“Relazioni, mediazioni”
Ulisse, l’uomo avventuroso per antonomasia, colui che - finita la guerra di Troia - si
ritrovò a solcare mari e luoghi sperduti per ritrovare la strada verso casa, la sua Itaca, è il
personaggio chiave nell’excursus Odisseo o l’illuminismo, in Dialettica dell’Illuminismo di Adorno, si
ritrova nell’undicesimo capitolo di Se questo è un uomo di Levi e, infine, è citato più volte nelle
opere di Levinas. In questi tre autori, Ulisse diviene metafora ed esempio della relazione per il
modo in cui egli intrattiene un rapporto con sé, con il mondo e con l’alterità. Il tentativo che
qui si propone è far dialogare gli autori sul tema della relazione attraverso la loro
interpretazione della figura di Ulisse, sviluppando così un dibattito che muove in tre tempi: in
un primo momento, si utilizzeranno i testi di Adorno in cui, attraverso le metafore delle
peripezie omeriche, si giungerà a sostenere che politica è relazione; in un secondo momento
si investigherà la natura umana in Auschwitz attraverso il ricordo mediato di Levi del canto
di Ulisse dantesco; in ultimo, si prenderà in considerazione l’etica levinasiana che non può
prescindere dalla relazione con l’Altro. In conclusione, si darà evidenza delle molteplici forme
della relazione a partire dalle modalità di interpretazione di uno stesso mito.
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Politica come relazione.
La figura di Ulisse in Adorno
V. Ferraretto
Adorno trova proprio nella figura di Ulisse il prototipo di individuo che – per la prima volta
nella storia dell’umanità – entra in relazione con l’altro, il diverso, l’estraneo, in una triplice
relazionalità: con se stesso, il mondo circostante e gli altri. Le avventure di Odisseo vengono
assunte come momento in cui il soggetto prende coscienza di sé e s’impegna per emanciparsi
dal timore e dell’autorità esterna, affermando così la propria individualità e autonomia
razionale. Ma proprio con quest’atto, inizia anche il processo della sua alienazione.
L’individuo – ovvero, colui che è indiviso, uno in se stesso – deve lottare per potersi auto-
conservare come tale, ma per auto-conservarsi deve entrare in relazione con ciò che non è,
con la sua estraneazione. E così – in un tempo che dialetticamente è mitico, eppure allo stesso
tempo illuministico e capitalistico – l’individuo trova contemporaneamente la sua autonomia
– e il riconoscimento del mondo esterno e degli altri – e la sua alienazione – così come la
morte della natura e il sacrificio dei suoi compagni. Si deve, dunque, sacrificare tutto –
compresi se stessi – per potersi salvare? Adorno sembrerebbe dire di no. Ulisse, colui che
sacrifica le sue passioni, i suoi desideri, le sue utopie non è riuscito a staccarsi da quel processo
malefico di distruzione. Al contrario, sacrificando sé, la natura esterna e gli altri, ha reso solo
più lineare e meno traumatico, addirittura quasi naturale, il processo che ha portato alla sua
liquidazione. Ulisse ha cioè aperto la strada che porterà direttamente al divenire totalmente
funzionale al mondo produttivo odierno. Le sue relazioni con l’altro non sono altro che
domini (Herrschaften), così Adorno ne parla nel capitolo Odisseo, o mito e illuminismo di Dialettica
dell’illuminismo. Ulisse non torna a Itaca, ma se ne allontana sempre più. Ma Adorno non si
ferma qui. Se fosse, sembrerebbe suggerirci, proprio il tempo di disintegrazione massima
dell’individuo a costituire anche il momento migliore per porre i termini della questione in
modo nuovo e diverso? Non sarebbe, quindi, Ulisse stesso ad essere prototipo di
quell’individuo che trova la sua morte nel mondo capitalistico, ma, nello stesso tempo, anche
precursore di un qualcosa sovra-individuale, in nuove e interessanti configurazioni della
realtà? Ulisse, cioè, è colui che contiene in nuce non solo lo sviluppo dell’attuale società, ma
anche di quello che sarebbe potuto accadere, ma che non è stato. Riprendere Ulisse, quindi,
significa non solo ripercorrere le tappe dell’individualità, ma anche solcare quei passi che
l’umanità non ha mai fatto, proponendo un’alternativa nuova.
2
Memoria come relazione.
La figura di Ulisse in Primo Levi
Silvia Ferrari
Nel 1981 Primo Levi compone Ricerca delle radici, un’antologia di testi da considerarsi pietre
miliari della sua autobiografia letteraria. Tra i brani che compongono l’antologia, il cui titolo
originario avrebbe dovuto essere Un modo diverso di dire io, colpisce una grande assenza: Dante
Alighieri. La trama dell’umanesimo che guida la scrittura leviana, soprattutto in Se questo è un
uomo, ricade sotto l’egida dantesca, eppure l’autore non rientra nel pantheon del 1981. Che
Dante non sia “un modo diverso di dire io”, e quindi di autoaffermarsi, ma una modalità
della relazione, “un modo diverso di dire l’altro” in quel mostruoso laboratorio antropologico
che è il Lager? Se questo è un uomo si presenta già di per sé come un viaggio nell’«anus
mundi» di reminiscenze dantesche e la sfida leviana non è “soltanto” testimoniare l’evento
concentrazionario ma soprattutto definire, già all’interno di quello spazio e di quel tempo,
che cosa sia l’umano, come sia possibile resistere a una negazione della relazione perpetrata
nella violenza e nell’indifferenza assolute e, in ultimo, come porsi in una relazione etica con
l’altro. Attraverso una rilettura del capitolo più celebre e più intrinsecamente dantesco, Il canto
di Ulisse, si enucleeranno tre momenti di analisi: come si può dire “io”, come si può dire
“l’altro” e come può esistere “relazione” autentica nel Lager. La recita di Inferno XXVI
costituisce la prima risposta all’appello «come posso dire “io” nel Lager?» sia perché è
tracciato un parallelismo fra il viaggio concentrazionario e quello di Ulisse, sia perché oppone
alla disumanizzazione i caratteri dell’umanesimo, rappresentando così non solo il momento di
più alta umanità dell’opera ma anche l’atto di hybris più grave secondo la norma e la logica
del campo, una deliberata affermazione dell’umano da chi umano non dovrebbe né essere né
esistere. Le terzine di Ulisse mandate a memoria non costituiscono un soliloquio, ma sono
partecipate da un compagno francese di prigionia: è con questo eccezionale esercizio di
condivisione di memoria che si consuma «un modo diverso di dire l’altro», soprattutto perché
Levi si trasporta anche in un esercizio di traduzione. La premura è che l’interlocutore
comprenda l’interpretazione tutta leviana di quel «com’altrui piacque» che introduce
l’identificarsi della condizione di Ulisse perduto nell’affondo in mare dalla volontà di Dio e il
destino dei prigionieri di Auschwitz. In ultimo, il terzo momento, relazionale, è rappresentato
paradossalmente proprio dalla memoria, grande protagonista del racconto di Levi sul
racconto di Dante del racconto di Ulisse, che proprio in quel suo essere fallace ricorda a chi la
esercita la sua meraviglia. Levi fallisce il compito di reminiscenza completa del canto
dantesco, la memoria ha dei buchi ma non per questo essi sono vuoti, là si staglia la salvezza:
l’ambiguità della memoria è il ponte che si getta al di là della pagina, unica relazione possibile
per dare senso agli eventi e per trasformare il suo ricordare in un’attività etica.
3
Etica come Relazione.
La figura di Ulisse in Levinas
V. Giambastiani
Per Levinas il senso della figura di Odisseo si compie nel momento in cui torna all’isola
natale, alla sua Itaca. Il viaggio dell’eroe omerico non è altro che un compiacersi nel
Medesimo e un misconoscimento dell’Altro, con queste parole Levinas tratteggia l’eroe greco.
Odisseo dal molteplice ingegno – leggiamo in Totalité et Infini – desidera solo di tornare a casa.
Il fine delle sue molte peregrinazioni e delle sue molteplice astuzie è quello di tornare da dove
era partito. Se il viaggio di Odisseo è il viaggio del ritorno, l’incontro con l’Altro è per
principio escluso. Non vi è spazio nemmeno per pensarlo. Gli innumerevoli incontri che
scandiscono il peregrinare dell’Odissea, non sono un farsi incontro e non scalfiscono
l’immutabile identità dell’eroe. La relazione con l’altro da sé è possibile solo come una
penetrazione in quest’altro, come una transitività, in un viaggio che l’eroe epico non compirà
mai. Riponendo fiducia solo in se stesso, Odisseo non si trascende, ritorna sempre a sé, nella
prigionia della sua identità. In questo nostos, l’Altro da sé non può che essere misconosciuto,
fagocitato nel Medesimo. Odisseo è l’io inchiodato in sé che si sente minacciato dall’Altro nel
suo essere. La consapevolezza di dipendere da ciò che è altro da sé mina il suo tranquillo
possesso. L’eroe omerico non riconosce che l’Altro non è il Medesimo. Abramo invece va
verso l’Altro, in un cammino di rottura dell’identità sostanziale. Con il suo semplice
«eccomi», lascia Ur dei Caldei per mai più tornarvi. Il viaggio di Abramo non ha la struttura
del soggetto che dopo ogni avventura fa ritorno alla sua isola. Il patriarca biblico è emblema
dell’uomo che esce da sé per ascoltare una voce che lo invita a trascendersi, conducendolo
nella totale alterità di una terra straniera. La contrapposizione tra le due figure non potrebbe
essere più esplicita. Al mito di Odisseo che ritorna ad Itaca, Levinas contrappone l’andare di
Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra sconosciuta. Abramo è a casa
propria in un Altro da sé, è se stesso vivendo di altro da sé. Nell’Altro scopre la sua dimora. E
quindi, non chiusura narcisistica del soggetto ma apertura alla continua sollecitazione verso
l’Altro. Abramo non subisce la tentazione di un “ritorno ad Itaca”, ma accetta l’irriducibile
non senso che suscita il per-l’altro-nello-Stesso. Odisseo non sente il bisogno dell’Altro, Abramo
riconosce nell’Altro colui che mette in discussione il “potere di potere”, colui che mi convoca
e mi invoca. L’esodo da se stessi verso la scoperta dell’Altro da sé non ha quindi per Levinas il
volto di Odisseo ma quello di Abramo. L’Altro non è in nessun modo un altro me stesso.
L’Altro è la terra della trascendenza, sempre eccedente il sé.