism


through a semiotic methodology, and to relate the personal experi-
ence in this field with the narrations about it. The notions of vision and
intuition, as well as the opposition between discursive and narrative
speech, are used in order to understand the cultural determinations of
the mystical experience.

: semiotics; mysticism; Kabbalah; Wittgenstein; vision; intuition.

.

La pratica della mistica, e anche solo il complesso di discorsi generati intor-


no ad essa, costituiscono certamente l’oggetto più problematico della
semiotica della religione perché — almeno secondo il modo comune di
intendere questa pratica — essa investe l’ambito più personale ed intimo
della vita spirituale, costituisce soprattutto un’esperienza e solo in secondo
luogo ed eventualmente è rispecchiata in una narrazione o in una teoria,
risulta intuibile ma solo in minima parte prosasticamente comunicabile,
sia per chi vi partecipi sia per chi la testimoni eventualmente dall’esterno.
Per capire se e come sia possibile studiare semioticamente un campo
così elusivo, un passo preliminare certamente utile consiste nel tentare
di delimitarne l’ambito mettendola in relazione di opposizione con altri
discorsi usualmente considerati “religiosi”.
Dal punto di vista semiotico può essere dunque opportuno distin-
guere, trasversalmente alle diverse tradizioni religiose, quattro diversi
grandi tipi di discorsi o più in generale di comunicazioni, sulla base
della connessione che essi presuppongono di avere col divino (diretti o


 Ugo Volli

indiretti) e della loro modalità di rapporto con il loro oggetto (interno


o esterno).
) Vi sono innanzitutto gli atti comunicativi che pretendono di istituire
direttamente e intimamente una relazione con o almeno diretta a Dio —
in cui cioè il divino e il fedele sono terminali enunciazionali di un’inte-
razione discorsiva in un certo senso sovrannaturale. Esistono in realtà
diverse forme di questo primo tipo di discorso: la più diffusa e normale è
la preghiera, intesa non solo come richiesta ma anche più generalmente
come dialogo e contatto, che comunque implica una qualità trascen-
dente, almeno dal lato dell’ascolto. Il giuramento, in certe tradizioni la
confessione, in altri casi la benedizione configurano tacitamente lo stesso
fondo dialogico fra livello umano e divino, anche se spesso questa natura
profonda non è consapevole. L’estasi e in genere la pratica mistica si
propongono infine come esperienze particolarmente intense, consape-
voli e profonde di questo grande genere di comunicazione diretta col
sacro: un linguaggio, o più spesso una comunicazione non linguistica,
fortemente passionale, estesica o addirittura corporea, ma talvolta anche
ricca di contenuti conoscitivi, percettivi e perfino intellettuali, che si instaura
fra chi la prova e la sfera divina, arrivando a fondere o identificare il mistico
con il sacro, o concedendogli almeno qualche forma di contemplazione o
coinvolgimento abbastanza simile o addirittura identica (secondo le diverse
tradizioni) alla sua effettiva presenza nella vita del fedele.
) Poi vi sono quei discorsi che in maniera più lontana e indiretta
parlano di Dio, di cui cioè il divino è lo specifico oggetto enunciativo. Il
linguaggio teologico è l’esempio tipico di questo secondo caso, largamente
maggioritario nelle produzioni religiose dell’Occidente, della Patristica
e della Scolastica, della Kabbalah (ma non del Talmud e della Halakha,
parti maggioritarie del discorso religioso ebraico, appartenenti in preva-
lenza al nostro quarto tipo di discorso, che descriveremo appresso) e del
Kalam islamico. Il teologo (talvolta anche il mistico) cerca di formulare
in maniera più o meno sistematica o narrativa delle verità su Dio, e lo
trasforma così in oggetto del discorso, usando in diversa proporzione e
maniera i testi rivelati, la sua esperienza, la ragione.
. Per un’analisi semiotica della preghiera, soprattutto di quella ebraica, cfr Volli a.
. Sul tema generale il riferimento ovvio nel pensiero contemporaneo va a Buber (,
) e Levinas (, , ); per il giuramento, cfr Agamben .
L’ineffabile e l’apparizione 

) Troviamo quindi quegli atti discorsivi che, secondo l’affermazione


di un testo o di un testimone, Dio stesso in qualche senso ha prodotto,
direttamente pronunciato o agito (quando si tratta di gesti o segni o mi-
racoli). La profezia e la rivelazione costituiscono gli esempi caratteristici
di quest’ultimo terzo caso, quello di un’enunciazione enunciata, spesso
conservata nella cornice di una narrazione sovrastante. La Torah, il
Vangelo, il Corano riferiscono in un quadro di terza persona (anche se
per lo più intradiegetico, con la significativa eccezione del primi quattro
libri del Pentateuco) ciò che viene presentato come il detto divino. Na-
turalmente questo terzo caso può essere spesso il risultato, la traccia
o la registrazione del primo, cioè di un dialogo soggettivo col divino,
di un’ispirazione intima che bisogna qualificare come mistica. Ma non
accade sempre così, la rivelazione può essere anche pubblica e piuttosto
clamorosa come nella rivelazione del Sinai o condotta con mezzi normali
come i discorsi pubblici di Gesù o del Buddha.

) Vi è infine un quarto genere di discorso, che potremmo chiama-


re propriamente religioso secondo tutte le assonanze etimologiche
che esplicano la complessità della sua significazione: nel senso della
ripetizione (re–lego), del legame (re–ligo) e della separazione (relego):
è tutta la produzione comunicativa che non si occupa direttamen-
te del rapporto col divino ma la presuppone: etica, liturgia, diritto,
edificazione, ecc.
È possibile organizzare facilmente questa classificazione in un
quadrato semiotico:

Comunicazione con Dio


Rivelazione Preghiera, mistica
Discorso di Dio Discorso di Dio

Ricevuto dal fedele Prodotto dal fedele


Prescrizioni e rituali religiosi Teologia
Legge Pensiero speculativo
Comunicazione religiosa umana
 Ugo Volli

.

In questo articolo intendo svolgere qualche osservazione di imposta-


zione semiotica (dunque non teologica o storica) su quel grandissimo
ed estremamente problematico ambito di discorso, presente in nume-
rosissime culture, che produce, costituisce o riferisce il contatto individuale
ed intimo con la sfera divina, cioè quella sezione del primo tipo di lin-
guaggio sopra accennato, al cui cuore non è solo l’allocuzione del
credente al suo Dio — preghiera nei molteplici sensi di questo ter-
mine — ma corrispondenza e incontro — un’esperienza intima, solitaria
e sufficiente a se stessa. Questa fusione o visione o sensazione è speri-
mentata infatti internamente, spesso in una situazione di immobilità o
in certi casi di movimento ritmico e ripetitivo (le danze dei dervisci
o delle possessioni haitiane [Deren ] cui si interessava Jerzy Gro-
towski [Attisani e Biagini ]), ma comunque sempre di perdita di
contatto col mondo. Si crea in questa maniera un tempo o un luogo
mentale in cui il divino irrompe, si impone, trasforma lo spazio in cui
si trova il mistico o all’inverso dà a chi la sperimenta la sensazione di
perdere il controllo ed essere trasferito altrove.
Risulta utile riportare qui in forma succinta e didattica l’elenco
dei fenomeni mistici riconosciuti tradizionalmente negli ambienti
cattolici. In primo luogo consideriamo gli effetti soggettivi, cioè le
modificazioni interiori rivendicate dai soggetti che vi sono coinvolti :

Fenomeni di ordine conoscitivo:


: Percezioni soprannaturali di un oggetto naturalmente in-
visibile all’essere umano. Si distinguono in: visioni corporali
(apparizioni); visioni immaginarie; visioni intellettuali.
Visioni corporali: Dette anche apparizioni, sono quelle in cui il senso
della vista percepisce una realtà oggettiva (non necessariamen-
te un corpo umano, ma anche una forma esteriore sensibile o
luminosa) naturalmente invisibile all’uomo [...].
Visioni immaginarie: La visione immaginaria è una rappresentazio-
ne sensibile interamente circoscritta all’immaginazione e che si

. www.diosalva.net/it/spirito–santo/fenomeni–doni–mistici–straordinari.php [ul-
timo accesso l’ aprile ]; si è scelto un sito divulgativo per avere una sintesi molto
semplice di questa fenomenologia degli effetti dell’estasi.
L’ineffabile e l’apparizione 

presenta in modo soprannaturale allo spirito con una vivacità e


chiarezza superiore alle stesse realtà fisiche esteriori [...].
Visioni intellettuali: Si tratta di una conoscenza soprannaturale che si
produce mediante una semplice visione dell’intelligenza senza
impressione o immagine sensibile [...].
: Sono formule che enunciano affermazioni o desideri
e si riferiscono unicamente al linguaggio articolato percepito
mediante l’udito corporale. Si distinguono in:
Auricolari: Sono quelle percepite per mezzo dell’udito [...].
Immaginarie: Sono quelle che si percepiscono chiaramente con
l’immaginazione sia durante il sonno che in stato di veglia [...].
Intellettuali: Sono quelle udite direttamente nell’intelletto senza
concorso di sensi interni ed esterni [...].
: Quando autentiche, sono le manifestazioni soprannatu-
rali di verità nascoste o di segreti divini fatte da Dio per il bene
generale della Chiesa o per l’utilità particolare dell’anima che le
riceve [...].
: Letteralmente, “conoscenza del sacro”, si riferisce alla
facoltà che ebbero alcuni Santi, soprattutto gli estatici, di ricono-
scere le cose sante (i rosari, l’ostia consacrata, le reliquie, ecc.) [...].

Tutti questi sono “fenomeni” di ordine soggettivo, che in qualche


modo formano i risultati cognitivi previsti dell’esperienza mistica.
Altra cosa sono invece gli “effetti” esterni dell’esperienza, i “doni” che
ne derivano:

 ’: Si tratta di un fenomeno, comprovato nella vita


di alcuni Santi, dovuto dalla violenza dell’amore verso Dio che si
manifesta, alle volte, all’esterno sotto forma di fuoco che riscalda e
brucia persino materialmente la carne e le vesti vicino al cuore [...].

Fenomeni di ordine corporale:


: Consistono nella spontanea apparizione di piaghe san-
guinolenti nel corpo della persona che le sperimenta. Appaiono
normalmente nelle mani, nei piedi e nel costato sinistro e a volte
sulla testa e sulle spalle [...].
    : Consistono nell’uscita in quantità apprez-
zabile di liquido sierico (sangue) attraverso i pori della pelle [...].
 Ugo Volli

    : Consiste nell’estrazione


fisica del cuore di carne e nella sostituzione con un altro, che è
alle volte quello di Cristo stesso [...].
   : Si tratta di digiuno assoluto per un
tempo molto superiore alle forze naturali di sopravvivenza della
persona [...].
  : Si tratta di privazione del sonno o di un
riposo molto limitato, inferiore ai limiti normali di sopravvivenza
[...]. Questo fenomeno può essere dunque inteso come un’an-
ticipazione delle condizioni particolarmente eccelse dei corpi
glorificati.
: Si tratta della traslazione corporale quasi istantanea da un
luogo ad un altro anche molto lontano dal primo. Si distingue
dalla bilocazione (v. seguente) perché non c’è simultaneità di
presenza in entrambi i luoghi, ma solo traslazione da un posto
ad un altro [...].
: Consiste nella presenza simultanea di una medesima
persona in due luoghi diversi [...].
: Consiste nell’elevazione spontanea, dal suolo, nel man-
tenimento e spostamento nell’aria del corpo umano senza ap-
poggio alcuno e senza causa naturale visibile. La levitazione ha,
di regola, luogo mentre la persona è in estasi. Si parla di:
Estasi ascensionale: Quando il sollevamento è piccolo.
Volo estatico: Se avviene a grande altezza.
Corsa estatica: Quando la persona si muove velocemente raso ter-
ra. [...]
: Consiste nel passaggio di un corpo attraverso un altro,
che suppone la compenetrazione o coesistenza dei due corpi in
un medesimo luogo [...].
: Consiste in un certo splendore che alle volte i cor-
pi di alcuni irradiano soprattutto durante la contemplazione o
l’estasi [...].
   : Consiste in un certo
profumo di fragranza speciale e inusuale che si sprigiona alle
volte dal corpo dei Santi, dai sepolcri dove riposano le loro spoglie
o in particolari dai luoghi religiosi.

Comunque li si valuti, tutti questi ultimi fenomeni consistono in


L’ineffabile e l’apparizione 

effetti esterni dei fenomeni mistici, di solito parte di narrazioni intor-


no a chi li ottiene, che certamente non si identificano con l’oggetto
della nostra indagine, cioè l’esperienza stessa dell’estasi. Nel seguito
di questo articolo, tralasceremo dunque queste manifestazioni viste
dall’esterno, che pure formano il materiale predominante delle de-
scrizioni verbali e delle rappresentazioni figurative delle estasi. Ci
concentreremo invece su ciò che è percepito nel fatto stesso dell’incontro
con la sfera divina così com’è riferito nelle testimonianze mistiche, e
ci porremo in particolare il problema della dimensione visiva che vi è
centrale e caratteristica, implicando una dimensione spaziale in cui il
sacro e colui che lo percepisce in certa misura coesistono. Si tratta di
una percezione dello spazio certamente paradossale.
L’aspetto più significativo di tali esperienze è descritto infatti co-
me un contatto con l’Altro più remoto e trascendente, ma percepito
dall’interno della coscienza, nella più stretta intimità: una situazione
di forte tensione fra interno e esterno, solitudine e incontro, auto-
riferimento e annullamento di sé. Il che è puntualmente registrato
in un ossimoro etimologico: l’estasi, dal greco ἐξ στάσις, ex–stasis,
essere fuori, sporgersi, si presenta in realtà come un raccoglimento in-
teriore, un’interruzione del rapporto con l’esterno, un blocco totale
della comunicazione. Per testimoniare di questo paradosso e fornire
un oggetto analitico, vale la pena di citare qui la voce di un classico
dizionario filosofico (Lalande , s.v. “Estasi”):

Estasi (fr. Extase; ingl. Ecstasy; ted. Ekstase) — Stato caratterizzato dal punto
di vista fisico da una immobilità quasi completa, da una diminuzione di
tutte le funzioni di relazione, della circolazione e della respirazione; dal
punto di vista affettivo, da “un sentimento di felicità, di gioia indicibile
che si mescola a tutte le operazioni mentali...e che si può considerare
come esclusivamente caratteristico di questo stato” (P. Janet, Une extatique,
« Bull. Inst. psychol. », , pp. –). Dal punto di vista intellettuale “si
chiama...estasi uno stato nel quale, poiché ogni comunicazione col mondo
esterno è interrotta, l’anima ha la sensazione di comunicare con un oggetto
interno che è l’essere perfetto, l’essere infinito, Dio...L’estasi è l’unione
dell’anima con il suo oggetto. Nessun intermediario tra lui ed essa: essa lo
vede, lo tocca, lo possiede, è in lui, è lui. Non è più la fede che crede senza
vedere, è più della scienza stessa, la quale non coglie l’essere che nella sua
idea: è una unione perfetta, nella quale l’anima si sente esistere pienamente,
con lo stesso darsi e abbandonarsi, perché colui al quale si dà è l’essere e la
vita stessa”. (Boutroux, Le mysticisme, «Bull. Inst. psychol.», , pp.  e ).
 Ugo Volli

Alla base di questa esperienza dell’ossimoro, espressa icasticamente


qui sopra dalla locuzione “un oggetto interno che è [...] l’essere infini-
to, Dio”, vi è una doppia figura di chiasmo, un incrocio ossimorico in
entrambe le direzioni. Per uscire davvero da sé e trovare Dio biso-
gnerebbe infatti in primo luogo rientrare nel profondo della propria
anima, secondo il noto motivo agostiniano:
Non uscire fuori, ritorna in te stesso, la verità abita nell’uomo interiore;
se ti scoprirai contingente, trascenderai anche te stesso. Ma ricorda che
trascendendoti, trascenderai anche la tua anima razionale. Dirigiti dove lo
stesso lume della ragione viene acceso.
(De vera religione, § )

Ma per raggiungere davvero se stessi sarebbe invece necessario


uscire da sé, dal proprio “ego” (in quanto contrapposto all’autentico
“self ”, come si usa ormai dire con una terminologia un po’ new age),
o piuttosto perdersi o “abbandonarsi”, per citare Meister Eckhart:
Perciò devi cominciare da te stesso e abbandonare te stesso. In verità, se
non fuggi prima te stesso, dovunque tu fugga troverai ostacoli e inquie-
tudine. Chi cerca la pace [...] deve prima di tutto abbandonare se stesso:
così abbandona tutte le cose. In verità, se un uomo abbandonasse un re-
gno o il mondo intero e mantenesse se stesso, non avrebbe abbandonato
proprio nulla. [...] Soltanto chi abbandona la propria volontà e se stesso, ha
abbandonato davvero tutte le cose.
(, cap. )

Lo stato di isolamento dell’autocoscienza interna come condizione


dell’esperienza diretta del divino (di quella che molto più tardi sarà
chiamata gnosi) è in realtà un tema che si ritrova già in Platone. Come
scrive Colli (, p. ), in Platone. . .
[. . . ] alla conoscenza mistica giunge seguendo il suo impulso dionisiaco.
[. . . ] L’anima lascia ciò che la circonda e si volge ad indagare sé; [. . . ]
l’indagine della propria interiorità è slancio verso l’infinito. [. . . ] L’isola-
mento svuota l’anima dei contenuti razionali; lo stato dionisiaco è pura
interiorità [. . . ]

. “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat verum; si te ipsum
mutabilem inveneris, trascende et te ipsum. Sed memento cum te trascendis, ratiocinan-
tem animam te trascendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur”;
www.augustinus.it/latino/vera_religione/index.htm [ultimo accesso l’ aprile ].
L’ineffabile e l’apparizione 

. . . dove l’anima diventa synethroisméne, “raccolta in sé” (Fedone, 


A). E diffusissimo fin da tempi remoti è anche il tema della possibili-
tà per l’anima di “contenere” paradossalmente l’infinito. Lo implica
Agostino parlando della “grande caverna della memoria” come conte-
nitore dell’universo (Confessioni, X, , –). Ma scrive per esempio
Dav Hai Gaon (–), un maestro rabbinico babilonese dell’epoca
post–talmudica, qui citato da Moshé Idel (, p. ):

Molti studiosi hanno insegnato che, se qualcuno contraddistinto dalle molte


qualità descritte dai libri cerca di vedere in alto il carro [divino] e i palazzi
angelici, deve digiunare un certo numero di giorni e piazzare la sua testa fra
le ginocchia e mormorare molti inni e preghiere specificate dalla tradizione.
Allora percepirà dentro di sé e nelle camere [del suo cuore] come se vedesse con
i suoi occhi i sette palazzi e come se entrasse in essi uno dopo l’altro e vedesse
che cosa vi è contenuto .

Se vogliamo riportare questa tensione su un piano propriamente


linguistico e semiotico, ci troviamo a parlare di “discorso ineffabile”
(un discorso che non contiene se stesso, ma la sua negazione...), “co-
municazione interiore” (un mettere in comune con se stesso...) e altre
locuzioni estremamente problematiche, perché esse stesse ossimori-
che. La semiotica non può naturalmente interrogarsi direttamente
riguardo alla possibilità questo paradosso, per il semplice fatto che non
ha modo di accedere direttamente “in interiore homine” e in genere
manca degli strumenti per studiare direttamente l’esperienza e in
particolare quell’esperienza molto estrema che è l’estasi .
Ciò cui possiamo certamente arrivare ad analizzare sono testi de-
scrittivi, testimonianze, narrazioni. Ed è rispetto a questi materiali
indiretti che è possibile porre la questione del rapporto, che si tra-
sforma però e non riguarda più la tensione fra ciò che è interno al
soggetto dell’esperienza e ciò che gli è esterno, ma fra singolarità del
testo che è la traccia dell’esperienza e ambiente circostante. Il dato
ovvio, ma importante da sottolineare è che le narrazioni cui possiamo
accedere sono sempre successive al fenomeno dell’estasi (Velasco ):
una differenza dell’ordine della spazialità, sia pur metaforica, come
quella fra esterno e interno si trasforma così in un’opposizione tem-

. Corsivi aggiunti.
. Su questo punto non posso che rimandare al mio saggio su questo tema: Volli .
 Ugo Volli

porale. Il loro carattere postumo, in un certo senso traduttivo, rende


necessario a uno sguardo semiotico interrogarsi sempre sui filtri e sui
codici che entrano in gioco nella registrazione dell’esperienza mistica.
Ne deriva un linguaggio peculiare, in un certo senso zoppo, inca-
pace di dirsi interamente e senza riserve (Baldini , pp. –):

[. . . ] un linguaggio che vela più cose di quelle che sveli, che ci dice con i suoi
eccessi lessicali, con una fastosa abbondanza di parole che il mistero non può
essere reso udibile nel linguaggio. Ogni errore grammaticale, dunque, è un
segno di questa impossibilità e, nel contempo, afferma Michel de Certeau,
“indica un punto miracolato del corpo del linguaggio; è una stimmate. La
frase mistica è un artefatto del silenzio che produce silenzio nel rumore
delle parole. Attraverso il linguaggio del mistico, linguaggio che è destinato
non a dire qualcosa, ma a condurre verso il nulla del pensabile. [...] per il
mistico le parole non sono domestiche, né addomesticabili, esse rimangono
per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il suo parlare non è
mai un parlare ozioso e routiniero, un inoffensivo esercizio domenicale,
bensì è un gesto di grande impertinenza verbale, di grande trasgressività
linguistica. I mistici, scrive Massignon, ci fanno “dimenticare la prigione
delle regole metriche e retoriche”; i loro scritti “liberano il pensiero dalle
regole sintattiche abituali”. Al mistico il linguaggio spesso si impunta, talora
egli non fa altro che ripetere a singhiozzi un alfabeto, la parola è sempre
una barriera che gli riesce difficile superare.

Troviamo qui innanzitutto un’opposizione radicale fra l’espressio-


ne e un contenuto che spesso viene detto ineffabile. A questo del resto
allude anche l’etimologia del misticismo: “mistica” deriva dall’agget-
tivo greco mystikòs, che viene da mystès, cioè l’iniziato — parole che
rimandano tutte al verbo myùo, che significa letteralmente chiudere.
Questo dell’ineffabilità è un problema spesso affrontato da coloro che
si occupano di mistica e definisce in un certo senso il problema della
semiotica della mistica: come può esservi un linguaggio dell’ineffa-
bile? Che senso ha un senso che non può dirsi? In verità la poesia si
trova spesso di fronte a problemi del genere: il profumo della rosa è
indifferente al nome con cui si chiama il fiore, dice Shakespeare in un
celebre passaggio di Romeo and Juliet , ma il linguaggio non è adeguato
ad esaurirlo, ricambia l’inesprimibilità con una certa inadeguatezza, su
cui si è soffermato Bergson (), per esempio a proposito dei colori.

. “What’s in a name? That which we call a rose/ By any other name would smell as
sweet.” Romeo and Juliet (II, ii, –)
L’ineffabile e l’apparizione 

Ma certamente il linguaggio mistico è un caso limite, che va molto


al di là della difficoltà comune di catturare l’esperienza in categorie
linguistiche, per forza interpersonali, generali e di conseguenza gene-
riche. Vi è in questo caso qualcosa di più. Scrive per esempio Panikar
(, p. ):

Il linguaggio mistico ha la pretesa di esprimere un’esperienza sui generis


— non dico “specifica”. La mistica è un’esperienza della realtà e in quanto
tale si può esprimere solo, anche se in forma imperfetta, mediante simboli.
La conoscenza simbolica richiede una conoscenza partecipativa tra il cono-
scente e il conosciuto [...]. I mistici confermano che la selva della mistica
è pericolosa e non ha sentieri tracciati. Ci assicurano anche che la mistica
è ineffabile. Come parlare allora dell’ineffabile? La risposta è al contempo
facile e difficile: andando oltre i confini della razionalità senza lederla, par-
landone semplicemente e aggiungendo che non si è cercato di dire ciò che
si è detto. “Chi ha orecchie per intendere, intenda”. Tutti abbiamo orecchie:
occorre affinarle.

Un poeta non sarebbe autorizzato a scaricare in questo modo il


compito sul lettore. Il richiamo alla comprensione “di chi può intende-
re” modifica l’ineffabile in qualcosa che può essere alluso e non detto,
perché richiede una previa competenza: un tema particolarmente in-
teressante per l’analisi semiotica che si propone sempre di ricostruire
competenze. Esso è particolarmente diffuso nella letteratura mistica,
lo si ritrova per esempio in buona parte degli scritti della tradizione
mistica ebraica (Busi e Loewenthal ) .

.

Ci troviamo dunque nella condizione di dover analizzare non diretta-


mente il “discorso ineffabile”, ma la sua testimonianza o riflessione
postuma, la possibilità stessa di parlarne. Il fatto è che questo limite al
discorso si può sviluppare in modi diversi. Il primo che vogliamo consi-
derare qui è quello, potremmo dire estremista, laicamente (almeno in
apparenza) ma molto fortemente testimoniato da Wittgenstein alla fine
del suo Tractatus logico–philosophicus (), in una serie di proposizioni
celeberrime e assai discusse, che analizziamo qui solo rispetto alla rile-
. Ma si veda anche Scholem , p. .
 Ugo Volli

vanza del nostro discorso, ovviamente senza la pretesa di proporre con


ciò un percorso che punti a un’ermeneutica del Tractatus.
Bisogna partire dal fatto che per Wittgenstein “.. V’è davvero
dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico” . Considerando l’atteggia-
mento epistemologicamente realistico, non certo fenomenologico
di Wittgenstein, dobbiamo pensare che “il mistico” (“das Mistische”,
strano aggettivo sostantivato) non può essere presentato qui come
un’esperienza (non si direbbe nel Tractatus che “c’è davvero l’allucina-
zione” o “il sogno”, intendendo con ciò che qualcuno effettivamente li
percepisce), e nemmeno come la registrazione di un’attività discorsiva
o comunicativa (“c’è l’ineffabile” o come si potrebbe anche tradurre,
l’inesprimibile, l’indicibile; per di più c’è “davvero”: questo non vuol
dire certo che solo se ne parli), ma si tratta di qualcosa che “c’è” o “si
dà” (“es gibt” nel testo originale), che “si mostra” (“zeigt sich”) e che
inoltre “è” (“es ist”).
E però esso evidentemente non può essere un qualunque fatto del
mondo, anzi in qualche modo lo ha come oggetto: “. Non come
il mondo è, è il Mistico, ma che esso è” . Che a rigore “il Mistico”
non possa essere uno dei fatti del mondo (compreso il fatto della sua
esperienza) si vede dal fatto che: “. Il mondo è tutto ciò che accade
(was der Fall ist).” O meglio, con una traduzione più letterale, non è
qualcosa di cui “si dia il caso”, un “fatto” (“Tatsache”, .), insomma
un “come” del mondo. Mentre si è appena visto che “il Mistico”
concernerebbe non il “come”, vale a dire ciò che è il caso, ma il “che”,
insomma il caso non mondano che si dia il caso di qualunque cosa:
per dirla con la discussione heideggeriana di Leibniz e Schelling, che
“ci sia qualcosa invece che nulla”.
Infatti esso è esterno al mondo, cioè alla totalità di ciò che accade:
“. Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è
(“ist”) come è, e tutto avviene (gescheht) come avviene; non v’è (“es
gibt nicht”, con la stessa espressione citata sopra) in esso alcun valore
— né, se vi fosse, avrebbe un valore” . Il che rimanda a due possibilità

. “Es gibt allerdings Unaussprechliches. Dies zeigt sich, es ist das Mystische”.
. “Nicht wie die Welt ist, ist das Mystische, sondern dass sie ist”.
. “Der Sinn der Welt muss außerhalb ihrer liegen. In der Welt ist alles, wie es ist, und
geschieht alles, wie es geschieht; es gibt in ihr keinen Wert – und wenn es ihn gäbe, so
hätte er keinen Wert./ Wenn es einen Wert gibt, der Wert hat, so muss er außerhalb alles
Geschehens und So–Seins liegen. Denn alles Geschehen und So–Sein ist zufällig./ Was es
L’ineffabile e l’apparizione 

per la comprensione di che cosa sia questo “Mistico”. La prima è


Dio, menzionato solo in questo caso seriamente nel Tractatus: “..
Come il mondo è, è del tutto indifferente per ciò che è più alto. Dio
non rivela sé nel mondo” .
Oppure, implicitamente, al soggetto e alla sua vita di coscienza e
di linguaggio. Anche se “davvero c’è”, “il mistico” di Wittgenstein ha
certamente a che fare con un’attività di pensiero: esso è caratterizzato
infatti come qualcosa che “si intuisce” (“Anschauung”) o “si sente”
(“Gefühl”): “. Intuire mondo sub specie aeterni è intuirlo quale
tutto limitato. Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico” . Di
questa problematica (possiamo dire enigmatica?) intuizione però non
ha senso parlare: “. Non si dà Enigma: Se una domanda può porsi,
può pure avere risposta” .
Sembrerebbe una chiusura definitiva: “il mistico” sarebbe affare di
un Dio o di un soggetto su cui non avrebbe senso neppure interrogarsi.
Ma, se “sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico”, che “c’è”
e dunque non è illusione, ciò implica che questo limite anch’esso
in qualche senso debba “esserci”: ora questo “limite” (Grenz) per il
Tractatus è esattamente il soggetto (“Subjekt”): “. Il soggetto non
appartiene al mondo, ma è un limite del mondo” ; e pertanto a rigore
anch’esso “non c’è” (ancora: “gibt es nicht”: “. Il soggetto che pensa,
immagina, non v’è” ). Grave elemento di contraddizione o almeno

nichtzufällig macht, kann nicht in der Welt liegen, denn sonst wäre dies wieder zufällig./
Es muss außerhalb der Welt liegen.”
. Cioè direttamente, non come rimando agli “antichi”, il che accade altre tre volte
nel testo: ., ., ..
. “Wie die Welt ist, ist für das Höhere vollkommen gleichgültig. Gott offenbart sich
nicht in der Welt”.
. “Die Anschauung der Welt sub specie aeterni ist ihre Anschauung als — begrenztes
— Ganzes. Das Gefühl der Welt als begrenztes Ganzes ist das mystische”.
. “Zu einer Antwort, die man nicht aussprechen kann, kann man auch die Frage
nicht aussprechen./ Das Rätsel gibt es nicht./ Wenn sich eine Frage überhaupt stellen lässt,
so kann sie auch beantwortet werden.”
. “Das Subjekt gehört nicht zur Welt, sondern es ist eine Grenze der Welt”.
. “Das denkende, vorstellende, Subjekt gibt es nicht./ Wenn ich ein Buch schriebe
»Die Welt, wie ich sie vorfand«, so wäre darin auch über meinen Leib zu berichten und
zu sagen, welche Glieder meinem Willen unterstehen und welche nicht, etc., dies ist
nämlich eine Methode, das Subjekt zu isolieren, oder vielmehr zu zeigen, dass es in einem
wichtigen Sinne kein Subjekt gibt: Von ihm allein nämlich könnte in diesem Buche nicht
die Rede sein”.
 Ugo Volli

di ossimoro, questa inesistenza, perché poco prima “. Io sono il mio


mondo. (Il microcosmo)” e “. Il mondo e la vita sono tutt’uno” .
Si sta forse parlando in maniera equivoca di ciò che “c’è” e “non c’è”.
Forse un esserci è “intramondano”, “ontico” per dirla con Heidegger,
e l’altro è “l’essere”, l’ontologico, e le difficoltà derivano qui da una
programmatica dimenticanza della differenza fra questi due livelli.
Oppure un “esserci” o “darsi (geben) è quello delle cose, l’altro è quello
dell’“intuizione” e della “sensazione”. Ma forse le due opposizioni
sono in realtà la stessa. Non è chiaro.
Anche perché in definitiva però “il limite” (sistematicamente nel-
l’originale “Grenz”, che ha una connotazione di confine) è linguistico:
“. I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” .
Cioè logico e del pensiero: “. La logica riempie il mondo; i limiti
del mondo sono anche i suoi limiti. Non possiamo dunque dire nella
logica: Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no. Ciò parrebbe
infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non
può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del
mondo; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato.
Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque pos-
siamo dire ciò che non possiamo pensare”. Di nuovo, se “il Mistico” è
“l’indicibile”, non potrebbe essere nel mondo; ma allora, come parlarne
o anche solo nominarlo? Come dire che “c’è” se non è nel mondo? La
tensione su questo punto non appare risolubile nel testo.
Mi sono soffermato per qualche riga a esporre il problema del
“mistico” nel pensiero di Wittgenstein, ovviamente senza la pretesa
di intervenire direttamente su un testo rispetto a cui esiste una let-
teratura sterminata, ma per mostrare come l’esito di una riflessione
sull’ineffabilità di questo tipo di esperienza, affrontata con l’estremo
rigore e la straordinaria onestà intellettuale che caratterizza il Tractatus,

. “Ich bin meine Welt. (Der Mikrokosmos)”.


. “Die Welt und das Leben sind Eins”.
. “Die Grenzen meiner Sprache bedeuten die Grenzen meiner Welt”.
. “Die Logik erfüllt die Welt; die Grenzen der Welt sind auch ihre Grenzen. Wir können
also in der Logik nicht sagen: Das und das gibt es in der Welt, jenes nicht. Das würde nämlich
scheinbar voraussetzen, dass wir gewisse Möglichkeiten ausschließen, und dies kann nicht
der Fall sein, da sonst die Logik über die Grenzen der Welt hinaus müsste; wenn sie nämlich
diese Grenzen auch von der anderen Seite betrachten könnte. Was wir nicht denken können,
das können wir nicht denken; wir können also auch nicht sagen, was wir nicht denken
können”.
L’ineffabile e l’apparizione 

non possa che riuscire aporetica, consapevolmente contraddittoria.


Dobbiamo supporre che Wittgenstein violi consapevolmente le sue
stesse regole discorsive nell’atto stesso di proporle, perché nomina ciò
che non si può dire — e non vale a risolvere il problema la celebre
immagine della scala: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che
mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse —
su esse — oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo
che v’è salito)”  . Infatti la scala ha lo stesso statuto ontologico del
luogo che si raggiunge con essa; inoltre, a buttarla via dopo esservisi
arrampicato, si resta certamente intrappolati in alto.
Ma allo stesso tempo, il parlare di Wittgenstein su questo punto
non è un dire: niente si apprende dal Tractatus di che cosa si trovi in
alto, sopra la scala; o se si vuole nulla vi si chiarisce del contenuto —
di esperienza o di realtà — del “mistico”, se non il fatto che lo si può
solo indicare violando le regole del linguaggio. È un modo estremo,
in un certo senso ironico di usare il linguaggio contro se stesso per
indicare ciò che esso non può dire.

.

Un secondo e assai più diffuso modo di intendere i limiti della de-


scrizione dell’incontro col divino può essere definito moderato, ovvia-
mente in termini semiotici, non logici o metafisici. Esso postula che
qualche cosa sul mistico in definitiva si possa dire, se non sulla sostanza
dell’esperienza, almeno sul suo insegnamento o sulla sua apparenza o,
come si usa dire, apparizione. Non sempre si sostiene in questi discorsi
di affermare una verità letterale riguardo alla sfera divina (anche se il
problema certamente si pone), ma almeno di riferire il modo in cui
un incontro col divino è sensibilmente avvenuto. Nella Bibbia il primo
caso celebre di questo tipo di discorso è quello del roveto ardente (Es
: –), costruito con uno straordinario “raccordo di sguardo”:

Mosè pascolava il gregge di Jethro suo suocero, sacerdote di Midian; egli

. “Meine Sätze erläutern dadurch, dass sie der, welcher mich versteht, am Ende als
unsinnig erkennt, wenn er durch sie – auf ihnen – über sie hinausgestiegen ist. (Er muss
sozusagen die Leiter wegwerfen, nachdem er auf ihr hinaufgestiegen ist)./ Er muss diese
Sätze überwinden, dann sieht er die Welt richtig”.
 Ugo Volli

portò il gregge oltre il deserto e giunse alla montagna di Dio, all’Horeb.


E l’Angelo dell’Eterno gli apparve in una Fiamma di fuoco, di mezzo a
un roveto. Mosè guardò ed ecco il roveto bruciava col fuoco, ma il roveto
non si consumava. Allora Mosè disse: “Ora mi sposterò per vedere questo
grandioso spettacolo: perché mai il roveto non si consuma!

Dal racconto dell’azione di Mosè passiamo cioè direttamente a


leggere per così dire in soggettiva quel che gli appare, il contenuto
esperienziale del suo incontro straordinario. Il testo ebraico è tutto
costruito sulla radice r’h del “vedere”: sia lo “spettacolo” (mareè) che
l’apparire sono dell’ordine delle “visioni” non solo sul piano esperien-
ziale, ma anche su quello linguistico. Allo stesso modo apparterrà
poi al campo del visibile (attraverso un raccordo di sguardo appena
più implicito) “la montagna che brucia” scorta con terrore dagli ebrei
al momento della rivelazione del Sinai di Es : – e “le voci, i
lampi, il suono dello shofar” “visti” (il verbo è sempre r’h) anch’essi
“dal popolo” subito dopo la proclamazione del Decalogo (Es :),
anche se più volte nel testo biblico successivo (Deu :) si ribadirà
che “non si vedevano immagini [sempre r’h], ma solo si sentivano
voci”, privilegiando così la dimensione verbale della rivelazione per il
pericolo che quello visivo possa dar luogo a fenomeni di idolatria.
All’ordine del visibile appartiene anche la più celebre apparizione
della tradizione ebraica, quella del primo capitolo di Ezechiele, su cui
si è sviluppato il grandissimo filone della mistica ebraica denominato
maasé merkavà, “i fatti del carro”. Ezechiele infatti riporta una visione
di un carro divino, che è stato messo in relazione dai mistici con la
struttura e la sede del divino:
 Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo, [...] i cieli si aprirono ed ebbi
visioni divine. [...]  la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele figlio di
Buzì, nel paese dei Caldei, lungo il canale Chebàr. qui fu sopra di lui la mano del
Signore.  Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande
nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scor-
geva come un balenare di elettro incandescente.  Al centro apparve la figura
di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza

. Corsivi aggiunti.


. “ Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento a incontrare Dio. Essi stettero
sotto il monte.  E il monte fumava tutto poiché su di esso scese J–H–V–H nel fuoco. Il
suo fumo saliva come fumo di fornace [...]”( J–H–V–H è il “nome proprio” ebraico di Dio,
per un’analisi più completa e la relativa bibliografia cfr Volli ).
L’ineffabile e l’apparizione 

umana  e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. [...]  Quanto alle
loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone
a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila.
[...]  Tra quegli esseri si vedevano come carboni ardenti simili a torce che si
muovevano in mezzo a loro. Il fuoco risplendeva e dal fuoco si sprigionavano
bagliori.  Gli esseri andavano e venivano come un baleno.  Io guardavo
quegli esseri ed ecco sul terreno una ruota al loro fianco, di tutti e quattro.
 Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la
medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo
a un’altra ruota. [...]  Quando essi si muovevano, io udivo il rombo delle
ali, simile al rumore di grandi acque, come il tuono dell’Onnipotente, come il
fragore della tempesta, come il tumulto d’un accampamento. Quando poi si
fermavano, ripiegavano le ali.  Ci fu un rumore al di sopra del firmamento
che era sulle loro teste.  Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve
come una pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto,
una figura dalle sembianze umane.  Da ciò che sembrava essere dai fianchi in
su, mi apparve splendido come l’elettro e da ciò che sembrava dai fianchi in giù,
mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore  il cui aspetto
era simile a quello dell’arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia. Tale mi
apparve l’aspetto della gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a
terra e udii la voce di uno che parlava .

Anche in questo caso la “soggettività” della visione, resa nella tra-


duzione italiana con dispositivi linguistici variati per ragioni estetiche,
è continuamente ribadita in ebraico con soli tre strumenti molto
semplici che alludono tutti alla percezione visiva:

— l’uso continuo della radice vedere r’h (sia come forma verbale
sia nel derivato mareè, la stessa che definisce lo “spettacolo”
roveto);
— quello del sostantivo demut, lo stesso impiegato nel secondo
posto della locuzione “a immagine e somiglianza” nel raccon-
to della creazione dell’uomo nel secondo capitolo del libro
della Genesi; una parola che etimologicamente allude a una
sorta di consanguineità, ma significa generalmente “vicinanza
d’aspetto”, “aria di famiglia”;

. Per sottolineare la dimensione visiva di questo testo, ho messo in corsivo tutti i
vocaboli che vi alludono.
. Per una traduzione a fronte più letterale del testo della Cei citato qui, si può utilmente
consultare: www.chabad.org/library/bible_cdo/aid/ [ultimo accesso l’ aprile ]
 Ugo Volli

— sia infine più semplicemente con la particella preclitica ke,


letteralmente “come”, che ha valore comparativo.

Spesso questo procedimento è ribadito dalla peculiarità dell’oggetto


interno, piuttosto amato dall’ebraico: così nel verso  “ebbi visioni”
traduce un vaereeh maerot, letteralmente vidi visioni. Altre peculiarità
dell’ebraico sono sfruttate allo stesso fine, per esempio nel verso , “la
parola del Signore fu rivolta a Ezechiele” traduce un’espressione “haià
davar J–H–V–H al Jehezekel” che ha un senso più esteso, qualcosa come
“ci fu parola/cosa di J–H–V–H su Ezechiele”, il che si può intendere
certamente che gli fu rivolto un discorso, cosa di cui però non vi è
accenno fino al versetto , l’ultimo del capitolo; ma anche che una
“cosa divina” gli fu messa davanti e mostrata, come infatti accade subito.
Bisogna notare infine che l’espressione “davar J–H–V–H” è impiegata
regolarmente nel testo biblico come formula tecnica per la profezia.
Dal punto di vista semiotico è evidente che qui, come in Esodo,
siamo di fronte a una strategia soggettivante, una testimonianza che
sortisce un forte effetto di realtà, come spesso accade, ma vale in
particolare in questo caso, perché Ezechiele e Mosè hanno una pretesa
istituzionale a quella forma alta di veridicità che definisce la profezia.
Per la loro condizione personale, dentro la cultura ebraica (e poi anche
in quella cristiana), sono annunciatori di verità. Dunque la visione non
solo allude a un incontro, ma lo descrive in maniera sufficientemente
accurata e veritiera da trasformarsi in una descrizione veritiera, molto
di più di un’esperienza.
E anche perché, nonostante la diffidenza della Torah per la sfera
visiva e la preferenza netta per quella verbale/acustica, il verbo roè e
in generale la radice r’h sono usati in genere come annuncio di una
testimonianza veridica. Così Dio, in Genesi  “vaiarè kitov”, “vide che
era buono” e Giacobbe “vede” l’essere divino con cui lotta (Gn : ) e
Mosè in Es : – con lo stesso verbo chiede di “vedere” la “gloria” o
piuttosto la presenza (kavod) di J–H–V–H, ma gli viene negato “perché
nessun uomo può vedermi fin che è in vita” e però gli vien concesso di
vedere “le tracce” (così traduce Lévinas quel che usualmente è “il retro”,
aharà). In sostanza, quel che si vede può essere strano o sovrannaturale,
ma è vero (i sogni, che hanno un’altra natura e non sono pensati mai
letteralmente veri, anche quando contengono un messaggio divino, nel
Pentateuco non sono mai “visti”, ma solo “sognati”).
L’ineffabile e l’apparizione 

Quel che il profeta vede — la sua estasi, se torniamo al linguaggio


moderno — è dunque vero, è uno stare davvero “fuori” come un
testimone in mezzo a un evento quotidiano, anche se in questo caso
l’evento è assolutamente sovrannaturale; certamente vi è in esso del-
l’ineffabile, qualche cosa che non si riesce a dire proprio perché non
rientra nella normalità del mondo, ma questa ineffabilità può essere
superata grazie a paragoni e similitudini.
Se non si è profeti scelti dal divino (e spesso anche se lo si è), la
visione di cui parliamo è pericolosa, a rischio di morte, come si è
appena visto con l’episodio del rifiuto della visione a Mosè (Es :
–) e come insegna con un’altra storia un celebre passo del Talmud
babilonese (Talmud Hagigah b). Vi si parla dell’esperienza mistica sot-
to la metafora dell’ingresso nel “giardino” (questo significa “Pardes”,
parola di origine persiana che è arrivata a definire il nostro paradiso,
cfr Russell ):

I nostri maestri hanno insegnato: quattro entrarono nel Pardés [giardino].


Erano Ben Azài, Ben Zomà, Achèr e Rabbi Akivà. Rabbi Akivà disse loro:
“Quando arriverete la pietra di marmo puro, non dite, ‘Acqua! Acqua!’ perché
è detto: ‘Chi parla menzogne non starà davanti ai miei occhi’ (Salmi :)”
Ben Azài guardò e morì. Di lui è scritto, “preziosa agli occhi di HaShèm è la
morte dei suoi pii” (Salmi : ). Ben Zomà guardò e ne fu leso [impazzì].
Di lui, è scritto: “hai trovato del miele? mangiane con discrezione perché non
ti riempia, e tu ti trovi a vomitarlo” (Proverbi : ). Achèr tagliò i germogli
[divenne apostata]. Rabbi Akivà entrò, e uscì in pace” .

Su questa breve enigmatica narrazione i commenti successivi si


sono sprecati, tutti nel segno dei limiti all’esperienza: la follia, la morte,
l’apostasia sono in agguato nel misticismo, bisogna essere grandi saggi
come Rabbi Akivà per superare indenni il pericolo. Del resto, in un
passo immediatamente precedente (b) il Talmud (anzi, in realtà la
Mishnà, testo più antico e più autorevole di cui il Talmud è commento
e discussione) afferma

Colui che contempla queste quattro cose sarebbe stato meglio se non fosse
venuto al mondo: quel che sta sopra [evidentemente al mondo comune], quel
che sta sotto, quel che sta davanti [cioè dopo], quel che sta dietro [prima].
(Talmud babilonese, trattato Hagigah b.)

. Trad. it. tratta da Busi e Loewental : pp. –, con lievi modifiche.
 Ugo Volli

Si tratta esattamente di una proibizione del “vedere” mistico. In


seguito a tale proibizione, mancherà quasi del tutto nel seguito della
tradizione ebraica una testimonianza esplicita del vedere e un insegna-
mento esplicito delle tecniche per farlo, forse con la sola eccezione
rilevante di Abulafia (Idel ). Non mancheranno peraltro le scuole
mistiche (tutta la Kabbalah ha questo senso), ma esse insisteranno più
sullo studio e sulla dimensione emozionale che sulla visione diretta,
del resto sempre limitata secondo la lezione di Mosè. Da questo punto
di vista la mistica ebraica è la più modesta, non pretende mai un in-
contro diretto col divino, ma quando ha una dimensione ottica aspira
al massimo al “trono”, al “carro”, al “palazzo”, che sono tutte “tracce”
ben dietro o sotto Dio . Altra cosa è la devekut, l’attaccamento del
sentimento al divino, che è lo stato perseguito dal chassidismo , e
altro ancora la visione intellettuale che è caratteristica della Kabbalah.
In questo caso infatti accade che tale vedere sfumi in un intuire (l’e-
spressione usata da Wittgenstein, vale la pena di ricordare, Anschauung
che contiene schauen, “guardare” come intuire contiene tueri, che signifi-
ca anch’esso guardare) tipicamente intellettuale, in cui non si distingue
il sapere dal percepire, lo “studio” dall’esperienza, anche grazie all’e-
strema discrezione personale da cui sono protetti i testi. È insomma un
“vedere” virtuale, un “vedere” che non si propone soprattutto come atto
originale, ma è in un certo senso “guidato”; un vedere che può essere
commentare, insegnare, come spesso si dice anche rivelare il “segreto”
di qualche episodio o testo ben noto nella sua letteralità.
Prendiamo per esempio un celebre brano dello Zohar, il capolavoro
della mistica ebraica (Scholem , traduzione di Zohar I, a–a) .
La riscrittura mistica dei primi versetti della Genesi si situa tutta nel-
l’ambito del visibile, più specificamente del campo semantico della
luce e della fiamma (che evidentemente riguarda eminentemente la

. Una versione contemporanea estremamente significativa di queste di quest’idea


delle tracce tracce divine che non è possibile raggiungere si trova nell’opera di Kafka:
il Castello, il palazzo dell’Imperatore e altri luoghi irraggiungibili che sono largamente
evocati nei suoi testi derivano probabilmente da questa concezione della trascendenza
divina; cfr Groesinger .
. Su cui rimando all’analisi in Scholem .
. Per un’analisi “attraverso la costruzione di campi semantici secondo le indicazioni
della linguistica di Coseriu” si veda Dal Bo (). Sullo Zohar, nella sterminata letteratura
che ne parla, per uno sguardo storico–critico si può consultare Hayoun (), per una
piccola ma preziosa antologia in italiano si può consultare quella a cura di Scholem ().
L’ineffabile e l’apparizione 

vista; ma non è specificata alcuna visione di qualche soggetto cui que-


sta descrizione sia attribuita come percezione. Mancano cioè quegli
indizi espliciti che abbiamo notato sopra sul piano dell’enunciatore
e soprattutto del guardante; ma il quadro è lo stesso, quello di un
campo che si percepisce con la vista, il che implica come in tutti i testi
figurativi un “sistema guardante/guardato” (Eugeni ). Dove sia
mostrato (o narrato) un visibile (cioè una figura), ivi è implicitamente
evocato uno sguardo, un guardante virtuale. Nel caso dello Zohar il
sapere è attribuito prevalentemente (e implicitamente) a Rabbi Shi-
mon bar Yohai, una figura eminente della linea rabbinica del I secolo
della nostra era: a lui per essere precisi è attribuito l’insegnamento e la
descrizione di un “visibile riflesso dell’invisibile” (Zohar I, b); ma mai
si specifica che la narrazione dipenda da una sua effettiva percezione.
In principio, quando la volontà del Re cominciò ad agire, incise segni sull’aura
celeste [che irradiava intorno a Lui]. Una fiamma oscura irradiò dalla regione
più nascosta dal mistero dell’Infinito [Ein Sof ], come una nebbia che prenda
forma dall’informe, racchiusa nell’anello [di quell’aura] né bianca né nera, né
rossa né verde, del tutto priva di colore. Solo quando la fiamma prese misura e
estensione, emise colori splendenti. Nel centro più intimo della fiamma scaturì
infatti una sorgente, da cui si riversarono colori verso il basso, nascosta nella mi-
steriosa segretezza dell’Ein Sof. La sorgente proruppe e non proruppe attraverso
l’etere [dell’aura] che la circondava ed era del tutto inconoscibile fino a che,
per l’impeto della sua irruzione, brillò un punto segreto e nascosto. Al di là di
questo punto nulla è conoscibile, per cui esso è chiamato Reshit, “principio”. Lo
splendore, che era celato nel profondo, urtò il suo etere, che toccò e non toccò
quel punto originario. Allora quel punto originario, chiamato Principio, si
espanse e costruì un Palazzo, a suo onore e gloria. Lì seminò il seme santo dei
mondi per generare a beneficio del mondo, e questo è il segreto del versetto:
«Seme santo è la loro stirpe» (Is, , ). Lo splendore, con cui il Principio semina
semi, a sua gloria, come il seme del baco da seta che si avviluppa e costruisce
intorno a sé un palazzo, a onore di sé e a beneficio del mondo.

Bisogna interrogarsi però sull’origine e la natura di tale “intuizione” o


disvelamento del “segreto del versetto”, che abbiamo riportato qui solo
a titolo di esempio particolarmente illustre di una serie molto ampia di
scritture dello stesso genere, le più rilevanti delle quali è antologizzata in
traduzione italiana nel grosso volume a cura di Busi e Lowental () e
molte di più sono analizzate negli studi di Scholem, Idel e di loro allievi.
Per quanto riguarda la caratteristica centrale, la natura di tale intui-
zione, è opportuno far ricorso alla contrapposizione, secondo categorie
 Ugo Volli

caratteristiche della semiotica della narratività riprese da Violette Morin


() per esempio in Calabrese e Volli (), la storia degli eventi a
quella dell’esposizione, dove la prima (dimensione fattuale) riguarda la
successione dei fatti “reali” di una storia, la seconda il modo in cui essi
sono conosciuti o esposti dal narratore (dimensione discorsiva). Questa
contrapposizione, molto rilevante nel caso del giornalismo, ma anche
di romanzi dove l’intreccio si distacchi dalla fabula, come è la regola nel
caso dei polizieschi, distingue anche la “visione” mistica vera e propria,
caratterizzata sempre da circostanze straordinarie e degne di racconto
della visione, di cui stiamo parlando. La visione è esposta molto spesso
(anche nei casi citati sopra) secondo la logica della percezione e dunque
anche la temporalità del testimone viene spesso collocata nello spazio e
nel tempo della sua manifestazione, piuttosto che della sua autonoma
realtà (“altrove”) e temporalità (“eterna”). L’“intuizione” invece viene
descritta secondo un sapere, che è anche un insegnamento — dunque
secondo una logica in cui il testimone non appare coinvolto personal-
mente — che di solito segue la logica di un commento a un altro testo
(così per esempio il brano dello Zohar citato), o addirittura un ordine
alfabetico (“Alef Bet de Rabbi Aqiva”) o numerico (“Sefer Yetzira”).
In realtà il primo di questi casi, la visione, è quasi escluso, perché
nei testi del misticismo ebraico a partire dalla caduta del Tempio vi è
sempre, quanto meno in maniera implicita, un riferimento a scritti
precedenti, spesso secondo un processo di “piega” (Volli ) che
sovrappone frammenti di testi diversi del canone uniti da un elemento
del significante, usando questa procedura per amplificare e rendere
figurativo il testo. È un procedimento che inizia già nel Talmud e che
è caratteristico dell’ermeneutica ebraica, alternato alla costruzione di
parabole vere proprie e di fiabe didattiche, in cui spesso compare la
figura di “un Re” per illustrare il comportamento divino.
Esso ha un’importanza decisiva nel legittimare e preparare l’e-
sperienza mistica delle generazioni successive, che di solito non è
descritta, ma dà luogo ad ulteriori elaborazioni, che rientrano in quel
processo di memorizzazione, riproduzione e amplificazione del testo
di partenza che è definito in questa tradizione “studio”. Dunque si
tratta di un’origine tradizionale, di un’elaborazione di un sistema di
simboli radicato nei testi di riferimento. Quanto queste descrizioni

. Entrambi riportati in traduzione da Busi e Loewenthal .


L’ineffabile e l’apparizione 

virtuali corrispondano a visioni estatiche e quanto alla semplice elabo-


razione sul registro visivo di materiali verbali ricevuti non possiamo
dire, perché di questo le fonti tacciono rigorosamente.

.

Diverso è il caso cristiano, che è molto meno uniforme e ammette


molteplici modalità di visione e intuizione. Senza alcuna pretesa di com-
pletezza, prenderemo in considerazione pochissimi esempi, partendo
da una delle più celebri estasi della tradizione mistica cristiana, quella
doppia di Agostino di Ippona e di sua madre Monica a Ostia, esperita
alla vigilia della morte di lei, dopo il , che costituisce esempio in-
teressante di narrazione ancor più “moderata” dell’esperienza mistica,
perché si racconta l’accadimento dell’esperienza, ma il contenuto della
visione mistica non è quasi descritto, ma soprattutto ragionato, tradotto
esplicitamente in un discorso che ha forme non solo metaforiche ma
soprattutto ipotetiche. Di questo testo non possiamo dire dunque che
contenga un’“intuizione”, dunque, ma solo il suo annuncio:

Accadde, [...] che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospi-
ciente il giardino della casa che ci ospitava, [...] Conversavamo, dunque, soli
con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che
stanno innanzi [...] aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della
tua fonte, [...] per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in
qualche modo una realtà così alta. . . [...] elevandoci con più ardente impeto
d’amore verso l’Essere stesso, percorremmo su su tutte le cose corporee e
il cielo medesimo [...]. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazio-
ne, l’esaltazione, l’ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e
anch’esse superammo per attingere la plaga dell’abbondanza inesauribile [...]. E
mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la cogliemmo un poco con lo
slancio totale della mente, e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello
spirito [...] . . Si diceva dunque: “Se per un uomo tacesse il tumulto della
carne, tacessero le immagini della terra, dell’acqua e dell’aria, tacessero i cieli,
e l’anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le
rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per
sparire se per un uomo tacesse completamente [...] se ormai ammutolissero,
per aver levato l’orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più
con la bocca delle cose, ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola
attraverso lingua di carne o voce d’angelo o fragore di nube o enigma di parabola,
ma lui direttamente [...] e tale condizione si prolungasse, [...] e quest’unica
 Ugo Volli

nel contemplarla ci rapisse e assorbisse e immergesse in gioie interiori, e dunque


la vita eterna somigliasse a quel momento d’intuizione [...]: non sarebbe questo
“entra nel gaudio del tuo Signore”?
(Confessioni , –)

. «. Impendente autem die, quo ex hac vita erat exitura (quem diem tu noveras
ignorantibus nobis) provenerat, ut credo, procurante te occultis tuis modis, ut ego et ipsa
soli staremus incumbentes ad quamdam fenestram, unde hortus intra domum, quae nos
habebat, prospectabatur, illic apud Ostia Tiberina, ubi remoti a turbis post longi itineris
laborem instaurabamus nos navigationi. Colloquebamur ergo soli valde dulciter et praeterita
obliviscentes in ea quae ante sunt extenti quaerebamus inter nos apud praesentem veritatem,
quod tu es, qualis futura esset vita aeterna sanctorum, quam nec oculus vidit nec auris audivit
nec in cor hominis ascendit. Sed inhiabamus ore cordis in superna fluenta fontis tui, fontis
vitae, quiest apud te, ut inde pro captu nostro aspersi quoquo modo rem tantam cogitaremus.
«. Cumque ad eum finem sermo perduceretur, ut carnalium sensuum delectatio
quantalibet in quantalibet luce corporea prae illius vitae iucunditate non comparatione, sed
ne commemoratione quidem digna videretur, erigentes nos ardentiore affectu in id ipsum
perambulavimus gradatim cuncta corporalia et ipsum caelum, unde sol et luna et stellae
lucent super terram. Et adhuc ascendebamus interius cogitando et loquendo et mirando
opera tua et venimus in mentes nostras et transcendimus eas, ut attingeremus regionem
ubertatis indeficientis, ubi pascis Israel in aeternum veritate pabulo, et ibi vita sapientia est, per
quam fiunt omnia ista, et quae fuerunt et quae futura sunt, et ipsa non fit, sed sic est, ut fuit,
et sic erit semper. Quin potius fuisse et futurum esse non est in ea, sed esse solum, quoniam
aeterna est; nam fuisse et futurum esse non est aeternum. Et dum loquimur et inhiamus illi,
attingimus eam modice toto ictu cordis; et suspiravimus et reliquimus ibi religatas primitias
spiritus et remeavimus ad strepitum oris nostri, ubi verbum et incipitur et finitur. Et quid
simile Verbo tuo, Domino nostro, in se permanenti sine vetustate atque innovanti omnia?
«. Dicebamus ergo: “Si cui sileat tumultus carnis, sileant phantasiae terrae et aquarum
et aeris, sileant et poli et ipsa sibi anima sileat et transeat se non se cogitando, sileant somnia
et imaginariae revelationes, omnis lingua et omne signum et quidquid transeundo fit si cui
sileat omnino (quoniam si quis audiat, dicunt haec omnia: ‘Non ipsa nos fecimus, sed fecit
nos qui manet in aeternum’) his dictis si iam taceant, quoniam erexerunt aurem in eum, qui
fecit ea, et loquatur ipse solus non per ea, sed per se ipsum, ut audiamus verbum eius, non per
linguam carnis neque per vocem angeli nec per sonitum nubis nec per aenigma similitudinis,
sed ipsum, quem in his amamus, ipsum sine his audiamus, sicut nunc extendimus nos et
rapida cogitatione attingimus, aeternam sapientiam super omnia manentem, si continuetur
hoc et subtrahantur aliae visiones longe imparis generis et haec una rapiat et absorbeat et
recondat in interiora gaudia spectatorem suum, ut talis sit sempiterna vita, quale fuit hoc
momentum intellegentiae, cui suspiravimus, nonne hoc est: Intra in gaudium Domini tui?
Et istud quando? An cum omnes resurgimus, sed non omnes immutabimur?”
«. . Dicebam talia, etsi non isto modo et his verbis, tamen, Domine, tu scis, quod
illo die, cum talia loqueremur et mundus iste nobis inter verba vilesceret cum omnibus
delectationibus suis, tunc ait illa: “Fili, quantum ad me attinet, nulla re iam delector in
hac vita. Quid hic faciam adhuc et cur hic sim, nescio, iam consumpta spe huius saeculi.
Unum erat, propter quod in hac vita aliquantum immorari cupiebam, ut te Christianum
catholicum viderem, priusquam morerer. Cumulatius hoc mihi Deus meus praestitit, ut te
etiam contempta felicitate terrena servum eius videam. Quid hic facio?”.»
L’ineffabile e l’apparizione 

Sono evidenziate in corsivo tutte le marche del discorsivo, frequen-


tissime in questo testo, mentre mancano quelle del fattuale. È una
forma di discrezione che è piuttosto frequente nella mistica cristiana,
anche se certamente non esclusiva. In essa prevalgono però i dettati
divini, e spesso le estasi sono dichiarate più che descritte, o raccontate
solo sommariamente e immediatamente congiunte a un ammaestra-
mento teologico. Possiamo prenderne ad esempio, oltre un millennio
dopo Agostino, il “Dialogo della divina provvidenza” di Caterina da
Siena. Nel capolavoro della mistica si parla abbastanza spesso di visioni
e contemplazione, ma le descrizioni sono molto scarne, per esempio
questa del capitolo  del Libro della divina dottrina volgarmente detto
Dialogo della divina provvidenza:

Sai che Io alora ti mostrai me in figura d’uno arbore, del quale non vedevi
né il principio né il fine, se non che vedevi che la radice era unita con la
terra; e questa era la natura divina unita con la terra della vostra umanità.
A’ piei de l’arbore, se ben ti ricorda, era alcuna spina; dalla quale spina tucti
coloro che amavano la propria sensualità si dilongavano e corrivano a uno
monte di lolla, nel quale ti figurai tucti e’ difecti del mondo. Quella lolla
pareva grano e non era; e però, come vedevi, molte anime dentro vi si
perivano di fame, e molte, cognoscendo l’inganno del mondo, tornavano a
l’arbore e passavano la spina, cioè la deliberazione della volontà.
(Cap. )

La voce parlante è quella di un’entità divina che racconta e spiega


alla mistica una “figura” che essa le ha “mostrato” in altro tempo (e
qui vi è una traccia del livello discorsivo di cui si parlava sopra). Il suo
senso più che narrativo o esperienziale è esplicitamente allegorico.
L’albero allude a una certa relazione fra umano e divino, che ha
natura concettuale e certi comportamenti, che sono giudicati sul
piano morale. Non ha nulla di sconvolgente, né in senso beatifico
né nel senso del “mysterium tremendum” del sacro (Rudolf Otto). È in

. Mi riferisco qui alla notissima classificazione di Dante (Convivio II, .), che era
diffusissima nella teoria medievale dell’interpretazione e quindi probabilmente nota a
Caterina. Incidentalmente vale la pena di notare che quel Pardes–giardino della tradizione
ebraica, cui si è accennato sopra è stato spesso interpretato come una sigla (PaRDeS) che
si riferisce anch’essa a quattro livelli di interpretazione (Peshat, senso letterale, Remez,
allegorico, Derash, interpretativo, Sod, segreto o mistico. Sui rapporti fra le categorie
cristiane e quelle ebraiche è aperto un grande dibattito teorico e storiografico, per cui
rimando a Weiss Halivni  e Boyarin .
 Ugo Volli

definitiva un insegnamento, uno dei molti apprendimenti teologici


ed etici che la Voce impartisce a Caterina nel suo gran libro. Siamo
ancora in un ambito di “intuizione”, sebbene molto meno denso
di riferimenti scritturali del caso della Kabbalah: qui, in sostanza, le
“orecchie per intendere” sono fornite da una generale disposizione
religiosa e non dal dominio dettagliato del significante scritturale.
Naturalmente questa modalità indiretta, ancora moderata nei nostri
termini, non è l’unica; vi sono descrizioni molto più chiare ed esplicite,
che sono interessanti proprio per via del loro contenuto, che però
di solito sono trattenute o censurate (e possiamo immaginare che a
Caterina questo sia accaduto, anche per la sproporzione fra il ricordo
di visioni ricevute e loro narrazione). Dato che questo articolo cerca di
fare un discorso tipologico e non certo storico, prendiamo ad esempio
un brano di una mistica cattolica assai recente, Maria Valtorta, la cui
condizione personale e il valore delle cui visioni dal punto di vista
della Chiesa non sono state definite fino in fondo:
Per prima cosa, dunque, ieri sera ho visto come una immensa rosa. Dico
“rosa” per dare il concetto di questi cerchi di luce festante che sempre più
si accentravano intorno ad un punto di un insostenibile fulgore. Una rosa
senza confini! La sua luce era quella che riceveva dallo Spirito Santo. La luce
splendidissima dell’Amore eterno. Topazio e oro liquido resi fiamma... oh!
non so come spiegare! [...]
E vidi Dio Padre: Splendore nello splendore del Paradiso. Linee di lu-
ce splendidissima, candidissima, incandescente. Pensi lei: se io lo potevo
distinguere in quella marea di luce, quale doveva esser la sua Luce che,
pur circondata da tant’altra, la annullava facendola come un’ombra di ri-
flesso rispetto al suo splendere? [...] Spirito perfettissimo, anche con la sua
immaterialità: Luce, Luce, niente altro che Luce.
Di fronte al Padre Iddio era Dio Figlio. Nella veste del suo Corpo
glorificato su cui splendeva l’abito regale che ne copriva le Membra Ss.
senza celarne la bellezza superindescrivibile. Maestà e Bontà si fondevano a
questa sua Bellezza. I carbonchi delle sue cinque Piaghe saettavano cinque
spade di luce su tutto il Paradiso e aumentavano lo splendore di questo e
della sua Persona glorificata. Non aveva aureola o corona di sorta. Ma tutto
il suo Corpo emanava luce, quella luce speciale dei corpi spiritualizzatí che
in Lui e nella Madre è intensissima e si sprigiona dalla Carne che è carne,
ma non è opaca come la nostra. Carne che è luce. Questa luce si condensa
ancor di più intorno al suo Capo. [...] Gesù era in piedi col suo stendardo
regale in mano [...].
Un poco più in basso di Lui, ma di ben poco, quanto può esserlo un
comune gradino di scala, era la Ss. Vergine. Bella come lo è in Cielo, ossia
L’ineffabile e l’apparizione 

con la sua perfetta bellezza umana glorificata a bellezza celeste. Stava fra
il Padre e il Figlio che erano lontani tra loro qualche metro. (Tanto per
applicare paragoni sensibili). Elia era nel mezzo e, con le mani incrociate sul
petto — le sue dolci, candidissime, piccole, bellissime mani — e col volto
lievemente alzato — il suo soave, perfetto, amoroso, soavissimo volto —
guardava, adorando, il Padre e il Figlio.

In questa pagina e nelle molte altre che le assomigliano nei testi


dell’autrice, l’aspetto visivo è chiarissimo, vi sono numerose tracce
dell’enunciazione e tratti discorsivi; ma non mancano i tratti narrativi
o piuttosto figurativi, come pure immagini e atteggiamenti che l’autri-
ce definisce “paragoni sensibili” e che sono evidentemente influenzati
da codici iconologici ben sviluppati. Sarebbe facile identificarli con
motivi figurativi diffusi nella pittura sacra. Un confronto sistematico
fra i repertori iconologi delle visioni e quelli dell’arte sacra coeva
sarebbe un progetto molto vasto che certamente va al di là dei fini e
del metodo di questo articolo ma certamente sarebbe molto utile.
È importante però notare che tutte le visioni, non solo quelle di
cui abbiamo riportato le narrazioni, ma in generale tutti i testi di
questo tipo, sono teologicamente, cioè culturalmente marcati. Quel
che racconta di aver visto Caterina da Siena potrebbe forse essere
stato scorto da Agostino, ma non certo da Abulàfia, che, se avesse
incontrato un albero l’avrebbe certamente visto caratterizzato dalla
geometria delle dieci sefirot, né da Rabbi Akivà, oppure da Rumi o
Muhiyyi’d–din Ibn al–’Arabi. Si tratta certamente di un fatto dato per
scontato e se vogliamo fortemente determinato da un controllo sociale
e istituzionale che bada a reprimere quanto è eterodosso nella mistica:
non si contano i mistici sospettati di eresia (lo fu anche Caterina),
condannati a pene varie (per esempio il grande Meister Eckhart) o
addirittura giustiziati (il caso del grande mistico islamico Al–Hallaj).
Resta il fatto però che, sia pure con un certo grado di creatività
personale, tutte le visioni mistiche si inquadrano nel loro ambiente
teologico/culturale, applicano cioè un certo codice piuttosto specifico
e sono dunque difficilmente compatibili fra loro. Si hanno visioni
dipendenti dal contesto un po’ come i sogni della psicoanalisi, il cui
contenuto si dice non sia indifferente alla scuola dello psicoanalista che
ne ha in cura il soggetto. Il che costituisce un problema soprattutto
se si dà per scontato che le visioni siano autentiche. L’ineffabile dell’e-
 Ugo Volli

sperienza, diventando narrazione, si uniforma al sistema di valori, ai


ruoli tematici, alle figure dei diversi ambienti religiosi. È dunque sul
piano della narrazione, della traduzione dell’esperienza in immagini
e in storie che si realizza una sorta di domesticazione o acculturazione
dell’estasi, che naturalmente costituisce un problema per chi la veda
come assoluta spontaneità e immediatezza. In realtà esiste una storia
di queste traduzioni mistiche, in cui è importante la dimensione della
tradizione e dell’apprendimento.
I testi che sono stati definiti di “intuizione” servono anche a questo:
a dare istruzioni su che cosa si debba e si possa vedere, ad articolare
cioè l’esperienza. Queste istruzioni per l’uso provengono da molte
fonti, le prediche e gli esercizi spirituali, i testi sacri e (nelle culture
che le hanno) le figurazioni, i racconti di pietà e i resoconti delle espe-
rienze precedenti. Vi è inoltre l’azione personale di maestri e figure
autorevoli. Di quest’ordine è la richiesta esplicita e tassativa del Tal-
mud di stabilire una guida molto diretta nella via del misticismo (“Non
si studiano le relazioni proibite in tre, non l’Opera della Creazione
[per esempio lo Zohar sulla Genesi] in due e nemmeno il Carro [la
visione di Ezechiele] a uno, a meno che non si sia sapienti e dotati di
intuito” Mishnah Hagigah, .).
Nello stesso senso agisce la pratica costante della Chiesa di affianca-
re direttori spirituali e confessori particolarmente vicini e attenti alle
pur benissimo intenzionate persone che hanno esperienze mistiche. E
vi è l’attenzione, spesso testimoniata ossessivamente dai mistici cristia-
ni stessi, a separare le visioni che vengono dal Cielo rispetto a quelle
che hanno natura infernale. E in generale si riscontra una tensione fra
“autorità religiosa e misticismo”, che è stata oggetto fra l’altro di una
preziosa riflessione da parte di Gershom Sholem .
Sulla base di queste considerazioni è possibile ritornare alla nostra
questione iniziale sulla possibilità di una semiotica dell’estasi nonostan-
te il carattere ineffabile dell’esperienza. I testi di cui disponiamo vanno
considerati non solo conseguenze dell’esperienza mistica, registrazio-
ni più o meno fedeli di un dato interiore che ha la straordinaria pretesa
di abbracciare l’infinito più trascendente. Essi vanno visti anche come
concause dell’esperienza stessa, o quantomeno dispositivi in grado
di determinarla, qualificarla e farla dialogare con la cultura religiosa

. Rimando sul tema al primo capitolo di Sholem .


L’ineffabile e l’apparizione 

di appartenenza. Come insomma una sorta di istruzioni per l’uso,


di semantica e di morfologia precostituita che dà forma al contatto
perturbante e per sua natura silenzioso con “il Mistico”. Da questo
punto di vista si apre uno spazio d’analisi che richiede ancora una
lunga indagine e una chiarificazione.

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DOI 10.4399/97888548739403
pag. 45–84 (luglio 2014)

Lugar y sentido del éxtasis


en el discurso místico español
M L S Z

 : Place and Sense of Ecstasy in the Hispanic Mystical Discourse

: This paper attempts to demonstrate that the ecstasy takes a place
in a significant structure and how it is expressed in a discourse in the
religious sphere. Our point of view focus on the problem of the signifi-
cation, accordingly we agree with the structural semiotic and their new
approaches. We notice the religious ecstasy in the Spanish mysticism of
the XVI century in two writers, John of the Cross and Teresa of Ávila.
For us, ecstasy is described as a sensitive, intense and instantaneous
experience; an emotional and bodily state and activity; a loss of the
function of the senses; an instability of the subject; and a unique way of
knowledge. These features are the object of our analysis.

: semiotics; religion; mysticism; Catholicism; ecstasy.

. Presentación

En el siglo XVI Teresa de Ávila (–) describe, a lo largo de lo que


ella llama Moradas, el camino que propone seguir para llegar al ma-
trimonio del alma con Dios y los efectos que esta unión produce. Sin
embargo, también expresa su limitación ante tal empresa explicativa.
Por su parte, Juan de la Cruz (–) en sus Declaraciones al Cántico
espiritual, refiriéndose a las almas que sienten la inmensidad divina,
señala la insuficiencia del lenguaje para explicar semejante experiencia.
Ambos escritores, conocidos en diferentes ámbitos como místicos, se
esfuerzan a lo largo de su obra por describir, explicar y justificar una
vivencia extraordinaria que en ocasiones parece ser indecible. Y ese


 María Luisa Solís Zepeda

afán no es infructuoso, la vivencia queda dicha, de alguna manera, en


sus escritos.
Pero, ¿en qué consiste esa vivencia extraordinaria? Se trata, en prin-
cipio, del sentimiento de estar ante — o con — algo que rebasa la
inteligencia. Es la experiencia de una realidad trascendente, aterrori-
zante y fascinante al mismo tiempo, que produce tanto angustia como
admiración. Esta experiencia se acompaña del oscurecimiento de la
consciencia y de la exacerbación de lo sensible. Se trata del éxtasis.
Es a partir de la aparente paradoja de decir lo indecible que surge
nuestro trabajo , que busca dar cuenta del sentido que el éxtasis posee
y cómo es expresado dentro de un ámbito discursivo específico. De
esta manera, nuestro punto de vista se inserta en una problemática
sobre la significación.
Desde esta perspectiva el primer problema al que nos hemos en-
frentado es el de la delimitación de nuestro objeto de reflexión, pues
como hemos visto, el éxtasis por sus características generales puede
ser asimilable a otro tipo de experiencias (estética, sexual, vital) y
surgir en diferentes ámbitos.
Así, al estudiar la familia léxica tanto del término éxtasis como
de la palabra místico con sus derivados, hemos restringido nuestro
objeto a un ámbito específico: el religioso. Teniendo todo esto en
cuenta, hemos centrado nuestra atención en el discurso místico cris-
tiano (católico) occidental. Dentro del misticismo católico destaca
particularmente el misticismo del siglo XVI y de éste, sobre todo, el
misticismo español. La teología y la literatura se han interesado en es-
te misticismo por dos razones: la claridad lograda en las exposiciones
en prosa sobre un tema inefable, y la utilización de un lenguaje que
permite, precisamente (y de manera muy singular), decir lo indecible,
por medio de la escritura (Hatzfeld ).
Este misticismo posee dos características fundamentales: ser nup-
cial (unión entre el alma y Dios) y provenir de toda una tradición
religiosa (por ejemplo de la tradición de El Cantar de los cantares y la
doctrina de San Pablo) y literaria (poesía culta pastoril italianizante).
De acuerdo con lo anterior, creemos que el discurso místico es-

. Este trabajo es la reelaboración de uno de los apartados de Arrebato y enunciación


en el discurso místico (España s. XVI y Nueva España s. XVII), tesis doctoral en Ciencias del
Lenguaje (Universidad de Limoges y ENAH) defendida en octubre de .
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

pañol del siglo XVI y XVII se caracteriza por: . expresar la relación


de unión entre el hombre y Dios (fenomenología de lo sagrado); .
presentar expresiones límite (la negación del mundo, la disolución del
sujeto, la imposibilidad de decir, la ambivalencia de la experiencia);
. poseer un sentido de proclamación y testimonio (comunicación
intersubjetiva); . aspirar a la verdad y retomar parte de un cuerpo doc-
trinario . Además de estas características generales presenta una serie
de estados afectivos, anímicos y corporales, que buscan ser explicados
inteligiblemente (el éxtasis, el amor, la melancolía).
Hasta aquí se ha ido perfilando poco a poco lo que será nuestro
objeto de estudio y el posible cuerpo de análisis o corpus: El éxtasis
manifiesto en ciertos textos religiosos (catolicismo) del siglo XVI
emanados de la cultura española.

. El camino del misticismo y el éxtasis

Es a través de un vasto conjunto de textos que podemos encontrar —


o reconstruir — la vida de los místicos y considerarla como un relato
articulado en unidades episódicas y una cadena de transformaciones.
El místico en su recorrido de vida pasa por tres unidades episódicas
secuenciales . La primera unidad es la que va de la ausencia de Dios
a su búsqueda progresiva. Esta etapa se caracteriza por una serie de
negaciones llevadas a cabo por el sujeto. En el ámbito religiosos
general se le conoce a esta etapa como ascetismo. El discurso místico
español la nombra “noche oscura”.
Esta etapa culmina con la experiencia del éxtasis y abre la posibilidad
de la segunda etapa. El éxtasis es el momento en el que el sujeto
encuentra el objeto de su búsqueda, el alma humana se une a Dios y se
fusiona con él. La intensidad sensible (corporal y afectiva) predomina
y la inteligibilidad es reducida a una casi nulidad.
La segunda etapa está marcada por la salida del éxtasis, por el re-
torno al mundo. Es el momento de la pérdida. En esta etapa el sujeto
experimenta ciertos estados afectivos como el amor ambivalente y el
. Estas características son una reformulación nuestra de la propuesta general que
hace Paul Ricoeur ().
. Cada una de estas etapas ha recibido una denominación diferente según diferentes
dominios, desde el religioso, el sociológico o el psiquiátrico.
 María Luisa Solís Zepeda

dolor. En este punto se cierra la secuencia y se abre una más. Este otro
momento de cierre y apertura es conocido por los teólogos como
éxtasis negativo. Se trata de la melancolía.
Abatido por el dolor el místico debe restablecerse y para hacerlo
debe reconsiderar el mundo, mirarlo como algo precioso, buscar
el objeto perdido pero ahora de otra manera, retornar al mundo
social intentando describir lo que ha experimentado, actuar, predicar,
escribir, evangelizar. Esta tercera etapa se caracteriza, entonces, por la
reincorporación del sujeto en el mundo por medio de sus actos y de
sus prácticas.
En el presente trabajo, como hemos señalado arriba, centraremos
nuestro interés en el éxtasis, en ese que hemos descrito brevemente
como frontera entre la primera y la segunda etapa, es decir, justo
después de la etapa de ascetismo.
Ahora bien, el término éxtasis es definido como un estado del alma
embargada totalmente por un sentimiento de admiración o alegría y
caracterizado por la unión con Dios, en el que el cuerpo y los sentidos
suspenden sus funciones. Esta primera definición nos lleva, de entrada,
a considerar el éxtasis como un estado afectivo valorado usualmente
como positivo, que puede ser producido en cualquier ámbito. Así, el
hombre puede sentir su alma invadida de alegría y admiración cuando
se encuentra ante la naturaleza o ante una obra de arte. A este primer
contenido se agrega un elemento más: la unión con Dios. Esta defini-
ción restringe el ámbito de su uso a la esfera religiosa, que nosotros
consideraremos como un dominio. Tal vez haría falta puntualizar, en-
tonces, de qué tipo de éxtasis estamos hablando, en nuestro caso ya
hemos hecho esta especificación hablando de éxtasis religioso o místico.
El éxtasis místico sería, entonces, un estado en el que el alma es
embargada por un sentimiento positivo que se produce en la unión
con Dios — la alteridad que es denominada, en este caso, de esta
manera. En esta unión se produce una suspensión de las funciones de
los sentidos.
Nosotros, en un intento por aproximar estas definiciones a nuestro
interés semiótico, podemos decir que el éxtasis es un estado afectivo
interno (espacio denominado como “alma”) que se acompaña de una
euforia, de la unión del sujeto con Otro (Dios) en la que se produce

. Diccionario de la lengua española, RAE, Madrid, , sub voce.; Moliner , sub voce.
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

un déficit del sujeto mismo, una modificación de ciertas operaciones


inteligibles y la desestabilización de su propio rol actancial.
Ahora bien, debido a que los textos que analizaremos fueron crea-
dos hacia el siglo XVI, y realizados además desde el ámbito religioso,
es necesario recurrir a los diccionarios de la época y a los diccionarios
especializados para dar cuenta más certera del significado y utilización
de la palabra éxtasis.
Para Sebastián de Covarrubias y Orozco el éxtasis es definido como
arrebatamiento del espíritu que deja al hombre fuera de sentido o por la
fuerza de una vehemente imaginación o por alguna súbita mudanza de un
placer repentino [. . . ] algunas veces les sucede a los contemplativos y santos
y otras lo fingen.
(Covarrubias Orozco , sub voce).

Para el Diccionario de Autoridades el éxtasis es “un arrobamiento de


espíritu que deja al hombre fuera de sentido, o por la fuerza de una
vehemente imaginación o por alguna súbita mudanza de un placer
repentino o por operación divina” (Diccionario de Autoridades , sub
voce).
Vemos que, en el siglo XVI, arrobamiento, arrebatamiento y éxtasis
eran términos usados indistintamente. Este arrobamiento es realizado
por el espíritu dejando al hombre fuera de sentido. Otros rasgos
resultan recurrentes: la fuerza (vehemencia), lo súbito (repentino), el
placer y la posible operación divina.
Veamos ahora qué nos dicen los diccionarios especializados. El
Diccionario de espiritualidad nos da las siguientes definiciones: “Apar-
tarse o hallarse fuera // salida de sí mismo // estado superior de la
mente y el espíritu que intenta superar su cerco corpóreo: evasión de
la mente de la esfera de lo sensible, de lo múltiple, de lo contingente.
Evasión del ámbito humano hacia el divino // acto con que el espíritu
supera las dimensiones y la norma de su vida funcional ordinaria y
entra en un campo dinámico excepcional // hay tres tipos: normal,
anormal y sobrenatural // intensificación de una función del espíritu”
(Ancilli , sub voce).
Creemos que todo lo antes dicho no es aún suficiente para entender
la naturaleza y funcionamiento del éxtasis, ni para intentar reformu-
larlo semióticamente. Creemos que la completa inteligibilidad que
los diccionarios de lengua no nos otorgan, sí lo hacen los textos en los
 María Luisa Solís Zepeda

que este lexema aparece. Como usualmente sucede, lo que los textos
dicen es mucho más complejo. Vamos a ellos entonces.

. El éxtasis en los textos

Teresa de Ávila fue quien más escribió sobre el éxtasis, haciendo una
descripción minuciosa de sus características y de sus efectos . En el
caso de Juan de la Cruz su descripción del éxtasis fue más somera,
concentrada en dar cuenta de las características inteligibles del éxtasis.
Dice Teresa de Ávila :

Lo que yo pretendo declarar es qué siente el alma cuando está en esta divina
unión.
(Vida : )

No diré cosa que no haya experimentado mucho.


(Vida : )

Creo fuera mejor no decir nada. . . pues no se ha de saber decir, ni el


entendimiento lo sabe entender, ni las comparaciones pueden servir de
declararlo, porque son muy bajas las cosas de la tierra para este fin.
(El castillo, moradas quintas: )

“Querría saber declarar con el favor de Dios la diferencia que hay de


unión a arrobamiento, o levantamiento, o vuelo que llaman de espíritu o
arrebatamiento, que todo es uno. Digo que estos diferentes nombres todo
es una cosa, y también se llama éxtasis.
(Vida. : ).

Otra manera de arrobamiento hay, u vuelo del espíritu le llamo yo, que
anque todo es uno en la sustancia, en lo interior se siente muy diferente,
porque muy de presto algunas veces se siente un movimiento tan acelerado
del alma, que parece es arrebatado el espíritu con una velocidad que pone
harto temor.
(El castillo, moradas sextas: )

. San Juan de la Cruz coincide en la descripción que hace del éxtasis Santa Teresa,
aunque él es muy somero en su descripción pues, él mismo lo dice, otro es su interés;
recomienda leer a la santa para entender mejor la naturaleza del éxtasis. (Declaración al
Cántico espiritual (CB), en Juan de la Cruz , canción ).
. Hemos ordenado los parágrafos bajo el criterio de la presuposición lógica propia
del relato.
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

El cómo es ésta que llaman unión y lo que es, yo no lo sé dar a entender.


[. . . ] ni sé entender qué es mente, ni qué diferencia tenga del alma [. . . ]
todo me parece una cosa, bien que el alma alguna vez sale de sí misma, a
manera de un fuego que está ardiendo y hecho llama, y algunas veces crece
este fuego con ímpetu. Esta llama sube muy arriba del fuego, mas no por
eso es cosa diferente, sino la misma llama que está en el fuego.
(Vida : )
Estando así el alma buscando a Dios, siente con un deleite grandísimo y
suave casi desfallecer toda con una manera de desmayo que le va faltando el
huelgo y todas las fuerzas corporales, de manera que si no es con mucha pena,
no puede aún menear las manos, los ojos se cierran sin quererlos cerrar, o si
los tiene abiertos, no ve casi nada; ni si lee, acierta a decir letra, ni casi atina a
conocerla bien; ve que hay letra, mas como el entendimiento no ayuda, no
la sabe leer aunque quiera; oye, mas no entiende lo que oye. Así que de los
sentidos no se aprovecha nada si no es para no acabarla de dejar a su placer, y
antes la dañan. Hablar, es por demás, que no atina a formar palabra, ni hay
fuerza, ya que atinase, para poderla pronunciar; porque toda la fuerza exterior
se pierde y se aumenta en las del alma para mejor poder gozar de su gloria.
El deleite exterior que se siente es grande y muy conocido.
(Vida : )
Ansí es una muerte sabrosa, un arrancamiento del alma de todas las
operaciones que pueden tener, estando en el cuerpo; deleitosa, porque
anque de verdad parece se aparta el alma de él, para mejor estar en Dios;
de manera que aún no sé yo si le queda vida para resolgar [. . . ] Todo su
entendimiento se querría emplear en entender algo de lo que siente, y
como no llegan sus fuerzas a esto, quédese espantado, de manera que, si
no se pierde del todo, no menea pie ni mano, como acá decimos de una
persona que está tan desmayada que nos parece está muerta.
(El castillo, morada quintas: )
[. . . ] que en queriendo arrebatar esta alma, se le quita el huelgo de manera
que, anque duren un poquito más algunas veces los otros sentidos, en ninguna
manera puede hablar, anque otras veces todo se quita de presto, y se enrían
las manos y el cuerpo de manera que no parece tiene alma, ni se entiende
algunas veces si echa el huelgo. Esto dura poco espacio [. . . ] quitándose esta
gran suspensión un poco, parece que el cuerpo torna algo en sí y alienta para
tornarse a morir y dar mayor vida al alma, y con todo no dura mucho tan
gran éstasi. Más acaece, anque se quita, quedarse la voluntad tan embebida y
el entendimiento tan enajenado, y durar ansí día y aún días, que parece no es
capaz de entender en cosa que no sea para despertar la voluntad a amar.
(El castillo, moradas sextas: )
Verdad es que a los principios pasa en tan breve tiempo — al menos a
mí así me acaecía —, que en estas señales exteriores ni en la falta de los
 María Luisa Solís Zepeda

sentidos no se da tanto a entender cuando pasa con brevedad; más bien se


entiende en la sobra de las mercedes, que ha sido grande la claridad del sol
que ha estado allí, pues así la ha derretido. Y nótese esto, que, a mi parecer,
por largo que sea el espacio de estar el alma en esta suspensión de todas las
potencias, es bien breve. [. . . ] más digo que de una vez es muy poco espacio
sin tornar alguna potencia en sí.
(Vida, : )

Ahora tornemos al arrobamiento [. . . ] Digo que muchas veces me


parecía me dejaba el cuerpo tan ligero, que toda la pesadumbre de él me
quitaba; y algunas era tanto, que casi no entendía poner los píes en el suelo.
Pues cuando está en el arrobamiento el cuerpo queda como muerto, sin
poder nada de sí muchas veces, y como le toma se queda siempre: si sentado,
si las manos abiertas, si cerradas. Porque aunque pocas veces se pierde el
sentido, algunas me ha acaecido a mí perderle del todo...
(Vida, : )

Siente el alma no está muerta del todo, que así lo podemos decir, pues
lo está al mundo; mas, como dije, tiene sentido para entender que está en él,
y sentir su soledad, y aprovéchase de lo exterior para dar a entender lo que
siente siquiera por señas [. . . ] Acá no hay sentir, sino gozar sin entender
lo que se goza. [. . . ] Ocúpense todos los sentidos en este gozo, de manera
que no queda ninguno desocupado para poder en otra cosa exterior ni
interiormente. [. . . ] Acá el alma goza más sin comparación, y puédese dar a
entender muy menos porque no queda poder en el cuerpo, ni el alma le
tiene para poder comunicar aquel gozo.
(Vida : ).

[. . . ] No es como a quien toma un desmayo [. . . ] que ninguna cosa


interior ni esterior entiende lo que yo entiendo en este caso, es que el alma
nunca estuvo tan despierta para las cosas de Dios, no con tan gran luz y
conocimiento de su majestad.
(El castillo, moradas sextas: )

[...] cuando torna en sí, en ninguna manera puede dudar que estuvo
en Dios y Dios en ella; con tanta firmeza le queda esta verdad, que anque
pase años sin tornarle Dios a hacer aquella merced, ni se le olvida, ni puede
dudar que estuvo [. . . ] una certidumbre queda en el alma [. . . ]
(El castillo, moradas quintas: )

Podemos ver que para Teresa, unión, levantamiento, vuelo del


espíritu, arrobamiento y éxtasis son sinónimos. El éxtasis acontece
mientras se busca a Dios, es decir, es el resultado de la búsqueda.
El alma, que sale de sí misma, es “como un fuego que crece con
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

ímpetu y sube muy arriba”. El alma siente un goce muy grande


mientras los sentidos parecen perder sus funciones específicas y el
cuerpo pierde su fuerza vital. De la misma manera, el entendimiento
no entiende, la fuerza del alma aumenta mientras la fuerza del cuerpo
disminuye. Además, el deleite es tanto interior, como exterior. El
éxtasis experimentado por Teresa tiene repercusiones corporales y
sensitivas muy importantes.
El éxtasis es temporalmente breve, aunque largo sea el espacio en que
el alma se encuentra suspendida, y es grande e intenso. ¿Qué extraña
temporalidad es esta que puede ser larga y breve al mismo tiempo?
Finalmente, se trata de un éxtasis, que a pesar de todas sus caracterís-
ticas no impide que el sujeto, aunque minimizado en sus operaciones
constitutivas, conserve cierto entendimiento.
Los diccionarios de lengua nos han dicho que el éxtasis es un es-
tado afectivo positivo, es la unión del sujeto con Dios y produce la
suspensión de las funciones de los sentidos. Todo esto se puede en-
contrar, efectivamente, en el texto (que nosotros hemos construido)
de Teresa de Ávila. En los diccionarios de la época encontramos que
el éxtasis es una fuerza que saca al sujeto de sí mismo y de lo múl-
tiple y contingente (el mundo), rasgos que es posible encontrar, de
alguna manera, en el texto de Teresa. Sin embargo, falta definir si el
éxtasis es un estado (diccionarios de lengua) o un acto (diccionarios
especializados) y ver si realmente hay una evasión de lo sensible y de
lo corpóreo o si más bien, y esto es lo que aparece en el texto de la
santa, hay una interacción (relación inversa) entre exterior e interior,
es decir, entre mundo, cuerpo y alma. El texto mismo presenta otros
problemas que los diccionarios no consideran: el éxtasis como etapa
de un proceso, la intensificación que desemboca en un gran goce y
un temor, la brevedad del tiempo y la función del sujeto que, aunque
“pierde el sentido”, conserva cierto entendimiento.

. Sintomatología del éxtasis

Queremos hacer hincapié en la forma descriptiva con que se presenta


el éxtasis en los textos. Esta descripción coincide con la estructura
del relato de enfermedades: el paciente da cuenta de las anomalías
corporales o psíquicas que le han ocurrido durante cierto periodo de
 María Luisa Solís Zepeda

tiempo, mismas que interfieren con su bienestar, con su productividad,


incluso con el desarrollo de su vida social.
En efecto, el éxtasis es descrito como si de una enfermedad se
tratara, se describen los síntomas que son: deleite, falta de fuerza cor-
poral, desfallecimiento, nulo entendimiento, inmovilidad del cuerpo,
fuerza en el alma; se hace hincapié, también, en su duración: poca
duración, cesación repentina, efectos duraderos; y su intensidad: creci-
miento, ímpetu. Vemos que los diferentes síntomas descritos forman
un sistema, pues es sólo en la medida en que aparecen juntos y en
cierto orden que es posible decir, justamente, que son síntomas de
algo, pues si uno de ellos no aparece o aparece otro tipo de síntoma,
el diagnóstico es muy diferente. Un síntoma es un rasgo presente o
ausente, tónico o átono que puesto en contexto (con otros síntomas)
puede ser definido, se pueden buscar las causas que lo originan y se le
puede tratar. Así se hace un diagnóstico.
Cuando una cierta configuración de los síntomas se presenta de la
misma manera en diversos casos hablamos de un síndrome (sintagma
estereotipado). El éxtasis, en los textos que nos ocupan, no aparece
como un caso único, sino al contrario, como un fenómeno que se
repite constantemente; la misma Teresa así lo sostiene al afirmar
“no diré cosa que no haya experimentado mucho” (Vida :). En los
textos de otros místicos encontramos que las características del éxtasis
se repiten siempre de la misma manera, ¿puede ser considerado el
éxtasis como un síndrome? El síndrome es definido por Barthes como:
“aprehensión de cierto número de signos médicos como configuración
significante, estable, regular, legal y que remite a un significado que
es siempre el mismo” (, p. ).
Este hecho, el éxtasis como una configuración significante estable
que se repite siempre de la misma manera — y que por eso se vuelve
un estereotipo —, nos posibilita desdibujar, aunque no totalmente,
diferencias históricas y culturales. Así, estaríamos ante configuraciones
meta–culturales que constituyen una especie de memoria semiótica
del éxtasis.
Teresa describe algunos síntomas más: un gran deleite, el desfalle-
cimiento, la deficiencia del entendimiento y los efectos posteriores al
éxtasis: la voluntad embebida y el entendimiento enajenado.
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

. Sentir y experimentar

Todo relato de enfermedad comienza, justamente, con la declaración


de un “siento que” — respuesta a la usual pregunta del médico: ¿qué
siente? Es a partir de esa primera afirmación que se van desplegando
toda una serie de síntomas subjetivos que el paciente quiere describir.
En el caso que nos ocupa, Teresa de Ávila comienza la descripción del
éxtasis con la siguiente oración: “Lo que yo pretendo declarar es qué
siente el alma cuando está en esta divina unión” (Vida : ).
A esta afirmación le sigue otra más: “No diré cosa que no haya
experimentado mucho” (Vida : ).
Surgen así algunos problemas, siendo los más evidentes, por el
momento, el del sentir y el del experimentar, estas nociones nos
dirigen, directamente, a la problemática en torno a lo sensible, materia
de reflexión de muchas disciplinas — filosofía, psicología, etc. — pero
que ha sido explorada y parcialmente desarrollada por la semiótica.
Comencemos por el problema del sentir. Lo que Teresa declara es,
fundamentalmente, un sentir en– o con– el alma, es decir, un sentir
interno que resulta, a veces, un sentir indeterminado: se siente un
movimiento acelerado del alma, el alma siente un deleite grandísimo,
que no está muerta del todo y siente soledad. El alma siente pero no
entiende lo que siente y además se acompaña del cuerpo para ello:
siente, también, deleite exterior. Es posible decir, a manera de hipóte-
sis, que se trata de un sentir que se inclinaría más hacia las sensaciones
internas que hacia las percepciones tal como las entendemos desde la
fenomenología y que las fronteras entre sentir con el cuerpo y sentir
con el alma se desdibujan complejizando así el proceso.
Ahora bien, vemos que en los textos, el éxtasis se encontraría más
del lado de las sensaciones, de las mociones íntimas (o sensaciones
motrices internas) y del cuerpo carne. Así, el cuerpo está paraliza-
do y, por decirlo de alguna manera, concentrado en sí mismo. Los
movimientos acelerados del alma que Teresa siente son mociones
internas, son justamente el centro de referencia de la experiencia
sensible. Mientras, el cuerpo que parece encontrarse a merced de lo
que el alma siente, queda paralizado, inmóvil, impotente. No sólo no
puede actuar, los sentidos, sus sentidos, parecen no funcionar. Ambos,
cuerpo y alma son sometidos al placer.
Es posible afirmar, entonces, que durante el éxtasis hay un mínimo
 María Luisa Solís Zepeda

de percepción pues el sujeto, aunque no entiende lo que le pasa sabe


que está en el mundo y sabe que algo le sucede. Como dijimos ante-
riormente, los órdenes sensoriales — que son otro modo de lo sensible
— no funcionan, parecen haber perdido su capacidad de discriminación
(“no ve casi nada, ni si lee, acierta a decir letra [. . . ] oye, mas no entiende
lo que oye [. . . ] así que de los sentidos no se aprovecha nada”, Vida :),
no hay un percibir, estrictamente hablando. El sujeto distingue ciertas
sensaciones un tanto vagas: estar en el mundo, la soledad, el gozo, el
deleite. Pero además el sujeto todo es afectado y en esa totalidad no
hay diferencia precisa entre el cuerpo y el alma. Menos aún entre los
sentidos (“[. . . ] ni sé entender qué es mente, ni que diferencia tenga del
alma [. . . ] todo me parece una cosa”, Vida :).
Otro problema que hemos detectado y que se relaciona estrecha-
mente con el del sentir es el del experimentar. Teresa afirma haber
experimentado mucho el éxtasis, se trata de una experiencia que se ha
repetido, que se ha dado por alternancia, por una sucesión. Ese “expe-
rimentar mucho” se puede referir a una multiplicidad de experiencias
similares de las que se puede hacer síntesis (unicidad), o se puede referir
a la intensidad de la experiencia o a una experiencia que en todas las
ocasiones que se ha dado ha sido de idéntica manera (iteración). Lo
que es un hecho es que el éxtasis se ha dado regularmente y es una
característica que hace que el sujeto sea un místico, diferente del asceta
y del santo (aunque el asceta pueda llegar a ser místico y el santo, en
algún momento haya sido místico; a su vez, el místico ha sido asceta
y puede llegar a ser santo). El místico es el que ha experimentado el
éxtasis con frecuencia, es decir, ni todo el tiempo, ni esporádicamente.
Ahora bien, la experiencia tiene como presupuesto el sentir. Es de-
cir, experimentar algo es, en primera instancia, sentirlo (ya sea como
sensación, ya sea como percepción). Para Aristóteles la experiencia nace
de la acumulación de recuerdos de sensaciones, es decir, el sentir es el
presupuesto de toda experiencia — más precisamente sentir la sensa-
ción (aisthesis). La experiencia es, para Aristóteles, una de las formas del
conocimiento.

. Aristóteles, Metafísica (Editorial Sudamericana, Buenos Aires, : ª  y ss). El


término de experiencia, restringido al ámbito religioso, toma auge en el siglo XX con los
estudios de W. James al referirse constantemente a la “experiencia religiosa”, aunque la idea
de una experiencia de esta índole fue ya mencionada hacia el siglo XVI bajo la forma de
“experiencia mística”, fórmula que se refiere a la vivencia (o serie de vivencias) reflexionadas.
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

En los diccionarios de uso encontramos también la implicación


del conocimiento en el experimentar, por ejemplo en los diccionarios
de uso del siglo XVI, donde experimentar se define como: conocer o
reconocer por medio de la práctica las virtudes de las cosas.
Quiere decir que el experimentar se conforma de una serie de
fenómenos que van dejando su huella en las diferentes dimensiones
de la vida humana, extendiéndose hasta la vida social del individuo,
transformando la experiencia del sujeto en un saber que se puede
transmitir a otros.
Teresa primeramente siente el éxtasis, después lo experimenta
repetidamente, pero además ha sido identificado, denominado y “ela-
borado” inteligiblemente. De esta manera la experiencia se configura
como una experiencia, un conocimiento. Así Teresa se vuelve una
experta del éxtasis. Por lo tanto, el experimentar sólo puede configu-
rarse a partir de la observación y análisis de lo que se ha sentido, pero
este examen del éxtasis sólo puede llevarse a cabo una vez que ha
sucedido, que ha cesado en sus efectos, la misma Teresa así lo dice:
“se entiende en la sobra de las mercedes”.
Esta característica del éxtasis, la de ser una experiencia que se ha
repetido y tener como sustrato el sentir, nos ha llevado a revisar lo
que se conoce en lingüística como sujeto experimentante. Notamos,
por supuesto, que este rol temático se presenta explícitamente en la
expresión: “no diré cosa que no haya experimentado mucho”. Para
entender mejor cómo se presenta el sujeto experimentante en el caso
que nos ocupa es necesario extraer de nuestro corpus aquellas oraciones
donde encontramos una relación entre una fuente (estímulo) y un sujeto
afectado. Veamos pues esas oraciones. ) “Lo que yo pretendo declarar
es qué siente el alma cuando está en esta divina unión” (Vida :); )
“[...] algunas veces se siente un movimiento tan acelerado del alma...con
una velocidad que pone harto temor” (El castillo,moradas sextas: ); )
“Estando así el alma buscando a Dios, siente con un deleite grandísimo
y suave [...] El deleite exterior que se siente es grande [...]” (Vida :);
) “Todo su entendimiento [del pensamiento] se querría emplear en

. Síntesis hecha a partir de S. De Covarrubias Orozco, Tesoro de la lengua castellana o


española, Madrid: Castalia,  y Diccionario de Autoridades. Madrid: Gredos, .
. Para los temas de “sujeto experimentante” y “verbos de percepción” nos hemos basado
en Morimoto . Para el tema de “roles temáticos” nos hemos basado en Sabaj .
. Nos hemos basado para este apartado en Flores ().
 María Luisa Solís Zepeda

entender algo de lo que siente y como no llegan sus fuerzas a esto,


quédese espantado” (El castillo, moradas quintas: ); ) “Siente el alma
no está muerta [...] tiene sentido para entender que está en él, y sentir su
soledad [...] Acá no hay sentir, sino gozar...ocúpense todos los sentidos”
(Vida :).
En todos los fragmentos se presenta el verbo de percepción sentir,
sin embargo la construcción que encontramos en cada oración donde
aparece éste, es de diferente naturaleza. En , ,  y  encontramos
oraciones activas que se refieren al alma y el pensamiento, en  y 
encontramos oraciones medias impersonales que parecen referirse al
cuerpo.
Estas dos oraciones ( y ) presentan un sujeto sintáctico implí-
cito indeterminado, expresado mediante el pronombre “se” y un
predicado. Son denominadas como medias porque, aunque poseen un
verbo en construcción activa, el sujeto mismo se ve afectado por la
acción. Así, el sujeto es tanto agente (siente) como paciente (se siente)
(Mendikoetxea ).
Aunque el verbo podría ser considerado como transitivo pues ad-
mite un complemento directo, semánticamente es intransitivo, pues
lo sentido en este caso es el alma en el cuerpo y el desfallecimiento
de este último. Así, aparece un solo participante: la acción regresa al
mismo sujeto, y en este sentido, el verbo es reflexivo (Ibidem). Entonces,
el sujeto recibe o experimenta la acción. En este momento el sujeto
sintáctico adquiere ciertas determinaciones semánticas. Estas oraciones
de carácter reflexivo se refieren al cuerpo: el cuerpo es el que siente el
movimiento acelerado del alma (puesto que el cuerpo es el continente
de las mociones íntimas), el cuerpo es el que siente deleite exterior.
En la divina unión el alma siente deleite (), el alma siente no está muerta
del todo (), el alma siente soledad (). Estas oraciones, a diferencia de
las anteriores, están construidas en forma activa, presentan un sujeto
explícito y un predicado, por lo tanto, dos argumentos, aunque se puede
decir que, semánticamente, el alma que es la que realiza la acción, es
una parte del sujeto mismo: el alma siente su propio estado, por lo tanto
también hablamos de un sujeto que recibe la acción de sentir.
Finalmente en () tenemos un caso parecido al anterior, a diferencia
de que el verbo que encontramos no es sentir sino gozar: los sentidos
gozan.
En la totalidad de las oraciones, tanto en su construcción activa como
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

pasiva, vemos que el cuerpo, el pensamiento y el alma sienten, son afec-


tados, pero, además, padecen un estado afectivo, expresado mediante
las construcciones poner harto temor () y quedarse espantado ().
Vemos hasta aquí que el alma, el cuerpo y el pensamiento sienten,
los sentidos gozan. Este sentir, a su vez, produce un estado afectivo,
pero ¿qué origina todo esto?, ¿quién es el responsable? Volvamos
a dos afirmaciones de Teresa de Ávila: “No diré cosa que no haya
experimentado mucho” (Vida : ); “Lo que yo pretendo declarar es
qué siente el alma cuando está en esta divina unión” (Vida : ).
En la primera vemos que el sujeto se asume como un experimen-
tante. En la segunda vemos que el sujeto ha establecido una causa: el
alma siente cuando está en la divina unión. Así podemos determinar
que el alma es el experimentante que siente (deleite, no está muerta,
soledad) y la divina unión es el estímulo. Así también para el cuerpo:
el cuerpo siente el movimiento acelerado del alma que es causado
por la divina unión produciéndose el temor. El pensamiento siente la
unión, pero como no la entiende le produce espanto (en este caso el
estímulo es la unión no comprendida). Finalmente, todos los sentidos
gozan la divina unión.
Es posible decir, entonces, que la divina unión ejerce una fuerza
sobre el místico produciéndole una serie de efectos. El místico, por
su parte, observa e interpreta lo acontecido y su propia afectación,
sensible y afectiva, transformándose y asumiéndose como un experi-
mentante y también constituyendo a la divina unión como la causa.
Ahora bien, cuerpo y alma, que son finalmente los que sienten, son
la “encarnación” y “espiritualización” del sujeto. El sujeto que siente en
su cuerpo y en su alma, y que posteriormente analiza y evalúa su sentir,
es, entonces, un sujeto que sufre o padece la acción, que experimenta.
Se trata de un sujeto experimentante complejo. Podemos resumir así:
 María Luisa Solís Zepeda

) La divina unión sobreviene en el campo de presencia del místico.


) La divina unión ejerce una fuerza sobre el místico (pensamiento,
alma, cuerpo y sentidos) produciendo un efecto (espanto, temor,
gozo).
) El místico asume el papel de observador–interprete del sobre-
venir.
) El místico se transforma a sí mismo como experimentante y
asume el rol plenamente.
) La divina unión es considerada por el místico como la causa de
su experiencia.
) La experiencia queda potencializada. Vemos, por lo tanto, que el
experimentante juega un doble papel, es pasivo (alma sensitiva)
y realiza ciertas operaciones, quehacer característico del alma
racional.

Una observación más que podemos hacer sobre sentir y experimen-


tar es que ambos son verbos de percepción — y nosotros añadiríamos
de conocimiento en el caso de experimentar. Así, tanto sentir como
experimentar expresan la percepción del sujeto de su propio estado,
es decir, el verbo sentir y en menor grado experimentar llevan en sí el
sema de la subjetividad.
Nos damos cuenta, finalmente, que quien habla de la experiencia
del éxtasis, quien la relata es un “yo”, un “yo” experimentante, testigo,
narrador, descriptor y al mismo tiempo actor del relato . Ese “yo”,
con todas sus características funcionales, posee la veracidad de lo que
ha experimentado, pero también la duda de su experiencia [“hasta que
la experiencia es mucha, queda el alma dudosa de qué fue aquello”]
(El castillo, moradas quintas, cap. ).

. Problema apuntado por P. Ricoeur en Sí mismo como otro: “Más bien será un pro-
blema para nosotros comprender cómo el sí puede ser a la vez una persona de la que se
habla y un sujeto que se designa en primera persona, al tiempo que se dirige a una segunda
persona...La dificultad estará más bien en comprender cómo una tercera persona puede
ser designada en el discurso como alguien que se designa a sí misma como una primera
persona” (, p. ).
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

. La divina unión

Hemos visto anteriormente que el éxtasis es la culminación de una


búsqueda: la de Dios. Efectivamente, el momento del éxtasis es el
instante del encuentro entre el sujeto y su objeto de valor, entre el
místico y Dios. Este encuentro es designado como “divina unión”,
caracterizado, como sabemos, por una intensa actividad del alma y
una pasividad del cuerpo. La unión es figurativizada, a lo largo del
discurso místico, de diferentes maneras — el cazador y el siervo, el
rey y el súbdito, la flecha que hiere, siendo la más utilizada la figura
de las nupcias. En esta unión el alma del místico desempeña el papel
de la esposa y Dios o Cristo, el del esposo.
En este momento de éxtasis dos identidades se ponen en juego, la
identidad del sujeto que ha buscado (el místico) y la identidad del objeto
de valor (Dios), ahora como iguales en condiciones, pues el sujeto ha
buscado incansablemente a Dios, por su parte Dios, en un momento,
lanza la flecha con la que hiere a su presa, el místico. Así se invierten los
roles. Se trata, por lo tanto, de un conflicto actancial. El sujeto, identifica-
ble por un nombre propio, funciones y actos específicos — sobre todo
por su acto de auto–referencialidad y por las modalidades implicadas
en su hacer — construye desde su propio discurso y desde sus diversos
actos, la identidad del otro, ese otro que aparece como una unidad indi-
visible, repetible — y por eso identificable — en diversas circunstancias.
La denominación que el místico da a esa entidad es Dios, o Jesús (lo cual
no implica un problema si nos atenemos al misterio de la Trinidad).
El sujeto encuentra, pues, a su objeto de valor (y lo encuentra sin
haber previsto en qué momento se daría el encuentro) y se enfrenta a
él considerándolo, también, como una entidad con identidad propia
— dentro del ámbito religioso y dentro del imaginario mismo del
místico. Ahora bien, la alteridad a la que el místico se enfrenta no
es identificable como un cuerpo localizado en espacio y tiempo, no
sólo exterior al hombre, sino también como una presencia interna,
como un acontecimiento mental — o espiritual (Ricoeur , p. ).
El alma y Dios, se trata, en fin, de dos entidades “desencarnadas” que
se encuentran, se unen y es, por eso, un matrimonio espiritual.

. Hay otras maneras de denominar a Dios, según la situación que se relata: Cazador,
Esposo, Amado, Señor, etc.
 María Luisa Solís Zepeda

Aquí nos enfrentamos ante la aporía sobre el lugar en que habita


Dios, pues a veces parece ser una alteridad externa al sujeto, que llega,
lo penetra y toma su alma. Otras veces se presenta como una entidad
que habita en el interior del sujeto, pero que “espera” el momento
adecuado para hacerse presente plenamente. Esto podría ser resuelto
con lo que Juan de la Cruz llamó las “tres maneras de presencia de Dios
en el alma”: la esencial (presencia de Dios en todas las almas, incluso
las no humanas), la que se da por gracia (en ciertas almas humanas
virtuosas) y la que se da por afección (excepcionalmente en algunas
almas devotas). Es posible decir que todo ser vivo tiene en el interior de
su alma la esencia divina, siempre presente, la cual se complementa, se
completa o se actualiza plenamente, podríamos decir, cuando Dios, de
manera extraordinaria, afecta directamente al alma. Tanto la presencia
divina en el alma, como su extraordinaria visita se llevan a cabo en un
espacio interno, como un acontecimiento de carácter íntimo.
Aunque es el místico en su totalidad el que se enfrenta directamente
a la alteridad, es específicamente su alma la que se encuentra con Dios.
De esto surge una complicación más, pues podemos considerar que
se trata no de una alteridad stricto sensu, de un otro, sino la alteridad
que se encuentra, de alguna manera, en el sujeto mismo, es decir,
como una mismidad. ¿Alteridad o mismidad? La respuesta puede ser
aportada por diferentes dominios: para el hombre de ciencia se trataría
de una mismidad, la construcción imaginaria de una alteridad a partir
de lo propio, a partir, tal vez, de un cambio parcial de la personalidad;
para el hombre religioso se trataría de una alteridad, del otro distinto
de sí pero complementario. En el discurso místico ese otro aparece
plenamente como un actante y como un actor, no “encarnado”, pero
sí poseedor de diferentes modos de presencia. Tan es así que, para que
se dé el encuentro entre iguales, el místico debe “desencarnarse” .
Una explicación más (desde la fenomenología) se basa en el hecho
de que, cuando el sujeto se encuentra en pasividad, atribuye actividad
a todo lo que le rodea (por la relación indisociable agente–paciente),
cuando se encuentra afectado, “culpa” a otro de su afección. Como
bien sabemos, el sujeto en todas sus vivencias y actos necesita construir
una alteridad. (ibidem).
Ahora bien, esta relación de unión posee características particulares,

. Remitimos al lector a “¿Hacia qué ontología?” En Sí mismo como otro de P. Ricoeur.
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

pues en un primer momento el sujeto, el místico, es quien realiza una


serie de acciones encaminadas a encontrar a Dios, es, por lo tanto un
agente que realiza todas sus acciones de acuerdo a un saber–creer–deber
(basados en la tradición judeo–cristiana) y un querer. Es justamente el
conjunto de estas modalidades, los actos y los objetivos logrados lo que
le da al sujeto la identidad como sujeto religioso.
En un segundo momento, cuando sucede el encuentro con Dios,
este sujeto parece perder varias de sus funciones corporales (por
ejemplo los sentidos y el vigor) e inteligibles (por ejemplo el enten-
dimiento) pues es Dios el que penetra en él y actúa. Los roles se
invierten, estableciéndose una jerarquía que será conservada hasta el
final del camino espiritual que ha elegido el místico: el que actúa es,
fundamentalmente Dios, mientras el místico se somete a él.
Desde una perspectiva semiótica es posible afirmar que el sujeto, que
en una etapa anterior al éxtasis es plenamente un sujeto de búsqueda,
se une a su objeto de valor, y es en esa unión en que se escinde en
un sujeto que hace — con el alma — y en un sujeto que padece — con
el cuerpo —, así, pierde el estatuto de sujeto pleno, aproximándose al
estatuto de no–sujeto, noción sobre la que volveremos más adelante
pero que nos sirve, provisionalmente, para explicar la transformación
del sujeto. En una etapa posterior al éxtasis, el sujeto ya separado de Dios,
pone en perspectiva otros objetos de valor que guiarán su búsqueda.
Así, en el éxtasis, el sujeto ha pasado de la búsqueda y la satisfacción
de la carencia a una nueva carencia, la del entendimiento usual y la
de la función “normal” de los sentidos. Pero es esta nueva carencia
la que posibilita que este sujeto disminuido, este cuasisujeto “cobre
nueva fuerza” y “retorne a la vida”, pues mientras la carencia subsista,
el estado escindido no se puede conservar.
La primera evidencia de esta pérdida por parte del sujeto es su
imposibilidad de enunciar, justo en el momento del éxtasis, lo que está
sucediendo. Se trata de una incapacidad de juicio e incapacidad del
habla. Uno de los primeros síntomas que se presenta en el éxtasis es
precisamente la afonía que Teresa de Ávila describe como “no acertar

. Categoría específica utilizada por E. Landowski () para describir un tipo de junción
específicas entre sujeto y objeto y que no corresponde a la pura junción.
. Greimas y Fontanille () proponen dos términos para designar un primer efecto
sensible — y tal vez indeterminado — que un “sujeto” padece: la noción de proto–actante
(cuasi sujeto y cuasi objeto).
 María Luisa Solís Zepeda

a decir palabra”, “no atinar a formar palabra” y “no poder pronunciar”.


Se trata de la pérdida del sujeto enunciante, más específicamente, del
sujeto hablante. El sujeto no entiende, no puede afirmar ni negar
nada, pierde la voluntad sometiéndose a la fuerza ajena que lo inva-
de. Sin embargo conserva un rasgo: el sentir. Además de sentir, el
sujeto puede distinguir que “se encuentra en el mundo” y “siente su
soledad”, se trata, según Ricoeur del estadio elemental de la persona .
Posteriormente, el sujeto pierde la capacidad de actuar con el cuer-
po, así lo testifica Teresa: “no puede aún menear las manos”, “no
menea pie ni mano”, “el cuerpo queda como muerto, sin poder nada
de sí muchas veces”. El sujeto pierde la capacidad pragmática.
Otras pérdidas se llevan a cabo: el sujeto no logra percibir (“no ve
casi nada”, “oye, más no entiende lo que oye”, “de los sentidos no se
aprovecha nada”), no entiende lo que le sucede (“ni el entendimiento
lo sabe entender”, “gozar sin entender lo que se goza”, “ni sé entender
qué es mente, ni que diferencia tenga del alma”, “el entendimiento no
ayuda”), no posee voluntad (los ojos se cierran sin quererlos cerrar”) .
¿Se puede decir, entonces, que el sujeto pierde sus funciones enun-
ciantes, pragmáticas, perceptuales y volitivas?, ¿que la única capacidad
que el sujeto logra mantener es la inteligible, pero de forma mínima?
Efectivamente, el sujeto pierde todas esas funciones, sufriendo un
deterioro de su capacidad inteligible pero no una pérdida absoluta,
se trata, más bien, de un entendimiento diferente. El sujeto siente
un intenso gozo, siente que no está muerto, entiende que está en el
mundo y siente su soledad. Parece que algunas funciones permane-
cen aún en el éxtasis. Es posible afirmar que no se trata de un sujeto
pleno, sino de un sujeto “disminuido”, de un cuasi–sujeto o, incluso,
de un no–sujeto en palabras de J.–C. Coquet, es decir, de un actante
“desprovisto de capacidad de juicio, privado de historia, agente de un
número limitado de procesos”, rebasado por su propia afectividad.
Pero recordemos que este sujeto, incapaz de decir palabra ni de en-
tender, está provisto de un cuerpo que se aprovecha de lo “exterior
para dar a entender lo que siente siquiera por señas”. En este sentido
podemos inclinarnos más a pensar que se trata de un cuasi–sujeto

. Primera página de Sí mismo como otro.


. Remitimos al lector a “Instances d’énonciation et modalités” en Coquet .
. Ibidem, p..
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

que todavía puede expresar, de alguna manera, su estado . También


se puede decir, siguiendo lo arriba expuesto, que el sujeto pierde su
identidad, mejor aún, desestabiliza su identidad.
En resumidas cuentas, el sujeto pierde una de las modalidades que
lo caracterizan: el poder, el sujeto no puede actuar y no puede hablar.
Otra modalidad queda disminuida: el saber, el sujeto no entiende lo
que le pasa, pero sí entiende que está en el mundo. Este saber —en-
tendimiento del hombre común — queda disminuido, sin embargo
otro saber se construye: el conocimiento de Dios basado en la expe-
riencia. Sobre este punto volveremos más adelante. La modalidad que
permanece, y más aún, se intensifica, es el querer, más precisamente
el meta–querer, figurativizado como una de las virtudes teologales: la
caridad (amor gratuito y desinteresado), pues es ella motor de todo
acto, es asunción y direccionalidad (¿protensividad fórica?). Es esta
modalidad la que impide que el sujeto se instaure totalmente como un
término negativo, es decir, como un no–sujeto, al contrario, el sujeto
adquiere, en el momento del éxtasis, una identidad “parcial y negati-
va” (Coquet , p. ). Una vez más se trata de un sujeto escindido
que se caracteriza por el no–poder, el saber parcial y el meta–querer,
escisión que coincide con las funciones divididas del cuerpo y el alma.
En el caso que hemos seguido, todo parece indicar que nos encon-
tramos ante un sujeto transformado, en el instante del éxtasis, en un
no–sujeto y en un cuasi–sujeto. Recordemos que el sujeto en el éxtasis
se encuentra, básicamente, como un cuerpo sintiente, que se sabe
en el mundo pero que no puede hacer, ni entender, ni percibir, sólo
sentir. Sin embargo, puede salir de este estado, puede escapar para,
posteriormente, recuperarse y volver a su estatus de sujeto pleno.
Por otro lado nos enfrentamos, también, con un objeto transforma-
do en sujeto, dos actores que desempeñan, a lo largo del camino del
misticismo, dos roles. Pero no se trata sólo de eso, pues el actante que
en el momento del éxtasis ocupa la función de sujeto (Dios) tampoco
es un sujeto pleno. Así, Dios, que hasta el momento del éxtasis parecía
funcionar como objeto de valor, ahora parece desempeñar el papel de

. Coquet propone tres tipos de instancias enunciantes: sujeto, cuasi–sujeto, no sujeto;
cada una de ellas con una actividad significativa específica y un discurso singular. El sujeto
es el que domina el lenguaje social, el cuasi sujeto es el que todavía puede expresar su
estado (por ejemplo el dolor) y el no sujeto es el que grita (más por reflejo que por afán
comunicativo); Coquet , pp. –.
 María Luisa Solís Zepeda

sujeto de hacer. No obstante, las acciones que él realiza son mínimas


y podrían ser atribuidas, semánticamente, al propio místico. Las accio-
nes que Dios lleva a cabo son: arrebatar, arrancar las operaciones del
alma, dar a sentir, enamorar, herir. La primera y la última, arrebatar
y herir, sí pueden ser tomadas como verdaderas acciones a cargo de
Dios, él arrebata el alma, él hiere. Las otras acciones atribuidas a Dios
son propiciadas por el místico, pues quien pierde las operaciones del
alma por voluntad y por medio del camino del ascetismo es él, lo
mismo sucede con “dar a sentir” y “enamorar” pues finalmente quien
siente y quien se enamora es el místico.
Tal parece, entonces, que se trata de dos cuasi–sujetos que compar-
ten algunas acciones mínimas características de su rol actancial. Según
lo que nos dicen los mismos textos de análisis hay una unión de las
almas, pero sobre todo en una de sus virtudes: la caridad. Las dos al-
mas, la humana y la divina, participan de la misma caridad. No se trata
de una reducción de ambas entidades, sino de una complementación.
El Dios del místico, que se encontraba como una meta, más o
menos lejana, como una alteridad externa, pasa a formar parte de
su intimidad, se vuelve parte de su mismidad. Así, Dios pasa de ser
una figura de la alteridad a ser una figura de la mismidad (Landowski
). Esta relación íntima, nupcial, entre Dios y el místico puede ser
considerada como una relación estésica. Dios y místico están, en el
momento del éxtasis, en una armonía.
El místico ha pasado de la privación de los objetos terrenales y la
renuncia de algunas de sus facultades anímicas y corporales a la apropia-
ción de su objeto de valor. La naturaleza de la relación que el místico
tiene, primero con el mundo y las potencias del alma (disjunción), des-
pués con Dios, es muy difícil de aprehender, pues se trata de relaciones
pragmáticas y afectivas, en el primer caso, y de una relación de aproxi-
mación afectiva y existencial — incluso imaginaria —, en el segundo.
La relación del místico y Dios es muy singular durante el éxtasis
(por todas las razones que ya hemos visto anteriormente), pues es
un tipo de junción que se basa en la absorción (el místico absorbe a
Dios), en la penetración (Dios penetra al místico) y en el arrebato. La
absorción y la penetración — figuras de la fusión — parecen tener
su “morada” en el espacio interno del místico, en donde habita el
alma. No se trata, pues, de la unión, de la sola correspondencia y
conformidad de una entidad con otra, de su co–presencia, sino de su
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

“reducción a una sola y única identidad”(ibidem, p. ). Claro que la


fusión tiene como condición la unión ¿cómo podrían fusionarse dos
entidades sin estar previamente próximas y sin ser afines?
La primera afinidad es que se trata de dos entidades “desencarna-
das” que desean unirse. Una afinidad más, la más fuerte de todas es la
caridad. La proximidad y la afinidad son bellamente descritas por Juan
de la Cruz como:
Dar el pecho uno a otro es darle su amor y amistad y descubrirle sus secretos
como a amigo. Y así, decir el alma que le dio allí su pecho, es decir que allí
le comunicó su amor y sus secretos, lo cual hace Dios con el alma en este
estado”; “Queda ella [el alma] toda dada a Dios, así como Dios se ha dado
libremente a ella; de manera que quedan pegadas aquellas dos voluntades,
entregadas y satisfechas entre s” .

La relación entre actantes es, tal como lo dice E. Landowski, una


nueva entidad compleja, una totalidad inédita (Landowski , p. ).
No se trata de una conjunción (estar con), sino de una fusión (ser el
mismo) no se trata de un “yo soy yo, tú eres tú” sino de un “yo soy
tú”. El alma se transforma en Dios. Se ha pasado de una interacción
(del enfrentamiento) de los actantes a su fusión.
El místico y Dios, su Dios. Esta unión, placentera y terrorífica al
mismo tiempo, erótica, amorosa y sagrada, será la que determine
todos los estados afectivos posteriores, hasta desembocar en una nueva
unión, menos intensa pero sí más duradera.

. El cuerpo y los sentidos

Los efectos que hemos visto arriba, sobre todo el placer, no son
sentidos sólo por el alma, hemos visto que el cuerpo participa de ello
singularmente. Veamos, una vez más, la descripción que Teresa de
Ávila nos ofrece:
Estando así el alma buscando a Dios, siente con un deleite grandísimo y suave
casi desfallecer toda con una manera de desmayo que le va faltando el huelgo
y todas las fuerzas corporales, de manera que si no es con mucha pena, no
puede aún menear las manos, los ojos se cierran sin quererlos cerrar, o si los

. Ambos fragmentos pertenecen al Comentario al Cántico espiritual (CB) canción .
 María Luisa Solís Zepeda

tiene abiertos, no ve casi nada; ni si lee, acierta a decir letra, ni casi atina a
conocerla bien; ve que hay letra, mas como el entendimiento no ayuda, no
la sabe leer aunque quiera; oye, mas no entiende lo que oye. Así que de los
sentidos no se aprovecha nada si no es para no acabarla de dejar a su placer, y
antes la dañan. Hablar, es por demás, que no atina a formar palabra, ni hay
fuerza, ya que atinase, para poderla pronunciar; porque toda la fuerza exterior
se pierde y se aumenta en las del alma para mejor poder gozar de su gloria. El
deleite exterior que se siente es grande y muy conocido.
(Vida : ).

Pues cuando está en el arrobamiento el cuerpo queda como muerto,


sin poder nada de sí muchas veces, y como le toma se queda siempre: si
sentado, si las manos abiertas, si cerradas. Porque aunque pocas veces se
pierde el sentido, algunas me ha acaecido a mí perderle del todo [. . . ].
(Vida : ).

[. . . ] que en queriendo arrebatar esta alma, se le quita el huelgo de


manera que, anque duren un poquito más algunas veces los otros sentidos,
en ninguna manera puede hablar, anque otras veces todo se quita de presto,
y se enrían las manos y el cuerpo de manera que no parece tiene alma,
ni se entiende algunas veces si echa el huelgo. Esto dura poco espacio [...]
quitándose esta gran suspensión un poco, parece que el cuerpo torna algo
en sí [...] Más acaece, aunque se quita, quedarse la voluntad tan embebida y
el entendimiento tan enajenado, y durar ansí día y aún días, que parece no
es capaz de entender en cosa que no sea para despertar la voluntad a amar.
(El castillo, moradas sextas: )

Todo su entendimiento se querría emplear en entender algo de lo que


siente, y como no llegan sus fuerzas a esto, quédese espantado, de manera
que, si no se pierde del todo, no menea pie ni mano, como acá decimos de
una persona que está tan desmayada que nos parece está muerta.
(El castillo, morada quintas: )

Se puede ver claramente que se trata de un sujeto escindido entre


un alma más o menos activa y un cuerpo casi muerto que sólo se
abandona al goce (“Pues cuando está en el arrobamiento el cuerpo
queda como muerto, sin poder nada de sí muchas veces, El deleite
exterior que se siente es grande”). Quiere decir, que tanto cuerpo
como alma están minimizados en sus funciones, aunque el más afec-
tado es el cuerpo, pues el alma, aunque el entendimiento parece no
ayudarla, aumenta su fuerza “para mejor poder gozar de su gloria, el
alma goza más sin comparación”. Se establece así una relación inver-
sa entre cuerpo y alma: a mayor fuerza del alma, menor fuerza del
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

cuerpo. Justamente una de las figuras que explican esta escisión entre
cuerpo y alma es la llama, el fuego intenso que derrite el alma (“que
ha sido grande la claridad del sol que ha estado allí, pues así la ha
derretido” (Vida :); y más que al alma, derrite al sujeto, lo deshace,
lo divide en cuerpo y alma. El éxtasis desase al sujeto, lo desprende
de su cuerpo (Dorra , p.  y ss.). Otra figura para expresar esto
es la del alma arrebatada de su sitio, raptada como si una enorme ave
caudalosa la cogiera con sus alas .
Sujeto deshecho, cuerpo abandonado por el alma, cuerpo deshabi-
tado. Todas estas figuras expresan la carencia de fuerza corporal que
desemboca en un desfallecimiento, un desmayo, una muerte — o esta-
do catatónico — (el cuerpo queda como muerto) en que los sentidos
pierden su función y el cuerpo queda paralizado. El sujeto pierde el
sentido (“porque aunque pocas veces se pierde el sentido, algunas veces
me ha acaecido a mí perderle del todo”), es decir, pierde su sentir,
pero también podemos decir que pierde el rumbo, que pierde su lugar
frente al mundo (aunque se sabe en él) y frente a los otros.
Pero ¿a qué razones responde el desfallecimiento, la pérdida del
sentido? Creemos que se debe a la reacción natural del sujeto ante la
naturaleza del éxtasis, pues se trata de una intensificación del deleite,
un ímpetu del placer — del alma y del cuerpo —, que pasa, además, en
un instante. El sujeto pierde sus capacidades inteligibles plenas y este
estado resulta insoportable, la manera de huir, para posteriormente
recobrar el equilibrio, es justamente salirse de sí, “irse”, desaparecer,
desvanecerse.
Si el cuerpo parece muerto, desfallecido, es, entonces, un cuerpo
latente . Es un cuerpo que no logra reaccionar a ningún estímulo
exterior, pero es también un cuerpo invadido por el placer, es en ese

. Justamente esta es la figura que utiliza Teresa para visualizar el éxtasis. Esta figura
aparece en su autobiografía, en el capítulo : , pero sabemos que tiene toda una tradición
que se remonta a la cultura romana en el mito del secuestro de Ganímedes: “el rey de
los dioses se abrasó de pasión por el frigio Ganímedes y encontró algo que Júpiter deseó
que fuera algo más de lo que era. No se dignó en transformarse en ningún pájaro, sino en
aquel que puede llevar su rayo. Y sin tardar, batiendo los aires con sus alas figuradas, raptó
al nieto de Ilo” (Las metamorfosis de Ovidio, “Ganímedes”, Porrúa, México, ).
. Raúl Dorra ofrece una serie de reflexiones muy interesantes sobre la pérdida del
sentido en (, pp.  y ss.). Nosotros en este apartado seguiremos a este autor.
. Para Dorra el cuerpo latente es un cuerpo sinsentido, anestésico (Dorra ,
pp.  y ss.).
 María Luisa Solís Zepeda

sentido tanto estésico (en el placer que siente), como anestésico (ante
cualquier estímulo exterior).
El entendimiento, como ya hemos visto repetidamente, parece
ausente (“no se ha de saber decir, ni el entendimiento lo sabe en-
tender”), mientras el alma aumenta su fuerza (“la fuerza exterior se
pierde y se aumenta en las del alma para mejor poder gozar de su
gloria”). El sujeto no ve, no habla, no conoce, no oye, sus sentidos
parecen no funcionar, el deleite es tan grande (y afecta tanto al cuerpo
como al alma) que el cuerpo pierde en fuerza y vitalidad quedando
casi muerto, mientras que el alma aumenta su fuerza, pero no está
muerta del todo pues tiene sentido para entender. Sin embargo, el
alma activa y el cuerpo inactivo se unifican en el deleite, en el placer
que experimentan, placer que además es “muy conocido” .
¿Es posible entonces decir que el éxtasis es tanto un estado (corpo-
ral) como una actividad (del alma, espiritual)? Sí, y esto es lo que hace
interactuar de manera tan singular al cuerpo y el alma y además es lo
que hace del sujeto un sujeto también muy particular.
Pues tal parece que se trata de un sujeto que está tanto escindido
como unificado, separado en cuerpo y alma, en cuanto a las funciones
que tanto uno como otro cumplen, unificado en el placer que ambos
experimentan (afectados ambos por igual) y unido a otro (Dios) que
es quien afecta. Tal vez el éxtasis otorga al sujeto cierta sensación de
integridad, pero ésta puede desestabilizarlo, quebrantar sus creencias
y los valores culturales que conoce.
Se puede considerar, ahora, la función específica que cumple el
cuerpo: es sede de la experiencia sensible, es sitio de la unión entre
el hombre y la divinidad , es lugar, también, de una particular se-
miosis — recordemos que el éxtasis tiene para el sujeto que lo vive,
un contenido, que aunque mínimo, es específico.
En efecto, el cuerpo, durante el éxtasis, parece haber perdido — o
al menos disminuido notablemente — sus funciones “normales” de

. Aquí nos hacemos una pregunta: ¿este deleite es muy conocido por haberse repetido
muchas veces en el mismo sujeto, en cuyo caso se trataría justamente de una experiencia? O
bien ¿es este deleite conocido por ser parecido a otro tipo de placer también experimentado
por el sujeto? y, finalmente, ¿este placer es muy conocido por haber sido experimentado
por diversos sujetos, siendo más común de lo que pudiera creerse?
. Partimos de los postulados de Fontanille . Para este apartado sobre el cuerpo,
éste será nuestro texto base.
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

percepción. Hemos dicho que se trata de un cuerpo latente, un cuerpo


inmóvil, casi muerto, en el que “de los sentidos (internos y externos)
no se aprovecha nada”, sin embargo, tanto cuerpo como sentidos “se
ocupan” del deleite y el gozo. Es, pues, un cuerpo que “siente en
carne viva”, y distribuye su sentir hacia la totalidad de los sentidos
(cenestesia): el cuerpo, todos sus sentidos y el alma se unifican en el
deleite (“el alma siente un deleite grandísimo”, “el deleite exterior
que se siente es grande”, “ocúpense todos los sentidos en este gozo”).
Tal como entendemos la noción compleja de cuerpo — como la
relación entre una dimensión “carnal” (mí–carne) y una propioceptiva
(sí–cuerpo propio) —, nos parece que en el éxtasis hay una dominancia
del mí y una casi nulidad del sí (relación divergente), pues lo que
predomina es el sentir (intenso) y la excitación e inhibición, aunque
el cuerpo conserva la mínima operación de diferenciación entre un
espacio interno y uno externo, el alma, incluso, “tiene sentido para
entender que está en el mundo” (toma de posición). El mí–carne, en
este caso, funciona, entonces, como fuente del sentir y como blanco
de la afección, en fin, como centro del campo reflexivo .
Es evidente la importancia de la configuración del espacio interno
del cuerpo, es ahí donde se escenifica la unión–fusión entre el alma del
místico y Dios. Se puede decir que hay una interacción muy singular
entre mí–carne y el espacio interno de sí–cuerpo, por una lado mí
siente y disemina el deleite hacia la totalidad de los sentidos, mientras
el espacio interno es habitado por otro (Dios); mí–carne siente deleite,
“vibra” de placer; el interior se siente habitado, poseído.
Lo que mí–carne siente, en el éxtasis, es, antes que nada, una mo-
ción interna acelerada (dominio sensoriomotor), posteriormente una
imposibilidad de movimiento, un “mal” funcionamiento de los senti-
dos externos (al menos de la vista y el oído) y un intenso deleite. Si
hemos dicho que mí–carne siente intensamente, desde su interiori-
dad, hasta su exterioridad, nos damos cuenta de que no se trata de un

. Estas nociones han sido propuestas por J. Fontanille como moi–chair y soi–corps
propre. El moi–chair se refiere a las funciones de la carne sensible, como punto de referencia
de las intensidades y tensiones sensibles, como toma de posición y como centro de impulso,
excitación e inhibición. El soi–corps propre se refiere a la envoltura corporal, centro de
control de la semiosis, operador de la mira y la captación perceptual, lugar de los actos. El
soi–corps propre se subdivide en soi–ipse y soi–idem. La interacción entre mí (moi) y sí (soi)
puede ser de equilibrio (convergente) o desequilibrio (divergente).
 María Luisa Solís Zepeda

cuerpo puramente pasivo — pasivo, tal vez, según lo que usualmente


concebimos como acción — sino de un cuerpo activo en cuanto que
siente y experimenta, en cuanto im–pulso y re–pulso.
Otro punto a considerar es que el cuerpo (compuesto de mí–carne
y sí–cuerpo propio) ha hecho su propio recorrido dentro del camino
del misticismo: en la etapa de ascetismo el sujeto ha considerado su
cuerpo como un objeto de valor entre otros más a ser rechazado. El
sujeto realiza una serie de programaciones encaminadas a desvalo-
rizar el objeto–cuerpo. Por medio de la repetición de los actos que
desvalorizan al objeto–cuerpo modifica la propia naturaleza carnal de
éste, así mí–carne se “domestica” (especialización restrictiva) a favor
de las funciones “civilizadas” de sí–cuerpo propio. En el momento
del éxtasis mí parece rebelarse y hace predominar el rol que le ha sido
otorgado.
El deleite o gozo en que el cuerpo y los sentidos se concentran
puede ser considerada como una moción íntima muy intensa, valo-
rada, en principio, como positiva pero que por su carácter intenso
provoca un efecto negativo (el espanto y el temor).
La mismidad, la detención del tiempo y la ausencia de ciertas ope-
raciones inteligibles son rasgos propios de un actante muy singular,
al cual sólo podría corresponder un cuerpo también particular: el
cuerpo carne.

. El sumo saber y la Ciencia mística

Hemos señalado arriba la merma que sufre la capacidad inteligible


del sujeto, justamente, porque no logra entender lo que le sucede.
Sin embargo, el sujeto logra construir un saber basado en la expe-
riencia sensible, se trata, además, del conocimiento de Dios. Nos
enfrentamos, entonces, a una problemática del saber, el conocer y el
entender. Creemos que este tema merece un tratamiento más extenso
del que presentaremos a continuación, pues nuestro objetivo es, por
el momento, señalar sólo algunas generalidades e indicar algunos
problemas.
Para dilucidar el tema del conocimiento en el éxtasis nos basaremos
en el poema de Juan de la Cruz conocido como Coplas sobre un éxtasis
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

de alta contemplación , (pues lo que Teresa dice sobre este problema


es muy poco). Comencemos nuestra reflexión analizando las estrofas
tres y cuatro que nos permitirán observar algunas generalidades:
III Estaba tan embebido,
tan absorto y ajenado,
que se quedó mi sentido
de todo sentir privado,
y el espíritu dotado
de un entender no entendiendo,
toda sciencia trascendiendo.

IV El que allí llega de vero.


de sí mismo desfallesce;
cuanto sabía primero
mucho bajo le paresce;
y su ciencia tanto cresce,
que se queda no sabiendo,
toda sciencia trascendiendo.

Estas dos estrofas nos hablan directamente del éxtasis y de sus ca-
racterísticas generales, que ya hemos visto: el sujeto (que habla de
una experiencia pasada) estaba, en el éxtasis, embebido, absorto y aje-
nado ; privado de sentido, desfallecido y carente de entendimiento.
Veamos, ahora, la primera estrofa de este poema, pues en ésta
presenciamos lo que regirá la totalidad del poema:
I Entréme donde no supe,
Y quedéme no sabiendo,
Toda sciencia trascendiendo.
yo no supe dónde entraba,
pero, cuando allí me vi,

. Poema compuesto por ocho estrofas, cada una formada por cinco versos de arte
menor y un estribillo, el poema (quintillas) tiene un ritmo regular (con acentuación,
básicamente, en la tercera y séptima sílaba). Algunas versiones nos presentan la palabra
ciencia escrita como “sciencia”, que se utilizaba así hacia el siglo XVI para conservar la
ortografía del latín scientia.
. De embebecerse: “divertirse y pasmarse mirando o considerando alguna cosa, sin
echar de ver el tiempo, ni lo que se ofrece delante de los ojos”. Embebecido: “el divertido
en dicha manera; y díjose así o porque aquel pensamiento embebe en sí la imaginación o
está como el bebido y borracho que no está en lo que hace.” Ajenado viene de enajenado:
“el que está fuera de sentido” (Covarrubias Orozco). Tanto “embebido” (“embebecido”)
como “ajenado” (“enajenado”) responden a una licencia poética.
 María Luisa Solís Zepeda

sin saber dónde me estaba,


grandes cosas entendí;
no diré lo que sentí,
que me quede no sabiendo,
toda sciencia trascendiendo.

Vemos que quien habla se refiere a un pasado en el que entró


a un espacio desconocido que es el éxtasis, entró y no supo dónde
entraba, además se quedó no sabiendo (progresivo) durante el éxtasis,
¿cómo se puede trascender una ciencia no sabiendo? Para Platón en el
Teetetes: “es imposible que, sabiendo una cosa, no se le sepa, o que, no
sabiendo se le sepa” . Para este filósofo el conocimiento se produce
por un proceso que va de la sensación al razonamiento (discretización
y juicio), la permanencia de ambos en la memoria constituye el saber.
Los juicios verdaderos (susceptibles de ser explicados) constituyen
una Ciencia. En el caso que nos ocupa sí hay sensación, razonamiento
(aunque posterior a la experiencia sensible) y juicio. Sin embargo
este proceso se basa en un no saber, nos enfrentamos entonces a
diferentes tipos de conocimiento, a distintos saberes, unos afirmados,
otros negados, lo cual puede parecer una aporía.
Ahora bien, es posible decir que en el éxtasis no hay un saber “nor-
mal”, sin embargo algo pasa que hace que el sujeto trascienda toda
ciencia y construya un “sumo saber” y una “suma ciencia” (estro-
fas  y ):

VII Y es de tan alta excelencia


aqueste sumos saber,
que no hay facultad ni ciencia
que le puedan emprender...

VIII Y si lo queréis oír,


consiste esta suma ciencia
en un subido sentir
de la divina escencia. . .

Vemos que hay tres tiempos: un pasado lejano, el pasado del éxtasis
y un presente desde donde se habla. En el pasado lejano (anterior al
éxtasis) hay un saber y una ciencia que parece baja y que tiene que

. Platón, Diálogos, “Teetetes o de la ciencia”, Porrúa, México, , p. .


Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

ser trascendida (“cuanto sabía primero / mucho bajo le parece”). Es


posible inferir de acuerdo a lo que sabemos del misticismo y a lo que
encontramos en diversos textos — que ese saber previo al éxtasis se
constituye por una serie de conocimientos aprehendidos de carácter
inteligible y compartible con otros sujetos. Pero este saber, como
ya vimos no parece suficiente para dar cuenta del éxtasis, de hecho
puede “estorbar” al éxtasis, recordemos que una de las operaciones
en la etapa de ascetismo es justamente “olvidar” lo usualmente sabido.
Esta negación se expresa perfectamente con la fórmula “saber no
sabiendo”, es decir, un saber que es posible mediante la negación de
otro saber previo.
Nos aproximamos a la idea de que hay diferentes tipos de conoci-
miento, entre ellos el de Dios. Es a partir de San Agustín que cobra
mayor importancia la experiencia (amor experimentado) como medio
de conocimiento divino. Desde esta línea de pensamiento originada
en Platón, hasta el neoplatonismo renacentista, se considera que el
hombre puede aspirar a un conocimiento de la divinidad, sin embargo
la vía para hacerlo es muy peculiar, diferente de la aspiración de otras
ciencias, las liberales, por ejemplo . Así surge la idea de “niveles”
verticales o en profundidad, que llevan al conocimiento supremo de
Dios. Esta idea fue muy difundida en el simbolismo alquímico y, por
supuesto, en el pensamiento religioso bajo las figuras de la escala o el
castillo . Para Juan de la Cruz se trata de una secreta escala, por la que
se sube y penetra hasta lo profundo de Dios, los grados de ascenso
son secretos a todo entendimiento .
Al inicio de esta escala ascendente, el místico va adquiriendo un
conocimiento teórico y va aprendiendo una serie de prácticas ascé-
ticas. Todo este saber (que es tanto un estado, como un logro y una
modalidad) es negado en el momento del éxtasis, el sujeto parece sus-

. En la baja edad media surgen, en las universidades catedralicias, las artes libera-
les: gramática, retórica y lógica (trivium); aritmética, geometría, música y astronomía
(quedrivium).
. La figura de la escala tiene su origen en el sueño de Jacob (Gé. :) y ha sido
fuente de inspiración de una larga tradición de pensamiento filosófico. Ramón Llull, por
ejemplo, diseñó una ciencia universal basándose en la noción de “escala del ser”, en cuyo
último peldaño se encontraba el mundo divino. Ahora bien, esta figura fue retomada
posteriormente por diversos pensadores aunque no de manera idéntica. El lulismo llegó
hasta el pensamiento hispánico del siglo XV. Ver Roob  y Báez .
. San Juan de la Cruz, “Subida al monte Carmelo”, Libro :  en Obras completas.
 María Luisa Solís Zepeda

pender todo conocimiento previo para concentrarse en la aprehensión


instantánea de Dios [“grandes cosas entendí”]. Es posible afirmar, por
lo tanto, que el sujeto místico debe poseer, en un primer momento,
un saber como conocimiento objetivo, inteligible, adquirido a través
del tiempo y perdurable en él y, en un segundo momento, un saber
como conocimiento experiencial sensible, total e inmediato (es una
“clara visión de Dios que posee inmediatamente el alma”) (Palancar
). En este sentido se puede considerar que el conocimiento en el
éxtasis es holístico.
En el éxtasis se trasciende toda ciencia previa, es decir, todo conoci-
miento y saber convencional, tan es así que “los sabios arguyendo jamás
le pueden vencer”. El éxtasis es un “sumo saber”, es una experiencia
sensible que se ha quedado en la memoria del sujeto; es una “suma
ciencia” y una “ciencia perfecta”, infundida en el alma por Dios.
En el éxtasis se tiene conocimiento de Dios, de quién es, de su
naturaleza. Además es un conocimiento progresivo, la experiencia no
se ha dado una sola vez, la misma Teresa así lo dice “no diré cosa que
no haya experimentado mucho”. Teresa experimentó muchas veces
el éxtasis (los cuales fueron disminuyendo en frecuencia con el paso
de los años).
El saber del místico es un saber que rebasa a cualquier otro, a todos
los saberes. Este saber adquiere plenamente sentido una vez que ha
pasado, una vez que el místico ha reflexionado sobre él. Se ha pasado
por una serie de transformaciones: al conocimiento teórico de Dios se
suma el conocimiento experiencial y la suma de ambos, posteriormente
razonados y explicados, se convierte en una ciencia –la ciencia mística.
Así, en los textos místicos encontramos una breve terminología que
expresa el campo del saber divino, esta es la primera operación — la de
denominación — característica de todo quehacer científico.
El místico se vuelve un experimentado, un experto. Se construye
un saber que se basa en la vivencia. El experto ofrece a otros su
conocimiento por medio de su decir y lo hace como un testigo de
lo que dice. El saber se postula, entonces, como un conocimiento
verdadero, independientemente de la apreciación de la sociedad. Tanto
testimonio como verdad quedan fortalecidos por una declaración de
certeza: “queda una certidumbre que en ninguna manera se puede
dejar de creer” (Vida : ).
Para el sujeto, su unión con Dios ha sido una vivencia sentida “a
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

flor de piel”, es por lo tanto una verdad que lo aproxima a la sabi-


duría: “el que conoce a Dios es verdaderamente sabio, el que no es
verdaderamente ignorante” .

. El tiempo del éxtasis: vislumbrar la eternidad


En el éxtasis se presenta una dimensión temporal que es expresada
con términos distintos a los que remiten al tiempo cronológico, dis-
creto, medible, es decir, al tiempo que conocemos, comprendemos y
compartimos. El tiempo del éxtasis se describe con nociones que pare-
cen ambiguas, como si el sujeto que describe se encontrara inseguro
de su propia experiencia del tiempo, como si dudara, incluso, de la
objetividad de su propia descripción.
En el éxtasis, tal como hemos visto anteriormente, el sujeto pierde
la capacidad de actuar, no logra percibir, no entiende lo que le sucede,
no posee voluntad. Es desde este déficit que el sujeto siente el tiempo
de una manera muy particular y lo describe a posteriori como breve y
largo al mismo tiempo, Teresa de Ávila nos dice
Verdad es que a los principios pasa en tan breve tiempo [. . . ] pasa con brevedad
[. . . ] Y nótese esto, que, a mi parecer, por largo que sea el espacio de estar el
alma en esta suspensión de todas las potencias, es bien breve. [. . . ] más digo
que de una vez es muy poco espacio sin tornar alguna potencia en sí.
(Vida :)

Una primera interpretación es que el tiempo del éxtasis sucede


con brevedad (corta duración), aunque parezca largo, tal vez por ser
intenso. Sabemos que el dolor o el sufrimiento hacen que el sujeto
sienta que el tiempo es largo. Otra interpretación es posible: el tiempo
es de duración larga y al sujeto le parece breve. Es bien conocido que
un evento “novedoso” hace que el sujeto sienta el tiempo como breve
(a diferencia de la monotonía). Cualquiera de las dos interpretaciones
nos llevan a la evidencia de que hay una dificultad para describir
certeramente este tiempo y que, aunque se trate de un tiempo puntual,
es un tiempo vivido, incompatible con el tiempo discontinuo, con
el tiempo que se sirve de categorías para ser soportado, entendido y
explicado.
. Platón, “Teetetes o de la ciencia”, op. cit.
 María Luisa Solís Zepeda

Nosotros nos preguntamos, justamente, por la naturaleza del tiem-


po del– o en el– éxtasis, tiempo extraño y hasta cierto punto incom-
prensible. Nos hemos preguntado, también, si las nociones husserlia-
nas de retensión y protensión y más aún, la de ahora (maintenant) de
D. Bertrandt, nos son útiles para hacer más inteligible la descripción
que se hace del tiempo del éxtasis.
Usualmente y por convención, el tiempo cronológico es descrito
bajo ciertos términos que se pueden englobar en tres categorías
encadenadas como pasado/presente/futuro. La fenomenología de
Husserl y Merleau–Ponty nos ha enseñado la complejidad que sub-
yace en esta manera de concebir el tiempo, pues éste puede anali-
zarse, en primera instancia, “como el tiempo del acontecimiento
de algo” (Brandt ), ese acontecer puede ser considerado como
un presente, formado por la reminiscencia de un acontecimiento
pasado y por la prospección de un acontecimiento por venir. El
acontecimiento presente se conforma, entonces, por el recuerdo y
la espera. Este proceso retensivo y protensivo es el que permite el
efecto — o ilusión — de “movimiento”, de “fluidez” y de sucesión,
lo que nosotros llamamos “el paso del tiempo”, y es lo que permite,
también, que el sujeto que experimenta — o siente — el tiempo
pueda diferenciar los distintos acontecimientos y pueda ubicarlos
en una línea temporal, hacer discretizaciones, crear categorías y uni-
dades (periodos temporales que nos posibilitan medir el tiempo) y
compartirlas con otros sujetos. Pasamos, así, de un tiempo vivido a
un tiempo social; de un tiempo muy complejo — compuesto no de
retensiones y protensiones lineales, sino de operaciones retensivas y
protensivas que toman su materia de diferentes capas de espesor —
a un tiempo lineal.
Ahora bien, es posible concebir el presente como un punto que
irrumpe en la continuidad temporal, como un ahora que se logra
conformar gracias a la persistencia del pasado reciente (retensión) y a
la proyección del futuro inminente (protensión) (Bertrand ). Por
lo tanto, el ahora es un tiempo puntual y también un tiempo extenso
(hacia el pasado y el futuro), es un tiempo actual, punto de referencia
que se acompaña de un yo–aquí que lo percibe.
Recordemos el “camino del misticismo” (etapa previa al éxtasis),
itinerario dinámico, hecho de diversas acciones del sujeto, pasadas y
presentes, encaminadas a una búsqueda y que apuntaban a un encuen-
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

tro. Este recorrido nos provee de una imagen del tiempo retensivo y
protensivo. Ahora bien, en el éxtasis hay una abolición de la retensión
y protensión, una especie de detención del tiempo o una deformación
de él, de una atemporalidad si se quiere. Recorrer el camino del misti-
cismo implica una duración temporal, la duración de la búsqueda, de
la espera, incluso la “espera de lo inesperado”.
El tiempo del éxtasis se opone, por lo tanto, a la noción de ahora
pues se trata, más bien, de una “ausencia de retensiones y protensio-
nes...la decepción de la memoria y la espera... un estallido temporal”
(ibidem, p. ). No se trata de la fluctuación del tiempo lineal (la flecha
del tiempo) sino de la vibración estática del tiempo .
Ahora bien, decir que el tiempo del éxtasis se opone a la con-
cepción del tiempo en el ahora, nos parece insuficiente, hace falta
encontrar un argumento más. Nos parece que un concepto que
nos puede ayudar a esclarecer más la temporalidad del éxtasis es
la idea Bachelariana del instante (Bachelard ). Para este autor el
instante se da en un tiempo presente, como una puntualidad llena
de sentido, sin duración (o con una duración original, profunda e
inmediata del ser), no continuo. Un ejemplo que da Bachelard para
ilustrar la naturaleza del instante es el del sonido de una percusión:
una fuerza intensa que se desarrolla en un tiempo infinitamente
corto, esta es la naturaleza del acto (a diferencia de la acción). El
instante, nos dice Bachelard, se impone de un golpe, por completo.
En el instante desaparece, como ya dijimos, la duración pues es el
centro de condensación que produce un tiempo aislado y destaca-
do sobre lo continuo, lo monótono; el instante es el paso de una
duración–extensión (ilusoria) a una duración–riqueza (vivida).
Si el tiempo tal como lo concebimos convencionalmente puede
ser representado por una línea recta direccional, el instante puede
ser visualizado como un vacío, un hueco vertical que nos da la idea
de profundidad y simultaneidad, en donde se pueden unificar los
contrarios, donde el tiempo no corre, brota y se diversifica.
En la figura que sigue presentamos tres posibles concepciones del
tiempo. En primer lugar el tiempo horizontal, que fluye y que se
. El tiempo vivido del éxtasis poco o nada tiene que ver con la duración del éxtasis
como juicio posterior a la vivencia, juicio que puede estar a cargo del místico mismo o de
un observador, para quien el éxtasis sí tendría una duración cronológica. Prueba de esto es
que la propia Teresa dudaba de la duración de sus éxtasis.
 María Luisa Solís Zepeda

conforma de sucesivos “ahora” que a su vez son suma de retensiones


y protensiones. En segundo término tenemos el ahora propuesto por
Bertrand, en el que el tiempo ya no es lineal sino una red de resonan-
cias de retensiones y protensiones más o menos lejanas. Finalmente
tenemos el instante, en donde la línea del tiempo es totalmente anula-
da y lo que tenemos es un punto desde el que se despliega un abanico
simultáneo que apunta en diversas direcciones.

En el éxtasis toda categoría temporal parece insuficiente, es un


tiempo que se abre a otra posibilidad, que “estalla” y es, en ese sentido,
eterno. San Agustín se preguntaba por este tiempo que, para él, era
el tiempo de Dios, expresando su cuestionamiento de una manera
también muy singular: “tus años son un día, y tu día no es un cada
día, sino un hoy, porque tu hoy no cede el paso al mañana ni sucede
al día de ayer. Tu hoy es la eternidad” . Efectivamente, el tiempo del
éxtasis no es un tiempo que pasa, tampoco es un tiempo cíclico, se
trata de un tiempo permanente, intensamente presente, desprovisto
de un pasado y un futuro.
Si no hay pasado ni futuro, ni memoria ni espera, ¿qué queda?,
¿qué hace posible que el sujeto no permanezca en este estado?, ¿la
protensividad fórica comparable, tal vez, al meta–querer?
Vemos que hay un verdadero vínculo entre este tiempo vivido,
sentido, con el estatus del actante sujeto, pues a un sujeto “desestabili-
zado”, un cuasi–sujeto solo podría corresponder un tiempo también
desestabilizado.
. San Agustín, Confesiones, Lumen, Buenos Aires, , Cap : .
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

Un hecho nos parece muy interesante, el instante del éxtasis parece


estar precedido por “un movimiento tan acelerado del alma [...] con
una velocidad que pone harto temor”, es decir, por un ritmo acelerado,
veloz, en fin un ritmo in crecendo, figurativizado muchas veces por una
flecha o dardo.
Brandt nos ofrece una posible explicación a esta aceleración que
desemboca en una detención del tiempo (, Cap. : ). Todo consis-
te en la relación entre lo que él llama percepción (sensible) e imaginario
(inteligible). Si la percepción se hace lenta (átona diría yo) y la ima-
ginación se intensifica el tiempo parece más corto (como en el estado
de sueño), o acelerado. Si la percepción se intensifica y la imaginación
disminuye se anula toda posibilidad de ritmo, pues el sujeto se siente
rebasado por su propio sentir, el acontecimiento se vuelve incompren-
sible. Esto produce en el sujeto angustia o terror. Recordemos que en
el éxtasis hay, primero una anulación de la función de los sentidos y
un aumento de fuerza del alma, posteriormente hay un sentir intenso
tanto en cuerpo como en alma pero, al mismo tiempo, un déficit de las
operaciones inteligibles usuales. Después de que el tiempo y el ritmo se
han detenido, el éxtasis desaparece “de presto”, retornando el sujeto a la
armonía entre percepción e imaginación.
Aceleración, intensidad, suspensión y detención de la suspensión
(celeridad+demarcación+cierre), son nociones que nos conducen a
la consideración de un tempo del éxtasis, que modifica, precisamente,
la duración temporal y el espacio (Zilberber –). El paso de la
aceleración a la intensidad instaura valores de destello, figurativizados
en el discurso místico como llama, luz intensa.

. Balance

Nos hemos aproximado, en este trabajo, al lugar y sentido del éxtasis,


el cual podría ser considerado, también, como un estado liminar.
Nos hemos acercado a las problemáticas en torno a lo sensible (las

. Nos parece que estas nociones, la de percepción e imaginación, presentan una dificultad,
pues el autor parece equiparar percepción con todo aquello que tiene que ver con la dimensión
sensible e imaginación con todo aquello que tiene que ver con la dimensión inteligible. Pero
sabemos que en el acto de percepción ya van implicadas ambas dimensiones y que la
imaginación es sólo una operación más, entre muchas otras, de lo inteligible.
 María Luisa Solís Zepeda

sensaciones, las mociones íntimas y el cuerpo) y a la experiencia,


sobre todo hacia la concepción de sujeto experimentante, actante muy
singular, disminuido en las modalidades del poder y el saber. A pesar
de esto, sí hemos vislumbrado otro tipo de saber: el conocimiento de
Dios basado en la experiencia. La modalidad que permanece, y más
aún, se intensifica, es el querer, más precisamente el meta–querer, que
sería una característica fundamental en todo “hombre de fe”.
En el éxtasis el cuerpo juega un papel muy importante, como
asiento de la experiencia sensible, sede de la unión entre el sujeto y
el objeto de valor (el hombre y la divinidad). Se trata de un cuerpo
latente, tanto estésico como anestésico (una paradoja más), fuente
del sentir y blanco de la afección. Este cuerpo al que nos hemos
enfrentado es una figura, pues al mismo tiempo que siente, expresa su
sentir. Así, un doble movimiento se presenta en él, centrípeto (energía
concentrada hacia el cuerpo y su interior) y centrífugo (el cuerpo
muestra al mundo la concentración o desborde de energía).
En los textos de análisis, aunque encontramos una descripción muy
amplia y detallada del papel del cuerpo en el éxtasis, no encontramos
así una descripción completa de la figura corporal. Porque Teresa des-
cribe cómo siente el cuerpo durante el éxtasis, no cómo se ve, pues
su observación no es, por supuesto, visual (voyerista), sino, ante todo,
cognoscitiva. ¿Cómo hablar, entonces, del cuerpo que se rebela por lo
que siente y reacciona, se expresa? Para responder a estas preguntas
tendríamos que recurrir, tal vez, a La trasverberación de Santa Teresa de
Bernini, aunque nos enfrentaríamos a un problema pues contamos
con la descripción del cuerpo durante el éxtasis y la representación que
Bernini hace de ese cuerpo basándose en la descripción y en un pasaje
muy concreto de la Vida de Santa Teresa. Nos enfrentaríamos a tres
simulacros, dos textualizados en “papel”, uno en una obra escultórica.
Sin embargo, sí podríamos establecer una relación entre cuerpo vivido
narrado y cuerpo figura (no narrado, sino re–presentado escultóri-
camente), pues al ser simulacros, comparten ciertas configuraciones
semióticas, que, en términos generales podríamos englobar en atonía
(desfallecimiento, mínima fuerza corporal), tonicidad (crispación),
descontrol de energía, inmovilidad. Ese trabajo queda aún pendiente.
Lugar y sentido del éxtasis en el discurso místico español 

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pag. 85–95 (luglio 2014)

Être pénétré par l’éclat du sacré


Une lecture sémiotique du tawhid mystique
décrit par Sohravardî dans Safîr–e Sîmorgh

G C

 : Being Penetrated by the Glare of the Sacred. A Semiotic Reading of
the Mystical Tawhid Described by Suhrawardi in Safir–e Simurgh

: This study conducts a reading of Safir–e Simurgh by using the


semiotic model “tensivity” developed by Cl. Zilberberg and J. Fontanille.
This model seems indeed particularly adapted to the description and
interpretation of exceptional psychic experience such as ecstasy. The
main concepts are “event”, “transformation”, “field presence”. Ecstasy
described by Suhrawardi is an initiatory journey that can be interpreted
as the evolution of the relationship between the opposite concepts “in-
tensity” and “extensity”. The paradox of ecstasy is that, at the end of
the process, maximum intensity of the conscience opens on infinite
extensity of absolute.

: semiotics; sufism; Suhrawardi; tawhid; tensivity.

Présenter une étude sur « l’Incantation de la Sîmorgh » (Safîr–e


Sîmorgh) de Shihâboddin Yahyâ Sohravardî sans être islamologue ni
spécialiste de la mystique shi’ite, tout en travaillant sur traduction ,
relève de la prise de risque. Cependant deux arguments, l’un conserva-
toire et l’autre exploratoire viennent limiter l’incertitude scientifique.
Le premier argument est que Safîr–e Sîmorgh possède un tel carac-
tère d’universalité et d’efficience poétique que sa signification peut
résister à la trahison de la traduction. La seconde est que le modèle
. Shayk al–Ishrâq, –  ? e.c.
. Sohravardî , chap. XIV: « L’incantation de la Sîmorgh (Safîr–e Sîmorgh) », pp.
–. Sont analysés ici, de la ère partie (Sur les débuts), le chap. , « De ce qui est manifesté
aux débutants », et le chap. , « De la Sakîna » ; de la e partie (Sur les buts), le chap.  « De
l’état de “fanâ”. »


 Gérard Chandès

sémiotique tensif est particulièrement adapté à une relecture critique


et créative du texte du Shayk al–Ishrâq. Ce texte décrit en effet les cinq
degrés du tawhid (attestation de l’Unicité de Dieu) et les différentes
étapes de la progression dans l’expérience mystique, depuis ce qui est
manifesté aux « débutants » jusqu’au point sublime de l’expérience
intérieure, celui que connaissent les initiés ultimes, les Mohaqqiq–tarîn.
Or la sémiotique tensive développée par Jacques Fontanille et Claude
Zilberberg veut en première instance porter attention « au vécu, au
ressenti » ; elle s’intéresse aux « grandeurs affectives » car elle estime
que « nos vécus sont [...] des mesures tantôt des événements qui nous
saisissent, tantôt des états qui, par leur persistance, nous définissent »
(Zilberberg , p. ). Plus encore, « pour la sémiotique tensive, les
grandeurs intenses sont de l’ordre de l’affect et à ce titre elles régissent
les grandeurs extenses » (Zilberberg , p. ). Le vécu a donc pré-
valence sur le conçu, le sensible sur l’intelligible, le ressenti sur le
réfléchi dans l’objet que la sémiotique tensive cherche à décrire : le
champ de présence.
Notons déjà la remarquable convergence entre cette affirmation sé-
mioticienne et la sentence citée par Sohravardî : « Quiconque n’éprouve
pas, ne comprend pas » (Sohravardî , p. ) ou cette affirmation de
l’auteur lui–même : « Il est bien établi que la vision directe (moshâhada)
a plus de forme que le raisonnement inductif » (ibidem, p. ). L’étude
proposée ici se déploiera par conséquent autour de trois concepts en
interaction : « événement », « effet de présence » et « transformation ».
Contrairement à la règle académique, la présente étude ne s’appuie
pas sur la chaîne argumentative classique « question–hypothèse–dé-
monstration–réponse ». Elle ne peut viser par conséquent à aucune
conclusion. Nous allons procéder, sous la forme d’une paraphrase, à
une superposition : celle de la description analytique d’une expérience
subjective très différenciée et celle de l’heuristique tensive. Le lecteur
voudra bien voir en elle une expérimentation dont l’objectif second est
de prouver l’efficience du modèle tensif pour apporter, si besoin était,
une plus–value de sens à un texte qui échappe à nos catégories men-
tales ordinaires ; qualifions de « sémiopragmatique » cette intention.
L’objectif premier est d’enrichir la réflexion sur la façon dont l’état
extatique se différencie de l’expérience quotidienne, sans pour autant
le réduire à la psychologie des états modifiés de conscience. L’extase
mystique est une expérience hautement subjective, dont le « ce que
Être pénétré par l’éclat du sacré 

cela fait à l’illuminé », pour paraphraser Thomas Nagel, échappe à


toute intersubjectivité. Cependant le système de tensions à l’oeuvre
dans le processus extatique peut être objectivé. Sohravardî le décrit, le
modèle tensif de la sémiotique met en évidence sa dynamique et son
paradoxe terminal.
Rappel théorique . La sémiotique de Greimas veut rendre compte
des structures élémentaires de la signification. La relation d’opposition
binaire dans un même système de valeurs constitue l’une de ces
structures élémentaires. Elle s’est développée et énoncée sous forme
du célèbre carré sémiotique, « qui rassemble les différents types
d’oppositions pour en faire un schéma cohérent » (Fontanille ,
p. ). Cependant, la rigueur de son formalisme l’empêche de rendre
compte des réalités de la perception, des dynamiques de la construc-
tion du sens, de l’énonciation en acte. Avec le carré sémiotique, les
contraires sont définis, posés et juxtaposés. La sémiotique tensive
se donne un autre objectif et procède autrement. Elle cherche à
rendre compte de la complexité en action, à comprendre les dyna-
miques de perception, de passion et de cognition, à décrire les relations
d’interaction entre les contraires.
Par conséquent, l’espace tensif est déterminé par deux valences :
celle de l’intensité et celle de l’extensité, représentées graphiquement
par une ordonnée (intensité) et une abscisse (étendue). Retenons ici
que la valence d’intensité désigne l’affectivité (Zilberberg , p. ).
L’intensité se mesure sur une échelle qui va du « faible » (minimum) à
« l’éclatant » (maximum) ; la mesure de l’extensité va du « concentré »
(minimum) au « diffus » (maximum). Les affects les plus intenses sont
produits par le surgissement soudain d’un événement : le mode est
celui du « survenir » qui peut déclencher la terreur ou « l’admiration » ;
son tempo est rapide. Le mode de la dimension extense est celui du
« parvenir » progressif, qui implique un cheminement affectif ou intel-
lectuel orienté par un projet, une visée. La fonction sémiotique d’un
discours, dans la mesure où il exprime un état d’être, se réalise quelque
part à l’intersection de ces deux axes de valence. Un état de conscience

. Cette étude a été réalisée en  à la demande du Dr Bahman Namvar–Motlaq,


alors Secrétaire Général de l’Iranian Academy of the Arts. Elle devait faire l”objet d”une
conférence. Il s’est avéré nécessaire de présenter dans leurs grandes lignes les concepts
de la sémiotique tensive. Ceux–ci sont connus des lecteurs de Lexia. Nous conservons
cependant, à toutes fins utiles, cette présentation succincte.
 Gérard Chandès

qui serait à la fois d’intensité et d’extensité maximales serait situé dans


ce que Zilberberg nomme « l’aire de l’utopie » (ibidem, p. ).

La valence intensive est la matrice de « valeurs d’absolu », qui tendent


à l’exclusivité car plus un état de conscience est intense, moins il est
descriptible, moins il est communicable dans un texte. Le sentiment
du sacré, parce qu’il est peu communicable par description ou par dé-
monstration, est une valeur d’absolu. Lire Safîr–e Simorgh avec le filtre
de la sémiotique tensive, c’est reconnaître la puissance et l’efficience
sacrale de ce texte. La valence extensive, de son côté, est la matrice de
« valeurs d’univers », qui peuvent être communiquées, diffusées, donc
partagées et assimilées dans une communauté plus ou moins étendue
et qui s’intègrent dans les pratiques du quotidien. Dans la dimension
extense se déploient les réseaux de traits communs — les langues, par
exemple, ou encore les comportements normés qui assurent la cohé-
sion des groupes sociaux. Nous voyons d’emblée que c’est la valence
extense, identifiée au plan de l’expression, qui permet à Sohravardî de
décrire l’expérience mystique, identifiée au plan du contenu, et qui
est «alignée » sur la valence intense et régie par elle. Ceci jusqu’au
moment — état suprême de la révélation intérieure (kashf ) — où
s’achèvent les possibilités d’une expression par le langage commun.
L’interprétation passera par une lecture au fil du texte. Sa composi-
tion est telle que l’étude peut en épouser le mouvement, retrouvant
ainsi les thèmes clefs que nous propose la lecture tensive : « événe-
ment », qui correspond à la première station mystique, « transforma-
tion », qui correspond aux différents degrés de l’expérience mystique
tels que les décrit Sohravardî, et « champ de présence » qui correspond
à la perception de l’infini divin par le gnostique. Je commenterai donc
d’abord la description par Sohravardî des trois états de conscience du
mystique : les « premiers messages », puis l’état de la Sakîna, « présence
Être pénétré par l’éclat du sacré 

à demeure des Lumières divines dans l’âme–termple » et celui de


fanâ, « annihilation ». Ensuite les cinq degrés du tawhîd.
Pour répondre à la question : « qu’est–ce qui a de l’importance pour
l’homme ? », Zilberberg répond par l’hypothèse suivante : « ce qui
a de l’importance, c’est [...] une catastrophe modale que nous saisis-
sons, sous condition stricte de tempo, comme la réalisation soudaine
et extatique de l’irréalisable » (Zilberberg , p. ). Le terme de
« catastrophe » est à comprendre ici comme un phénomène discontinu
qui survient spontanément à partir d’un milieu continu. Cette défini-
tion est aussi, en partie, celle de l’événement. Lorsque l’événement
se produit, « le sujet installé dans l’ordre raisonné, programmé et
partagé du parvenir, maître de ses attentes spécialisées, se voit rejeté
loin de ses voies propres et projeté dans leur dévastation dans [...] le
brusque » (ibidem, p. ). Du point de vue tensif, l’événement est donc
un phénomène essentiel dans le destin humain. Concentré, intense
et de tempo très rapide, l’événement est par nature un « survenir »
bouleversant, par opposition au « parvenir » programmé.
La description de la première station mystique, des premiers mes-
sages de la Seigneurialité divine dans Safîr–e Sîmorgh et de leurs ef-
fets sur les « chercheurs » débutants correspondent précisément à
la conception tensive de l’événement. Ces messages sont des « ful-
gurations » (Sohravardî , p. ) : des Lumières intenses. Leur
tempo est fulgurant : Sohravardî leur attribue « l’impétuosité » et la
rapidité de l’éclair. Ils sont inattendus, leur rythme d’apparition est
aléatoire comme l’éclair qui apparaît « tout à coup » (ibidem, p. ).
Ce caractère soudain (waqt) provoque un « trouble violent », « un
intense frisson sacré » (ibidem, p. ). L’état du visionnaire est alors
comparable à celui du combattant dans la violence de la bataille. La ré-
pétition des messages affecte sensiblement le corps physique, puisque
le chevauchement de ces Lumières « fait trembler les membres du
corps » (ibidem, p. ). Voilà bien la « réalisation soudaine et extatique
de l’irréalisable » (cfr supra), l’accès au monde de la valeur d’absolu
définie par l’« intensité forte » et l’« éclat », en contraste violent avec

. L’incantation..., note , p. .


. Débutants en « gnose mystique », comme le précise une méditation épistémologique
de l’auteur sur la précellence des différentes sciences (ibidem, pp. –).
. « Ces lueurs qui soudain se lèvent, les soufis les appellent en effet “instants” (waqt) »
(ibidem, p. ).
 Gérard Chandès

la pensée commune conformée par les valeurs d’univers. Sohravardî,


un pré–sémioticien ?
La Lumière–événement, « lumière du monde du Mystère » peut ne
pas « disparaître hâtivement, mais persister un temps assez long » (ibi-
dem, p. ). Elle ouvre alors la voie de la Sakîna, qu’il est très pénible
de quitter. Celui qui est investi de la Sakinâ « atteint à la connais-
sance des pensées secrètes et à la divination des choses cachées », il
contemple des réalités subtiles (ibidem, p. ). Pour autant, cet état
n’est pas débarrassé de toute imperfection, dit l’Appel de la Simorgh,
affirmation que H. Corbin explicite ainsi: « ...puisqu’il lui [le mystique]
arrive de se ‘considérer soi–même dans son allégresse. Il faudra que
ce qui était encore ‘objet’ devienne ‘sujet’ en ce sens que dans l’acte
du sujet qui le connaît, c’est l’objet qui se connaît soi–même. »
Transposons en termes de tensivité. La disjonction encore pré-
sente entre du « parvenir », mode d’ efficience des valeurs d’univers
(vs les valeurs d’absolu) est en attente de résolution. La plénitude
de la « saisie » de la transcendance spirituelle n’a pas annulé toute
possibilité de « visée ». Le texte en témoigne, lorsqu’il affirme que
le clairvoyant entend aussi des « des appels extraordinaires ». Or ce
qui paraît extraordinaire est ce qui fait rupture avec les situations
et les programmes stabilisés qu’investissent principalement les va-
leurs d’univers. Le sentiment de l’extraordinaire implique donc que,
même dans l’état de délectation qui est celui de la Sakîna, persiste
une grandeur extense. Autrement dit, dans cet univers mental de
clairvoyance, quelque chose est capable de faire événement. Il reste
des attaches. La rupture avec ces attaches explique que le mystique
entende des « voix terrifiantes » (ibidem, p. ), autre manifestation
d’événement. La puissance bouleversante de l’événement, indispen-
sable pour ouvrir l’âme, signale que tout n’est pas accompli quand
bien même, libéré de son corps, le « Véridique » peut contempler
« les Lumières divines se levant et se répandant sur lui » (ibidem, p.
).
L’imperfection tient au maintien de la dualité du sujet conscient de
son ipséité, dernière attache résiduelle au monde (valeurs d’univers).
La disjonction du sujet et de l’objet persiste. Avec elle persiste une
distance entre l’un et l’autre que nous pouvons interpréter comme

. Note , p. .


Être pénétré par l’éclat du sacré 

la subsistance d’un certain gradient d’extensité impropre à l’extase


achevée. La conscience de soi doit par conséquent savoir s’effacer,
cela dans l’état de fanâ. L’effacement du sujet réfléchi (conscient de
lui–même) supprime la dualité entre le sujet connaissant et l’objet de
sa connaissance. La perfection se juge au fait que « l’acte de connaître
est occulté dans l’objet qu’il connaît » (ibidem, p. ). Sohravardî et, par
sa médiation, la Sîmorgh peuvent–ils en dire plus sur la parfaite extase,
qui en termes tensifs peut se décrire comme un état extraordinaire
de concentration, donc un gradient d’extensité nulle et un gradient
d’intensité infinie? Non sans doute, car une description approfondie
de cet état de conscience et de connaissance réintroduirait le sujet
dans le discours, donc la dualité, donc l’imperfection.
Aussi l’incantation, après avoir décrit la dynamique globale de l’ini-
tiation mystique — jusqu’à rencontrer l’impuissance de tout langage
à rendre compte de l’état suprême — construit une typologie des
différentes étapes de la progression. Il récuse l’opposition binaire entre
le tawhîd du commun des croyants et le tawhid de l’élite spirituelle
et propose une échelle de mesure plus différenciée, les cinq degrés
du tawhid.
La mesure des degrés dans un champ tensif est une pratique cen-
trale de la sémiotique. Elle exploite la notion d’intervalle entre des
degrés qui se définissent réciproquement par des relations d’« amenui-
sement » et de « relèvement », d’« atténuation » et de « redoublement »
(Zilberberg , pp.  ss.)
. « Il n’y a de Dieu que ce Dieu » est l’attestation du premier degré,
qui correspond au Tawhid « du commun des mortels ». Dieu est signi-
fié par un adjectif démonstratif , qui implique l’existence d’une dis-
tance entre l’homme et Dieu. La présence d’un indicateur d’extension
implique que le gradient d’extensité soit élevé. La relation est celle
d’un sujet (l’homme) à un objet (Dieu), ce qui est contradictoire avec
la perception mystique de Dieu.
. « Il n’y a de lui que Lui » : Dieu n’est plus signalé par un déictique,
mais par un pronom personnel à la e personne : il quitte le statut
d’objet distancié pour accéder au rang de Sujet auquel les Fidèles
reconnaissent l’absolu de l’Ipséité (û’î–e û), puisque toutes les autres

. Nous postulons, ici comme dans le reste de l’étude, la fiabilité de la traduction d”H.
Corbin.
 Gérard Chandès

ipséités proviennent de Lui. La relation acquiert de la valeur parce


qu’elle est celle d’un sujet — fût–il immanent (l’homme) — à un autre
sujet (Dieu). Malgré cette asymétrie entre le subordonnant et le subor-
donné, il se crée une relation interpersonnelle qui réduit la distance
symbolique et la concentre. Cependant, malgré l’amenuisement de la
distance et le relèvement de la densité relationnelle, cette attestation
situe Dieu « comme quelqu’un d’absent » (Sohravardî , p. ). Et
fait écho à la conception linguistique de la troisième personne comme
« non–personne » qui n’est « jamais réflexive de l’instance de discours »
(Benveniste , p. ).
. « Il n’y a de toi que Toi » : cette attestation est celle de la présence ef-
fective, qui permet la plénitude d’une relation interpersonnelle, comme
le confirme ici encore et universellement le statut de la deuxième per-
sonne comme « individu allocuté dans la présente instance de discours »
(ibidem, p. ). La distance symbolique entre l’Homme et Dieu se réduit
encore, au point de faire contact. Par corrélation inverse, la concentra-
tion s’accentue, et avec elle la tonicité de la relation. Mais cette attestation
maintient l’homme et Dieu comme des sujets « discrets », c’est–à–dire
distincts donc disjoints, séparés par la frontière sémiotique qui isole
« je » et « tu ». La situation de dualité perdure.
. « Il n’y a de moi que Moi ». Cette attestation supprime la dualité,
puisque l’« ego » de l’initié s’efface, au moment où la vision a lieu. Le
régime de relation change radicalement : les sujets en présence (le
Fidèle et Dieu) passent d’une relation de contiguïté à une relation de
continuité. En termes tensifs, la concentration du champ de présence
du divin est maximale. L’auto–référentialité (ipséité) du « je » humain
(« moi ») se voit absorbée par celle du « je » divin (« Moi »). Mais
l’expérience intérieure ne s’arrête pas à l’effacement de la frontière
humain/divin. Une nouvelle est possible, qui me paraît radicalement
distincte des précédentes.
. L’ipséité, fût–elle divine, est encore de trop. Car l’ipséité est
définie comme « ce qui fait qu’une personne, par des caractères stric-
tement individuels, est non réductible à une autre » . En cette étape
terminale, la notion de sujet disparaît, et de ce fait le paradigme de la
relation, même fusionnelle, disparaît. Disparaît avec elle la notion de
« point de vue », fondamentale en sémiotique, car tout point de vue —

. Selon le « Trésor de la Langue Française ».


Être pénétré par l’éclat du sacré 

perception individualisée et située de la réalité — implique l’existence


d’un sujet sémiotique.
Quant aux plus avancés d’entre eux en expérience intérieure (les
Mohaqqiq–tarîn), ils disent « Egoïté, tuïté, ipséité tout cela sont des
points de vue qui se surajoutent à l’essence éternelle de l’Unique.
Les trois mots (lui, toi, moi), ils les submergent dans l’océan de
l’effacement » (ibidem, p. ).
Au cours de l’expérience mystique, qui est celle suggérée par la
Simorgh, seule reste cette « essence éternelle de l’Unique ». Le point
d’arrivée du soufisme, « c’est le sans–limite » (ibidem, p. ). Par
conséquent, là s’arrête toute activité d’interprétation, tout discours
chez le visionnaire et probablement aussi chez les commentateurs
du texte. La Sîmorgh le dit : « Les explications se perdent, les points
de repère s’effacent » (ibidem, p. ). Au plan tensif cette situation,
qui nous évoque une singularité physique, n’est plus formalisable
sauf à la situer, par une disjonction forte, dans l’aire de l’utopie. Ici
le visionnaire, annihilé (situation de fanâ) subjectivement effacé mais
cependant réel et présent, « bénéficie » d’un champ de présence ouvert
sur les dimensions infinies de la divinité en intensité mais aussi en
extensité. Cette extensité est d’une tout autre nature que celle qui
« porte » les valeurs d’univers. Je pourrai la désigner par un oxymore
(au regard du modèle tensif ) : l’extensité de l’absolu.

Les pages ici analysées de Safîr–e Sîmorgh décrivent deux mouve-


 Gérard Chandès

ments dont les termes se développent en corrélation inverse : celui de


la fermeture et de la concentration par amenuisement d’ordre social
puisque le nombre de ceux qui parcourent le chemin vers l’ultime
connaissance est de plus en plus restreint ; celui de l’ouverture à la réa-
lité spirituelle sans repère et sans limite mais gouvernée par l’Unique.
Amenuisement de l’étendue sociale, relèvement de l’intensité spi-
rituelle. Apparaît ainsi, exemplairement, l’opposition fondamentale
entre valeurs d’univers et valeurs d’absolu. La progression de l’initié
vers la fanâ atonise les valeurs communes d’univers et tonifie, dans et
par le discours, les valeurs d’absolu.
Cependant, l’expérience mystique ultime telle que décrite par Soh-
ravardî sous l’inspiration de la Sîmorgh contredit radicalement la loi
commune, qui veut que toute intensité ne puisse que se dégrader
et muter en valeurs d’univers : « ...l’intensité se dirige, si rien ne
s’y oppose, vers sa propre annulation » (Zilberberg, p. ). Ce qui
s’oppose à la perte de l’intensité, c’est Dieu, dont « on admettra »
qu’il « fasse exister dans leur [« les gnostiques »] cœur quelque chose
de semblable à cette perception , de sorte que de ce monde ils le
voient sans intermédiaire ni preuve » (Sohravardî , p. ). L’initié
qui parcourt les cinq degrés de la perception de la tawhid renforce
l’intensité de la vision, jusqu’à l’annihilation fusionnelle dans la réalité
suprême. La situation ultime — extatique — de la perception mystique
fait disparaître la disjonction essentielle entre terme intensif et terme
extensif.
En d’autres termes, si notre lecture est exacte, on reconnaîtra par-
tiellement dans la progression vers la conscience absolue l’un des
quatre schémas de tension décrits par J. Fontanille, celui de l’ascendan-
ce : « ce parcours fait en quelque sorte la ‘somme’ de tout ce qui
précède, et, grâce à cette condensation ultime, reconfigure la significa-
tion de l’ensemble » (Fontanille , p. ), ceci du moins jusqu’à
la quatrième attestation (incluse). Mais en réalité la flèche d’évolution
suit un parcours atypique, bien caractéristique de l’extase mystique,
avec son retour extense qui permet de mesurer le contraste entre
l’annihilation du moi dans l’infini de la transcendance et, au point
de départ, l’affirmation du moi humain dans la mise à distance de

. Perception de Dieu « sans l’intermédiaire d’indices ni de preuves » (Sohravardî ,


p. ).
Être pénétré par l’éclat du sacré 

Dieu (« Ce Dieu ») : différence essentielle entre les valeurs d’univers


communes et les valeurs d’univers spirituelles en situation extatique.
Pour conclure, comment ne pas rapprocher les parties analysées
ici du Safîr–e Sîmorgh, qui se veulent démonstratives, sinon pédago-
giques, avec un autre texte visionnaire et extatique, un texte à « haute
tension » lui aussi mais elliptique et concentré, le Mémorial de Blaise
Pascal (). Même fulguration soudaine propre à la première station
mystique, très caractéristique de l’« événement » selon Zilberberg :
« Feu ». Même « confiant apaisement » (Sohravardî , p. ) en
qui éprouve la Sakîna : « Certitude, certitude, sentiment, joie, paix ».
Évolution de la perception spirituelle par suppression de la dualité :
« Ton Dieu sera mon Dieu ». Et, presque, immersion dans « l’océan de
l’effacement » (ibidem, p. ) : « Oubli du monde et de tout, hormis
Dieu ». Le diagramme tensif tel que je l’ai établi pour Sohravardî
semble applicable — sous réserve d’une analyse approfondie qui n’est
pas l’objet de cette étude — à Pascal. Il n’est pas impossible que ce
diagramme figure une constante anthropologique.

Références bibliographiques

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Z, C. () Éléments de grammaire tensive, PULIM, Limoges.
———. () Des formes de vie aux valeurs, PUF, Parigi.
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/97888548739405
pag. 97–113 (luglio 2014)

Étude de la dimension sémiotique de l’extase


Le cas de la poésie persane

H R S

 : The Semiotic Dimension of Ecstasy: the Case Study of Persian
Poetry

: Persian poetry places ecstasy at a level of eventual intensity where;


regarding the cancellation of the effect of process, everything remains
under the control of event. Thus, a large gap is created between two
modes of existence: arise and achieve: Semiotic manifestation of such
ecstasy may be partly due to the interdependence of two tensive forces
namely the briefness of time and an increase in speed. This is what
introduces the subject in the sphere of instant against the world of
exercise and process. The perfective tone would be one of the necessary
conditions in the appearance of ecstasy’s semiotics. It is obtained on the
basis of the dematerialization of the body–flesh. Totally, it can be argued
that five tensive strata involve in the semiotic formation of ecstatic state
in the Persian classic and contemporary literature: I) body – event; II) an
alive tempo; III) a perfective exclusiveness; IV) the denial of death by
the sublimation of Space–Time; V) a return to the ontological source.
Based on a semiotic study, this research tries to examine the accessibility
conditions to ecstasy in the Persian classic and contemporary poetry.

: ecstasy; tensive structure; perfective tonicity; ontological source.

. Introduction

L’extase constitue un thème important de l’énonciation poétique en


persan. La poésie classique et la poésie contemporaine persanes pré-
sentent chacune une vision propre de l’univers extatique. Pour la
première, l’extase est liée à la question de l’Etre Suprême et elle


 Hamid Reza Shairi

s’obtient sur la base de la saisie événementielle. Un examen du dis-


cours poétique de Mawlānā nous permettra de nous rendre compte
d’un tel parcours. Quant à la deuxième, l’extase devient une question
du tri dépendant de l’exclusivité que le sujet extatique se crée par le
passage du vécu ordinaire au vécu extraordinaire. Une étude de la
poésie de Sépehri nous aidera à clarifier notre point de vue vis–à–vis
de ce vécu extatique. Il y a aussi une troisième vision poétique d’ordre
intermédiaire qui consiste à démontrer que le poète est capable d’aller
au–delà de toutes les limites sociales et de transformer les obstacles
posés par l’indifférence et l’incommunicabilité en une occasion de
vivre le sublime par un retour à la source ontologique : c’est ce qui
ouvre une voie vers l’extase à l’intérieur d’une société matérialisée.
Afin de réaliser notre objectif, qui est celui d’examiner la dimen-
sion extatique de la poésie persane, nous procéderons d’une analyse
sémiotique et notamment d’une étude tensive. Mais, si parmi tous les
ouvrages sémiotiques, on cherche à en désigner un qui ouvre avec
certitude une voie vers la sémiotique de l’extase, c’est De l’imperfection
de Greimas (). Dans ce livre, ce dernier parle pour la première
fois de l’expérience sensible et unique du sujet, de son ébranlement
ainsi que du statut particulier de l’objet qui peut se transformer en
un sujet actif et exercer ainsi sa « prégnance » sur le monde et aller
au–devant du sujet–observateur. L’ensemble de ces facteurs d’ordre
sensible et même accidentel donnent lieu à une « rupture d’isotopie »
et participent à la création de l’événement esthétique. Tout au long de
cet essai, nous nous efforcerons de voir en quoi la poésie persane de-
vient le lieu particulier de la création extatique à partir de l’événement
esthétique et du vécu sensible.

. Tonicité et extase dans la poésie classique persane

Selon Cl. Zilberberg, la tonicité peut être définie comme « la relation


des sujets et des objets à la perfection » (, p. ). La perfection nous
met du point de vue axiologique en présence du degré le plus élevé de
la valeur du corps; sur le plan paradigmatique ceci s’explique comme
une superlativité absolue, une instance particulière où le corps du
sujet perd toute sa matière chair pour devenir un corps événement ou
un corps fluide et latent. Mais, dans une visée syntagmatique, on peut
Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

attribuer à la perfection un sens aspectuel et le considérer dans cette


optique comme un événement accompli. Alors la présence de trois
éléments paraît nécessaire pour que l’on puisse parler de la tonicité
perfective : un corps, une valeur, un événement.
Pour nous la tonicité perfective est le moyen par lequel le sujet
peut accéder à l’extase. C’est pourquoi, nous nous voyons obligé de
réexaminer la question de la chair et du corps étant donné que cette
tonicité nous fait confronter à une perfectivité du corps qui ne se
définit plus désormais par la force de la chair ; en effet, l’extase en tant
que tonicité perfective nie le pouvoir de la chair–substance et place
toute la force d’impulsion nécessaire au parcours perfectif du côté du
corps événement.
Dans Corps et sens, J. Fontanille attire notre attention sur l’importance
de la chair comme centre de référence :
[. . . ] on distinguera la chair [. . . ], en ce sens qu’elle est une substance
matérielle dotée d’une énergie transformatrice ; cette double constitution
lui permet de résister ou de contribuer à l’action transformatrice des états
de chose, mais aussi d’être le centre de référence de ces transformations et
de ces états de choses signifiants, le centre de la prise de position sémiotique
élémentaire. La chair serait à ce titre l’instance énonçante par excellence, en
tant que force de résistance et d’impulsion, mais aussi en tant que position
de référence, une portion de l’étendue à partir de laquelle cette étendue
s’organise. (, p. )

Mais, toute visée extatique telle que nous la connaissons en Orient


remet en cause la présence du corps–chair en tant que force matérielle
et centre de référence fondant le rapport du sujet au monde. Dans
cette perspective, la perfectivité tonique participe à un dépassement et
même à une négation de la chair afin de garantir une transcendance
vers le lieu sublime. C’est pourquoi le sujet d’un tel parcours doit
commencer à se débarrasser de tout enchaînement argumentatif qui
se justifie par un tempo lent et un aspect duratif. Cette perfection ne
peut se réaliser que par l’intervention d’un corps–événement. C’est
ce qui peut d’ailleurs rallier le sujet à la soudaineté de l’action. Dans
cette perspective, l’abandon du corps–chair est homologable à une
position anté–axiologique que Mawlānā , reconnu comme le poète
de l’extase, définit par la mort symbolique du sujet. Dans le parcours
. Djalāl ad–Dı̄n Muh.ammad Rūmı̄, surnommé « Mawlānā », qui signifie « maître »
 Hamid Reza Shairi

de l’extase, mourir serait un moyen approprié de déposséder le corps


de la chair qui le rend pesant.

Mourrez, mourrez, dans cet amour mourrez.


De cet amour si vous mourrez, vous devenez tous des âmes.
(Mawlānā , p. ) .

Il est tout à fait évident que « devenir des âmes » dépend du passage
du corps–chair au corps–événement. L’univers anté–axiologique fonc-
tionne ici comme l’accès à une certaine valeur (« l’amour ») que l’on
peut considérer comme une potentialisation du sujet prêt à réaliser
l’événement et la mort symbolique : « De cet amour si vous mourrez,
vous êtes tous des divins. » (ibidem)
Nous pouvons avancer maintenant l’hypothèse selon laquelle l’extase
fonctionne comme un coup qui garantit la rupture soudaine avec
quelque chose pour réaliser le passage à autre chose. Du point de vue
sémiotique, la perfection extatique se définit comme une intensité
forte accentuée par un haut degré de la valeur : devenir des divins. Tout
se passe comme si l’on passait d’une présence imparfaite à une pré-
sence parfaite par le coup de l’événement. C’est ce qui nous conduit na-
turellement à la question de la frontière qui se pose entre l’inaccompli
et l’accompli. Si l’accompli peut être évalué comme une perfection,
l’inaccompli serait alors une imperfection et tant que le sujet conti-
nue à y demeurer, il s’avère imparfait. Autrement dit, l’inaccompli
se caractérise par la permanence et s’oppose de ce point de vue à
l’événement. Le sujet de la permanence est un corps–chair qui ré-
side derrière la frontière du corps–événement. C’est pourquoi, selon
Mawlānā, la mort symbolique intervient comme une brise–frontière
et conduit le sujet à la perfection par une brièveté totale et absolue
ou « seigneur », est considéré comme le plus grand poète mystique de la langue persane. Il
est aussi l’un des plus hauts génies de la littérature spirituelle. Né le  septembre  à
Balkh, Rûmî fut obsédé par le désir de trouver la voie qui aboutirait à la fusion de l’âme en
Dieu. C’est ce qui le conduit d’ailleurs à s’initier aux pratiques du soufisme, à la méditation
jusqu’à l’expérience et le vécu de l’état extatique. Sa vie bascule le  novembre ,
lorsqu’il rencontre un derviche errant, originaire de Tabriz, le moine soufi Shams al–din.
Pris d’une véritable passion pour celui–ci, Rûmî abandonne tout pour vivre et travailler aux
côtés de celui qui devint son initiateur ainsi que son maître. Son principal ouvrage s’appelle
le Masnavî (Mathnawî, Mesnevi), que La Fontaine traduira partiellement en français. Rûmî
décéda le  décembre  à Konya, où son tombeau fait l’objet d’une grande vénération.
. Dans cet essai, toutes les traductions des poèmes du persan en français sont à nous.
Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

de l’action identifiable au coup et donnant lieu à la mort. Par voie


de conséquence, cette frontière qui se pose entre l’imperfection et la
perfection, c’est la chair substantielle dont le sujet peut se débarrasser
par le coup événementiel.
La temporalité qui caractérise la tonicité de la perfection est une
temporalité brève. Dans la poésie classique persane, l’extase se crée
donc de l’intersection entre une temporalité brève confrontée à un
tempo vif. La rapidité de l’événement coïncide avec la brièveté du
temps de l’action. « Mourir » met soudainement fin à la permanence
du temps. Il change en effet la temporalité objective, tout comme
le précise Jean–Claude Coquet, en une temporalité subjective : « Si
je reviens un instant sur les traits spécifiques du temps subjectivé, je
relève qu’il est propre à noter l’expérience singulière d’une instance
dont le champ phénoménal est instable. » (Coquet , pp. –)
Cette remarque de J.–Cl. Coquet nous met en présence de deux
éléments importants : l’expérience singulière et l’instabilité du champ
phénoménal. Il s’agit en effet d’un temps qui est coextensif à l’être ;
l’instabilité du champ correspond au fait qu’un sujet est à la fois
présent à lui–même, à son discours et à son corps–événement. Nous
sommes ainsi en présence d’un temps vivant qui est le responsable
de la production d’un tempo vif. Un temps qualitatif que Benveniste
définirait comme un présent « coextensif à notre propre présence »
(, p. ). L’extase serait de ce point de vue une instance particulière
où le sujet vit un présent propre qui transforme le temps général et
ordinaire de la présence en un temps vif de l’être. C’est seulement à
ce prix que le présent dans lequel vit le sujet devient un présent de la
perfection.

Mawlānā opte alors pour l’événement qui s’oppose à l’état. Le pre-


mier nous introduit dans le survenir, alors que le deuxième nous place
 Hamid Reza Shairi

du côté de l’exercice. L’événement a pour particularité d’assurer la


perfection, tandis que l’état fait durer l’imperfection. Le sujet soumis
à l’exercice devient un sujet de la raison qui se voit intégré dans la
logique d’un parcours narratif le rattachant à un champ d’extensité
confronté sans cesse à des résistances pragmatiques que seule la na-
ture d’une force actionnelle peut débattre. Tout au contraire, le sujet
soumis à l’événement s’impose comme un sujet pathémique qui se
trouve lié à un champ d’intensité où un débordement de l’être rend
inexistante toute résistance externe pour rallier ainsi le sujet à une
immédiateté de « se sentir sentir » présent non pas à l’état des choses
comme force quantitative, mais à l’être du monde comme force quali-
tative. L’extase serait cette expérience pathémique d’un sujet, qui, une
fois initié au monde de l’être, oublie le monde comme chose pour
vivre dans l’être et par l’être.

Vivre dans l’être et par l’être peut se rapprocher de ce que E. Tarasti


définit comme une respiration « au rythme de l’âme du monde » (,
p. ). Pour expliquer cette notion de l’âme du monde, l’auteur des
Fondements de la sémiotique existentielle cite Soloviev :

L’âme du monde [. . . ] est la nature unitaire interne du monde, lequel


est alors considéré comme un être vivant, pourvu de volonté, capable de
concevoir et de ressentir. Plusieurs pensées philosophiques qui font dériver
l’unité du monde de la sphère éternelle de l’être conceptuel et idéel ont
également admis l’existence d’une telle âme du monde ; son existence
est le principe fondamental de tout phénomène et se déploie comme une
unité supérieure idéale, à la fois dans la réalité sensible et dans le processus
temporel.
(Ibidem, p. )

Cependant, Mawlānā va plus loin dans l’idée de l’âme du monde et


Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

la rattache à la présence de l’Être–Suprême, un Être éternel en tant


que source de toute vitalité.

. Co–présence des grandeurs : vers une passion du sublime

L’Être est la source principale de l’existence. C’est ce qui conduit le


poète à le considérer comme ce lieu sublime où tout trouve son écho
comme une réalisation de la présence à l’être du monde sans qu’il y ait
la nécessité du passage au procès narratif par une temporalité linéaire.
Donc, il y a une certaine indépendance du sujet extatique vis–à–vis de
l’immanence de l’action. Ce qui assigne l’idée selon laquelle l’être est
le lieu principal de la provenance de toutes les manifestations sémio-
tiques d’ordre tensif ou catégoriel. Ce qui signifie que les grandeurs
sémiotiques, de quelque nature qu’elles soient, elles ont une source
commune de manifestation. C’est cette dernière qui est responsable
de l’immédiateté du sens dont le sujet est nourri.

Tu es cette Lumière qui fait naître le jour


Tu es cette Joie qui met fin au malheur.
(Mawlānā , p. )

Cette âme du monde est aussi cet Être qui constitue la source
inchoative et terminative de la vie. Elle s’avère comme le lieu immédiat
où se réunissent toutes les grandeurs aspectuelles.
Avec Mawlānā nous sommes placé du côté du déjà saisi. Le saisis-
sement est ce qui met le sujet sous le contrôle du survenir. Le sujet
de la saisie n’a aucune raison de laisser ouvert le champ de l’action
étant donné qu’il est emporté par la grandeur de l’âme du monde qui
transforme tout sujet de l’action en un sujet du sentir. Le survenir
intervient donc comme ce qui ne laisse aucune place à l’actionnel
puisque la soudaineté de se sentir saisi par l’être du monde renverse
l’ordre logique d’une narrativité transformationnelle en un élan exta-
tique. E. Landowski explique ceci comme un contact direct avec l’être
:

Ceci suppose qu’aux distances que les configurations précédentes devaient


maintenir respectivement entre le sujet connaissant et son objet (dans la
programmation) et entre le sujet manipulateur et son interlocuteur (que
 Hamid Reza Shairi

sépare nécessairement l’espace par lequel transitent les messages persuasifs


et les valeurs qu’ils s’échangent) fasse maintenant place un contact direct,
plus ou moins immédiat selon les cas, entre corps sentant et corps sentis.
(Mawlānā , p. )

Ainsi, on peut affirmer que l’extase n’a aucune relation avec des
compétences en voie d’exercice et de progression narrative, car on se
trouve devant le déjà réalisé et le déjà survenu. Autrement dit, l’extase
est ce moment particulier où le sujet fait l’expérience de subir ce qui
ne relève d’aucune relation causale ni d’aucune conséquence narrative.
L’extase s’oppose à toute forme de narrativité ainsi qu’à toute notion
de phase. Elle remet en cause tout parcours voué à l’action par le fait
qu’elle appartient à des voies passives caractérisées par des tempos
vifs (« une flambée »).
Le champ de présence occupé par un sujet extatique est un champ
totalement dominé par l’affect. C’est pourquoi le sujet de l’extase ne
peut pas se définir par l’agir. Il est donc toujours de l’ordre du sujet
subit. Ce qui lui arrive peut être considéré comme ce qui relève du
sublime, de l’incroyable, de l’inattendu. Cependant, n’oublions pas
que s’adonner à la voix passive peut constituer l’étape précédente de
l’extase. De ce point de vue, la saisie événementielle actualise le sujet
de l’extase dans l’exacte mesure où elle le prépare à pouvoir franchir
les portes s’ouvrant sur l’extase (« Brisons donc nos chaines »).
L’univers de l’extase est celui de la performance. Ce qui signifie qu’il
est de l’ordre de la contre–compétence étant donné que le sujet ne
peut jamais atteindre une perfection à partir d’une action programmée.
Ainsi, comprise comme un contre–programme, une contre–action et
une contre–progression, l’extase est une performance qui s’impose
par une relation sensible et sensibilisée ; elle est donc homologable au
sublime et s’empare du sujet comme si celui–ci se trouvait hors de
lui–même. Greimas parle dans De l’imperfection d’une « dissolution » du
sujet et d’un moment de « l’arrêt du temps » qu’il considère comme
« la saisie esthétique » (, p. ). Le seul temps valable pour le sujet
de l’extase c’est le temps propre à l’Être : un temps de l’intemporalité
qui s’explique par l’efficacité suprême du pur sentir : « une saveur
de l’éternité ». C’est ce que nous avons défini plus haut comme une
dématérialisation totale de la chair substantielle :
Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

Quelque chose arrive soudain, on ne sait pas quoi : ni beau, ni bon, ni vrai,
mais tout cela à la fois. Même pas : autre chose. Cognitivement insaisissable,
cette fracture dans la vie est susceptible, après coup, de toutes les interpré-
tations : on croit y retrouver l’attente insoupçonnée qui l’avait précédée,
on croit y retrouver la madeleine renvoyant aux sources immémoriales de
l’être ; elle fait naître l’espoir d’une vie vraie, d’une fusion totale du sujet et
de l’objet. » (Ibidem, pp. –)

Il est temps de devenir fou tout attaché à ta chaîne


Brisons donc nos chaines, délivrons–nous de tout et de tous.
Rendons l’âme, libérons–nous de cet indigne corps
Mettons feu à notre foyer, courrons vers la taverne comme une
flambée.
(Mawlānā , p. )

« Il est temps de devenir fou» est l’élément fondateur de la présence.


Une présence qui prépare la dissolution du sujet de l’extase et que l’on
peut définir comme une initiation à l’absentification du monde. C’est
pourquoi Mawlānā considère cette présence comme un temps pro-
tensif qui contient en lui la qualité aspectuelle de l’imperfectif. Il faut
donc aller au–delà de ce temps et changer cette présence en une ca-
thartique, puisque toute présence imperfective est insécurisante. C’est
seulement à ce prix que l’on peut transmuer la présence temporelle
en une présence atemporelle. Le sujet de l’extase est donc un sujet de
la méta–présence. Il nie la présence comme une réalité existante et
actualisée afin d’atteindre une autre présence dont la qualité consiste
à transformer les relations effectives en des relations ontologiques
(« tout attaché à ta chaine »). Pour le poète persan de l’extase, être
présent, c’est se laisser saisir par l’événement de tous les événements.
C’est cela qui garanti en fait la co–présence de toutes les grandeurs.
Peut–on parler ainsi d’une présence « mystique », c’est–à–dire une pré-
sence de la présence dont Mawlānā fait l’expérience. Herman Parret
ne manque pas de faire un éclaircissement sur ce type de présence :
« Présences multiples de la présence dans la dissociation de la présence
et du triple [réel, existant, actuel], prolifération de la présence selon
les multiples intérêts intentionnels de la conscience. La présence, on
n’en doute pas, est une question de qualité et de degré » (, p. ).
Dans cette optique, le sujet de l’extase subit la force d’une pré-
sence qui dépasse le cadre spatio–temporel de l’ici–maintenant pour
se conjoindre à une présence atemporelle dont se réjouit l’être du
 Hamid Reza Shairi

monde. C’est pourquoi le sujet extatique devient une « flambée »


qui s’use. Ce qui libère son corps de toutes les limites matérielles
et « indignes ». L’itinéraire tensif et passionnel qu’emprunte un tel
sujet n’est calculable par aucune logique de la progression narrative
(feu et flambée en témoignent bien). « Devenir fou » c’est vivre ce
moment sublime qui enlève toute distance entre le sujet qui subit et le
sujet qui fait subir. Autrement dit, l’état et l’événement ne font qu’un
puisque l’Être qui est à l’origine de la création de l’événement devient
le lieu du vécu de l’esthésie. Le champ de la présence aussi bien que
celui de la visée sont nourris par le Sublime qui n’est qu’une passion
du sublime. C’est pourquoi l’extase est capable de transformer toute
présence en une qualité et une passion de la présence dans la mesure
où elle signifie savoir–vivre le sublime. Les propos d’H. Parret au sujet
du « sublime du quotidien » pourrait nous intéresser ici :

Inventer le sublime du quotidien, c’est en construire les conditions de


possibilité, dans la réflexion, ou, comme j’aurai régulièrement l’occasion de
le rappeler, dans la pensée rêveuse. Cette réflexion n’est donc pas une activité
de l’entendement philosophique, mais bien plutôt de l’esthète lui–même qui
apporter son intelligence et sa sensibilité dans son jugement esthétique [. . . ].
Seule une pensée enthousiaste peut réfléchir sur la beauté et les passions
du beau. Tout comme les mythologies inventent les mythes, ce sont les
esthètes qui inventent la beauté [. . . ]. En d’autres termes : pas de sublime
sans passion du sublime, tout comme il n’y a pas de quotidien sans irruption
et frémissement du sublime.
(Parret , pp. –)

L’extase nous met donc en face des performances qui sont de


l’ordre du sublime et qui impliquent la présence d’un sujet esthète en
fusion avec l’être du monde. C’est en ceci que l’on peut identifier l’état
extatique à une négation de l’ordinaire ; ce dernier serait homologable
à des intelligences sans passion et sans enthousiasme esthétique.

Ô Vertige des sagesses, frappe–nous d’Ivresse


Jusqu’à ce que notre conscience échappe à la sagesse
Grâce à cette ivresse
(Mawlānā , p. )

La pensée enthousiaste mène le sujet de l’extase vers une passion


du sublime où la sagesse cède devant l’ivresse et réalise le passage à
Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

une situation extatique. Le graphique ci–dessous peut illustrer ce type


de présence.

. Extase dans la poésie persane contemporaine

Si pour la poésie classique persane la transcendance subjectale obte-


nue sur la base de l’ivresse et du vertige est le moyen qui favorise le
passage à l’extase, pour la poésie contemporaine, celle–ci se réalise
par l’accès à un lieu exclusif qui prend des dénominations diffé-
rentes. Sohrab Sépehri est l’un de ces poètes qui fait l’expérience
de l’état extatique lorsqu’il réussit à atteindre ce lieu exclusif qu’il
appelle « l’au–delà du Néant ». Le sujet de l’extase ne se préoccupe
point de la manière qui rend possible l’accès à ce lieu. Tout ce qui
compte pour lui c’est le fait de s’évader à l’ordinaire et de se trouver
dans l’au–delà du Néant qu’il définit comme un lieu extraordinaire.
Nous pouvons donc comprendre que l’ici–maintenant est considéré
comme un Néant auquel le poète doit s’échapper s’il a envie de vivre
le sublime.
. Sohrâb Sépehri naît en octobre . Enfant du désert, originaire de Kâchân qu’il
a adoré, il est l’un des grands poètes et peintres de l’Iran contemporain. Imprégné de
poésie et des sensations poétiques dans sa peinture, peut–on conclure qu’il est peintre
des états poétiques et des états d’âme. Une nostalgie des origines, une tendance extrême
vers la solitude, un attachement sincère à tout ce qui est source naturelle, un effort
d’accéder à la « chose même » une fréquentation mystérieuse de la nature font son succès
dans le domaine de la poésie aussi bien que de la peinture. Il commence à publier ses
recueils poétiques à partir de l’année . En , il obtient le prix spécial du festival
international de peinture en France. Sohrâb sépehri décéda le  avril  ; il est enterré
dans la cours de l’Imâmzâdeh Sultân Ali à Meched Ardehal au sud de Kâchân.
 Hamid Reza Shairi

Si jamais vous me cherchez,


Sachez que je suis au–delà du Néant
(Sépehri , p. )

En effet, le Je se pose comme un sujet exclusif occupant une posi-


tion du sublime inaccessible aux autres, c’est–à–dire au sujet collectif.
Ainsi, sur le plan sémiotique, nous sommes en présence d’une valeur
d’absolu du caractère de rareté. Atteindre l’au–delà du Néant est une
position suprême à laquelle seul le sujet de l’extase peut accéder. Cette
position est un syncrétisme de la complexité de la valeur d’absolu
étant donné qu’elle affirme d’une part l’unicité de la position du sujet
et de l’autre son survenir. Le quotidien est de l’ordre du commun et de
l’ordinaire. Alors que la voie qui mène au sublime se prépare par le tri.
Il faut donc faire l’expérience du sublime par un mouvement exclusif
du survenir et puis une fois l’extase (une perfectivité non matérielle)
réalisée, on peut inviter les autres à vivre cette même expérience, mais
par la voie du parvenir. Autrement dit, si l’autre a le désir d’accéder à
l’extase, ce sera par le biais du parvenir, puisque c’est par la recherche
consciente du Je et par la conjonction avec celui–ci qu’il pourrait se
rallier « doucement et lentement » à l’état extatique.
Si jamais vous me cherchez, venez doucement, venez lente-
ment,
Afin que ne se frêle la fine porcelaine de ma solitude.
(Sépehri , p. )

L’au–delà du néant souligne à lui seul le passage de quelque chose


d’ordinaire et commun à l’extraordinaire. Ainsi, le monde soumis à
l’usage et dépourvu de la signification est abandonné par un mouve-
ment de tri qui prend source dans une vision absolue et unique et qui
permet au sujet de faire l’expérience d’une solitude qu’il identifie à
une Eternité.
L’homme, là–bas, se sent seul
Et, dans cette solitude, l’ombre d’un orme s’étend jusqu’à
l’Eternité.
(Ibidem)

Dans le cas de Sépehri, l’extase s’explique donc par le fait de se


détacher du commun et de se rallier à l’éternité. Cette dernière devient
Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

accessible par une vision extraordinaire qui prépare le passage à la


solitude sublime.
Du point de vue de la syntaxe intensive, le sujet de l’extase se
caractérise par une augmentation de l’intensité, de même que le sujet
collectif est marqué par une diminution de l’intensité. Et sur le plan
de la syntaxe extensive, le sujet de l’extase se trouve spécifié par une
augmentation de l’extensité, ce qui signifie que le sujet collectif est
confronté à un abaissement de l’extensité et continue ainsi à vivre
dans le néant. En conséquence, dans la poésie persane contemporaine,
l’extase dépend en partie de la question du tri et elle est donc due à
l’exclusivité que le sujet se crée par le survenir et la soudaineté de
l’accès à l’extraordinaire.
Mehdi Akhavan–Saless est un autre poète contemporain qui éla-
bore la question de l’extase tout en creusant une voie vers ce que
ces ancêtres comme Mawlānā et Hafiz ont fondé. Cependant, une
différence importante distingue Akhavan des poètes classiques : pour
lui l’extase est le résultat d’une expérience dure du désespoir, de la
déception et de la froideur. Elle s’obtient donc sur la base d’une incom-
municabilité sociale qui arrête toute circulation de la valeur. Dans son
étude intitulée « l’esthétique du désespoir dans l’Hiver d’Akhavan »,
H. R. Shairi n’hésite pas à montrer qu’un mur glacial bâti entre le sujet
et le reste du monde aurait tendance à faire échouer toute possibilité
d’accès à la visée esthétique, à l’état extatique et au sens. Il explique
que l’absence de communication aboutit à une fracture dont l’Hiver
apparaît comme le figuratif le plus redoutable.
La fracture résulte de l’absence de l’intersubjectivité que l’on peut juger
comme un manque d’enthousiasme de la part du sujet collectif. Il suffit
qu’un monde soit privé d’enthousiasme pour qu’il perde le sens de vivacité
dans l’échange. « L’Hiver » fait obstacle à l’enthousiasme, puisqu’un froid
intense s’y avère régulateur du monde et le prend en charge. Le froid fonc-

. Mehdi Akhavan–Saless est bien connu pour le rôle important qu’il a joué dans le
renouvellement de la poésie persane. Né en mars  à Méched, d’une mère elle–même
poétesse, il ne quitte sa ville natale qu’après y avoir terminé ses études secondaires. En
, il part pour Téhéran et devient enseignant aux environs de la capitale. Il participe
activement au mouvement de la nationalisation du pétrole. Après le coup d’Etat de , il
est arrêté et emprisonné pour plusieurs années. A sa libération, il se consacre entièrement à
ses activités littéraires. Reconnu comme un des plus grands poètes iraniens de son époque,
mais miné par le diabète, il s’éteint à Téhéran le  août . On l’enterre à Tus, près de
Méched, non loin du tombeau de Ferdowsi.
 Hamid Reza Shairi

tionne comme un opérateur qui dénaturalise le monde d’intersubjectivité


et qui aboutit à la transformation de toutes les haleines en mur.
(Shairi , p. )

« L’hiver » d’Akhavan fait ainsi disparaître toutes les valeurs vir-


tuelles susceptibles de procurer une garantie à la formation d’éventuels
sujets caractérisés par l’activation, l’intentionnalité et la visée percep-
tivo–somatique.
L’haleine qui s’exhale des poitrines ardentes
Se transforme en sombres nuages,
Et semblable à un mur, est dressé contre tes yeux.
Avec une telle haleine
Que peux–tu espérer des amis proches ou lointains ? »
(Akhvan–e Talet , pp. –)

Sans vouloir effectuer une analyse détaillée de l’ensemble de ce


poème, ce qui ne constitue pas d’ailleurs l’objectif principal de cet
article, nous voudrions insister sur le fait que l’extase intervient chez
Akhavan au moment où le froid total domine et que toutes les portes
de l’espoir se ferment. Nous identifions cette instance singulière à
une forme de la présentification de l’absence par un retour à l’origine
ontologique de l’être définie ici comme l’essence de la vie : l’eau de
la vie en persan. Contrairement à Mawlānā, le poète classique, pour
qui seulement une mort symbolique pouvait sauver le sens de la
vie et faire accéder à l’extase, pour Akhavan l’intrusion dans la vie
et par définition dans l’extase n’est possible que par la négation de
la mort effective (l’Hiver) et le retour à la source vitale : l’eau de la
vie identifiable au Vin. Mais pour atteindre l’eau de la vie, il y a une
condition : il faut pouvoir pénétrer le lieu sublime où le « feu » de la
vie brise le mur glacial.
O Messie, mon généreux sauveur !
O sage chrétien à la chemise souillée !
O . . . l’air est si impitoyablement glacé . . .
Que ton haleine soit exaltée ! Que ta joie demeure !
O ouvre–moi la porte, répond à mon salut.
[. . . ]
O compagnon ! Allume le feu du Vin.
La nuit et le jour ne font qu’un.
(Akhavan–Saless , p. )
Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

Nous sommes en présence d’un Espace–Temps ontologique qui


mérite une certaine explication. En ce qui concerne l’espace et son
rapport à l’extase, contrairement à la figure–Hiver dont le domaine
s’avère très étendu (« les portes fermées ») et qui se caractérise par un
espace diffus et multiple (« aux mille détours »), la Taverne (l’espace
du généreux chrétien) est un espace condensé qui n’a qu’une seule
porte ; mais elle est prometteuse étant donné qu’elle est habitée par le
« Sauveur ». Quant au temps, on peut remarquer que le passage d’une
« présence ressassée » à une « présence nouvelle » évoque la naissance
d’un nouveau temps qui nie le temps de l’Hiver par la chaleur du
Vin. Cette sensation d’un nouveau temps ressortit au fait que le Vin
peut nourrir le sujet naissant tout comme le lait maternel nourrit un
nouveau né dont la vie en dépend. Selon H. Parret :« le sens même —
marqué d’emblée par Temps — prend son origine dans le sein : sucer
le lait maternel, c’est temporaliser, c’est se créer la présence tripartite
du passé, du présent et du futur. Le lait maternel est symphonique »
(Parret , p. ).
On peut ainsi croire que le vin akhavanien s’identifie à ce lait à
partir duquel naît une nouvelle présence, un nouveau temps et un
nouveau sujet. « Allumer le feu du Vin », c’est créer un nouveau Temps
à l’intérieur du Temps–Hiver par le fait de briser le mur glacial. G.
Molinié rallierait ce mouvement de création à un ressentiment de
jouissance qui s’actualise par une activité somatique nourrie dans un
ressentiment biologique : « Le ressentiment de jouissance est ainsi
en affinité avec une sensation biologique, au sens d’une dimension
somatique profonde, intérieure, indominable : un mouvement de la
vie, c’est–à–dire forcément de la vie du corps » (Molinié , p. ).
Mais la jouissance persane telle que nous la comprenons à travers
sa poésie, va au–delà de cette vie du corps pour devenir un corps
extatique, c’est–à–dire dématérialisé. Avec ce corps est engendré du
sens, mais du sens sensible puisque l’expérience extatique du sujet
consiste à accéder à la source ontologique de la vie : se ressources
dans l’eau de la vie. Après tout, Akhavan reste fidèle à ses ancêtres
étant donné qu’il conçoit le « Vin » comme ce qui favorise le passage
d’un Espace–Temps usé et insensé à un Espace–Temps sublime et
transcendantal qui signifie par la dématérialisation de la présence et
de la chair substantielle.
 Hamid Reza Shairi

Ni blanc ni noir, je suis d’une couleur sans couleur


(Akhavan–Saless , p. )

On peut aussi comparer cette tentative extatique d’Akhavan à celle


de Baudelaire qui déclare :
Pour n’être pas les esclaves martyrisés du temps, enivrez–vous ; enivrez–vous
sans cesse ! De vin, de Poésie ou de vertu.
(Baudelaire , p. )

. Conclusion

Pour la poésie persane l’extase se pose comme une tentative de se


débarrasser du corps matériel. Cette dématérialisation du corps–chair
ne fonctionne pas exactement de la même façon dans la poésie clas-
sique et contemporaine. Alors que la première opte pour une mort
symbolique qui vise la fusion avec l’être à partir d’une dissolution du
sujet et d’une passion du sublime, la deuxième s’initie à l’extase soit
par une exclusivité de l’ordre du survenir dans le cas de Sépehri, soit
par une voie active qui rejette l’incommunicabilité et l’absence gla-
ciale de la participation, dans le cas d’Akhavan–Saless. En effet, l’extase
classique emprunte un itinéraire tensif qui est responsable de la per-
fection du sujet étant donné qu’elle fonctionne par la soudaineté de la
présence qui s’obtient par le biais de la brièveté du temps en intersec-
tion avec la rapidité de l’événement. Une telle intensité ne peut pas se
réaliser sans l’abandon de la chair substantielle. L’extase contempo-
raine se sert de la tensivité de deux manières distinctes : soit comme
une exclusivité fondée sur le survenir : le sujet extatique est alors
un être en perfection puisqu’il se détache du commun et s’introduit
dans l’extraordinaire; nous sommes ainsi devant la valeur intensive
du champ de la présence ; soit comme un rejet de l’exclusivité et la
négation de l’incommunicabilité par la recherche d’un Espace–Temps
Sauveur qui prépare le retour à la source vitale par l’accès à l’eau de la
vie. Un tel accès ne peut pas se réaliser si la porte de la Taverne habitée
par le Sauveur et le Généreux ne s’ouvre pas. Cette intrusion dans
l’espace de l’autre met fin à l’arrêt de la participation et correspond
donc à une valeur extensive du champ de la présence qui est une autre
condition d’accès à l’état extatique.
Étude de la dimension sémiotique de l’extase 

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Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/97888548739406
pag. 115–133 (luglio 2014)

Extase féminine
Le cas de Rabia al Adaouia

M B

 : Female Ecstasy: the case of Rabia al Adaouia

: The first Muslim mystic female, Raba Al Adaouia is a distin-


guished figure in the religious literature of Middle–Age. Her life and
works, full of legends, have a great signification in the Arab–Muslim
culture. She is not only the first lady who speaks to god freely, but also
the first woman who has considered no limits in her way to declare her
love and passion. This free and unconditional address to God is of a great
interest for us from a semiotic and gender perspective. Questioning this
issue within the strict semiotics of culture framework will be fruitful;
it will uncover the codes and the imaginary at work in this singular
literature.

: Islam; Raba al Adaouia; mystic; gender; ecstasy; semiosphere.

Avant d’exposer le cadre théorique dans lequel s’inscrit cette étude,


une mise au point sur l’auteur s’impose : Rabia al Adaouia. Les biogra-
phies enregistrent un désaccord assez déconcertant quant à la date de
naissance de Rabia al Adaouia et quant au lieu ; mais s’accordent plus
ou moins sur le fait que sa naissance peut être située aux alentours de
la deuxième moitié du deuxième siècle de l’hégire, c’est–à–dire à peu
près vers le milieu du VIIIème siècle. Des lettrés comme Al Jahiz en
parle dans Al Bayane Wa Tabieen et nous laisse croire qu’il a pu la voir
quand il était enfant (, pp. –). Ibn Khallikaan en parle dans Wa-
fayaat Al ayane (Ibn Khallikaan s.d., vol. , pp. –) et d’autres aussi,
mais le fait est que la plupart de ces biographes ne s’embarrassent
pas de rajouter des éléments et qu’aucun souci de précision n’anime
les informations qu’ils donnent sur Rabia al Adaouia. La majorité
des biographes s’accordent cependant à admettre l’origine modeste,


 Mohamed Bernoussi

voire pauvre de l’intéressée et racontent plusieurs anecdotes illustrant


la misère et l’indigence dans lesquelles se trouvaient ses parents au
moment de sa naissance.
Un autre sujet de discorde des biographes concerne une première
partie de sa vie, celle d’avant la période pieuse ; certains distinguent
entre deux périodes : une première période de plaisirs et de débauche
où Rabia était esclave, jouait de la musique et participait aux fêtes et
aux assemblées sulfureuses — qui caractérisaient à cette époque la
vie nocturne de Basra ; et une autre époque de piété et de chasteté
qui couvre tout le reste de sa vie, ponctuée de miracles et de faits
extraordinaires. Les biographes affirment unanimement que Rabia
était en contact avec des soufies comme Hayouna, Malik ben Dinaar,
Ibrahim ben Adham, Soufiane Attaouri entre autres, et qu’elle a ef-
fectué le pèlerinage plusieurs fois. Ces pèlerinages sont essentiels,
car ils sont chaque fois l’occasion de mettre en valeur la piété de
l’intéressée, la force de son caractère ou l’originalité de son adresse à
Dieu. Nous reviendrons plus loin sur ces pèlerinages, car ils mettent en
scène des modèles de piété qui seront vite reproduits et standardisés
dans la culture arabo–musulmane, au point de générer des types qui
perdurent jusqu’à nos jours.
Avant d’aborder la problématique qui nous intéresse ici, il est d’une
extrême importance de parler du cadre d’analyse que nous retenons :
la sémiotique de la culture.
Voici le cadre théorique dans lequel je m’inscris ; il concerne le
point de vue sémiotique : les sociétés s’expriment et s’organisent à
travers des signes, lus précisément à travers divers types de textes.
C’est le principe de documentabilité (textes qui tiennent lieu de traces,
de lois, d’ordres...). Ce qui est désormais privilégié, c’est une approche
déductive de la culture, c’est–à–dire partir des textes pour arriver à
la culture. Cette position textualiste conduit cependant à deux ex-
clusions : ) Exclure la culture comme ensemble de représentations
idéales mentales. ) Exclure la culture comme expérience en acte. Le
culturel ne relève ni du domaine du ressenti ni de celui du vécu. Ce qui
est culturel, c’est ce qui peut être transformé en schèmes standardisés
. Je dois préciser que j’adopte complètement le point de vue de Anna–Maria Lorusso
 et certaines idées de Gianfranco Marrone développées dans son dernier ouvrage et
que ma position n’a guère changé depuis le deuxième congrès de l’association marocaine
de sémiotique tenu à la Faculté des lettres de Meknès en .
Extase féminine 

et partagés socialement. L’expérience devient ainsi matière d’une sé-


miotique de la culture lorsqu’elle montre une dimension mémorable,
communicative et intersubjective. Je rappelle ici la définition donnée
par Lotman de la culture : « l’ensemble de toutes les informations
non héréditaires et des moyens de son organisation et de sa conser-
vation » (cité par Lorusso  en Lotman et Uspenskij , p. ).
Le texte est un dispositif informatif. Les éléments qui définissent la
culture selon Lotman sont deux : l’échange et la transmission. Pour
fonctionner, la culture doit avoir deux objectifs : produire des conte-
nus et les transmettre soit synchroniquement (communication) soit
diachroniquement (mémoire).
C’est dire ici l’importance du contexte, voire sa priorité dans ses
approches. Nous verrons comment le sens de l’œuvre de Rabia se
détermine dans la tension constructive entre la structure textuelle
interne et les structures culturelles externes ou l’encyclopédie im-
médiate. Mais au lieu de chercher l’explication des textes dans ces
contextes, nous nous efforcerons de reconstruire des modèles an-
thropologiques plus amples à partir d’analyses menues. Les grands
modèles culturels peuvent ainsi être reconstruits à partir de textes. Et
ceux de Rabia, que ce soit ses poèmes ou ses miracles, ont réussi à
mettre en place des modèles de comportements qui perdurent jusqu’à
nos jours.
Dans cette perspective, la culture est un ensemble de textes où
le référent du premier devient signifié du second et ainsi de suite à
l’infini. C’est la sémiosphère. La culture n’est pas une donnée figée,
mais une trame dynamique entre la langue et le monde plus ample,
qui est lui–même une langue ou un texte à caractère narratif, qui
décide par exemple de ce qui est le plus important : l’image ou la
parole? Quel rôle donner à l’oral vs l’écrit ? Quelle importance donner
à la vie intérieure ou extérieure, à la chose ou au signe ? etc.
La semiosphère, c’est–à–dire la culture, est faite de relations consti-
tuées par ces strates dont parle Lotman. La semiosphère fonctionne et
peut fonctionner lorsqu’elle reçoit des stimuli du monde extratextuel
: la réalité. L’information ne peut traverser les couches et les strates
de la semiosphère sans changement ou mutation d’ordre traductif
(reformulation). Les membranes qui protègent un certain organisme
culturel sont appelées par Lotman des filtres de traduction. Leur fonc-
tion est de filtrer et d’adapter. Le filtrage ne se fait pas seulement au
 Mohamed Bernoussi

niveau de ce qui est extérieur, mais à l’intérieur même. Le conflit


intérieur/extérieur existe aussi en termes temporels (les langues et la
mode n’évoluent pas de la même façon). Car la culture est formée de
strates qui se développent à des vitesses variées. Cela va de la lenteur
à l’explosion imprévue d’un changement. Ces explosions expriment la
nécessité de réorganiser le système. Ce sont des coups de théâtre, mais
des moments propices à l’auto–connaissance, ce sont des moments
de grande ‘informativité’.
Ce qui caractérise aussi la semiosphère, c’est la mémoire ; non
comme archive du passé, mais comme travail constant de redéfinition
du passé et de sa traduction dans le présent. Le fait mémorable est
un signifié stratégique. La mémoire de Rabia est à cet égard d’une
grande importance, il serait intéressant de voir comment, selon le
contexte et selon les micro–cultures locales, des pans de la vie de Rabia
ont été valorisés tandis que d’autres tout simplement narcotisés en
attendant des circonstances plus favorables. Une étude sur la mémoire
de Rabia Al Adaouia au Maroc ou dans le monde arabe serait d’un
grand intérêt.
Le moment est venu maintenant de parler de cette sémiotique de
la culture dans le cadre du discours adressé à Dieu et dans le cas plus
précis de Rabia Al Adaouia. La sémiotique de l’extase, objet du présent
volume, fait partie de ce qu’on appelle communément la sémiotique
de la révélation.
Les questions que pose la sémiotique aux diverses manifestations et
aux divers acteurs ou actants du sens sont strictement préoccupées par
un seul et unique souci : décrire les aspects formels et idéologiques
du discours de et sur l’extase. Dans le cadre de la présente étude, c’est
le discours adressé par une femme à Dieu qui nous intéresse et qui va
faire l’objet d’une interrogation strictement sémiotique. La sémiosis
soufie de Rabia al Adaouia peut être approchée à travers l’analyse de
deux systèmes sémiotiques, chacun à part. Le premier système sémio-
tique concerne les dires et souvent les vers chantés par l’intéressée à
l’adresse de Dieu. Ces vers et ces dires appartiennent et entretiennent
des liens intertextuels qui remontent à diverses traditions de la litté-
rature arabe ainsi qu’à d’autres types de littératures qui vont substan-
tiellement influencer la culture conquérante arabo–musulmane. Leur
analyse se pose comme objectif de déterminer la part de mimésis ou
d’écart, ou pour reproduire la fameuse dichotomie d’Umberto Eco,
Extase féminine 

la Ratio facilis et la ratio difficilis, d’un côté ; de l’autre, le fait que le


destinataire soit Dieu inscrit ces dires et ces vers dans une dimension
à part et nous invite à nous interroger sur l’adresse à Dieu, sur ses
particularités et sur l’incidence du sexe du destinateur. Autrement
dit, si Rabia avait été un homme, se serait–il adressé à Dieu de la
même façon, avec les mêmes termes et avec la même liberté ? C’est
une question d’une extrême importance, car lorsqu’on voit le sort
de certains soufis qui s’étaient aventurés à désirer de s’unir à Dieu et
qu’on voit le sort réservé à Rabia, on peut se demander si le genre ne
joue pas ici un rôle déterminant.

. L’œuvre littéraire de Rabia

L’œuvre de Rabia Al Adaouia pose de sérieux problèmes aux cher-


cheurs. Les vers laissés ou attribués à elle sont en nombre assez im-
portants pour faire l’objet d’une étude susceptible de donner une idée
complète de la représentation et des sentiments qui animent leur au-
teur ; cette œuvre, cependant, n’a jamais fait l’objet d’aucune édition
critique et à l’heure où nous écrivons ces lignes, aucun recueil n’offre
un texte établi digne de ce nom. Ce qui existe et ce qui circule, c’est
un ensemble de textes attribués à Rabia Al Adaouia qui exigent un
vrai travail pour en démontrer la variété et la multiplicité des sources
Il y a à cela plusieurs raisons ; la première typique de la culture
arabo–musulmane, qui privilégie l’oralité sur l’écrit ; la seconde est
relative au statut de leur auteur présumé : Rabia n’a jamais exprimé la
moindre prétention à laisser ou à vouloir cultiver une œuvre, pour la
simple et unique raison qu’elle a renoncé à posséder ou à laisser quoi
que ce soit. Laisser une œuvre fait partie des vanités de ce monde.
Nous allons donc travailler sur des fragments attribués à Rabia et sans
aucun doute rafraichis au cours des siècles par de nombreux auteurs
anonymes. Les principes d’analyse sont essentiellement ceux utilisés
dans l’analyse de tout discours.
Comme nous l’avons dit au départ, ce qui fait l’intérêt de ces vers,
c’est leur adresse à Dieu. Adresse d’une rare liberté et qui parfois
rompt avec les textes dont elle semble se réclamer, notamment le
Coran. Comme exemple d’illustration, nous citons ces vers :
 Mohamed Bernoussi

Je t’aime d’amour passion et d’amour pour toi, le seul qui le


mérite
L’amour passion m’empêche de ne penser qu’à toi
Et l’amour pour toi brûle de te voir
Je ne me flatte ni de l’un ni de l’autre, mais des deux à la fois.
(Cité par Khadr , p. )

Ici Rabia distingue l’amour passion et l’amour de l’autre ou de


Dieu pour lui–même ; cette dernière option implique de renoncer aux
autres et à la communauté et de se consacrer à l’amour de Dieu pour
lui–même. C’est la première fois dans la culture arabo–musulmane
qu’une telle façon d’aimer Dieu est promue. Rabia est la première à
avoir ouvert une nouvelle voie qui bifurque de la crainte de Dieu vers
une autre tout à fait nouvelle, celle de l’amour de Dieu. En même
temps aimer l’autre pour lui–même n’est pas aussi désintéressé qu’on
le croit. Dans le troisième vers, Rabia précise que cet amour a un
but, voir Dieu et jouir de sa présence, voire même s’unir à lui. Cette
adresse a des présupposés qui ne sont pas toujours en conformité avec
le contexte culturel ou pour être plus précis avec des textes canoniques
comme le Coran. Parmi ces présupposés, nous retrouvons une certaine
égalité, du moins le refus de ce rapport de créateur à créé ou à soumis,
tel qu’il existe par exemple en Islam. Vouloir s’unir à Dieu, c’est aspirer
à gommer cette différence et à réaliser une certaine égalité.
Dans d’autres vers, Rabia s’exprime d’une façon qui rompt avec
l’image d’un Dieu omniprésent, désincarné tel que les textes cano-
niques le présentent. Désormais, c’est un Dieu contenu, limité, consi-
déré par et pour lui–même, et somme toute dépouillé de tout ce
qui fait sa puissance, c’est–à–dire le monde ; s’adressant à Dieu elle
chante :

Je t’ai mis dans mon cœur comme seul interlocuteur


Et autorisé mon corps à qui veut m’accompagner
Le corps est pour le compagnon
Et le chéri du cœur en est le seul élu.
(Ibidem, p. )

. Les textes cités ici de Rabia renvoient à la même édition utilisée par l’étude la plus
récente, celle de Khadr . Comme nous l’avons dit plus haut, le texte de Rabia reste à
établir ; nous espérons nous acquitter de cette tâche dans un avenir très proche.
Extase féminine 

Dans cette volonté de se démarquer des pratiques religieuses consa-


crées et de ce qui les motive, Rabia va parfois très loin : « Je n’ai jamais
prié Dieu par crainte, comme ses esclaves de malheur que seule la
peur fait bouger, ni par désir du paradis, comme l’esclave de malheur
que seule la cupidité fait agir, mais je le prie par amour et par désir de
lui. » (Ibidem, p. )
Ce qui retient l’attention dans ce discours à dominante concessive,
c’est la volonté de Rabia de se démarquer — et inévitablement —
de sembler critiquer une encyclopédie religieuse dont la crainte de
Dieu et le désir de jouir de son paradis constituent pour ainsi dire la
pierre angulaire. Le terme esclave renforcé par le syntagme adjectival
« de malheur » renforce la condamnation d’une certaine idée de la
religion basée plus sur la crainte, la cupidité ou l’asservissement que
sur la responsabilisation, la liberté ou la réalisation de soi. Pour Rabia,
la religion est ce qui libère, aimer Dieu, ce n’est pas le craindre ni
lorgner sur ce qu’il promet, autrement ce serait pécher par cupidité ;
aimer Dieu, c’est désirer le connaître, se rapprocher de lui et profiter
de sa perfection pour mieux se connaître et gagner en perfection.
Dans ce désir sincère de perfection et de connaissance il arrive à notre
mystique d’avoir des propos un peu durs adressés à Dieu. On lui prête
ces sorties d’une rare audace dans la culture arabo–musulmane :

Dieu, vous n’avez rien trouvé à part l’enfer pour punir les gens ?
C’est ainsi que tu traites les démunis comme moi ?
Comment peux–tu mettre en enfer un cœur qui t’aime ?
(Ibidem, p. )

Cet écart continue dans des propos d’une profonde conviction et où


émane une puissante sensibilité de l’éphémère et de la mort. Comme
exemple d’illustration, ces propos adressés à Soufiane Attaouri, un ami
mystique : « Tu n’es rien qu’un nombre de jours comptés, lorsqu’un
jour passe, une partie de toi passe et lorsqu’une partie passe, le tout
risque de suivre et tu le sais, alors agis ! » (Ibidem, p. )
Il y a ici une puissante volonté de se démarquer par rapport à
nombre de textes de l’encyclopédie musulmane qui insistent sur
l’équilibre à réaliser entre la vie terrestre et l’au–delà, notamment
ces propos du prophète largement relayés dans la culture arabo–mu-
sulmane : « vis ta vie terrestre comme si tu étais immortel, et prépare ta
 Mohamed Bernoussi

vie dans l’au–delà comme si tu allais mourir le lendemain ». L’islam a


insisté sur les plaisirs de la vie terrestre et sur le bonheur d’en profiter ;
la tradition du prophète a condamné explicitement tout extrémisme
et tout renoncement aux plaisirs créés par Dieu ici bas. Les propos
du prophète menacent d’excommunier quiconque ne respecte pas
cet équilibre. On se souviendra des paroles célèbres adressées par
le prophète à des ermites venant se vanter auprès de lui pour leurs
prières et leur jeûne continus : « Moi je prie partiellement, je jeûne
partiellement et je jouis des plaisirs créés par Dieu, quiconque ne
respecte pas ma tradition ne doit plus se réclamer de moi » .
Pour Rabia, Dieu est tout et le renoncement à tous les plaisirs
de la terre doit ratifier cette anéantissement du sujet, même si le
prophète et sa tradition avaient affirmé le contraire à maintes reprises.
Ce n’est pas la première fois que Rabia exprime des propos qui ne
vont pas dans le sens de la tradition du prophète et on serait tenté d’y
voir même une sorte d’anti–sunnisme, s’il y avait des preuves ou des
propos allant dans le sens d’une sensibilité anti–sunnite. Il nous suffit
de dire ici que souvent, lorsque Rabia est invitée à s’exprimer sur le
prophète, elle reste ambigüe ; à quelqu’un qui lui demande si elle
aime le prophète, elle répond : « L’amour de Dieu m’a préoccupée
de l’amour des mortels ».
De ces quelques fragments analysés de Rabia se dégage les caracté-
ristiques suivantes d’un discours qui se distingue sur le plan formel par
sa simplicité, qui privilégie la forme brève, discrètement proverbiale,
des mots et des phrases simples, ainsi qu’un style dépouillé, pour ne
pas dire nu, usant la prétérition comme principale figure. Ce même
style simple sert des idées tout aussi simples et convergeant vers un
seul et unique but : l’amour de Dieu. Mais cette simplicité et ce but
noble, et c’est là que réside sa force, produisent des effets de la plus
haute importance : se démarquer et s’écarter des discours canoniques
en amenant quelque chose de nouveau, à savoir la promotion de l’être
aimant ou de l’individu aimant et la réalisation du moi dans l’amour
de Dieu. Le succès d’un tel discours réside dans sa simplicité et dans
son originalité, un contenu révolutionnaire dans une forme facile à

. C’est un haddith qui est célèbre et qui comporte plusieurs variantes. Ici, le prophète
ne fait que confirmer les propos de Dieu dans le Coran, par exemple : « O Fidèles! ne
boudez jamais les plaisirs que Dieu vous a donnés.»(Verset al Maida, sourate ).
Extase féminine 

retenir et d’apparence naïve, déjouant toute censure. Ce n’est donc


pas étonnant si un tel discours ait été relayé par des anecdotes sur la
vie de l’intéressée et sur ses comportements.

. Les anecdotes et les miracles de Rabia comme textes

Le second système sémiotique à analyser est celui du comportement


de Rabia al Adaouia et des diverses anecdotes qui vont être transmises
et colportées à travers les siècles jusqu’à nos jours. Ces anecdotes
et ces comportements gagneraient à être mieux compris si on les
considère comme des textes , c’est–à–dire des systèmes hyper–codés
qui ont une cohérence, une cohésion et une idéologie. Ici nous nous
inspirerons étroitement de l’analyse donnée par Jourij Lotman aux
décabristes et de notre propre analyse ( ; ) des saints maro-
cains comme Moulay Abquader Jilali, Sidi Hmed tijani et sidi Rahhal.
Ces comportements vont engendrer des textes qui vont à leur tour
donner lieu à des comportements et ainsi de suite.
Nous donnerons ici quelques exemples, sachant que le sujet mérite
une étude à part qui établirait dans un premier temps le corpus inté-
gral des anecdotes concernant Rabia, avant de les soumettre à une
analyse détaillée.
Le premier exemple concerne la performance du genre, c’est–à–dire
le type de femme que ces anecdotes colportées jusqu’à nos jours
donnent de Rabia.
Il y a plusieurs récits qui mettent en avant sous presque la même
forme deux types féminins. Le premier relatif à la femme soucieuse
de combler son mari et de satisfaire ses besoins, Rabia y pose la même
question : « alaka haaja ? » [« as–tu un besoin ? »] (Khadr , p. ); le
second type est relatif à la femme pieuse ; d’où la structure canonique
de ces récits : le soir venu, Rabia se parfume et va voir son mari lui
demandant s’il a une envie. Après avoir satisfait son envie, elle se
consacre toute la nuit à prier Dieu. Dans le premier type promue par
ces anecdotes, la femme existe pour satisfaire les besoins sexuels de
son mari. Ses besoins à elle, ils n’existent pas. Ce n’est pas qu’elle n’a

. Pour de plus amples réflexions sur les vertus heuristiques d’une conception aussi
large du texte, voir Marrone  et .
 Mohamed Bernoussi

pas de sexualité ; elle en a une, mais seulement dans deux corpus : le


premier relatif à la littérature érotique et pornographique qui a fleuri
pendant plusieurs siècles. Littérature très importante qui mérite une
étude sérieuse à part, car elle nous renseignerait sur le désir féminin
tel que les hommes se l’imaginent et continuent à se l’imaginer grâce
au succès de cette littérature et à la fidélité d’un lectorat qui, à son tour,
a largement contribué à entretenir un tel imaginaire. Le deuxième
corpus où le désir féminin a droit de cité, est le corpus juridique
ou casuistique. Dans l’un, les textes stipulent que la femme peut
demander le divorce si son mari ne la satisfait pas, dans l’autre, la
femme est un être à surveiller constamment, car faible de caractère et
insatiable.
Remarquons que dans les deux corpus, le désir des femmes est une
affaire des hommes, fantasmagorique dans le premier, car il surinter-
prète ce désir. Ce qui en dit long sur l’angoisse qu’il suscite par rapport
à la libido arabo–musulmane mâle d’alors ; pervers dans le second
corpus, car dans la littérature juridique, il permet d’obtenir le divorce,
qui est, comme nous le savons, plus une sanction qu’une délivrance,
mise à part quelques cas d’exception, et permet dans la littérature
casuistique de limiter considérablement la liberté des femmes et de
les soumettre à la tutelle de l’homme.
Dans une autre anecdote, le mari de Rabia raconte qu’elle s’occupait
bien de lui, lui permettait tout et l’encourageait même à se remarier ;
parfois même elle le nourrissait avec de la bonne viande et l’envoyait
illico voir ses autres femmes ; je cite « elle me nourrissait de viande
et me demandait d’aller voir mes femmes » (Khadr , p. ). De
telles anecdotes nous intéressent particulièrement pour leur valeur
romanesque. Nous y retrouvons les procédés et les repères habituels
du récit érotique ou pornographique : disponibilité, compréhension
et satisfaction des envies immédiates masculines, mais plus important
encore, le type de la femme pieuse semble un prétexte pour promou-
voir le premier, la femme disponible et compréhensive. Tous ces récits

. La littérature pornographique en général n’est pas un sujet facile à traiter ; sur


la littérature pornographique arabe très peu de choses ont été réalisées, mais restent
décevantes, car soit trop descriptives, soit pas assez distantes de leur sujet ; ce n’est pas
seulement propre aux critiques arabes, mais c’est le cas aussi des critiques occidentaux ; en
France par exemple, la seule étude à mon sens sérieuse sur cette question a été faite par
Jean Goulemot ().
Extase féminine 

mettent en scène une femme belle et disponible aux désirs de son mari
qui rappelle un type de femme très présent dans la littérature érotique
et dans nombre d’ouvrages doxatiques sur les qualités sexuelles et
morales de la parfaite épouse . Comme dans cette littérature, ce qui
est mis en avant, c’est la disponibilité des corps. La piété et la prière
viennent après et peuvent même être vues comme une espèce de
faire valoir de la disponibilité et de la spontanéité des corps. C’est
comme si le discours de l’extase servait ou faisait office de faire valoir
d’un autre discours, celui de la sexualité (masculine). C’est un procédé
qui est et sera par la suite largement utilisé dans la littérature érotique
arabo–musulmane, caractérisée souvent par des passages de textes
sacrées qui ouvraient des chapitres qui n’ont pour ainsi dire rien de
sacré et qui sont plutôt des sommes épicées sur le désordre occasionné
par des corps enflammés de désirs .
Mais d’autres anecdotes nous intriguent par le type nouveau de
femme qu’ils mettent en scène et qui était jusqu’alors nouveau, voire
original. Un exemple pour illustrer cela. Lorsque son mari est mort et
à la fin de la période de deuil, des hommes sont venus lui demander
de choisir un mari parmi eux. Rabia a accepté à une condition, qu’ils
répondent à ses questions qui tournaient toutes autour du jugement
dernier. Le prétendant répond à chaque fois qu’il ne sait pas et que
seul Dieu sait. Et Rabia de répondre : « puisque je suis insatisfaite de
tes réponses , tu comprends pourquoi j’ai choisi Dieu ».
Dans cette anecdote, le comportement de Rabia exprime par des
moyens détournés une remise en question et un refus d’un code
culturel typique de la société arabo–musulmane d’alors : celui de la
nécessité pour la veuve, surtout quand elle est belle, de se remarier
aussitôt et de ne rester célibataire sous aucun prétexte. Rabia choisit
Dieu à la place des hommes, avance sa soif de métaphysique comme
argument de force contre la volonté des hommes de cette société.
Elle réussit à imposer son choix à une culture et à une société dans
laquelle l’initiative n’est pas de l’individu mais de la communauté des
hommes.

. Voir un texte fondateur de ce genre, Kitab Adab Annisae, en arabe, de Abdelali bnou
Habib () particulièrement le chapitre sur les devoirs sexuels de la parfaite épouse
envers son mari.
. Voir à ce sujet, le texte d’un des pionniers de ce genre de questions au Maroc, à
savoir Abdlekébir Khatibi, La Blessure du nom propre ().
 Mohamed Bernoussi

D’autres récits focalisent sur les pouvoirs surnaturels de cette


femme en énumérant sa façon de commander à distance, de dépla-
cer des objets, ou même de créer les choses en les nommant ou en
exprimant leur manque. Ce sont des pouvoirs surnaturels qui mé-
ritent qu’on s’y attarde dans une étude à part pour montrer les liens
intertextuels étroits qu’ils entretiennent avec la littérature populaire
fantastique arabe, notamment avec un texte célèbre de cette même
littérature, à savoir Sirat Seif bnou diyazan[Geste de Seif bnou Diyazan].
C’est–à–dire par rapport à des textes qui sont postérieurs ; ce qui rend
la thèse du colportage encore plus crédible. Parfois l’ambition de ces
récits est de montrer le soutien total de Dieu à l’intéressé, au point
d’exercer les mêmes pouvoirs que ce dernier. Rabia fait exister les
choses en les nommant ; dans les miracles qu’on lui attribue, des
choses se créent par le simple fait qu’elle les désigne par leur nom.
Dans ces miracles, le culinaire occupe une place de choix. Ces
miracles ont dans la plupart des cas le même schéma ; ayant très peu
de nourriture, Rabia préfère la donner ou la partager, mais elle est
aussitôt récompensée par une manne envoyée par Dieu via quelques
seigneurs. Nous en donnons ici un exemple. On raconte qu’un jour
Rabia s’apprêtait à offrir deux galettes à des ermites venus lui rendre
visite lorsqu’un mendiant frappa à sa porte. Sans hésiter, Rabia lui
donne les deux galettes et s’adressant à Dieu lui rappelle que dans
le Coran l’aumône est multipliée par dix. Aussitôt une femme frappe
à sa porte de nouveau et lui apporte  galettes comme don de son
seigneur. Rabia les refuse et renvoie la dame qui lui ramène finalement
vingt galettes. Lorsque par la suite, on lui demande pourquoi elle a
rejeté les  galettes, elle répond que soit il manquait deux galettes
soit ce n’était pas pour elle.
Cette anecdote comme les autres usent de la forme du récit et font
appel au bon sens du peuple pour faire passer des messages édifiants
; elles tendent à encourager la charité et la générosité via des récits
où chaque fois que l’on donne, on est récompensé par une quantité
supérieure en retour. Le thème du miracle culinaire ou de la manne
est un thème très présent dans la religion musulmane et dans les
autres religions révélées dans le désert. Parmi les sujets que Rabia
donne à lire à travers ses comportements ou ses anecdotes, il y a la
force du caractère qui consiste par exemple à tenir tête aux hommes,
à les contredire ou à triompher d’eux par la qualité du jugement et
Extase féminine 

de l’argumentation, la force du caractère qui consiste à s’adresser


à Dieu d’égal à égal, voire à lui faire des reproches. L’extase sert
dans toutes ces confrontations de subtil outil de protestation et de
revendication. Dans toutes ces anecdotes nous retenons trois actants :
Dieu, Rabia et les hommes. Rabia se sert de Dieu pour régler certaines
choses ; c’est une extase instrumentalisée ou mobilisée pour résister
aux contraintes et remettre en question certains impératifs que la
société ou la collectivité impose, elle favorise l’épanouissement et la
liberté de l’individu.
L’extase permet de se soustraire à la situation de soumis à la volonté
de Dieu telle que le texte musulman l’a instituée. L’esclave de Dieu
ou le musulman doit accepter tout ce qui vient de Dieu et ne point
discuter. Or comme nous l’avons vu dans l’anecdote des  galettes
devenues vingt, Rabia est pointilleuse sur ces questions et y oppose
son point de vue. Ce qui la place comme une sorte de justicier entre
Dieu et les hommes : elle donne les deux galettes puis rappelle à Dieu
ce qu’il a dit : « une œuvre de bienfaisance est récompensée dix par
Dieu » ; mais par la suite, elle renvoie les dix huit galettes, car soit
ce n’est pas pour elle soit on en a enlevé deux. Par son refus, elle
tend à réparer une injustice ; elle agit comme une sorte de justicier,
sensible au dû et attentif aux promesses du seigneur. Ce sont des
qualités qui avaient beaucoup de succès à cette époque, c’est–à–dire
dans une société musulmane où les nombreuses classes moyennes
et populaires commençaient à perdre patience et traduisaient cela à
travers divers mouvements de protestation et de revendication.
L’analyse des vers montre qu’il s’agit d’un discours essentiellement
amoureux, mais qui fait de cette amour et de la difficulté à l’énoncer
un instrument pour se démarquer par rapport à d’autres discours
à d’autres textes relatifs à la religion, mais relatifs aussi à l’individu,
à la justice sociale ou à la situation de la femme. Mais cette union
est quelque peu problématique, car elle ne vise pas une quelconque
union débouchant sur le couronnement de toute proximité avec Dieu,
à savoir la félicité et la paix qui prend souvent la figure de la félicité
du paradis promis, mais bel et bien d’une union visant le bonheur de
jouir d’être le plus proche de Dieu et de jouir de sa présence, voire de
se fondre dans cette présence. Et c’est ce qui la rend problématique,
car un tel désir sousentend une certaine égalité, du moins gomme
 Mohamed Bernoussi

ce rapport entre le musulman et Dieu tel que ce dernier l’a précisé


à travers le texte sacré qu’est le Coran et à travers les textes du pro-
phète, cela d’une part. D’autre part, le fait que ce soit une femme
qui exprime ce genre de sentiments rend ce discours davantage pro-
blématique. Dans la société musulmane, la femme n’exprime jamais
ses sentiments, elle est là pour répondre et pour satisfaire les besoins
des autres, c’est–à–dire des hommes. D’ailleurs la femme dans la so-
ciété musulmane de l’époque — et même de nos jours dans certaines
sociétés — n’a pas de sentiments ; elle a des besoins que l’homme
doit satisfaire, comme le stipulent les deux corpus de la littérature
érotique et juridique. Les sentiments de la femme, quand bien même
tolérés, ne doivent pas dépasser la sphère de la vie privée. Montrer
ses sentiments en public est quelque chose que l’islam a banni depuis
son arrivée. Le fait qu’une femme exprime les souffrances et les dou-
leurs causées par son désir ardent de s’unir à Dieu constituait quelque
chose de nouveau. Notons que l’analyse du discours amoureux de
Rabia a montré que ses textes utilisent le même plan d’expression
d’un quelconque texte décrivant un désir ardent aussi bien physique
que spirituel ; le corps est très présent et sa souffrance est bien mise
en scène dans certains poèmes de Rabia Al Adaouia. Le vocabulaire
est celui des divers sentiments allant de la frustration, de la souffrance,
à la délectation et à la jouissance des sens ; la seule différence, c’est
la finalité et l’adresse qui demeurent complètement différentes de
n’importe quelle autre passion physique ou ordinaire.
On l’aura compris, la littérature laissée par Rabia et la pensée, si
pensée il y a, sont d’une extrême simplicité mais leur simplicité est
efficace ; elle permet de bousculer nombre de dogmes et de réaliser
nombre d’écarts ; entreprise qui ne serait peut–être pas passée inaper-
çue si elle avait employé un plan d’expression sophistiquée ou moins
détourné .
. Le mot musulman signifie soumis qui vient d’Islam, c’est–à–dire soumission à Dieu
et à sa volonté, car représentant la meilleure volonté du monde d’ici et de celui de l’au–delà.
. Comme nous l’avions dit, nous sommes à la fin du premier siècle et au dé-
but du deuxième, c’est–à–dire au début de la toute puissante maison de l’Islam ou de
l’Empire musulman déjà très étendue. Source d’enrichissements certes, mais surtout
source d’hétérogénéité parfois très difficile à gérer. La confrontation bien que souvent
biaisée opposait les Arabes (les conquérants) et les autres (les conquis), notamment les
minorités et les classes pauvres qui acceptaient l’Islam, parce que prometteur d’une cer-
taine égalité et d’une certaine liberté, mais qui commençaient à douter de ces promesses
Extase féminine 

Dans la partie consacrée à l’analyse des anecdotes concernant la vie


menée par Rabia, l’analyse de ses comportements a permis de mettre
en évidence que chacun d’eux est doté de cohérence, d’intention et
d’unités (toutes caractéristiques donc du texte) et que pour élaborer
cette auto–description, ils recourent à divers modèles textuels. Nous
avons vu comment certaines anecdotes puisent dans le récit érotique
ou dans la littérature héroïque et populaires de la sira quand ils
n’essaient pas de reproduire les modèles du bon sens et de force de
persuasion du bédouin de l’époque.
Mais la mise en relation de ces comportements avec le reste de la
culture et en rapport avec les effets produits sur ceux qui les observent,
permet de mesurer leur portée critique. Rabia apparaît comme une
excentrique, voire une révolutionnaire. La société et ses normes, le
système de valeurs qui régit la société du Basra de ce VIIIème siècle
n’ont aucune ascendance sur elle. A travers ses agissements, elle donne
à voir une femme qui fait ce qu’elle veut et ce dont elle est convaincue
en totale indifférence vis–à–vis des normes et des valeurs de la société
où elle vit. En plus, de tels écarts semblent plaire au ciel ; la plupart des
comportements ou des anecdotes sont en effet des récits de miracles
qui montrent combien le ciel est solidaire de tels agissements et
combien un tel type de femme plaît à Dieu. Ici la catégorie du type est
essentielle pour nous ; elle est utile pour expliquer la standarisation
opérée par la société et pour comprendre que dans la masse des
variantes, seuls quelques patterns demeurent normatifs. Les types de
comportements conditionnent en effet l’agir individuel des sujets.
De tels types n’ont pas seulement une nature culturelle, mais ils ont
surtout une nature textuelle.

devant l’arrogance et la férocité des gouverneurs arabes. L’espoir de ces classes va dimi-
nuer progressivement et susciter de nombreux mouvements de protestations qui vont
prendre diverses formes allant d’une pensée philosophique et politique qui défend les
limites du pouvoir, par exemple abou darr al Ghiffari [Abou Darr al Ghiffari, célèbre lettré
arabo–musulman connu pour ses idées et ses propos révolutionnaires], à des mouvements
de révolte spontanée comme celle des zinges et des karamitas [zinges désigne les com-
munautés noires musulmanes issues en majorité des esclaves affranchies dès l’arrivée
de l’Islam et karamita désigne un mouvement révolutionnaire issu majoritairement de
paysans opprimés. Voir Mohamed Bernoussi, « La Révolution des zinges et des Karamitas
», Actes du troisième Congrès de l’Association marocaine de sémiotique, Sémiotique et sociétés,
nouvelles approches, nouveaux défis, en préparation].
. Sorte de récit héroïque.
 Mohamed Bernoussi

Cependant cette excentricité et cette liberté, quand bien même


allant à l’encontre des normes et des valeurs de la société, restent
confinées dans un idéal conforme à cette même société à laquelle
elles semblent s’opposer. Rabia est une excentrique mais dans le cadre
stricte d’une religion déterminée : l’Islam. Si parfois elle semble for-
muler des reproches à l’égard de Dieu, c’est dans un but strictement
religieux, c’est–à–dire pour l’aider à mieux servir sa cause et pour
la soutenir contre l’arrogance et le mépris des pèlerins de sexe mas-
culin. Comme l’exprime l’anecdote où pendant le pèlerinage Rabia
demande à Dieu de faire en sorte que son âne ne braille pas et ne la ri-
diculise pas auprès des autres pèlerins mâles. Mais le discours de Rabia
al Adaouia est intéressant par ses implicites ; nous avons l’impression
que dans ce désir d’union avec Dieu, la désireuse a comme des droits
qui viennent plus du dévouement et de la fidélité à la personne désirée
que d’autres choses.
Pour la sémiotique de la culture, le cas de Rabia al Adaouia est
particulièrement significatif. Avec elle, le rapport habituel entre parole
et action est inversé. Les diverses traditions ont besoin de nommer,
d’expliquer publiquement des comportements à peine réalisés de fa-
çon à tisser un texte. Son comportement inspire des textes, va donner
lieu à d’autres, qui eux aussi vont devenir modèle comportemen-
tal et inspirer des comportements et ainsi de suite. Le travail des
sémioticiens de la culture est différent, au besoin complémentaire
de celui du sociologue. Un sémioticien ne fait pas une description
des thèmes qui caractérisent une certaine culture ou une certaine
communauté sociale, mais assume la charge d’analyser des « petites »
pratiques quotidiennes en essayant de leur offrir la meilleure descrip-
tion possible en termes de construction du sens logique syntaxique,
organisation sémantique, effet de sens. L’ambition du sémioticien est
de réussir à identifier des corrélations d’abord entre thèmes et formes,
ensuite entre des langages divers. Au niveau premier, il s’agit d’établir
des rapports entre idéologie et morphologie reconduisant ainsi vers
l’originelle vocation textuelle de l’approche sémiotique. Les cultures
vivent et dérivent de leurs textes ; elles ne viennent pas des idées ou
des thèmes et donc il s’agit de voir comment et pourquoi certains
thèmes prennent corps dans certaines formes. au niveau second, il
s’agit d’étudier les corrélations entre divers langages d’une société,
d’une époque ou d’une certaine culture.
Extase féminine 

L’explication liée au genre (gender) est tout aussi importante, car


elle permet de voir comment le fait que Rabia soit une femme change
beaucoup la réaction de la société de l’époque et que le fait d’entourer
sa vie de légendes et de mystères participe à la création d’un mythe
qui la typifie et produit, quand il ne fait pas que reproduire, un mythe
déjà existant, celui des deux visages du type féminin tel que la culture
arabo–musulmane l’enregistre et le standardise : celui de la beauté
soumise — première phase de la vie de Rabia — qui n’a pour but
que de satisfaire les hommes et celui de la femme pieuse qui — après
un certain âge dévolu aux plaisirs des hommes — doit se consacrer à
Dieu et à la piété. La première phase de la vie de Rabia est d’actualité,
la preuve est qu’elle a été colportée jusqu’à nos jours par la tradition.
C’est dire son importance, même si elle semble éclabousser un peu la
réputation de piété et de chasteté de l’intéressée. Elle semble exercer
un attrait et rehausse même la deuxième phase de la vie de Rabia. Le
mythe de cette dernière doit beaucoup à sa présumée beauté et à son
charme. Mais ce charme, et c’est là que le mythe acquiert toute sa
puissance, est réservée à Dieu, car aucun mortel ne peut satisfaire le
désir de l’intéressée. Désir qui est souvent associé dans les anecdotes à
une soif de métaphysique et d’inconnu. Rappelons que lorsqu’un des
prétendants vient lui demander sa main, Rabia pose comme condition
de répondre à des questions portant sur le futur et sur l’avenir. Ayant
reconnu que seul Dieu est capable de connaître l’avenir, le prétendant
s’est auto–éliminé.
Mais il reste une difficulté : l’originalité de l’adresse à Dieu et la
ferveur de cet amour. On peut les interpréter comme des manifesta-
tions d’un autre type féminin, amenées par Rabia et qui rendent son
cas très original mais qui n’arrivent pas à s’imposer face à des types
féminins bien enracinés dans la culture arabo–musulmane. Ce type
féminin transgresseur et révolutionnaire est intermittent aussi bien
dans la culture arabo–musulmane que dans le propre cas de Rabia.
Ce que la légende et la culture gardent de la vie de Rabia, ce n’est pas
le type féminin émancipé qui vit sa passion aux mépris des codes et
des valeurs de la société, mais ce sont les deux phases de la vie de
l’intéressé et surtout sa religiosité et sa piété. En d’autres mots et de
façon beaucoup plus explicite, Rabia pouvait être révolutionnaire à
son époque comme le furent ses contemporains comme Abu Darr al
Ghiffari, Aljaad bnou dirham et d’autres, mais la tradition — les filtres
 Mohamed Bernoussi

de la culture selon Lotman — a vite récupéré cela pour le dompter


en le noyant dans le mythe de l’esclave devenue pieuse et amante de
Dieu, de la même façon que la culture arabo–musulmane traditionna-
liste a réussi à enterrer abou Darr al Ghiffari, al Muttazila et d’autres
pour en faire aujourd’hui de fervents croyants qui étaient de temps à
autre égarés par quelques fanatiques d’Aristote.
L’extase féminine tel que l’illustre le cas de Rabia al Adaouia offre
plusieurs profils aussi bien contradictoires que complémentaires : le
mythe de la courtisane et de la joueuse de luth à la beauté ensorceleuse
rejoint celui de la mère pieuse « oum alkhair » [la mère pieuse] pour
s’imposer aujourd’hui comme seul signifié stratégique de la mémoire
de Rabia. L’analyse des deux systèmes sémiotiques vecteurs de ce
mythe, à savoir les poèmes et les anecdotes ou les miracles, ont mon-
tré comment le discours amoureux et les comportements performés
comme des textes ont eu des effets d’une haute importance quant à la
critique et quant a un nouveau positionnement vis–à–vis des textes
canoniques dominants ; la preuve est qu’ils ont suscité chacun de son
côté tour à tour d’autres comportements ou d’autres textes tout aussi
contradictoires que complémentaires qui perdurent jusqu’à nos jours
dans la culture arabo–musulmane.

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DOI 10.4399/97888548739407
pag. 135–151 (luglio 2014)

Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria


del pathos di Sergej M. Ejzenštejn
F Z

 : Ecstasy and “symbolic efficacy” in Sergej M. Ejzenštejn’s Pathos


Theory

: This article focuses on the research conducted by Sergej Micha-


jlovič Ejzenštejn on the artistic representations of ecstasy and their spe-
cific effect on the spectator. Relying on historical and philological re-
constructions of Ejzenštejn’s theoretical writings, the article intends to
examine an aspect of his pathos theory whose implications are yet to be
analyzed in depth: the idea that the ecstasy of representation constitutes a
tool capable of achieving maximum persuasiveness and efficacy but also
an aesthetic and epistemic turning point, a moment of self–disclosure
of compositional strategies that ensure the efficacy itself. Reading and
comparing different passages of the Ejzenštejnian theory of ecstasy and
considering the structural affinities and differences with the analysis of
shamanic rituals conducted by the anthropologist Claude Lévi–Strauss,
the article investigates the relationships between the representation of
ecstasy in visual arts and the anthropological and semiotic phenomenon
of “symbolic efficacy”.

: ecstasy; pathos; montage; figurative thinking; symbolic efficacy.

Questo articolo si occupa di rileggere alcune parti dell’ampia rifles-


sione teorica condotta da Sergej Michajlovič Ejzenštejn sulla messa
in forma dello stato di estasi nelle arti e sull’efficacia esercitata sullo
spettatore. Una teoria, quella del maestro del cinema sovietico, capace
di sviluppare autonomamente e talvolta precorrere alcune delle meto-
dologie e delle linee di ricerca che hanno caratterizzato l’estetica e la
semiotica visiva nel corso del Novecento .
. Come riferimenti ormai classici sui rapporti tra la teoria di Ejzenštejn e l’elabora-
zione della teoria del cinema e delle immagini, si vedano almeno Aumont (, ),


 Francesco Zucconi

L’obiettivo del saggio non coincide con una ricostruzione storica e


filologica del pensiero ejzenštejniano — per altro già condotta con cura
all’interno di numerosi studi che saranno puntualmente citati — quanto
piuttosto con la messa in rilievo di un aspetto non ancora ben consi-
derato nelle sue molteplici implicazioni: l’idea che la resa estatica della
composizione attraverso il montaggio costituisca uno strumento capace
di produrre la massima efficacia sullo spettatore e, al contempo, un
potenziale momento critico, una potenziale occasione di autosvelamento
delle strategie compositive che garantiscono l’efficacia stessa.
Il primo paragrafo si propone di contestualizzare brevemente la
riflessione sull’estasi e sul pathos, in quanto concetti strettamente legati
e che tendono talvolta a sovrapporsi all’interno del corpus teorico
del regista sovietico. Nel secondo paragrafo si riprendono le pagine
nelle quali Ejzenštejn descrive dettagliatamente la realizzazione della
“sequenza della centrifuga” del film Il vecchio e il nuovo () e mette
in rilievo il potere persuasivo suscitato dalla composizione estatica sullo
spettatore. Nel terzo, la rilettura delle stesse pagine evidenzia invece
gli aspetti, ben presenti nella trattazione di Ejzenštejn, mirati a indicare
nella composizione estatica il rischio concreto di una “messa a nudo”
dei metodi e dei procedimenti formali attraverso i quali il film suscitava
la piena adesione da parte dello spettatore. Il quarto paragrafo propone
una ricognizione dei precedenti e sottolinea le specifiche potenzialità
conoscitive e costruttive implicate nella teoria dell’estasi.
Soltanto alla fine, seguendo il ragionamento del regista sovietico e
confrontando i diversi passaggi che inquadrano la sua riflessione sul
pathos e sull’estasi, si pongono le condizioni per un primo confronto
con la teoria dell’“efficacia simbolica” del rito sciamanico proposta da
Claude Lévi–Strauss.

. Ek–stasis come “termine generico” per esprimere l’efficacia del


pathos

Trasversalmente presente nel pensiero di Ejzenštejn, focalizzata in


modo specifico a partire dal viaggio in Messico dei primi anni Tren-

Montani (, ), Casetti (, ), Careri (, ), Grande (, ), Calabrese
(, ), Pezzini (), De Gaetano ().
Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn 

ta, la riflessione sull’estasi trova un’esplicita teorizzazione in quanto


naturale proseguimento delle ricerche condotte sul montaggio come
principio di composizione e strutturazione delle arti . Come sem-
pre, è l’analisi delle opere letterarie, pittoriche e architettoniche a
instradare il regista nella risoluzione dei problemi incontrati nell’eser-
cizio del suo mestiere. È la composizione plastica dei volumi presente
nella pittura di Doménikos Theotokópoulos — indagata da Ejzenš-
tejn a partire dal saggio El Greco e il cinema — a suscitare una piena
concettualizzazione del problema dell’estasi.
Osservando la Tempesta su Toledo, dipinto realizzato tra il XVI e
il XVII secolo dal pittore di origine cretese, Ejzenštejn nota che “ab-
biamo a che fare con una generalizzazione del tipo più evidente e
più ‘infuocato’. A una tempesta elevata al livello di generalità di un
cataclisma cosmico e di una fine del mondo. [. . . ] Nella possente com-
posizione del quadro abbiamo non una raffigurazione del modello
ricreato a sua immagine e somiglianza, una veduta di Toledo nella
tempesta, bensì un pezzo di natura ricomposto a immagine e somi-
glianza dell’autore stesso” . La concezione forte dell’autorialità che
sembra esprimersi nel passaggio citato non deve trarre in inganno.
Pur ricorrendo all’immagine della città di Toledo come un “pezzo
di natura ricomposto a immagine e somiglianza dell’autore stesso”,
ciò che il regista ha in mente non è tanto una rappresentazione della
tempesta che risenta dello stato d’animo o dell’orientamento psico-
logico, anche laddove estatico, del pittore. Poche pagine più avanti
nello stesso articolo riportato da Somaini, Ejzenštejn chiarisce del
resto la sua posizione e definisce il concetto di estasi secondo i propri
orientamenti teorici ed esigenze empiriche:

Non entrerò nei dettagli del fenomeno psichico dell’estasi. Questo ci porte-
rebbe troppo lontano. Mi limiterò ad affrontare questo stato a partire dalla sua
definizione letterale. Tutti i dizionari etimologici la ricostruiscono nello stesso
modo, dandone l’unica interpretazione possibile — ek–stasis [iz–sostojanie]:

. Sull’importanza del viaggio in Messico, come per i riferimenti culturali legati alla
elaborazione della teoria ejzenštejniana dell’estasi, si veda Goodwin (). Per una rico-
struzione storica sull’affermazione del tema dell’estasi in Ejzenštejn, si veda Somaini ,
pp. – e –.
. Ejzenštejn , cit. in Somaini , pp. –. Ancora su El Greco, si veda Ejzenštejn
–a, pp. –. Sulla qualità e il metodo delle analisi dell’opera di El Greco realizzate
da Ejzenštejn, si veda Calabrese , pp. –.
 Francesco Zucconi

“fuori dal proprio stato” o, facendo ricorso a termini analoghi in russo, “tra-
sporto” [isstuplenie], “uscita da sé” [vychod iz sebja]. Questa definizione include
tutte le forme della condizione estatica, tra le quali l’estasi religiosa non è che
un’isola nel mezzo di un mare che comprende anche l’isteria, l’orgasmo e
una serie di altri fenomeni. Ognuna di queste condizioni, con le sue proprietà
specifiche, le vie attraverso cui emerge, le forme esteriori con cui si manifesta,
può essere ricondotta a questo termine generico .
(Ejzenštejn , cit. in Somaini , p. )

Ciò che interessa a Ejzenštejn dell’opera di El Greco è la capacità


di produrre un’immagine del paesaggio che esprime un’“uscità da sé”
della rappresentazione. Un’immagine che contiene diversi punti di
vista su uno stesso ambiente e che manifesta la compresenza di diversi
stati emotivi nonché di diversi stadi della composizione pittorica: dal
naturalismo del primo piano alle tonalità espressionistiche dello sfon-
do e del cielo, in un’accentuazione tensiva dell’elemento passionale.
Qui l’immagine si struttura secondo un sistema di “salti qualitativi”,
passaggi non graduali tra diverse forme espressive, resi possibili da una
performance estetico–estatica. L’estasi costituisce dunque, al livello
della composizione, l’operatore sintattico tra diversi registri, costruen-
do un continuum dinamico che anima la composizione stessa fino a
coinvolgere il fruitore e modulare le forme del pathos.
Come nelle pagine iniziali di Teoria generale del montaggio — dove
l’etimologia era utilizzata per descrivere lo “schema sovra–rappresen-
tativo” ai diversi temi e stati d’animo rappresentati —, anche in questo
caso ciò che attira l’interesse del regista è dunque la possibilità di com-
prendere la dinamica strutturale dell’ek–stasis in modo tale da poterne
riprodurre il funzionamento e suscitarne l’esperienza nello spettatore.
Ejzenštejn è interessato a trovare lo schema, la legge di funzionamento
che passa attraverso forme di manifestazione molteplici. Non intende
tanto ricostruire una storia del tema dell’estasi così come rappresentato
nelle arti, quanto piuttosto comprendere le configurazioni nelle quali

. Corsivo mio.
. Ejzenštejn –b, p. : “Prendete ‘insinuazione’ (podlizyvan’e), ‘arroganza’ (za-
nosčivost’), ‘abbattimento’ (pribitost’) o ‘oppressione’ (razdavlennost’) per il dolore. In tutti
questi casi la definizione verbale, cioè il concetto generalizzato di tutte le molteplici varianti,
contiene in sé un preciso schema compositivo, un elemento che ne fonda e ne generalizza
l’immagine del senso, senza il quale il movimento o la posizione dati non verranno mai
letti in base al contenuto della loro definizione”.
Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn 

si produce e dalle quali si riproduce, nel corso dei secoli, all’interno


di opere e forme rituali eterogenee. Dalla dimensione strettamente
tematica agli aspetti compositivi che strutturano l’immagine in pro-
fondità, Ejzenštejn individua infatti almeno tre possibili strategie per
suscitare l’adesione dello spettatore:
Il “prototipo” più semplice di una tale condotta imitativa sarà naturalmente
quello di presentare sullo schermo qualcuno che si comporta in modo
estatico: un personaggio dominato dal pathos che, in un modo o nell’altro,
“esce da se stesso”. [. . . ] Ma si tratta, come abbiamo detto, del primo gradino
della scala di possibilità offerte dalla composizione.
Più complesso ed efficace è il caso in cui, “uscendo dai limiti” dell’uomo,
si voglia costruire una fondamentale condizione “di frenesia”. Shakespeare
ce ne offre un esempio classico: la “frenesia” di Lear, che oltrepassa i limiti
del personaggio per farsi frenesia della natura: la tempesta.
[. . . ] Solo in terzo e ultimo luogo la scuola naturalistica traduce talvol-
ta queste condizioni in elementi puramente compositivi: troviamo così
un’analoga progressione nell’ambito dei mutamenti ritmici della prosa, nel-
la natura del linguaggio, nella struttura generale di un episodio o di una
concatenazione di episodi.
(Ejzenštejn, (–a), pp. –)

Mentre nel corso dei primi anni Venti l’elaborazione di una teoria
della messa in scena teatrale e cinematografica capace di smuovere
la coscienza degli spettatori era stata identificata nel “montaggio delle
attrazioni” , a partire dagli anni Trenta e compiutamente negli scritti
degli anni Quaranta il concetto di ek–stasis diventa per Ejzenštejn il
“termine generico” attraverso il quale descrivere i modi di produzione
di un’azione efficace del film sullo spettatore . Una forma di composi-
zione e montaggio nella quale la componente emozionale del pathos e
quella intellettuale si integrano a vicenda e si fondono.

. L’estasi della centrifuga e la sua efficacia

Se La corazzata Potëmkin () aveva indotto nel pubblico uno stato di


estasi traendo vantaggio dalla qualità eminentemente patetica dell’e-
vento rivoluzionario rappresentato, Il vecchio e il nuovo, realizzato tra il
. Ejzenštejn, (–c), pp. – e Montani ().
. Si vedano Aumont , pp. –, Bordwell , pp. –.
 Francesco Zucconi

 e il , costituisce il luogo esemplare di attuazione e riflessione


sull’efficacia delle immagini in quanto effetto di una pura estasi della
composizione filmica. Al di là dell’estaticità e della pateticità implicate
nel tema, ciò su cui insiste Ejzenštejn nelle pagine di La natura non
indifferente dedicate al confronto tra i due film è l’elaborazione di una
concezione estatica della composizione capace di produrre adesione da
parte dello spettatore indipendentemente dalle forme del contenuto.

Siamo riusciti a mostrare che la composizione del Potëmkin si sviluppa —


nel complesso e in ciascuna delle sue parti — esattamente secondo questo
schema [l’estasi]. [. . . ] Era indispensabile realizzare un’altra opera dello
stesso tipo, lavorare ancora sul pathos: solo allora, comparando i risultati di
queste due soluzioni, sarebbe stato possibile stabilire una legge comune
a entrambe, e spingersi fino ad assumerla come un metodo accertato
per la costruzione di opere patetiche in generale. D’altronde, per strano
che possa sembrare, la chiarificazione del metodo di costruzione del
Potëmkin fu ostacolata proprio. . . dal pathos della materia, del soggetto, del
tema delle situazioni del Potëmkin stesso. Il riconoscimento di metodi di
patetizzazione compositiva della materia, insomma, sprofondava, qui, nel
pathos del tema. Era dunque necessario confrontare l’ordine strutturale di
questa composizione con qualcos’altro, con un altro esempio tratto dal
campo della scrittura patetica. D’altra parte, quale esempio più auspicabile
della patetizzazione arbitraria di una materia qualsiasi, che, di per sé, non
avesse nulla di patetico?
(Ejzenštejn –a, pp. )

Il vecchio e il nuovo si propone di raccontare la riforma del sistema


agrario nell’Unione Sovietica e in particolare l’introduzione di nuovi
metodi produttivi basati sulla collettivizzazione e sull’innovazione tec-
nologica. Mostra la resistenza da parte dei vecchi contadini e dei piccoli
proprietari nei confronti del nuovo che avanza e mostra l’entusiasmo,
la forza inarrestabile, dei kolchosiani. Nel raccontare la realtà di tale
opposizione, il film prende evidentemente parte a favore dei processi
di rinnovamento e si pone l’esplicito obiettivo di persuadere le masse
contadine dei vantaggi offerti dai nuovi sistemi di produzione.
La celebre sequenza della centrifuga, dove la giovane contadina
Marfa Lapkina cerca di vincere l’ostilità dei suoi compagni più an-
ziani nei confronti della meccanizzazione e collettivizzazione della
produzione agricola, si struttura interamente a partire dall’oggetto
tecnologico per la trasformazione del latte in panna. Se il fiotto di
Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn 

latte che inonda il volto di Marfa erotizza la centrifuga attribuendole i


connotati di una virilità maschile, il movimento rotatorio sostanzia al
livello plastico e figurativo un montaggio di immagini eterogenee che
istruisce un’escalation metaforica e suscita l’entusiasmo unanime dei
contadini: dalle gocce di latte al fiotto di panna, dall’energico zampillo
di fontane alle elaborazioni grafiche a zigzag, fino serie numerica che
restituisce la crescita esponenziale degli aderenti alla cooperativa .
L’efficacia delle immagini non è qui garantita dal contenuto epi-
co dell’evento narrato o da una resa realistica, ma è messa a punto
attraverso una piena mobilitazione delle risorse drammaturgiche e
compositive delle quali dispone: “‘patetizzare’ il materiale, in questo
caso, significava ottenere, con i soli mezzi dell’espressività e della
composizione, che il fatto della comparsa della prima goccia di panna
diventasse appassionante e avvincente quanto l’episodio dell’incontro
con la squadra nel Potëmkin. [. . . ] Significava, infine, trovare procedi-
menti plastici adeguati per esprimere lo scoppio di gioia che saluta
l’esito positivo della ‘prova della centrifuga’, il trionfo della tecnica” .
Così come il latte eccede il suo stato liquido nel farsi panna, la
fontana diventa una linea astratta e infine una serie crescente di nu-
meri: l’estasi della composizione ejzenštejniana è come un esercizio
di continua traduzione tra differenti forme espressive secondo una
matrice figurale che le attraversa . Lo spettatore è il testimone di tale
processo, ma è anche l’elemento ultimo della catena, l’attore ultimo
di un processo di conformazione estatica che smargina i confini dello
schermo e condiziona le forme di vita .

. Per un’analisi dettagliata della sequenza si vedano Montani , pp. –; Casetti
, pp. –; e Somaini , pp. –.
. Ejzenštejn –a, p. .
. Si propone qui di inquadrare il concetto di “figurale” all’interno del campo di
studio della “figuratività” (Greimas  e ), e di ripensarlo come “figuratività profonda”
comune a più immagini (Lancioni ; Polacci ). Sull’importanza di tale concetto per
comprendere la teoria di Ejzenštejn, cfr Fabbri e Dusi .
. Sull’estasi come meccanica compositiva e ritmica che “conduce la coscienza dello
spettatore verso una soglia dietro alla quale c’è un nuovo stato”, come per un accostamento
tra la composizione estatica e le forme dell’incontro d’amore, si veda Tsivian , pp.
–. Tra la teoria del pathos in Ejzenštejn e le forme di costruzione della devozione e
“conformazione” nella pittura e scultura del XVII secolo, si veda Careri , pp. –.
 Francesco Zucconi

. L’estasi della composizione come momento critico

Come anticipato, l’analisi delle strategie adottate per produrre l’ade-


sione da parte dello spettatore non è priva di sfumature problematiche
e sembra offrire al regista e teorico russo l’occasione per riflette-
re sull’aspetto paradossale della composizione estatica come pratica
efficace.

Considerando tutto il film sotto questo profilo, noi possiamo vedere che,
dal punto di vista della “linea interna”, la scena della centrifuga evidenziava
proprio l’aspetto ideologico–tematico del pathos. [. . . ] Vero è, d’altra parte,
che per la sua natura e i suoi contrassegni esteriori, il solo fatto di porre il
problema del “pathos della centrifuga” dopo aver rappresentato il pathos di
una nave da guerra ammutinata, non poteva andare esente da qualche para-
dossalità. [. . . ] Come ho appena detto, questo lato paradossale riguardava
gli aspetti esteriori del problema e non la sua sostanza di fondo: era naturale
perciò che, sul piano della forma, la paradossalità dovesse riguardare proprio
gli elementi più esteriori della composizione. Ne deriva, per la composizio-
ne stessa, un ordinamento strutturale particolarmente esplicito, in quanto
i mezzi paradossali utilizzati “mettevano a nudo”, involontariamente, la
natura stessa del metodo e dei procedimenti grazie ai quali “si edificava il
pathos”. È evidente che, dal punto di vista della ricerca, questa situazione
dava alla Linea generale [è questo l’altro titolo del film Il vecchio e il nuovo] un
notevole vantaggio rispetto al Potëmkin, in cui i mezzi di espressione erano
così organicamente integrati al tessuto narrativo dell’opera che, a meno
di un confronto con altri casi o esempi, sarebbero rimasti completamente
indiscernibili.
(Ejzenštejn –a, pp. –)

La lucidità febbrile di Ejzenštejn sembra spingersi, in questo pas-


saggio, fino ad affrontare esplicitamente le criticità implicate nella
riflessività della messa in forma dell’immagine.
Nel ripensare e confrontare i modi di produzione dell’estasi al-
l’interno de La corazzata Potëmkin e Il vecchio e il nuovo, il regista
comprende che il lavoro esercitato sulle forme dell’espressione per su-
scitare il pathos dello spettatore rischia di trasformarsi in un’occasione
di straniamento del metodo compositivo stesso. Nell’esasperazione
dell’elaborazione estetica dell’immagine come caratteristica dell’e-
stasi, com’è possibile che il lavoro di composizione e manipolazione
non assurga in primo piano e si renda riconoscibile in quanto tale
Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn 

dallo spettatore, fino a mettere a rischio la trasparenza del messaggio


ideologico veicolato?
Pur senza spingersi esplicitamente oltre, Ejzenštejn si rende perfet-
tamente conto che l’esasperazione patetica dell’immagine costituisce
un punto critico, un crinale sottile: una volta oltrepassato, l’estasi della
composizione può assumere una valenza metalinguistica e trasfor-
marsi in una “messa a nudo” delle strategie stesse adottate dal regista
per manipolare gli oggetti e così le emozioni dello spettatore.
C’è un momento, ripete a più riprese nelle pagine citate, in cui la
formatività si fa iperbolica e diviene caricaturale, acquisendo così le
potenzialità e i limiti caratteristici di un’operazione metateorica .

. L’estasi come esposizione del ragionamento figurativo

La rilettura e la comparazione dei più noti passi ejzenštejniani dedicati


all’estasi della composizione artistica e cinematografica offre dunque
la possibilità di trarre almeno tre considerazioni generali riguardanti
il rapporto tra le forme di elaborazione del pathos e la produzione di
un’efficacia sullo spettatore.
La prima, la più immediata, coincide con la constatazione che qual-
siasi stato d’estasi, qualsiasi eccesso patetico e qualsiasi manipolazione
dello spettatore sono costruiti attraverso strategie discorsive ben defi-
nite e pienamente descrivibili da un punto di vista della loro manife-
stazione esteriore e della loro strutturazione interna. A tal proposito,
come si è visto, Ejzenštejn individua almeno tre possibili forme di
costruzione retorica dell’audiovisivo per produrre il pathos, che pos-
sono essere riassunte come: tematica, dove l’estasi è costituita dalla
rappresentazione di un soggetto in stato di pura eccitazione; panica,
dove l’estasi esorbita le figure antropomorfe e si trasforma in tratto
strutturante della natura e delle forme del contenuto dell’immagine;
figurale, dove l’estasi delle forme espressive manifesta il processo di
traduzione all’interno di generi e formati diversi di un tema comune.
La seconda conseguenza porta a considerare non soltanto che l’e-
stasi è costruita, ma anche che quest’ultima costituisce una potenziale
occasione di esplicitazione, di esposizione, delle forme di costruzione

. Ibidem, pp. –. Su questo punto si veda anche Montani , pp. –.
 Francesco Zucconi

del pensiero efficace: ciò che Ejzenštejn definisce come una “mes-
sa a nudo” della “natura stessa del metodo” e dei “procedimenti
grazie ai quali si edificava il pathos”. Soprattutto all’interno di una
concezione dell’estasi in quanto prodotta da un’elaborazione figurale
dell’immagine, l’efficacia non è dunque da pensarsi come il risultato
di un ottundimento dell’esperienza estetica e dell’attività semiotica
del soggetto; non è un’accettazione passiva da parte di un pubblico in
preda ad alterazione dei sensi, ma costituisce la stimolazione, nello
spettatore stesso, di un procedimento comparativo e intellettuale tra
immagini eterogenee: che cosa rende comparabile una goccia di latte,
una fontana, una linea astratta e una serie crescente di cifre numeriche?
Quali i criteri di rilevanza e pertinenza che presiedono a tali accosta-
menti? Quale intelligenza vi si esprime e quali pratiche dischiude ?
All’interno di un’elaborazione estatica della composizione, la riflessi-
vità della messa in scena potrebbe dunque esercitare un’efficacia del
tutto specifica sullo spettatore, sollecitando una pratica intellettuale
finalizzata alla comparazione e alla sintesi di un corpus eterogeneo
di immagini e oggetti sociali ai fini di una elaborazione creativa e
sperimentale potenzialmente capace di alimentare il progresso della
società .
Infine, cercando di trarre tutte le conseguenze possibili dall’intui-
zione ejzenštejniana, si può arrivare a ipotizzare che l’efficacia della
composizione sia motivata proprio in virtù della piena esplicitazione
metateorica del processo di manipolazione e montaggio, in quanto
garanzia di una modulabilità e plasmabilità del mondo e dei suoi og-
getti, secondo esigenze individuali, sociali e politiche. Nell’estasi della
composizione audiovisiva lo spettatore investe la propria credenza
nelle potenzialità conoscitive e costruttive implicate nel metodo di
composizione, e non semplicemente nei contenuti che questa veicola.
È come se l’esposizione della plasticità del pensiero figurativo diventasse
essa stessa una promessa di progresso, una garanzia di efficienza delle
pratiche che descrive e della loro implementazione. Come ha scritto
Pietro Montani, nella concezione di Ejzenštejn “il montaggio non è

. Per lo sfondo teorico nel quale prendono corpo tali domande, si veda Calabrese
.
. Per un’analisi dell’”estasi della centrifuga” capace di riflettere sulla capacità della
trasfigurazione cinematografica di elaborare al livello plastico e figurativo problematiche di
carattere sociale, si veda ancora Casetti , pp. –.
Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn 

più esperito come uno strumento per la costruzione di un qualcosa,


bensì come un’autoesibizione della costruttività in quanto tale, non come
esperienza rappresa in prodotti, bensì come esperienza in formazione,
apertura sempre di nuovo inaugurale al fenomeno del senso (che non
dimentichiamolo, è un fenomeno anche traumatico, sacrificale)” .
È dunque in quest’ultima direzione che diventa possibile compren-
dere in che modo l’estetica e la riflessione sulla funzione dell’ope-
ra d’arte del regista sovietico sia carica di implicazioni antropologi-
che, nonché portatrice di interrogativi di carattere epistemologico e
metodologico per le scienze umane.

. Ejzenštejn con Lévi–Strauss. L’efficacia simbolica dell’estasi in


quanto elaborazione figurativa di uno stato di crisi

L’interesse del regista nei confronti delle ricerche antropologiche


che andavano sviluppandosi nella prima metà del Novecento è stato
segnalato più volte e proprio in tale direzione sembrano orientarsi
i più interessanti studi ejzenštejniani . In particolare si è riflettuto
sull’influenza delle ricerche di Lucien Lévy–Bruhl — dedicate ai riti
delle “società primitive” e al pensiero “prelogico” — negli scritti suc-
cessivi al soggiorno parigino del biennio –; si è messa in luce
l’importanza di tali teorie nell’elaborazione di una concezione “antro-
pologica” dell’estetica da parte di Ejzenštejn, ma anche il suo netto
rifiuto di qualsiasi esaltazione dell’irrazionalità in campo scientifico
e artistico . Come si è visto, del resto, un fenomeno “critico” — dal
punto di vista estetico, psicologico e sociale — come quello dell’estasi
non ha mai smesso di essere indagato, analizzato e descritto ai fini
della sua comprensione e riattivazione continua.
Ma se la condizione “panica” e “prelogica” di una piena “parteci-
pazione” estatica dell’uomo alla natura — individuata da Lévy–Bruhl
come caratteristica della mentalità primitiva e dei suoi riti (Lévy–Bruhl
) — è stata tradotta da Ejzenštejn nella messa al lavoro di un pen-
siero figurativo elastico e stratificato, non è forse opportuno accostare
. Montani , p. , corsivo mio.
. Cervini ; Somaini , pp. –; Bulgakova ; Tedesco .
. Per una ricostruzione dell’incontro tra Ejzenštejn e Lévy–Bruhl, come per i passi di
Metod nei quali si sviluppano tali questioni, si veda Cervini , pp. –.
 Francesco Zucconi

l’efficacia dell’estasi ejzenštejniana alla teoria dell’“efficacia simbolica”


del rito sciamanico messa a punto da Claude Lévi–Strauss? Non è
quest’ultimo, infatti, ad aver analizzato in dettaglio le forme del rituale
estatico e la sua efficacia nello stabilire un sistema di relazioni profonde
tra vita fisiologica e vita sociale? Si tratta dunque di un accostamento
semplicemente arbitrario o piuttosto di un confronto produttivo ?
Nel celebre saggio, pubblicato per la prima volta nel , mirato a
descrivere il rapporto che si instaura tra lo sciamano cuna e la donna
che incontra difficoltà durante il parto, l’antropologo francese ha
messo in evidenza la processualità dinamica del rito e la sua capacità
di mettere in relazione il piano figurativo e tematico del racconto
mitico con il corpo della partoriente. L’estasi analizzata da Lévi–Strauss
non è tanto quella dello sciamano — descritto nel pieno controllo dei
suoi poteri — quanto piuttosto quella prodotta dal discorso sciamanico,
basato anch’esso su una serie di “salti qualitativi”:

La cura comincia dunque con una narrazione degli avvenimenti che l’hanno
preceduta, e taluni aspetti, che potrebbero sembrare secondari (“entrate”
e “uscite”) sono trattati con grande dovizia di particolari, come se fosse-
ro, si potrebbe dire, filmati “al rallentatore”. [. . . ] È come se l’officiante
cercasse di fare in modo che l’ammalata, la cui attenzione per il reale è
probabilmente diminuita — e la sensibilità esacerbata — dalla sofferenza,
riviva in modo molto preciso ed intenso una situazione iniziale, e ne scor-
ga mentalmente i minimi particolari. Infatti, questa situazione introduce
una serie di avvenimenti di cui il corpo, e gli organi interni, dell’ammalata
costituiscono l’immaginario teatro. Si passerà dunque dalla realtà più banale
al mito, dall’universo fisico all’universo fisiologico, dal mondo esterno al
corpo interno. E il mito che si svolge nel corpo interno dovrà conservare la
stessa vivacità, lo stesso carattere di esperienza vissuta di cui, con il favore
dello stato patologico e con un’appropriata tecnica espressiva, lo sciamano
avrà imposto le condizioni.
Le successive dieci pagine presentano, con un ritmo ansimante, un’oscil-
lazione sempre più rapida fra i temi mitici e i temi fisiologici, come se si
trattasse di abolire, nella coscienza dell’ammalata, la distinzione che li separa,
e di rendere impossibile la differenziazione dei loro rispettivi attributi. Alle
immagini della donna giacente nella sua amaca o nella posizione ostetrica
indigena, con i ginocchi divaricati e volta verso est, che geme, perde sangue,
con la vulva dilatata e mobile [. . . ], succedono le invocazioni per nome agli

. Alla possibilità di prolungare il rapporto tra Ejzenštejn e Lévy–Bruhl concentran-


do l’attenzione su Lévi–Strauss sembra fare riferimento Bulgakova , pp. –. Alla
contemporaneità delle ricerche di Ejzenštejn e Lévi–Strauss accenna Marabello , p. .
Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn 

spiriti: quelli delle bevande alcoliche, quelli del vento, delle acque, e dei
boschi, e persino — testimonianza preziosa della plasticità del mito — quello
del “piroscafo argentato dell’uomo bianco”.
(Lévi–Strauss , p. )

Come nella teoria del regista sovietico, anche nel rito cuna l’effica-
cia simbolica dell’estasi non è motivata dalla presupposta verità scien-
tifica o ideologica del contenuto espresso dal rito e non si esaurisce
nel plagio, ma richiede la partecipazione del paziente . Il fondamento
dell’efficacia deve essere rinvenuto nell’instaurazione di un rapporto
figurale tra i termini del racconto e il corpo traumatizzato della donna,
oppure, per riprendere il passo citato, nella “plasticità del mito”.

Lo sciamano — prosegue Lévi–Strauss — fornisce alla sua ammalata un


linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non
formulati, e altrimenti non formulabili. E proprio il passaggio a questa
espressione [. . . ] provoca lo sbloccarsi del processo fisiologico, ossia la
riorganizzazione, in un senso favorevole, della sequenza di cui la malata
subisce lo svolgimento .
(Ibidem, p. )

Lo stato di estasi, la forme della sua composizione, diventano dun-


que il piano dell’espressione di un contenuto di carattere individuale
e collettivo che il rito promette di gestire sul piano cognitivo, emotivo
e pragmatico:

I conflitti e le resistenze si dissolvono non per via della conoscenza, reale o


supposta, che l’ammalato ne acquista progressivamente, ma perché questa
conoscenza rende possibile un’esperienza specifica, nel corso della quale i
conflitti si realizzano in un ordine e su un piano che ne permettono il libero
svolgersi e portano al loro scioglimento finale.
(Ibidem, p. )

Il regista russo e il maestro dell’antropologia francese sembrano


dunque trovare un punto d’interesse comune nelle opere e nei riti esta-
tici in quanto fenomeni capaci di elaborare e orientare i contesti storici

. Sul ruolo tutt’altro che passivo assunto dalla donna all’interno del rito, si veda
Fabbri . Sull’attività della paziente, da intendersi come interpretazione “proiettiva” del
contenuto a bassa densità figurativa del rito, si veda Severi , pp. –.
. Corsivi miei.
 Francesco Zucconi

e sociali nei quali si inscrivono, fino a sciogliere ogni rigida opposizio-


ne tra forme della rappresentazione e forme di vita. Per entrambi l’estasi,
traducendosi in termini linguistici e compositivi, si fonda come pratica
efficace poiché istruisce un piano di relazioni attraverso il quale diviene
possibile, per il soggetto individuale o collettivo, elaborare le forme
di comprensione e superamento del fenomeno–oggetto, che spesso
assume i tratti di un fenomeno traumatico: la malattia e il parto, così
come l’avvicendamento tra generazioni, il passaggio dal vecchio al nuovo.
Ma se all’interno della singola cerimonia analizzata da Lévi–Strauss la
potenza e l’efficacia dell’estasi è perlopiù istituzionalizzata nella tradizio-
ne, l’estasi ejzenštejniana è un esercizio sperimentale, una riflessione
metateorica sulle forme di tenuta e di rinnovamento del rito. Proprio
in quanto costituisce un momento critico della messa in immagine —
momento di straniamento e auto–svelamento —, l’ek–stasis costituisce
anche uno strumento per superare uno stato di crisi della società.
Ejzenštejn, come Lévi–Strauss, ha dunque affrontato il problema
dell’“efficacia simbolica” e ha individuato nella plasticità delle figure
un luogo di scomposizione e ricomposizione illimitata dell’esperienza
sensibile. Certo, come le regole di svolgimento e le assiologie dei
singoli riti analizzate da Lévi–Strauss sono codificate, così l’orienta-
mento ideologico della sequenza della centrifuga de Il vecchio e il nuovo
resta ben marcato e basa la sua persuasività sulla chiarezza del sistema
di valori che esprime. E tuttavia, ciò che rende straordinariamente
interessante la produzione artistica e teorica del regista russo, oltre
i limiti del regime sovietico — per altro subìti e trascesi attraverso
soluzioni formali clamorose — è proprio l’elaborazione di un metodo
per la conoscenza e la rigenerazione sperimentale di forme sociali e
forme di vita per mezzo del montaggio artistico .
Al di là dei contenuti ideologici d’occorrenza, se l’estasi della com-
posizione fa valere la propria efficacia è perché costituisce una possibi-
le forma di gestione e contenimento espressivo dell’estaticità inesauri-
bile e inaccessibile della natura, a vantaggio degli uomini e dei loro
tentativi di abitare il mondo nella significazione.

. Sulla differenza tra la concezione dell’estasi in Ejzenštejn e le forme della ritualità
codificata, si veda Montani , pp. –.
. Sulla ricerca di un metodo capace di emanciparsi dal metodo del realismo socialista
come “problema fondamentale” (Grundproblem) del lavoro ejzenštejniano e tema esplicito
del suo ultimo libro rimasto incompiuto, si vedano Klejman  e Cervini .
Estasi ed “efficacia simbolica” nella teoria del pathos di Sergej M. Ejzenštejn 

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Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/97888548739408
pag. 153–169 (luglio 2014)

Verso un cinema estatico


Quando i film vendono la pelle dell’orso
e sognano notti di mezza “Estasi”

G M D M

 : Towards an Ecstatic Cinema

: Starting from the concept of ecstasy elaborated by Sergej M.


Ejzenštejn, the paper aims at identifying three points of analysis, on
which certain attributes not only of contemporary cinema, but also
of the multi–faceted patchwork of the universe of present–day mov-
ing–images are based: ) “Ecstasy” as methodology to address the needs
for creative hermeneutics; ) “Ecstasy” as coalescence and switching
of different expressive registers; ) “Ecstasy” as tension towards the
unrepresentability of images.

: ecstasy; cinematic experience; moving–images; Ejzenštejn; epiphany.

È noto come il concetto di estasi abbia puntellato gran parte della ri-
flessione teorica e del lavoro di Ejzenštejn. Questo principio, secondo
noi, non ha affatto esaurito la sua carica vitale e anzi, opportunamente
liberato, crediamo possa costituire una delle feconde sponde para-
digmatiche da cui ripartire per riflettere su come, allo stato attuale, il
dispositivo cinematografico, a dispetto delle istanze contrarie, innesca-
te sia da semplici detrattori che da suoi ambasciatori di morte, si stia
dimostrando un assoluto protagonista della mutazione dello scenario
mediale contemporaneo.
Obiettivo di questo contributo sarà dunque quello di provare a
ripercorrere e rileggere, per quanto concesso dallo spazio di queste
pagine, alcuni degli aspetti del concetto di estasi che, all’interno della
vastissima produzione teorica di Ejzenštejn, riteniamo più pertinenti
per evidenziare come questo principio, (forse soprattutto un metodo),
dimostri oggi di occupare un posto di rilievo nella costruzione, tra-


 Gian Marco De Maria

sformazione, interpretazione e percezione delle immagini filmiche, o,


più propriamente, delle immagini in movimento.
Vorremmo dunque proporre tre spunti di analisi, tra loro congiunti,
che, a nostro avviso, non solo rintracciano nell’estasi il movente e
la matrice ejzenstejniana, ma da essa assorbono, come anticipato,
un’energia ancora attiva e una portata tutt’ora inesplorata:

) estasi come metodologia per rispondere alle necessità di una creatività


ermeneutica;
) estasi come coalescenza e commutazione di diversi registri espressivi;
) estasi come tensione all’irrappresentabilità dell’immagine.

Partiamo dunque dalla prima questione a cui verrà riservata una


parte significativa di questo intervento poiché si prefigge di erigere
quelle fondamenta sulle quali poggeranno gli ultimi due snodi che
rappresenteranno le osservazioni conclusive.

. Estasi come metodologia per rispondere alle necessità di una


creatività ermeneutica

All’interno delle più recenti riflessioni sulle metodologie di analisi


del testo filmico (Carluccio e Villa , Bertetto ) è emersa in
maniera vibrante l’esigenza di raccomandare all’analista testuale un
approccio più “creativo”. Tutto questo con la finalità di reclamare
uno spazio maggiore per la soggettività dell’interpretante sulla scorta
degli indispensabili adattamenti e aggiustamenti richiesti dalle nuo-
ve esperienze mediali (e non solo), e poter così suggerire, nell’uso
delle diverse pratiche ermeneutiche, l’esplorazione di percorsi meno
dogmatici.
In effetti, a questo proposito, è risultato forte il rimprovero di essere
rimasti per lo più cristallizzati su singole pratiche o sulle diffidenti e
rare alleanze delle diverse proposte analitiche (post–strutturalismo,
post–classicismo, approccio psicanalitico, decostruzionismo, cogniti-
vismo etc..). Queste, infatti, hanno registrato un progressivo impove-
rimento e una conseguente insoddisfazione per i risultati ottenuti, per-
ché, probabilmente, hanno sottostimato le fluttuazioni, e soprattutto
le intensità percettive, fatte di abbracci e abbandoni, di concentrazione e
Verso un cinema estatico 

disattenzione, nei termini di proprietà qualificanti di un’esperienza ludi-


ca diventata imprescindibile per confrontarsi con l’attuale complessità
e la dispersione delle metamorfosi produttive e della loro fruizione.
Del resto, come già aveva anticipato Christian Metz () – forse
in maniera sorprendente considerati i tempi e l’estrazione disciplinare
– l’interpretazione di un testo filmico non esclude, anzi accoglie, una
concezione del testo come un gioco irripetibile dei codici che lo com-
pongono rinviando pertanto ad un’analisi creativa e potenzialmente
infinita.
In questa direzione il dispositivo estatico può risultare, allora, un
elemento centrale in grado di attivare, attraverso gli strumenti che
partecipano del suo apparato (tra cui il montaggio, come vedremo,
è solo quello più evidente e citato), una creatività, per molti aspetti
ludica, improntata alla sperimentazione del piacere delle tante vie e dei
mille rivoli del senso. Un senso, però, non semplicemente aperto alla
molteplicità delle prospettive o «ottuso», piuttosto un senso meglio
definibile come eucaristico, dove prevale la prassi della comunione,
della partecipazione , che non significa la semplice condivisione di un
senso unico.
Si tratterebbe, invece, di un percorso di avvicinamento al senso che
rinvia a quello che Robert Musil , nel , quindi diversi anni prima
delle formalizzazioni di Ejzenštejn riguardo al concetto di estasi ,
ha definito un «altro stato», uno stato, per l’appunto, di comunione

. Nel recensire Der sichtbare Mensch () di Béla Balàzs Robert Musil traccia, attra-
verso il cinema, gli snodi della propria esperienza estetica. Musil evidenzia nel cinema un
paesaggio liminare, al cui interno, come in un sistema dall’attraversamento continuo, si
muovono la razionalità dell’intelletto e l’esperienza mistica. Secondo Musil misticismo
e razionalismo condividono lo slancio e l’accesso verso un “altro stato” che sta alla base
dell’esperienza artistica. Il cinema utilizzando tutta la potenza di fuoco messa a disposizione
dai suoi diversi registri espressivi (suono, immagine, grafica, etc) crea, all’interno della
struttura narrativa di base una sovradimensione costituita da intervalli, da sospensioni del
senso in cui la storia perde importanza e dove sono le atmosfere, gli oggetti, le forme , i
colori a conquistare rilievo ed autonomia. Cfr. Bernardi  Questo percorso di accesso
alla dimensione “altra” avviene attraverso il dispositivo della fisionomia, attraverso la ca-
pacità di mettere in evidenza “il volto simbolico delle cose” che per Musil rappresenta “il
frantumarsi della normale esperienza della totalità”.
. Antonio Somaini, in un recente e accurato studio su Ejzenštejn, annota come le
prime riflessioni del regista sovietico sull’estasi risalgano ai suoi soggiorni parigini e cioè
agli anni –, quando cioè affronta la lettura di testi mistici come quelli di Teresa
d’Avila e soprattutto di Ignazio di Loyola Cfr. Somaini : –
 Gian Marco De Maria

col mondo, dove i rapporti con le cose non hanno più alcun fine
direttamente pratico e risultano, al contrario, svincolati da finalità
intenzionali e da ogni approccio automatico.
Lo si è designato con tanti nomi, legati tra loro da un’oscura concordanza:
lo si è , di volta in volta , chiamato condizione o stato d’amore, di bontà,
di distacco dal mondo, di contemplazione, di visione, di meditazione, di
avvicinamento a Dio, di estasi, di svuotamento della volontà [. . . ] Nell’im-
magine di questo mondo diverso non esistono più né misura, né precisione,
né finalità, né causa, e il bene e il male scompaiono, senza che si sia costretti
ad elevarsi al di sopra di essi. Tutte queste forme di rapporto vengono
sostituite dal confluire della nostra essenza in quella delle cose e degli altri
uomini. Tale confluenza si accresce e diminuisce misteriosamente. Si tratta
dello stato in cui l’immagine di ogni oggetto non diventa più fine pratico,
ma vissuto senza parole. E le descrizioni del volto simbolico delle cose e il
loro risveglio nel silenzio dell’immagine, cui si è appena accennato, fanno
indubbiamente parte di questo universo.
Musil [ (: )]

In sostanza, quello che qui ci interessa porre in evidenza, tra le tante


aree di stimolazione accese dalle riflessioni e dalle sperimentazioni
di Ejzenštejn, è come il principio e il metodo dell’estasi attivino ed
evidenzino nel testo filmico, nell’ opera audiovisiva nel suo complesso,
la sua natura multimediale (cross–mediale, correggeremmo oggi), una
conformazione “estesa” del tutto in anticipo, se non foriera di sviluppi
tuttora vergini, rispetto ai tempi digitali che ci avvolgono.
Ora, prima di avanzare qualunque definizione, occorre premettere
che il riferimento al concetto di estasi in Ejzenštejn va scorporato
da riferimenti di contenuto religioso. E’ piuttosto, come abbiamo
anticipato, un metodo che individua i principi con cui vengono for-
mate le immagini religiose per costruire, negli spettatori, un canale di
comunicazione con la «materia intesa come incessante movimento».
Per gli estatici religiosi il senso di questo termine si esaurisce in quanto segue:
Dio esiste, esiste fuori di noi; attraverso le tecniche estatiche noi entriamo in
comunione con lui che si trova fuori di noi [. . . ] Il termine viene usato da noi
in un’accezione del tutto diversa. In primo luogo noi non abbiamo a che fare
con un dio, ma con i principi di quelle leggi cui si conformano l’esistenza e
il movimento dell’universo e della natura – ovvero le diverse manifestazioni
della materia. In tal modo noi comunichiamo con il sentimento delle leggi
dell’essere della materia intesa come incessante movimento.
[Ejzenštejn  (:)]
Verso un cinema estatico 

Ejzenštejn precisa ulteriormente la natura di questa comunione do-


mandandosi se questi legami siano una sorta di divinità individuale
che permane al di fuori di noi:

Noi stessi siamo parte di questa materia. Una delle sue manifestazioni par-
ticolari. E in quanto manifestazione particolare, in noi funzionano quelle
stesse leggi che sono in opera nelle altre manifestazioni della materia. Così
noi potremmo teoricamente scoprire ed esperire le leggi del movimento
della materia “conoscendo noi stessi”. Ma in quale misura questo è davvero
possibile? [..] E’ possibile dal punto di vista di una formulazione oggettiva di
queste leggi? Evidentemente no. [..] In rapporto a questa materia che noi
stessi componiamo [..] noi non possiamo che essere incapaci di porci nelle
condizioni necessarie per una conoscenza oggettiva delle leggi che ne regola-
no il movimento. L’orientamento del nostro interesse verso la conoscenza di
questo movimento [..] che noi stessi siamo [..] risulta quindi inevitabilmente
votata a un costitutivo soggettivismo. [..] Ma se le cose stanno così, allora
che tipo di dati possiamo ricavare da un tale atteggiamento introspettivo?
[..] Un tale modo di contemplare può farci vivere emozionalmente le leggi
del movimento della materia, determinare un loro sentimento soggettivo,
ma non produrrà mai non solo una conoscenza oggettiva ma nemmeno
un quadro sufficientemente articolato o una descrizione sufficientemente
intellegibile .
Ivi, pp. –

Nonostante le dichiarazioni di un limite imputato all’azione della


sensibilità, le conclusioni di Ejzenštejn estratte da La natura non Indiffe-
rente all’interno del capitolo dedicato al Pathos, sembrano andare in
una direzione che individua nella dissoluzione, per così dire pantei-
stica, una delle soluzioni per contrastare e vincere le stratificazioni
sovrastrutturali dei concetti e dei comportamenti meccanici che met-
tiamo in campo nella nostra vita in termini di risposta agli stimoli.
Si tratta di collocare al primo posto una realtà che, pur rimanendo
squisitamente sensibile, tuttavia rimarca come sia proprio «nel campo
delle sensazioni che si possono comprendere le leggi di movimento
in cui si rivela la nostra “essenza materiale”, cioè il nostro essere quel
“grumo” di materia pensante che chiamiamo uomo». Ivi p. 

. Ejzenštejn prosegue e conclude la sua riflessione su questo stato “sovraoggettivo”


dicendo che l’unico soggetto in grado di ovviare a questa condizione di distanza dai
fenomeni oggettivi e ricreare un equilibrio tra componenti soggettivi e materia è il poeta,
l’artista. E può farlo perché, oltre a conoscere sé stesso, costui conosce anche i sentimenti
altrui. [..]
 Gian Marco De Maria

Ejzenštejn considera questa dimensione del sentimento uno «stato»


originario, uno stadio del pensiero (oščuščenie) in cui il concetto non
ha ancora preso forma.
Questo stato assomiglia a quel tale orso che il barone di Munchausen costrin-
ge a colpi di sferza a saltar fuori dalla propria. . . pelle e a darsela a gambe
nella foresta tutto nudo, lasciandosi dietro la pelliccia. Quest’orso denudato
– questo stato psichico privo di oggetto, di immagine e di contenuto – si
sforza naturalmente di trovare alcunché di concreto in cui incarnarsi, cerca
una materia che gli permetta di acquistare realtà e tangibilità.
Ivi p. 

Senza il requisito di questa nudità non si avrebbe la necessità di una


ricerca del senso, di una sua traccia, di una sua impronta. Questa messa
a nudo del soggetto (interpretante), spellato delle sue protezioni, si
rivela una ricchezza in quanto scatena un fenomeno empatico che
produce pathos:
Il pathos si definisce come qualcosa che costringe lo spettatore a balzare
in piedi dalla sua sedia. Qualcosa che lo spinge a spostarsi, a gridare, ad
applaudire. Qualcosa che gli fa brillare gli occhi di gioia prima di spargere
lacrime di entusiasmo. In una parola: tutto ciò che costringe lo spettatore
ad «uscire da sé stesso» [..] l’azione patetica di un’opera consiste nel portare
lo spettatore in uno stato di estasi [..] estasi equivale letteralmente al nostro
«essere fuori di sé» o «uscire dallo stato abituale».
Ivi p. 

Quest’uscita da se stessi è un processo dinamico–temporale neces-


sario per partecipare delle leggi universali e si realizza, sempre secondo
Ejzenštejn, grazie al fatto che è possibile comparare l’esperienza di
un corpo performativo con il corpo dell’opera d’arte organica. L’or-
ganicità che attrae l’attenzione di Ejzenštejn è quella che si presenta
quando ci troviamo di fronte a
un’opera d’arte – un’opera artificiale – costruita a partire dalle stesse leggi che
strutturano i fenomeni non–artificiali – i fenomeni organici della natura. [..]
Un’opera di questo genere esercita sul destinatario un’efficacia propriamente

. Ejzenštejn colloca sullo stesso piano il corpo performativo dello spettatore patetico
e quello dell’orso del barone di Munchausen che resta privato della propria pelliccia. Il
pathos è la discriminante che mette a nudo il «puro psichismo» e riporta alla luce le matrici
del pensiero umano eliminando la pelliccia della razionalità che separa l’uomo dalla natura.
Verso un cinema estatico 

individuale, non solo perché è elevata al livello dei fenomeni naturali, ma


anche perché la sua legge strutturale è al tempo stesso la legge che regola la
costituzione del fruitore in quanto parte della natura organica. Il fruitore si
sente organicamente unito e fuso con un’opera di questo genere, proprio
come si sente unito e fuso col proprio ambiente naturale.
Ivi p.

. Estasi come coalescenza e commutazione di diversi registri e-


spressivi

Secondo Ejzenstejn l’«uscita fuori di sé» attrae e investe forme e


immagini provenienti da diversi sistemi espressivi verso cui il cinema
si propone come un campo da gioco, il campo delle possibilità (passate
e future). Si va dalla necessità di contrappuntare suoni e immagini in
costruzioni non naturalistiche, ai diversi adattamenti delle dimensioni
dello schermo per conformarsi alle diverse esigenze di composizione
dell’inquadratura; dalle sinestesie (“sentire il colore”, “ascoltare lo
spazio”), ai saggi dedicati a un cinema stereoscopico (vedi Somaini
). Insomma, prende anima il progetto di una vita intera dove il
cinema , soprattutto grazie al metodo estatico, provvede a proporsi
come un oggetto «polifonico» e «sferico». Un cinema oggetto senziente,
più che sentito.
Ejzenštejn alludeva, in definitiva, alla concreta possibilità che un
cinema estatico potesse proporsi e svilupparsi come un sistema multime-
diale (Montani ) in qualche modo capace anche di affrancarsi dagli
automatismi e dalle aspettative della narrazione, un dispositivo audiovi-
suale in grado di coagulare, ma anche far confliggere produttivamente
(Ejzenštejn –), elementi (e stili) espressivi eterogenei.
Questo scarto ha determinato anche le condizioni per far migrare
verso altre forme mediali proprio quegli elementi già presi in esame e
che Antonio Somaini (), riprendendo un’espressione introdotta da
François Albera [, ()], ha definito “cinématisme”. Sono, lo ripe-
tiamo, elementi riferibili all’universo cinematografico (elaborazione
delle più diverse formule di montaggio, ridefinizione del rapporto sala
cinematografica–spettatori, variabilità delle dimensioni schermiche
etc..) che subiscono un processo di «ri–locazione» (Casetti ) e
«ri–mediazione» (Bolter e Grusin ). Sappiamo trattarsi di fenome-
 Gian Marco De Maria

ni conosciuti e di cui si è individuato con acume e rigore il meccanismo


interno ma, ci pare, ancora del tutto inesplorati rispetto alla portata
delle riflessioni di Ejzenstejn e per le conseguenti possibilità di svilup-
po e commutazione. A quest’ultimo proposito Ejzenštejn sosteneva
che, all’interno di un cinema estatico, il particolare meccanismo di
commutazione è favorito e permesso dal fatto che

l’«uscire da sé» si trasforma [..] nel passaggio in una qualità nuova, e nella
maggior parte dei casi raggiunge l’intensità di un salto in una qualità con-
traria [..] Il segreto dell’organicità riguarda il movimento stesso dell’opera:
il passaggio da una qualità ad un’altra per salti successivi, infatti, non è più
soltanto la formula della crescita, ma è già la formula dell’evoluzione. [..]
La struttura del pathos [..] è quella che ci conduce [..] a esperire i momenti
della realizzazione e della formazione delle leggi dello sviluppo dialettico. Con
momento della realizzazione definiamo quella soglia attraverso cui passa
l’acqua nell’attimo in cui diventa vapore, o il ghiaccio che diventa acqua, o la
ghisa che si fa acciaio. In tutti i casi abbiamo la stessa «uscita da sé», l’uscita
dalla propria condizione, il passaggio di una qualità in un’altra: l’estasi.
Ivi p. –

Ejzenštejn non si limita a indicare il respiro teorico del suo impian-


to, bensì precisa quali possano essere gli strumenti con cui è possibile
provare a elaborare un cinema estatico. Lo fa appoggiandosi ad esempi
eterogenei, tratti dalla storia dell’arte, come nel caso dell’esame delle
opere di El Greco o Piranesi, come pure dalla mistica religiosa, gli
Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola, o dalle pure tecniche artigianali,
come quella di intrecciare canestri o tappeti.
Sono tutti strumenti che hanno un loro bacino di utilizzo non
confinato a un periodo storico particolare ma del tutto esportabili nel
contesto attuale: si potrebbe, anzi, affermare, con una certa sicurezza,
che il digitale ne è forse il matrimonio più riuscito.
Ci limitiamo dunque a segnalare alcuni di quei tratti che Ejzenštejn
individua come costitutivi di un’opera, o più precisamente, di un
metodo estatico. Si tratta per lo più di due serie di oggetti definite,
rispettivamente, «figure della costruttività», articolate in «figure della
fluidità e dell’ espansione», il cui prototipo antropologico è la caccia: il
rotolo, il telescopio, la spirale, l’esplosione, appartengono alla prima

. E’ opportuno rimarcare come per il regista sovietico Estasi e Pathos siano due facce
della stessa medaglia (Cfr. Montani )
Verso un cinema estatico 

categoria; e «figure della connessione e della tessitura», aventi come


riferimento antropologico l’arte di intrecciare i canestri: il nodo, la
treccia, il riquadro, l’opera in muratura.

Queste due serie vengono utilizzate a più livelli e variamente combinate tra
loro: da un punto di vista “oggettuale” [..] in quanto direttamente osservabili
in un oggetto o in un singolo genere artistico; da un punto di vista formale,
in quanto appunto, figure della costruttività; da un punto di vista diacronico,
in quanto possibili criteri esplicativi dello sviluppo o evoluzione delle forme
e dei generi dell’arte.
Montani cit. : XXXII

Nelle osservazioni di Ejzenštejn la funzione di queste figure deter-


mina una qualità d’intervento e modellamento degli elementi per ot-
tenere un’opera d’arte efficace che consenta quel passaggio qualitativo
ininterrotto di cui abbiamo discusso.
Esportate nel contesto attuale queste stesse figure, secondo noi,
sono il corredo metodologico (ma perché no, anche fattuale – vedi
ad esempio i riferimenti alle potenzialità dell’obiettivo  —  ) idonei
per esplorare quelle potenzialità del digitale che aprono alla «natura
testimoniale dell’immagine» (Montani cit.).
Lo ribadiamo: il dispositivo estatico mutuato da Ejzenštejn esalta la
natura multiprospettica del cinema attraverso quella che risulta una
commutazione dei diversi registri espressivi, aprendo così la stura a
un procedimento assimilabile a quello della «epifania» proposta da
Joyce (Bernardi , Verdone ), strumento che permette anche di
costruire un legame col reale per svelarne le più recondite fenditure.
Citiamo a questo proposito due passaggi del pensiero di Ejzenštejn
che ci consentono di chiarire quest’ ultimo punto .
Il primo fa riferimento proprio a Joyce. Ejzenštejn, recuperando
le suggestioni di Vygotskij () a proposito del discorso interno e
soprattutto le riflessioni sul «linguaggio egocentrico», crede che il
procedimento letterario adoperato da Joyce nell’Ulisse (il riferimento
va, in questo caso, all’ultimo capitolo in cui Mrs. Bloom, prima di
addormentarsi, ricorda le figure dei suoi vecchi amanti) colga «una
tra le più profonde caratteristiche dello stadio primordiale dello svi-
luppo della coscienza: l’integrità non articolata e la fluidità delle idee

. Ejzenstejn, cit.[ (: )


 Gian Marco De Maria

indifferenziate, proprie dello stadio che precede la fase più avanzata


della coscienza attiva “articolante”». [Ejzenštejn cit. , (: )]
Ma, aggiunge, la combinazione corretta di queste due caratteristiche
può essere portata a compimento solo dal cinema «realizzando tutte
le aspirazioni delle altre arti senza rinunciare al realismo».
Questa particolare azione combinatoria e coordinata condotta su più
livelli espressivi, necessaria per dare continuità al pensiero primitivo
e articolazione alla coscienza evoluta, suggerisce come il metodo
estatico palesi un chiaro indirizzo verso quella che Siegfried Kracauer
(), facendo sempre riferimento al dispositivo cinematografico,
chiamerà «redenzione della realtà». Un cinema, cioè, unico strumento
capace di mostrare e riscattare la realtà, non solo mostrandone gli
aspetti più inconsueti, ma scoprendo quelli trascurati perché ordinari,
e spesso sfuggenti, come accade per la “Lettera rubata” di Edgar Allan
Poe.
Nonostante la chiosa di Kracauer, sarà ancora Ejzenštejn ad aprire,
prima dello studioso tedesco, le porte di una testimonianza del reale
a quelle che noi riteniamo oggi le possibilità del cinema (estatico). Lo
farà, ad esempio, parlando dei film di Edward Wark Griffith,
Analizzando le pellicole del regista americano Ejzenštejn riflette
su come questi abbia saputo spesso mettere in primo piano quello
che a prima vista sembrerebbe un semplice figurante, un passante
qualunque, un imprevisto del contingente. Questo individuo qualun-
que, ripreso apparentemente per caso:

Interrompe passando il momento più patetico della conversazione tra il


giovane e la ragazza angosciati. Non ricordo quasi nulla della coppia, ma
questo passante, visibile solo per un breve attimo nell’inquadratura, è an-
cora oggi vivo dinanzi a me: eppure sono passati vent’anni! Di quando in
quando queste figure indimenticabili entravano nei film di Griffith quasi
direttamente dalla strada; un suonatore ambulante diventava un divo nelle
mani di Griffith: il passante che mai più sarebbe stato ripreso.
[Ejzenštejn  (: –)]

Di fronte dunque allo straordinario dispiegamento delle risorse creative


rese disponibili dalle nuove tecnologie dell’immagine sembrano possibili
due atteggiamenti : da un lato quello di enfatizzarne l’aspetto mitopoietico,
dall’altro quello di interrogarne le nuove potenzialità testimoniali. Il cinema
sembra, attualmente, voler far sua questa seconda strada.
(Montani cit.)
Verso un cinema estatico 

In sostanza, a fronte della messa a nudo del dispositivo psichico,


scuoiato de «la pelle dell’orso», il cinema dell’estasi non si concentrerà
su un sofisticato, per quanto forse un po’ abusato, artificio della messa
in scena, né tantomeno accorperà le sue potenzialità di trasformazione
verso articolate trame narrative (a quelle ci sta pensando, in maniera
egregia, la televisione, attraverso la serialità americana). Piuttosto, le
manipolazioni, le metamorfosi, la messa in sequenza delle immagini
nell’attuale panorama mediale, fanno pensare alla necessità, per così
dire estatica, di esplorare, da un lato la storia delle forme in generale,
dall’altro tutte le varie espressioni, spesso indisciplinate o confuse,
costituite dalle potenzialità soggettive e quindi di abbandono proprio
di quella «pelle dell’orso» di cui abbiamo discusso.
Il rigore e lo stimolo di questa metodologia proposta da Ejzenštejn,
lo ribadiamo, potrebbe essere ancora oggi uno strumento partico-
larmente indicato per addestrare anche tutta la pletora di soggettivi-
tà ingenue che invadono indiscriminatamente ogni genere di archi-
vio telematico. Questa «sovraoggettività», come forse la definirebbe
Ejzenštejn, potrebbe favorire un lavorio tra le pieghe del reale tale
da poter intervenire su quella che attualmente viene letta come una
mediatizzazione integrale della società.

. Tensione verso l’irrappresentabilità dell’immagine

Può certo sembrare paradossale, o addirittura una forzatura, proporre


di risolvere il lavoro di Ejzenštejn, attraverso l’istanza di una dissoluzio-
ne dell’immagine, o per lo meno, dirigere una parte del suo impianto
teorico verso il desiderio di rendere le immagini irrappresentabili.
Tuttavia, a nostro avviso, le avvisaglie che il metodo estatico, attraverso
la spinta costante sull’esaltazione dell’intensità del sentimento, potesse
produrre un effetto di smaterializzazione, è stato sempre presente
in chi ha ragionato sulle opere del regista sovietico. Oltrepassare la
soglia della rappresentazione è un pericolo che, nel caso di Ejzenštejn,
rischiava di portare in questa direzione. Siamo anche convinti però,
che proprio il proposito di attraversamento di questa soglia attivato
dal regista sovietico ha permesso, oggi, al dispositivo cinematografico,
di eleggersi come un mezzo dalla “specificità variabile” e soprattutto,
 Gian Marco De Maria

come sostiene Jacques Aumont in maniera quasi paradossale (),


un medium non più legato alle sole immagini in movimento.
Ejzenštejn, pertanto, nel rompere la cornice dell’immagine, ce ne
ha offerto “il retro”. Un “al di là” che, nel momento in cui fa la sua
apparizione, perde i suoi contorni, la sua definizione. Crediamo allora
che questo “al di là” non possa più appartenere con formula piena solo
all’universo delle immagini dal momento che si tratta di un fantasma:

Può essere divertente ricordare qui che perfino la prima del Potëmkin
avrebbe dovuto concludersi con una particolare “uscita fuori di sé”, alla
fine della proiezione al teatro Bol’šoj nel dicembre , ventesimo anni-
versario della rivoluzione del  che era, appunto, celebrata dal film. Il
progetto di regia prevedeva che l’ultima inquadratura del film – la prora
della corazzata che viene in avanti – dovesse lacerare. . . la superficie dello
schermo: lo schermo doveva dividersi in due, aprendosi su una reale e
solenne seduta commemorativa, alla presenza dei veri protagonisti degli
avvenimenti del .
(Ejzenštejn ,  cit. p. )

Per quanto l’esempio sia del tutto pertinente con l’uscita dalla
rappresentazione, e suggerisca un forte impatto di smaterializzazio-
ne, tuttavia non precisa ancora la dimensione della questione che
Ejzenštejn vuole mettere in rilievo.
In effetti vorremmo proporre un ulteriore spunto in cui ci sembra
di poter riconoscere, in quanto presentate con maggiore efficacia, le
modalità con cui può risolversi l’irrappresentabilità dell’immagine,
il rischio a cui il procedimento estatico, la già ricordata intensità del
coinvolgimento emozionale, può condurre.
Nel capitolo dedicato alla musica del paesaggio de La natura non
Indifferente Ejzenštejn indaga il paesaggio come «complesso veicolo di
un’interpretazione plastica delle emozioni» e si rende conto che questo
(come del resto possono esserlo anche altri oggetti) può tradurre
una drammaticità così forte da incarnare intere concezioni cosmiche,
addirittura interi sistemi filosofici.
A questo proposito sceglie di prendere in esame i disegni di paesag-
gi cinesi del X, XI e XII secolo che

mostrano scorci di montagne rocciose, un albero spezzato [..] e in mezzo,


girato di tre quarti rispetto a noi, lo sguardo volto verso la profondità del
quadro, la figura del saggio, in piedi, seduta o in posizione di riposo, con
Verso un cinema estatico 

la testa poggiata sul braccio piegato. Se si segue mentalmente lo sguardo


del saggio ci si accorge che, dopo aver percorso i contorni sfumati della
vegetazione, delle valli e dei monti, questo è immancabilmente teso verso
il “nulla” – verso lo sfondo bianco del quadro, libero da qualsiasi allusione
ad oggetti o a rappresentazioni! [..] Lo sfondo bianco lasciato sullo sfondo
del quadro verso cui tende lo sguardo del saggio, non è una parte del foglio
destinata ai saluti, al programma di uno spettacolo o al menù; l’unione di
questa zona bianca e dello sguardo del saggio che, distogliendosi dalla “vana”
multiformità della natura, si volge ad essa, rappresenta, secondo l’intenzione
del pittore, la sintonia dell’immersione del saggio in se stesso, nello stato
contemplativo che lo porterà a sprofondare nel nulla originario da cui tutto
deriva. [..] Questa immersione in se stessi, nel «grande Nulla» che al tempo
stesso «genera il Tutto» è sostanzialmente un’interpretazione poetica di
quello stato di esaltazione che prende l’uomo quando si trova solo di fronte
alla natura. In questi momenti si è assaliti da un insolito sentimento di
dissolvimento e risoluzione di noi stessi nella natura, e in questo sentimento
sembra annullarsi il contrasto tra l’universo e l’individuo.
Ivi pp. –

Questa riflessione conclusiva di Ejzenštejn, secondo noi, ha dimo-


strato una gittata che non solo esplode letteralmente dai confini e
dai limiti del dispositivo cinematografico, ma trasforma quegli stessi
limiti, e quelle stesse deflagrazioni, in una conseguente implosione,
e trova in se stessa una autoalimentazione. Non si tratta però di una
semplice mise en abime o un gioco, magari labirintico e di natura au-
toreferenziale. Piuttosto ci pare trattarsi di un rinvio a qualcosa che
non solo non ha più a che fare con qualunque dinamica più o meno
consequenziale, e neppure con le «situazioni ottico–pure» di Deleuze
(), ma ad una pura situazione immaginale, che forse è solo il residuo,
una rovina dell’immagine e del bagaglio di relazioni che essa veicola.
Quello che, ad esempio, si è verificato al cinema Lumiere di Bo-
logna ci pare sufficientemente emblematico di quanto stiamo discu-
tendo. Durante il mese di giugno del  The Three of Life di Terence
Malick è stato proiettato involontariamente, e per più volte di seguito,
a rulli invertiti (la cosa si è ripetuta anche con una pellicola di tutt’altro
genere diretta da Ettore Scola), senza che il pubblico manifestasse
alcuna reazione.
Sulla scorta di questi episodi recenti che ci appaiono affatto si-
gnificativi e non semplicemente incidentali, (o per lo meno la loro
incidentalità si è successivamente rivelata significativa) si può allora
 Gian Marco De Maria

apprezzare quanto le idee sull’estasi propugnate da Ejzenštejn siano


diventate l’humus della superficie delle immagini. Come ha nota-
to anche Guglielmo Pescatore (), i fatti di Bologna dimostrano,
convalidando, in qualche modo, proprio la direzione proposta dal
regista sovietico, che il film, il cinema, non è più un luogo deputato
per l’espressione di una natura discorsiva delle immagini. Non risulta
nemmeno più determinante che si acceda ad immagini–movimento,
quanto invece ad una pratica sociale indirizzata verso un punto, un
«punctum» , su cui indirizzare lo sguardo. Un punto che, tuttavia, come
nel disegno cinese di cui ci ha raccontato Ejzenštejn, deve prevedere
un point blanck. Non tanto un punto di fuga, quanto un intervallo ,
un effetto pausa (Aumont cit.) che interrompa il flusso, che abiliti
anche l’irruzione dello sguardo altrui, e determini il “rintocco” delle
relazioni tra gli elementi del film. Un momento in cui il vuoto è ciò
che non va saldato, un luogo groviera in cui deve rimanere spazio tra
le cose. Questo vuoto appartiene, di diritto, ad un paesaggio–estasi il
cui gesto evocativo è aprire le immagini (Cfr. Montani ) attraver-
so il gesto infantile del montaggio e rimontaggio delle cose, quella
situazione privata in cui i pezzi non tornano mai tutti al loro posto,
in una costante, e instancabile, vibrazione tra l’essere e il divenire. Il
prezzo del biglietto d’entrata in un cinema estatico equivale a giocare
a non ricostruire mai le forme per intero, forse — ed è forse il vero
piacere — a non rappresentarle mai del tutto per davvero.

. Ci permettiamo di prendere in prestito il termine usato da Roland Barthes a pro-


posito del luogo emotivo in cui si concentra l’attenzione del fruitore della fotografia per
proporne un’accezione modificata . Il “punctum” nella nostra proposta di lettura sareb-
be l’esaltazione dell’emotività dello spettatore che lo porta ricercare la visione sfocata
dell’oggetto, a privilegiarne gli aspetti indeterminati per aumentarne il godimento del
differimento. Cfr. Roland Barthes, La chambre claire: note sur la photographie, Gallimard,
Paris, ; trad.it. La camera chiara: nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 
. «Mantenere aperto l’intervallo tra le immagini significa [..] che l’apertura è anche
condizione di insediamento di uno sguardo altrui, abilitato a interrompere in ogni momen-
to la concatenazione del testo filmico per assumerlo in proprio e orientarlo su altre possibili
costellazioni. La pluralità degli sguardi, e ciò che oggi definiamo “interattività”, sorgono
in tal modo dall’interno dell’immagine aperta: ne sono alla lettera, una “forma di vita”».
Montani : 
Verso un cinema estatico 

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pag. 171–183 (luglio 2014)

Renoncer pour s’énoncer


L’extase dans ses parcours de l’expression

L B–N

 : Self–Denial for Self–Enunciation: Ecstasy in its Expressive Paths

: A semiotics of ecstasy studies an impersonal state which sets a per-


son out of him/herself as well as out of reality. This state is studied in the
expressed form; it is a result of the action, also given as the expression.
The semiological analysis reveals this stase in three periods – before, in
course and after the action, which caused the uttirance of state. Analysis
treats the transformation as a rupture in the expressed state which is con-
tinuous by definition. Thus the ecstasy is a transitional state of a person
during the transformation. Self–denial is related to the suspension of the
initial sense which became irrelevant before the beginning of the ecstasy.
What happens when the person gets out of his/hers personality being in
the ecstatic state? Is there a real rupture between three persons (the one
“before”, the one “in course” and the one “after”)? Or is this rupture
only illusive so the person gets back to his/her universe transformed by
the new view, not sensual and conscious but now spiritual? According
to the hypothesis of the meaning of the ecstasy as the denial of the
initial common sense we talk about the reorganization of the person’s
personalized experience.
The meeting, the suspension and the inversion of two views all
happen on a thematic level of the transformation of the material and
idealistic values. The subject of this study is the iconographic material of
Eugene Green’s movie The Portuguese Nun (A Religiosa Portuguesa, )
which is full of roman–inspired images from The Letters of a Portuguese
Nun (Les Lettres Portugaises, ) of G. Guilleragues and The Nun (La
Religieuse, ) of D. Diderot.

: semiotics of ecstasy; self–denial of meaning; effect of rupture;


experience of spiritual repositioning; conversion.

Cette contribution est à son origine la communication présentée


pendant la table ronde internationale “Sémiotique de l’extase” au


 Ludmila Boutchilina–Nesselrode

Congrès IASS  à Nanjing, en Chine. Son objectif est de partager


dans l’élaboration de la question sur l’auto–négation du sens dans
la perspective sémiotique de l’extase. J’examine cette question à par-
tir du corpus extrait du film « La Religieuse portugaise » d’Eugène
Green sorti en France en . Il s’agit de la démystification de l’extase
en tant qu’expérience de situations extatiques restituée dans l’art de
cinématographe, reproduction du mouvement par une suite de pho-
tographies. Dans ce qui suit, j’explicite d’abord mes acceptions de
termes. L’approche du problème appliquée est la sémiotique construc-
tive greimassienne. Elle est greimassienne de fait ) d’être ancrée dans
le langage, ) d’avoir les parcours génératifs de signification et de
l’expression pour les « grilles d’analyse » et ) d’obéir à la grammaire
tensive. Elle est constructive car elle ) « travaille avec les structures
construites et non pas naturelles, ) n’analyse pas mais restitue les pro-
cessus, ) considère que pratiquer le principe de restitution cognitive
correspond à une construction réelle de processus » . Je présente en-
suite les formes d’extase constituant la trame du film. Je donne ensuite
mon point de vue sur le sens de l’extase en démontrant ses lieux et ses
rôles dans le parcours plus général de l’expérience. Et je conclue par
dire que l’opération de l’auto–négation du sens dans l’extase de « La Re-
ligieuse portugaise » n’est pas la fin de la sémiose mais le passage à son
renouvellement au niveau méta–discursif d’analyse. Cette opération
contribue à la gestation de l’événement dû au changement spirituel
après l’extase et à l’enfantement d’un nouveau rapport à la vie.

. Introduction : le positionnement

Le mot extase évoque habituellement, chez le chrétien, l’enthousiasme


dans la recherche du consensus du soi–même avec Jésus. Derrière le
mot, on voit le phénomène d’accomplissement de notre aliénation des
soucis basiques terrestres par la prière et la méditation, de transport vers
l’éprouver des soit disant Béatitudes, le dernier stade de contemplation.
Or, ce dernier terme désigne, dans la philosophie, le premier pas du pro-
cessus de connaissance, une forme sensible de réverbération de la réalité
dans la conscience de l’homme. On peut se dire qu’on est en face du

. Vygotski (), p. , notre adaptation de la traduction à partir du texte russe.


Renoncer pour s’énoncer 

cercle vicieux — celui de conception d’une situation de l’esthésie, stérile


du point de vue de l’acte et de l’action, l’émanation des choses divines.
Mais chaque émanation provient d’une source, physique ou spirituelle,
qui a son cycle vital. Le terme d’émanation est contraire à celui d’extase
comme le /parâtre/ l’est à l’/être/sur le carré élémentaire. Il implique
la source qui doit s’alimenter. Pour être explorée, la source présuppose
les ressources et donc le déplacement. Si on recherche l’investissement
sémantique pour cette catégorie des subcontraires de l’extase, on ne
retrouve que l’Homme pour la source et la Parole divine pour la res-
source dans toutes les hypostases anthropologiques et historiques. Telle
est la situation extatique élémentaire de positionnement :

Elle pose trois questions : ) sur l’unité de son analyse, ) sur le sujet
et/ou l’objet du déplacement, et ) sur ce qui se produit au centre du
carré de positionnement, à la croisée de la figure positive de l’extase
avec la figure négative de l’émanation. Et, pour savoir ce qui arrive au
sens dans son auto–négation par la production du sens opposé pendant
l’arrêt de la sémiose, il faut s’entendre bien sur les définitions.

.. Quelques définitions

La situation est le fait d’être dans un lieu. Elle est la manière dont
une chose est disposée, située ou orientée, sa position. Extatique
qualifie une telle situation « qui égare l’esprit », qui « a le caractère
de l’extase » . L’extase est l’« action d’être hors de soi », l’état dans
. Cf. Rey A. (éd.), , Dictionnaire historique de la langue française, en  vol., Paris,
Dictionnaires le Robert, vol. , l’entrée « Extase ».
 Ludmila Boutchilina–Nesselrode

lequel une personne se trouve comme transportée hors de soi et du


monde sensible . L’état en général est la manière d’être — physique,
intellectuelle, morale . L’extase est donc la manière d’être là, où il n’y
a personne — ni physique, ni intellectuelle, ni morale. Le terme d’état
en sémiotique est homologué à celui du continu , de ce qui dure. C’est
une situation du développement selon trois stases au minimum : avant,
pendant et après la transformation — lieu de rupture de la continuité .
L’extase est alors le « pendant » de transformation du continuum soit
le degré zéro de l’état actuel. Il est le processus de repositionnement
suspendu dans son accomplissement et donc inachevé. Ceci permet de
parler de l’effet de rupture dans l’extase, du mode virtuel d’existence
de la rupture dans la situation extatique.

.. La sémiotique de l’extase

La sémiotique de l’extase veut dire deux choses en même temps. D’un


côté, l’accent se met sur l’extase en tant qu’objet sémiotique, celui de
langage — ensemble signifiant doté du plan de l’expression et du plan
du contenu. De l’autre côté, l’accent se met sur la sémiotique en tant que
méthode pratique permettant d’étudier cet objet dilemmatique soit de
reconstruire son unité d’analyse de sorte qu’il garde intact le trait distinctif
de l’ensemble signifiant de l’extase. Quel est ce trait caractérisant l’unité
d’analyse de la situation extatique ? L’extase comme l’objet sémiotique
est le produit de la sémiose. Cette dernière a une double entrée. Elle est,
d’une part, la catégorie sémique dont les deux termes constitutifs sont la
forme de l’expression, le signifiant, et la forme du contenu, le signifié.
Elle est, d’autre part, la fonction sémiotique — notre capacité à utiliser les
signes et les symboles pour la construction de la réalité discursive. Elle
assure le processus de sémiotisation des choses dites et se disant, extasiées
et s’extasiant par et dans le discours. Cette opération instaure, c’est–à–dire
établit pour la première fois, la relation de présupposition entre la forme
de l’expression (syntaxes discursive et figurative) du texte/discours et
leur forme du contenu — syntaxes modale et narrative.
. Cf. Le Petit Robert, entrée « Extase ».
. Ibid., entrée « Etat ».
. Greimas, Courtés, , entrée « Etat », p. .
. Idem.
. Ibid., entrée « Sémiosis », p. .
Renoncer pour s’énoncer 

.. L’arrêt de la sémiose

L’arrêt de la sémiose interrompt l’instauration des présuppositions entre


les termes contraires, contradictoires et complémentaires. Ceci cor-
respond à l’action inverse de celle d’instauration et crée la situation
d’abolition, de destruction et du renversement de l’ordre, du régime
des relations et des rapports déjà établis. La sémiose est par définition
inchoatif. Elle recommence, réinstaure chaque fois pour la première, son
fonctionnement toujours dès le « degré zéro » des relations. L’extase
comme l’état « pendant » l’instauration de relations nouvelles sémiotiques
est une phase routinière et récursive des formations et des reformations
du sens dans les pratiques discursives. Le mérite de l’expérience reli-
gieuse mystique est de l’avoir hautement exagérée et érigée en une
exaltation suprême ce qui donne l’accès à son étude au niveau macro-
structural. La situation de renversement des relations est historiquement
décrite comme celle de crise ou de révolution. Ce dernier terme est à
comprendre dans le sens étymologique provenant du bas latin : « dé–
roulement », « achèvement d’un cycle ; é– coulement d’une période de
temps ». Il est à la base de la première acception du mot r– évolution :
«mouvement en courbe fermée » ce qui veut dire « retour périodique,
rotation complète, révolution cardiaque ». Ce sont les relations qui se dé-
placent lors du renversement de la situation extatique. Leur mouvement
révolutif n’annule pas cependant la situation élémentaire des termes. Il les
dédouble et crée une duplicité. Le trait distinctif d’une telle situation est
l’ambivalence entre les sources et les ressources — la réalité de la nature
de l’Homme et la virtualité du culte de la Parole — l’inaboutissement de
l’être, le glissement et le recommencement. Le problème de l’extase re-
vient ainsi à celui d’unité d’analyse : comment l’étudier sans détruire son
ambivalence naturellement culturelle? Essayons de le voir sur l’exemple
de l’expérience cinématographique d’extase.

. Parcours des changemens spirituels

« La Religieuse portugaise » est le titre trompeur, le mot–valise. On


pense au genre passionnel épistolaire des sœurs amoureuses. On se

. Cf. Le Petit Robert, entrée « Révolution ».


 Ludmila Boutchilina–Nesselrode

retrouve emporté par la beauté, la poésie, la mélodie des images, des


visages et la métonymie du corps des personnages. L’auteur du film,
Eugène Green est spécialiste de l’art baroque. Il est créateur du théâtre
de Sapiens. Il défend l’art de la déclamation. Il a écrit la Poétique du
cinématographe . Sa « Religieuse portugaise » est l’essai phénoméno-
logique, domaine flou et incertain. « Flou » parce que la forme nous
apparaît par son aspect inattendu. Et sa reconnaissance n’est pas du tout
certaine. On reconnait le phénomène en le nommant. Le mot arrive,
la féérie d’épiphanie s’arrête. Le nom de Saint Thérèse est prononcé
une fois dans une église nocturne : les religieuses portugaises parlent,
dit un des personnages. La conversion et la conversation, ne sont–elles
pas les expériences de la même nature ? Et au retour, il est le temps de
prendre une décision terrestre soit d’accepter, subir les conséquences
des actes et en répondre par une action. L’extase est ainsi une forme
dilemmatique de protestation. Elle est l’affirmation d’amour bien prêt
à s’indigner contre elle–même. Elle est donc susceptible à s’éclater
dans les deux sens.

.. L’expérience cinématographique d’extase

Trois types d’expérience extatique sont repérables dans le film. Ce


sont : ) l’expérience comme un événement vécu par une personne sus-
ceptible de lui apporter un enseignement, ) l’expérience comme une
connaissance de vie acquise par les situations vécues et ) l’expérience
comme une expérimentation soit la simulation, épreuve d’un phéno-
mène afin de le restituer comme tel. Ce film éprouve in vivo le déve-
loppement possible des situations extatiques, celles de déplacement.
Développer veut dire objectiver, faire le travail d’une sage–femme —
aider l’événement à voir le jour. Eprouver, apprendre et connaître
l’extase par le moyen de cinématographe devient égale à enfanter une
compétence nouvelle, celle de ne pas détruire l’ambivalence de la
situation. Le film objective les déplacements à deux reprises. Il pro-
voque d’abord les phénomènes minimes d’extase. Il décale le dit de
ce qu’on voit. La langue est étrangère, la parole est sous–titrée, les
chansons sont très longues. Disons, la forme nie le contenu.

. Green, .
Renoncer pour s’énoncer 

. L’extase comme l’unité tensive

L’événement qu’on vit devant la caméra au cours de l’enseignement


du clair et de l’obscur se tisse au fil de ces épreuves verbales, vocales,
visuelles et temporelles de décalages. Les déplacements microsco-
piques s’accumulent. Ils se réorganisent en un savoir mystique qu’on
peut nommer la connaissance de vie. « Il faut être patient », dit un des
personnages du film. Patienter c’est savoir accepter que les choses se
contredisent, c’est savoir se tenir sous tension jusqu’à la résolution de
la situation conflictuelle. Cette situation discursive peut être modalisée
en termes de sémiotique tensive comme le « paradigme des syntagmes
élémentaires de croyance ». Ce paradigme « se repose sur le partage
en syntagmes implicatifs conformes à quelque doxa et en syntagmes
concessifs en (effet de — LBN) rupture avec cette même doxa » .
Les syntagmes implicatifs sont « croire le croyable » et « ne pas croire
l’incroyable ». Les syntagmes concessifs sont « croire l’incroyable » et
« ne pas croire le croyable ». Ce paradigme est non–linéaire et par ce
fait il configure le paradoxe. En termes de psychologie constructive
du conflit, il s’agit de lire l’extase dans « La Religieuse portugaise »
comme une formation de compétence conflictuelle, « le savoir entre-
tenir la contradiction sous forme de conflit productif favorisant sa
résolution » . Cette expérience audio–visuelle prouve que dans les
états d’extase comme dans toute émergence des structures cachées,
les passages du spirituel dans le réel se produisent sans saut ni rupture.
Les ruptures ne sont pas effectives mais fictives. Il s’agit de l’effet
de rupture dont l’aiguilleur est l’artifice humain — l’art de prendre
décision inattendue, contraire aux programmes narratifs prévisibles.

.. L’unité d’analyse de la situation extatique

Cet art de passage dialectique — par la négation de l’impossible —


peut être illustré par le ruban de Möbius. Quand on manipule un tel
ruban — en papier ou en tissu — le doit se déplace de l’extérieur à
l’intérieur sans sentir la torsion qui crée une surface unique. Ainsi
. Cf. Zilberberg, , p. .
. Cf. ❍❛s❛♥ ❇, , ❑♦♥str✉❦t✐✈♥❛✤ ♣s✐❤♦❧♦❣✐✤ ❦♦♥❢❧✐❦t❛,
❙❛♥❦t–P❡t❡r❜✉r❣, P✐t❡r [Khassan B., La psychologie constructive du conflit,
Saint–Pétersbourg, Piter], p. , notre traduction.
 Ludmila Boutchilina–Nesselrode

se restitue l’ambivalence de l’extase dans l’expérience cinématogra-


phique d’Eugène Green : le mystique et le réel, le laïque et le religieux,
la nuit et le jour sont nettement et sciemment cadrés mais le sens de
ce cadrage est ailleurs, à peine saisissable. Il est à la limite d’émanation,
le phénomène contraire de l’extase. Une telle ambivalence n’est pas
l’ambiguïté. Elle est le caractère de ce qui se présente dans la proxi-
mité des deux aspects cumulatifs, sans qu’il ait l’opposition obligatoire.
En revanche, la multiplication de déplacements extatiques du film
change le caractère inter– relationnel des épisodes en renversant la
situation.
« La Religieuse portugaise », film d’art et d’essai, est une réplique,
naïve et ironique en même temps, à l’Extase de Sainte Thérèse d’Avila
connue sous le nom de Transverbération, blessure au cœur sans consé-
quences mortelles. Ce terme désigne le transpercement spirituel du
cœur par un trait enflammé. C’est le prélude à l’union du “Verbe” et
d’une âme, sous forme de noces ou de mariage mystique. Depuis, la
Sainte Thérèse est devenue la femme des lettres.

.. Quatre modes d’extase dans La Religieuse portugaise

Le film pratique ainsi l’extase dans l’extase. On se contentera par quatre


modèles de situation extatique : l’extase de ville, l’extase « mondaine »,
l’extase « religieuse » et l’extase créatrice.

... L’extase de ville

L’extase qui englobe toutes les autres et leur sert d’infrastructure est
celle de la ville de Lisbonne. Il s’agit de l’extase puisque la ville est
prise par le tour de caméra hors, du dehors et en dehors d’elle–même
— sans population ni vie réelle. Cette « extase » a son « avant », le
tout début du film avec les génériques, et son « après » — toute une
suite des dernières images du film. Leur configuration est opposée.
L’isotopie de la première séquence est dilemmatique : entrée/sortie,
allée/retour ne sont pas distinguables. La caméra fait tour, à partir
d’un tunnel, tagué, par–dessus des toits de Lisbonne, sous le ciel bleu
azur. Elle s’arrête au tramway qui ne va nulle part mais remonte et
descend mécaniquement la colline. Elle continue son parcours et fixe
le regard sur une église où se produira plus tard l’extase principale.
Renoncer pour s’énoncer 

L’isotopie de la seconde séquence de l’extase de ville est paradigma-


tique. Toute droite, les deux personnes sont tournées toujours vers
l’horizon. Ce n’est que l’avenir qui compte pour eux.

... L’extase « mondaine »

Cette extase est à quatre temps et le cinquième prépare la ligne de


fuite vers l’horizon. L’état « avant » peut être qualifié de « vide » car
l’extase c’est « hors de soi », de soi–même : l’errance spirituelle et les
erreurs physiques sont signe de l’indifférence à la qualité de « soi ».
La « perte de connaissance » est un état « pendant ». C’est la mort
fictive de l’ancienne personne, comme dans les contes russes. L’état
« après » est la suspension : questions, questions, questions. . . Ce
« après » implique la suite : le mariage mystique est accompli, la jeune
femme n’est plus seule ni vide, sa vie se remplit de merveilles. C’est
le moment de la seconde naissance et de renouvellement spirituel.

... L’extase « religieuse »

Les religieuses portugaises parlent dans l’extase et même elles écrivent


les lettres d’amour. L’extase « religieuse » a un double parcours en un
seul. Les deux schémas — canonique narratif et passionnel — com-
plètent le parcours de la même figure hétérogène : une jeune femme,
future mère, une actrice française, une vraie religieuse portugaise,
une religieuse portugaise fictive — depuis l’extase antérieure toutes
ces instances multiples et pulvérisées d’une seule femme sont réunies.
L’action et la passion gèrent désormais ensemble l’existence.

... L’extase créatrice

L’enthousiasme du travail est aussi un état extatique. On est en dehors


de soi quand on aime ce qu’on fait. Dans « La Religieuse portugaise »,
Eugène Green joue son propre rôle. Il est metteur en scène, concep-
teur d’extase et scénariste. En premier lieu, il est destinateur. « Avant »
le tournage, il donne les indications, « après », il fait des remarques.
Dans son état « avant » le tournage, il est auteur–judicateur des extases.
Julie, actrice, est devenue sujet après l’extase vraiment mystique. Elle
 Ludmila Boutchilina–Nesselrode

interprète son rôle en contresens du metteur en scène. Le destina-


teur déchu termine son film en un foulard bleue azure, bien assortie
avec le large marin. Le premier jour, son foulard état noir. Le bleu
azur, n’est–il pas le signe du détachement et de la pureté céleste ? Le
vrai Destinateur–exécuteur de l’expérience d’extase est la caméra. Cet
événement culmine la suite des conversions spirituelles vues, lues et
vécues comme les extases de « La Religieuse portugaise ».

. Conclusion : la réorganisation de l’expérience

Avant de passer à la question centrale de la table ronde, deman-


dons–nous quel est le sens de l’extase dans le film ? La réponse dépend
de la définition qu’on attribue à ce terme. Je définis le sens selon La
psychologie du sens de D. Leontiev. Il démontre qu’il n’y a pas, derrière
la notion du sens, de structure psychologique concrète qui aurait ac-
cepté une définition univoque. Il y a, derrière cette notion, une réalité
sensée, complexe et multiface. Elle prend de différentes formes. Elle
se révèle dans les effets de sens divers. En revanche, il y a deux caracté-
ristiques majeures et invariantes du sens, d’après l’étude fondamentale
de Leontiev. Il est toujours situationnel en se repérant par rapport
à la situation plus large. Et il est toujours intentionnel en indiquant
la prédestination, la finalité ou la direction du mouvement. Le sens
par conséquent se lit en « tant que lieu et rôle du phénomène ou du
processus dans la structure plus générale » . Pour la sémiotique de
l’extase, la structure plus générale est la sémiotique des cultures. Quels
sont le rôle et le lieu de l’extase dans le parcours de l’expression ?

.. Lieu et rôle de l’expérience d’extase

Les parcours des cultures du faire et du dire sont les parcours de


l’expression. Ils s’organisent autour et en fonction des types d’expérience
en intégrant le plan du contenu. Où est le lieu de l’expérience extatique
dans ce système ? Il est introuvable sans objectivation supplémentaire :

. ▲❡♦♥t⑦❡✈ ❉✳, , Ps✐❤♦❧♦❣✐✤ s♠②s❧❛✳ Pr✐r♦❞❛✱ str♦❡♥✐❡ ✐ ❞✐♥❛♠✐❦❛


s♠②s❧♦✈♦✚ r❡❛❧⑦♥♦st✐, ▼♦s❦✈❛✱ ❙♠②s❧, p. , notre traduction.
. Fontanille, , p. .
Renoncer pour s’énoncer 

l’extase se retrouve à la croisée des parcours ascendant et descendant


— celui du point de vue du contenu et celui du point de vue de
l’expression. Ces parcours se croisent au niveau thématique du plan
du contenu et au niveau transitoire entre les expériences corporelle et
pratique du plan de l’expression. C’est–à–dire, que l’état extatique fait
partie d’une situation dilemmatique.

... L’ensemble signifiant du dilemme

Le lieu de l’état extatique dans le dilemme est dans le plan intermé-


diaire entre les plans de l’expression et du contenu dilemmatiques.
Le propre de ce lieu est le sujet pulvérisé, la multiplicité d’instances
énonciatives dans la terminologie de Denis Bertrand. D’où la ten-
dance de les réunir. Le lieu de ce non–lieu du sujet sur le parcours
de l’expression constitue le noyau sémiotique du dilemme. L’extase
en tant que type d’expérience appartient à l’expérience dilemmatique.
Le propre du dilemme est la question « que faire ? », le manque et
donc l’impératif de la prise de décision. Le rôle de l’extase est d’assurer
les conditions pour l’émergence de la réponse et pour la prise de
décision.

.. De l’auto–négation du sens dans l’extase

Quel est alors le sens de l’auto–négation du sens par l’extase ? Son


lieu est dans le processus de réorganisation de l’expérience au niveau
méta–discursif. Son rôle est de positiver l’expérience négative et dis-
phorique, produire une sorte de catharsis pour « nettoyer » le passage
de l’expérience au niveau plus élevé ce qui donne lieu à la naissance
d’une nouvelle vision de la situation. Il en résulte en conséquence
l’expérience de repositionnement. En termes de relations, le sens de
l’auto–négation du sens dans l’extase est à rechercher dans le rapport
entre les concepts de transformation, suspension et conversion.

... Transformation, suspension, conversion

La négation tout court du sens est en premier lieu l’opération qui


produit la relation de contradiction entre les termes dits primitifs.
 Ludmila Boutchilina–Nesselrode

Comme toute opération élémentaire, elle est une transformation li-


néaire, inter ou intra–textuelle. Elle s’opère dans l’analyse du plan
du contenu et produit la signification. Le sens, par contre, n’est pas le
terme primitif. En plus, il n’est pas neutre mais engagé positivement
ou négativement. Il est celui de la troisième génération, du plan de
l’expression dont les parcours complexes, contradictoires, décalés,
convertis, sont reformulés verticalement. La résolution du problème
de l’auto–négation du sens dans l’extase se place donc au niveau des
méta–termes épistémiques, intermédiaires entre deux plans. L’extase
suspend temporairement l’opposition dans une intensité d’attente :
croire ou ne pas croire ? Accepter la routine ou renoncer en renou-
velant l’existence ? Il est donc l’art de se poser des questions existen-
tielles. Dans cette optique de décrochage, « La Religieuse portugaise »
d’Eugène Green est autant une maïeutique d’extases microscopiques
verticales que, par exemple, « Le Miroir » de Tarkovski est celle de
dilemmes horizontaux métastatiques. On voit que l’auto–négation
du sens est une opération plutôt de l’ordre de conversion. Renoncer
pour s’énoncer est la condition, d’une part, et la finalité, d’autre part,
de l’extase.

... Pour une dialectique à quatre temps

Quelle dialectique pour l’auto–négation du sens dans l’extase ? Préci-


sons d’abord le terme. La dialectique et le dialogue sont deux côtés de
la même médaille. Le dialogue est entendu selon une double logique.
Dia–logue présuppose deux postures opposées, celle du sujet et celle
de l’anti–sujet. Les dictionnaires de rhétorique définissent le dialogue
comme une forme d’expression de la dialectique. Il y a cependant
plusieurs types de dialectique. La rencontre de deux logiques oppo-
sées culmine dans la dispute, d’où le besoin d’un médiateur — le
tiers arbitre qui peut réconcilier les protagonistes. Le dialogue modéré
piétine en un état non résolu, où le sujet et l’objet de la discussion
risquent de s’étouffer. Donc, pour libérer le passage à la nouvelle
vision — pour que le dialogue même tacite ou corporel soit productif
— la dialectique à trois temps ne suffit pas. Il en faut un quatrième, jus-
tement celui de l’auto–négation du sens ancien puisque l’affirmation
du sens nouveau est la négation de la négation.
Renoncer pour s’énoncer 

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Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394010
pag. 185–206 (luglio 2014)

Las metamorfosis del suplicio


D F. C

 : The Metamorphoses of Torture

: The purpose of this paper is to analyze, from a diachronic per-


spective, the constitutive moments of a semiosis process, especially the
impact a particular reading of an interpretant may have on the produc-
tion of a new sign. The framework provided by Peirce’s semiotic theory,
discourse analysis and concepts of Eliseo Verón about the theory of
social discourse facilitate the approach formed as a very singular phe-
nomenon of representation of the body: the established about the picture
of execution by dismemberment in pieces (Leng–Tché) of Fu–Tchu Li,
sentenced to death by order of the Manchu emperor on March , 
on charges of a Mongolian prince’s murder. Considering the config-
uration process broadly, there will be highlighted the importance of
complementary discourses of visual signifier, mainly from psychology,
literature and philosophy.

: ecstasy; photography; interpretant; semiotic theory; discourse


analysis.

. Sobre las condiciones de producción

Resulta arduo dar cuenta de las condiciones de producción de una foto-


grafía cuyo origen es incierto. Se ignora quién fue o bien se especula
en relación a la atribución de un autor de las tomas; ni siquiera hay
coincidencias sobre la fecha de publicación del decreto en los periódi-
cos locales . Apenas nos manejamos con ese grado de incertidumbre
sobre las relaciones con sus condiciones de producción que, según
. Georges Bataille remite al “Cheng Pao” del  de marzo de  pero Salvador
Elizondo, en su novela Farabeuf retrotrae la noticia a la tirada del  de enero de  del
“North China Daily News”. Quedo en deuda con la dilucidación.


 Daniel F. Cortés

Verón, sólo autoriza a hablar de marcas sin alcanzar la categoría de


auténticas huellas de la producción sobre la materia significante . Lo
cierto es que no podemos prescindir del contexto socio–político en
que esta siniestra fotografía fue tomada para luego iniciar una circula-
ción subrepticia. Para algunos, ya la Guerra del Opio había dado lugar
a imágenes atroces de la “barbarie” china, una muestra que, sin duda,
el Imperio Británico no desperdiciaba para influir en las conciencias
occidentales . Pero de mediados del siglo XIX a comienzos del XX,
lo que para los británicos había sido un conflicto comercial, se había
convertido en una mutua hostilidad entre la dinastía manchú impe-
rante en China y las potencias occidentales con intereses comerciales
sostenidos en factorías. La emperatriz regente Tz’u–hsi, personaje
rodeado de un halo de misterio y crueldad para los ojos europeos y
norteamericanos, aprovechó un arrebato de nacionalismo popular y
oposición a los invasores extranjeros que culminó en la famosa revuel-
ta de los boxers y el episodio de “los  días en Pekín”. Pero la revuelta,
sofocada por las potencias occidentales sólo sirvió para incrementar la
mala imagen de la dinastía manchú, a la que se acusaba, entre otras
cosas, de ejercer una discriminación tiránica sobre la etnia china. Perió-
dicos locales favorables o medios de prensa directamente occidentales
formaban parte de la red discursiva en la que hizo impacto la noticia
de la ejecución pública de Fu–Tchu Li, un ritual que congregaría a la
población curiosa y al desconocido fotógrafo oportunista, sin duda,
dos parcialidades con culturas y criterios de observación dignos de
juicios muy diferentes. No debemos olvidar que el ejecutado había
puesto en peligro la paz de la frontera china asesinando a un prín-
cipe mongol; Mongolia se hallaba, entonces, bajo protectorado del
imperio ruso, otra potencia sedienta de tomar parte en los asuntos del
imperio vecino. Toda esta compleja situación política forma parte de
un entramado de condiciones de producción que si bien no quedan
del todo explicadas, al menos dan pie para entender la predisposición
existente a dar cuenta de ciertos fenómenos y la lectura ideológica
derivable. Pero tal vez, más que un intento de alcanzar la repercusión
propagandista, se entremezclen entre las causas razones más íntimas

. Véase Verón E. (). “El sentido como producción discursiva”, en La semiosis social:
fragmentos de una teoría de la discursividad, Barcelona: Gedisa, p.
. Véase Gernsheim, H. (). Historia gráfica de la fotografía, Barcelona: Omega
Las metamorfosis del suplicio 

y psicológicas, razones del orden de las subjetividades cruzadas con


el orden propio de las discursividades. Esto último, pese al contexto
conflictivo que pudo incidir en la producción, no nos autoriza –como
ocurre siempre que hablamos de fotografía– a postular la reconstruc-
ción de una intencionalidad ni un mensaje implícitos o codificados ni
contamos con la supervivencia de una transmisión verbal anecdotaria
que dé cuenta de ello.

Figura 

Como señala Verón, siempre otros textos — o una tradición ico-


nográfica — forman parte de las condiciones de producción de un
texto — o un ícono — tras la mediatización de una o varias gramáticas
de reconocimiento (Verón:). Es entonces cuando cabe mencio-
nar la progresiva constitución de una determinada sensibilidad, una
sensibilidad acusada en una dispersión de fragmentos discursivos que,
cobrando planteamiento filosófico en el concepto de lo sublime de
Kant o las relaciones entre belleza y dolor de Edmund Burke, cris-
talizándose en una estética y una moral materialista de Sade — no
ajena a la fiebre analítica y experimental de la medicina de la Ilus-
tración —, prolongándose en la delectación morbosa y feísta de un
cirujano–filósofo como Selzer o un romántico tardío como Baudelaire,
alcanza renovada expresión en toda la literatura decadentista y exótica
 Daniel F. Cortés

de Octave Mirbeau — El jardín de los suplicios —, Pierre Loti, Masoch,


o los propios Bataille y Klossowski, sin perder la mezcla de excen-
tricidad, erotismo, placer sádico, misticismo y distancia etnocéntrica
que más tarde analizaremos y forman parte de las marcas de produc-
ción y reconocimiento. Hay testimonios que recuerdan estas y otras
fotografías de torturados chinos como objeto de un goce perverso
entre artistas y actrices de la belle époque en Francia. Es imposible e
innecesario precisar el grado de determinación de estas u otras causas
en el surgimiento de estos clichés: fotografías que, con reticencias
y según la tipología sugerida por Schaeffer (), podríamos encua-
drar en la estrategia perceptiva del testimonio, principalmente por su
énfasis en la narrativización de una secuencia de acontecimientos, su
orientación vectorial hacia lo espacial y la función indicial (lo temporal
lo proporciona el discurso periodístico o los comentarios que acom-
pañarían su pasaje de mano en mano), la identificación referencial de
“veracidad” (el saber del arché así lo subrayaría porque aún no existían
tan formidables trucajes), o la presencia de un clímax privilegiado.
Pero como Schaeffer mismo lo anticipa
Una imagen de testimonio amputada de su contexto verbal es incapaz de
desempeñar su función: a menudo , deriva entonces, ya hacia una recepción
estética y formal [...] ya hacia recepciones idiosincráticas “salvajes” .

Pronto, serán la circulación furtiva y muda y el estatuto semióti-


co ambiguo de la fotografía (su carácter de ícono–indicial) los que
propiciarán un progresivo desplazamiento semántico que gravitará
sobre el plano icónico — y de ahí a su proyección simbólica — y la
constitución de un nuevo signo.

. El Tratado de Psicología

El primer indicio de intervención de un “saber lateral” en la trans-


formación y consecuente producción de sentido en torno a estas
fotografías surge en el capítulo dedicado a “Expresiones internas y ex-
ternas de dolor y placer” del Traité de psychologie de Georges Dumas
. Schaeffer, J.M. (). La imagen precaria. Del dispositivo fotográfico, Cátedra: Madrid,
p.
Las metamorfosis del suplicio 

(París, ) . En efecto, Dumas publica éstas entre otras fotografías


de cuerpos y rostros crispados por el dolor. Deudora de una psico-
logía experimental y conductista, la obra de Dumas menciona aún
a Spencer y Darwin y llama la atención por la enunciación de un
discurso científico sospechosamente filtrado de aclaraciones raciales
prejuiciosas y rasgos de sadismo:
He aquí, finalmente, dos fotografías, tomadas del álbum de Mantegazza, en
las que los sujetos, un negro y un blanco, se defienden de una compresión
dolorosa en los dedos [...] Apenas si tengo necesidad de observar que todas
estas expresiones de dolor son expresiones de dolor mediano, habiendo el
experimentador (ya sea Mantegazza o yo) retrocedido, y con razón, ante
excitaciones demasiado fuertes, a las que, por lo demás, los sujetos habrían
rehusado someterse .

Figura : Foto del álbum de Mantegazza reproducida por Dumas.

Se puede ser contemplativo con los limitados recursos de estos


pioneros de la psicología, pero ello no obsta el descubrimiento de
. Nuestra edición castellana es posterior pero de deficiente impresión en las fotogra-
fías: Dumas, G. (–). Nuevo tratado de psicología, Buenos Aires: Kapelusz. Georges
Bataille menciona como otra fuente de publicación: Carpeaux, Louis, Pékin qui s’en va, A
Maloine, ed. París, . Carpeaux afirma haber sido testigo del suplicio el  de abril de
.
. (Dumas:–:)
 Daniel F. Cortés

una posible sublimación del sadismo a través de la pulsión escópica


prestigiosa del observador científico. La tan deseada expresión de
dolor extremo llega al fin con las fotos de Fu–Tchu Li. Lo curioso es
que un discurso heredero del positivismo recurra a fundamentar sus
argumentos en una observación tan poco confiable. En efecto, dos
proposiciones o “puntos apodícticos” sostienen el análisis de Dumas:
que, de acuerdo a la fotografía (Fig. ) el rostro “no testimonia que se
haya administrado al paciente un estupefaciente” y que en la fotografía
(Fig. ) el rostro expresa una “especie de alegría extática” .
Después de un detallado análisis de cada expresión anterior, Dumas
no puede clasificar la paradojal expresión de éxtasis de la imagen
final, la boca que parece sonreír en medio de otros rasgos faciales de
dolor intenso. Ante este deseo de tomar las fotografías casi como un
protocolo de experiencia nuestro interrogante es:
¿qué voluntad de interpretación opera en Dumas para inferir tales
cosas de expresiones fugaces e imágenes imprecisas? Los dos rostros
congelados del supliciado no bastan para afirmar que no ha recibido
estupefacientes o que esa expresión de perfil y surcada de crispaciones
musculares es descriptible en términos de una expresión de placer
extático. Demasiada subjetividad y poca evidencia científica sobre las
condiciones reales del referente. No hubo teoría ni hipótesis explícita
que haya controlado el acto de exposición o el registro de la toma.
Sabemos que la ideología positivista confunde demasiado lo real con
lo visible. Aún no ha escrito Freud su Más allá del principio del placer
para tejer estas conjeturas sobre la superación del umbral del dolor, ni
se han dado a conocer los estudios neurofisiológicos necesarios sobre
la liberación espontánea de sustancias orgánicas que contrarrestan los
efectos de estos traumas de excitación; en última instancia, aunque
circulan versiones muy dispares sobre el suministro o no de opio a
los condenados, nada sabemos de este caso concreto y Dumas mismo
lo descarta — de aceptarlo contradiría su argumento. Quizás operen
subterraneamente otros discursos (emparentados con los rumores
sobre Sade, Gilles de Rais y Elizabeth Bathory) cuyos ecos parecen
resonar aquí. Por otra parte, nos preguntamos por qué mostrar todo el
cuerpo cuando el tema es la expresión facial, pero nos retrae la posible

. (Dumas:–:)
. (Dumas:–:)
Las metamorfosis del suplicio 

Figura 

Figura 
 Daniel F. Cortés

justificación de que sea para exhibir que la causa del sufrimiento


inusual al que Dumas hacía alusión brota de un cuerpo amputado.
Bordeando las mismas sensaciones pero con la anuencia de la moral
social, la mirada escrutadora y quirúrgica de la ciencia inspecciona las
reacciones del agonizante. Hasta qué punto influirá la interpretación
del autor sobre los criterios de edición que, una mirada atenta descubre
cómo, en un trabajo de retoque de imagen, el editor — al menos en la
edición argentina de Kapelusz — ha contorneado burdamente la boca
sonriente y las arqueadas cejas del torturado. Dumas sólo se limita a
confesar que estas expresiones superan los esquemas corrientes por
tratarse de situaciones extremas o poco frecuentes. Debemos admitir
cierta apariencia de sonrisa pero no estamos ante un film que permita
completar los hiatos de la secuencia: podemos entenderlo como esa
determinación que, según Peirce, termina ejerciendo el signo, en
acto de reciprocidad, sobre su objeto. No obstante, no podemos ni
debemos cerrar la posibilidad de una interpretación como la de Dumas
— y posteriores — ya que la nuestra no es más que otra gramática de
reconocimiento, a lo sumo una lectura metadiscursiva sin mayores
ni menores derechos a refutar. Lo que verdaderamente nos importa
es analizar cómo se construyen estos tejidos de la semiosis. Aislados
del momento original, sólo nos queda la precariedad de la imagen,
la aparición de esa diferencia inevitable que produce la circulación y
que permite, de acuerdo con Eliseo Verón (), confirmar que, a
partir del análisis de la gramática de producción no se puede prever
la gramática de reconocimiento, sólo podemos hablar de un “campo
de efectos posibles”, de varias gramáticas de reconocimiento y de un
objeto dinámico que siempre desborda las capacidades de representación
del signo, un objeto significante — en nuestro caso la fotografía —
que admite una multiplicidad de análisis y lecturas. De tal modo
que no es posible salir de la semiosis puesto que “todo reconocimiento
es una producción y toda producción es un reconocimiento” . Bataille
() retomará esta lectura de Dumas, pero antes una breve digresión
obligada por la cronología.

. Verón, E. (). Semiosis de lo ideológico y del poder. La mediatización, Buenos Aires:


Oficina de Publicaciones del CBC, Universidad de Buenos Aires, p. 
Las metamorfosis del suplicio 

. Un revolucionario o Tormento chino

No se trata de las apropiaciones de la palabra, sino de otra metamor-


fosis, operada en la iconografía. La pintura que lleva por nombre Un
revolucionario o Tormento chino es de data incierta.

Figura 

Los biógrafos de su autor, José Gutierrez Solana, sugieren los co-


mienzos de la década de . El estilo de Gutiérrez Solana abreva en
el expresionismo, la cruenta imaginería española, lo escultural. Preci-
samente ha sido puesta de relieve la dimensión táctil de sus pinturas,
que parecen cobrar sustancia carnal. Con una niñez rodeada de parien-
tes enloquecidos y anécdotas de tempranos sustos traumáticos por
máscaras y apariciones súbitas de carnaval, se volcó a la representación
de maniquíes, máscaras, autómatas en general: figuras siempre yertas,
acartonadas, rígidas y mecánicas, pertenecientes a una frontera difusa
entre lo animado y lo inanimado, algo que curiosamente lo aproxima
a Georges Bataille, que sólo conoció a un padre ciego y paralizado en
la casi totalidad de su cuerpo, huellas, en fin, de alguna posible imagen
primaria reencontrada en el sufrimiento indefenso de Fu–Tchu Li. Se
 Daniel F. Cortés

alude, tratándose de Gutiérrez Solana, a su desconfianza material en el


futuro, su mostración de los esqueletos de la realidad que se regodea en
lo morboso y lo descompuesto, a su necrofilia hispánica. Ignoramos
si el calificativo de “revolucionario” se debe a una interpretación per-
sonal que atribuye trascendencia social al magnicidio del supliciado, a
un error por desinformación o a un mensaje de connotaciones ideoló-
gicas acordes con la circunstancia histórica del pintor. Lo cierto es que
nos encontramos ante una nueva producción de sentido, resultado
de un reconocimiento que transformó levemente las expresiones de
los rostros, agudizando una indiferencia de los espectadores que, por
cierto, también advertimos en las fotografías — mezcladas con algo
de curiosidad pero nunca compasión u horror —; si debemos identifi-
car este cuadro como transformación e interpretante de la fotografía
(Fig. ), el rostro más cambiado es el de Fu–Tchu Li, desmintiendo
con impasibilidad heroica — ¿exaltación de la figura revolucionaria? —
la mutilación: es, prácticamente, un autómata de piernas articuladas
de madera que, además, tapa sus genitales, no sabemos si en gesto
irónico para la mojigatería española, porque los muñecos carecen de
sexo o bien como primer indicio de un acercamiento morfológico e
ideológico hacia el código de la iconografía religiosa (Cristos y már-
tires). Agreguemos que el chino del primer plano, el que ablade la
pierna tiene, además, la traza del podador de árbol, el que desbasta
una materia vegetal, de muda inexpresividad pero ¿insensible?

. Las lágrimas de Eros

Este es el título del último libro de Georges Bataille, publicado en


. Allí presentó las fotografías Figs. ,  y , como corolario de
un volumen dedicado a una reflexión filosófica sobre el erotismo, la
muerte y el misticismo, ilustrado por una abundante iconografía y
signado por el tema del sadismo, como buena parte de la obra de
Bataille.
Enfermo y cercano a su propia muerte, Bataille lo elaboró con
gran sacrificio, dejando, como momento climático, para el capítulo
final, el análisis de las fotos en las que parece haber meditado toda su
vida, ya que, según su testimonio, las recibió con angustiosa impre-
sión de manos del Dr. Borel en , época de su filiación surrealista.
Las metamorfosis del suplicio 

Figura 

Figura 

Figura 
 Daniel F. Cortés

Por fortuna, contamos con una interesante correspondencia con sus


colaboradores y editores que nos permite reagrupar una dispersión
de enunciados paralelos a la redacción del ensayo que revelan una
fuerte compenetración entre el proceso de su enfermedad –sus pro-
pias metamorfosis del cuerpo– y la redacción de Las lágrimas de Eros.
Enunciados, todos ellos, que tras una detenida lectura evidencian una
suerte de oscilación masoquista, un deseo de concitar la compasión
para rechazarla luego estoicamente: “... habrá pensado que me en-
cuentro en muy mal estado de salud. Efectivamente, no se equivoca,
pues he sufrido bastante. Pero esté seguro de que nada olvido en lo
referente a Las lágrimas de Eros” ; “mi estado de salud sigue siendo
inquietante, aunque el tratamiento que sigo me permite confiar en
cierta mejoría” ; “Aunque he pasado algunos días sintiéndome mal,
no he dejado de trabajar. No creo poder explicarle por escrito el tipo
de dificultades por las que atravieso” ; “He hecho, y sigo haciendo,
un esfuerzo desesperado para terminar el libro. Por desgracia, el tra-
tamiento que he seguido para recuperarme, siguiendo los consejos
del médico, más bien ha producido el efecto contrario. Estoy agotado.
A pesar de todo, sigo trabajando, pero avanzo muy lentamente...” ;
“... voy a hacer todo lo posible para recuperar el equilibrio de mis
nervios, siguiendo un tratamiento médico, y, por otra parte, no dejo
el trabajo...” ; “Estoy pasando por unos terribles períodos depresivos.
Afortunadamente, no duran mucho. Todo ha ido mal durante estos
días, pero he podido ponerme a trabajar de nuevo” ; “Me encuentro
mal, pero, en resumidas cuentas, creo que, con toda seguridad, po-
dré acabar” ; “Debo decirle que me encuentro muy cansado y que
me cuesta mucho ponerme a trabajar. A pesar de ello, su paso por
Fontenay me ha reconfortado...” .
Una larga serie de peros, aunques, a pesar de, que no alcanzamos a
. Carta del  de marzo de  en: Bataille, G. (). Las lágrimas de Eros. Iconografía
en colaboración con J.M. Lo Duca. Traducción de David Fernández, Prólogo de J. M. Lo Duca,
Barcelona: Tusquets Editores, p.
. (Bataille::)
. Carta del  de septiembre de  en: Bataille::
. Carta de Les Sables d’Olonne, sin fecha, en: Bataille::
. (Bataille::)
. Carta del  de septiembre de  en: Bataille::
. Carta del  de febrero de  en: Bataille::
. Carta del  de marzo de  en: Bataille::.
Las metamorfosis del suplicio 

reproducir en la cantidad en que aparecen en las cartas. Bataille parece


exhibir su sufrimiento con cierta complacencia en la búsqueda de
suscitar la compasión ajena, proyección de un discurso paratextual
que nos ayuda a plantear una relación íntima e interesante entre los
clichés del suplicio y la vivencia personal de Bataille en los momentos
culminantes tanto de su vida como de su obra. Muchos han explicado
su mixtura de erotismo y sadismo catalogándolo como un exponente
de épocas en que se combinaron las transgresiones del surrealismo
con el espanto del nazismo –incluso se le endilgó una simpatía ger-
manófila que él y sus biógrafos más apologistas desmintieron luego
abiertamente. El lector puede también tejer sus conjeturas con lo di-
cho sobre el padre, pero muchos exégetas de su obra lo han señalado
como un cultor del exceso, del extremo dionisíaco que es capaz de
alcanzar la máxima angustia, la de la muerte, para luego transfigurarse
en el estallido de la risa o en la misma gloria. El sujeto alcanza con ello
un estado de soberanía, de resolución del dolor en el placer, que nos
recuerda nuevamente a Sade. Lo Duca (prologuista de Las lágrimas de
Eros) nos remite a sus lecturas de lo trágico en Nietzsche y la dialéctica
de Hegel, de ahí su búsqueda de los opuestos, su resolución en un
movimiento de síntesis, su superación de la destrucción y la muerte a
través del espíritu. Pero es igualmente insoslayable su obra novelística,
inspirada en Sade y en perversiones de corte surrealista. Con estos
antecedentes, dirá que la foto de Fu–Tchu Li jugó un papel decisivo
en su vida. La sitúa, junto con la de un sacrificio vudú, en el capítulo
A modo de conclusión, dedicado al erotismo en el ritual y el sacrificio.
Retoma, nombrándolo, la idea de Dumas sobre la expresión extática,
aunque él no descarta “una innegable apariencia vinculada al opio”.
Reproduzco la larga cita que resume su pensamiento:

Desde , estoy en posesión de uno de estos clichés. Me lo dio el doctor


Borel, uno de los principales psicoanalistas franceses. Este cliché tuvo un
papel decisivo en mi vida. Nunca he dejado de estar obsesionado por esta
imagen del dolor, extática (?) a la vez que intolerable. Imagino el partido que,
aún sin asistir al suplicio real, con el que soñó, aunque le fue inaccesible, el
marqués de Sade hubiera sacado de la imagen que contiene: esa imagen
que, de una manera u otra, tuvo siempre ante sus ojos. Pero Sade hubiera
querido contemplarla en la soledad, al menos en una relativa soledad, sin la
cual el pretendido resultado de éxtasis y voluptuosidad es inconcebible.
Bastante más tarde, en , un amigo me inició en la práctica del yoga.
 Daniel F. Cortés

Fue en esta ocasión cuando discerní, en la violencia de esa imagen, una


infinita capacidad de trastorno. A partir de esta violencia — aún hoy en día
no soy capaz de imaginarme otra más alocada y horrible — me sentí tan
trastornado que accedí al éxtasis. Mi propósito aquí es ilustrar un vínculo
fundamental: el existente entre el éxtasis religioso y el erotismo — y en
particular el sadismo —. De lo más inconfesable a lo más elevado, este libro
no surge de la experiencia limitada de la mayoría de los hombres.
No podría ponerlo en duda ...
Lo que súbitamente veía y me angustiaba — pero que al mismo tiempo
me liberaba — era la identidad de estos perfectos contrarios, oponiendo al
éxtasis divino un horror extremo.
Tal es mi opinión, la inevitable conclusión de una historia del erotismo. Pe-
ro debo añadir lo siguiente: limitado a su ámbito propio, el erotismo no
hubiera podido acceder a esta verdad fundamental, reflejada en el erotismo
religioso, es decir, la identidad del horror y de lo religioso. La religión, en su
conjunto, se fundamentó en el sacrificio. Pero sólo un interminable rodeo
ha permitido acceder al instante en el que, visiblemente, los contrarios
aparecen vinculados, donde el horror religioso, reflejado, como sabemos,
en el sacrificio, se vincula al abismo del erotismo, a los últimos sollozos que
sólo el erotismo ilumina.
(Bataille , pp. , –)

A esta altura, se hacía ineludible admitir que por influjo de la me-


moria discursiva del misticismo o del erotismo, destaca la índole
ambivalente del éxtasis, esta asociación de contrarios: para alcanzar la
vía iluminativa y el goce extático, el místico debe primero sufrir los
sacrificios y privaciones de la vía purgativa, mientras, por su parte,
también el placer sado–masoquista está habitado simultáneamente
por el dolor.
Dos tiempos distintos, tal vez: secuencia y superposición, conti-
güidad y condensación o bien, operaciones metonímica y metafórica
ante las que la razón sucumbirá a la hora de intentar comprender el
fenómeno.
No puede dejar de asombrarnos la naturalidad con que Bataille ela-
bora, desde la mirada superior del hombre nietzscheano, su síntesis
de erotismo, horror religioso y sadismo. Y no es menor el asombro de
constatar la coincidencia entre la explícita mención de Sade y la marca
de perversión que asomaba ya en el discurso científico de Dumas.
Como propone Verón (), nos hallamos ante “objetos” que, ante
todo, son sistemas de relaciones entre un producto significante con sus
condiciones de producción por una parte y sus efectos por la otra. Sis-
Las metamorfosis del suplicio 

temas de relaciones y, por cierto, de extrañas relaciones en este caso;


decantación de una larga serie de discursividades y saberes laterales
que han cristalizado en estas singulares lecturas. Reaparece el viejo
problema entre el acto perceptivo y la interpretación, el problema
de la tesis de existencia postulada por el receptor, allí donde una mira-
da más atenta a la función indicial (Schaeffer:), más sujeta a las
condiciones vividas por el referente atribuiría sensaciones muy otras
o explicaría el rictus como un plausible reflejo muscular. En lugar
de eso acudimos al nacimiento de dos recepciones peculiares, dos
recepciones que se fundamentan, en principio, en producir un gran
distanciamiento entre los polos indicial e icónico del representamen.
¿Cuánto de subjetivo, de anhelo postergado, de ilusión, de sugestión
o de proyectar una vaga esperanza personal se expresa en tales reco-
nocimientos? ¿Qué satisfacción de deseo religioso, de frenesí erótico
libera en Bataille esta imagen de paroxismo? ¿Tendremos nuestro pro-
pio límite de tolerancia al dolor propio o ajeno que nos conduce a
desmentir, a denegar o, en búsqueda de un misericordioso consuelo,
a transfigurar lo que preferiríamos no admitir? Nunca serían más
propicios para esta reflexión los argumentos de Lyotard que el Grupo μ
sintetiza así:

Según él, el problema del hombre actual es el de no aceptar la diferencia


(entendiendo por ésta la diferencia pura, radical, aquella que no puede dar
lugar a ningún reconocimiento). En tanto que situada fuera del sistema, la
diferencia “va a la par con la angustia” .

En la medida en que somos capaces de restituir la diferencia a un


sistema, logramos integrarla, conferirle rasgo de oposición y, de este
modo, volverla al menos inteligible de alguna manera. No es otra cosa
que la operación significante iniciada con Dumas y perfeccionada por
Bataille. En lugar de suspender el juicio por consideración a los interro-
gantes suscitados por la verdad referencial, se prescinde nuevamente
de los alcances de la función indicial y se despliega todo un discurso
interpretante sobre las indeterminaciones del análogon icónico. En la
secuencia del proceso de semiosis, este discurso interpretante que, en
primera instancia, surge como “otra representación referida al mismo

. Grupo mu () Tratado del signo visual. Para una retórica de la imagen, Madrid:
Cátedra, p. –.
 Daniel F. Cortés

objeto” , produce su efecto sobre el signo, puesto que, de ahora en


más, como veremos a propósito de Farabeuf, las fotografías no podrán
desprenderse de la investidura semántica proveniente del sadismo y
el ritual religioso: la cadena produce un nuevo signo con dimensiones
de símbolo. Pero volviendo sobre la dimensión analógica del ícono
hallaríamos, efectivamente, rasgos que comunican con la tradición ico-
nográfica religiosa y que ya aparecían en la pintura de Gutiérrez Solana:
Fu–Tchu Li, sin duda, recuerda al Cristo flagelado y colgado en la cruz,
tiene algo de un San Sebastián atado a la columna y de otros personajes
del martirologio. Curiosamente, no se puede dejar de asociar esta feli-
cidad extática impuesta a la víctima con las resonancias hagiográficas
sobre un San Lorenzo irónico que, presintiendo la gloria, pide que
aviven más el fuego de su parrilla: verdades del martirio, imaginación
de la psicología popular o extraños puntos de reencuentro de los dis-
cursos más distantes. Sin atribuirlo a los méritos de la santidad, Michel
Foucault () nos recuerda en las primeras páginas de su Vigilar y
castigar el testimonio según el cual el regicida Damiens, condenado
en marzo de  a una muerte que incluyó un brutal tormento con
atenazamientos, azufre hirviendo y descuartizamiento, no se privó de
expresar su agudo dolor pero, así mismo, mantuvo una entereza y una
dignidad que impactó a los espectadores incluso por sus demostraciones
de piedad y arrepentimiento, por no blasfemar en momento alguno y
por las numerosas veces en que tuvo fuerzas para levantar con absoluta
naturalidad la cabeza y contemplar su cuerpo destrozado ¿Por qué son
numerosas, entonces, las anécdotas en que se asocian el extremo dolor
y el éxtasis o, cuando menos, los lapsos de indiferencia? ¿Se trata de una
ilusión compensatoria de nuestra parte, de superchería popular o de
un auténtico mecanismo fisiológico poco conocido? Aquí no daremos
respuesta a esta pregunta, pero tal vez la medicina tenga una explicación
satisfactoria para este fenómeno. En todo caso, es una deuda a cubrir
en una futura continuación de este estudio.
Desde otra perspectiva, no podemos obviar que la misma retórica
visual da pie a efectos de percepción singulares: en efecto, la antítesis
entre el dolor y el éxtasis, la paradojal unión de los contrarios men-
cionada por Bataille es, como dijimos, discurso de la tradición mística
(Santa Teresa, San Juan de la Cruz, los mártires) antes que de Hegel o

. Eco, U. (). Tratado de semiótica general, Barcelona: Editorial Lumen, ra. ed., p. 
Las metamorfosis del suplicio 

el erotismo sadeano. Tampoco dejamos de experimentar, además del


natural espanto, una cierta perplejidad cuando se observa la secuencia
de fotos de un hombre cuyas partes van desapareciendo progresi-
vamente para acercarse a la invisibilidad, un hombre sinécdoque, un
hombre elipsis. Asimismo, el magnetismo figural centra directamente
la mirada sobre esa X que es el cuerpo de Fu–Tchu Li sobrepuesto
a la axialidad del poste, un punto donde verticales, diagonales y ojos
convergen y de donde nace, en coincidencia con el precepto divino, la
apelación al prójimo.

. La herencia de Bataille: del Doctor Farabeuf a Internet

Por todo esto no es extraño que reencontremos la alusión al símbolo


religioso, el ritual erótico y sádico, la connotación política y revolu-
cionaria, las escalofriantes operaciones de la pesadilla o de la cirugía
en lo que puede constituir el más notorio efecto en la línea de in-
terpretación generada por Bataille. En una nueva vuelta de tuerca el
discurso literario construirá su novela, un nuevo interpretante para
un signo en que el discurso de Bataille ha obrado una transformación
fundamental. En  se publica Farabeuf o la crónica de un instante,
del mexicano Salvador Elizondo. A partir de una técnica narrativa
fascinante, donde abunda un discurso introspectivo y reiterativo en
segunda persona y un entramado de voces cuya situación de enuncia-
ción es siempre difusa o inexpresada, Elizondo ha logrado crear una
ficción alucinada en torno a la fotografía n. , cuya toma se atribuye
al Doctor Farabeuf, un personaje siniestro pero histórico –una sala
de Medicina de la Universidad de París lleva su nombre– y diseñador
de una sofisticada línea de instrumental quirúrgico. En un continuo
flash back temporal, la novela entrecruza dos historias: la de Farabeuf,
médico que, de servicio en China durante la ocupación de las poten-
cias europeas, aprovecha la circunstancia del suplicio para lograr una
fotografía que proporcionaría un lucro político–religioso, con la de
una pareja cuya mujer, tras usar la fotografía, hallada en un viejo pe-
riódico, como excitante sexual, sospecha una íntima relación con esa
imagen en otra vida –sueño o reencarnación– e inicia, a partir de su
memoria, una obsesiva reconstrucción del instante fugaz congelado
en la foto y deconstruido en fragmentos por obra del olvido y la repre-
 Daniel F. Cortés

sión. La fotografía alcanza entonces el estatuto de una metáfora sobre


la relación del hombre con la memoria y el tiempo y da lugar a una
serie de reflexiones sobre la muerte, el amor y el erotismo perverso.
Toda la carga erótica depositada por Bataille en la fotografía n. , se ha
desplazado metonímicamente a otra imagen, la de la fotografía n. 
–única reproducida en la novela– de modo que ya se prescinde de la
sonrisa extática y la connotación erótica se asocia directamente con
la imagen más atroz y espeluznante de todas, centrándose más en el
vínculo sádico. El misterioso personaje del Doctor Farabeuf combina
la frialdad y meticulosidad del cirujano con los goces del sadismo.
La novela, posterior a Las lágrimas de Eros, postula otra fecha para la
noticia de la ejecución ( de enero de ) pero retoma fielmente
muchos de los recorridos de lectura hasta aquí revisados puesto que,
además de desplegar una hipótesis histórica sobre la producción de la
foto, construye una suerte de ensayo hermenéutico sobre las posibili-
dades de lectura de la imagen. Así aparecen desde la obsesión erótica
ya mencionada hasta el descubrimiento conclusivo de que la imagen
se ha grabado tan fielmente en la conciencia gracias a su isomorfismo
con un signo escritural chino: “Es el número seis y se pronuncia liú.
La disposición de los trazos que lo forman recuerda la actitud del
supliciado y también la forma de una estrella de mar ¿verdad?” Esta
cita ya representa por sí sola toda una especulación sobre la capacidad
semiótica de los cuerpos, sobre la diversidad de gramáticas de reco-
nocimiento y las posibilidades de producción de sentido de un signo.
Pero esto se confirma aún más con la intrigante trama creada acerca
de la verdadera intencionalidad de Farabeuf al tomar la foto; en efecto,
súbitas y distantes voces lo acusan de participar en una misión secreta
urdida por los jesuitas con fines de propaganda:

[...] doscientos millones de infieles. La posibilidad de atraer al seno de nues-


tra Santa Madre ... la instauración de una Iglesia Católica China comprometi-
da secretamente con Roma ... disyuntiva a la que los núcleos revolucionarios
que funcionan en Tokio no se muestran del todo reacios ya que son sus
propios dirigentes los que han sugerido la posibilidad a nuestro agente
como un medio para romper el poderío de la dinastía reinante.
(Elizondo::)

. Elizondo, S. (). Farabeuf o la crónica de un instante, México: Joaquín Mortiz, ra.
ed., p. 
Las metamorfosis del suplicio 

Considerése, asimismo, esta otra cita:

[...] deux étapes du plan: º–... publication du petit tract sur les divers pro-
cédés, ceci pour atteindre les gens de lettres, puis, º–publication des docu-
ments photographiques dans la presse Catholique en déguisant habilement
le caractère, plutôt politique de ces événements et en réhaussant leur ca-
ractère, disons, religieux et mystique, jusqu’ à faire apparaître cet individu
comme un apôtre et un martyr de la Foi.
(Elizondo , pp. –)

Con habilidad, Elizondo logra urdir una ficción acerca de las con-
diciones de producción a la vez que un refuerzo de las asociaciones
místicas ya vislumbradas por Bataille. Tal vez lo más interesante sea
la presuposición de hipótesis que podemos desprender sobre la lenta
transposición del signo por parte de una cultura occidental que no
deja de apropiárselo para fines religiosos –desde una implícita acusa-
ción de barbarie– o fines eróticos –sin salir del círculo de exotismo
atribuido al lejano oriente. El trabajo de Elizondo evidencia la definiti-
va cristalización y persistencia de los discursos interpretantes previos
para la constitución de un nuevo signo que va cobrando carácter de
símbolo.
Como en un desafío de no agotar la multiplicidad de gramáticas
de recepción propiciadas por la figuración de los cuerpos, la novela
esboza otra lectura: ampliando un poco más la versatilidad del signo y
amparándose en la indefinición del sexo y la mutilación de los pechos,
se compara al supliciado con un Cristo–mujer, condensación que en
la novela funciona como catalizador para la identificación empática de
la protagonista con el sufrimiento de la víctima. Pero para nuestros
fines, destacamos esta asociación que emerge entre las urdimbres de
la psique, a efectos de compararla con las que aparecen en Rayuela,
de Julio Cortázar, a propósito de la observación de unas fotografías
ofrecidas por Wong a la curiosidad de las mujeres amigas que también
pertenecen a chinos sometidos a la tortura de los cien pedazos:

Acercándose bastante la foto a la cara se veía que el cambio no era en los


muslos sino entre las ingles, en lugar de la mancha borrosa de la primera
foto había como un agujero chorreado, una especie de sexo de niña violada de
donde saltaba la sangre en hilos que resbalaban por los muslos .

. Cortázar, J. (). Rayuela, Buenos Aires: Editorial Seix Barral, p.
 Daniel F. Cortés

Discurso que repite el tono sádico y la comparación con el cuerpo


femenino y perpetúa la cadena de semiosis ilimitada; texto producido
seguramente por el auge de Bataille en aquellos años y que revive
las prácticas sadeanas que París dispensaba en otros tiempos a tales
fotografías. A partir de Bataille parece haber quedado establecido en
los signos constituidos por estas fotografías el aura que oscila entre el
erotismo y el arrobamiento místico.
Pero debía escribirse una última página en la red de discursos
brotados de la sangre de Fu–Tchu Li: una página de otra red, la de
Internet. Sin poder escapar a un destino que lo expone una y otra vez
a la mirada de los hombres cultos tanto como de los mass media, la
foto de Fu–Tchu Li precede en posición central la página dedicada
a la biografía de Georges Bataille por la Web Site de The Subculture
Pages [www.fringeware.com/subcult/Georges_Bataille.html (Fecha
de consulta: año )].
Un click en la pequeña imagen y una foto del suplicio en mayor ta-
maño inunda nuestra pantalla. Un cuerpo público, ofrecido, ahora sí, a
ojos voraces, sádicos o compasivos, pero anónimos, solitarios e incon-
trolables de millones de cibernautas. Millones de recepciones privadas
que nos introducen en la problemática de la comunicación masiva y
de las que no guardaremos registro alguno, lamentablemente.

. ¿Mirada occidental?

Una conclusión sobre este recorrido de lecturas nos obliga a formular


varias preguntas y para hacerlo nos apoyamos en un consejo metodo-
lógico de Verón:

El conjunto de nuestro esquema se apoya en la siguiente hipótesis: si las


condiciones productivas asociadas a un determinado nivel de pertinencia
varían, los discursos también, en alguna parte, variarán.
“En alguna parte”, pero ¿dónde? Responder a esta cuestión es uno de los
objetivos centrales del análisis discursivo.
(Verón , p. )

Comprobar seriamente esta hipótesis excedería los límites de nues-


tro trabajo pero, sin menoscabo de los requisitos del método científico,
podemos al menos sostener con bastante acierto que, efectivamente,
Las metamorfosis del suplicio 

las producciones variarían en la medida en que variaran ciertas con-


diciones. De hecho, basta con preguntarse si el discurso erotizante,
místico y no exento de una irreverencia sadeana frente al extremo
dolor de un chino hubiera sido enunciado frente a condiciones y
objetos muy otros: ¿se hubiera hablado siquiera del atisbo de una
expresión extática ante la imagen de una víctima de los campos de
concentración? Un torturado argelino ¿saldría a la luz pública o más
bien denunciaría el lado oscuro de una sociedad colonialista que oculta
sus tiranías? ¿qué expresarían las buenas conciencias francesas –aún la
de surrealistas que no dejaron nunca de ser militantes comunistas y lu-
chadores de la resistencia contra los nazis– si los comentarios versaran
sobre un destinado a la guillotina? ¿Se hubiera leído el éxtasis religioso
en esos rostros? ¿Qué diferentes mediaciones operan las cercanías y/o
las distancias del tiempo y el espacio sobre estas lecturas?
Debemos interrumpir, en esta fase, una investigación que más tarde
se continuó con la búsqueda –en el plano de la enunciación fotográfica
de principios de s. XX– de nuevos indicadores de una mirada europea
colonialista –etnocéntrica y de cosificación– sobre el otro colonizado.
De esta manera lo sintetiza Mounira Khemir: “Dans les photograp-
hies qui mettent en scène les espaces intérieurs, la représentation
fonctionne comme le miroir d’une société agissant sur une autre avec
la prédominance d’un sentiment de supériorité” .
De todas maneras, quizás exista una explicación más sencilla, más
humana o de alcance universal para el morbo y la obsesión con que
fijamos nuestras miradas. Nos preguntamos, afligidos: ¿cuál es el
límite para el sufrimiento de ese ser humano, de ese otro yo, cuál es
nuestra capacidad de resistir, cuál el límite a mi sufrimiento, en última
instancia? De ahí que prefiramos descartar toda anestesia artificial
como el opio, para autoconsolarnos con que, en la agonía, caeremos
en los brazos amorosos de Dios, con el deseo ilusionado de que, a
último momento, cesa todo dolor y el espíritu acalla la carne sufriente.

. Centre national de la photographie et Institut du monde arabe (). L’Orientalisme,


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 Daniel F. Cortés

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Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
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DOI 10.4399/978885487394011
pag. 207–218 (luglio 2014)

The Semiotics of Ecstatic Feeling


and the Remediation of Emotional Catastrophe
from Peirce’s Semiotic Perspective∗
Y L

 : Semiotica del sentimento estatico e riparazione della catastrofe


emotiva nella prospettiva della semiotica di Peirce

:This paper aims to look at the concept of ecstasy from the Peircean
semiotic point of view. The semiotic view allows us to see the feeling
of ecstasy through consciousness activity in three phases of feeling:
material quality, quality proper, and thought. Feeling as material quality
manifests pleasure and pain which operate based on attraction and
repulsion. This double consciousness of feeling as in pleasure and pain
generates emotional catastrophe in actual experience; however, each has
its own character of feeling as unity and separation leading to a form of
thought in death and love as transcendental stimuli for thinking. The
subject’s behavior towards the outer Object reconciles the two opposite
feelings. Based on this view of feeling as consciousness, two oppositional
feelings as double consciousness are a prerequisite in order for mind
to remediate the two without denying or despairing. This paper argues
that the feeling of unity as remediation of the two leads to the ecstatic
feeling through an emotional–voluntary act in a metaphysical way.

: C.S. Peirce; ecstasy; feeling; consciousness activity; love.

. A semiotic viewpoint of feeling and consciousness

A psychologist, William James, said in a lecture in The Varieties of


Religious Experience (/:) that the subconscious self was an
I would like to express my thanks to Professor Massimo Leone for focusing attention

on Ecstasy and providing me with an opportunity to contribute to this. I also extend my


thanks to the National Research Foundation of Korea (Grant No. NRF–––A).


 Yunhee Lee

intermediary psychological entity between the self and God and also
he mentioned an inquiry into transmarginal field in psychology. The
transmarginal field in question implies a feature of mental space with
a concept of boundary between center and peripheral. The term,
“the subconscious” is also well recognized in Freud’s psychoanalysis
as the name of the unconscious which he describes as mental phe-
nomenon. The subject’s behavior is explained by a submerged type of
consciousness in the field of the subject’s underground life. The con-
cept of the subconscious or the unconscious form of consciousness
from psychology and psychoanalysis adopts a different approach to
consciousness.
In James’ psychology, a rather vague term “the subconscious” is used
for psychological entity in an inactive state, in contrast to consciousness
which encompasses psychological behavior toward purposeful activ-
ity. Accordingly, the study of consciousness is centered in the general
description of psychological entity. This aspect brought about a counter-
argument by a logician, C.S. Peirce, who sees consciousness as nothing
but feeling itself from a semiotic point of view.(Peirce CP . ) That is,
feeling is not psychological but mental, precisely logical or semiotic. In
Peirce’s view on consciousness, the notion of the subconscious or the
unconscious is not acceptable; it exists as a form of dim consciousness
as opposed to vivid consciousness. (cf. Peirce CP .)
In Freud’s psychoanalysis, the notion of the unconscious is under-
stood as “abstract concepts and not facts”.(Vygotsky : ) On this
point, L.S. Vygotsky criticizes, following Spranger, the idea that for
Freud the unconscious is a way of describing certain facts, such as “a
system of conventional concepts” and at the same time is a material
fact, such as “a manifest influence as an obsessional action does”. (Vy-
gotsky :) As a result, Freud would have wanted to replace the
psychological terms by physiological ones. (Vygotsky : ) In this
respect, the concept of the mental process in Freud could be related to
a mental organ, such as the brain. Accordingly, when it comes to men-
tal process this requires special consideration which is simply neither
physiological nor mental; rather, mind is an external phenomenon of
a functional entity where higher psychological processes operate by
way of signs. Therefore, neither objective nor subjective psychology
alone can discover the truth of consciousness; it is dialectic psychology
from outside and inside that mediates self and non–self within a semi-
The Semiotics of Ecstatic Feeling 

otic perspective. From this aspect, the problem of the unconscious


can be investigated not in a mental and psychological way but in a
metaphysical way with a semiotic viewpoint.
The notion of subconscious self for William James can be explored
in relation to Peirce’s concept of consciousness. As I mentioned, for
Peirce consciousness is nothing but feeling and thus the subject in hand
is an inquiry into feeling as a metaphysical aspect which manifests in
mind. When Peirce says, “What is meant by consciousness is really
in itself nothing but feeling”, (Peirce CP .) he intends to draw
a distinction between mind and consciousness, while he thinks that
almost all psychologists regard them as identical. Thus, Peirce argues
that there is a mind which is unconscious, following Hartmann.(Peirce
CP .) Regarding mind and feeling, Peirce goes further to say that
“feeling is nothing but the inward aspects of things, while mind on the
contrary is essentially an external phenomenon”. (Peirce CP .) By
saying this, Peirce makes it clear that consciousness studies are carried
out by semiotic activity inwardly and outwardly. From this aspect, the
field of the unconscious exists as possibility for inquiry. Semiotician and
developmental psychologist L.S. Vygotsky has the same view that mind
is a compound complex which allows the unconscious to lead to the
psychophysiological phenomenon. This indicates that the unconscious is
not an abstract concept but is potentially conscious. (Vygotsky : )
The question concerning the subconscious self is how it can be dis-
tinguished from the conscious self, or rather from self–consciousness.
According to Peirce, consciousness occupies time, which means that
a Quality of feeling towards a thing consists in a unity through time,
so that the subject is able to be aware of inward feeling in general by
way of similarity to previous feelings. This tells us that a human being
is confined in time. That is, the law of mind is operating in continuity in
time for consciousness activity for connecting two different conscious-
ness–in–events. In this sense, the unconscious self is tied to a Quality of
feeling as dim consciousness and the conscious self is tied to ‘making’ a
habit of connection of two different ideas. The former is then related to
the personal self as singularity which is connected with Peirce’s term of
‘feeling–consciousness’, (Peirce CP . ) and the latter to the expressive
and cultured self, which is associated with ‘mediate cognitions’. (Peirce
CP .) In the same way, the subconscious self is characterized as
habitual connection of two ideas, associated with the virtual self. In this
 Yunhee Lee

regard, the subconscious self can be described as virtual existence in a


boundary between two ideas of feelings, that is, self–consciousness and
non–self–consciousness in mental space with contiguity.
Based on feeling and consciousness, I will investigate a feeling of
ecstasy in the semiotic self, which is constructed by consciousness
activity with a feeling of unity in time and space. This feeling of unity
can be described as ecstasy from a semiotic viewpoint by which em-
pirical existence externalizes oneself as emotional–volitional tone of
existence in a metaphysical way. Particularly, I will look into two Ob-
jects of thought in death and love, seeking for an emotional–volitional
act for resolving the catastrophic feeling of anxiety of ‘death’ and its
remediation in a feeling of union of ‘love’, as the self–denial meaning
of love for other, that is, altruism.

. Three phases of feeling as consciousness

There are three phases of feeling and these can be called material
quality, a Quality and thoughts.
Firstly, there is material quality of feeling. Material quality of feeling
can be explained by comparison of fear and anxiety. According to
Peirce, they are different in terms of how the subject reacts and deals
with external Object. That is, when the subject does not know any-
thing about external Object without any inference or information, the
feeling of fear arises. But when the subject is aware of external Object
with hypothesis or information by inference, while probabilities may
not happen, the feeling of anxiety arises. (Peirce CP .)
Thus, two kinds of feeling can be distinguished by material qual-
ity in a psychophysiological way. Therefore, in the case of fear, the
subject tends to respond by immediate reaction as a singular event,
producing a motion in the body and mind. This can be termed as
emotion, according to Peirce. (Peirce CP .) But in the case of
anxiety external Object elicits some thoughts on how to deal with
precognition; however, there is a semiotic gap between the subject’s
hypothesis and the Object–in–event, which leads to a catastrophic
state of mind. In this case, the material quality of feeling involves an
inferential process in mind. In this sense, in comparison with emotion,
feeling has quality in general.
The Semiotics of Ecstatic Feeling 

As we have seen, the two kinds of feeling, fear and anxiety, are
different in the sense that the subject’s perceptual experience operates
in a distinctive way; however, the feelings of material quality in both
cases produce a feeling of separation, acknowledging external Object
objectively. This feeling of unity leads to the next step of investigation
into a Quality of feeling.
Secondly, there is a Quality of feeling. The second phase of feeling
is developed using inference. Thus, the feeling becomes generalized
in interpreting perceptual object, and mediated memory by inference
is more involved in the process of sign–interpretation. Through this
inferential process, the perceiver extracts the quality of feeling in
general, such as feelings of perfect and defect; good and bad; pleasure
and pain; love and hate. Peirce stresses this point, saying that “It is a
great mistake to suppose that the phenomena of pleasure and pain are
mainly phenomena of feeling”. (Peirce CP .)
Particularly, a pair of pleasure and pain is related to the biological
aspect of human reaction, such as: pleasure gives you attraction and
attention; pain gives you repulsion. As a result, you are led to have
perceptual judgment driven by Quality of feeling. Emotion and feeling
are signs producing the interpretation of external Object in a particular
way. Therefore, feeling is a product of inference by previous experi-
ence and is thus a form of mediated memory which is understood as
thoughts with immediate consciousness.
Thirdly, there are thoughts of feeling. The last phase of feeling is
connected with thoughts, leading to action and logical thinking. At
this stage, a thought which is private becomes generalized in encoun-
tering other thoughts–in–event. The vague feeling of anxiety initiated
by external Object becomes clearer when the quality of the feelings is
manifested on the ground of the pleasure–and–pain principle, so that
the quality of separation and union undertakes an emotional reaction
to the event as repulsion or attraction. Therefore, it is a natural reac-
tion toward the attraction of union in order to get rid of a feeling of
pain in separation as emotionally repellent. This process is understood
as an emotional–volitional act for remediation of the catastrophic state
of mind in anxiety. In this sense, love–in–action works to remedy the
emotional catastrophic state of mind. I will explain why love is to be a
remedy for a feeling of rupture in the next section.
 Yunhee Lee

. Object of thought as feeling

Heidegger’s well–known conceptual term is Dasein (being present, or


empirical existence or the being for whom being is a question), which
is characterized as being–in–time. According to him, there are three
moments of ecstasy. The etymology of ecstasy is from the Greek eksta-
sis, which is a compounded form of ek (outer) and histanai (to place).
Therefore, empirical existence can experience three kinds of ecstasy,
placed out of time from past, future, and present. (Heidegger )
My concern here is to use the concept of Heidegger’s ecstasy in
mental space in connection with other mind in the subconscious self.
This is fictive and virtual space, and yet we are still connected in
time from past to future as a form of mediated memory and hope
by sign–interpretation, respectively. In this regard, a human being is
placed in four different realities backward and forward in time; inward
and outward in space; which is described as chronotopical being.
The subconscious self in question with assertiveness of feeling
against the other has semiotic competence for guessing from self–con-
sciousness inwardly and non–self–consciousness outwardly, connecting
two thought–events for sign–interpretation. Then, when the interme-
diary self with double consciousness is trained by means of making a
habit of connecting two thoughts by inference an emotional–volitional
act transforms into a habitual connection of the two, which becomes
natural in action, achieving a unity of feeling between self and non–self.
So how can it be done? The answer is by semiotic means to think,
that is, artificial stimuli in the process of consciousness activity, and yet
objects of thought are not internally generated but are transcenden-
tal stimuli, as it were. Consequently, I suggest there are two kinds of
object for an exemplary model to train our mind to form a habit of
feeling. The two objects are “Death” and “Love”. I will explain these
. The term “chronotope” is a well–known term in Bakhtin. (Bakhtin ) The
significant point in Bakhtin’s use of the term lies in the correlation of the concepts of time
and space in human action, on which he has made an inquiry through the literary work.
Similarly, the objects of thought in death and love provide the condition of time and space
for interpreting mind as correlation in the course of consciousness activity.
. An emotional and volitional act is not action caused by force; rather, it is close to deed
which is associated with responsibility for the action in a voluntary way.
. Indeed, this habitual action in semiosis has the characteristic of a symbolic action.
Regarding this point, see the discussion of habit and Peirce’s concept of symbol in Nöth. ()
The Semiotics of Ecstatic Feeling 

two in connection with mental operation in time and space, providing


a feeling of anxiety and a feeling of ecstasy respectively. Death and love
require each other for the compensation principle in psychology, as in a
pleasure–pain principle for action, that is, death providing a feeling of
pain and separation, and love providing a feeling of pleasure and union.
Death and love undertake their function as a pair of feelings in light of
quality of feeling in separation and union. The consciousness in Second-
ness is double consciousness which is called altersense in Peirce’s terms.
Each feeling–consciousness is related to the other, either as identity or
as comparison. Regarding separation as repellent for emotional reaction
and union as attraction for emotional reaction, a feeling of union is vivid
against separation, while a feeling of separation produces an emotional
situation of human being’s condition for interpretation. Another way is
to see this double consciousness in that empirical existence is confined
in the feeling of self and other. At this point, object of death leads us to
think of a feeling of separation and thus anxiety. We do not know death
and we cannot experience death, and yet we can infer it from collateral
experience. Death appears to us externally as a phenomenon, leaving
us in fear or anxiety, depending on the degree of familiarity with the
concept of death. This state of mind is characterized by a catastrophic
situation for the personal self. Moreover, the thought of death reminds
us that time is the form of human existence, following Aristotle. Thus,
I think that the conception of death lives with us to recall that we are a
temporal being. Accordingly, the object of thought in death leads us to
think of ourselves with a feeling of intensity in time.
On the other side of consciousness, humans are spatial beings,
which allows us to feel ecstasy mediated by thought–object of love.
Love appears just like death as a phenomenon, which does not belong
to human beings as expressed in the linguistic form: ‘I am falling
in love.’ But it works in mind differently from death, which exists
for epistemological object for thinking. In other words, love without
action would not work; thus love–in–action will allow the mind to
produce compensation of defect or rupture from a feeling of anxiety.
In this regard, the emotional–volitional act is the significant aspect for
developing formation of a new habit of feeling, which comes subcon-
sciously to be the habitual connection. You just think of death in that it is
hard to understand because it is connected with time, thus only ponder-
ing upon it without experience of death. In contrast, love can become
 Yunhee Lee

actualized in a relation with love–in–action through a mental space of


intimacy and familiarity by which two thoughts are connected. More
importantly, the mental connection in space often shows that when
the act is emotionally, volitionally, and habitually involved, the subcon-
scious self experiences oneness between the self and other. This leads
to a feeling of ecstasy, denying self–consciousness and unifying with
non–self–consciousness. This love–in–action is not from self–sacrifice
but from a habitual feeling of fulfillment of the other’s need, accord-
ing to Peirce. (Peirce CP .–.) This emotional–volitional act is
a power of compensation of defect, that is, the creative love of union.
Therefore, the command ‘Love your neighbor’ is to be interpreted as a
way to learn how to experience a feeling of ecstasy.

. Phenomenon of emotional catastrophe

As we have seen, feeling–consciousness in the unconscious self as possi-


bility becomes conscious as assertiveness of feeling in the subconscious
self, which is then developed into thoughts of feeling in a transcendental
object of thoughts in death and love. As Peirce states, all consciousness
belongs to medisense, which is a sense of learning process. (Peirce CP
.) Then, emotional activity is also regarded as a learning process in
the sense that an emotional catastrophe is resolved by emotional and
volitional sense of consciousness activity. I will elaborate on the phe-
nomenon of catastrophe as a condition for remediation for a further act,
which is an emotional–volitional act, as we have seen in love–in–action.
As I have explained before, ecstasy exists in the form of both a state
and a feeling. It appears that continuous consciousness is tied to time
which is submerged, while the subconscious emerges in the event of
ecstasy. This can be interpreted in that a feeling of ecstasy as conscious-
ness activity is limited to an individual experience; however, the state
. Mendonça discusses the pattern of sentiment for a singular aspect of emotional state
to be abstracted as feeling in general. An emotion is dynamic and reactive to an emotional
situation. In this respect, the advantage of the patterns of sentiment contributes to emotional
education by knowing an emotional habit responding to external stimuli. That is, “given
that the pattern may explain why certain emotions are clearer and more denotable than
others (given that certain situations are more common and more frequently experienced
than others), it opens the way for a reflection upon emotional habit and its role in emotional
education”. (Mendonça : )
The Semiotics of Ecstatic Feeling 

of ecstasy by love can be contagious in mental space with practice of


the love–in–action. From this perspective, the state of ecstasy by love
can extend to ‘evolutionary’ love, following Peirce’s terms. (Peirce CP
.–.) Thus, on the one hand, catastrophe is a human being’s con-
dition in actual life as in problem–raising. On the other hand, a human
being is an impetus for compensation of defect, or remediation through
problem–solving. Therefore, I believe that a feeling of ecstasy with a
transcendental individual experience should extend to the sentiment of
community, and consequently the state of ecstasy is to be understood as
an outcome of an emotional–volitional act, responding to the external
Object of thought.
Roughly speaking, catastrophe theory is concerned with the pro-
cess of how a subject deals with troubles–in–life for resolution. It
rejects a mechanical process such as causality, so that it involves cog-
nitive instruments or tools. But I will not deal with this from the
scientific perspective , and thus I will just briefly mention three points.
First of all, I will examine how the catastrophic situation occurs at
the outset. Second, how one responds in connection with feeling, and
attitudes toward the catastrophic situation will be observed. Third,
ways of remediation of the catastrophic situation will be addressed.
Regarding the first point, the catastrophic situation occurs when
there is a gap between things–in–given and things–in–doing. There-
fore, the catastrophic situation drives a subject to be aware of the
defect for solving the problem. Experimental psychologists explain
this situation in terms of feeling as a form of thought with a perceptual
judgment so as to be aware of the situation. This awareness in the
emotional catastrophe could lead to a following act for compensation
of the imperfect situation, using other possible means. Also a catas-
trophic event can arise in an inner or outer state or an individual or
social domain. The process of solving the problems will vary. The
important point is that an emotional situation can be transformed into
educational activity of inference and experience.
Then, the second point is thus related to how people or individuals
respond to this catastrophic situation outwardly and inwardly. There
are two ways of responding: “denial” and “despair.” These can be
interpreted by semiotic and psychological processes. There are people

. On this matter, see René Thom () Semiosis and Catastrophes.


 Yunhee Lee

who cannot be aware of catastrophe, ignoring facts and relying on


unrealistic and fictive reality only. This is an attitude of denial to a
catastrophic situation, which is fictive without the factual element of
thinking. This belongs to iconic thinking in the sense that they are
not able to connect the self and other as two different thought–events,
with immediate consciousness of thought as in a feeling of catastrophe,
lacking a complex cognitive tool.
There are people who can be so well aware of the situation that they
only see the disastrous situation without hope. They lack the ability
to see the problem differently with transference or transvaluation.
In this sense, they lack competence of symbolic interpretation to
see a possibility for the future. This attitude is “despair”, which is
factual without a fictive element for thinking. This attitude belongs to
indexical thinking, looking at only the present, leading to skepticism,
no future, and no hope.
Last but not least there are people who respond to the situation with
complex cognitive tools for compensation of their defective situation.
I call this attitude a remediational process. In terms of the degree of
remediation, the third attitude is greatly remediated or over–remediated
as in the examples of Helen Keller and Beethoven. They employ an
emotional and volitional tone for a remediational act. As we have seen,
the concept of ecstasy is not psychological or physical but metaphysical,
to look at responses to external object of the emotional catastrophic
situation in correspondence to internal object as a feeling of union. In
this respect, the external catastrophic situation forces one to produce

. The concept of transvaluation is related to interpreting activity where I employed


the terms from Liszka () who sees interpretant of Peirce’s terms as translation with
the concept of value in Saussure as a common ground. Thus, translation with value allows
the interpreting mind to be involved in semiosis in a triadic way.
. Remediational connotes a process of remedy, through which different mediational
means are implemented for interpreting mind, so that a defective or catastrophic situation
leads to resolution. This process is found in Vygotsky’s study on the psychology of the disabled
in the name of defectology. (Vygotsky ) But the remediational process is also found in man
in general in the form of narrative mind which strives to solve problems in life emotionally
or physically. The troubled mind becomes active toward an emotional release, as Peirce
describes the emotional feeling in doubt and belief found in the scientific activity of mind.
Michel de Montaigne, who struggled in life personally and nationally, found a remediational
stimulus in writing activity in order to solve the problem. The writing which we now have is
called a testimony during emotional catastrophes in life through which loss as represented by
death is regained by its remediation by virtue of love. (de Montaigne )
The Semiotics of Ecstatic Feeling 

a reactive action which will be attained by consciousness activity of a


feeling of union between self and non–self as ecstatic feeling.
In connection with the concept of ecstasy from Peirce’s semiotic
viewpiont, catastrophe and compensation operate in consciousness of
Secondness. Accordingly, the semiotic meaning of ecstasy is under-
stood as the state of oneness or a sense of Firstness. Precisely speak-
ing, the ecstatic feeling is the outcome of compensation of death with
love–in–action by virtue of emotional–volitional thinking and conduct.
By way of concluding remarks, I would like to make the point that
the meaning of self–denial is not a psychological but metaphysical
concept, and yet it should be connected with empirical existence in a
psychophysiological way by virtue of emotional–volitional act, so as to
make a habit of feeling. By saying “Love your neighbor”, the concept
of self–denial is a sense of altruism, that is self as other. Accordingly, by
loving your close neighbor in practice, you are forming a new habit
of connecting two thoughts and minds. In terms of a phenomenon of
habit, the sense of Firstness as ecstatic feeling is working in a similar
way to that when you are mesmerized by art, when you have a habit
of feeling for thought towards artwork. We are dialogic beings in
the end, outwardly and inwardly, placed with our own mental space
connected with non–self, that is, other, being sensitive and responsible
to other. This is a picture of a chronotopical being as a community of
ecstasy.

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DOI 10.4399/978885487394012
pag. 219–282 (luglio 2014)

Semiotica dello slancio mistico


M L

 : Semiotics of the Mystical Elan

: The article proposes an abstract model of the mystical discourse.


Stemming from an imaginaire that opposes unity and duality, mystical
texts narrate the topological dialectics between these two poles through
various types of ecstatic tales. The article analyses several of them, in
the attempt to bring about a typology that challenges philological and
historical criteria and develops along structural lines. As diverse phe-
nomena as Castaneda’s mystical accounts and the Kabbalistic discourse,
mystical “idiots” and Bukowski’s fictional heroes, and the fusional frenzy
of metals in alchemy and that of moral principles in casuistry, are com-
pared and contrasted in order to detect the main features of the semiotic
ideology that underpins the ecstatic imaginaire.

: ecstasy; mysticism; semiotics; alchemy; casuistry.

So bene che gli psicologi hanno inventato un brutto


vocabolo greco per indicare la tendenza a vedere
analogie dovunque, ma questo non mi spaventa,
perchè so che dovunque ci sono rassomiglianze, dal
momento che dovunque tutto è in tutto.
August Strindberg

. Uno e Due

.. L’emersione del senso

Il senso si dà per emersione da un Tutto inafferrabile, e lascia im-


maginare — per presupposizione — la lacerazione insita in questo


 Massimo Leone

emergere . La comparsa del Due, ossia dell’alterità, frutto consustan-


ziale all’emersione stessa, è connaturata alla possibilità di un’esistenza,
e tuttavia produce la nostalgia dell’Uno, di un Tutto in cui la mancan-
za si annulli e scompaiano le inevitabili contraddizioni della dualità
(Greimas ).

Figura : Il senso emerso.

Il senso può emergere secondo molteplici modalità eruttive e,


se si considerano quei complessi miscugli di zampilli di senso che
si definiscono “culture”, esse saranno etichettabili, di volta in volta,
a seconda della prevalenza di una di tali modalità (Lotman ).
Le culture, delineandosi come forme complessive che consentono
l’emersione del senso a partire dal Tutto, sono situabili lungo un
continuum tipologico che le categorizza a seconda di quanto, a parti-
re dalle forme medesime, sia possibile presupporre la presenza di
un residuo non articolato del Tutto (Leone a). A un estremo,
vi sarà la forma che nasconde totalmente la presenza di questo resi-
duo, costruisce un’illusione di unicità e, impedendo presupposizioni
contrarie, di una forma che sia coestesa al Tutto; mentre all’altro si
troverà la forma che manifesta, per presupposizioni possibili a parti-
re dalla forma stessa, il Tutto come coesteso al residuo, nascondendo
totalmente la porzione di Uno che pure è inevitabile si esprima nel

. Per un’approfondita esamina dell’ideologia semiotica con cui la semiologia e poi la


semiotica immaginano il rapporto fra sistema e processo, matrice virtuale di possibilità
significanti e percorsi semiotici attualizzati nell’enunciazione, si veda Leone b.
. Per il concetto di unitotalità, è opportuno fare riferimento alla concezione di Vladi-
mir S. Solov’ëv (–). Se ne prende a prestito, come a suo tempo ebbe a fare Pavel
Florenskij, la sola impostazione formale.
Semiotica dello slancio mistico 

Due, e costruendo un’illusione di dualità totalmente svincolata dal


Tutto (Lotman ).
Come è facile notare dal grafico nella Fig. , non è possibile dare
rappresentazione dei poli estremi, se non giocando ipocritamente
con il fatto che qui un concetto indefinito, quello di Tutto, viene ad
effigiarsi per mezzo di una linea determinata (Leone b).

Figura : Il continuum delle forme.

È impossibile che vi siano forme che costruiscano illusioni perfette di


unicità totale o di dualità totale, e anzi è rilevabile una tendenza all’oscil-
lazione da un’estremo all’altro del continuum, senza che essi vengano
toccati se non asintoticamente (Leone a). Data questa impostazione
generale, si può dire che, nei casi in cui una forma consenta presuppo-
sizioni del residuo, venga a prodursi un’istanza riparatoria tendente a
elaborare nuove porzioni di forma, tali che esse coprano il residuo stesso
e si pongano come ricompositive dell’Uno scisso nel senso. D’altra parte,
poichè ogni nuova forma è forma del senso, e dunque apportatrice di
dualità, il movimento asintotico verso l’Uno è frustrante per principio,
e si configura come tensione senza esito (Leone c).

Figura : Una possibile tensione verso l’Uno.


 Massimo Leone

Vicendevolmente, quando la tensione verso l’Uno è tale da mor-


tificare oltre misura quella dualità che è fondamento dell’esistenza,
si generano istanze dualizzatrici che invertono la tensione lungo il
continuum, cercando di costruire una nuova illusione di assenza del
residuo ed eliminando, nelle forme elaborate, le presupposizioni che
ad esso rimandano (b).

Figura : Una possibile tensione verso il Due.

Si può ipotizzare che, man mano che l’istanza unificatrice scopre


nuove porzioni del residuo, sia sempre più elaborato il processo attraver-
so il quale l’istanza dualizzatrice può narcotizzare le presupposizioni che
ad esso rimandano, per cui, per ogni oscillazione ulteriore, il baricentro
del continuum tenderebbe a spostarsi verso il polo dell’Uno.

Figura : Due dinamiche entropiche del senso.

Non è difficile paragonare questo movimento all’aumento cosmico


dell’entropia, e quindi ipotizzare una morte progressiva del senso. Nel
corso del saggio si analizzerà come questo processo entropico possa
da un lato configurarsi come nichilistico, ovvero di implosione della
forma, mentre dall’altro possa darsi come conciliatorio o paradossale,
Semiotica dello slancio mistico 

ossia di saturazione del residuo da parte della forma. Tuttavia i cosmo-


logi hanno appena iniziato a configurare possibilità diverse, scenari
variegati che, rapportati alla dimensione generale delle dinamiche del
senso, non darebbero affatto per scontata una sua dissoluzione .

.. Breve topologia delle dinamiche di senso∗

Topologicamente, la forma è un insieme dotato di confine, il quale


realizza, per il suo stesso esistere, l’esclusione di un residuo nel Tutto
e la produzione di una dualità fra insieme e non–insieme. La dualità
perfetta si ritrova a partire da un insieme il cui centro è in posizione
esattamente mediana rispetto al confine, ovvero equidistante da tutti i
punti di quest’ultimo (Lotman ). Viene così occultata ogni presup-
posizione a qualsivoglia allargamento del confine. Tuttavia, dato che le
emersioni del senso non possono essere irregimentate immediatamen-
te e perfettamente, e quindi non possono essere organizzate in modo
che il centro risulti sempre in posizione mediana, la dualità perfetta è
un asintoto irraggiungibile, e continue presupposizioni del residuo
sono destinate a formarsi. Ugualmente irraggiungibile è, d’altro canto,
l’unità perfetta, in quanto ogni lavoro sul confine dell’insieme è esso
stesso produzione di senso mediante una forma, e quindi produzione
di nuovo confine. Sia l’istanza unificatrice che quella dualizzatrice,
inoltre, possono lavorare in maniera radicale oppure in maniera mo-
derata, a seconda di quale dei due elementi dell’insieme sia oggetto
del lavoro dell’istanza: il centro oppure il confine. Ancora una volta,
è raro riscontrare una prevalenza assoluta di una delle due modalità,
che invece si situano, di nuovo, come poli estremi in un continuum di
combinazioni variabili (Lotman ).
L’istanza unificatrice lavora sul centro cercando di spostarlo, os-
sia cercando di squilibrare la forma nella sua articolazione interna,
mentre lavora sul confine cercando di eliminarlo, e dunque — inevita-
bilmente — producendo un nuovo confine, che magari abbracci una
porzione di residuo più ampia. È ovvio che la prima modalità risulta di
instaurazione di una competenza rispetto alla seconda, performativa. Il
. Illuminante, a tal proposito, l’illustrazione di John D. Barrow in Theories of Everything
(), specie nel capitolo dedicato ai principi organizzativi.

Per questa sezione si è fatto continuo ma libero riferimento a L’età neobarocca, di
O. Calabrese (), e soprattutto al capitolo dedicato a “limite ed eccesso”.
 Massimo Leone

Figura : Lavoro sul centro (moderato) e sul confine (radicale).

lavoro moderato, cioè, crea presupposizioni di mancanza che il lavoro


radicale è chiamato a riempire (Lotman ).

Figura : Passaggio dal lavoro moderato a quello radicale.

Parallelamente, l’istanza dualizzatrice lavora sul centro cercando


di collocarlo in posizione mediana rispetto all’insieme, mentre lavora
sul confine circolarizzandolo, ovvero cercando la simmetria. Anche in
questo caso, si possono individuare una competenza e una performan-
za. Topologicamente, inoltre, l’istanza circolarizzatrice può ricercare la
simmetria attraverso una diminuzione del residuo, oppure attraverso
un aumento del residuo. Nel primo caso, il rigonfiamento dell’insieme
provocato dall’istanza unificatrice verrebbe inglobato in una circolarità
più ampia della precedente, per quanto simmetrica. Questa dinamica
configura in via topologica la morte entropica del senso, ovvero un
progressivo allargamento dell’insieme fino all’ipotetico coincidere di
quest’ultimo col Tutto. Nel secondo caso, il rigonfiamento verrebbe
assorbito in un mero spostamento dell’insieme rispetto al Tutto, cosic-
ché parti che prima erano nell’insieme diverrebbero residuo, e parti
che erano residuo verrebbero a far parte dell’insieme. È probabile che,
ancora una volta, ampliamento e spostamento siano solo poli estremi
lungo un continuum .
. A tal proposito, il capitolo de L’Età neobarocca dedicato a “complessità e dissipazione”
(Calabrese ).
Semiotica dello slancio mistico 

Figura : Riduzione e aumento di complessità della forma.

Viene comunque a configurarsi la possibilità teorica di una sorta di


algebra del senso, che determini di volta in volta la quantità di residuo
coperta o abbandonata da una forma.

.. Un percorso di ricerca

Questa ricerca si occupa principalmente dell’istanza unificatrice, ovvero


di quella caratterizzata da una tensione verso il residuo. Che essa venga
definita barocca, dionisiaca, asiana, o in qualunque altro modo, poco im-
porta. È possibile infatti darne una definizione strutturale o topologica,
in base a concetti quanto più è possibile interdefiniti, che sfuggano sia
alle limitazioni della storia, sia a quelle della filologia. Risulta allora lecito
puntare l’attenzione su emersioni del senso che le scienze diacroniche
collocano come lontanissime fra loro, e omologarle invece proprio in
quanto in esse si scorge una medesima dinamica, e cioè, in questo caso:
un medesimo anelito verso il residuo. La denominazione di questo
anelito è totalmente arbitraria, e proprio su ciò si fonda la scientificità
di un’analisi: un fare tassonomico indipendente dalle proprie lessicaliz-
zazioni. Ma di un’analoga arbitrarietà è pure la scelta del fenomeno da
analizzare, fra gli infiniti che presentano la stessa dinamica.
In questa ricerca si è incentrata l’analisi sul fenomeno della misti-
ca, se non altro perché consente un’applicazione macroscopica della
teoria. Un’ulteriore selezione è stata effettuata all’interno della mistica
stessa. Dal momento che accantonare la storia non significa dimen-
ticarsi che ciò che si cerca è una migliore comprensione della forma
di senso nella quale si esiste, la ricerca procederà per sistematici e —
 Massimo Leone

si spera — illuminanti raffronti fra fenomeni attuali e fenomeni, per


così dire, residui, cercando omologie più che eterogeneità. Lo spirito
guida, dunque, sarà in parte quello che anima gli stessi fenomeni
analizzati, una predilezione per la scoperta dello scarto piuttosto che
per la configurazione di una circolarità equilibrata.

.. Il cilicio autocritico

Per concludere questa breve introduzione, è utile il riferimento al


cilicio castigatore che Elémire Zolla fornisce nella sua prefazione a La
colonna e il fondamento della verità (Florenskij ). Quivi si schernisce
“il teatro dei pupi delle esemplificazioni storiche, a canovacci, a fu-
mettoni come: Il politeismo impedisce lo sviluppo scientifico; arriva il
monoteismo, la scienza si solleva e incomincia la sua marcia trionfale.
Oppure: Il paganesimo non sente la natura; giunge il cristianesimo,
tutta la natura si anima”. L’erudito esploratore della mistica dei quattro
angoli del globo continua a fustigare chiosando che

il trastullo è ridicolo, ma i più dotti vi si incanagliscono, escogitano chia-


roscuri da cartellone di propaganda (via via hanno inscenato ignobili, gla-
diatorii contrasti di matriarcato e patriarcato, di latinità e germanesimo, di
ellenicità e socialità). A confezionare tali gingilli basta scordare l’aleatorietà
delle prove, l’ineleganza delle manipolazioni, le sfumature della concretezza.
Il loro smercio poi è pronto: Chi non è tentato dal tiro al bersaglio contro
una qualche testa–di–turco millenaria?

Proprio là dove è inevitabile che ci si sporchi le mani con la spigo-


losità dei fenomeni concreti, ovvero nel passaggio dalla speculazione
teorica alla pratica analitica, si inserisce questa utile citazione. Ecco
a che cosa servirà: a insinuare parola dopo parola che si sta solo con-
fezionando l’ennesimo gingillo, per il quale combattono, e neppure
con troppo vigore, gladiatori prezzolati. L’Uno e il Due, la determi-
natezza e l’indeterminatezza, questa o quell’altra coppia di mercenari
antagonisti, in che cosa sfuggirebbero alla nomea di teatranti? Cosa li
distingue dall’azzuffarsi di apollineo e dionisiaco, classico e barocco,
patriarcale e matriarcale?

. Torino,  luglio  – Montepulciano,  maggio .


Semiotica dello slancio mistico 

. Castaneda e la kabbalah
Si (como el griego afirma en el Cratilo)
El nombre es arquetipo de la cosa,
En las letras de “rosa” está la rosa
Y todo il Nilo en la palabra Nilo. [. . .]
J.L. B, El Golem.

.. L’antropologo fantasma

Carlos Castaneda è un’incognita del nostro tempo. Qualcuno lo dice


antropologo e catecumeno degli sciamani, altri lo denuncia ciarlatano
e tuttalpiù lo esalta narratore fantasioso. Sta di fatto che è comunque
difficile rintracciarne indicazioni biografiche, e le copertine reticenti si
limitano ad un “vive tra Messico ed Arizona”. C’è poi una buona massa
di maliziosi che si chiedono come faccia ad avere fruttuosi contatti con
gli editori, ma è vero pure che coloro che lo leggono vi colgono, i più,
una certa originalità. Numerose le pubblicazioni, e tutte di notevole
successo: il primo libro, l’ormai pluri–edito The Teachings of Don Juan: a
Yaqui Way of Knowledge (), poi A Separate Reality: Further Conversations
with Don Juan (), Journey to Ixtlan: the Lessons of Don Juan (), Tales
of Power (), The Second Ring of Power (), The Eagle’s Gift (),
The Fire from Within (), The Power of Silence: Further Lessons of Don
Juan (), The Art of Dreaming (), The Wheel of Time (), e infine
The Active Side of Infinity () e Magical Passes ().
Se questi titoli appaiono stuzzicare la fantasia in un modo un po’
vieto, le macchine narrative che a essi corrispondono invero sono
efficaci, senza contare che hanno dalla loro il fascino indiscutibile dei
racconti di iniziazione. Lo si scopre, questo fascino, non appena dalle
pagine di Castaneda fa capolino l’attempato don Juan, inesauribile capo
stregone nonchè Nagual — o spirito–guida — dell’antropologo. È dalla
sua bocca che si apprendono le dottrine di cui Castaneda farcisce i
propri libri, ed è dalle sue mani che l’allievo, spesso e volentieri, si
delizia di sedute sciamaniche e misture allucinogene.
. In origine Carlos César Salvador Aranha Castañeda (Cajamarca,  dicembre  –
Los Angeles,  aprile ).
. La bibliografia su Castaneda è piuttosto vasta e incline alle prese di posizione forti e a
volte ideologiche; si vedano in particolare, tra gli ultimi contributi, Bourseiller ; Wagner
; Morais Junior .
 Massimo Leone

... L’arte di sognare

Si è scelto di condurre una breve analisi testuale del primo capitolo (“Gli
stregoni dell’antico”) de L’arte di sognare [The Art of Dreaming ()], in
quanto non soltanto vi si evincono facilmente le strategie pragmatiche
di Castaneda, ma vi compaiono pure, a livello semantico, operazioni
che riflettono egregiamente le dinamiche del senso proprie di una certa
mistica. Procedendo senza bisturi, si deve annotare per prima cosa che
Castaneda si colloca nel testo come simulacro del lettore, allestendo
una nicchia per osservatori e modalizzandoli secondo un voler–sapere
e un non poter–credere. Anche Don Juan è stato scritturato, e la parte
che gli spetta è quella di informatore, carico di voler–far sapere e di
voler–far credere, il cui solo obbiettivo rispetto a Castaneda — e quindi
rispetto a noi — consiste nel trasmettere conoscenza.

Figura : Osservazione e informazione ne L’arte di sognare.

Come vuole il copione, benché il programma narrativo si snodi


fra diversi programmi d’uso, in fondo alla strada l’oggetto di valore
non cambia: è il compiersi, mediante una progressiva accumulazione
di sapere, dell’intero processo di iniziazione. Acquisizioni di compe-
tenza e performanze si susseguono dunque regolarmente fino a che
il soggetto Castaneda non si trova in congiunzione con l’oggetto di
valore: l’Arte di Sognare.

... Don Juan e gli stregoni del passato

Il racconto organizza diverse dimensioni temporali: quella di Castaneda


che racconta, quella dell’esperienza di iniziazione vera e propria, quella
successiva all’iniziazione — nella quale l’antropologo continua da solo i
propri esercizi mistici — e poi una dimensione che potremmo definire
“mitica”, antecedente all’iniziazione ed evocata dai racconti di don Juan.
Qui interessa soltanto il modo in cui il testo costruisce un’opposizione
Semiotica dello slancio mistico 

tra il tempo dell’iniziazione e quello cosiddetto “mitico”, opposizione


incarnata in don Juan da un lato, e negli stregoni del passato dall’altro.

Figura : Temporalizzazione, attorializzazione.

Dalle parole dello stregone–guida si evince che gli attori fra loro anta-
gonisti, dotati dello stesso ruolo tematico, sono sur–modalizzati secondo
una categoria etica che li assiologizza, determinando come buono don
Juan e come non buoni gli stregoni del passato. Ecco la radice dell’oppo-
sizione: dinanzi a un’impersonale istanza sanzionatrice che delimita il
dover–fare dal non dover–fare, gli stregoni del passato vollero fare ciò
che non dovevano, derivandone una sanzione negativa e una diminu-
zione della competenza, mentre don Juan, che si muove rispettoso dei
limiti della stregoneria, non incorre in conseguenze spiacevoli.

Figura : La modalizzazione etica.


 Massimo Leone

Nella sfera diegetica dell’iniziazione don Juan dà abile prova di attore


versatile, e lascia trasparire più volte che egli sussume, oltre al ruolo
dell’informatore, pure quello di un destinante buono, cui si contrappone
l’istanza perniciosa degli stregoni che furono. Data una presupposta
istanza sanzionatrice e determinatrice del limite tra dover–fare e non
dover–fare — secondo l’orientamento timico di questo micro–universo
semantico — un fascio di modalizzazioni (don Juan) carica Castaneda
di un voler fare e di un voler non fare omologhi a quelli dell’istanza
sanzionatrice, mentre il fascio antagonista (stregoni del passato) carica
Castaneda di un voler fare trasgressivo, tracotante. Inutile aggiungere
che il primo fascio di modalizzazioni risulterà vincente.

... Una mistica moderata

Si raccorderà adesso la sintetica analisi precedente con il piano generale


della ricerca. Posto che la mistica è tensione verso il residuo, vi si delinea
un’opposizione — sempre polarizzabile lungo un continuum — fra quel-
la parte di essa che si colloca entro percorsi istituzionalizzati, e la mistica
totalmente eccentrica, individuale, anarchica. Nel racconto di Castaneda
si costruisce un prevalere della prima tipologia. Egli infatti evade, sì,
dalla forma culturale occidentale, ma si colloca pur sempre al seguito di
una guida, di uno stregone che lo inizierà secondo un sentiero didattico
definito. Ciò fa sì che la tensione verso il residuo sia tuttalpiù liminare,
mai eruttiva, e impegnata in un lavoro sullo spostamento del centro
piuttosto che sulla ridefinizione del confine. La sorte dell’istanza misti-
ca opposta, quella non istituzionalizzata, ce lo conferma: è eticamente
scorretta, destinata a essere punita per il proprio tralignamento.
Per introdurre una riflessione che sarà proseguita oltre, si annoti il
modo in cui viene figurativizzata la diminuzione della competenza cui
sono soggetti coloro che tralignano: gli stregoni tracotanti sono de-
scritti come personalità strambe, fuori dal mondo, al limite della follia.
Dal momento che essi si pongono quali paladini di un’estrema istanza
unificatrice, tendono a perdere il contatto con il mondo oggettuale,
con le sue definizioni. In altri termini, smarrendo il rapporto con
quella dualità che garantisce l’esistenza, finiscono con il collocarsene
al di fuori, col vivere in una dimensione atemporale. Come si vedrà in
seguito, la mistica eccentrica viene spesso tematizzata secondo la follia,
Semiotica dello slancio mistico 

e riceve figurativizzazioni inerenti alla configurazione dell’idiota, dello


schizofrenico, del pazzo.

... Uova luminose e Centri di Attenzione

Prima dell’analisi del livello figurativo, è necessario raccontare qual-


cosa del testo. Riassumendo, l’Arte di Sognare consiste nella capacità
di spostarsi dal mondo della Prima Attenzione, che è quello nel qua-
le vivono tutti — mondo di oggetti —, verso quello della Seconda
Attenzione, ove invece se ne percepisce l’essenza — mondo di configu-
razioni di energia. Spostarsi nella Seconda Attenzione — nei termini
della presente ricerca — non è altro che venire a contatto col nou-
meno, con l’inafferrabile, col residuo non articolato dalla forma del
mondo della Prima Attenzione. Nel mondo della Seconda Attenzione
gli uomini si configurano quali uova luminose, attraversate dai fasci
di energia che costituiscono l’universo. La percezione che di esso si
ha è definita dal Centro di Attenzione — punto luminoso all’inter-
no dell’uovo —, e precisamente dal gruppo di fasci passanti per tale
punto. L’Arte di Sognare consiste allora nello spostare questo Centro
in maniera volontaria, uniforme e stabile, al fine di catturare in esso
nuovi fasci di energia.

Figura : L’uovo luminoso.

I modi in cui si può lavorare sul Centro di Attenzione sono due:


lo si può muovere all’interno del globo luminoso, oppure spostare al
di fuori di esso. È chiaro che lo stravolgimento percettivo sarà, nel
secondo caso, assai più marcato.
 Massimo Leone

Figura : Spostamento del Centro d’Attenzione.

È indubbio che questo percorso figurativo sia sorprendentemen-


te isomorfo a quello delineato nella topologia teorica che guida la
presente ricerca. È poi interessante cogliere i rapporti tra l’impianto
narrativo profondo e la sua figurativizzazione: gli stregoni del passato
erano così tracotanti da deformare totalmente la propria configurazio-
ne energetica, nel ridurla da uovo conchiuso a filamento ininterrotto
che toccasse tutti i possibili fasci di energia dell’universo. In effetti,
topologicamente, la linea curva e ininterrotta è quanto di più lontano
possa esserci da una forma dotata di centro. Pare, perciò, che gli stre-
goni del passato realizzino, in maniera difficilmente rappresentabile,
l’utopia di una fusione col Tutto, di una morte assoluta del senso.
Pagano, d’altro canto, il compiersi di questo obbiettivo coll’essere
in–sensati nel mondo della Prima Attenzione, col perdere dualità e,
quindi, esistenza. Nel racconto di don Juan si inscrive dunque un mo-
nito a che Castaneda, e i lettori con lui, stabiliscano un equilibrio fra
tensione verso il residuo e mantenimento delle condizioni di esistenza,
così da non correre il rischio di piombare, a furia di spostamenti, nel
luogo della mera insensatezza.

.. Analogie strutturali

Prestando adesso fede all’obbiettivo della ricerca, si stabiliranno al-


cune connessioni formali tra un fenomeno di senso quale è quello
Semiotica dello slancio mistico 

costituito dai testi di Carlos Castaneda — nella moltitudine dei quali


è stato selezionato un frammento esemplare —, e fenomeni di sen-
so che, pur essendone lontani nel tempo e nello spazio, presentino
analoghe caratteristiche strutturali. Stimoli alla riflessione numerosi e
interessanti si ritrovano soprattutto tra le forme con cui la mistica è
storicamente divenuta fenomeno di senso al margine delle religioni
istituzionalizzate. Quella ebraica, ad esempio, e in particolare la parte
di essa che ha trovato espressione nel filone della kabbalah , fornisce
un esempio nettissimo delle dinamiche già riscontrate nel testo di
Castaneda, nonchè delineate, in precedenza, a livello teorico.

... Il peso di un vuoto

La causa di tale trasparenza va ricercata, fondamentalmente, proprio


nei percorsi di formazione del senso che la religione ebraica ha seguito
lungo la storia. Vi si nota, infatti, una genesi imperniata sulla costruzione
di un confine circolare, tendente a staccare la religione istituzionalizzata
dalle configurazioni mitiche preesistenti, e a realizzare, fino a punte
di massima astrazione, un progressivo e inesorabile svuotamento del
luogo divino. A questo proposito, non è forse azzardato rapportare le
modalità di produzione del senso dell’istanza unificatrice da un lato, e di
quella dualizzatrice dall’altro, alla sostanziale differenza che si instaura, fra
icona e simbolo, nella correlazione fra espressione e contenuto. L’icona è
luogo di produzione di uno slancio verso il residuo, luogo di uno scarto,
di una deviazione dalla forma. Il simbolo è luogo di un’osservanza, di
una delimitazione simmetrica e circolare, di una legge. Non è un caso,
dunque, che nella religione ebraica si manifesti una crescente tensione
eliminatrice delle componenti iconiche insite nel luogo divino, e nel
contempo una progressiva tendenza alla trasformazione del mito in rito
legalizzato, circoscritto, privo di presupposizioni al Tutto circostante.
La cultura ebraica è, d’altro canto, ipertroficamente ritualizzata, e
non a caso si trova in ‘Erubin b : “Signore del mondo, prescrizioni

. Per la documentazione intorno al fenomeno si è fatto riferimento alla preziosa


opera divulgativa di Gershom Scholem. La bibliografia sulla kabbalah è sterminata; tra i
contributi più recenti si segnalano Giller ; Dan ; Wexler e Garb 
. Per una lettura in chiave semiotica della tradizione religiosa ebraica si rimanda alle
numerose opere di Ugo Volli.
. Il secondo trattato del Mishnah Seder Mo’ed, trattato che costituisce un’appendice di
 Massimo Leone

molto più numerose di quelle che Tu mi hai imposto me le sono


imposte io stessa, e le ho osservate” , riferito all’Ecclesia di Israele.
Quindi, progressiva legalizzazione del rito da un lato — ovvero suo
svincolamento dal contesto naturale per una crescente culturalizza-
zione — e, d’altro lato, ipertrofia rituale, compongono una forma del
senso costrittiva e nello stesso tempo straripante di presupposizioni
verso un Tutto che si percepisce lacerato dall’emersione del senso.
A ciò si aggiunga la lapidaria secchezza dell’idea di Dio, totalmente
svuotata di contenuto e disancorata dal contesto culturale, sempre più
astratta e per ciò stesso sempre più ricca di richiami a ciò che rifuta,
a ciò che non abbraccia, che non articola. La kabbalah, fenomeno
mistico per eccellenza, si pone come istanza ricompositiva di questa
violenta lacerazione, intessendosi, non a caso e come in ogni mani-
festazione mistica — Castaneda non escluso —, di una produzione
di senso sostanzialmente iconica, realizzatrice di uno slancio verso
l’esterno. L’anelito è quello a riempire il luogo divino, ad ancorare il
rito al mito, a spostare all’infuori l’interpretazione della Torah: si pro-
ducono, in sostanza, continui e variegati arrembaggi verso il residuo
narcotizzato . Come indiretta ma facilmente spiegabile conseguenza,
questo fenomeno gode presso la popolazione, sia pure in forma volga-
rizzata, di un enorme successo, e lo dimostra soprattutto il cospicuo
favore di pubblico riscosso dall’ultima kabbalah hasidica.

... Il compromesso kabalistico

Come in gran parte della mistica, anche nella storia della kabbalah
sono davvero rari i casi in cui si sia verificato un fenomeno analogo a
quello degli antichi stregoni di Castaneda. Più di frequente, si è trattato

quello su Shabbat.
. Le traduzioni sono dell’autore a partire dall’edizione Soncino.
. Non è un caso che uno dei padri fondatori del decostruzionismo, Harold Bloom,
proprio nella kabbalah abbia trovato i prodromi della propria impostazione critica. In
particolare, ne Kabbalah and Criticism (), Bloom costruisce un parallelo fra revisionismo
cabalistico e poesia contemporanea, analizzando sia l’uno che l’altra con gli strumenti
teorici della teoria dell’influenza e della tardività. Nella presente ricerca non ci si è soffermati
più di tanto sui rapporti fra mistica e decostruzionismo, ovvero su quelli fra mistica e
revisionismo. La possibilità di un confronto è comunque indubitabile, tantevvero che lo
stesso Eco (soprattutto in Interpretazione e sovrainterpretazione) quando vuole ironizzare
sulle pratiche decostruzioniste si richiama più volte al fenomeno mistico.
Semiotica dello slancio mistico 

non tanto di dissoluzione del confine quanto piuttosto di spostamento


del baricentro, di lavoro liminare. Ecco perché, in definitiva, l’accordo
fra le posizioni della kabbalah e quelle della religione ufficiale spesso
non è stato arduo a raggiungersi. Certo, l’intesa non sarebbe stata
possibile se i cabalisti, pur nei loro deliri figurativi, non avessero man-
tenuto un contatto assiduo con la tradizione — contatto peraltro
inevitabile, dato che il materiale figurativo, per quanto diversamente
utilizzato, è in sostanza lo stesso rispetto a quello tradizionale. Anche
nella kabbalah, quindi, insorge quel momento regolarizzatore che è
onnipresente nella mistica, che introduce il duale nella ricerca dell’U-
no, e che si configura sostanzialmente mediante l’istituzione di una
didattica.
Non è difficile trovare tra gli yogin come tra i sufi, tra i cabalisti
come tra i mistici cristiani, l’espressione della necessità di una guida,
di un don Juan, di un guru, di un’istanza regolarizzatrice pur all’in-
terno dello slancio irregolare. Si può dire, anzi, che man mano che
l’istanza regolarizzatrice tende a insinuarsi all’interno di quella mistica,
si producono fenomeni di senso che hanno dell’ossimoro o del con-
traddittorio, proprio perché cercano un’istituzionalizzazione di ciò
che si pone, di per sé, al di fuori del confine. Ecco allora gli “esercizi
spirituali” di Ignazio di Loyola, oppure l’analisi hasidico–cabalistica
degli stati del rapimento estatico contenuta nel Kuntras ha–hithpa’aluth
della scuola bielorussa di Chabad. Ma ecco ancora il degenerare della
kabbalah in puro virtuosismo lettrista, in pratica esteriore priva di
valenza unificatrice, oppure il prodursi di una topica nella mistica
cristiana. In ciascuno di questi casi, Dioniso lascia il posto a Dedalo, a
un irregolare che segue una regola .

... Elia dixit

A parte l’istituzione della figura del maestro, numerosi sono gli espe-
dienti attraverso cui la kabbalah cerca di assimilare i propri contenuti
a quelli della tradizione. Straordinaria, per capacità di mediazione fra
due opposte istanze, è, ad esempio, la concezione del gilluy Eliyahu,

. E “tradizione”, etimologicamente, significa la parola “kabbalah”.


. Questo movimento è stato ampiamente descritto da Gustav René Hocke in
Manierismus in der Literatur: Sprach–Alchimie und esoterische Kombinationskunst.
 Massimo Leone

ovvero della rivelazione di Elia. Nella filosofia ebraica, le produzioni


di senso che si rapportano al divino perdono di efficacia man mano
che si procede nella storia. Ecco perché le prime manifestazioni mi-
stiche della kabbalah in Linguadoca (sec. XII) non furono rivestite
dell’alone della rivelazione divina — il che avrebbe potuto portare a
dei contrasti con la tradizione talmudica —, bensì ascritte al profeta
Elia, di modo che, sminuite a bella posta nel loro valore intrinseco, ne
fosse consentita una completa integrazione all’interno del confine.
Analogamente funziona pure la concezione secondo cui la Torah
possiede diversi livelli di lettura, e quindi diversi strati di senso, conce-
zione largamente diffusa pure nell’esegesi cristiana. È infatti assodato
che il lettrismo cabalista, la combinatoria numerologica e alfabetolo-
gica che costituiscono l’aspetto più noto e popolare della kabbalah,
nasce dallo scontro fra la necessità di preservare il corpo della Torah e
l’esigenza di iniettarvi, nello stesso tempo, un contenuto non previsto
dalla tradizione talmudica.

... La Torah compromessa

A tal proposito, è utile condurre una breve analisi testuale — specie in


rapporto al livello figurativo — di un frammento del cabalista pro-
venzale Isacco il Cieco , in un commento alla prima parte del Midrash
Konen, che tratta di cosmogonia. Qui, come in altri testi cabalistici,
si delineano diverse fasi temporali che scandiscono la costruzione
dell’oggetto di valore–Torah. Il soggetto di questo fare è, ovviamen-
te, Dio, ma in molte concezioni cabalistiche egli finisce con l’essere
contemporaneamente anche oggetto della propria costruzione. Si
tratta della teoria di una coincidenza fra Dio e la Torah, teoria che ha
il suo corrispettivo nella credenza secondo cui la seconda altro non
sarebbe se non tessuto intrecciato con il tetragramma divino. Da ciò,
gli esercizi lettristici per dipanare la matassa dell’intreccio e ricavarne
l’origine tetragrammatica.
Ma ritornando al provenzale Isacco il Cieco, nel suo testo la co-
struzione dell’oggetto di valore viene presto a configurarsi come
. Si può reperire in italiano a p.  de La kabbalah e il suo simbolismo, di Gershom
Scholem (versione originale Scholem ), nell’edizione del  della Piccola Biblioteca
Einaudi.
. Yitzhak Saggi Nehor (Provenza,  circa –  ca.); si veda Scholem .
Semiotica dello slancio mistico 

programma narrativo d’uso rispetto a un programma più genera-


le, che è quello nel quale il soggetto Dio pone il soggetto Uomo
in congiunzione con l’oggetto di valore precedentemente costruito,
modalizzandolo, così, secondo il sapere.

Figura : Costruzione e comunicazione dell’oggetto.

Dio è infatti modalizzato secondo un voler far–sapere, e l’oggetto


che egli costruisce è, di fatto, un oggetto modale. Tuttavia, se guar-
diamo allo statuto epistemico di tale oggetto, e alle trasformazioni
che questo statuto subisce man mano che il soggetto–Dio prosegue
nella propria costruzione, possiamo facilmente notare un passaggio
graduale da un esser–certo, che caratterizza l’oggetto all’inizio della
sua costruzione — o, meglio ancora, un’attimo prima che a essa si dia
inizio —, a un essere–non certo sempre più accentuato.

Figura : Passaggio dal certo al non certo.

Ciò traspare, come è naturale, nell’organizzazione del livello discor-


sivo: la Torah in potenza, quella virtuale, è collocata alla destra di Dio,
luogo sacro e perfetto per definizione. Successivamente, quando si coa-
gula la volontà di una comunicazione, l’oggetto costruito viene a essere
qualificato come incredibilmente sottile, concentrato. Riceve, inoltre,
 Massimo Leone

la denominazione di “Torah della Grazia”. Si è ancora nel luogo di un


essere–certo, eppure già si manifesta, per quanto rarefatta, la presenza
di un corpo, di un confine. Non a caso, si menziona esplicitamente
l’atto di un “formare” divino. Con il passaggio successivo, grazie all’e-
nunciazione divina, si compie pienamente il salto dall’immanenza alla
manifestazione: il programma narrativo d’uso sfuma in quello di base,
e si realizza il momento del dono, ovvero dell’attribuzione transitiva
all’uomo dell’oggetto–Torah da parte di Dio.

.... Fuoco bianco e fuoco nero Qui il testo costruisce un’oppo-


sizione nettissima fra due diversi gradi del dispiegamento, entrambi
successivi al passaggio alla manifestazione. Da un lato si ha l’oggetto
costruito così come viene donato: è ancora epistemicamente certo,
ed è reso figurativamente dall’icona del “fuoco bianco”. Dall’altro, si
ha l’oggetto così come viene ricevuto, che si situa invece sulla corda
di una tensione fra certo e non–certo e viene figurativizzato come
“fuoco nero”. Non è difficile, allora, cogliere il correlato di questa
opposizione, antropologicamente assai diffusa, fra il nero e il bianco.
Posto che entrambe le attribuzioni qualificano un elemento fornitore
di luce e calore quale è il fuoco, traspare immediatamente che laddove
il primo — bianco — è assiologizzato euforicamente, il secondo —
nero — riceve modalizzazione disforica. La Torah, cioè, nel passare
da un soggetto che sa ad un soggetto che non sa, modifica il proprio
statuto modale proprio in virtù di tale passaggio.

Figura : Figurativizzazione del passaggio.


Semiotica dello slancio mistico 

Ma c’è di più. L’opposizione fra fuoco bianco e fuoco nero cor-


risponde, nel testo, pure all’opposizione fra Torah scritta e Torah
orale, per cui viene a delinearsi un altro livello di senso. La catego-
ria del bianco e del nero appartengono, infatti, alla configurazione
discorsiva tipica del tema della scrittura, per cui al luogo bianco su
cui si scrive si contrappone il colore nero, o comunque il colore di
contrasto, col quale si scrive. A questo punto, però, parrebbe esservi
una contraddizione, in quanto è il fuoco bianco, e non il fuoco nero,
a tradurre figurativamente la Torah scritta. L’equivoco si risolve
presto se si considera che l’atto di scrittura che qui si intende non
è quello dell’Uomo, bensì quello di Dio. Poiché, nelle concezioni
più estreme, la Torah è Dio, essa originariamente non può darsi
che come Tutto privo di forma, bianco assoluto senza confini. È nel
momento in cui interviene l’uomo che si produce la Torah orale,
ossia l’interpretazione, e questa non può che sporcare il candore
della scrittura divina, contaminare il fuoco bianco col fuoco nero.
In sostanza, anche la Torah che è scritta dall’Uomo rientra nella
Torah orale, perché non è altro che frutto del tentativo, da parte
dell’Uomo, di riprodurre con i suoi poveri segni grafici l’enunciato
divino. Lo scarto modale esistente fra Dio e Uomo, infatti, realizza
una comunicazione imperfetta a priori, sporcata dall’interpretazione
umana.

.... Caratteri nascosti Ecco allora le concezioni cabalistiche se-


condo cui gli spazi bianchi nella Torah corrisponderebbero in realtà a
lettere non udite (rabbi Levi Izhak di Berdicev [Berdyčiv] ); oppure
quella secondo cui il messaggio divino si trova nella Torah, ma ritrova-
bile solo a partire da un complesso anagramma; oppure la concezione,
assai affascinante, secondo cui nell’intera Torah mancherebbe una
lettera. Ancora una volta, il tentativo di conciliare la tradizione e l’e-
sigenza pressante di nuovi arrembaggi verso il residuo producono
esercizi di isopsefia lettrista, colossali produzioni anagrammatiche,
tentativi di ricostruzione dell’originario messaggio.

. Ochakov, attuale Ucraina,  – Berdyčiv, attuale Ucraina,  ottobre ; si veda
l’Encyclopedia Judaica, vol. , pp. –.
 Massimo Leone

.... L’Aleph Illuminante, a tal proposito, l’opinione di uno dei


grandi hasidici della fine del Settecento, Mendel Torum di Ryma-
nòw , secondo cui l’unica cosa che passò direttamente nella co-
municazione Dio–Uomo che si ebbe sul monte Sinai fu l’aleph, la
prima lettera della prima parola (anokhì=io) del primo comanda-
mento (“Io sono il Signore Dio tuo”). Quest’affermazione è ancor
più radicale se si pensa che l’aleph indica, in realtà, la posizione
assunta dalla laringe quando una parola comincia per vocale (come
lo spirito dolce in greco). Esso rappresenta, cioè, la possibilità di
un’enunciazione, il culmine di una tensione spasmodica precedente
all’emersione del senso. Secondo Mendel di Rymanòw, la voce di
Dio fu insopportabile per il popolo ebraico, che dovette riceverla
tramite la mediazione della voce umana di Mosè. È lecito interpre-
tare questa impossibilità sostenendo che dal momento che il Tutto
non può darsi che come senso rispetto a un’esistenza, deve darsi
necessariamente come corrotto, sporcato, contaminato. Quale unica
possibilità di presagire il Tutto resta il luogo di una presupposizio-
ne, un impercettibile accenno di enunciato che rimanda alla sua
enunciazione; resta l’Aleph.
Non a caso, uno dei più bei racconti che siano stati scritti sulla
tensione fra senso e Tutto è intitolato all’Aleph. Non a caso la leggenda
del Golem vuole che questi resti in vita grazie alla parola emeth,
verità, scritta sulla fronte, e che, cancellandone l’Aleph, vi rimanga
la parola meth, morte, che produce il disfacimento del Golem. Infine,
non a caso Brentano allude all’Aleph come emblema della Trinità.

.. Dioniso e Dedalo nella kabbalah

Ma è necessario abbandonare questa digressione per analizzare il


modo in cui il fenomeno della kabbalah tenda da un lato a costituirsi
in insieme di procedure regolarizzate prive di intenti mistici, ovverosia
in una retorica cabalistica, mentre dall’altro estremizzi il proprio fare
dionisiaco fino a staccarsi dalla tradizione, delineandosi, agli occhi di
questa, come sostanzialmente eretica.
. Menachem Mendel di Rymanów (Neustadt,  – Rymanów, Polonia,  maggio
); si veda Rimanov [sic] .
. Nelle sue dotte ricerche etimologiche, Florenskij giustamente rapporta emeth al
verbo ‘aman, il cui significato è, appunto, “puntellò”, “sostenne”.
Semiotica dello slancio mistico 

... Il labirinto

Per quanto riguarda il primo movimento, è esemplare la lode tessu-


ta da Johann Cristoph Männling , nell’Europäischer Helikon (),
agli artifici cabalistici. Vi compare scopertamente la coscienza del-
l’esteriorità della retorica cabalistica, denominata significativamente
“cabala simplex” o “communis”. Di tale virtuosismo di facciata si trova-
no esempi pressocché infiniti, sia pure non direttamente rapportabili
a una regolarizzazione della kabbalah. Si può dire infatti che, in
tutti i casi in cui, nella storia, si sia manifestata una tensione verso
il residuo, l’istanza regolarizzatrice abbia prodotto questa retorica
senza radici, frutto bizzarro dello scontro fra Dioniso e Apollo. È
dato ritrovare virtuosismi di tal fatta in epoca alessandrina, sotto
Costantino, in tutto il tardo impero, nei peyuttim tra il VII e il XII
sec., nel tardo Medio Evo, in epoca barocca, in certo romantici-
smo, per non parlare dell’età contemporanea. Si va dai technopaigniai
alessandrini al celebre O Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti di
Ennio (Ann.  Skutsch), per passare ai  inni alla Vergine che
furono composti anagrammando l’Ave Maria, oppure agli straordi-
nari versi onomatopeici (imitano l’usignolo) del Bettini , citati nel
Cannocchiale aristotelico:
Quitò, quitò, quitò, quitò
Quitò, quitò, quitò
Zìzìzìzìzì zìzìzì
Quoror tiù zquà pipiquè

E poi ancora il sonetto a  rime di Luigi Groto ; i madrigali di Ge-


sualdo da Venosa ; la kabbalah musicale di Bach ; le isopsefie di certi
versi shakespeariani, per cui il mostro verbale delle Pene d’amor perdute,
“honorificabilitudinitatibus”, dà luogo a “Hi ludi, tuiti sibi, Fr. Bacono
nati”; gli acrostici di Edoardo Cacciatore e di Quirin Kuhlmann ;
. Wabnitz bei Oels,  ottobre  – Stargard,  luglio .
. Mario Bettini; Bologna,  febbraio  –  novembre .
. Adria,  settembre  – Venezia,  dicembre .
. Carlo Gesualdo; Venosa,  marzo  – Gesualdo,  settembre .
. Eisenach,  marzo  – Lipsia,  luglio .
. Palermo,  – Roma, settembre .
. Breslavia,  febbraio  – Mosca,  ottobre .
 Massimo Leone

le crittografie di padre Kircher (Poligraphia nova et universalis) e di


Kaspar Schott (Schola stenographica); etc. etc.

... L’orgia

Non meno frammentato e onnipresente è, però, pure il fenomeno


opposto, ossia quello di una radicalizzazione dell’istanza unificatri-
ce, apportatrice di slancio verso il Tutto. Nell’ambito della mistica
ebraica si può dire che, se la comunicazione Dio–Uomo comporta,
inevitabilmente, un passaggio della Torah dallo statuto del certo
a quello del non completamente certo, l’istanza unificatrice cerca
di riportare alla posizione originaria l’oggetto in questione. Que-
sta missione è però protratta, di frequente, secondo le dinamiche
proprie del quadrato semiotico, per cui il non certo viene condot-
to al probabile, al fine poi di mutarsi in improbabile, e quindi in
completamente certo.

Figura : Il percorso del ritorno al certo.

L’impossibilità di un attingimento diretto al Tutto trova così argine


in alcune pratiche che oscillano fra il nichilismo e la schizofrenia, le
quali producono un senso palesemente improbabile, ma che attraverso
di esso recuperano il contatto con l’Uno.

. Geisa,  maggio  – Roma,  novembre .


. Königshofen,  febbraio  – Würzburg,  maggio .
. Su questi e su moltissimi altri esempi, si dilunga l’Hocke ().
Semiotica dello slancio mistico 

.... La Torah di Sabbatai Zevi In questo ambito si colloca, ad


esempio, la corrente cabalistica dei Sabbatiani, sviluppatasi nel se-
colo XVII al seguito dello pseudomessia Sabbatai Zevi , ed essen-
zialmente fondata su un’interpretazione radicale di Isaia .: “La
Torah uscirà da me”, nel senso di “Una nuova Torah uscirà da me”.
Si afferma con forza, cioè, la storicità della Torah e il suo essere de-
stinata a mutare nel corso del tempo, a seconda dell’epoca cosmica
— o eone — attraversata dall’Uomo. È fondamentale, poi, rilevare
come in tutte queste formulazioni “eretiche” abbia un peso centra-
le la credenza secondo cui le limitazioni riguardanti la purezza e
l’impurità, caratteristiche della Torah storica, verranno a dileguarsi
nell’ambito della Torah universale, ove sostanzialmente si ritiene
non vi sia separazione fra puro e impuro. In definitiva, la compro-
missione della Torah con l’imperfezione della sua umana ricezione
è consustanziale ai confini e alle determinazioni che essa impone,
e che verranno a decadere nel momento in cui sarà riassorbita nel
Tutto originario.

.... L’eroe apostata La figura di Sabbatai Zevi, di cui ci si po-


trà occupare solo brevemente, e sempre attingendo all’erudita do-
cumentazione dello Scholem (), servirà non soltanto da caso
esemplare della mistica eccentrica, ma fungerà, in aggiunta, da rac-
cordo con il prosieguo della ricerca. Nonostante lo stesso Scholem
lo definisca come un maniaco depressivo, la teologia alle spalle di
Sabbatai Zevi è molto complessa . Il concetto fondamentale è che,
per recuperare l’emanazione divina, originariamente dispersasi in
seguito a intricati processi cosmologici, non basti semplicemente
operare nel bene, ma serva, piuttosto, una prolungata immersione
nell’oceano della malvagità. Ecco chi è Sabbatai Zevi: l’eroe parados-
sale, ringraziato e adorato da un’intera comunità cabalistica perché
collabora al progetto divino con gli scatti di follia, con i deliri, col
concedersi all’onanismo e alla fornicazione e, in ultimo, perfino col
convertirsi all’Islam. Fino a tal punto giunge la contraddittorietà

. Shabtaï Tzvi in ebraico; Smirne,  – Dulcigno, attuale Montenegro, .
. In verità, teorizzatore del movimento fu Nathàn di Gaza, mentre Sabbatai Zevi
ne fu protagonista carismatico.
 Massimo Leone

della mistica eccentrica, che il paladino di una religione debba pro-


fanare il proprio credo per affermarlo, inaugurando un’ennesima e
bizzarra versione del paradosso del mentitore.
E vi saranno alcuni che, ritenendo che il profeta debba compie-
re non da solo la propria missione, penseranno bene di cimentarsi
anch’essi in questo tuffo verso il male, facendo sì che il fingere di
professare una religione quando invece se ne confessa un’altra divenga
regola generalizzata. Coincide con l’apostasia, infatti, il sacrificio più
alto che si può chiedere a sé stessi per la redenzione del mondo. Per
chiudere, si citeranno le parole di un altro profeta maledetto, passa-
to alla storia della kabbalah come diabolicamente assetato di potere:
Jakob Frank . Questi nel Settecento si chiedeva: “Se Sabbatai Zevi
doveva attraversare tutti gli stadi di questo mondo, perché egli allora
non ha provato il gusto del potere?”

. Gli “idioti di Cristo” e Barfly

“Stranamente il paradosso appartiene ai beni spirituali


più preziosi, l’univocità invece è segno di debolezza”.
K G J

È fenomeno assai frequente, e lo si è riscontrato nella figura di Sab-


batai Zevi, quello per cui l’istanza mistica, estremizzandosi, tende a
una dissoluzione delle categorie assiologiche che sur–determinano
il senso, conducendo, sul quadrato semiotico, o a una situazione di
negazione di entrambi i termini della categoria, oppure a una loro
contemporanea affermazione. Buono e cattivo, brutto e bello, ma in
definitiva pure certo e probabile, vengono così negati o coagulati entro
fenomeni di senso per loro stessa natura paradossali e contraddittori,

. Ya’akov Frank, Jakob Frank, Jakub Frank; , Korolivka – December , ,
Offenbach sul Meno.
. La stessa concezione della necessità di passare dal male per recuperare il bene è
tipica di molta gnosi, e si ritrova pure, incastonata magistralmente nella narrazione, in
numerosi racconti di Borges. A tal proposito, esemplare è il breve racconto Giuda, in
Finzioni, ove si citano alcuni studi nei quali il traditore di Cristo viene a configurarsi come
eroe, ovvero come colui che, anche a prezzo della propria perdizione, consente il sacrificio
divino; si veda Leone c.
Semiotica dello slancio mistico 

culminanti o nell’ambito del dis–senso e della in–sensatezza, oppure


del radicale contro–senso (Leone ).

.. Dis–senso e in–sensatezza

Per quanto riguarda il primo ambito, le dinamiche del dissenso e


dell’insensatezza sono spesso legate fra loro per presupposizione.
In prima istanza, infatti, si ha una negazione della forma attraverso
produzioni di senso dis–senzienti; in seconda battuta, invece, viene
a determinarsi tutto il peso del doppio legame culturale secondo cui
ogni dis–senso non può coagularsi se non come senso, e definirsi,
così, come nuovo confine non appena ne supera uno precedente. Si
matura, in tal modo, la situazione patologica di chi voglia sfuggire
al senso, e nello stesso tempo pure a quella produzione di senso
che del senso afferma la dissoluzione: si tratta, ovviamente, della
schizofrenia.

... Sade e la mistica nera

Per quel che concerne le procedure del dissenso, gli esempi sarebbero
disparatissimi: volendo rimanere nel campo della mistica, a parte i
movimenti eretici al margine della cultura cristiana o ebraica, non
si può non citare tutta l’opera di Donatien Alphonse Françoise de
Sade, nonchè gli esponenti della cosiddetta mistica nera, mirabilmente
recuperati dall’archeologia di Mario Praz : i Canti di Maldoror di
Lautréamont , la Tentazione di Sant’Antonio di Flaubert , Ethopée di
Joséphin Péladan , e persino le Storie sgradevoli di Léon Bloy .

. Roma,  settembre  –  marzo .


. Montevideo,  aprile  – Parigi,  novembre .
. Rouen,  dicembre  – Croisset,  maggio .
. Lione,  marzo  – Neuilly–sur–Seine,  giugno .
. Périgueux,  luglio  – Bourg–la–Reine,  novembre . Ma si veda pure Mistica
e sesso in Uscite dal mondo di Zolla, oppure Metafisica del sesso di Julius Evola (Roma, 
maggio  –  giugno ).
 Massimo Leone

... L’idiota

Tuttavia, molto più complessa e affascinante risulta senza dubbio


la sfera dell’insensatezza, frutto ultimo di una tensione spasmodica
verso l’eliminazione del duale. Si situa a tal proposito la mirabile
esamina, condotta peraltro a mezzo di analisi testuali, di Michel
de Certeau intorno alla follia mistica. La donna chiamata Σάλη,
idiota, compare per la prima volta nel deserto egiziano, ai confini del
Cristianesimo. Siamo, come racconta la Storia lausiaca di Palladio ,
nel IV sec., in un convento femminile fondato da Pacomio a Μήνη
o Τισμήναι, nei pressi di Panopoli . E poi ancora Marco il folle ad
Alessandria nel VI sec. (Vita di Daniele); Simeone il folle di Emesa,
in Siria nel VI sec. (Storia ecclesiastica di Evagrio); Andrea Salos a
Costantinopoli nel IX sec. (Vita di costui redatta da Niceforo); per
finire con i “folli del Cristo” che circolano sulle piazze di Mosca dal
XIV al XVI sec.

... Vita dis–soluta

In ciascuno dei racconti citati compare la figura di un folle, o di una


folle, caratterizzata dalla propria profonda abiezione fisica e morale.
Così, l’idiota della Storia lausiaca è la spugna del monastero, mangia
le briciole che trova sui tavoli e beve l’acqua delle marmitte che
ripulisce; Simeone anacoreta, avendo raggiunto nel deserto la totale
atarassia, giunto in città rimbocca o toglie il proprio abito innanzi a
tutti, entra nudo in un bagno di donne, abbraccia ragazzi e ragaz-
ze, finge di violare una donna sposata nella propria camera, accetta
l’accusa di aver violentato una serva, monta sulla schiena di una pro-
stituta per farsi fustigare da un’altra, sprofonda nella lussuria. Inoltre
mette piede in chiesa solo per disturbare la liturgia, mangia carne a
. Chambéry,  maggio  – Parigi,  gennaio ; soprattutto nel già citato
Fabula mistica.
. Palladio di Galazia (Galazia,  o  – anni )
. Esna (Alto Egitto),  – Pabau,  maggio .
. Tuttavia ne I mistici dell’Occidente, di Elémire Zolla, nel tomo dedicato al mondo
antico cristiano, Cristina Campo, curatrice della sezione relativa ai padri del deserto, a p.
 ascrive a Basilio una storia identica a quella diversamente imputata da De Certeau.
La vicenda è analoga sin nei particolari, sebbene muti il luogo, Porfiris, e vi compaia il
nome del saggio, Pioterio.
Semiotica dello slancio mistico 

più non posso e si rimpinza di pasticceria durante il Giovedì Santo.


Analogo comportamento in Andrea il folle e in Marco. Quest’ultimo,
in particolare, ruba vettovaglie per distribuirle agli altri idioti, dorme
sui marciapiedi, lavora in una latrina ed è conosciuto da tutta la città
per le sue stravaganze.
Ognuno di questi personaggi sembra farsi carico di ciò che è
scritto nella prima lettera ai Corinzi (, ): “Nessuno si illuda! Se
qualcuno tra voi stima d’essere un sapiente in questo mondo, si
faccia stolto, per diventare sapiente”. E infatti essi respingono la
sensatezza attraverso varie procedure, tutte caratterizzate da una
paradossalità che cerca di aggirare l’emersione del senso. Eccoli
allora abbandonare il linguaggio verbale per un uso indecidibile del
corpo, sempre al confine fra follia reale e follia simulata; ed eccoli
nutrire il corpo per mezzo di rifiuti de–culturalizzati, non assimilabili
al rango di cibo, oppure situare il corpo nei luoghi dello scarto, quali
le latrine o i depositi dei rifiuti. Aldilà delle varianti discorsive che
i racconti possono utilizzare, rimane in questi folli la volontà di
sfuggire alla pochezza del senso, secondo una strategia che, se da
un lato è a priori difficile inquadrare in una griglia analitica che sia
invece predisposta ad analizzare i fenomeni di senso (in base a ciò
risulta ancora più giustificata e brillante l’esamina bricoleuse di De
Certeau), dall’altro non solo non può trovare realizzazione se non
asintoticamente, ma produce, anche, come inevitabile conseguenza,
un appannamento delle condizioni di esistenza.

... L’incontro col saggio

Il momento critico è certamente quello, riscontrabile in tutti i rac-


conti, in cui un soggetto modalizzato da un sapere istituzionalizzato,
ad esempio un sacerdote oppure un eremita stimato come saggio, si
trova a incontrare il folle. Spesso l’incontro non si presenta come
casuale, ma risulta guidato, invece, da un’istanza superiore, trascen-
dente, che si pone come organizzatrice di una situazione terapeutica.
Il saggio, infatti, vede nell’idiota il luogo in cui si materializza una
presupposizione che rinvia al residuo al di fuori della forma, e di
fronte a ciò prende coscienza della limitatezza dei propri orizzonti di
senso. In ciascun racconto, infatti, egli finisce con l’elogiare il folle e
 Massimo Leone

con lo stimarlo come colui che più si è avvicinato a Dio . Questo


riconoscimento, tuttavia, se giova da un lato all’allargamento dei
confini del primo, rischia di qualificare lo statuto del secondo come
fenomeno sensato. Si rende necessaria, allora, da parte dell’idio-
ta, un’ulteriore fuga dal senso, la rottura di quella comunicazione
fra follia e saggezza che era stata consentita, per un istante, dall’in-
tervento trascendente. Il racconto, quindi, sfocia o in un vero e
proprio allontanamento dal senso, quale la morte dell’idiota o la sua
sparizione, oppure pone in essere una dinamica ironica che produ-
ce un nuovo sgretolamento del confine, e che riceve investimento
figurativo nel riso dell’idiota, oppure nella folla che schernisce il
comportamento del saggio.

.. La mosca sul bicchiere

Henry Cinawski è senza dubbio un in–sensato. La sua storia ed il suo


statuto narrativo consentono di accomunarlo con Simeone, Andrea,
Marco, e gli altri folli. Lo troviamo protagonista di Barfly (), un
film ormai dimenticato dai più, ma che gode, oltre che della regia di
Barbet Schroeder , soprattutto del prestigioso soggetto di Charles
Bukowski .

... Chinawsky & Bukowski

Che nel protagonista del film lo sceneggiatore abbia messo tanta


parte di sè è suggerito da un puro dato testuale: la non casuale
somiglianza fra il cognome dello scrittore e l’antroponimo dell’at-
tore (Chinawski–Bukowski) . A partire da questa segnalazione in-
tra–testuale, è utile ricordare che Bukowski viene universalmente
riconosciuto come scrittore irregolare, proveniente da un under-
ground che continua a frequentare. Nelle sue pagine, perlopiù au-

. Basti pensare che vi è chi traduce Matteo, , : “Μακάριοι οι πτωχοί τω


πνεύματι, ότι αυτών εστίν η βασιλεία των ουρανών” con “beati coloro che sono
scarsi di intelligenza...”, e che il folle del villaggio è sacro nel’Islam, come un’amante
che nulla curi.
. Teheran,  agosto .
. Andernach,  agosto  – San Pedro,  marzo .
. Henry Chinaski è in effetti il nom de plume di Bukowski.
Semiotica dello slancio mistico 

tobiografiche e diaristiche, si esprime una protesta fine a sé stessa,


aliena da intenti di natura politica, e che si traduce, il più delle volte,
in oscenità anarcoide: Poems and Drawings (); Notes of a Dirty Old
Man (); Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of
Ordinary Madness (, Ferreri ne ha tratto un film nel , Sto-
rie di ordinaria follia); Factotum (); Women (); Poesie –
(), etc. Si condurrà, a questo punto, una breve analisi testuale del
film. Ancora una volta, per non traviare l’economia della ricerca nel
suo complesso, non si effettueranno secondo procedure canoniche
la scomposizione e la segmentazione del testo, ma ci si limiterà a
porne in evidenza alcuni tratti salienti.

... Lo spazio inglobante

Sotto i titoli di testa, lo spazio diegetico viene presentato per successive


immagini fisse: uno dopo l’altro, scorrono le facciate dei bar dei bassi-
fondi di Los Angeles. Senza scendere nei particolari, si può dire che
l’architettura complessiva di queste facciate, la conformazione delle
insegne, e soprattutto lo spazio inglobante, ovvero il reticolo di strade
invase da rifiuti, producano una generale connotazione di squallore. A
queste immagini si accompagna una musichetta frivola, quasi leggia-
dra, che conferisce all’osservatore uno sguardo ironico. Per inciso, se
da un lato il film attinge continuamente alla configurazione discorsiva
della sporcizia, del luridume, del degrado ambientale, dall’altro a tale
attingimento si accompagna un altrettanto costante isotopia musicale,
il cui prestigio e la cui ricchezza è possibile ponderare con una breve
rassegna dei titoli di coda.

... Il quadrato profondo

Lo spazio diegetico proiettato dall’enunciazione risulta luogo topico il


quale fornisce rivestimento a uno degli schemi ritrovabili nel quadrato
semiotico che sottende il racconto. Come esplicitazione dell’ipote-
si–guida, e come modo di chiarire un elemento indispensabile per
giustificare riflessioni successive, è opportuno rilevare che tale quadra-
to articola un micro–universo semantico costruito sull’opposizione
fra Uno e Due, o comunque fra un’istanza di determinazione e una di
indeterminazione, variamente lessicalizzabili. Lo spazio topico pre-
 Massimo Leone

sentato dalle prime sequenze materializza la topologia costruita sullo


schema di presupposizione indeterminato–non determinato (d/d).

Figura : Quadrato profondo e spazi topici del racconto.

A livello di sintassi antropomorfa, il racconto è conversione della


proiezione di una salienza timica sul quadrato: ne deriva un orienta-
mento da sinistra verso destra delle deissi.

Figura : Orientamento timico del quadrato.

... Lo spazio inglobato

Costruito lo spazio inglobante, un piano sequenza girato in soggettiva


introduce l’Osservatore in uno degli spazi inglobati del film: si tratta
Semiotica dello slancio mistico 

dell’interno del The Golden Horn, il bar prediletto da Henry (Mickey


Rourke). Da questo momento in avanti, tutte le inquadrature costrui-
ranno, grazie all’immobilità della macchina da presa, un Osservatore
perlopiù statico, dotato di uno sguardo oggettivo nei confronti del pro-
filmico. Nel finale l’Osservatore sarà estromesso dallo spazio inglobato
con modalità analoghe a quelle d’ingresso, con un ancoraggio alle
dinamiche narrative sul quale si tornerà. L’intrusione nella sala del bar
la ritrova praticamente vuota. È infatti nello squallido retrobottega,
popolato dall’immancabile cumulo di rifiuti, che si svolge l’azione.
Per la prima volta viene presentato l’attore–Henry, impegnato in una
violentissima scazzottata con il proprietario del bar.

... La struttura narrativa

A questo punto, è impossibile procedere ordinatamente nell’analisi


senza condurla su un piano di maggiore astrazione. Dal punto di vista
della struttura narrativa, Henry risulta senza dubbio conversione di
un’istanza soggettiva. È infatti colui che comunemente si definisce “il
protagonista” della storia. D’altra parte, il racconto–Barfly, situandosi
più sulla dimensione cognitiva che su quella pragmatica, presenta
una struttura attoriale soggettivata, ovvero una sussunzione di più
attanti nel medesimo attore. Henry manifesta sia un Destinante, sia
un Anti–Destinante. Il primo è immagine attanziale dell’istanza ti-
mica contraria allo svolgimento del racconto, mentre il secondo è
espressione antropomorfa dell’istanza timica dominante.

Figura : Orientamenti timici ed istanze destinanti.

Aldilà dell’illusoria individualità di Henry a livello discorsivo, an-


notiamo che in esso convivono un Destinante, un Anti–Destinante,
 Massimo Leone

un Soggetto e un Anti–Soggetto. Le cose si complicano quando con-


sideriamo che in Henry si inscrive pure l’Oggetto del racconto. In
sostanza, due Destinanti contrapposti, l’uno fautore della Determina-
tezza, l’altro dell’Indeterminatezza, spingono ognuno il proprio eroe
ad annettersi l’Oggetto in cui ciascuna delle due istanze inscrive il
proprio apparato valoriale. La difficoltà sta nel cogliere come tutto
ciò, discorsivamente, si esprima all’interno del singolo attore Henry.
Il Soggetto e l’Anti–Soggetto che egli sussume vengono modalizzati
dai rispettivi destinanti secondo il dovere, e ne derivano un voler–fare
che costituisce la fase virtuale della sintassi antropomorfa.

Figura : Modalizzazione dei soggetti.

... Le configurazioni discursive

Il percorso narrativo scatenato dal Destinante trova contropartita discor-


siva nella configurazione della sobrietà, della pulizia, della laboriosità.
A parte la componente lessematica presente in tali configurazioni, in
ognuna di esse è rinvenibile la comune radice semica dello schema
positivo (d/–d), variamente calata nei nugoli classematici. Il percorso
narrativo preso in carico dall’Anti–Soggetto affiora, a livello discorsivo,
nelle configurazioni dell’ubriachezza, della sporcizia, dell’inoperosità. In
questo caso, il binario semico è quello dello schema negativo (d/–d).

Figura : Configurazioni discorsive coinvolte.


Semiotica dello slancio mistico 

L’attore–Henry, punto di congiungimento fra i ruoli attanziali e i


loro pescaggi all’interno dei percorsi figurativi — pescaggi che defini-
scono i ruoli tematici — oltre che sussumere di volta in volta Destinan-
te, Anti–Destinante, Soggetto e Anti–Soggetto, è luogo di conversione
delle trasformazioni che si compiono sul quadrato a livello profondo.

... I programmi narrativi

Per acquisire la competenza, i soggetti devono inscrivere nel proprio


programma di base un programma d’uso finalizzato all’attualizzazione.
A livello profondo, ciò corrisponde al fatto che il passaggio da d a d,
così come il passaggio contrario, non sono immediati, ma transitano
rispettivamente per –d e –d.

Figura : Operazioni sul quadrato.

L’oggetto d’uso è allora abbigliamento antropomorfo dei termini


sub–contrari, e trova rivestimento discorsivo nelle configurazioni
aventi come radice semica –d oppure –d.

Figura : Collocazione degli oggetti d’uso.


 Massimo Leone

Coerente all’orientamento timico delle deissi, l’enunciazione pro-


ietta un Attante Osservatore — manifestato dallo sguardo della mac-
china da presa — focalizzato principalmente sul programma narrativo
dell’Anti–Soggetto.

Figura : Focalizzazione dell’Osservatore.

Se “determinatezza” lessicalizza la sfera di ciò che è senso formato,


ovvero materia sottoposta ad articolazione ordinata, “non determina-
tezza” denomina la sfera di ciò che si situa al margine di tale articola-
zione. In altri termini, il passaggio dal determinato all’indeterminato
viene mediato da una fase transitoria di non–determinatezza, e, a
livello discorsivo, si registra un passaggio dalla configurazione della
sensatezza a quella dell’insensatezza, mediato dalla configurazione del
dis–senso.

Figura : Passaggio dalla sensatezza all’insensatezza.


Semiotica dello slancio mistico 

È in tale configurazione, quindi, che pescano i rivestimenti dell’og-


getto d’uso mediante il quale l’Anti–Soggetto si modalizza secondo il
potere. A livello di manifestazione, troviamo un Henry che si ubriaca,
che non cura la propra igiene, che irride la forma culturale dominante.
Parallelamente, a livello antropomorfo, l’Anti–Soggetto si qualifica per
passare dalla non–determinatezza del dissenso alla indeterminatezza
dell’insensatezza. Questo passaggio si può cogliere sul piano discorsi-
vo: l’assunzione di alcool, se nella sua fase incoativa traduce il dissenso,
nella fase durativa conduce all’insensatezza. Allo stesso modo, il fatto
che Henry viva come una mosca, se da un lato traduce una pratica
dissenziente, dall’altro sottrae Henry ai circuiti di culturalizzazione
del corpo, e lo situa nell’ambito dell’insensatezza somatica.

... L’ubriaco e gli idioti

Una stessa dinamica profonda, dunque, è alla base tanto di Barfly quan-
to dei racconti sugli idioti paleocristiani: un passaggio dal Due all’Uno,
dal determinato all’indeterminato. Tuttavia, aldilà di questa dinamica
comune, che è quella fondativa di gran parte della narratività mistica,
è dato riscontrare, fra i due fenomeni di senso, ulteriori parallelismi
legati al livello discorsivo. L’indeterminatezza può sparpagliare nei
racconti semi legati o alla negazione degli opposti (né l’uno né l’altro,
né il senso né il dissenso), o all’affermazione di entrambi (sia l’uno
che l’altro). Il discorso di Barfly, come quello dei racconti paleocri-
stiani, sceglie il primo percorso. Fenomeni che optano per il secondo
saranno analizzati in seguito. Per inciso, qui si rileva soltanto che gli
assi, quello dei contrari come quello dei sub–contrari, sono i luoghi
prediletti della narratività mistica, che si situa ora nella dimensione del
neutro, ora in quella del complesso. Anche dal punto di vista figurativo
c’e molta somiglianza fra l’uso del corpo degli idioti e quello di Henry:
un uguale nutrirsi di avanzi, un analogo situarsi fra i rifiuti.

... I rapporti fra gli attori

Altre riflessioni sul racconto emergono dall’analisi dei rapporti fra gli
attori.
 Massimo Leone

.... Il barista Il barista col quale Henry fa a pugni dà corpo da


un lato al Destinante — sia come luogo di manipolazione (più vol-
te intima ad Henry di cambiare vita), sia come luogo di sanzione
(rimprovera Henry per il suo comportamento) —, mentre dall’al-
tro materializza il Soggetto (nei frequenti scontri con Henry). È un
ulteriore affiorare, a livello discorsivo, delle operazioni fondamen-
tali, ovvero dell’orientamento deittico. Nel primo scontro Henry è
sconfitto, mentre nel secondo vince. Sul terzo scontro, di cui l’Osser-
vatore percepisce solo la fase incoativa, si chiude ellittico il racconto.
In seguito si vedrà che la prova glorificante è costituita da un’altra
lotta — fra attori diversi —, mentre per il momento segnaliamo che
l’incompiutezza è il solito espediente discorsivo di cui si servono le
narrazioni dell’indeterminatezza, dilaniate come sono dalla necessità
di dare un senso all’in–sensato. Qualcosa di analogo accade anche nei
racconti paleocristiani: la sparizione dell’idiota, oppure la morte. A li-
vello figurativo Henry gronda sangue dalla bocca e nello stesso tempo
irride l’avversario che lo massacra: si tratta di una manifestazione di
indeterminatezza patemica, analoga all’aforia raggiunta da Simeone di
Emeso nel deserto .

.... Wanda Anche Wanda, interpretata da Faye Dunaway, è alco-


lizzata. Henry la incontra in un bar, e con lei costruisce un rapporto
che, tra vicende alterne, si protrae fino alla fine del film. Nonostante
a livello discorsivo l’attore–Wanda sia notevolmente espanso, essa
funziona allo stesso modo dell’attore–Henry. Il più delle volte ne
costituisce un duplicato. Degno di nota è invece il momento in cui
Wanda sussume l’oggetto del contendere fra Henry e il barista rivale.
Il tradimento della donna fa il paio con l’esito della prima scazzotta-
ta. Dal punto di vista narratologico, si tratta di manifestazioni dello
scacco iniziale, tese ad enfatizzare la successiva rivalsa. Wanda sarà
riconquistata, ed il secondo scontro sarà vinto da Henry.

.... Il saggio Di maggiore rilievo è il rapporto fra Henry e la


giovane proprietaria di una rivista letteraria, che ha letto i racconti di
Henry e vuole coltivarne il talento. Ciò corrisponde, a livello profondo,

. A questo proposito, sempre De Certeau in La fable mystique.


Semiotica dello slancio mistico 

a un impulso lungo le deissi da destra verso sinistra, subito mortificato


dal prevalere della proiezione timica contrapposta.

Figura : L’impulso timico della determinatezza.

A livello antropomorfo, il Destinante modalizza il Soggetto secon-


do il volere, mentre un’istanza adiuvante gli fornisce una competenza
adeguata. È però l’Anti–Soggetto, alla fine, a prevalere nel conflitto. A
livello discorsivo il percorso figurativo della bellezza, della pulizia, della
laboriosità incontra quello della sporcizia, dell’ubriachezza, dell’ino-
perosità, e tenta di assorbirlo. Tuttavia, non solo non vi riesce, ma ne
risulta esso stesso contaminato. A livello figurativo, una giovane ragazza,
linda e operosa, prende l’ubriacone Henry a bordo di una splendida
automobile e lo conduce nella propria casa, ove gli offre un comodo
asilo per coltivare la poesia. Henry rifiuta, fa ubriacare la ragazza e
fa l’amore con lei, quindi ritorna nel proprio ambiente. La casa di lei
costituisce uno spazio topico che dà corpo allo schema positivo. È però
lo spazio valorialmente contrapposto, quello del The Golden Horn, a
divenire utopico: qui ha luogo la performanza glorificante del racconto.
Nel quadrato, si ha il prevalere definitivo dell’Indeterminatezza. A livello
antropomorfo, l’Anti–Soggetto schiaccia il Soggetto e riceve sanzione
positiva dall’Anti–Destinante. A livello discorsivo, Wanda picchia la bella
ragazza, che vi era giunta per riconquistare Henry, e la scaccia dal bar,
derivandone l’approvazione tanto di Henry quanto degli avventori del
locale. La ragazza risulta variante figurativa rispetto al saggio dei rac-
conti paleocristiani. Anche in questo caso, l’istanza della determinatezza
viene sconfitta, ma si arricchisce della consapevolezza dell’Altro.

... Il finale

L’osservatore viene sottratto, con un piano sequenza girato in sog-


gettiva, dallo spazio diegetico. Sotto i titoli di coda si ripropongono
 Massimo Leone

le immagini fisse dei bar di Los Angeles. Si chiude una circolarità di


manifestazione cui corrisponde una sostanziale circolarità immanente.
Si può dire infatti che, partendo dall’insensatezza, il film racconti la
storia di alcuni tentativi di emersione del senso, i quali però, culmi-
nando in uno scacco, danno luogo ad un un ritorno alla condizione
iniziale.

... La poesia

Il testo costruisce un ulteriore livello di senso con le poesie che Henry


di quando in quando recita o compone durante il racconto. Una breve
rassegna di questi versi è sufficiente a inquadrarli quali strumenti di
cui il testo si serve per posizionare l’interpretazione dell’Osservatore.

. Casistica e alchimia

La materia prima è come l’interno di una montagna che contiene in sé


un’infinità di cose non ancora create. Tutte le forme di conoscenza che
possiamo incontrare in questo mondo vi sono contenute. Non esiste
sapere che non vi sia contenuto, non intelligenza, sogno, pensiero, ta-
lento, comprensione, riflessione, saggezza, filosofia, geometria, politica;
non potenza, coraggio, merito, soddisfazione, pazienza, disciplina, bel-
lezza, inventiva, viaggio, ortodossia, capacità di comando, precisione;
non espansione, regola, autorità, ricchezza, dignità, prudenza, accortezza.
Ma nemmeno esiste odio che non vi sia a sua volta presente rancore, fur-
bizia, infedeltà, illusione, tirannia, oppressione, corruzione, ignoranza,
bestialità, bassezza, dispotismo, eccesso; non canto, fuoco, flauto, lira,
matrimonio, inganno, arma, guerra, sangue, omicidio...
A’–Q –I

Se ci si tuffa fra gli scaffali di una modesta biblioteca, e si raccolgo-


no due o tre volumi che accennino, nel titolo, all’alchimia, presto ci
si accorgerà, leggendoli, che, fatta una scrematura della componente
discorsiva, appare sullo sfondo una medesima ossatura. Il lettore che
non si lasci ingannare dalla ricchezza degli esempi o dalla pletora di
minuziose informazioni potrà addirittura, al terzo o al quarto volume,
a seconda della propria pazienza o perspicacia, avere a fastidio questa
campana che sempre riecheggia lo stesso ritornello. All’analista però, e
Greimas lo suggerisce più volte, non è lecito biasimare la ridondanza,
Semiotica dello slancio mistico 

né tantomeno sbadigliarne, ma piuttosto è d’uopo concentrarsi su essa,


seguire questo filo che si srotola uguale e indovinare dove conduce.

.. Burckhardt, Jung, Zolla

Titus Burckhardt, nel suo Alchemie, Sinn und Weltbild, disegna accanto
a sè una figura antagonista, un rivale cattivello, e lo tira in gioco più
volte nel corso del libro, quasi fino all’ultima pagina. Questo gesto
è così insistito che promuove come la presenza di un fantasma in-
combente, una spada di Damocle minacciosa che allo Scrittore sta di
debellare capoverso dopo capoverso, con la forza delle argomenta-
zioni. In definitiva, sorge il dubbio che il volume, nel suo complesso,
sia una lettera di risposta. Non v’è pericolo, però, che la missiva si
perda, perché sulla busta reca a chiare lettere un nome e un cognome
notissimi, quelli che designano l’illustre acribia di Karl Gustav Jung.
Scorrendo la nota bibliografica dei testi di alchimia della seconda me-
tà del Novecento, infatti, vi compare ossessivo questo nominativo, e
accanto ad esso il titolo dell’opera capitale Psycologie und Alchemie. Se
non che, quando a questa indicazione bibliografica si fa corrispondere
il ponderoso tomo redatto da Jung, traspare immediato il carattere
fittizio e gladiatorio dello scontro inscenato da Burckhardt e, piuttosto
facilmente, si addestra lo sguardo a riconoscere le comunanze e le
similarità. Se poi si migra verso le pagine de Le meraviglie della natura,
farcite da Elémire Zolla di rari esempi e preziosi riferimenti biblio-
grafici, lì non si troverà un fantasma altrettanto fastidioso, nè sarà
facile cogliere il bandolo dell’intricata ed erudita matassa, ma alla fine,
all’analista paziente, di nuovo comparirà in filigrana il solito greto di
acque diverse.

.. La favola alchemica

Ecco, in sintesi, svilita dal bisturi di una fredda analisi, la novella che si
racconta nei testi che parlano d’alchimia: essa, ripete senza tregua il
cantastorie, non è soltanto la matrigna irrazionale della lucida chimica
moderna, nè la si deve accusare di essere il ricettacolo di popolari
superstizioni, nulla di tutto questo. L’alchimia — prorompe con enfasi
il narratore — aldilà di coloro che la vissero come puerile ricerca della
supremazia sui metalli, è invece una via per il dominio sullo spirito,
 Massimo Leone

per la trasmutazione del Sé, per il raggiungimento dell’equilibrio. Non


è obbiettivo della presente sezione rifiutare tale ritornello, avvalora-
to com’è dal piglio sapiente di cotanti studiosi; qui si cercherà, più
che altro, di ancorare l’isola dell’alchimia all’arcipelago dei fenomeni
già analizzati, tirando acqua al mulino dell’argomentazione prescelta
utilizzando il secchio capiente della semiotica.

.. Alchimia e mistica

La prima acqua che sorge dal pozzo è piuttosto cristallina, e rispec-


chia la vicinanza fra il pensiero mistico e quello alchemico. Se ci si
appoggia agli studi di Zolla, non ci si stupirà del fatto che il curatore
di una superba antologia dei mistici abbia puntato il proprio sguardo
sull’alchimia, né tantomeno sorprenderà che, nell’introdurre magi-
stralmente La colonna e il fondamento della verità di Pavel Florenskij,
lo stesso Zolla abbia suggerito la tendenza alchemica del mistico
russo. E lasciando Zolla per Burckhardt, pure non dovrà meraviglia-
re che lo studioso ricordi come l’alchimia sia da sempre considerata
come una sorta di mistica laica, di mistica senza Dio. Ove poi que-
sti sostegni non bastassero, e si volesse seguire la guida di Henry
Corbin, allora si scoprirebbe che, nella sua Storia della filosofia isla-
mica, mistica ed alchimia sono rami che intrecciano le loro fronde
inestricabilmente, uniti nel germogliare le gemme misconosciute
del pensiero islamico .

.. La struttura della pratica alchemica

Chi faccia riferimento a queste opere non può non avvedersi che
esse hanno un passo comune, e che un medesimo terreno, quello
della trasmutazione metallica, ne viene esplorato. Lo scandaglio di
cui Jung si serve è quello della sua psicologia, laddove Burckhardt
propende per l’applicazione dei concetti di base della filosofia aristo-
telica. Molto più bricoleuse, invece, la tecnica di abbordaggio usata
da Zolla. Jung suggerisce che le forme religiose corrispondono a
un archetipo che è soltanto l’impronta di un Τυπο originario. Ogni
forma, dunque, e persino quelle che lo Psicologo elogia per la loro

. La bibliografia sull’alchimia è estesa; per un’introduzione, Abraham .


Semiotica dello slancio mistico 

articolatezza — il Cristianesimo, ad esempio, oppure il Buddhismo


— pecca di una sostanziale limitatezza nei confronti del Sé, dell’u-
nità psicologica dell’uomo. L’alchimia, allora — Jung lo spiega nel
capitolo “Problemi psicologico–religiosi”, vero caposaldo teorico di
Psycologie und Alchemie — è proiezione della necessità di recuperare
questa unità inattinta, oltre che fenomeno storico di cui il terapeuta
può servirsi per guidare un analogo recupero nei propri pazienti.
Questa concezione è, nella sua struttura, talmente simile a quella
evidenziata dallo sguardo semiotico sulla mistica nei paragrafi prece-
denti, che costruire un’analogia è quasi un tradurre gli stessi concetti
in una terminologia diversa. Se si inforcano le lenti della topologia, no-
tiamo che le due impostazioni disegnano gli stessi spazi con inchiostri
differenti: da un lato un Tutto inattingibile, una unitotalità indetermi-
nata e inafferrabile, dall’altro un senso che si determina come forma
e che, nel suo esistere, espelle un residuo, configura un’esclusione.
Tra un capo e l’altro, poi, il fenomeno alchemico, mistica laica, che
proietta nei metalli la lacerazione originaria prodotta dall’emersione
del senso e tenta di ricomporre quest’ultima attraverso l’armonia della
materia, nella leggendaria formazione dell’oro filosofale.

.. Immagini alchimistiche

Il volume curato da Jung è denso di immagini che ne nobilitano la


fattura, e ognuna di esse è visivo suggello alle riflessioni dell’Autore.
L’οὐρόβορο, o serpente che si morde la coda, da un anonimo e affa-
scinante manoscritto greco; l’intricata costellazione di simboli tratta
dall’Hermafroditisches Sonn– und Mondskind; la nascita della fenice dal
frontespizio del Songe de Poliphile; il mostro dell’Aurora consurgens:
tutto contribuisce a illustrare il medesimo processo di riconciliazione
degli opposti, di recupero dell’unità originaria, di identificazione col
Tutto. Si possono allora estrarre i semi figurativi che queste immagi-
ni utilizzano in maniera ridondante allorchè organizzano il proprio
livello discorsivo, e confermare l’ipotesi che essi fanno capo a una me-
desima configurazione. È lecito lessicalizzarla variamente, ad esempio
come “conciliazione”, ma rimane il fatto che essa traduce, quale termi-
ne iperonimo che sussume l’asse dei contrari di categorie sottostanti,
sempre l’identico sema di indeterminatezza, ovvero quello stesso che
 Massimo Leone

la configurazione del “nichilismo” traduceva col suo essere iperonima


degli assi dei sub–contrari.

Figura : Indeterminatezza, conciliazione e nichilismo.

.. Zolla e Strindberg

Se si passa a Zolla, e ci si sofferma soprattutto sullo scoppiettante


capitolo intitolato “Goethe, Hawthorne, Strindberg”, innanzitutto si
viene a sapere che il Vate tedesco operava sui ciottoli di fiume per
ritrovare la purezza dello spirito. In seguito, immersi in una babelica
erudizione, ci si avvede che, con parole forse più consone al loro
contenuto alchemico di quanto lo fossero quelle di Jung, dietro un
rivestimento maestoso e cangiante si muovono in Zolla i medesimi
concetti. Anzi, si può dire che la forza teorica esplicativa di Jung —
mentre questi cede a Zolla lo scettro della affabulazione forbita —
rimanga di fatto insuperata. Così, nei confronti de Le meraviglie della
natura si è debitori più che altro per la ricercata analisi della tormentata
esperienza strindberghiana, effigiata in un paragrafo il cui titolo è
altamente significativo: “Follia e alchimia di Strindberg”. E infatti è
proprio in questo eclettico rampollo della cultura svedese, la stessa
che diede i natali alla mistica di Swedenborg, che si ritrova il punto
di contatto più evidente fra le due configurazioni della conciliazione
alchemica e della follia nichilistica.
Se si guarda alla vita di Strindberg come a un testo, vi si trova
l’Antibarbarus, celebre trattato alchimistico, ma pure un continuo
Semiotica dello slancio mistico 

e folle fuggire la forma del linguaggio in un linguaggio folle; un


modellare i colori con le dita, con intento alchemico; e pure una
tensione costante contro la determinatezza della forma sociale. Però,
aldilà di questa oscillazione biografica fra discorsi della follia e discorsi
dell’alchimia, l’omogeneità che a livello profondo si può riscontrare
non è che ulteriore conferma delle dinamiche del senso ipotizzate
dalla presente ricerca.

.. Forma e materia in Burckhardt

Nel libro di Burckhardt, senza dubbio esemplare per chiarezza e coe-


renza interna, retroterra teorico è in massima parte la filosofia aristo-
telica. È dunque facile che la presente ricerca — la quale muove da
premesse greimasiane, e quindi hjelmsleviane, e quindi in definitiva
aristoteliche — trovi in Alchemie cospicui punti di contatto. I lessemi
“forma” e “materia” vi sono praticamente onnipresenti, e infatti è
rispetto a essi che Burckhardt delinea la propria concezione dell’al-
chimia come processo mediante il quale l’alchimista libera la materia
dalla forma imperfetta che la sostanzia per sostituirla con una forma
perfetta. Per quanto ricco possa essere il rivestimento figurativo di
questi concetti di base, essi ancora una volta non si allontanano di
molto dalla concezione che guida la presente ricerca. Se il senso è
imposizione di una forma a una materia indeterminata, il compito
dell’alchimista è di riparare alla violenza di questa determinazione,
allargando gli orizzonti del senso sino alla completa estinzione del re-
siduo, sino alla totale adeguazione della forma alla materia. Non deve
far specie che tale concezione venga a saldarsi a quella delle Enneadi
plotiniane, e al pensiero neo–platonico in generale, dal momento che
vi si riscontra una medesima tensione verso l’Uno perfetto. Nè deve
importare di molto il fatto che forma e materia siano considerate, in
questo o in quell’autore, come più o meno partecipi del processo di
perfezionamento. È invece assai più interessante soffermarsi sul modo
in cui la simbologia alchemica lo traduce.

.. Le serie simboliche

Burckhardt si dilunga, più che altro, sulle serie simboliche degli ele-
menti, e su quella dei metalli–pianeti. Qui non interessa lo slancio
 Massimo Leone

spiritualista che egli infonde nei propri giochi interpretativi. Occorre


invece sottolineare che i simboli di cui lo studioso si occupa sono una
straordinaria traduzione iconica del movimento che è strutturalmente
tipico della mistica della conciliazione.

... Gli elementi e il sigillo di Salomone

Gli elementi sono, come tradizione vuole, quattro: terra, acqua, aria e
fuoco. A essi deve aggiungersi la cosiddetta Quinta Essenza, o etere,
che tutti li comprende e che a volte è niente più che una variante
figurativa dell’oro filosofale. Partendo dai simboli che agli elementi si
riferiscono, abbiamo:

Figura : I simboli degli elementi.

Ora, dato che terra, acqua, aria e fuoco sono, nella tradizione
alchemica, determinazioni basilari della materia prima, il compito
dell’alchimista risiede nel conciliare da un lato gli elementi della forma
— simboleggiati dai triangoli col vertice in alto — e dall’altro gli
elementi della materia — simboleggiati dai triangoli rimanenti. È così
che si spiega un simbolo come quello, carico di tradizione, del sigillo
di Salomone, ennesima variante figurativa dell’obbiettivo alchemico:

Figura : Uno dei simboli della meta alchemica.

In esso si trovano graficamente conciliati, in una forma simmetrica


e centrata, i simboli degli elementi.
Semiotica dello slancio mistico 

... Metalli e pianeti

Una analoga dinamica di significazione, sebbene più variegata e com-


plessa, presenta la serie simbolica dei metalli–pianeti.

Figura : La serie simbolica dei metalli–pianeti.

Si può dividere la serie in due gruppi. Il primo è dato dai simboli che
vedono, nella propria configurazione eidetica, una linea curva aperta.
Sono, in sostanza, i simboli della Luna–Argento, di Giove–Stagno e
di Saturno–Piombo. Il secondo gruppo è quello formato da simboli
che presentano, nella propria struttura plastica formale, un cerchio.
Sono i simboli di Venere–Rame, del Sole–Oro e di Marte–Ferro. Fa
eccezione il simbolo di Mercurio–Argento vivo, di cui si parlerà in
seguito. Nell’ambito dei due gruppi, i simboli si strutturano fra loro
in modo analogo per quel che riguarda la posizione della croce. Nel
primo insieme, infatti, nel simbolo di Saturno la linea curva aperta si
innesta a partire dal braccio inferiore della croce, nel simbolo di Giove
si innesta a partire dal termine del braccio sinistro, mentre nel simbolo
della Luna la croce scompare. Parallelamente, in Marte il cerchio è
sotto la croce, in Venere è sopra la croce, mentre nel simbolo del Sole
non compare.
Se si guarda al piano del contenuto, e si considera che Sole e Lu-
na sono rispettivamente simboli della forma e della materia, ovvero
della componente cosmologicamente maschile e di quella cosmolo-
gicamente femminile, e si valuta che la croce simboleggia i quattro
elementi, se ne desume facilmente che la serie Saturno–Giove–Luna
da un lato, e Marte–Venere–Sole dall’altro non sono che simboli di
una progressiva purificazione, tanto della forma, quanto della mate-
ria, dalle determinazioni fornite dagli elementi. Il simbolo di Mercu-
rio–Argento vivo è ambiguo, in quanto contiene sia la linea curva
aperta, sia il cerchio. Ciò viene interpretato da alcuni come simbolo
ennesimo della trasmutazione finale, mentre altri, più plausibilmente,
 Massimo Leone

lo considerano espressione dell’operare alchemico. È infatti il mer-


curio, o argento vivo, il metallo che consente la maggior parte delle
operazioni dell’alchimista, ed è ancora Mercurio, o Ermes, a essere
in gran parte della mitologia occidentale il tramite fra mondo celeste
e mondo terrestre. Ogni simbolo, poi, a questo punto, meriterebbe
una trattazione a sé stante. Si potrebbe così spiegare che il rame pre-
cede l’oro come stadio perfettibile del processo alchemico, oppure si
darebbe ragione del convergere di pianeti e metalli nell’ambito di una
stessa serie simbolica . D’altro canto, ciò che qui importa è soprattut-
to annotare come in essa si traduca iconicamente la configurazione
discorsiva della conciliazione, ossia come, in sostanza, determinate co-
stellazioni figurative vengano correlate, in modo alquanto strutturato,
con i temi del livello superficiale sottostante.

.. Alchimia ed efficacia simbolica

Lo sguardo semiotico è capace di apportare ordine formale alle acu-


te riflessioni di Jung, Zolla, e Burckhardt, e tuttavia sortirebbe ben
misero effetto se, in definitiva, gli strumenti di cui si serve non riuscis-
sero che a dare una mera traduzione organizzata di riflessioni altrui.
Occorre invece riferire l’analisi al concetto di efficacia simbolica. In
molti ci si è affaccendati a ricordare che una tale etichetta concettuale
è piuttosto il vessillo di un dramma della descrizione, e che a essa non
corrisponde ancora un preciso progetto teorico, e tuttavia in altrettanti
si è continuato a imbottirla di esempi sempre nuovi e sempre miste-
riosamente calzanti, tutti visibilmente accomunati da un comune e
invisibile denominatore.
Il punto di partenza di questa vicenda teorica è noto: Lévi–Strauss ,
con il parto “assistito” descritto in “L’efficacitè symbolique”, all’in-
terno di un ormai celebre numero della Revue des Religions. Si tratta,
senz’ombra di dubbio, del saggio più citato da coloro che si occupano

. A tal proposito, ricordiamo che in La fable mystique De Certeau analizza Il giardino
delle delizie di Hieronymus Bosch, e vi ravvede il tentativo di eludere ogni percorso di senso
(a tale conclusione giungono anche Zolla e Ceronetti). Segnala che la forma della linea
curva aperta, che vi è assai presente, costituisca un corrispettivo iconico di tale tentativo.
Ciò si accorda con una simbologia alchemica che prende la luna a simbolo della perfetta
evacuazione di ogni determinatezza nella materia.
. Bruxelles,  novembre  – Parigi,  ottobre .
Semiotica dello slancio mistico 

della questione, e rimane ancora lodevole per aver individuato una


nuova area di studio, oltre che per averne fornito una prima interpre-
tazione. La tappa successiva si trova in Morfogenesi del senso di Jean
Petitot . Quivi si accenna, con invidiabile capacità di sintesi, agli ultimi
sviluppi della teoria delle catastrofi di René Thom , e in particolare al
concetto di pregnanza. Applicando la teoria catastrofista all’etologia,
e partendo dal presupposto, largamente fondato da studi specialistici,
che gli animali vengono attratti da un numero ristretto di forme pre-
gnanti — quali possono essere, ad esempio, quella della preda, oppure
quella della femmina —, Thom introduce il concetto di salienza per
rendere conto di come la pregnanza possa distribuirsi, sebbene in
maniera attenuata, su forme differenti, le quali pure eserciteranno,
sull’animale, una certa attrazione. L’esempio classico è, a tal proposito,
quello degli esperimenti pavloviani, in cui la pregnanza del cibo viene
trasferita presso la salienza di uno stimolo acustico. In definitiva, la
pregnanza è delineata da Thom come un fluido, passibile di continui
travasi di forma in forma.
Petitot sale sulle spalle di Thom e guarda più lontano: la teoria
della pregnanza e della salienza può essere fondativa di una teoria
generalizzata della narratività. E infatti, dire che l’uomo è imbevuto
di linguaggio equivale a sostenere che in esso la pregnanza presenta
fluidità estrema, e quindi capacità di trasfondere continuamente di
forma in forma. Inoltre, dal momento che la pregnanza introduce una
originaria inadeguatezza, ossia in sostanza una primordiale mancanza,
ogni narrazione, intesa nel senso più astratto del termine, non farebbe
altro che tentare di darne conto, di costituirsi in istanza riparatrice
della mancanza in questione. Mossa da una pregnanza sempre inattin-
gibile, la macchina narrativa sarebbe allora il luogo della produzione
di simulacri consolatori, di artifici nei quali una riparazione saliente si
tende spasmodica a coprire una falla pregnante. Dallo scarto esistente
fra i due livelli deriverebbe l’impossibilità di una narrazione perfetta e
appagante.
È dunque chiaro ciò che lega le riflessioni sulla pregnanza e la
salienza con il problema dell’efficacia simbolica. Se infatti è vero che
un’istanza biologica spinge a narrare, e che narrazioni diverse presen-

. Parigi,  aprile .


. Montbéliard,  settembre  – Bures–sur–Yvette,  ottobre .
 Massimo Leone

tano gradi differenti di capacità consolatoria, se ne deduce innanzitutto


che la trasfusione dalla pregnanza alla salienza costituisce il nesso fra
una biologicità simbolizzata e una simbolicità efficace. In secondo
luogo, una serrata applicazione della teoria delle catastrofi eredita il
compito di monitorare una siffatta trasfusione, e di indagare quali tra
le forme salienti meglio si attagli alla pregnanza che fibrilla negli esseri
umani.

... Inferno

È ora possibile stabilire un primo collegamento fra i fenomeni di sen-


so dell’alchimia e della mistica in generale da un lato, e, dall’altro lato,
l’area d’indagine dell’efficacia simbolica. Leggendo i primi quattro
capitoli di Inferno () di August Strindberg , balza agli occhi l’in-
trecciarsi di due filari narrativi, l’uno che delinea i progressi spirituali
compiuti dall’Autore nel suo contorto cammino esistenziale, l’altro
che ne registra i passi avanti nel campo della ricerca alchimistica .
Partendo da “La mano dell’invisibile”, passando da “San Luigi m’in-
troduce in casa del fu signor Orfila”, e da “Le tentazioni del demonio”,
si giunge finalmente a “Il paradiso riconquistato”, ove si narra che,
dopo varie tribolazioni, Strindberg consegue contemporaneamente il
dominio sullo zolfo e una certa pace dello spirito.
Se si resiste alla tentazione di un dettagliato esame semiotico del
testo di Strindberg, e ci si limita invece a scorgervi una descrizione
cristallina dell’efficacia simbolica dell’alchimia, grazie al riferimento a
Petitot si può sostenere che nei crogiuoli in porcellana del dramma-
turgo svedese non si compia la trasmutazione di meri metalli, bensì di
forme del tutto paragonabili agli attori che Strindberg metteva in scena
sui palcoscenici di mezza Europa. La pratica alchemica è insomma
una narrazione, un dispositivo simulacrale di manipolazione delle sa-
lienze, una macchina narrativa che, alimentandosi della materia quasi
indeterminata, più d’ogni altra realizza l’avvicinamento all’estinzione
della pregnanza. Se ci si inchina per un momento al demone dell’ana-
logia, e si trasvola dai crogiuoli di Strindberg al mortaio nel quale il
basilico diventa pesto, non dovrà far specie che Greimas abbia pensato

. Stoccolma,  gennaio  –  maggio .


. Si vedano Cullberg , Flühmann  e Stuhler .
Semiotica dello slancio mistico 

all’alchimia per render conto della costruzione degli oggetti di valore,


e che i suoi scritti ricorrano di frequente, con scandalo del razionalista
pervicace, all’enumerazione dei quattro elementi.
Allorchè si ammetta che la mistica è tensione verso un residuo
inattinto, non sarà difficile cogliere in essa un tentativo estremo di
estinguere la pregnanza originaria che scatena negli esseri umani i pro-
cessi della significazione. Che poi le dinamiche di un siffatto tentativo
si ramifichino a seconda dei modi di manipolazione delle salienze,
non dovrebbe interessare. Il folle nichilista che nega ogni salienza,
e l’alchimista che ne ricerca una conciliazione suprema nell’atanor
ovoidale fuggono entrambi per strade diverse un medesimo peso. Se
è vero, come afferma Petitot a proposito di Viggo Brøndal , che il
concetto di termine neutro e quello di termine complesso scatenano
la crisi di una significazione impostata sulla differenza, allora è proprio
in queste zone di debolezza che il mistico si insinua, è proprio qui che
si affaccenda per cogliere di sorpresa la pregnanza.

.. Il delirio analogico

Il teosofo svedese Swedenborg , fondatore di una Chiesa mistica e


grande teorizzatore della presenza angelica, in De Caelo et Ejus Mira-
bilibus et de inferno. Ex Auditis et Visis () descrive l’inferno come
un luogo per molti versi coincidente con lo spazio consueto della vita
dell’uomo . Strindberg, in Inferno, nel capitolo intitolato all’illustre
connazionale, racconta che, avendogli gli scritti di Swedenborg cagio-
natoli una grandissima impressione, prese a riconoscere l’inferno di
quel teosofo a ogni pie’ sospinto, tanto che il racconto in questione
si chiude col delirio agghiacciante che registra le presenze demonia-
che negli atteggiamenti della piccola figlia del drammaturgo . È solo
un esempio, forse il più eclatante, della tendenza di certa mistica, e
soprattutto di quella alchemica, a un’esaltazione dell’analogia e della
coincidenza. Il parossismo cui tale abitudine può giungere non abbiso-
gna, forse, di ulteriori illustrazioni, e tuttavia, per spegnere il grigiore
dell’esemplificazione precedente, ci si concederà qui di seguito un’e-
. Copenaghen,  ottobre  –  dicembre .
. Stoccolma,  gennaio  – Londra,  marzo .
. Tra gli studi più recenti, si vedano Lang , Antόn Pacheco , e Dunér .
. Si vedano Spivack , Göranson , Falgas–Ravry .
 Massimo Leone

scursione botanica all’interno dell’Antibarbarus strindberghiano (),


scritto alchimistico di grande valentia letteraria .
Dimostrando una grande competenza nella scienza di Linneo,
Strindberg si dilunga su stami e pistilli, su radici e nervature, e in
tutto ritrova la somiglianza, in tutto ravvede l’analogia, su tutto, mor-
so dal delirio della conciliazione, fa scendere un velo di coincidenze e
di comunanze. Il dotto riferimento a Le Surfaces catacaustiques ()
di Biot sembrerebbe quasi presagire una moderna teoria topologica,
eppure non v’è forse nulla che dia il senso del demone analogico che
abitava il drammaturgo svedese quanto le descrizioni dei suoi pellegri-
naggi lungo i viottoli di Parigi. È senz’altro impressionante la capacità
di incastonare i nomi delle strade, uno dopo l’altro, gli incontri che vi
si fanno, volta per volta, i monumenti che vi si incontrano, passo dopo
passo, all’interno di un disegno complessivo e unitario, all’insegna di
una mano invisibile che organizza le coincidenze e gli accostamenti.
La tensione mistica di tipo conciliatorio è infatti destinata a vedere
tutto in tutto, cosa che per un verso viene ben testimoniata dal proli-
ferare incontrollato dell’interpretazione alchimistica, mentre per un
altro è ben sintetizzata dalla citazione posta in esergo alla presente
ricerca.

.. Piccolo florilegio di casuistica

Nella decretale Cum alias nonnulli ( maggio ) Gregorio XIV in-
terdice l’asilo delle chiese agli assassini. Tuttavia, Antonio Escobar y
Mendoza, dotto casuista gesuita, nel Liber Theologiae Moralis, viginti
quatuor Societatis Jesu Doctoribus reseratus (Lione, ), [tr. VI], sostiene
che “tutti coloro che uccidono a tradimento non debbono incorrere nel-
la pena di quella bolla”. E infatti, argomenta l’Escobar, “...con la parola
assassino noi intendiamo colui che abbia ricevuto denaro per uccidere a
tradimento qualcuno. Onde coloro che uccidono senza ricevere nessun
compenso, ma solo per rendere un servigio agli amici, non posson
dirsi assassini”. Si legge in Lc XI, : “Verumtamen quod superest, date

. Su Strindberg e l’alchimia, si vedano Lewis  e Grewe .


. Parigi,  aprile  –  febbraio .
. Niccolò Sfondrati; Somma Lombardo,  febbraio  – Roma,  ottobre .
. Valladolid,  –  luglio .
Semiotica dello slancio mistico 

eleemosynam”. Ma il dotto gesuita Gabriel Vasquez, nel De Eleemosyna


(Anversa, ) suggerisce che “quel che le persone di mondo metton
da parte per migliorare la loro condizione e quella dei loro congiunti
non può chiamarsi superfluo. Ecco perché tra le persone di mondo, e
persino tra i re, si trovi a stento chi abbia mai del superfluo” [cap. IV].
Meriterebbe la scomunica il religioso che abbandoni il proprio abi-
to, ma l’Escobar [tr.VI] prontamente soggiunge che quegli ne viene
dispensato, “se il detto religioso lo abbandona per una causa vergo-
gnosa, come per andare a rubare o per recarsi in incognito in luoghi
malfamati, dovendo poi ben presto riprenderlo”. L’originale latino è
più lapidario: “Si habitum dimittat ut furetur occulte vel fornicetur”.
Mentre il Diana è più esplicito: “Ut eat incognitus ad lupanar”.
I preti sarebbero poi obbligati a dir messa tutti i santi giorni, ma
Padre Bauny , nel De Sacramentis (Parigi, –), trattato X, sostiene
che “non si può fare una legge che obblighi i curati a dire la messa
tutti i giorni, perché una tale legge li esporrebbe indubbiamente al
pericolo di dirla qualche volta in peccato mortale”.
È, inoltre, un monaco soggetto all’obbedienza? Fernando de Castro
Palao , nell’Opus morale de virtutibus et vitiis contrariis (Lione, –)
[parte I], risponde che
è fuori dubbio che il religioso che abbia per sé un opinione probabile non è
obbligato a obbedire al suo superiore, ancorché l’opinione di questi sia più
probabile. Poiché in tal caso gli è lecito seguire quella che gli garba di più.
E, sebbene l’ordine del superiore sia giusto, esso non obbliga a obbedirlo,
perché non è giusto per tutti gli aspetti e in tutti i modi, ma solo in modo
probabile e, di conseguenza, non siete obbligato a obbedirgli se non in
modo probabile, e ne siete probabilmente dispensato.

A proposito dei servitori, invece, padre Bauny, nelle Somme (Parigi,


), si pone scrupolosamente la seguente domanda: “I servitori che
siano scontenti dei loro salari possono aumentarli da sé, approprian-
dosi di beni dei loro padroni nella misura da essi reputata necessaria
per eguagliare i detti salari alle loro fatiche?” E scrupolosamente si
risponde: “Possono farlo in certi casi; quando, ad esempio, nel cerca-
. Villaescusa de Haro, vers  – Alcalá de Henares, .
. Antonino Diana, Palermo,  – Roma,  luglio .
. Étienne Bauny, Monzon (Ardennes),  – Saint–Pol–de Léon,  dicembre .
. León,  – Medina,  dicembre .
 Massimo Leone

re un impiego sono talmente poveri da essere obbligati ad accettare


l’offerta che sia stata loro fatta, e quando gli altri domestici della loro
condizione guadagnino di più altrove”.
A proposito dell’omicidio, nella Praxis fori poenitentialis ad Diretio-
nem Confessarii (Milano e Venezia, ) di Valère Regnault [libroXXI]
si osserva che “...un uomo di guerra può sul momento scagliarsi
contro colui che lo abbia ferito: non, in verità, con l’intenzione di
rendere male per male, bensì con quella di tutelare il proprio onore”.
Meglio ancora, il Lessio , nel De Justitia et Jure (Lovanio, ) [libro
II], argomenta che “chi ha ricevuto uno schiaffo, può non avere l’in-
tenzione di vendicarsene, ma può avere quella di evitare il disonore;
e può perciò respingere sul momento quell’ingiuria, anche con la
spada”. Aggiunge Pedro Hurtado de Mendoza nel Tractatus de Fide,
Spe, et Charitate (Salamanca, ): “È lecito pregare Dio perché faccia
prontamente morire coloro che si preparano a nuocerci, se non ci sia
altro mezzo di evitarlo” [libro II].
Ma l’apice dell’acume è forse raggiunto da Gaspar Hurtado , ci-
tato dal Diana nel suo trattato di morale: “Un beneficiario può senza
peccato mortale desiderare la morte di colui che ha una pensione sul
suo beneficio, e un figlio quella del padre, e rallegrarsi quando essa
sopravviene, purché lo faccia solamente per il bene che gliene viene,
e non per odio personale”.
Il duello è proibito dalla Chiesa? Ci pensa Sánchez nell’Opus morale
(Anversa, ) al libro II:

È molto ragionevole dire che un uomo può battersi in duello per salvaguar-
dare la propria vita, il proprio onore o i propri beni in quantità considerevole,
quando è assodato che glieli si vuol togliere ingiustamente per mezzo di
processi e di cavillazioni, e non ci sia altro mezzo per conservarli. E Navarra
dice molto opportunamente che in tale occasione è permesso di accettare e
di offrire il duello. E anche che si può uccidere di nascosto il proprio nemico.
Anzi, in questi casi non si deve ricorrere al duello, se si può uccidere di
nascosto il proprio nemico, e risolvere così la faccenda: perché, con questo
mezzo, si eviterà a un tempo di esporre la propria vita in combattimento

. Besançon,  – .


. Lenaert Leys (Brecht,  ottobre  – Lovanio,  gennaio ).
. –.
. Mondéjar, Guadalajara,  – Alcalá de Henares,  agosto .
. Tomás Sánchez, Cordoba,  – Granada,  maggio .
Semiotica dello slancio mistico 

e di partecipare al peccato che il nostro nemico commetterebbe con un


duello.

Sulla liceità dell’omicidio a tradimento si pronuncia di nuovo


l’Escobar [trattato VI]:

Si dice uccidere a tradimento quando si uccide uno che in nessuna maniera


ne diffidava. Ecco perché non si può dire che colui che uccide il proprio
nemico lo uccide a tradimento, quand’anche lo colpisca da tergo o in un’im-
boscata...Chi uccida il proprio nemico, con il quale si sia riconciliato con la
promessa di non più attentare alla sua vita, non si può dire in via assoluta
che lo uccida a tradimento, salvo che tra i due non ci sia una stretta amicizia.

Ancora Escobar, nel trattato I:

Si può uccidere chi ci abbia dato uno schiaffo, anche se si dia alla fuga,
purché si eviti di farlo per odio o per vendetta, e non si dia così occasione
ad ammazzamenti eccessivi e pregiudizievoli allo Stato. E la ragione è che
si può correre così dietro al proprio onore come dietro a dei beni che ci
vengan portati via. Invero, sebbene il nostro onore non possa considerarsi
nelle mani del nostro nemico, come lo sarebbero dei panni che ci avesse
rubati, lo si può tuttavia recuperare nella stessa maniera, dando prove di
grandezza e di autorità e acquistandosi così la stima degli uomini. Non è
vero, infatti, che chi abbia ricevuto uno schiaffo è giudicato disonorato,
finchè non abbia ucciso il suo nemico?

Completa l’argomentazione Juan Azor , nelle Institutiones morales


(Roma, –) [pars III]:

È lecito a un uomo d’onore uccidere chi voglia dargli uno schiaffo o una
bastonata? Gli uni dicono di no, e ne adducono come ragione che la vita
del nostro prossimo è più preziosa del nostro onore: senza dire che è una
crudeltà uccidere un uomo solamente per evitare uno schiaffo. Ma gli altri
sostengono che ciò è lecito. E certamente io lo stimo probabile, quando
non si possa evitarlo in altra maniera. Perché, in caso diverso, l’onore degli
innocenti sarebbe di continuo alla mercé della malizia degli insolenti.

Ma non basta. Nicola Baldelli da Cortona , nel libro III delle Dispu-
tationes ex morali theologia (Lione, ): “È lecito uccidere chi vi dica:

. Lorca,  – Roma,  febbraio .


. –.
 Massimo Leone

«Avete mentito» se non ci sia altro modo di reprimerlo”. Rincara la


dose il Lessio al libro II di De Justitia et Jure:

Se voi cercate di rovinare la mia reputazione con calunnie davanti a persone


d’onore, e io non lo possa evitare altrimenti se non uccidendovi, posso
farlo? Sì, secondo alcuni Autori moderni, quand’anche il crimine che cercate
di rendere di pubblica ragione sia vero, purché però sia segreto, sicché
non possiate farlo conoscere ricorrendo alle vie della giustizia. Ed eccone
la prova. Se voi volete togliermi l’onore dandomi uno schiaffo, io posso
impedirlo con la forza delle armi. Dunque, la medesima difesa è permessa
quando mi volete recare la medesima ingiuria con la lingua. Inoltre, è lecito
impedire gli affronti: quindi, è lecito impedire le maldicenze. Infine, l’onore
è più caro della vita. Si può uccidere per difendere la propria vita; dunque,
si può uccidere per difendere il proprio onore.

E Azor plaude all’omicidio di persona ladra, “anche quando non si


tema più nessuna violenza da parte di coloro che ci tolgono i nostri
beni, come allorché essi si danno alla fuga”.
Una disputa accesa è inoltre intorno al valore del bene che giusti-
fichi l’omicidio. Tannerus sostiene che “bisogna che la cosa sia di
grande valore, a giudizio d’un uomo prudente” . Molina nel trattato
IV della Concordia stima “sei o sette ducati”. Escobar infine allar-
ga la regola, e afferma che “secondo Molina si può, regolarmente,
uccidere un uomo per il valore di uno scudo”. Infine, secondo Fran-
cesco Amico, detto L’Amy , nel Cursus theologici juxta scholasticam
methodum (Anversa, –) “è lecito a un ecclesiastico e a un religio-
so uccidere un calunniatore che minacci di rendere pubblici crimini
scandalosi di lui o della sua comunità, quando non ci sia altro mezzo
per impedirglielo, come nel caso che costui si accinga a diffondere
le sue maldicenze, ove non lo si uccida prontamente...”. Chiosa il
Caramuel , nella Teologia fondamentale (Francoforte, ): “Un prete
non solo può, in certi casi, uccidere un calunniatore, ma ci sono casi
in cui lo deve fare”.

. Adam Tanner, Innsbruck,  aprile  – Unken, vicino Salisburgo,  maggio .
. Universa theologia scholastica, , Ingolstadt.
. Cosenza,  aprile  – Graz,  gennaio .
. Madrid,  maggio  – Vigevano,  settembre .
Semiotica dello slancio mistico 

.. Probabile e improbabile

Qui si interrompe la sfilza delle esemplicazioni; chi voglia godere


di un esilarante prosieguo potrà dilettarsi fra le lepide pagine de Le
provinciales di Pascal . È infatti al paziente lavoro del filosofo che si
deve l’immenso e certosino florilegio nel quale si raccolgono, all’inter-
no della mirabile finzione narrativa, le più strambe formulazioni dei
casuisti del Seicento . L’intento polemico di Pascal, la sua accorata
arringa contro la corruzione dei tempi, imprime a Les provinciales
un’ironia spietata, un sarcasmo beffardo che, se per un verso ci si è
provati a conservare financo nella succinta selezione qui proposta —
specie per la piacevolezza che ne deriva alla lettura — per il verso
opposto lascia perplessi, soprattuto se si è convinti che il fenomeno
della casuistica sia sì risibile nelle sue manifestazioni più plateali — e
ad esse attinge Pascal con abile mano di retore —, ma che meriti nel
contempo una pratica analitica priva di finalità moralistiche .
Qualche pagina addietro si è segnalato come, nella mistica ebraica,
il fatto che la Torah sia comunicata da Dio agli uomini produce in
essa un passaggio dal regime del certo a quello del probabile. Se
l’azione cabalistica coincide, in massima parte, col tentativo di ovviare
a tale passaggio, la casuistica, e in particolare la dottrina probabilistica,
si fa carico, nel suo continuo mesticare probabile e improbabile, di
un paradossale anelito verso l’unità originaria. E infatti, se il certo
si corrompe nel probabile non appena viene a esistere, ovvero non
appena si determina, allora è proprio attraverso un’indeterminazione
del probabile che può darsi, in un qualche modo, un ritorno alla
condizione primigenia.
L’anima del probabilismo non consiste, quindi, nell’abbordare la
certezza attraverso una determinazione delle probabilità, quanto piut-
tosto nel disintegrare ogni confine tra ciò che è probabile e ciò che
non lo è. Non bisogna dimenticare, infatti, che la probabilità che Mo-
lina e compagni pongono a fondamento della morale non coincide
con quella del calcolo matematico, nè tantomeno con l’affermarsi

. Clermont–Ferrand,  giugno  – Parigi,  agosto .


. La letteratura sulla casuistica è ormai molto abbondante; oltre al classico Jemolo
, Braun e Vallance , Hurtubise , Río Parra .
. Rivalutano la casuistica Jonsen e Toulmin .
 Massimo Leone

di una maggioranza, bensì — e Pascal trae da ciò copioso spunto al


proprio dileggio — si configura come probabilità del tutto astratta e
indecidibile, tale che l’opinione di un solo uomo è ugualmente fon-
dativa di prassi dell’opinione radicalmente contraria di tutti gli altri.
Tornando alla tana della semiotica, è dunque legittimo annoverare
quest’altro fenomeno di senso fra altri consimili, e cioè fra quelli,
ormai numerosi, che pescano nella configurazione discorsiva della
conciliazione e che, dalle profondità della semantica, traducono in
vario modo l’indeterminatezza.
Anche Karl Gustav Jung, in Psychologie und Alchemie, sostiene che,
come la spagirica è pratica simbolica di recupero del Sé, così la ca-
suistica gesuitica può essere vista quale tentativo di realizzare, nella
morale, una riconciliazione degli opposti. L’elasticità che vi si conce-
de all’agire umano non è soltanto l’espediente di cui una diabolica
Compagnia si serve per tutelare l’interesse di un’umanità depravata,
bensì pure, e forse soprattutto, il tentativo di lenire, a suon di trattati
di morale, il bruciore della dualità insita nella divisione fra Bene e
Male, fra lecito e illecito. È allora naturale che Pascal, il quale nel Gian-
senismo abbraccia il filone della determinatezza — che è poi quello
variamente indicato come classico, apollineo, etc. — senta dentro di
sè tutto lo scandalo di un siffatto tentativo, reagendo col sarcasmo e
l’indignazione di fronte alle massime degli eruditi avversari.

. Conclusioni

La semiotica, metodo d’analisi cui si è fatto continuo riferimento, è di-


sciplina che, se da un lato non castra, ma anzi incoraggia, la possibilità
di procedere analogicamente, nello stesso tempo si incorona come
esaltazione massima della dualità e della differenza, come strumento
che consente, prima di ogni cosa, le condizioni di un’analisi.
Lo sguardo semiotico consente di cogliere l’impalcatura del di-
scorso mistico. Nonostante la varietà che si riscontra nei secoli e
nelle culture, esso poggia su di una medesima ideologia semiotica,
cioè su uno stesso modo di immaginare il senso. Qual è questo mo-
do? Il saggio ha cercato di descriverlo in astratto, topologicamente.
La mistica immagina che dietro ogni semiosi vi sia un residuo, e che
questo residuo possa essere conquistato — o perlomeno “arremba-
Semiotica dello slancio mistico 

to” — con il linguaggio stesso, con certe arguzie e certi stratagemmi


della significazione. L’obbiettivo ultimo è però non quello di dire
l’inespresso, ma di dare forma al tutto, di sconfiggere una volta per
tutte questo sospetto del residuo. Compito paradossale, naturalmen-
te, giacché ogni forma — lo si è visto — è istituzione di un confine,
di una negazione, e dunque di una nuova ombra del senso. Il senso
non è altro che un gioco d’ombre, mentre il discorso mistico sogna
l’estasi, il bagliore totale, una luminosità assoluta ove luce e buio, con-
torno e ombra svaniscono fondendosi in un sogno d’indistinzione.
Ecco cos’è l’estasi in definitiva: il miraggio di un’indeterminatezza
sensata, inseguendo il quale tuttavia è inevitabile si scivoli — spesso
rovinosamente — nell’insensatezza, nella pratica di forme e stili
di vita inaccettabili per la società, ed eretici agli occhi delle culture
religiose.
È proprio in virtù di questo modello topologico che fenomeni
molto disparati possono essere inanellati lungo un unico filo rosso,
quello che nascostamente collega ogni discorso che, costruendosi
nel linguaggio e col linguaggio, rappresenti nondimeno una fuo-
riuscita da esso, un bloccarsi della semiosi, un venir meno delle
distinzioni che fondano il linguaggio e il senso. Trattasi dunque di
un’impostura? Dell’evocazione impossibile, fra le maglie dell’imma-
nenza, di una dimensione trascendente nella quale e verso la quale
la prima si sfaldi, perdendo la sua consistenza di strutture e oppo-
sizioni? Rispondere affermativamente sarebbe forse semplicistico,
sarebbe considerare l’estasi come puro effetto ottico, come sorta di
trompe–l’oeil mistico. In realtà, come ogni trompe–l’oeil, anche l’estasi
rimanda a qualcosa di più della propria semplice rappresentazione.
Essa rimanda, come aveva intuito l’ultimo Greimas, ai pregiudizi
inconfessati e inconfessabili di un’ideologia semiotica, alla trama
nascosta, al negativo segreto che regge tutta la concezione moderna
del senso e del linguaggio. Il discorso mistico, che corre parallelo e
invisibile, spesso represso, a volte perseguitato, lungo tutta la storia
delle religioni, esprime allora questo dubbio: e se il senso non fosse
distinzione, separatezza, dualità? Se l’immanenza articolatoria che
lo viviseziona non fosse che illusoria? Se la farfalla del senso non
fosse invece un tutt’uno con l’aria e la luce? A questo punta ogni
racconto dell’estasi: al sospetto che i fondamenti della modernità,
anti–mistici per definizione, non siano altro che una delle possibilità
 Massimo Leone

dell’umano, e che una storia non detta, in filigrana, si dipani accanto


e sotto al moderno come traccia sbiadita di un altro percorso, di un
altro modo d’intendere e di dire.

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RECENSIONI

REVIEWS
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394013
pag. 285–294 (luglio 2014)

Marialaura Agnello, Semiotica dei colori


Carocci, Roma ,  pp.

E C

Nonostante l’arancione sgargiante dei camici degli operatori sanitari


quanti pazienti possono definirsi felici varcando le soglie di uno studio
dentistico? Provocazione e distruzione delle credenze popolari sul
cromatismo sono gli ingredienti vincenti di “Semiotica dei colori” la
nuova fatica di Marialaura Agnello, dottoressa di ricerca in Marketing
e Comunicazione d’impresa all’Università IULM di Milano e docente
di Semiotica presso il corso di laurea in Design dell’Università d Pa-
lermo. Un saggio snello e colorato che prende l’avvio dalla vicenda
dell’artista Jonathan I., personaggio ben noto agli amanti del filone
delle storie cliniche perché protagonista di uno dei sette racconti para-
dossali di “Un antropologo su Marte” del neurologo e scrittore inglese
Oliver Sacks (). Le vicissitudini del pittore che, dopo un incidente
d’auto, resta vittima di un’acromatopsia non congenita permettono
di introdurre una speculazione sui sistemi di senso veicolati dai colori
che da l’avvio ad una disamina sui primi problemi che si pongono
oggi a una semiotica dei colori. I libri e i saggi sul cromatismo, con-
fessa l’autrice fin dall’introduzione, sono quanto mai numerosi ma,
nelle loro forme più varie che interessano le più svariate discipline, si
riducono ad essere raggruppabili in due grandi classi. Se da un lato,
infatti, esistono indagini circa la soggettività è dei colori , che vengono
caricati di significati che però si riducono ad essere fortemente perso-
nali suscitando reazioni completamente arbitrarie, dall’altro si trovano
le opinioni di quanti, al contrario, pensano che il cromatismo possa
essere riconducibile ad una rigida griglia interpretativa che fornisca
leggi oggettive per la comprensione dei valori di ogni tonalità. Questa
ricca disputa tra soggettività e oggettività è stata per secoli alimentata
dall’indiscutibile poliedricità del fenomeno del colore portando adepti,
ora per una ora per l’altra corrente, in ogni campo dalle arti e alle


 Eleonora Chiais

scienze umane. Tirando le fila delle principali idee di entrambe le


fazioni la Agnello propone quindi di intendere il senso dei colori in
una triade di maniere strettamente connesse tra loro. In primo luogo,
dunque, dovrà essere considerato il suo legame con i processi sensoria-
li, in secondo luogo si dovranno poi analizzare i significati individuali
e sociali che a questo sono attribuite ed infine l’analisi dovrà intendere
i colori come una forma generale di esperienza ed esistenza.
Ma prima di addentrarsi nel vivo dell’analisi non si può non riflet-
tere, con Batchelor (), sulla cromofobia diffusa che ha colpito
la nostra società e spazia dall’arte alla moda, dal design al concetto
assoluto di bellezza additando come kitsch ogni eccesso cromatico.
Se le nostre case, infatti, per essere eleganti devono essere arredate in
colori neutri, base, è vero anche che i nostri abiti, per essere altrettanto
distinti, devono essere declinati secondo quei colori scuri ereditati fin
dal luteranesimo e dal Zur Farbenlehre di Goethe. Il risultato di questo
rifiuto, però, è un progressivo impoverimento delle valenze signifi-
canti e classificatori che, nella storia, sono state attribuite ora a questo
ora a quell’altro colore. In questo modo il risultato è una sorta di
acromatopsia della società dove il ricorso al variopinto è tollerato solo
come manifestazione di ironia trasgressiva, come nel celebre caso di
Alessandro Mendini o, nella moda, di griffe come Dior e Versace che
fanno delle tinte estreme il loro marchio di fabbrica per contrapporsi
alla rigida (anche cromaticamente) eleganza di Chanel e Armani. Se
però, invita a riflettere l’autrice, la cultura alta (o presunta tale) sembra
impostare la sua esistenza su una scala di grigi, al contrario la cultura
popolare tiene enormemente in considerazione il mondo dei colo-
ri. I salotti, in pratica, potranno anche essere candidi ma un mazzo
di rose rosse significherà, per tutti, passione. I nostri abiti potranno
anche essere all black ma un ciondolo verde rimanderà senza timore
di smentita all’idea di speranza, e così via. Da dove nascono però
queste credenze? Ed è vero che non temono ambiguità? No, secondo
la Agnello, che infatti si lancia in una interessante analisi (pp. –)
sulle incongruenze che caratterizzano le analisi dei colori e che so-
no tollerate e, dai più, date come caratterizzanti della natura stessa
del cromatismo che da origine, conseguentemente, al “mistero dei
colori”. Il risultato ineluttabile è dunque quello di offrire ai colori la
capacità di dire tutto e il suo contrario scambiando l’incomprensibilità
del fenomeno ottico in sé con un’incomprensione degli effetti di senso.
Marialaura Agnello, Semiotica dei colori 

Ecco quindi che, partendo da una base di psicologia e neurofisiolo-


gia dilettantesche, il senso comune vede per esempio nel rosso un
colore ansiogeno, perché capace di eccitare gli organi della percezione
cromatica, legandolo, a livello di significato, al concetto di passione.
L’ineluttabile conseguenza è dunque una forma di sinestesia imma-
ginaria che porta ciascuno a dire ciò che vuole di ogni tinta e che,
secondo l’autrice, può essere arginata solo attraverso un orientamento
metodologico di fondo che, con Eco (), invertendo il ragiona-
mento del senso comune, parta dal carattere culturale delle tinte per
analizzare come le società tendano a naturalizzare i sistemi cromatici
che loro stesse hanno costruito e che utilizzano, nella quotidianità,
per dare senso alla loro enciclopedia.
Dopo un ricco excursus volto ad indagare l’indispensabile multidi-
sciplinarità che deve essere alla base di ogni studio sull’argomento (pp.
–), toccando ora la fisica della luce ora la psicologia della percezio-
ne, il saggio entra quindi nel vivo semiotico della questione indicando
come unica possibile via di analisi quella che si interroga sul valore
dei significati veicolati dalle tinte che diventano realmente segni in
virtù di codici di significazione arbitrari in origine ma, in conclusione,
necessari. Nel capitolo dedicato alla storia e alla geografia dei colori
ecco quindi la necessaria disamina del rapporto, storico, tra colore
e società che, com’è noto, varia anche grandemente a seconda del
periodo e della posizione geografica dando vita a concatenazioni di
causa–effetto considerate ineluttabili a chi condivide l’enciclopedia
ma, al contrario, completamente errate per chi invece ne è estraneo.
Insomma, come già sosteneva Michel Pastoureau (), ci si scopre
cromofili o cromofobi solo a seconda della natura che si attribuisce
al colore e della propria, e conseguente, credenza religiosa o filoso-
fica. Da Aristotele fino a Dominique Simmonet, passando per Brent
Berlin e Paul Kay, i colori principali sono stati tradizionalmente sei
(bianco, nero, rosso, blu, verde, giallo), seguiti dai cinque cosiddetti
semicolori (grigio, viola, marrone, rosa, arancione), e queste sono.state,
ancora d’accordo con Pastoureau (), le uniche tinte utilizzate per
produrre, nella storia, significati sociali. Non è del tutto d’accordo
l’autrice che, infatti, riconosce a qualche sfumatura un preciso valore
semantico conquistato nel tempo che ha portato, ad esempio, un certo
blu a diventare sinonimo di Yves Klein e un certo beige a significare
“colonialismo” incrinando le rigide barriere tra simbolico ed estetico.
 Eleonora Chiais

Introduce, a questo punto, l’analisi storico–sociale dei colori una


riflessione sul blu divenuto ormai simbolo di eleganza ma storica-
mente, anche a causa della sua difficile riproducibilità, escluso dalla
tavolozza dei colori basilari che erano sostanzialmente bianco, nero e
rosso. L’etimologia del termine avvalora l’ipotesi pastoureauiana visto
che, le lingue romanze hanno dovuto prendere il termine in prestito
dal germanico. Per i romani, in effetti, il blu altro non era se non il
colore dei barbari e, sottolinea l’autrice, se all’epoca le donne con gli
occhi azzurri erano considerate di malaffare anche nella Bibbia l’unica
sfumatura di questa tonalità che trova spazio è lo zaffiro. L’interces-
sione mariana, però, cambiò grandemente lo status del blu già nel
Medioevo quando il colore del cielo diede la tinta al manto della Santa
Vergine e, tutto sommato, la crescente complessità sociale pretese
un allargamento del cromatismo. In questo sistema il blu assunse
popolarità fino ad essere considerato come il contrario del rosso. Se il
rosso, sangue, indicava dunque il diavolo ecco quindi che il blu diven-
tava la tinta spirituale e celeste diventando irrinunciabile nell’armonia
strutturale delle cattedrali gotiche, il blu di Chartres, e nelle vesti degli
uomini, da Filippo Augusto a San Luigi. In un perfetto esempio del
modello “trickle–down” di simmeliana memoria, ecco dunque che
le classi nobiliari si orientarono, per il loro abbigliamento, verso le
scale di blu e, conseguentemente, si moltiplicarono le ricerche per
snellire il processo tecnico di riproduzione della tonalità. E se ancora
rimanevano dei dubbi la riforma protestante spazzò via ogni perples-
sità e il blu assurse al colore dell’eleganza maschile per eccellenza. Il
declino del rosso fu contemporaneo e strettamente collegato. Finiti
per sempre, ormai, i tempi in cui la sua semplice riproducibilità lo ren-
deva il colore per eccellenza, fino a fargli condividere – come ricorda
l’autrice – etimologicamente in alcune lingue le radici con “bello”: da
questo momento in poi il rosso pagherà lo scotto della sua ecletticità.
Colore del sangue e del fuoco, infatti, questa tinta si pone di difficile
comprensibilità andando ad assumere ora significati positivi (le sacre
fiammelle di vita della Pentecoste, il sangue dei martiri e degli eroi),
ora significati negativi (i capelli dei traditori nell’iconografia, da Guida
a Saul fino a Gano, Mordret e Rosso Malpelo) e dando origine ad
ambivalenze di senso talora difficili come quando, sottolinea ancora
la Agnello, nei quadri sia Guida che il Cristo vestono la medesima
tinta di rosso ma per ragioni simboliche opposte. Percettivamente, e
Marialaura Agnello, Semiotica dei colori 

di conseguenza socialmente, il rosso spicca ma, per quanto i cardinali


e talvolta il Santo Padre non lo escludano affatto, inizia a rivolgersi
più che altro all’universo femminile e, stravolgendo le simbologie me-
dievali che attribuivano il blu alla Madonna e il rosso ai Grandi Capi,
arriva oggi a riverberarsi anche sugli abiti dei neonati che, per desa-
turazione, attribuiscono il rosa alle bambine e l’azzurro ai maschietti
dando vita ad una simbologia quanto mai diffusa e profondamente
radicata. Ormai, quindi, il rosso indica l’extra–ordinario, il divieto ma
anche il lusso (si vedano il rosso Ferrari e quello dei teatri dell’opera)
mentre il blu si fa portatore di valori di eleganza ma anche di un’aurea
di banalità, quotidianità. Interessante, a questo punto, la schematiz-
zazione proposta dall’autrice che riconosce all’uno e all’altro colore
una valenza simbolica strettamente connessa (pp. –) che rende il
blu opposto culturale del rosso rendendo il significato e la valorizza-
zione sociale di uno inesorabilmente collegata a quella dell’altro. La
Agnello procede, a questo punto, con una simile analisi degli altri due
colori, il verde e il bianco, riconoscendo al primo l’attuale momento
di gloria (visti i suoi legami, socialmente condivisi, con un “ritorno
alla natura” postulato e predicato da esperti, o sedicenti tali, nei campi
più svariati in barba alle origini di questa tinta che, cromaticamente
instabile, indica ad esempio le sostanze velenose) e al bianco la capa-
cità, universale, di indicare candore, innocenza e purezza. Ed ecco
quindi che, attribuendo al bianco una continuità percettiva e cognitiva,
l’autrice propone uno schema formale che vede la tinta della neve
contrapposta al rosso, discontinuo vista la sua capacità di distinguersi,
complementare al blu, colore della non discontinuità, e contradditorio
rispetto al verde e alla sua non continuità caratterizzante. Conseguen-
temente, dunque, verde e blu diventano contrari tra loro, rosso e blu
contradditori e rosso e verde complementari trovandosi ai vertici di
un quadrato semiotico che, pur nella sua insuperabile e dichiarata li-
mitatezza temporale, del qui ed ora, offre uno spunto interessante per
comprendere la cultura cromatica della società occidentale partendo
dalle valenze storiche e culturali che sono state attribuite alle diverse
tinte. Si dimostra automaticamente, a questo punto dell’analisi, la
teoria di partenza dell’autrice secondo la quale le tinte intermedie
possono essere significativamente rilevanti. Partendo dallo schema
di cui sopra, infatti, le sfumature trovano la loro posizione ideale a
dei livelli intermedi andando a ricoprire significati che, pur essendo
 Eleonora Chiais

meno perentori, non possono certo essere considerati irrilevanti. In


secondo luogo, poi, lo schema formale giustifica le associazioni, nella
simbologia dei colori, a forme di affettività e comportamento che
trovano, in un processo estremamente semplice, un corrispettivo a
livello di /continuità/ e /discontinuità/. Ad un terzo livello, poi, lo
schema, essendo scevro di giudizi di merito ma ponendo i quattro co-
lori in un regime di valorizzazione reciproca, permette di utilizzarne
i possibili significati in termini oppositi e complementari rendendo,
per esempio, il rosso un colore adatto alla rivoluzione e il blu una tinta
poco indicata nel medesimo contesto ma imprescindibile, al contrario,
in un clima di eleganza tradizionale dove invece il rosso sarà guardato
con sospetto. Ed è proprio il valore sistematico dello schema il plus
di tutta l’analisi poiché evidenzia come e quanto il senso dei colori
si costituisca sempre e solo grazie alle relazioni che si instaurano tra
tinte differenti e mai automaticamente, andando, oltretutto, a fornire
delle categorie (/continuità/, /discontinuità/) potenzialmente uni-
versali al di fuori dei colori che in queste, nei singoli casi considerati,
si trovano ad essere inserite. Partendo da questo quadrato semiotico
e conservandone le categorie, infatti, l’analisi di culture lontane nel
tempo e nello spazio porterebbe ai quattro vertici tinte sicuramente
differenti da quelle indicate in questa sede ma non toglierebbe allo
schema in sé alcuna valenza scientifica.
Dopo la ricca introduzione la ricercatrice si sposta quindi a consi-
derare l’universo linguistico connesso ai colori e, accennando prima
al relativismo linguistico postulato da Pastoureau (), si sofferma
sull’ipotesi riduzionista della celebre ricerca condotta da Berlin e Kay
(), descrivendo brevemente il dibattito scientifico che ha scatenato
e che resiste tutt’ora finendo per coinvolgere questioni inerenti le
relazioni gerarchiche tra natura e cultura. A mettere un buon segno di
punteggiature, se non definitivo quantomeno provvisoriamente utile,
in questa annosa quaestio interviene Umberto Eco () che affronta
la questione della traduzione dei termini di colore e, unendo le istan-
ze antropologiche e letterarie con quelle della ricerca empirica dei
fisiologi e degli psicologi, propone una forma di mediazione tra cultu-
ralismo e naturalismo. Partendo dalla constatazione che ogni lingua
segmenta in modo arbitrario la medesima “materia del contenuto”
Eco introduce, però, la distinzione tra la discriminazione percettiva
dei colori, completamente fisiologica, e la loro individuazione, che
Marialaura Agnello, Semiotica dei colori 

essendo una questione cognitiva è formulabile nelle diverse lingue.


La conclusione della nota riflessione del semiologo, che in questo
frangente la Agnello adotta e condivide, è dunque concettualmente
simile al risultato del capitolo precedente e permette di analizzare
semioticamente i colori nelle diverse culture ricostruendo le catego-
rie pertinenti che permettono ai singoli parlanti di utilizzarli, ancora
una volta, in relazione gli uni con gli altri preferendo ora gli uni, ora
gli altri a seconda del contesto pertinente. Ma se è chiaro che esiste
un linguaggio sui colori è chiaro, almeno per una semiologa come
l’autrice, che esiste contemporaneamente anche un altrettanto ricco
linguaggio dei colori ed è questo ad indicare al lettore la strada verso
una semiotica dei colori, ricercata già fin dal titolo del saggio.
La premessa indispensabile a questa disamina (pp. –) è che,
nonostante per l’intero saggio si sia cercato di mostrare le due opposte
scuole di pensiero a proposito dei colori (soggettivismo, oggettivismo)
come opposte, queste in realtà non sono naturalmente mutualmente
esclusive e sopportano, alle volte supportano, l’intromissione di una
nell’altra e viceversa. Il metodo che permette questa finale riconci-
liazione è appunto, secondo l’autrice, la semiotica che propone, con
Floch (), di parlare di figure cromatiche riconoscendo a queste un
carattere composto e componente e spostando l’asticella della discus-
sione alla vitalità di questa all’interno di un testo entro il quale entra in
relazione con altri, e altrettanto ricchi, elementi componenti. Questo è
possibile considerando, in primo luogo, le pertinenze e suddividendo
quindi le realtà cromatiche tra sistemi paradigmatici e sistemi sintag-
matici. Ecco, quindi, che la prospettiva semiotica dell’analisi del colore
oltrepassa la dicotomia della disputa storica in materia riconoscendo il
rapporto dialettico costante che unisce il colore al suo testo all’inter-
no del quale ogni cromatismo possiede un’oggettività sociale (dettata,
cioè, dall’enciclopedia) che si scontra quotidianamente con i pensieri
soggettivi che, individualmente, ciascuno collega ad una determinata
tinta senza però modificarne le caratteristiche che la comunità, in un
determinato luogo ed in una determinata epoca, gli ascrive. Il colore è
dunque, secondo la Agnello, strutturalmente simile ad una parola e
ricopre il ruolo di entità che serve a comporre realtà comunicative più
ampie ma è, a sua volta, composto da entità più piccole che, contraen-
do tra proprie precise relazioni, vanno a costituirlo. A questo punto
l’autrice passa a considerare gli effetti di senso prodotti dai colori stessi
 Eleonora Chiais

e, prendendo a prestito il noto quadrato flochiano della pubblicità


(), ripensa i generi cromatici come referenziali, mitici, sostanziali
e obliqui. Sul quadrato semiotico posiziona dunque le tinte a seconda
della loro corrispondenza con la realtà proponendo il caso emblemati-
co del verde che assume una dimensione pragmatica (e dunque una
funzione rappresentativa) quando è utilizzato per riproporre il reale
colore delle cose, ad esempio una prateria, mentre quando diventa
sinonimo dell’ideologia ambientalista diventa mitico legandosi alla
dimensione affettiva che viene stimolata. Ma le gradazioni più o meno
intense di verde possono agire anche in modo obliquo, proponendo
una interpretazione cognitiva che rimanda, per esempio, alla gratuità
(numero verde) o al permesso (semaforo verde) oppure sostanziali
quando, attivando una dimensione sensoriale che rimanda ai concetti
di freschezza e pulizia, viene utilizzato per designare concetti di sa-
lute e sanità (nei camici dei medici). Questo spiega perfettamente,
nel volere dell’autrice, che i colori possono assumere un significato
anche al di là del linguaggio visivo che sembra contenerli e quindi,
con Floch (), possono essere distinti tra colori, visti come unità di
manifestazione, e figure cromatiche, presenti e significative al di là del
linguaggio che viene utilizzato per esprimerli.
In conclusione (pp. –) la Agnello si concentra su quello che lei
stessa definisce un “esercizio di teoria” analizzando la cromaticità del
mondo cinematografico, in senso lato, e concentrandosi infine sulla
celebre trilogia “Tre colori” del regista polacco Krzysztof Kieślowski. Il
punto di partenza è l’indispensabile premessa secondo la quale l’intero
mondo del cinema potrebbe frazionarsi per mezzo del suo rapporto
con il cromatismo, trovando un ideale punto di rottura tra il prima
del cinema in bianco–e–nero e il dopo dell’introduzione dei colori poi
diventati, a loro volta, troppo abituali e dunque messi all’indice per
tornare, come sosteneva già Aumont (), al bianco–e–nero espres-
sivo visto come segno di rigore estetico, pulizia ed essenzialità. Ma
non è di questo che decide di occuparsi l’autrice nelle sue conclusioni.
Un’analisi della trilogia del noto registra polacco, infatti, è proposta
nella parte finale del saggio e, partendo da “Film blu” per passare
poi a “Film Bianco” e “Film Rosso”, lo scopo è quello di riconoscere
all’impianto visivo la capacità di creare le forti emozioni, che caratte-
rizzano le tre opere, attraverso un sapiente utilizzo della componente
cromatica. Nel primo capitolo di Kieślowski, ad esempio, è il blu (che
Marialaura Agnello, Semiotica dei colori 

nella bandiera francese indica la libertà e che qui viene proposto, al


contrario, come segno della non–libertà) ad essere protagonista nella
sua opposizione al rosso (segno della non–costrizione), al giallo (co-
strizione) e al verde (libertà). Simile il procedimento di attribuzione di
senso ai cromatismi nel secondo capitolo, “Film Bianco”, che è, anco-
ra una volta, basato sul ribaltamento del valore di base della sezione
candida nella bandiera francese. Qui, infatti, il valore dell’uguaglianza
viene negato e ribaltato lasciandosi interpretare come uguaglianza
nella sofferenza e dunque urgente ed estrema necessità di vendetta. La
non uguaglianza è dunque tematizzata come distanza che si esprime,
con un simbolismo molto forte, nell’accostamento costante del bianco
(di sfondo, chiamato ad unire facendosi panorama) e del nero (cui è
affidato il compito di dividere cose uguali). Alla breve analisi di “Film
Rosso”, terzo capitolo della saga, è affidato dalla Agnello il compito di
tirare le fila dell’intero lavoro sottolineando come e quanto le opere di
Kieślowski, appartenendo al poetico come sostiene Amiel (), sono
portatori di una costruzione di senso legata ai sensi e dunque superano
le semplici rappresentazioni e non si prestano a discussioni ma solo a
proporsi come punto di riferimento per esercizi teorici. Allo stesso
modo, sembra suggerire l’autrice, l’universo dei colori è talmente
ampio che difficilmente si presterà ad una analisi rigida che non tenga
conto di una molteplicità di informazioni. La semiotica naturalmente
può, e deve, intervenire nel dibattitto sul cromatismo proponendo
schemi di analisi e riflessioni che, però, non devono imporsi come
dogmi ma come semplici strumenti del lavoro andando a formare una
cassetta degli attrezzi in grado di adeguarsi ai diversi testi cromatici
sui quali la semiotica stessa si trova chiamata ad esprimere un parere.

Riferimenti bibliografici

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antropologo su Marte, Adelphi, Milano )
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394014
pag. 295–298 (luglio 2014)

Cristina Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone


La semiotica, il documentario e la rappresentazione del “reale”
Bononia University Press, Bologna ,  pp.

F T

Che cosa vuol dire testimoniare? E che cosa vuol dire trauma? In che
modo le pratiche di testimonianza si intrecciano e si relazionano con
il concetto di memoria? E cos’è la memoria?
Affrontare temi di questa portata non è certo compito facile e d’altra
parte ricercatori e scienziati di molteplici discipline, dalla filosofia
all’antropologia, dalla storia alla sociologia si sono ripetutamente
cimentati in questa impresa, producendo una sterminata letteratura,
spesso anche con orientamenti multi– e trans–disciplinari.
Nel volume in oggetto, Cristina Demaria propone un approccio
alla questione originale e innovativo, concentrandosi sui concetti di
trauma, testimonianza e memoria attraverso la lettura semiotica (e
però con molta attenzione alle proposte e ai suggerimenti delle di-
scipline affini) di un particolare tipo di testo e cioè il documentario
cinematografico. Analizzando testi, cioè, in cui “violenze subite e pas-
sate vengono raccontate, documentate appunto, attraverso immagini
in sincretismo con altri linguaggi, dando luogo a pratiche peculiari
di ri–presentazione di eventi giudicati ‘traumatici’” la semiologa si
pone l’obiettivo di ripercorrere il rapporto tra la memoria del trauma
e il macrogenere del cinema documentario e di ripensare le suddette
categorie.
La proposta che viene dalla ricerca di Demaria riguarda il modo
in cui la rappresentazione del trauma sia anche un problema di “pos-
sibilità di memoria”, di “capacità di ricordo”: la memoria culturale
collettiva è un sistema semiotico che prevede la sovrapposizione di
esperienze, di pratiche, di impressioni ed effetti di senso che, sui nostri
ricordi, si sono sedimentati andando a strutturarne il contenuto. La
. Dall’Introduzione del volume, p. .


 Federica Turco

memoria così intesa, dunque, è risultato al contempo della produzione


e dell’interpretazione di qualcosa di cui siamo stati testimoni, ovvero
di qualcosa che riconosciamo di aver visto, vissuto o semplicemen-
te registrato. Ma è anche il risultato dell’interpretazione in seconda
istanza di qualcosa che vediamo rappresentato, e quindi testualizzato.
Demaria si muove, in questa intricata macchina, cercando di defini-
re, innanzi tutto, il concetto di “trauma”. Per farlo si serve di tutto il
filone di studi dei cosiddetti Trauma Studies, oltre che di una complessa
e contrastante letteratura psicologica e sociologica. Partendo da Freud
e passando attraverso gli scritti di Caruth, LaCapra e Felman (tanto
per citarne solo alcuni) Demaria arriva ad evidenziare la persistente e
imprescindibile valenza critica e politica del trauma stesso, definen-
dolo una ferita collettiva, attraverso le cui memorie le società hanno
modo di presentarsi e auto–rappresentarsi.
Il passaggio logico successivo che ci propone l’autrice è quello sul
concetto di testimonianza. Come ricordato nel capitolo  del volu-
me, il dibattito dei Trauma e Memory Studies si è, di recente, spostato
dal problema di una presunta irrappresentabilità dell’evento trauma-
tico ai modi in cui, di fatto, esso venga testualizzato e quindi reso
suscettibile di interpretazioni e rimaneggiamenti. A partire da questa
cornice teorica Demaria suggerisce come la valenza della testimo-
nianza sia prima di tutto relazionale: la narrazione dell’esperienza
vissuta e la ricostruzione della propria storia è uno dei principali stru-
menti per la costruzione del sé e, di conseguenza, per la costruzione
della relazione con l’altro. La testimonianza è dunque vista come for-
ma di comunicazione, come strumento di conoscenza, come pratica
trasformativa.
Dopo una prima parte teorica, che si concentra sulla ricostruzione
dei concetti di trauma e di testimonianza come appena visto, nel-
la seconda parte del saggio vengono presi in esame cinque diversi
video–documentari ritenuti significativi rispetto ai modi in cui può
avvenire la rappresentazione della memoria traumatica: Shoa di Clau-
de Lanzmann, Uno specialista (e Route ) di Eyal Sivan, X–Mission di
Ursula Biemann, S–. La macchina di morte dei Khmer rossi di Rithy
Panh e La flaca Akejandra di Carmen Castillo.
L’analisi di questi testi apre la discussione intorno a due questioni,
a mio avviso, semioticamente rilevanti. La prima riguarda la capacità
di un evento traumatico di essere raccontato, e quindi rappresentato,
Cristina Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone 

attraverso un testo sincretico come un film. La seconda riguarda la


possibilità per un mediatore (il regista, il giornalista, lo sceneggiatore)
di farsi carico di ricostruire l’evento traumatico trasformandolo, così,
da memoria individuale a memoria collettiva, e dunque inserendolo
in una enciclopedia culturale comune, nella semiosfera.
La sovrapposizione e il dialogo tra questi due livelli è il pregio
del lavoro di Demaria che, lucidamente, parte dai testi per tentare di
ricomporre e svelare questo rapporto. Il punto, inevitabile, d’avvio di
un tale discorso deve essere un trauma che, per numero di testimo-
nianze prodotte, per quantità di rappresentazioni già elaborate e per
significatività di interpretazioni sedimentate, possa essere considerato
davvero collettivo ed esemplare. Ecco perché la scelta ricade su Shoa,
film che raccoglie le testimonianze di sopravvissuti (vittime ma anche
carnefici) ai campi di sterminio nazisti. Partendo da questo testo e poi
attraverso gli altri viene messo in evidenza come il problema principa-
le della rappresentazione degli eventi traumatici sia quello di rendere
presente un’assenza, trasformare in qualcosa di eterno un “non più”.
Le scelte degli autori dei testi analizzati sono diverse: alcuni (per
esempio Eyal Sivan in Uno specialista) usano materiale d’archivio co-
me fotografie e filmati, altri invece (come nel caso del già citato Shoa)
preferiscono raccogliere solo testimonianze “nel presente”; alcuni dia-
logano con altri testi e altri racconti (è il caso di X–Mission di Biemann)
creando dunque forze centrifughe di evasione dal testo, mentre altri
(e mi riferisco al documentario di Rithy Panh) si muovono in modo
centripeto ripiegando su se stessi; ci si interroga infine sul processo di
scelta delle testimonianze e quindi sul problema della selezione nella
ricostruzione delle memorie (cfr. La flaca Alejandra).
Come rilevato anche da Ugo Volli nel suo saggio dedicato al foto-
giornalismo quello tra immagini (in quel caso si trattava di immagini
fotografiche, ma ritengo che la questione ben si addica anche all’ambi-
to del cinema documentario) e realtà è un rapporto ambiguo. Perché
se da un lato siamo indotti a pensare le immagini fotografiche come
prove dell’esistenza delle scene fotografate, quindi della loro veridicità,
dall’altro evidentemente le tecniche contemporanee di fotoritocco,
ma anche la capacità di incorniciare le immagini stesse entro frame
che aggiungono o modificano gli effetti di senso delle stesse, rendono

. “False icone. Per un’analisi semiotica del fotogiornalismo”, .


 Federica Turco

problematico tale assunto di realtà.


Nel cinema documentario analizzato da Demaria la questione si
complica, possibilmente, ancora di più perché alle considerazioni sul
valore dell’immagine come testimonianza, si aggiungono quelle sul
rapporto tra mediatore e testimone, mediatore e archivio, archivio
e testo, memoria e celebrazione della memoria. La domanda che
sottende l’intero volume è relativa alla possibilità di credibilità di un
film nella sua ricostruzione, per la relazione che esso instaura con
la realtà (e, per meglio dire, con una realtà traumatica che si deve
ricordare ma si vuole dimenticare).
Al centro della riflessione di questo libro (e ciò che ne delinea il
valore) risiede, chiaramente, la riflessione teorica e meta–disciplinare
intorno alla necessità per la semiotica di interrogarsi, oggi, a proposito
del rapporto tra realtà e finzione, della stessa natura del concetto di
realtà, oltre che del problema della rappresentazione. Le immagini e
il modo in cui le usiamo annullano la forza di un’opposizione, quella
tra realtà e finzione, che finisce per essere solo apparente. È, appunto,
il modo in cui usiamo le immagini, o, per meglio dire, le rappresenta-
zioni – per esempio cinematografiche – del trauma che consente di
costruire dei percorsi di veridicità nelle narrazioni e trasformarle in te-
stimonianza. Tali ricostruzioni hanno più una valenza di celebrazione
collettiva che di documento. Sono puro ricordo, nel senso culturale
di cui si diceva prima.
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394015
pag. 299–309 (luglio 2014)

Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche


voll.  e , Società Editrice Esculapio, Bologna , pp.  e 

A C

Pubblicazione risistematizzata, arricchita ed espansa della tesi di dotto-


rato di Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche nei suoi due volumi –
“Il tema trascendentale” il primo, “In fondo al semiotico” il secondo –
ripercorre e riafferma, a più di vent’anni di distanza dalla sua stesura,
un pensiero fortemente e coerentemente orientato, che progredisce
e si articola in un costante ritorno e ripensamento sul problema del
senso e della semiotica.
Due sono le tappe fondamentali della ricerca di Marsciani, simbo-
licamente divisa nei due volumi, il primo dei quali prende in carico
la problematica della fondazione di una scienza semiotica e della sua
episteme, avviandosi con una riflessione sull’ultimo Husserl e affron-
tando via via aspetti di differenti autori che adducono materiale e
argomentazioni utili a Marsciani in vista dello scopo analitico pre-
fissato. Una volta ricostruita la storia del pensiero costitutivo dietro
al concetto di semiotica generativa, nel secondo volume lo studioso
bolognese ne esplora l’aspetto strutturale, indagandone la natura se-
misimbolica e sviscerandone una natura essenzialmente incentrata
sulla logica dell’omologazione, un “fondo semiotico” alla fonte della
formazione del senso. Considerando i due volumi parte di una ricerca
globale, salta all’occhio con evidenza l’enorme portata teorica di un
lavoro di ricerca ampio e capillare che, pur datato, torna oggi più che
mai attuale, a ribadire ciò che le sue stesse pagine chiariscono, ovvero
la necessità di ripensare costantemente la disciplina, ricercandone le
fondamenta epistemologiche e interrogandosi sul funzionamento di
quella sua branca, la semiotica generativa di stampo greimasiano, cui
Marsciani aderisce fin dai suoi primi lavori.
Il ragionamento di Marsciani prende forma a partire da un’osserva-
zione sul testo di Merleau–Ponty “L’occhio e lo spirito”: se il mondo


 Alessandra Chiàppori

è un discorso a cui dare voce osservandolo, in ogni discorso filosofico


e scientifico sarà sempre presente un ancoraggio a quello sguardo,
una collocazione spaziotemporale che segnalerà la trasformazione
dell’universo sensibile in atto cognitivo da parte dello studioso. È il
problema fondante della semiotica, il paradosso che vede da una parte
la presenza di un vissuto fenomenologico, legato alla percezione sen-
sibile, dall’altra un discorso scientifico, elaborato da una razionalità
staccata, fondatrice di una scientificità che, per sua natura, risulterà
sempre incompleta. All’incrocio tra la presa fenomenologica dell’esi-
stenza e la categorizzazione scientista si origina, e giustifica il proprio
discorso, la semiotica, offrendo, grazie all’elaborazione di un suo me-
tadiscorso, una nuova prospettiva nei confronti dei fenomeni di senso.
Alle questioni aperte e irrisolte dalla fenomenologia prima e dallo
strutturalismo poi, la semiotica, e in particolare per Marsciani la teoria
greimasiana del percorso generativo, si dà una risposta considerando la
significatività e ritrovando alla sua base un piano di immanenza, vero
campo semiotico, in cui ricercare e studiare le strutture trascendentali
della soggettività.
Per la sua disamina del tema trascendentale, Marsciani riparte dalla
fenomenologia di Husserl che, affrontando il tema della soggettività,
svela l’illusorietà dell’oggettività scientifica: la fonte di senso per ogni
oggettività risiede infatti, secondo il filosofo, nell’istanza soggettiva.
Husserl, e con lui Marsciani, approda così alla costruzione di un
terreno intersoggettivo in cui il senso si dà al contempo per il soggetto
e per tutti, in un’oggettività costruita in modo trascendentale. Un
sistema dove risiedono tutte le possibilità dell’essere, l’a–priori di
ogni relazione possibile, fondato nell’intersoggettività e aderente, per
necessità fenomenologica, al mondo concreto.
Si intravede già quel paradosso che ritornerà più volte nel percorso
di Marsciani attraverso fenomenologia e strutturalismo, il paradosso
che vede la scientificità fondata su un mondo–della–vita operante,
luogo dove si attesta la soggettività concreta nel suo dare senso, orien-
tamento e valore alle attività umane, ma che impatta fortemente con
l’obiettività scientifica. Il mondo–della–vita è infatti parziale, ma è solo
su questa base soggettiva che può fondarsi la conoscenza oggettiva del
mondo. Husserl parla di una “nuova scienza del mondo–della–vita”
che dovrà articolarsi tra le due strade aperte da una parte dall’obietti-
vità delle scienze, dall’altra, da quel fondo trascendentale costituito dal
Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche 

mondo–della–vita, luogo di origine del senso. La nuova scienza non ha


il compito di oggettivare le strutture soggettive del mondo–della–vita,
quanto di spiegare le modalità attraverso cui la soggettività trascen-
dentale si manifesta. Husserl stesso riscontra numerose difficoltà nella
fondazione del nuovo approccio alla fenomenologia, ostacoli che
trovano fondamento nel paradosso di una soggettività parziale che
tuttavia aspira a costituire un tutto. Questa impasse si risolve nella
constatazione che vede la soggettività trascendentale diventare istanza
costitutiva del senso, dinnanzi alla quale il mondo oggettivo si realizza.
Se Husserl appare per Marsciani come il fondatore di un nuovo
approccio alla scienza che diverrà la semiotica, quella nuova disciplina
scientifica impiegata costantemente nell’autoriflessione e nello studio
della soggettività, di cui è essa stessa intenzione e che dà senso al
mondo, con Merleau Ponty il percorso alle radici epistemologiche
della scienza del senso fa un passo avanti. È infatti qui che la fenome-
nologia incontra la linguistica di Saussure e il linguaggio si fa luogo
privilegiato per la realizzazione del senso. La riflessione sul valore
trascendentale dell’intersoggettività e il senso come integrazione tra
langue e parole conferiscono all’atto concreto — la parole — lo statuto
di motore delle trasformazioni, confermando da una parte la funzio-
ne trascendentale del senso, che si articola nell’atto esprimendo una
percezione, dall’altra la natura autoreferenziale del linguaggio, che
descrive e rimanda a un senso mai del tutto trasparente. Proprio la
nozione di senso secondo Merleau–Ponty permette a Marsciani di
collocarlo come cerniera tra la prospettiva fenomenologica e quella
strutturale: il linguaggio diventa il luogo del dispiegarsi del senso, solo
lì il senso si dà come esperienza espressa, producendosi in continue
trasformazioni. In questo dire il senso come incessante trasformazione,
senza che esista un a–priori di forme ma solo un senso già dato come
senso, si intravedono alcuni spunti greimasiani cui si rifarà Marsciani.
Il percorso prosegue passando per Deleuze e aprendosi così alla
tradizione strutturalista delle ricerche sul senso e alla sua vocazione
scientifica. La trascendenza husserliana, piano di origine del senso,
diventa in Deleuze uno strato presupposto che ingloba tutte le artico-
lazioni possibili. Il soggetto non è più un ricettacolo del senso allora,
ma è contenuto nello stesso senso che egli produce: al contempo
trascendente e superficiale, presupposto di ogni attualizzazione del
linguaggio. La questione della soggettività va sempre più delineando-
 Alessandra Chiàppori

si in parallelo all’altra questione, quella del senso, e si fa strada una


disciplina interessata a rendere conto della significatività dei discorsi,
delle istanze di produzione e di effettuazione del senso, dei soggetti
dell’enunciazione.
Foucault prende in esame l’istanza dell’enunciazione con la sua
“archeologia del sapere”, l’indagine cioè su una teoria del discorso.
Foucault vede il soggetto come estromesso dalla fondazione del di-
scorso e inserito invece nel discorso stesso, in un gioco di relazioni
ed effetti di senso. Proprio le relazioni discorsive sarebbero il limite
del discorso e al contempo il principio trascendentale, il terreno cioè
grazie al quale l’enunciato acquista senso per il soggetto che vi è impli-
cato. Non ci sarebbero quindi entità esterne, precedenti, indipendenti
dalla dimensione discorsiva, unico riferimento per la costruzione del
senso e del soggetto. Ancora una volta, torna il paradosso imprescin-
dibile a ogni filosofia del senso: non è il soggetto a spiegare il senso
dell’enunciato, ma è l’enunciato a dispiegare una soggettività, o me-
glio, l’enunciato istituisce un soggetto e un mondo, ma è anche il
presupposto di quel soggetto e di quel mondo.
Marsciani può ora entrare a pieno titolo nelle questioni semioti-
che, affrontando con Benveniste e Buhler la problematica delle deissi,
rendendo quindi conto di come gli elementi linguistici possano farsi
carico della veicolazione del senso e di come le forme della sogget-
tività risultino iscritte nella lingua. Siamo ormai nel dominio della
semiotica, che dimostra di essere, confermando l’intuizione verifica-
ta da Marsciani, uno degli esiti più rigorosi della problematica della
soggettività trascendentale lasciata aperta dalla fenomenologia. Lo stu-
dioso bolognese presenta la semiotica come l’unica scienza e forma
di razionalità in grado di occuparsi di una descrizione del senso. Ma
il problema della descrizione del senso risulta legato alla questione
del metalinguaggio, altro caposaldo della riflessione di Marsciani in
questo primo volume e chiave di volta della sua seconda parte che
porterà alla presa in esame della fondatezza del percorso generativo
di Greimas.
La questione dell’emersione del soggetto riguarda anche la pro-
blematica relativa al come parlare di quel soggetto, dunque del meta-
linguaggio. Il linguaggio, ancora una volta paradossalmente, sembra
definirsi come luogo di un’impossibilità, “il luogo in cui il soggetto
parla del soggetto e in cui l’oggetto è conosciuto dall’oggetto”, il cam-
Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche 

po aperto per una sfida lanciata alla semiotica che per sua natura non
può trattare il senso come trasparente, ma è connessa imprescindi-
bilmente alla sua opacità e alle sue condizioni di realizzazione nel
linguaggio. La natura paradossale del metalinguaggio è al contempo
sfida e motivazione per la semiotica, unica tra le scienze umane ad
avere al cuore della teoria il problema del metalinguaggio e a poter
trattare teoricamente la soggettività, collocandola in un luogo preciso
del suo sistema interdefinito, il livello discorsivo. Marsciani dà quindi
una spiegazione del perché della semiotica generativa, che non vede
come una pura metodologia di analisi testuale ma come teoria della
significazione, del modo in cui il senso si articola per manifestarsi. Pre-
gio della semiotica è staccarsi da un senso già manifestato nel mondo
e interrogarsi su di esso, necessitando forzatamente di un metalinguag-
gio, di un linguaggio artificiale che sappia parlare del senso. Un nodo
cruciale, sul quale l’autore si rende conto di dover giustificare la pre-
tesa scientifica della semiotica, scienza che non può fare a meno del
paradosso quando, al contempo, pretende di introdurre nello studio
del senso un’oggettività scientifica.
Passando prima dall’impossibilità del metalinguaggio oggettivo
ipotizzata da Wittegenestein con la teoria dei giochi linguistici e poi
da Hjelmslev, primo a interrogarsi sulla possibilità di una semiotica
che sappia parlare delle semiotiche, Marsciani si interroga sulla voca-
zione scientifica della semiotica, sul suo “impegno epistemologico”
e trova aiuto ancora una volta in uno dei suoi autori di riferimento,
Ricoeur, e nella sua ermeneutica. Se però la ricerca ermeneutica ri-
cade sul contenuto espresso dei testi, la semiotica si concentra sullo
strato immanente, sulle articolazioni seguite dal senso, non è quin-
di una spiegazione causale, quanto la ricostruzione delle condizioni
che rendono possibili i fenomeni di senso, che li giustificano. Da qui
alla semiotica generativa di Greimas, il passo ormai è compiuto, e
l’intero discorso pazientemente intessuto da Marsciani a partire dalle
fondamenta della trascendenza husserliana può dirsi giunto a destina-
zione, la vocazione della semiotica è infatti rendere conto del senso
e non dei fenomeni, è la scienza che disimplica dal reale per porsi la
questione del senso e approdare così al presupposto iniziale assunto
da Marsciani: una condizione trascendentale. La semiotica prende in
carico i fenomeni focalizzandosi sulla singolarità della manifestazione
del loro senso, che non è mai dato ma prodotto da una trasformazione.
 Alessandra Chiàppori

È attraverso l’analisi di questa trasformazione — la trasposizione tra-


mite cui si articola il sistema valoriale che farà da base al senso — che
Marsciani trova il fondamento scientifico della semiotica generativa.
Le condizioni del senso sono infatti spiegate da Greimas attraverso
il percorso generativo, simulacro del percorso di produzione del senso,
un modello formale che rende conto dei livelli di immamenza presenti
dietro alla manifestazione testuale, il vero oggetto di studio della se-
miotica. “Il percorso generativo non risolve i paradossi, ma organizza
lo spazio della loro praticabilità. Non spiega, dispiega”, ricostruendo
le molteplici possibilità del senso dietro alle concrete manifestazioni.
È così che la teoria semiotica assume la sua forma scientifica, ren-
dendo possibile un dispiegamento formale della significazione dei
testi, accessibile allo sguardo dello studioso. Il percorso generativo
rappresenta un ideale di sistematicità formale e strutturale di cui la
semiotica può davvero essere la scienza: grazie ai modelli semiotici,
la fenomenologia può vedere persistere quella tensione rintracciata
nella ragione che riflette su se stessa, perché quella semiotica diventa
la forma possibile di ogni metadiscorso.
Stabilite le tappe teoriche attraverso le quali arrivare alla concezione
di un fondo di immanenza da cui si origina la significazione, Marsciani
vi si sofferma, analizzandone forma e funzionamento. A questa rifles-
sione è dedicato il secondo volume delle sue ricerche: “Il fondo del
semiotico”, in cui il discorso prende avvio da alcune considerazioni
sulla classica distinzione tra sistemi di segni e sistemi di simboli, tra i
quali si intravede un terzo modello, quello del semisimbolico. Autore
di riferimento è ancora una volta Hjelmslev, con la sua distinzione
tra i sistemi di simboli, le semiotiche monoplane o non semiotiche,
opposte ai sistemi di segni, le autentiche semiotiche. Sarà Greimas
a parlare di una terza via, quella del semisimbolico, con una nuova
attenzione rivolta alla forma del contenuto, colta nella sua immanenza
in quanto già forma significante e articolazione del senso. A Greimas
e al modello generativo spetta il merito, secondo Marsciani, di aver
instaurato una prospettiva secondo cui la semiotica non si occupe-
rebbe più dei significati, ma della manifestazione del senso a partire
dalla forma del contenuto. Su questo livello si rintraccerebbero delle
corrispondenze formali che riguardano l’organizzazione del senso,
mentre le corrispondenze di superficie sarebbero comprensibili in
quanto manifestazioni di strutture immanenti, esprimibili dunque
Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche 

solo grazie al metalinguaggio discusso nel volume precedente. L’in-


tero percorso generativo andrebbe pensato dunque come modellato
secondo il semisimbolico, secondo una serie di passaggi — Marsciani
li definisce omologazioni — verticali che dal piano di più profonda
immanenza portano il senso in superficie. Per lo studioso bolognese,
la distinzione tra sistemi di segni e di simboli non sarebbe pertinente:
la semiotica si colloca su un piano immanente all’interno del quale
trova le condizioni di articolazione del senso.
La semiotica strutturale è per sua natura relazionale e generativa,
cioè processuale: un approccio semisimbolico al suo funzionamento
si ricollega sia alla presenza di cosiddette figure, elementi soggiacenti
che, composti, producono sostanze manifeste, sia al concetto di mu-
tazione, che diventa centrale legando il cambiamento su un piano a
quello su un altro, sia infine all’idea di omologazione, che si ritrova
nello schema dei rapporti tra i livelli di profondità. Poste queste osser-
vazioni, Marsciani rintraccia un “fondo del semiotico” una condizione
cioè di funzionamento intrinseca che fa del percorso generativo una
macchina significante con un funzionamento al tempo stesso reale e
ricostruito per vocazione scientifica. Non a caso il modello del valore
di Saussure, nota Marsciani, deriva da un modello matematico ed è
posto a fondamento dell’episteme strutturale perché rappresenta la
forma stessa della funzione significante e quella dell’omologazione
semisimbolica: è la logica combinatoria che si sviluppa su tutti i livelli
del percorso generativo.
A proposito dell’omologazione, Marsciani apre poi un’interessante
speculazione che parrebbe avvicinare e far convergere la ricerca semio-
tica interpretativa e quella generativa. Se ogni omologazione è una
correlazione operativa, una riformulazione con cui mettere in luce di
volta in volta diverse relazioni, entra infatti in gioco l’interpretazione,
sotto forma di un investimento semantico che di volta in volta coin-
volge le strutture più complesse dei livelli superiori del percorso ge-
nerativo. L’interpretante di Peirce viene così riletto come un “oggetto
costituito dalla significazione del segno significato”, un ritaglio del-
la significazione sul senso. Ecco che, ancora una volta, Marsciani si
serve del bagaglio teorico per avvicinarsi a un fondo semiotico di na-
tura generativa, e lo fa rintracciando, grazie alle osservazioni tratte
anche in parte dalla semiotica interpretativa, un rovesciamento di
prospettiva secondo il quale la significazione non sarebbe esterna alla
 Alessandra Chiàppori

forma ma circolerebbe invece già all’interno della relazione tra i segni,


nell’immanenza. L’interpretazione diventa così parte stessa di ogni
conversione e investimento semantico nel passaggio verticale da un
livello all’altro del percorso generativo.
A questo punto dell’analisi, Marsciani apre una parentesi e, rifacen-
dosi strettamente a Greimas, chiama in causa il fare interpretativo in
quanto operazione di riconoscimento e, dunque, di veridizione. Il carat-
tere comparativo implicito all’interpretazione è solo uno degli aspetti
rilevanti rintracciati. Una volta infatti avvenuto il riconoscimento, l’in-
terpretazione va applicata su un quadrato semiotico della veridizione e
porta a individuare quindi un livello di immanenza: non sarebbe allora
che la funzione in grado di rendere dinamiche le omologazioni che
contraddistinguono il percorso generativo, garantendo la relazione
semiotica tra un livello e l’altro.
Parlare di interpretazione vuol dire anche concentrare l’attenzione
sull’istanza ricevente, che Marsciani declina e ritrova lungo le tre diver-
se dimensioni — strutture testuali, discorsive e semio–narrative — del
percorso generativo, ancora ribadendo una coerenza teorica molto for-
te e un’aderenza fedele al modello greimasiano. Sorprendentemente,
ma non troppo a questo punto dell’analisi, ritorna quell’intenziona-
lità husserliana di cui si era spiegata l’origine nel primo volume. E
ritorna nella riflessione sulla dominanza dell’istanza ricevente, unica
condizione possibile davanti a un mondo che si dà come effetto di
senso dinnanzi alla totalità dei punti di vista. La soggettività si attive-
rebbe nell’atto di ricezione di quel mondo come effetto di senso: è
l’evento–mondo a designare l’enunciatario come tale, destinatario di
un effetto di senso che vuole essere interpretato. Il cerchio è comple-
tato: semiotica e fenomenologia si ricollegano laddove il senso può
considerarsi effettivamente costituito solo davanti a un’oggettività
sovrumana, cioè l’intersoggettività trascendentale.
La parentesi sull’interpretazione fornisce all’autore lo spunto per
tornare al problema della simbolizzazione, autentico “fondo del semio-
tico”, luogo teorico dove la significazione ha luogo rapportandosi a
un soggetto e a determinati valori. Marsciani afferma il suo punto di
vista smentendo innanzitutto quello di Eco che, dimostra il semiologo,
non concepisce la simbolizzazione come strategia enunciativa a tutti
gli effetti, modalità di funzionamento della significazione, ma solo
come un uso particolare dei segni, legato alla pragmatica, non a una
Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche 

scienza semiotica globale. Con Petitot ci si avvicina invece a un’idea


di simbolizzazione relazionata alla soggettività, simbolizzazione che
è la conversione figurativa della timia del soggetto, del senso come
inconscio e inarticolato, afferrabile solo nel processo di significazione.
Il percorso generativo sarebbe secondo quest’ottica un percorso di
presa di coscienza, idea che si attiene solo parzialmente alla semiotica.
Stessa sorte tocca a Paret, del quale Marsciani rileva un’idea di sog-
gettivizzazione come messa in discorso della soggettività, quindi di
enunciazione.
Il nesso tra simbolizzazione ed enunciazione viene affrontato più
a fondo riprendendo diversi punti di Quéré, che ritiene l’istanza di
enunciazione luogo principe per la descrizione della simbolizzazione,
sempre pertinente a una semiotica impostata sul modello del percorso
generativo. Ed è questo modello che ritorna ancora, rafforzandosi,
perché nell’enunciazione sono studiabili quei fenomeni di analogia
che mediano tra i livelli profondi e superficiali del percorso generativo.
L’enunciato (la relazione di senso) diventa oggetto di valore per un
soggetto presupposto (l’attante osservatore, il semiologo), il percorso
generativo non rappresenta che la struttura di manipolazioni e trasfor-
mazioni di questa articolazione del senso, che è dato entro una serie di
relazioni tra figure del discorso. Questo assunto permette di guardare
al processo di significazione con tutto il bagaglio di strumenti della
semiotica generativa: la struttura topologico–valoriale, la dinamica
narrativa, le modalizzazioni, l’aspettualità.
Marsciani è approdato laddove aveva sperato: giustificare, con l’a-
nalisi puntuale del suo funzionamento secondo il semisimbolico, il
fondamento della teoria semiotica generativa, ovvero il suo porre a
oggetto di indagine scientifica non i segni, ma le modalità della pro-
duzione di senso. Il suo discorso non può quindi che concludersi con
un ritorno a Greimas. La problematica della figuratività abbraccia i
diversi livelli del percorso generativo: il riferimento esterno e interno
al sistema semiotico, gli effetti di realtà, le isotopie, l’organizzazione
topologica e la strutturazione. Il passo successivo di Greimas è con-
siderare la semiotica come una teoria della competenza: si tratta non
di una mera descrizione degli eventi, quanto dell’indagine sul senso
degli eventi, sull’agire dei soggetti, quindi su processi, trasformazioni.
È il luogo delle condizioni di generazione del senso, della sua descrivi-
bilità metalinguistica. Trovata una soluzione alla questione aperta del
 Alessandra Chiàppori

metalinguaggio, nelle ultime pagine Marsciani riprende il tema della


trascendenza che aveva aperto la sua tesi di dottorato. Quella soggetti-
vità trascendentale ha i caratteri dell’enunciazione: non è dicibile ma
unicamente presupponibile, è un luogo teorico del quale è possibile
parlare attraverso le sue tracce, o meglio attraverso una sua oggettiva-
zione cui Greimas dà la definizione di débrayage. E il débrayage, è noto
ai semiologi, non è che una proiezione da una parte dell’oggettività del
senso dell’enunciato, dall’altra della soggettività presupposta da questa
oggettività. Il dèbrayage è lo strumento teorico che la semiotica ha
costruito per poter parlare di quella soggettività trascendentale intuita
già da Husserl, di quell’imprescindibile istanza originaria che, pur
restando indicibile, si fa garante della valorizzazione degli effetti di
senso prodotti dal discorso.
Qui termina, con l’assoluzione piena della semiotica generativa
davanti alle inconfutabili prove che ne hanno insieme ripercorso e ri-
badito la fondatezza, l’impeccabile, densa ed estesa analisi di Marsciani.
Un’indagine consistente ma sempre attentamente direzionata, aperta
al dialogo e al confronto con le numerose fonti filosofiche, linguistiche
e semiotiche che vengono di volta in volta selezionate e piegate a con-
vergere verso il fine ultimo. I due volumi di Ricerche semiotiche segnano
entrambi, singolarmente e in un più ampio sguardo che li accosta a
costituire un unico studio sull’origine dell’episteme strutturale della
semiotica, un percorso compatto e coeso, una riscoperta e un recupero
convinto della scienza nuova, la scienza della significazione, attraverso
il ritorno analitico, altrettanto strutturato e coerente, sul cammino
che dalle problematiche aperte dalla fenomenologia di fine Ottocento
e dalle riflessioni dello strutturalismo ha portato fino all’elaborazione
del sistema generativo.
Nella semiotica greimasiana Marsciani ritrova le proprie convin-
zioni sulla scienza a cui guarda come strumento di analisi del senso,
ma alla quale ritorna anche costantemente – e la ripresa della tesi
di dottorato a due lustri di distanza dalla sua discussione dimostra la
perenne attualità della problematica – per indagarne la scientificità e la
fondatezza. Il grande affresco sulle origini e il senso della semiotica
generativa che i due volumi costituiscono non può non risaltare per
l’integrità della riflessione a cui dà luogo e per il recupero di quei fon-
damenti teorici dai quali troppo spesso la disciplina si trova distaccata.
È una materia che, come ben intuisce Marsciani, ha costante bisogno
Francesco Marsciani, Ricerche semiotiche 

di auto–interrogarsi, ritornando e ripiegandosi sulle proprie basi, sui


concetti interdefiniti che ne costituiscono la natura “nuova”, su quel
metalinguaggio che la rende talvolta paradossale e “altra” nel pano-
rama delle scienze umane. La necessità di questo ripiegamento, del
resto, evidenzia anche una seconda necessità, più profonda, che Mar-
sciani in questi volumi ha captato e cercato di sviscerare egregiamente:
è la domanda onnipresente di ritorno, definizione e interrogazione
della semiotica sui propri presupposti teorici ed epistemologici, il
bisogno, di fronte fin troppo spesso alle incomprensioni del mondo
accademico e non solo, di cogliere fino in fondo il senso della disci-
plina, sia diacronicamente, nel dialogo con le altre scienze umane,
che sincronicamente, mettendone in luce le specificità e peculiarità
elaborate nel corso della propria difficile ma appassionante istituzione.
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394016
pag. 311–317 (luglio 2014)

Franciscu Sedda, Imperfette Traduzioni. Semiopolitica delle culture,


Edizioni Nuova Cultura, Roma , p. 

S S

La cultura ha un’anima doppia, scissa: “al contempo una e molteplice,


coerente e contraddittoria, sistemica e processuale, regolare e irrego-
lare, prevedibile e imprevedibile, gerarchica e fluida, striata e liscia,
ordinata e caotica” (Sedda , ). È in questo senso che Franciscu
Sedda la definisce un “singolare–plurale”, una possibilità di relazione
che occorre analizzare senza riduzione alcuna, adottando uno sguardo
in grado di cogliere entrambe le sue anime. “Doppia”, pertanto, non
può che essere anche la natura della semiotica che si propone di stu-
diarla: se una semiotica della cultura, animata dal tentativo di rendere
la complessità astratta e teorica dell’insieme culturale, rischia però di
perderne di vista le manifestazioni concrete, una semiotica delle culture,
prediligendo la dimensione corporea e multiforme della vita culturale,
corre invece il rischio di trascurare il collante che tiene insieme e
organizza simile eterogeneità. Di qui la necessità di inglobare le due
prospettive in uno sguardo che Sedda definisce stereoscopico, talvolta
persino un po’ “strabico”, in grado di guardare tanto all’analogia quan-
to alla differenza, tanto all’identità quanto all’alterità, tanto al globale
quanto al locale, nel tentativo di decifrare le dinamiche sottese alla
lotta che si muove intorno alla cultura e al senso. Una lotta che, come
sostiene l’autore sin dall’introduzione, “si fa a colpi di traduzioni: tra-
duzioni fatte, traduzioni contestate, traduzioni mancate, traduzioni
distrutte” (ibid, p. ).
Nasce così Imperfette traduzioni, un’opera densa e articolata il cui
intento è proprio quello di scandagliare simili processi traduttivi ad-
dentrandosi nei domini più vari, dalle forme del mondo alla relazione
tra consumo, soggettività e cittadinanza, dalle comunicazioni di massa
e i nuovi media alle città che abitiamo e i processi soggiacenti alla
creazione di nazioni, comunità e popoli.


 Simona Stano

Ad aprire e incorniciare le diverse analisi, un’accurata digressione


teorica nell’ambito della semiotica culturale: già nell’introduzione,
il ricercatore sardo propone un rapido excursus che, partendo dalla
concezione saussuriana () di una semiologia intesa come “scienza
che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale”, giunge a
più moderne visioni in ambito nazionale (Eco , , , ,
; Fabbri , ; Fabbri e Marrone ; Violi ; Pezzini
; Marsciani , ecc.), ma anche europeo (Greimas , ,
; Rastier ; Fontanille , ; Landowski ) e americano
(Schönle ; Machado ), segnalando infine alcune riletture (Lo-
russo ; Migliore ) dell’opera di Jurij M. Lotman — punto di
riferimento ineludibile non solo per i diversi saggi che compongono
il libro, ma per la stessa indagine semiotica in ambito culturale —
e mettendo in evidenza come, a differenza del passato, la semiotica
della cultura sia oggi tornata al centro dell’attenzione di numerosi
studiosi. Un’attenzione rinnovata di cui Sedda si fa portavoce in prima
persona, chiamando in causa la disciplina come “spazio di traduzione”:
nel primo capitolo, costruito a partire dall’introduzione al volume di
Lotman Tesi per una semiotica delle culture () e da alcune relazioni
tenute in ambito internazionale, il ricercatore sardo affronta quindi
l’interessante questione del ruolo della semiotica e del suo soggetto —
identificato come soggetto politico —, oltre ad alcuni concetti chiave
come quelli di traduzione, prensione, memoria culturale e confine, oscil-
lando instancabilmente tra piano teorico ed esempi applicativi, senza
mai perdere di vista il raffronto tra diversi approcci e discipline.
Il secondo capitolo, Le forme del mondo, è invece dedicato all’analisi
del glocal, quella tensione locale–globale, e insieme universale–particolare,
che, secondo l’autore, ci invita a cogliere e ripensare “i dispositivi
strutturali che hanno dato e danno forma alle nostre esistenze” (Sedda
, p. ). Un invito che Sedda accetta volentieri, spaziando dalla
storia alla filosofia, dalla dimensione corporea alla letteratura, per
esplorare le molteplici forme e relazioni del “mondo di mondi” (ibid,
p. ) che abitiamo.
A partire dal terzo capitolo, l’attenzione si sposta su porzioni di
mondo ogni volta diverse, analizzandone configurazioni e articolazio-
ni. Si inizia dunque con le dinamiche di soggettivazione nello spazio
occidentale contemporaneo (cap. ), le quali vengono esplorate in
base alla relazione tra le pratiche e i significati del consumo e della
Franciscu Sedda, Imperfette Traduzioni 

cittadinanza, ovvero a partire dalla coppia strutturante delle figure del


“Cittadino” e del “Consumatore”, per passare poi al sistema dei mezzi
di comunicazione, mediatori e al contempo promotori delle nostre
esperienze quotidiane, e in particolar modo all’incrocio tra rappresen-
tazioni mediatiche e vita quotidiana (cap. ), da un lato, e all’analisi
dei mondi immaginati che popolano la “realtà” in cui viviamo (cap.
), dall’altro. La trattazione abbraccia ancora una volta diversi ambiti
disciplinari, sottolineando in particolar modo i nessi tra semiotica,
antropologia e i cosiddetti cultural studies, per mettere in evidenza
come le narrazioni mediatiche intervengano nella strutturazione e
rappresentazione delle identità, nonché nell’emersione di nuove sen-
sibilità e forme di vita. Gli esempi sono, come sempre, numerosi e
variegati: dalla pratica della ripresa al telegiornale, da Facebook alle
cerimonie olimpiche trasmesse in diretta televisiva, dai flash mob ai
video musicali e ai reality show. E a questi si affianca una raffinata rifles-
sione che, prendendo le mosse da concetti quali quelli di mediascapes
(Appadurai ), effetti di realtà e verità (cfr. Clifford ), mimesis
(Ricoeur –) e poetica del comportamento quotidiano (Lotman
), nonché dalle riflessioni di de Certeau () sui “racconti che
articolano le nostre esistenze e ci insegnano come dovrebbero essere”
(p. ), affronta le tematiche del rapporto tra pratiche e rappresenta-
zioni, della dimensione politica delle narrazioni offerte dai media e
della traduzione del senso tra diversi sistemi culturali, concludendo
che la cultura può essere intesa come “continua messa in forma di
contraddizioni e tensioni che le formazioni semiotiche non eliminano
ma reduplicano, tutt’al più momentaneamente ordinano, comunque
trasformano e rilanciano” (Sedda , p. ).
Con il sesto capitolo, Le forme della città glocale. Percezioni, poteri,
definizioni, ci si sposta invece nell’ambito delle città: punto di sno-
do tra locale e globale, queste costituiscono non soltanto il luogo di
manifestazione della vita quotidiana e della circolazione e dell’incor-
porazione delle sue rappresentazioni, ma anche della genesi della
pluralità del mondo. La riflessione dell’autore si muove quindi su due
binari paralleli, eppure destinati a incontrarsi: da un lato, l’analisi della
città glocale, “dispositivo in cui globalità e località si incrociano e ripro-
ducono ad ogni livello” (Sedda  p. ), e del modo in cui lo studio
della spazialità può delineare la glocalità; dall’altro, l’osservazione di
due esempi, São Paulo e Dubai — a partire in un caso dal corpo e
 Simona Stano

nell’altro dal senso comune —, e la messa in evidenza delle relazioni


tra percezione e senso della città, così come di determinate dinamiche
politico–culturali e particolari “(ri)articolazioni del potere”.
Nel settimo capitolo, L’Albero, i Pali, i Quattro mori, infine, lo stu-
dio della cultura storica sarda e dei simboli che la attraversano e ne
sono attraversati permette all’autore di mostrare i processi traduttivi e
conflittuali soggiacenti all’identificazione e all’identità politica, men-
tre la sezione conclusiva, Dentro lo specchio, segna il passaggio dalla
dimensione collettiva a quella personale, calando il lettore “nel sentire
e nell’agire di un singolo individuo” (Sedda , p. ), l’antropologo
Pira. L’analisi della prefazione de La rivolta dell’oggetto, una delle più
importanti opere antropologiche della e sulla Sardegna, mostra, anco-
ra una volta, come la semiotica della cultura sia essenziale per rendere
conto delle tensioni tra frammenti e totalità, locale e globale, piano
individuale e livello collettivo, oggettività e soggettività.
Un’opera consistente, complessa, intessuta di profonde riflessioni
teoriche, eppure mai disgiunta da rimandi al “reale” ed efficaci esem-
plificazioni: la trattazione è lineare e fluente, gli esempi costanti e
molteplici, i ragionamenti teorici sempre riferiti a diversi ambiti del
sapere e collegati a casi di studio pertinenti e adeguatamente appro-
fonditi, con uno sguardo attento al presente ma allo stesso tempo
conscio dell’importanza della dimensione diacronica e della necessità
di non costringere il dinamismo e le contraddizioni intrinseche alla vi-
ta quotidiana entro rigide e statiche categorizzazioni. Sedda scandaglia
presente e passato, locale e globale, individuale e collettivo, cercando
di cogliere in ogni caso i nessi che tengono insieme visioni opposte e
contraddittorie, in altre parole traducendo, ovvero “facendo passare” —
come vorrebbe l’etimologia del termine — i diversi elementi analiz-
zati da un piano all’altro. E lo fa a partire dal lavoro di ricerca di anni,
agendo come un vero e proprio bricoleur (Lévi–Strauss ; Floch
) che propone soluzioni contingenti riutilizzando e riadattando
non solo le proprie analisi, ma anche gli studi dei grandi padri della
teoria semiotica e di altre discipline, intessendo in questo modo una
vasta ragnatela — o net, per usare una figura più contemporanea e
vicina ad alcune delle tematiche trattate — in cui le connessioni si
fanno così forti da divenire i veri oggetti di indagine.
Un bricolage di teoria, slanci applicativi e indagini più o meno re-
centi, in cui tuttavia la novità è sempre dietro l’angolo. Perché il senso
Franciscu Sedda, Imperfette Traduzioni 

è traduzione in costante divenire. O, meglio, una rete di traduzioni


che, essendo in continuo mutamento, non possono che essere “imper-
fette”. È quindi con una serie di interrogativi che si conclude l’opera,
lasciando aperte numerose questioni e instillando nel lettore il deside-
rio di nuove, ancora inesplorate, traduzioni. D’altra parte, sullo sfondo
di tale “imperfezione” emerge con forza la risposta a una domanda di
fondamentale importanza che l’autore propone sin dalle prime righe:
la semiotica serve alla vita? Pagina dopo pagina, Sedda dimostra effica-
cemente che la risposta a simile interrogativo non può che essere “sì,
doppiamente e continuamente” (, p. ): collocandosi al tempo
stesso “a monte e a valle del nostro vivere nel senso” (ibid., p. ), il
punto di vista semiotico è intrinseco alle nostre azioni e alla nostra
coscienza, anche se abbiamo bisogno di un sapere “scientifico” per
farlo emergere. Ed è proprio a questa necessità che sembra rispondere
l’autore con le sue Imperfette traduzioni, manifestazione concreta del
fatto che la semiotica ci insegna — parafrasando lo studioso ame-
ricano Steven Johnson () — a trovare sempre nuove possibilità
nell’ordinario, tramutando i segni in nuove, avvincenti, sfide.

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NOTIZIE

NEWS
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394017
pag. 321–326 (luglio 2014)

Semiotics at Sichuan University


P J  Z X

The semiotic studies in Sichuan University can be roughly divided


into three phases: a relatively long prehistory (–), the period
of initial development (–), and the period of full development
(–).
Although the term “Fu Hao Xue” (symbology) in China can be
dated back to , when it was invented by the Harvard professor
Zhao Yuanren independently of both Saussure and Peirce, it didn’t
draw wide–spread academic attention until the s, when aca-
demics Sichuan University started to develop their own interdisci-
plinary semiotics. The first paper on semiotics published by Sichuan
University was “The Semiotic Characteristics of Traditional Cul-
tural Classics and Interpretations of Classics” written by Prof. Deng
Shengqing, who borrowed the theories of Saussure and Jakobson
to discuss the “poetic encoding” of Chinese classics, thus initiating
the prehistory of semiotics. During the decade from  to ,
scholars from Sichuan University published dozens of semiotic papers
based on a twin–track approach: the theoretical introductions of the
western classical semiotics with their preferences to those French
semioticians’, such as Julia Kristeva, Roland Barthes, and Christian
Metz; and the endeavors to develop the applied semiotic approaches
in an interdisciplinary way. Most noteworthy in this period is the
study of Prof. Li Siqu on advertising semiotics, which indicates that
the study on semiotics in Sichuan University has been closely linked
with communication from the very beginning. .
In , Sichuan University held the “Cross–Strait Academic Semi-

. Zhao Yiheng :.


. Deng Shengqing :–.
. Li Siqu published a series of papers on advertising semiotics from  to  and
is regarded as one the founders of advertising semiotics in China.


 Peng Jia and Zhao Xingzhi

nar on Semiotics”, and a semiotic school in Sichuan University began


to take shape. Li Siqu further promoted advertising semiotics and pub-
lished the first monograph thereof in China; Prof. Jiang Rongchang
published his monograph on media semiotics, and Prof. Wu Xing-
ming launched scathing critique on mass consumer society: all these
studies have greatly propelled the development of semiotics in applica-
tion fields. Moreover, semiotic scholars from Sichuan University have
also showed an obvious interest in Chengdu culture and conducted
in–depth semiotic analysis on local cultural cases.
In , Prof. Henry (Yiheng) Zhao left University of London and
resettled at the Sichuan University, which marked the beginning of a
fast–developing period for semiotics. He founded China’s first post-
graduate program on semiotics and established ISMS. In , the first
website devoted to semiotics in China kicked off(www.semiotics.net.cn)„
with Rao Guangxiang as its webmaster, followed by the publication of
the half–yearly journal Signs & Media. A series of translation projects
“Library of Semiotics Today”also started running, with  most in-
teresting books by western contemporary semioticians already pub-
lished, and  more coming soon
In , Prof. Zhao published his major work Semiotics: Principles
and Problems, which, a prize–winner, ran three prints in  years. The
first reference book for semiotics A Dictionary of Semiotic & Media
Studies was published in . With the enthusiastic response shown
by students around the country, ISMS has been winning greater influ-
ence. Its research has acquired a few characteristics of its own:
The research territory of ISMS is wider than usual. Much work, for
instance, has been done on video games, brand, fashion, tourism, gift,
popular culture, etc. ISMS now has developed an special branch Semi-
otics on Commondities and Cultural Industry. Besides those scholars
mentioned above, the study of Rao Guangxiang on semiotics of adver-
tising inherited and promoted the tradition of advertising semiotics in
Sichuan University; and the industrial semiotics by Prof.Hu Yirong, the
semiotic studies of martial arts novels by Prof.Sun Jinyan, semiotics of
Fantasy by Fangfang and so on all achieved a zero breakthrough in
. Two examples of this are Qiu Yue and Qiu Changpei’s “Understanding Primary
Symbols of Ecology: Entering the Kuanzhai Alley”, Zhang Bi and Xin Zhao’s “Defamil-
iarization of Idols: An Semiotic Interpretation of Zhuge Liang in The Romance of the Three
Kingdoms”.
Semiotics at Sichuan University 

the academic circle of China. Integrating the semiotics with Marxism,


psychoanalysis, gender studies phenomenology, existentialism and
hermeneutics, and post–structuralism. interdisciplinary research has
been an ISMS focus
ISMS encourages an innovative reinterpretation of Chinese tradi-
tional semiotic heritage.. The studies of Prof.Zhu Dong and Zhang
Jinsong were especially representative, which interpreted the semi-
otics of Confucianism, Buddhism and Taoist classics, and summarized
key semiotic ethics, etiquette semiotic and general semiotic principles
such as geomancy semiotic system in The Book of Changes, Mingism
and Mohism, the congruity of Peirce’s thought with the semiotic and
discourse system of Carving a Dragon at the Core of Literature. Their
semiotic interpretations of Chinese classics are highly original and
innovative.
literary semiotics has been one of the greatest academic strength of
ISMS. Several key scholars of Sichuan academic group once majored
in “Comparative Literature”, this was not by accident. As pointed
out by Prof. Chiang Hanliang, “Comparative Literature” is a disci-
pline dealing with literary relations, while “Semiotics” is a discipline
establishing relations, so the two were inherently interactive. As it
were, the Literary Semiotics, the first monograph of Zhao Yiheng on
semiotics published in , indicated the tight bond between semi-
otic scholars of Sichuan University and “Comparative Literature”.
The “semiotic poetics” system put forward by Prof. Tang Xiaolin also
marched from the semiotic theory of the comparative study field to
the construction of cultural semiotic poetics. Both the poetry semi-
otics by Prof. Qiao Qi and the study by Prof. Wen Yiming on the
semiotics of the Dream in Red Mansions went deep into Chinese litera-
ture from the point of view of semiotics, which enriched the theory
of literary semiotics.
ISMS is particularly interested in semiotics and art. Both the study
by Prof. Lu Zhenglan on semiotics of popular music and the study
by Prof. Wang Lixin on film and television semiotics were based on

. Chiang Hanliang :.


. It is interesting to add here that several leading semioticians in Chinese academic
circles all majored in comparative literature, including Zhao Yiheng in mainland China,
Chiang Hanliang in Taiwan, and Ding Ersu in Hongkong.
 Peng Jia and Zhao Xingzhi

detailed and insightful observations of Chinese art, which put forward


a relatively independent theoretical system of art semiotics, with
attentions especially paid to the semiotic rhetorics of art.
Besides, the Institute of Semiotics & Media Studies has also held
the following activities:

) A monthly seminar presided over by Prof. Zhao Yiheng, Prof.


Feng Xianguang, Prof. Fu Qilin and Prof. Tang Xiaolin„ de-
signed to discuss semiotic studies and topics with post–Doc
researchers, PhD candidates, and advanced undergraduate stu-
dents in semiotics, literature, arts, and media studies;
) A series of publications on line: the e–zine Bulletin of Semiotics
& Media Studies is published monthly, reaching thousands of
academics in China. A BBS on the semiotics open to all Chinese
students discussing problems on semiotics has been a favorite
venue for Chinese students to debate. An official microblog to
update the latest achievements in time has attracted the gaze of
young eyes.
) Wide relationship established with European and American
semiotic scholars to hold lectures and promote academic ex-
change between China and the globe.

With all these ISMS efforts, semiotics has been spreading like a
prairie fire. In fact, some scholars have already put forward the title
of “Sichuan Semiotics School” to describe all the scholarly activities
mentioned above. Sichuan, known for its wise men all along in history,
will certainly gather more and more semiotic talents in the future.

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DOI 10.4399/978885487394018
pag. 327–334 (luglio 2014)

Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes

Mohamed Bernoussi est professeur habilité. Il enseigne la sémio-


tique générale au Département de Français de la Faculté des Lettres
de Meknès et la sémiotique de la culture marocaine au master Fran-
cophonie et cultures méditerranéennes à l’Université de Fès. Il a été
professeur invité à l’Institut Supérieur des Sciences Humaines de
l’Université de Bologne, au Master Gusto à l’Université de Palerme et
au CEISME à Paris III Sorbonne Nouvelle.
Ludmila Boutchilina Nesselrode, enseignante, traductrice et inter-
prète russo–française, master/s en sciences de l’éducation et en langues
et littératures françaises ; collabore à l’équipe « Recherche sur la plura-
lité esthétique » de l’Ecole doctorale « Pratiques et théories du sens »
(Paris– Vincennes Saint–Denis) ; domaine privilégié de recherche est
la sémiotique historique des cultures, à savoir la sémiotisation du rap-
port de la psychologie historique du langage intérieur à l’esthétique
de la création verbale ; ceci en liaison avec le développement du regard
transdisciplinaire sur l’apprentissage compris dans la perspective an-
thropologique comme « la tendance instinctive à acquérir un art » (P.
Tort) ; les dernières publications portent sur la communauté de pro-
blèmes posés par Vygotski, Lotman et Greimas en sciences humaines
et par conséquent sur la compatibilité de leurs approches des faits
dits littéraires : « Le statut paradigmatique du langage chez Vygotski.
Aspect méthodologique du problème » (), « Lev S. Vygotski et la
sémiotique de la culture en développement » (), « Le mot, entre
sociolecte et idiolecte. A la croisée de Greimas et de Vygotski » ().
Gérard Chandès, professeur en Sciences de l’Information et de la
Communication, Centre de Recherches Sémiotiques, Université de
Limoges. Médiéviste de formation. Thèmes de recherche : médiation
culturelle, sémiotique et anthropologie de l'imaginaire, sémiologie
de l’environnement sonore. Sélection de publications : — « Stations


 Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes

de radio confessionnelles : leur présence sonore. » Communication ,


 () http://communication.revues.org/. — « Sonorités du
merveilleux et du spirituel : Booz endormi », Colloque Merveilleux et
spiritualité, Arras () — « Réplicateurs sonores et visuels du monde
néomédiéval », Médiévalisme. Modernité du Moyen Age (). — « La
sonification de l'environnement : icônes sonores de Windows », Revue
française des sciences de l'information et de la communication,  ()
http://rfsic.revues.org/ – « La valeur des sons anecdotiques », La
valeur en sémiotique, éd. A. Biglari (à paraître juin ). — Les mots du
son. Sémiotique du monde sonore, éd. G. Chandès, J.–F. Bordron et Fr .
Bobrie , éd. Solilang (à paraître, juin ). Autres publications dans
Actes Sémiotiques, http://epublications.unilim.fr/revues/as/

Eleonora Chiais is a PhD student in “Sciences of Language and Com-


munication” at the University of Turin. She graduated in “Mass media
Communication Studies” in Turin with a thesis about the Charming
Prince . and the media’s representation of the ideal man and her
final dissertation received the award for the best thesis in the faculty
of “Lettere e Filosofia” in the academic year /. Journalist she
works in a local newspaper and periodically writes articles about semi-
otics of fashion for a fashion magazine. She has also published various
scientific articles on fashion. She is currently writing a doctoral thesis
on fashion accessories in fairy tales.

Alessandra Chiappori is a PhD student in “Sciences of Language


and Communication” at the University of Turin. She graduated in
“Mass media Communication Studies” in Turin with a thesis about
the novel “Zazie dans le metro” by Raymond Queneau, published in
the national catalog PubbliTesi with the patronage of MIUR. Journalist
she works in several local newspapers writing about tourism, culture
and society. She is currently writing a doctoral thesis on semiotics
of literature focused on the construction and representation of the
space within some works by Italo Calvino. She has presented works
about semiotics and literature, social networks, engagément littéraire
in some national and international universities.

Daniel F. Cortés es Magister en Análisis del Discurso por la Universi-


dad de Buenos Aires. Su campo de investigación es el discurso político,
Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes 

con especial atención a la problemática ideológica y el análisis crítico


del discurso. Dicta cursos y seminarios en la Universidad de Buenos
Aires y la Universidad Nacional de Quilmes. También se desempeña
como profesor en institutos de formación docente de la Provincia de
Buenos Aires. El presente artículo es parte de su tesis de maestría “El
discurso de la Revolución Libertadora: la reeducación democrática
del pueblo peronista”.
Gian Marco De Maria è Dottore di Ricerca in Teoria e Analisi del Te-
sto. Ha insegnato per diversi anni Storia del Cinema presso la Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino e Linguaggio Cinema-
tografico all’interno del corso di Laurea in Ingegneria del Cinema
del Politecnico di Torino. È stato autore di diversi saggi di argomento
cinematografico soprattutto dedicati alla cultura americana. Nel 
ha pubblicato una monografia, Due o Tre cose che so di Lei. Aspetti della
messa in scena della città americana dagli anni Sessanta alle soglie del Due-
mila, Celid, Torino. Nel  ha curato un volume sulla “Previsione
nelle scienze umane” dal titolo Ieri oggi domani, Aracne editrice, Roma,
. Dal  a tutt’oggi svolge attività di ricerca presso il Centro
Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione dell’Università di
Torino.
Jia Peng is associate professor at the College of Foreign Languages and
Cultures, Southwest University for Nationalities, and researcher at the
Institute of Semiotics and Media Studies, Sichuan University. She is the
Associate Editor in Chief of Signs & Media, and a column–organizer of
Art Review. Her research fields include: ecosemiotics, ethnosemiotics,
art criticism, and minority literature.
Yunhee Lee is Research Professor in the Semiosis Research Center,
Hankuk University of Foreign Studies, Seoul. Her research interests
include Peirce’s semiotics, narrative, consciousness studies, and in-
terpreting activity. Her publications include Narrative Cognition and
Modeling in New Media Communication from Peirce’s Semiotic Perspective
(), The Semiotic Self and Narrative Mediation in the Digital Culture: a
Self–Portrait as Autobiographical Writing for Consciousness Activity (),
and Semiotic Understanding of Mimetic Action from Peirce’s Perspective:
Towards Narrative Cognition and Symbolization ().
 Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes

Massimo Leone Massimo Leone is Research Professor of Semiotics


and Cultural Semiotics at the Department of Philosophy, University
of Torino, Italy. He graduated in Communication Studies from the
University of Siena, and holds a DEA in History and Semiotics of
Texts and Documents from Paris VII, an MPhil in Word and Image
Studies from Trinity College Dublin, a PhD in Religious Studies from
the Sorbonne, and a PhD in Art History from the University of Fri-
bourg (CH). He was visiting scholar at the CNRS in Paris, at the
CSIC in Madrid, Fulbright Research Visiting Professor at the Graduate
Theological Union, Berkeley, Endeavour Research Award Visiting
Professor at the School of English, Performance, and Communication
Studies at Monash University, Melbourne, Faculty Research Grant
Visiting Professor at the University of Toronto, Mairie de Paris Visiting
Professor at the Sorbonne (Paris IV), and Visiting Professor at the Col-
legium of Lyon (Center for Advanced Studies of the Ecole Normale
Supérieure of Lyon). His work focuses on the role of religion in mod-
ern and contemporary cultures. Massimo Leone has single–authored
four books, Religious Conversion and Identity – The Semiotic Analysis of
Texts (London and New York: Routledge, ;  pp.); Saints and
Signs – A Semiotic Reading of Conversion in Early Modern Catholicism
(Berlin and New York: Walter de Gruyter, ;  pp.), Sémiotique de
l’âme,  vols (Berlin et al.: Presses Académiques Francophones, ),
and Enunciazioni: Percorsi di semiotica della religione (Rome: Aracne,
;  pp.); edited several collective volumes; and published more
than three hundred articles in semiotics and religious studies. He has
lectured in Africa, Asia, Australia, Europe, and North America. He
is the chief editor of Lexia, the Semiotic Journal of the Center for
Interdisciplinary Research on Communication, University of Torino,
Italy and member of the jury that determines the Mouton d’Or Prize
given to the best article published in the internationa journal Semiotica
(de Gruyter) in a year (, , , chair of the jury in ).

Hamid Reza Shairi est professeur au département de français à


l’Université Tarbiat Modares de Téhéran. Il est spécialiste dans le
domaine de la sémiotique du discours et des sciences du texte. Il a été
directeur de son département pour une durée de  ans. En collabo-
ration avec l’Université de Limoges et son représentant scientifique
Jacques Fontanille, l’Université d’Ispahan et le Scac, il a fondé une
Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes 

Université d’été (–), où des séminaires et des ateliers en sé-


miotique du discours ont été assurés par des professeurs français et
iraniens. Hamid Reza Shairi a été aussi l’un des fondateurs de l’Equipe
de sémiotique des arts à l’Académie des Arts de Téhéran (–).
Il fait également partie du Comité fondateur de l’Association des
professeurs de français à Téhéran. En collaboration avec d’autres sé-
mioticiens, il a fondé le Cercle sémiotique de Téhéran (). Au
cours de son deuxième mandat de la direction du département de
français, Hamid reza Sahiri participe activement à l’ouverture de la
section du doctorat de didactique de français () à l’Université
Tarbiat Modares. Il est actuellement le Rédacteur en chef de la revue
scientifique Recherches linguistiques à la Faculté des sciences humaines
de l’Université Tarbiat Modares. Il est également membre du Comité
scientifique de plusieurs revues françaises et persanes en Iran et à
l’Etranger. Il dirige actuellement l’équipe de recherche sémiotique à
la Maison des artistes de Téhéran. Hamid Reza Shairi est aussi metteur
en scène et il a réalisé et représenté avec ses étudiants (entre  et
) des spectacles (Représentés dans des salles professionnelles de Té-
héran) en français dont l’un (de Molière) a été représenté à Versailles
en . Il est membre actif du Comité scientifique de plusieurs asso-
ciations en Iran et à l’Etranger (CeRes, AJCS, IASS, AFS. . . ). Hamid
Reza Shairi a réalisé de nombreuses publications nationale et interna-
tionale en français et en persan, a assuré un grand nombre d’ateliers
et de séminaires en Iran et à l’Etranger. Il est l’auteur de plusieurs
ouvrages sémiotiques (Les préalables de la Nouvelle Sémiotique, Samt,
; Analyse sémiotique du discours, samt, ; Pour une sémiotique du
sensible, Editions Elmi va Farhangui, ; Sémiotique visuelle, Editions
Sokhan, ;) Il prépare en ce moment un nouvel ouvrage intitulé :
Sémiotique de la littérature. Hamid Reza Shairi a été médaillé deux fois :
une première fois élu comme meilleurs directeur du Département et
une deuxième fois élu comme meilleur professeur, par le haut Conseil
Scientifique de l’Université Tarbiat Modares.

María Luisa Solís Zepeda is Research Professor at the Program of


Semiotics and Studies of Signification, Autonomous University of
Puebla, Mexico. She is member of the National System of Researchers
(level ). She is a PhD graduate from Limoges University (France) and
School of Anthropology and History (Mexico) in Sciences of Language
 Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes

and Semiotics. María Luisa Solís Zepeda holds a Master’s Degree


in Aesthetics and Arts and a bachelor’s in Linguistics and Hispanic
Literature (University of Puebla). Her lines of research are: semiotics
of the affective condition, semiotics and aesthetics and analiysis of
religious discourse. She authored several articles for scientific reviews
such as: Nouveaux actes sémiotiques (Limoges), Lexia (Turin), Semiotica
(Toronto) and Argencolor (Buenos Aires).

Simona Stano is a PhD student in Sciences of Language and Commu-


nication at the University of Turin (Italy) and in Science of Communi-
cation at the University of Lugano (USI, Switzerland). From February
to August  she has been spending a period of time as a visiting
research scholar at the University of Toronto (Canada). She gradu-
ated in Communication Studies at Turin University, and she holds
a postgraduate degree in Intercultural Studies from the “Universitat
Autònoma of Barcelona” (UAB), Spain. She is currently writing a doc-
toral thesis on semiotics of food and cultural identity and has several
(forthcoming and published) articles on the topic, many of which
presented as papers at international symposia. She has also published
several articles on urban and visual studies, semiotics of culture, food
studies, media studies and narratology.

Federica Turco è dottore di ricerca in Scienze e Progetto della Comu-


nicazione. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, conseguita
presso l’Università di Torino con una tesi sul rapporto tra eventi me-
diali, immagine urbana e semiotica dello spazio, ha condotto, nello
stesso Ateneo, una ricerca di dottorato dal titolo «Eccentriche, nomadi
o cyborg? Rappresentazioni di donne nella fiction seriale italiana», in
cui ha indagato, in chiave socio–semiotica, il rapporto tra immagine
femminile e televisione, proponendo un proprio modello di analisi
gender oriented dell’audio–visivo. Ha collaborato, come ricercatrice,
con diversi Centri di Ricerca dell’Università di Torino e associazioni
locali, tra cui l’OCCS (Osservatorio Campagne di Comunicazione
Sociale), il CIRSDe (Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi del-
le Donne), l’OPET (Osservatorio Politiche degli Enti Territoriali) e
OMERO (Olympic and Media Event Research Observatory), condu-
cendo, negli anni, studi su: le campagne di comunicazione sociale e il
territorio, le strategie di comunicazione delle politiche degli enti terri-
Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes 

toriali, le pari opportunità e gli studi di genere, la comunicazione dei


grandi eventi e la semiotica dello spazio, media ed opinione pubblica.
Insegna semiotica all’Istituto Europeo di Design di Torino.

Ugo Volli, nato a Trieste nel , laureato in Filosofia a Milano nel
, è professore ordinario di Semiotica del testo presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, dove insegna pure Socio-
semiotica. Fino all’anno accademico – ha insegnato Filosofia
del linguaggio all’Università di Bologna. È presidente del Corso di
laurea specialistico in Comunicazione multimediale e di massa dell’U-
niversità di Torino, dove dirige anche il Centro Interdipartimentale
di studi sulla comunicazione e partecipa al collegio dei docenti del
Dottorato in Comunicazione. Fa parte anche del collegio dei docenti
del dottorato ISU di semiotica presso l’Università di Bologna. È mem-
bro della commissione comunicazione dell’Università di Bologna e di
quella della CRUI. Ha tenuto corsi e conferenze in numerose istituzio-
ni e università italiane e straniere fra cui l’ISTA (International School
of Theatre Anthropology), di cui è membro del comitato scientifico,
la New York University e la Brown University di Providence – R.I.
(USA), in ciascuna delle quali stato visiting professor per un semestre.
Inoltre ha svolto varia attività didattica alla Columbia University, Haute
Ecole en Sciences Sociales (Paris), Brooklyn College, Universidad Na-
cional di Lima, Universidad Nacional di Bogotà, Università di Genéve,
Bonn, Madrid, Montpellier, Augsburg, Vienna, Zagabria, Helsinki,
Sofia, Kassel oltre a numerosi atenei italiani. È professore a contratto
di Semiotica, presso il Corso di laurea in Scienze della Comunicazione
dell’Università Vita Salute di Milano.

Xingzhi Zhao is Ph.D. Candidate in Semiotics and Communication


Studies of Sichuan University, editor of the bilingual journal Signs &
Media, member of ISMS Research Team. His current research fields
mainly cover Peircian Semiotics and social semiotics of Gift–giving.

Francesco Zucconi is currently Adjunct Professor of Film Studies at


Accademia Albertina di Belle Arti of Turin and NABA in Milan. He
received his PhD in History of Art and Visual Studies from the Isti-
tuto Italiano di Scienze Umane (SUM–SNS). Member of the scientific
board of “Omar Calabrese” Study Center, he is part of the editorial
 Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes

staff of “Carte Semiotiche. Rivista internazionale di semiotica e teo-


ria dell’immagine” and “Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema
e visioni”. His publications include: La sopravvivenza delle immagini
nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità (Milano–Udine );
Sguardi incrociati. Cinema, testimonianza, memoria nel lavoro teorico di
Marco Dinoi (co–ed., Roma ); Lo spazio del reale nel cinema italiano
contemporaneo (co–ed., Genova ). He has also published several
articles in scientific journals such as “Cinergie”, “Comunicazioni So-
ciali”, “E|C”, “Fata Morgana” and “Lexia”.
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394019
pag. 335–339 (luglio 2014)

Call for papers


Cibo e identità culturale

Lexia, la rivista internazionale peer–reviewed di CIRCE, il Centro In-


terdipartimentale di Ricerche sulla Comunicazione dell’Università di
Torino, invita a proporre contributi da pubblicare nel n. – della
nuova serie.

. Tema

“Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”, recita un aforisma divenuto


celebre e ormai onnipresente, dai numerosi blog di cucina ai moderni
trattati sul gusto. Una formula che, nel tempo, ha assunto conno-
tazioni diverse rispetto all’accezione introdotta da Brillat–Savarin in
Fisiologia del gusto () e che, prese le dovute distanze da ogni sorta di
determinismo, continua a essere di estrema attualità nei suoi rimandi
al tema del rapporto tra cibo e questioni identitarie.
Lexia invita a una riflessione sui legami tra i segni, i testi, i discorsi
e le pratiche inerenti all’universo gastronomico, da un lato, e i processi
di costruzione e le forme di espressione dell’identità culturale — o,
meglio, delle identità culturali —, dall’altro.
In particolare, si sollecita l’invio di contributi che prendano in
considerazione i seguenti nuclei tematici:

)  “()–”. Se nella cucina si traduce inconscia-


mente la struttura di una società, come ha messo in evidenza
Lévi–Strauss (), l’universo gastronomico va analizzato in
quanto depositario delle tradizioni e delle identità di gruppo.
Strumento dell’identità culturale, il cibo si configura anche e
soprattutto come luogo di incontro tra diverse identità e cul-
ture, tanto più in un mondo segnato da continui spostamenti,


 Call for papers. Cibo e identità culturale

incroci e contaminazioni. Quali sono, dunque, le caratteristiche


delle diverse “semiosfere alimentari”? Quali i segni, i discorsi e
le pratiche che le caratterizzano? Quali le forme di testualità de-
positate da simili discorsi e pratiche? E in che modo avvengono
i processi di traduzione tra una semiosfera alimentare e l’altra?

)    . La sfera alimentare è di fondamentale


importanza in relazione all’identità religiosa: dalle prescrizioni
alimentari alle offerte di cibo alle divinità, dall’ostia eucaristica
allo yajña vedico, dai periodi di digiuno agli episodi narrati dai
testi sacri, la religione è intrisa di segni, testi e pratiche in cui il
cibo gioca un ruolo fondamentale. In che modo la materia–cibo
emerge come segno religioso? Quali sono i riti e le pratiche
che accompagnano una simile trasformazione? Quali gli effetti
di senso che ne scaturiscono? E in che modo la semiotica può
rendere conto di simili processi?

)      . La cucina, e più


in generale l’alimentazione, sono state spesso paragonate al
linguaggio e alla comunicazione: se dal punto di vista antro-
pologico, la nutrizione rimane indubbiamente uno dei primi
fabbisogni dell’umanità, non bisogna dimenticare che, una volta
soddisfatto, tale bisogno si struttura articolandosi in un sistema
di differenze significative (Barthes ). Quali sono, dunque,
le caratteristiche proprie di un simile linguaggio? Quali le sue
forme espressive? E, ancora, quali mutamenti hanno subìto
questi aspetti nel tempo e quale configurazione sono venuti ad
assumere nell’era contemporanea, caratterizzata da numerosi
flussi migratori e dall’avvento della cosiddetta “globalizzazione
alimentare”? Molto può dire, inoltre, l’analisi dei linguaggi e
delle forme di comunicazione che riguardano l’universo ali-
mentare: dal cinema alle più svariate forme artistiche, dalle
degustazioni enogastronomiche ai blog di cucina, dalla foto-
grafia alla moda e al design, il cibo è al centro di numerosi
discorsi che lo analizzano e raccontano, investendolo di molte-
plici valori e inserendolo in programmi narrativi multiformi.
Quali sono le tracce lasciate da simili discorsi? E in che modo
simili processi influiscono sulla nostra percezione della realtà?
Call for papers. Cibo e identità culturale 

Quali sono, infine, le potenzialità dei mezzi di comunicazione


di massa nei confronti della rappresentazione del cibo e del
gusto e, in particolare, della loro dimensione culturale?

Questi tre ambiti di riflessione sono aperti non solo a tutte le


impostazioni semiotiche, ma anche agli apporti di discipline quali l’an-
tropologia, la sociologia o altre branche afferenti ai cosiddetti “food
studies”. Particolarmente apprezzati saranno i contributi in grado
di unire una riflessione teorico–metodologica approfondita (qual è il
ruolo della semiotica in tale ambito di studi? In che modo l’approccio
semiotico può interagire con altre discipline al fine di favorire l’anali-
si delle problematiche sopra esposte?) con un’applicazione analitica
rigorosa ed euristica a case studies precisi e dettagliati.
I contributi, max . battute, foglio di stile Lexia (http://lexia.
to.it/rivista-lexia/), con un abstract in inglese di  parole max e
 parole chiave in inglese, dovranno essere inviati a

Simona Stano: simona.stano@gmail.com

Lingue: inglese, francese, italiano, spagnolo [altre lingue se sono


disponibili revisori].

. Calendario

— Lexia sollecita l’invio di articoli entro il  dicembre .


— Il responso dei referee sarà comunicato ai potenziali autori
entro il  gennaio .
— Gli articoli di cui i referee richiedono una revisione dovranno
essere inviati con le opportune modifiche entro il  marzo .
Gli articoli modificati che a giudizio del comitato scientifico
e dei referee non soddisfino le richieste di questi ultimi non
saranno pubblicati.
— La pubblicazione del volume è prevista per il  giugno .
 Call for papers. Cibo e identità culturale

. Referaggio

Ogni autore che abbia sottoposto un articolo a Lexia s’impegna a fare


da referee anonimo per un massimo di tre articoli, anch’essi anonimi,
inviati a Lexia per questo numero o per quelli successivi.
Lexia adotta i seguenti criteri di referaggio:

) Competenza: Gli articoli non sono inviati sempre a un referee il


cui campo è identico a quello dell’argomento dell’articolo. Non
bisogna essere qualificati specificamente in un campo per essere
un referee costruttivo. In effetti, un articolo eccellente sarà capace
di comunicare al di là del suo campo strettamente definito. Se,
tuttavia, un articolo è così distante dal campo del referee che questi
non si sente qualificato a giudicarne i meriti, il referee è pregato
di restituire l’articolo all’editore, che cercherà un altro referee.
) Confidenzialità: I referee ricevono materiale non pubblicato, che
deve essere trattato come confidenziale fino a che non venga
pubblicato. Essi devono distruggere tutte le copie elettroniche
e a stampa degli articoli ancora in bozza e le stesse relazioni
di referaggio una volta che essi abbiano ricevuto conferma
dall’editore che tali relazioni sono state ricevute. I referee non
devono rivelare ad altri quali articoli hanno giudicato; essi non
devono condividere tali articoli con nessun altro.
) Conflitto di interessi: I referee devono dichiarare ogni conflitto
d’interesse od ogni altro fattore che possa condizionare la loro
indipendenza – per esempio nel caso in cui essi abbiano rice-
vuto l’articolo di un collega o di un rivale intellettuale. In caso
di conflitto d’interessi, i referee devono notificare all’editore la
loro impossibilità a giudicare un certo articolo.
) Merito intellettuale: Un articolo deve essere giudicato solo in
base ai suoi meriti intellettuali. Critiche personali o critiche
basate unicamente sulle opinioni politiche o sociali del referee
non sono accettabili.
) Piena spiegazione: Giudizi critici o negativi devono essere piena-
mente supportati da riferimenti dettagliati all’articolo in esame
o ad altre fonti pertinenti.
) Plagio e copyright: Se un referee ritiene che un articolo possa
contenere fenomeni di plagio o che possa ledere i diritti di un
Call for papers. Cibo e identità culturale 

altro autore, deve notificarlo all’editore della rivista, fornendo


le opportune citazioni per sostenere l’accusa.
) Rapidità di risposta: I referee sono tenuti a rispondere entro tre
settimane. Questo consente di fornire un feed–back rapido agli
autori.

. Recensioni

Lexia accetta in ogni momento proposte di recensione di opere di


argomento semiotico. Opere di argomento semiotico di cui si auspica
una recensione da parte di Lexia possono essere inviate all’indirizzo
che segue:

Massimo Leone
Università di Torino
Dipartimento di Filosofia
Via Sant’Ottavio 
 Torino

. Norme redazionali

Ampiezza minima del testo: . battute, spazi inclusi


Ampiezza massima del testo: . battute, spazi inclusi
Lingua: Italiano, inglese, francese o spagnolo; Attenzione: non sotto-
porre articoli che non siano stati revisionati da un madre lingua
Immagini: per un massimo di , da fornire separatamente in alta
risoluzione ( dpi), avendone acquisito il copyright prima dell’e-
ventuale pubblicazione
Abstract e key-words: ogni testo deve essere corredato di un abstract in
inglese di minimo  parole e al massimo  parole, e di cinque
parole chiave, sempre in inglese
Invio: I testi devono essere inviati a: massimo.leone@unito.it
Foglio di stile: Lexia (http://lexia.to.it/rivista-lexia/)
Lexia. Rivista di semiotica, 15–16
Estasi
ISBN 978-88-548-7394-0
DOI 10.4399/978885487394020
pag. 341–345 (luglio 2014)

Call for papers


Food and Cultural Identity

Lexia, the international, peer–reviewed journal of CIRCE, the Center


for Interdisciplinary Research on Communication of the University of
Torino, Italy, invites contributions to be published in issue n. – of
the new series.

. Topic

“Tell me what you eat, and I will tell you who you are”. From the nu-
merous cooking blogs inhabiting the Internet to modern treatises on
taste, this aphorism by Brillat–Savarin () has become very famous
and omnipresent. Over time, moreover, such formula has acquired dif-
ferent connotations with respect to the acceptation introduced by the
French scholar in The Physiology of Taste. Taken adequate distance from
any kind of determinism, it is still extremely topical in its references
to the issue of the relation between food and identity.
Lexia calls for a reflection on the links existing between the signs, texts,
discourses, and practices concerning the gastronomic universe, on the
one hand, and the processes of construction and the forms of expression
of cultural identity — or, better, identities — on the other hand.
Specifically, contributors are invited to take into consideration the
following topics:

) “()–” . According to Lévi–Strauss (), the


cooking of a society is a language in which it unconsciously
translates its structure. The gastronomic universe therefore
needs to be conceived and analysed as the depository of groups’
traditions and identities. As such„ food represents the first


 Call for papers. Food and Cultural Identity

way to come into contact with different identities and cultures,


especially in the contemporary world, which is characterised
by a number of encounters, intersections, and contaminations.
How can different “foodspheres” be conceived and examined?
Which signs, discourses, and practices characterise them? And
which forms of textuality are deposited by such processes?
Finally, how do the processes of “translation” across different
foodspheres take place?

)    . The food universe plays a cru-


cial role with respect to religious identity: from food taboos
to the offerings of various products to the gods, from the Eu-
charist host to the Vedic yajña, from the periods of fasting to
the episodes described in different sacred texts, religion is full
of signs, texts, and practices in which food plays a key role.
How does the food–material emerge as a religious sign? Which
rituals and practices are related to such processes? What are
the effects of sense arising from them? And how can semiotics
describe such phenomena?

)     . Cooking, and


more generally food, are often compared to language and com-
munication. From an anthropological perspective, nutrition is
undoubtedly the first human need; however, once satisfied, this
need is structured into a system of differences in signification
(Barthes ). How is such a language structured? What are its
forms of expression? Finally, how have these aspects changed
over time? And which configurations have they come to assume
in the contemporary world, which is characterised by numerous
migratory flows and displacements, as well as by the advent of
the so–called “food globalisation”? In addition to the analysis of
food as a language and a system of communication, it is very
interesting to consider the languages and forms of communica-
tion related to the food universe: from cinema to arts, from wine
and food tasting to cooking blogs, from photography to fashion
and design, food is put in the middle of many discourses that tell
and analyse it, at the same time investing it with multiple values
and inserting it in multiform narrative programs. What are the
Call for papers. Food and Cultural Identity 

traces left by such discourses? And how do these processes affect


our perception of reality? Finally, what are mass media capabil-
ities with respect to the representation of food and taste, and
especially of their cultural dimension?

These three areas of discussion are open not only to all semiotic
perspectives, but also to the contributions of disciplines such as anthro-
pology, sociology, or other branches of the so–called “food studies”.
We shall particularly appreciate contributions capable of combining
in–depth theoretic–methodological reflection (what it is the role of
semiotics within such a field of research? How can the semiotic ap-
proach interact with other disciplines in order to facilitate the analysis
of the above–mentioned issues?) with rigorous and heuristic analytical
application to precise and detailed case studies.
Contributions, , characters max, Lexia stylesheet (http://
lexia.to.it/rivista-lexia/), with a  words max English abstract and 
English keywords, should be sent to

Simona Stano: simona.stano@gmail.com

Languages: English, French, Italian, Spanish (other languages if


reviewers are available).

. Schedule

Here is the expected publication schedule of the volume:


— December , : deadline for contributions
— January , : deadline for referees
— March , : deadline for revised versions of contributions
— June , : publication of Lexia n. –

. Reviewing

Every author who submits an article to Lexia commits to anony-


mously review up to three articles, sent to Lexia for the next issue or
for the following ones.
 Call for papers. Food and Cultural Identity

Lexia adopts the following refereeing criteria:

) Expertise: Papers are not always sent to a referee whose field is


identical to the subject matter of that paper. You don’t have to
be precisely qualified in a field to be a constructive referee. In
fact, an excellent paper will speak beyond its narrowly defined
field. If, however, a paper is so distant from your field that you
do not feel qualified to judge its merits, please return it to the
publishing manager for the journal, who will locate another
referee.
) Confidentiality: Referees receive unpublished work, which must
be treated as confidential until published. They should destroy
all electronic and printed copies of the draft paper and referee
report once they have received confirmation that their reports
have been received by the publishing manager (in case we can’t
open the report files you send us) Referees must not disclose to
others which papers they have refereed; nor are they to share
those papers with any other person.
) Conflict of Interest: Referees must declare any conflict of interest
or any other factor which may affect their independence—in
cases for instance, where they have received a paper of a col-
league or an intellectual opponent. In cases of conflict of inter-
est, please notify the publishing manager of your inability to
referee a particular paper.
) Intellectual Merit: A paper must be judged on its intellectual
merits alone. Personal criticism or criticism based solely on the
political or social views of the referee, is not acceptable.
) Full Explanation: Critical or negative judgments must be fully
supported by detailed reference to evidence from the paper
under review or other relevant sources.
) Plagiarism and Copyright: If a referee considers that a paper
may contain plagiarism or that it might breach another party’s
copyright, they should notify the publishing manager for the
journal, providing the relevant citations to support their claim.
) Responsiveness: Referees are asked to return their reports within
two weeks. This assists us to provide rapid feedback to the
author.
Call for papers. Food and Cultural Identity 

. Reviews

Lexia invites reviews of published works on semiotic matters. Pub-


lished works on semiotics matters that authors would like to be re-
viewed by Lexia can be sent at any time to the following address:

Massimo Leone
Università di Torino
Dipartimento di Filosofia
Via Sant’Ottavio 
 Torino
ITALY

. Format and style sheet

Acceptable length: . – . characters, including blanks


Language: English, French, Italian, or Spanish. Other languages will
be accepted if appropriate peer reviewers can be found. Attention:
do not submit articles that have not been copyedited by a native
speaker
Images: maximum , to be provided separately in high resolution
( dpi), indicating the place where images must be displayed
within the body of the article; when applicable, copyright must be
acquired before publication
Abstract and key-words: every text must be sent with a - word
English abstract and five keywords in English
Sending: Microsoft Word files must be sent in attachment to the fol-
lowing address: Simona Stano simona.stano@gmail.com
Copyright: Lexia leaves the copyright of published articles to authors
Style sheet: Please use Lexia stylesheet (http://lexia.to.it/rivista-lexia/)
LEXIA. RIVISTA DI SEMIOTICA
LEXIA. JOURNAL OF SEMIOTICS

–. La città come testo. Scritture e riscritture urbane


 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

–. Attanti, attori, agenti. Senso dell’azione e azione del senso. Dalle teorie ai
territori
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

–. Analisi delle culture, culture dell’analisi


 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

–. Immaginario
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

–. Ambiente, ambientamento, ambientazione


 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

–. Culto
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

–. Protesta
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

–. Estasi
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro
Compilato il  luglio , ore :
con il sistema tipografico LATEX 2ε

Finito di stampare nel mese di luglio del 


dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»
 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 
per conto della «Aracne editrice int.le S.r.l.» di Roma

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