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TRASCENDENZA E SILENZIO DI DIO

Un confronto tra E. Levinas e A. Neher

Giuseppe Stinca

L’intento di questo lavoro è porre in parallelo le categorie che Levinas utilizza per declinare
la trascendenza di Dio con le considerazioni di Neher sul silenzio di Dio e con la sua analisi della
fenomenologia del silenzio come inerzia, energia e sfida, nel suo libro L’esilio della parola1.
Il punto di contatto ci è sembrato essere la concezione di Levinas della trascendenza di Dio
fino a una sua possibile confusione col brusio del c’è, nella quale la parola «brusio» richiama quella
che, nel testo biblico di 1Re 19, 12b, letteralmente ed etimologicamente è resa con “la voce di un
tenue silenzio”.
La clavis hermeneutica del lavoro va pertanto individuata in questa vicinanza di termini e di
significati. Facendo perno su tale contatto sono stati individuati dei temi comuni – espressi con
linguaggio e immagini differenti – accostabili in una sequenza logica, per la quale l’autore
principale di riferimento rimane Levinas.

Il volto nascosto di Dio


Dio altro dall’essere
Per Levinas “La filosofia riconduce ogni significato e ogni razionalità all’essere” 2
inglobando in tale essere Dio stesso. Tale atto, per Heidegger, pone inizio ad un’epopea che si
conclude con la con la tecnica che segna la fine della metafisica e la morte di Dio, ma non è che un
normale sviluppo dell’onto-teo-logia e, costituisce addirittura una chance per il pensiero dell’essere
che non sarà più ontologia3.
Per Levinas bisogna chiedersi se l’essere sia l’ultima sortente del senso. Opporre Dio
all’onto-teo-logia significa concepire una nuova nozione di senso.4

Dio insensato

                                                                                                               
1 2
NEHER A., L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Maretti, Genova 1983 1997 ; d’ora in
poi citato NEHER.
2
LEVINAS E., Dieu, la Morte t le Temps¸Édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici,
Dio, la Morte e il Tempo, Jaka Book, Milano 1996, p. 180; d’ora in poi citato DMT; ecco l’elenco delle altre
abbreviazioni: Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. di M.T. Aiello e S. Petrosino,
Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaka Book, Milano 1983: AE; De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982,
trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaka Book, Milano 1986: DQVI; E. LEVINAS, Ethique et Infini,
Feyard, Paris 1982 ; trad. It. Di E. Beccarini, Etica e Infinito, Città Nuova, Roma 1984: EI; Le temps et l’autre, Fata
Morgana, Montpellier 1979, trad. it. Di F. Ciglia, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1987: TA; Totalité et Infini,
Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. Di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaka Book, Milano 1980 19902: TI.
3
Cfr. Ibib., pp. 172-174.
4
Ibid., pp. 174-175 passim.

  1  
Bisogna chiedersi se l’essere e il pensiero siano la sorgente ultima del senso o se ci sia una
significazione anteriore alla presenza che significhi in maniera eccezionale non oltre l’essere, ma
prima e altrimenti che essere. Una tale modalità sarebbe quella di un linguaggio non dossico, ma
paradossale5, pensato non come affermazione, ma come domanda, come questione.
In tutta la tradizione occidentale il pensiero è tetico, pone ciò che afferma, e così forma un
mondo. Anche l’idealismo moderno, che punta l’accento sull’attività del pensiero, non si congeda
da questa visione, dalla priorità del mondo; nessuna trascendenza “proprio mentre il Dio della
Bibbia significa in maniera inverosimile […] l’al di là dell’essere, la trascendenza”.6

Dio Trascendente
Per Levinas il pensiero occidentale si configura come una secolarizzazione dell’idolatria. In
esso la meraviglia diviene filosofia, l’idolatria astronomia, la razionalità ateismo; e tutto ciò
appartiene al gesto d’essere cioè alla fonte dalla quale la razionalità prende senso e fondamento, fa
parte del movimento stesso del sapere che pone l’essere come suo fondamento e che abbraccia il
tutto con il suo sguardo. Tuttavia, a differenza di Heidegger, per Levinas la tecnica non è la fine
dello spirito umano. In questa situazione Dio trova uno spiraglio nella rottura del movimento del
pensiero che riposa sull’essere e che segna il regno dello Stesso.
Secondo Levinas la tecnica ha avuto sull’uomo un effetto di disincanto, ma essa non lo salva
da ogni mistificazione, soprattutto non lo salva dalla mistificazione del pensiero stesso e
dell’apparire. Dunque se si deve ipotizzare una Trascendenza la si deve pensare a partire da
qualcosa che sia al di là del pensiero, al di là del movimento unificatore dello Stesso, della filosofia,
della tecnica e dell’ateismo. Una secolarizzazione della secolarizzazione.7
Tale disincanto del disincanto avviene per Levinas nell’appello crudo della corporeità, della
povertà dei bisognosi, in quella che in una parola egli definisce “fame”. Questa trascendenza che ha
origine nella corporeità non è ontologica perché non ha al suo inizio nel pensiero, ma è di colpo
responsabilità per l’altro uomo. Solo tale responsabilità permette di uscire dall’incantamento del
pensiero e dell’apparire, permette di secolarizzare la secolarizzazione,8 e apre una fessura di uscita
in direzione di un al di là nel quale si collocherebbe un Dio trascendente.9

Trascendenza e silenzio

                                                                                                               
5
Cfr. ivi.
6
DQVI, pp. 78-79 passim.
7
Cfr. DMT, pp. 226-229.
8
Cfr. Ibid. p. 231.
9
Cfr. Ibid. p. 232.

  2  
Nella sua analisi della fenomenologia del silenzio biblico Neher individua tre ambiti di
silenzio: inerzia, energia, e sfida, caratterizzati ciascuno da una coppia di termini che designano la
parola “silenzio”.
Tra il silenzio inerte del Nulla e il silenzio energetico dell’Essere si colloca la coppia di
termini: `âlâm e haster panîm. Il primo termine è utilizzato nella Bibbia per indicare il silenzio
degli uomini, anche se i rabbini lo utilizzeranno per il silenzio di Dio; invece il secondo è il termine
maggiormente usato nel testo biblico per indicare il silenzio di Dio.
‘Illem, la cui radice è la medesima di `âlâm, significa muto, ma un muto che è tale non per
motivi fisiologici; la chiave di lettura del contesto ce la fornisce l’espressione haster panîm, che
significa letteralmente nascondere il volto, con un travestimento, o una maschera. “Il denominatore
comune di questi due termini, come si vede, è la nozione di gioco teatrale. Nei due casi, il silenzio è
una maschera”.10
In questa dinamica teatrale l’uomo e Dio giocano a nascondino in un dramma nel quale
rischiano di perdersi o di dimenticare di essere partners dell’azione. Nella Bibia il mondo è aperto,
nessuna soluzione certa è già scritta. Il silenzio, allora, risulta necessario alla libertà dell’incontro e
del dialogo tra uomo e Dio.11

La trascendenza silenziosa del male


La trascendenza del male
Come può un pensiero andare al di là del mondo, essere trascendente, se il pensiero pretende
di inglobare anche la negazione come proprio momento?12
L’analisi di Levinas si sofferma su un testo di Philippe Nemo che pone l’attenzione alla
trascendenza che interrompe il mondo in una particolare modalità di vissuto: il male di Giobbe.13
Nell’analisi del male Levinas individua tre elementi: l’eccesso, il tu al fondo del male, e il richiamo
al bene.
Nella sua malignità di male, il male è eccesso, la non-integrabilità del non integrabile, e in
questo senso trascendenza!14 La teodicea stessa è un modo di pensare Dio come la realtà del
mondo, ma il male eccede tutto questo, ottiene la sua significazione proprio dal suo opporsi a tale
sistema.
Il secondo elemento che emerge dal male è un’«intenzione», come se nel male qualcosa,
qualcuno mi cercasse, come se nel male vi fosse un’intenzione cattiva che mi rivela qualcuno dietro
                                                                                                               
10
Ibid. p. 58.
11
Cfr. Ibid. pp. 62-63.
12
DQVI p. 151.
13
PH. NEMO, Giobbe e l’eccesso del male, Città Nuova, Assisi 1981.
14
Cfr. DQVI p. 155.

  3  
al male, qualcuno verso il quale va la mia interpellanza, la mia domanda sul perché della mia
sofferenza, una domanda che suppone un Bene dietro il Male. “Il senso comincia dunque nella
relazione dell’anima a Dio a partire dal suo risveglio attraverso il male. Dio mi fa male per
sradicarmi dal mondo in quanto unico ed eccezionale : in quanto anima”.15
C’è un terzo momento in questa fenomenologia del male: il mio odio del male.16 In questo
senso il male mi colpisce nell’orrore che ho di esso e nella mia conseguente relazione paradossale
al Bene, una relazione che è una attesa senza mira, non intenzionale, è un’attesa senza atteso, una
pazienza.
L’analisi di Levinas si distingue rispetto a quella di Nemo nell’interpretare il tacere
dell’uomo di fronte all’onnipotenza di Dio come appello alla responsabilità verso il mondo, una
responsabilità che trova l’uomo sempre in ritardo, un comandamento primordiale, che può avere
senso solo all’interno di un’umanità solidale. Tale responsabilità è ricollegata da Levinas a quella
destata nell’uomo dall’appello anarchico del Volto d’Altri.
In questo senso, secondo Levinas, la storia sarebbe un dramma nel quale il Medesimo è
scompigliato dal Male e dall’Altro, e tentato di tornare al riposo della tematizzazione del mondo.
Un’alternanza di fratture e ricomposizioni, nelle quali non c’è sintesi, ma rinvio, mira senza
coincidenza, ambiguità, “ma anche l’approssimarsi di un Dio infinito, approssimarsi che è la sua
prossimità”.17

Ponti sospesi e arcate spezzate


L’alternarsi di rotture e ricomposizioni nella storia è ripreso, con linguaggio differente, da
Neher che compie un’analisi del termine biblico ŝadday il cui primo significato è l’attributo della
promessa con il quale Dio è conosciuto dai patriarchi, una promessa che è ombra e silenzio.18
Questa promessa silenziosa non ha qualcosa di simile a quella che in teologia viene detta
prova? Nella prova, infatti, tutto si svolge come se Dio avesse dimenticato chi è l’uomo che
sottopone alla prova, Egli tace. Eppure la prova è tale perché ha un intervallo di tempo, ha un inizio
ed una fine; in essa Dio prova coloro che Egli sa che reggeranno; in essa Dio non si espone
sostanzialmente ad alcun rischio. Il Dio della prova, diremo noi è il Dio dei ponti sospesi. Tuttavia
vi sono nella Bibbia dei ponti destinati a crollare. È questo il caso dell’esperienza di Giobbe.19
A Giobbe, differentemente da Abramo, non viene chiesto nulla, ma tutto viene sottratto
violentemente. Inoltre mentre per Abramo tutto torna come prima, per Giobbe non è così, c’è una
                                                                                                               
15
Ibid. p. 158.
16
Cfr. Ibid. p. 161.
17
Ibid. p 162.
18
Cfr. NEHER, p. 140.
19
Cfr. Ibid. p. 142.

  4  
frattura incolmabile nella sua vita, il filo sottile che unisce Giobbe a Dio si spezza. È come se Dio
avesse assunto per Giobbe il rischio che si era rifiutato di correre con Abramo. Infine, il termine
ŝadday che non compare nel caso di Abramo è invece utilizzato nell’esperienza di Giobbe.
Per Neher ŝadday è Colui che basta a se stesso, non l’Esser da cui ci si aspetta tutto, ma
l’Essere da cui non ci si può aspettare nulla. “È il Dio senza eco, senza vigilia e senza domani, il
Dio del Silenzio assoluto”.20
L’esperienza biblica parla di due tipi di prova: quella vera e propria, e quella che si potrebbe
definire una falsa prova – quella di Giobbe. Se il Dio della prova è quello dei ponti sospesi, quello
della falsa prova è il Dio delle arcate spezzate.21
La Bibbia, così costituita, risulta essere il documento teologico più inquietante che sia stato
offerto alla riflessione umana, e la riflessione ebraica non è rimasta refrattaria a tale inquietudine.
Il Dio del silenzio che da essa emerge può essere accostato al Dio che non è compromesso
in alcun modo con l’essere, il cui legame con l’uomo non si declina con le categorie del senso, del
pensiero e della Parola, ma con quelle del Silenzio.
Sono queste le categorie che troviamo nell’esperienza del profeta Elia.

Il brusio dell’il y a
La trascendenza paradossale
Restano per Levinas due domande: se sia possibile pensare un Dio al di fuori dell’onto-teo-
logia, e se un tale modello d’intelligibilità possa essere formulato a partire dall’etica, che costituisce
una significanza senza riferimento al mondo, all’essere e alla conoscenza. In tal modo “la
trascendenza come tale sarebbe una mira che resterebbe mira; in questo senso sarebbe una
trascendenza non dossica, ma para-dossale […]. Una trascendenza infinita, poiché l’idea di colmare
una mira intenzionale con una visione è qui fuori luogo, fuori proporzione. Una trascendenza s-
proporzionata”.22

Il disinteressamento dell’etica come fenomeno della trascendenza


Il primo “intrigo” da esaminare è come l’etica possa essere considerata come altro
dall’essere, come dis-interessamento. Ciò che è caratteristico dell’intrigo etico è, infatti, una
passività nella quale il soggetto si trova di colpo all’accusativo, senza che la propria intenzionalità
possa in alcun modo mirare alla sintesi noetico-noematica con Altri. Una passività che impedisce al

                                                                                                               
20
Ibid. p. 144.
21
Cfr. Ibid. pp. 145-146.
22
DMT pp. 190-191 passim.

  5  
soggetto di consolidarsi in quanto tale, ma che costituisce, allo stesso tempo, proprio la
soggettività.23
Tale passività è, allo stesso tempo, impossibilità di cogliere l’oggetto come oggetto
intenzionale nell’attesa. In questo senso la pazienza è un’attesa senza atteso, una mira che resta
mira, nella quale l’oggetto non viene a colmare il vuoto dell’attesa, e nella quale non c’è sintesi
noetico-noematica, ma uno scoraggiante parallelismo, una pazienza nella quale il tempo si riferisce,
si deferisce all’infinito.
In qualche modo, nell’intrigo etico, la trascendenza “significa” diversamente dalla
significazione legata alla presenza e alla rappresentazione, essa è paradossale e infinita, perché non
ha un inizio né una fine nel tempo, ed è sproporzionata perché l’oggetto della sua attesa si allontana
con l’avvicinarsi a esso in quello che Levinas chiama «approssimarsi».
“Questo paradosso iscrive la gloria dell’Infinito nella relazione abitualmente chiamata
intersoggettività. L’infinito si innalza gloriosamente da tale relazione”.24
In questo modo la trascendenza è altrimenti che essere. L’essere in quanto essere, infatti,
annoda un intrigo al quale ogni senso è sospeso. L’essere regna, e la conoscenza dell’essere, in cui
l’essere si manifesta, appartiene alla vita stessa dell’essere. Ma l’intrigo etico ha tagliato con
l’intenzionalità.25

La soggettività anarchica
Di più. “L’etica taglia corto con l’intenzionalità così come con la libertà […]. È come se vi
fosse qualcosa prima dell’inizio: un’ an-archia”.26
Nella relazione con l’altro l’io è chiamato a una responsabilità anteriore a ogni suo a priori,
a ogni possibile rappresentazione. “Abbiamo chiamato ossessione questa relazione irriducibile alla
coscienza”.27
Nella significazione anarchica l’io è ossessionato perché non può mai assumere ciò da cui è
affetto, si configura in essa un’eteronomia che “designa l’intrigo o il dramma meta-ontologico
dell’anarchia che disfa il logos” .28
In tale responsabilità senza scelta, anarchica, anteriore alla coppia libertà/non libertà vi è per
l’io una investitura che va al di là dei suoi disegni egoistici, che si pone prima del suo costituirsi
come soggetto, e in ciò è altrimenti che essere.29
                                                                                                               
23
“Questa responsabilità arriva fino alla fissione, fino alla de-nucleazione dell’io. E questa è la soggettività dell’io”.
DMT p. 191.
24
Ibid. p. 224.
25
Cfr. Ibid. pp. 221-222.
26
Ibid. p. 235 passim.
27
AE p. 126.
28
DMT p. 237 passim; vedi anche AE pp. 127-128 passim.

  6  
In questo senso l’etica viene prima della libertà, l’io si trova compromesso col Bene prima
di averlo scelto, il Bene deve eleggerlo per primo e esso stesso deve essere in ciò anteriore alla
libertà, anteriore alla bipolarità del bene e del male, prima dell’essere, prima della presenza.30
“In questa relazione del Bene con me, relazione che è assegnazione di me ad Altri, accade
qualcosa che sopravvive alla morte di Dio”.31

La responsabilità come gloria dell’Infinito


“La responsabilità per l’altro in me è un’esigenza che cresce man mano che vi si risponde,
un impeto: un’eccedenza sul presente. Tale eccedenza è gloria; è con essa che l’Infinito si produce
come avvenimento. L’eccedenza sul presente è la vita dell’Infinito […]. Il modo in cui l’Infinito si
glorifica (la sua glorificazione) non è rappresentazione. Esso si produce, nell’ispirazione, sotto
forma di mia responsabilità per il prossimo o come etica”.32
La responsabilità è testimonianza dell’Infinito e si esprime nel Dire. Per ora ci serve
sottolineare l’aspetto di incontro, al di là di ogni rappresentazione, tra l’io come unico e l’Infinito.
Incontro che avviene nella sottigliezza dello pneuma, nella sottigliezza di un soffio, nel quale l’io è
chiamato “fuori dagli angoli bui del quanto-a-sé […] stanato senza possibilità di fuga”.33

La possibile confusione col c’è


L’il y a è un elemento che rientra nei primi studi del nostro autore, poi scompare per lungo
tempo per fare la ricomparsa in alcuni scritti conclusivi. Il punto di partenza è un’analisi nella quale
la posizione di Heidegger viene superata con l’idea dell’irremissibilità dell’Essere.
Nelle pagine di Il Tempo e l’Altro Levinas analizza l’espressione heideggeriana di
Geworfenheit interpretandola come una derelizione e un abbandono, un essere gettato dentro
un’esistenza che è indipendente dall’esistente.34
Due sono le caratteristiche di questo esistere senza esistente, di questa “irremissibilità
dell’essere puro”.
La prima è il suo riferimento al nulla, inteso come impossibilità fenomenologica del nulla
“un brusio che ritorna dopo ogni negazione di questo brusio. Né nulla né essere”. 35 Tra le
esperienze che meglio possono fornire un’analogia a questo esistere vi è la situazione dell’insonnia.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             
29
Cfr. Ibid. p. 238.
30
Cfr. Ibid. pp. 241-242.
31
Ibid. pp. 242.
32
Ibid. p. 265 passim.
33
Ibid. p. 266 passim.
34
Cfr. TA p. 21.
35
EI p. 66.

  7  
La seconda caratteristica è quella della passività, aspetto molto fecondo che attua
un’evoluzione negli scritti di Levinas, fino a un suo ruolo positivo che chiude il cerchio in
Altrimenti che essere. Nei testi giovanili la passività, riguarda l’impossibilità di sottrarsi al campo di
forze neutro e impersonale dell’essere, un essere esposti che comprende anche l’angoscia, che non è
angoscia di fronte al nulla, ma un’apertura all’ignoto.
Tali figure tornano in Altrimenti che essere. Di nuovo l’il y a è caratterizzato dalla sua
neutralità, monotonia, anonimato, insignificanza, dal suo brusio. Questo il y a urta contro l’io che
vuole costituirsi tale nella libertà, che vuole tornare a se stesso come presente, e sfuggire
all’inesorabile c’è.36 Per Levinas il soggetto non può mai liberarsi dall’incombenza del c’è, non può
farlo costituendosi come Io perché “il brusio incessante del c’è urta in modo assurdo l’io
trascendentale attivo-cominciante, presente”.37
Però, paradossalmente, è proprio questa passività estrema, questa impossibilità di fuga,
questa esposizione, a costituire, mediante la responsabilità per Altri, il nascere anarchico della
soggettività, che si pone non più in relazione con l’essere, costituendosi come essenza, ma con
l’altrimenti che essere mediante il disinteressamento. “Per sopportare senza compenso gli è
necessario l’eccessivo o la nauseante confusione e l’ingombro del c’é”.38
Il brusio del c’è diviene, dunque, luogo-non-luogo in cui è possibile il verificarsi della
soggettività come responsabilità per altri, la soggettività che è luogo-non-luogo dove avviene la
trascendenza.
Il brusio dell’il y a avvolge la soggettività esposta urtandola nel suo tentativo di costituirsi
come Io trascendentale, ma nello stesso tempo le offre la possibilità di costituirsi come soggettività
responsabile ed anarchica, cioè il luogo-non-luogo in cui accade la trascendenza. Il fenomeno della
trascendenza è circonfuso dal brusio dell’il y a.
Tale il y a è riconducibile a Dio? Se così fosse Levinas tradirebbe le sue iniziali intenzioni di
parlare di Dio, come un termine significante all’interno di una significazione anteriore alla
presenza.
L’il y a possiede, però, delle caratteristiche che hanno molte analogie in comune con quel
termine significante che chiamiamo Dio, e con quello che è il sostrato per la possibilità
fenomenologica della Trascendenza e dell’Infinito: l’impossibilità del nulla, l’irremissibilità
dell’essere, l’esposizione, la passività senza assunzione, la responsabilità anarchica.

Il brusio del prologo. L’emergere del silenzio

                                                                                                               
36
Cfr. AE p. 204.
37
Ivi.
38
Ibid. p. 205.

  8  
Neher, leggendo le prime righe di Genesi, afferma che quasi tutta la tradizione rabbinica ha
sempre individuato nell’espressione “Dio disse” il primo atto della creazione. In tal modo è con il
dire della Parola che tutto ha avuto inizio. In tale concezione tutto è armonia, ogni lato negativo
della creazione è compreso in una sintesi unitaria. Tutto è Parola e non c’è spazio alcuno per il
silenzio e per il dialogo che esso sottende.39
Ora l’interpretazione rabbinica della Bibbia introduce invece, in questa visione di armonia,
la concezione di un mondo pieno di lacune e di vuoti, creato non tutto d’un colpo perfetto dalle
mani di Dio, ma solo dopo svariati tentativi, e contenente ancora numerose imperfezioni, restando
solo sufficientemente stabile e nel quale trova il proprio adeguato spazio il silenzio. Uno spazio che
è contrappunto della parola, in un’aggressiva opposizione dialettica a essa, che non la accompagna,
ma la precede nella logica del pro-logo.40
Letteralmente prologo significa prima della parola, ma quale è la sua vera identità? Nei
primi versi di Genesi una serie di sostantivi e aggettivi vengono utilizzati per descrivere questa
situazione caotica che i filosofi hanno identificato e bollato subito come Nulla, affermando che la
creazione è ex-nihilo.
In Genesi, tuttavia, questo Nulla non è niente, bensì un ciarpame che il primo colpo di scopa
della Parola disperde ai quattro venti, che esiste da qualche parte in una zona pre-verbale.41
Il Nulla è pertanto qualcosa di gigantesco, una serie di mondi non riusciti che si rovesciano
l’uno sull’altro in abissi senza fondo, un serbatoio di forze negative che l’atto creativo ha respinto
nel passato, ma che non ha rimosso per sempre. Questo Nulla è “pronto anche a rispondere
all’appello dell’Essere qualora questi, all’improvviso, si ricordasse della sua originale parentela con
il Nulla.
Appare allora il Silenzio − il grande solenne silenzio-inerzia − non come una passeggera
sospensione della parola, ma come il portavoce dell’invincibile nulla. Allora il Silenzio sostituisce
la Parola, perché il Nulla è ridiventato il luogo-tenente dell’Essere”.42

Lô’-dûmmyâ. Il Non-Silenzio
Morte, notte e silenzio sono tra loro collegati e costellano la Bibbia con le loro apparizioni,
ma Neher si sofferma sul Salmo 22 perché esso rappresenta una lotta frontale contro la morte e la
notte e perché l’incantesimo del salmista viene reso con un’espressione − lô’-dûmmyâ − la cui
singolare incisività stupisce poiché lô’-dûmmyâ è letteralmente il Non-Silenzio.43
                                                                                                               
39
Cfr. NEHER pp. 70-71.
40
Cfr. Ibid. p. 72.
41
Cfr. Ibid. pp. 73-74.
42
Ibid. pp. 74-75.
43
Cfr. Ibid. p. 77.

  9  
Neher non segue la tradizionale interpretazione dei versi nei quali è inserita questa
espressione: «anche di notte non trovo riposo». Per Neher lô’-dûmmyâ è il non-silenzio che non è la
parola, ma una caduta in un silenzio più silenzioso del silenzio, l’accesso ad una dimensione
metasilenziale. Di giorno Dio non risponde al Salmista «Io sono colui che sono», e di notte, col suo
silenzio, sembra dire «Io sono colui che non sono». “Il Signore appone all’uomo il Dio nascosto. Il
Non-Silenzio gli oppone un Dio il cui Essere non può essere colto se non a partire dalle radici
fuggenti del Nulla”.44
Potremmo quasi, forzando la mano nelle analogie e traduzioni, accostare il Non-Silenzio del
Salmo 22 al brusio anonimo dell’il y a. Non parola (logos) né silenzio: il Non-Silenzio.
Circondato dal Non-Silenzio il salmista è esposto ai propri nemici fino alla responsabilità
del male che gli fanno.
Ritroviamo tutti gli aspetti dell’il y a, e il Non-Silenzio sembra essere il luogo-non-luogo
dove la passività estrema senza assunzione può divenire relazione con l’Infinito nella responsabilità
per Altri, meta-luogo dell’attuarsi della Trascendenza.

Lô’ ´ašibennu. Non ti risponderò


La responsabilità per Altri diviene possibilità della Trascendenza, ma una tale trascendenza
per attuarsi restando tale, deve ordinare il non-desiderabile, non deve essere mai soggettivata.
In tal modo Dio, il dio biblico che è il Dio dell’assoluta trascendenza, come sostiene Levinas,
fa incontrare l’uomo non solo col silenzio della creazione, col silenzio del nulla, ma anche col
proprio silenzio.
Questo aspetto del silenzio è analizzato da Neher in due brani biblici: l’episodio del re Saul,
e quello del profeta Elia.
Saul è stato investito del suo compito senza alcuna parola da parte di Dio, senza alcuna
visione, è un profeta senza parole. È proprio il silenzio di Dio durante tutta la sua vita che lo spinge
a consultare la pitonessa, perché tale silenzio è percepito come colpa.45
Saul, di fronte all’angoscia del silenzio si rivolge alla magia per ottenere una risposta, pecca
letteralmente d’idolatria, abbandonando il ponte sospeso della trascendenza, abbandonando il Dio
trascendente per rivolgersi agli idoli fatti dalle mani dell’uomo, agli dei della religione teologica,
tematizzante, che non lascia a Dio la sua trascendenza.
Di fronte al silenzio di Dio Saul si sente schiacciato e si uccide, ma non è questa l’unica
risposta a tale silenzio. Nella Bibbia esiste un’altra strategia per esorcizzare il silenzio di Dio ed è
quella dell’ironia, del riso. La stessa ironia che utilizza Elia sul monte Carmelo contro gli idoli.
                                                                                                               
44
Ibid. p.81.
45
Cfr. Ibid. pp. 84-86.

  10  
Agendo in base alla convinzione che gli idoli sono falsi e muti e il Dio vero è il dio della parola e
della luce, Elia gioca il tutto e per tutto: «La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!»
(1Re 18, 24).
Neher sottolinea come in realtà la tecnica della mantica sia costruita ad arte per funzionare:
un idolo escogitato per parlare parlerà, ma la sua parola non sarà che una parodia della parola
reale.46
Eppure, nell’episodio citato, gli idoli non rispondono mentre JHWH manda il fuoco. E se
Dio non avesse risposto? E ancora: rispondendo non si è forse consegnato anch’Egli alla dinamica
della mantica e degli idoli? A tali interrogativi la Bibbia non è insensibile.47
La vicenda del profeta Elia sul monte Carmelo, infatti, trova il suo completamento con gli
eventi dell’Oreb.

Qôl demamâ daqqâ. Una voce più tenue del silenzio


Negli episodi del Carmelo e dell’Oreb si ha l’incontro vivo e pieno con l’essenza di Dio, e in
questo gioco Dio rischia il tutto per tutto. Mentre nel caso dei miracoli la posta in gioco era
l’intervento a favore di una richiesta dell’uomo, e il non intervento di Dio poteva essere ascritto alla
colpa umana, qui, invece è in gioco l’esistenza di Dio, un’esistenza legata alla parola.
Se Dio non avesse risposto sul monte Carmelo forse non sarebbe successo nulla. Del resto
l’intervento di Dio non porta nessun cambiamento alla situazione sulla terra se non una
momentanea esaltazione dei presenti.
Sul Carmelo Elia comprende che agganciando Dio alla Parola ha intrapreso la strada
sbagliata. Dio non è nella tempesta, né nel fuoco, ma in qôl demamâ daqqâ (19, 12), nella voce di
un tenue silenzio. La sola voce di Dio è il silenzio. Esso non è più segno della collera divina, ma
esprime la sua presenza meglio della parola.48
In tal modo viene capovolta totalmente la prospettiva del silenzio. Non c’è silenzio che non
sia silenzio di Dio, e l’incontro con Lui è possibile nell’oscurità dell’abisso più totale. L’abisso del
silenzio è il meta-luogo dell’incontro, dell’attuarsi della Trascendenza.
Se si può trovare Dio anche nella sua più totale lontananza, quanto più sarà impossibile
sottrarsi alla sua “presenza” trascendente nella contemplazione del creato. Siamo esposti alla sua
incessante e trascendente “presenza”.
Ho scritto la parola presenza tra virgolette perché, seguendo la linea tracciata da Levinas,
non possiamo parlare per Dio di presenza, poiché questa si riferisce al pensiero e al processo

                                                                                                               
46
Cfr. Ibid. p. 90.
47
Cfr. Ibid. pp. 91-92.
48
Cfr. Ibid. pp. 96-97.

  11  
intenzionale e tetico. Dio non può essere presente in tal modo. In tal senso preferisco coniare il
termine in-assenza, nel quale il prefisso in − come già nell’in-finito levinasiano − indica un non e
un in. Una doppia negazione che non è posizione, ma una scivolata nel linguaggio dell’altrimenti
che essere. Tuttavia una negazione significante di una significazione anteriore alla presenza, in una
relazione non riconducibile all’ontologia, significante nella sua Trascendenza, nel suo Silenzio!
Di fronte all’in-assenza dalla Trascendenza l’uomo è interpellato nel suo atteggiamento e
nel linguaggio che esso deve assumere. Un linguaggio che in Levinas è descritto con i caratteri del
Dire, in Neher assume l’aspetto drammatico della responsabilità dell’uomo di fronte al Silenzio.
È qui che ci si scontra con un altro silenzio: quello dell’uomo che si estende nei primi undici
capitoli di Genesi, come se una chiave della creazione fosse stata smarrita. “Questa chiave è il
termine stesso che designa la parola nella Bibbia: il termine dabar. Ora, è con l’abracadabrante
avventura del dabar che tutto avrebbe avuto inizio e che, nella Bibbia, il silenzio attinge una nuova
dimensione, perforando l’inerzia per accedere all’energia”.49
La nostra analogia si estende alle considerazioni sul Dire senza Detto e alla paradossalità del
dabar.

La paradossalità del Dabar


L’esigenza iperbolica della significazione
Dal fondo dell’il y a il soggetto esposto può risolversi nella responsabilità anarchica verso
Altri. Il soggetto, convocato da Altri, ritrova una nuova identità non al riparo della propria forma,
del proprio concetto di Io, ma come eletto ed unico, votato al non-desiderabile, alla bontà, in un
incremento infinito che è gloria.50
Tale esigenza iperbolica non nasce dall’iniziativa di una sostanza costituita in Io-penso, ma
da una totale inversione di questo movimento, in una passività estrema, dalla quale emerge la
responsabilità della soggettività anarchica. Un’estroversione che porta il nome di sincerità.51
E la sincerità è resa tale solo attraverso il Dire perché in esso vi è una significazione
all’Altro che spicca su ogni altra relazione, una significazione possibile in quanto soggettività.
Bisogna comprendere bene cosa Levinas intende per Dire.

La significazione anteriore del Dire nell’intrigo della prossimità


In primo luogo possiamo esaminare cosa sia il Dire, e come esso sia possibile
fenomenologicamente a partire dall’esperienza del Detto.

                                                                                                               
49
Ibid. p. 99.
50
Cfr. DQVI p. 97.
51
Cfr. Ivi.

  12  
Secondo Lavinas il Detto è inteso come noema di un atto intenzionale, nel quale il soggetto
si restringe in pensiero e fornisce un segno che rinvia ad un significato. Ma il soggetto del Dire non
è il significato di questo segno, e la significazione del Dire non si risolve tutta nel Detto. Essa rinvia
a un intrigo preoriginario della responsabilità che può essere descritto come rovesciamento
dell’intenzionalità.52
Il Dire, infatti, non si risolve nell’invio di segni, perché questo presuppone una preliminare
rappresentazione di questi. Ci troveremmo di fronte a un soggetto già costituito come Io-penso che
traduce i suoi pensieri in linguaggio, in segni. Si tratterebbe, dunque, di un’azione intenzionale.
L’invio di segni, invece, presuppone già una prossimità ad Altri, un intrigo di tipo etico che
è anteriore alla rappresentazione. “L’intrigo della prossimità e della comunicazione non è una
modalità della conoscenza”.53

L’esposizione significante
Nel Dire il soggetto si trova totalmente destitutito, stanato dalla sua permanenza in sé, non
abitando più nessun luogo. Questa non abitazione si risolve non nel dare segno, ma nel farsi segno,
nella totale obbedienza.54
Il Dire è quindi una risposta che sorge come iperbole dalla passività, nella responsabilità per
Altri, una passività che è rovescio dell’intenzionalità, un rovescio senza diritto, un essere come
vulnerabilità. Situazione nella quale il soggetto è vocato come unico.55
Vulnerabilità dell’essere che si espone al rischio del non senso, e così alla possibilità della
Trascendenza che deve necessariamente prodursi come contro-senso.56

Il disfarsi dell’essenza in significazione


Si tratta ora di esaminare come il Dire possa seguire l’onda del disinteressamento. Per far
ciò dobbiamo partire dal problema della verità e del suo svelamento.
“La soggettività in quanto sapere si subordina al senso dell’oggettività”.57 La soggettività è
dunque sempre chiamata a raccogliere la manifestazione, e ogni gioco che essa giocasse al di fuori
di questo sistema sarebbe velamento dell’essere.
Questo significa che la verità, cioè il rapporto di svelamento tra gli enti non esiste se non
all’interno di un sistema che li vede in relazione tra loro, sciolti dal quale, i soggetti si occultano.

                                                                                                               
52
Cfr. AE pp. 58-59.
53
Ibid. p. 61.
54
Cfr. Ibid. pp. 62-63.
55
Cfr. Ibid. pp. 63-64.
56
Crf. DMT pp. 262-263.
57
AE p. 166.

  13  
Anche la soggettività è concepita all’interno di questo sistema. Il ruolo che essa svolge è quello di
raccogliere la manifestazione e, così, di rientrare nell’inglobante atto d’essere.
Il soggetto, dunque, verrebbe assorbito totalmente nel Detto e non sarebbe l’origine di
alcuna significazione. E anche la significazione, l’intelligibilità e lo spirito risiederebbero nella
manifestazione, nella presenza.58
Ma nello straordinario del rapporto etico abbiamo intravisto una significazione anteriore alla
presenza. Pertanto la significanza della significazione non si esercita come modo della
rappresentazione, la significazione non riposa nell’essere.59
E la relazione nella quale il soggetto è chiamato come unico è la responsabilità. Essa rompe
con l’anfibologia dell’essere e dell’ente, ma anche con la spiritualità della manifestazione, come
articolazione del senso e avventura dello spirito.60
Nella significazione del Dire il soggetto è liberato in quanto unico cioè come soggettività
anarchica e responsabile.61
In questo senso la significazione è una nascita latente del soggetto62 in quanto unico, latente
in quanto anarchica, in quanto precedente ad ogni rappresentazione, in un obbligo senza impegno
preso. In questa nascita senza inizio, nel disinteressamento, si ode la voce dell’Infinito che viene dal
di fuori dei confini dell’ontologia.63
Sopra abbiamo detto che il soggetto che si costituisce come Io all’interno del sistema della
manifestazione e nella quale la sua soggettività è tale nel suo raccogliere la rappresentazione, si
cristallizza nel Detto. Ora di fronte alla voce dell’Infinito che la disfa in disinteressamento, la
soggettività si apre ad una manifestazione che non si concretizza nel Detto.
“Davanti a questa an-archia − davanti a questo senza-inizio − fallisce la raccolta dell’essere.
La sua essenza si disfa in significazione, in Dire al di qua dell’essere e del suo tempo, in dia-cronia
della trascendenza”.64

Il significante dicente il Dire stesso


In Totalità e Infinito Levinas sottolinea come il Dire sia rilevante anche dalla parte
dell’Altro, del Significante. Il Significante non è il significato del segno, ma “è di faccia, nonostante

                                                                                                               
58
Crf. Ibid. pp. 169-170.
59
Crf. Ibid. p. 171.
60
Crf. Ibid. p. 173.
61
Cfr. DMT p. 223.
62
Crf. AE p. 175.
63
Cfr.Ibid. pp. 175-176.
64
Ibid. p. 176.

  14  
l’interpolazione del segno, senza proporsi come tema”. La significazione è pertanto un atto del
Significante che riprende il segno esponendolo, è un assistere alla donazione di segno.65
In tal senso la significazione è affidata ad Altri, alla sua parola con la quale riprende il segno
dato per illuminarne ciò che nella parola era ancora oscuro. La verità è promessa, e la promessa è
linguaggio, è Dire.
È solo all’interno di questo intrigo che l’oggettività acquista un peso, che la verità può
rivelarsi come promessa, come Dire. Solo questa alterità permette di infrangere l’incantesimo del
sistema segno-significato. Il significante è esteriore, è Altro, Altri.66

Il Dire come testimonianza dell’Infinito


Il Dire mette quindi l’oggetto in rapporto con l’Altri, con l’esteriorità, con ciò che non può
essere concepito dal pensiero: con l’Infinito. La definizione è tale solo come relazione all’Infinito.
Solo a partire dall’Infinito è possibile definire.
L’Infinito a sua volta si segnala nel Dire come assistente all’iterazione del segno. “L’infinito
nel quale si staglia ogni definizione non si definisce, non si offre allo sguardo, ma si segnala […];
non si segnala soltanto, ma parla, è volto”.67
L’Infinito, dunque, non solo mi interessa nel disinteressamento della relazione etica, ma mi
significa nel volto d’Altri. Dal brusio dell’il y a emerge la verità come volto che mi guarda guardare.
Questo Infinito è così attestato, è Detto all’interno del mio Dire? E il mio Dire nel suo
disdirsi lo afferma?
Il Dire non è un dare iperbolico. Se così fosse, si resterebbe nell’ambito dell’ontologia e
l’Infinito che il Dire testimonia rientrerebbe nei confini dell’essere come ente eccelso.68
Nel Dire, invece, vi é la fissione dell’ultima sostanzialità dell’Io e l’uscita dall’ontologia
nella quale si attua il rapporto paradossale con Infinito in noi. Infinito che non può apparire perché
si smentirebbe come tema, non può essere aggetto di rappresentazione, ma appartiene a un passato
che non fu mai presente. Questa Gloria, nell’entrare in rapporto col soggetto nel Dire, lacera ogni
logica.69
La soggettività responsabile, senza vie d’uscita, non può dirsi, dunque, in un Detto,
quantunque smentito e reiterato, ma può solo emettere una parola dalla voce più tenue del silenzio:
«eccomi».70

                                                                                                               
65
Cfr. TI pp. 91-96.
66
Cfr. Ibid. p. 96.
67
Ibid. p. 98 passim.
68
Cfr. AE p 180 nota 8.
69
Cfr. Ibid. p. 181.
70
Cfr. Ibid. p. 182.

  15  
«Eccomi» come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia perché esso non è
rappresentazione. E non vi è testimonianza che dell’Infinito. Tutto può essere detto perché appare a
chi lo dice come noema e, pertanto, può essere tematizzato. Non così per l’Infinito. “L’Infinito non
appare a colui che ne fa testimonianza. Al contrario, è la testimonianza che appartiene alla gloria
dell’Infinito. È attraverso la voce del testimone che la gloria dell’Infinito si glorifica”.71

L’infinito all’inverso
L’Infinito non è davanti al suo testimone, non gli appare come Detto, come un noema.
Rispetto a esso il testimone non si pone come soggetto che afferma, ma come accusativo che è
chiamato a obbedire a un comando appartenente a un passato che mai fu presente, mai fu dinnanzi
al suo testimone.72
Il modi in cui l’Infinito non appare a colui che lo testimonia è ordinando attraverso la sua
stessa bocca, divenendo ispirazione e profezia.73
L’Infinito non può che ordinare mediante l’ambivalenza dell’ispirazione per restare tale,
infinito, trascendente. Mediante l’ispirazione la soggettività è chiamata, con tutto il peso della
responsabilità, ad agire di propria iniziativa mediante la responsabilità, come se dovesse essere un
passo avanti all’Infinito che le ordina. “L’infinito non è davanti al suo testimone, ma come al di
fuori o «all’inverso» della presenza, già passato, fuori presa”.74

Debarîm ´ahudîm. Le parole chiuse nel Detto


Le considerazioni che faremo sul silenzio di Dio come energia in A. Neher, ruotano intorno
al significato del termine dabar. Significato complesso e profondo perché dabar ha una doppia serie
di possibilità di significati: cosa, fatto, oggetto, parola, avvenimento, rivelazione, comandamento
ecc.75
Le analisi che Neher compie evidenziano che il termine dabar non compare nei primi
capitoli di Genesi. Ma quando esso appare è con questa espressione: debarîm ´ahadîm. Di qui la
sorprendente lezione che i debarîm erano chiusi.76
Ciò significa che la terra era bloccata, che in essa la Parola non aveva trovato via d’uscita,
tutto era rimasto dialogo abortito. E nella Bibbia si possono trovare i paradigmi di tali dialoghi

                                                                                                               
71
Ibid. 184.
72
Crf. DMT p. 274.
73
AE pp. 186-187.
74
Ibid. p. 187; vedi anche DMT p. 274.
75
Crf. NEHER p. 103.
76
Cfr. Ibid. p. 105.

  16  
abortiti: tra Adamo ed Eva, o Caino e Abele, ma anche tra i progenitori e Dio e Questi e Noè, che
esegue solo pedissequamente le indicazioni che gli vengono date.
Ora il termine debarîm ´ahadîm si trova nell’episodio di Babele, che rappresenta da una
parte l’idea di universo concentrazionario, dall’altra la volontà superba dell’uomo di soppiantare
l’ordine della creazione annullando la distanza terra-cielo.77 Le parole e le cose a Babele divengono
solo oggetti commerciabili, e come tali, secondo la terminologia levinasiana, in-significanti perché
la significazione ha origine dalla primigenia prossimità ad Altri. Qui, invece, l’uomo stesso è ridotto
a cosa.
Di fronte all’iniziativa di Babele Dio reagisce con un evento dissolutivo, cioè disperde le
potenzialità chiuse nei debarîm in diverse lingue, conferendo all’iniziativa umana un’autonomia
irreversibile. Ma Dio non tocca l’alienazione dei debarîm, “e sarà necessario qualcun altro per
dissigillare i debarîm, per provocare l’esodo della parola, la sua redenzione dal di dentro delle
cose”.78
Un dabar libero: ecco ciò che Dio aspettava dopo aver liberato la śapâ. Un dabar liberato,
dall’interno, dall’uomo, e non dall’esterno, da Dio; ecco il compito per cui si rendeva necessaria la
comparsa di un Prometeo che creasse questo dabar, con un’iniziativa di assoluta libertà umana.
“Questo Prometeo sarà Abramo […]. Abramo ha dissigillato i debarîm chiusi: ha provocato
l’esodo della parola e la sua redenzione. Abramo è l’inventore della Parola”.79

La Parola divenuta Verbo


Il dabar può essere liberato in tutte le sue potenzialità solo come risposta libera, autonoma e
responsabile, eteronima, rispondente a un appello anteriore alla coscienza, come Dire, come
Profezia.
Abramo è l’inventore del dialogo, quello orizzontale con gli uomini e verticale con Dio. Egli
è il primo uomo nella Bibbia a dare del tu, alla moglie Sara. Quanto al dialogo verticale, esso
matura in Abramo dopo un silenzio abbastanza lungo e, alla sua comparsa, presenta una
caratteristica del tutto nuova, l’iniziativa. Abramo si rivolge a Dio al versetto 2 del capitolo XV
«Che mi darai?», e quando Dio non entra nel gioco della sua domanda, lui non si interrompe, ma
riprende il dialogo al verso 3 «Ecco a me tu non hai dato discendenza…». È l’uomo a gettare a Dio
la sfida del dialogo, e Dio la raccoglie come se l’avesse attesa da sempre, la raccoglie rivolgendo
all’uomo la Promessa.

                                                                                                               
77
Cfr. Ibid. p. 115.
78
Ibid. p. 122.
79
Ibid. p. 123 passim.

  17  
Abramo osa ledabber a Dio: per la prima volta, Abramo parla a Dio attraverso il dabar. Il
dabar non è fuori di lui, ma dentro, dandogli la forza per ergersi davanti a Dio in un atteggiamento
d’indignazione profetica. Qui grammaticalmente, dabar è un verbo: si potrebbe dire che con
Abramo, la Parola è diventata Verbo.80
Da dove prende Abramo tutta questa potenza? Paradossalmente dal silenzio. La sua
avventura comincia nell’obbedienza silenziosa ai comandi di Dio, ed anche al vertice del dialogo,
nell’episodio di Mamre, egli cessa all’improvviso di parlare, fermandosi alla clemenza per dieci
giusti, forse credendo che la misericordia di Dio non possa andare oltre una cifra ragionevole, e così
rinuncia alla propria responsabilità lasciando che Dio prosegua la sua opera da solo. Poi è Dio a
lasciarlo nel silenzio della prova quando gli chiede di sacrificare Isacco. Infine, dopo l’episodio
della ‘aquedâ entrambi i partners di questo dialogo potente tacciono. Un dialogo nato e terminato
nel silenzio.81

Behibbar’am. Dalla creazione alla storia mediante il dabar


Che cosa segna questo silenzio? Segna un passaggio, una crescita, in questo caso la
trasformazione di Abram in Abramo, il cambio di nome, che non è solo una metatesi nominale,
bensì una cosmica.
Neher compie una stupenda analisi di Gen 2,4 in cui compare il termine toledôt,
generazione/storia. La massora esige che la lettera h della parola marbhb (quando vennero create)
di tale versetto sia scritta in grafia minuscola: “behibbar’am: è per mezzo di hibbar’am che il mondo
creato da Dio possiede una storia.
Ora, le cinque lettere del termine hibbar’am marbhb costituiscono in ebraico l’anagramma
delle cinque lettere del termine mhrba Abramo. Ma poiché il h è minuscolo, il segreto rivelato dalla
massora diventa evidente: non è mediante Abram, mediante l’esistenza statica di quest’uomo che il
mondo possiede una storia, ma mediante la mutazione dinamica che ha trasformato le quattro lettere
mrba Abram nelle cinque mhrba Abramo. Questa inopinata introduzione del minuscolo h ha fatto
esplodere la dimensioni del mondo. Passando da Abram ad Abramo, è l’universo intero che compie
un salto: il salto dall’Essere al Divenire. La creazione è ormai Storia”.82

Hitallek lepanay. La pro-vocazione

                                                                                                               
80
Cfr. Ibid. pp. 127-128.
81
Crf. Ibid. pp. 128-129.
82
Ibid. pp. 129-130.

  18  
La seconda caratteristica di questo cambio è la sua irreversibilità. Abramo non è più nominato col
termine Abram in tutta la Bibbia. Il cambio del suo nome ha dato alla storia un indirizzo, una
direzione irreversibile. Dalla Genesi all’Esodo.
Quando Dio chiama Abram gli dice lek-leka, «vattene» (Gen 12, 1); ma quando gli cambia il
nome in Abramo gli dice hitallek lepanay, «cammina davanti a me» (Gen 17, 1). La vocazione
dell’Esodo è quella di camminare davanti a Dio.83
Abramo corre così davanti a Dio come responsabile della Storia. Quando il dialogo tra i due
partners si interrompe, dopo l’aquedà, Abramo viene lanciato da Dio in avanti, verso il silenzio
dell’avvenire. Egli sperimenta, senza afferrarne il perché, ma raccogliendone l’incontestabile
evidenza che, per l’uomo dell’Esodo, gli appuntamenti con la Parola sono ineluttabilmente
appuntamenti mancati.84
Abramo lanciato avanti verso l’avvenire, nei confronti del quale è responsabile in prima
persona. Un avvenire nel quale Dio spesso scompare, lascia solo l’uomo con la sua responsabilità
proprio perché essa resti tale rispetto a una Trascendenza che, per restar tale, ha bisogno di contrarsi,
di interrompersi − per dirla con Levinas. Una Trascendenza ambigua.

L’ambiguità della trascendenza

La trascendenza nella pro-vocazione


Nel camminare davanti all’Infinito, nella responsabilità, vi è la testimonianza dell’Infinito e
della sua trascendenza. La Trascendenza nella provocazione!
In questo modo Dio non diviene mai tema, ma resta nella sua «terzialità» anche quando
viene nominato.
“Nella frase in cui Dio viene per la prima volta a mescolarsi con le parole, la parola Dio è
ancora assente. Essa non si enuncia in alcun «io credo in Dio». Testimoniare Dio non è
precisamente enunciare questa parola stra-ordinaria, come se la gloria potesse dimorare in un tema e
porsi come tesi o farsi essenza dell’essere. Segno dato all’altro di questa significazione stessa,
l’«eccomi», mi significa in nome di Dio al servizio degli uomini che mi riguardano, senza aver
niente con cui identificarmi, se non il suono della mia voce o con la figura del mio gesto, con il dire
stesso”.85

                                                                                                               
83
Cfr. Ibid. pp. 131-132.
84
Cfr. Ibid. p. 134.
85
AE p. 187.

  19  
La trascendenza epifenomenica
Mediante l’ispirazione la Trascendenza resta tale entrando in una relazione col soggetto che
non è tetica, e nemmeno sfugge al pensiero come concetto negativo − che la legherebbe ancora
all’essere e al pensiero. Il soggetto non dice, ma testimonia l’Infinito, nel gioco del linguaggio, nel
quale la testimonianza significa attraverso l’ambiguità di ogni Detto, mediante il farsi segno nella
donazione di segno, nel profetismo che riveste le apparenze di informazioni circolanti come le altre,
che subiscono le influenze dei limiti e delle ferite del soggetto stesso. Ambiguità, ma anche regime
di trascendenza dell’Infinito.86
Così ciò che eccede il pensiero, l’ideatum che infrange la propria idea, che rovescia la
coscienza la quale si disfa in significazione nel Dire, «accade» nella quotidianità mediante la sua
interruzione, nel profetismo e nell’ambiguità di questo. Non è, infatti, profetismo solo quello che
sembra eccesso nel parlare, ma lo sono finanche i limiti e le ferite del soggetto. Ogni ferita è fessura
attraverso la quale l’Infinito irrompe nel tempo, nella vita. Vi irrompe non come fenomeno evidente,
dimostrabile e tematizzabile, ma mediante la propria contrazione rinvenibile tuttavia nelle tracce.
La Trascendenza non come fenomeno, ma come epifenomeno.

L’ambiguità dell’epifania
La Trascendenza raggiunge la soggettività in modo ambiguo appellandola nella
responsabilità anarchica, infinita, per Altri verso cui si è esposti. Il soggetto entra nei disegni
dell’Infinito, vi entra mediante la propria responsabilità, tale da essere chiamato in prima persona,
ad agire non contando su niente e nessuno, come se tutto dipendesse da sé, dal finito. Ma è proprio
questo l’unico modo in cui l’Infinito può accadere senza smentirsi in quanto Infinito. 87
“L’Enigma dell’Infinito il cui Dire in me, responsabilità in cui nessuno mi assiste, diviene
contestazione dell’Infinito, ma contestazione attraverso la quale tutto m’incombe a me”.88
Solo attraverso l’ambiguità fino alla contestazione l’Infinito può entrare nell’intrigo della
soggettività senza smentirsi in quanto Infinito, senza porsi come oggetto infinito della conoscenza.

La trascendenza che tradisce il senso nel Dire


Il Volto non è segno, ma significante, parla. Eppure, il Volto diviene apparire ed epifania, si
pone anch’esso in una dimensione di ambiguità tra la rappresentazione e la prossimità. Bisogna
chiedersi se, malgrado tutto, la soggettività si enunci nell’indiscrezione del Detto, in una
dissimulazione che la filosofia è chiamata a ridurre, attraverso un abuso che giustifica la prossimità

                                                                                                               
86
Cfr. Ibid. p. 191.
87
Cfr. Ibid. pp. 192-193.
88
Ibid. p. 193.

  20  
stessa nella quale l’Infinito avviene come ambiguità dell’ispirazione nella quale la parola Dio entra
come “una parola abusiva”.89 È così che fenomenologicamente il Silenzio possiede una voce, non
sonora, ma più tenue del silenzio.

L’interruzione dell’Infinito nella giustizia


La filosofia è chiamata a ridurre la dissimulazione del Dire nel Detto. Ora se la prossimità
ordinasse solo ad Altri nella sua solitudine non vi sarebbe alcun problema. Essa, invece, è turbata
dall’entrata del terzo, dell’altro, dal prossimo, che pure chiede responsabilità e obbliga alla giustizia.
E proprio in questo sistema il soggetto rientra, «grazie a Dio», come altro per Altri nella
giustizia.90
Giungiamo quindi alla postulazione della realtà e del suo studio, a partire non dall’Io e dal
suo colonialismo, ma dalla responsabilità verso Altri, e dalla sua ambiguità. Ambiguità che è la
condizione nella quale l’Infinito s’innalza come terzo nella prossimità del prossimo.91 Ambiguità
dell’ordine verso il prossimo che mi ossessiona, nella quale, mediante la mia sostituzione, si innalza
la gloria. Sostituzione nella quale sono però io, responsabile senza possibilità di sottrarmi.
Essere responsabili verso colui che non può rispondermi, essere responsabili che non è un
porre domande. Eppure in questa doppia ambiguità si attua la trascendenza. La trascendenza che si
lascia trovare dal Desiderio che misura l’Infinito, lo misura nella sua impossibilità di essere misura.
“Mi feci ricercare da chi non mi consultava, mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi
«Eccomi, eccomi», a una nazione che non invocava il mio nome” (Is 65, 1).

L’improvvisazione della libertà umana


Le considerazioni circa il Dire come responsabilità richiamano ad un aspetto biblico del
Silenzio, analizzato da Neher, che è la sua dimensione di sfida. Una sfida doppia, da parte di Dio e
dell’uomo, che prende le mosse fin dalla creazione dell’uomo, concepita come improvvisazione.92
Neher individua questa improvvisazione nell’espressione “facciamo l’uomo” nella quale
Dio si rivolgerebbe a Adam in potenza come a dire “facciamo, io (Dio) e tu (Adam), l’Uomo”, in un
rapporto che implica l’intrigo della propria responsabilità e libertà.93
Dio obbliga l’uomo a essere libero di rispondere a una chiamata. È con questa libertà che il
silenzio assumerà anche i connotati di sfida.

                                                                                                               
89
Cfr. Ibid. pp. 195-196.
90
Cfr. Ibid. p. 198.
91
Cfr. Ibid. pp. 202-203.
92
Cfr. NEHER pp. 156.
93
Cfr. Ibid. pp. 156-157.

  21  
Il problema della libertà
Dio fa tanto appello alla libertà dell’uomo che lo chiama con l’interiezione «Ascolta!». Con
questa esclamazione l’uomo è creato tale nella sua possibilità di rispondere agli appelli di Dio nella
storia. Dio cerca l’uomo, lo invita a un incontro nella storia.
“Tra gli scambisti efficaci della storia, alcuni hanno voluto sfuggire a questa caccia, a questa
«persecuzione» di Dio. Sono i profeti”.94
Tra i grandi profeti, quello che può meritare certamente questo nome è Ezechiele la cui
esperienza è una vera e propria tragedia del silenzio.95 Ezechiele, a un punto della sua vicenda, si
trincera in un ostinato isolamento. Come risponde Dio a tutto ciò? Chiude nel silenzio Ezechiele e
anch’Egli si chiude nel silenzio fino a che, parlerà di nuovo al suo profeta sciogliendogli la lingua
per permettergli di parlare al suo popolo in sua vece.
“Due esseri di cui l’uno tentava di sfuggire all’altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia,
si ritrovano nel rovescio silenzioso dei Volti nascosti […]. Cessando di essere un rifugio, il silenzio
diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l’uomo all’appuntamento
ineluttabile, ma è l’appuntamento nell’universo opaco del silenzio”.96

L’ambiguo silenzio dell’avvenire


La libertà è legata al silenzio, lo richiede come un palcoscenico nel quale essa può
impersonare il proprio ruolo di libertà. La libertà e il silenzio sono legati tra di loro in molti modi,
ma in particolare in una dimensione, quella del futuro perché l’obiettivo della libertà non può che
essere l’avvenire e davanti a lei propulsano le dimensioni dell’avvenire che sono il sogno, l’utopia e
la speranza.97
L’avvenire è legato al silenzio, perché il passato e il presente possono essere conosciuti,
narrati, interrogati. Solo l’avvenire è silenzioso e ambiguo come il silenzio.98
Ora nella sfida della libertà, della responsabilità, l’uomo ha da dire Sì al Silenzio, hinnenî, Sì
io! Nella storia Biblica è soprattutto Abramo che pronuncia questo eccomi/sì, io nelle interpellanze
che Dio gli fa’, fino all’aquedà, all’equivoco e alla svolta della prova.99
Dopo la prova di Moria il dialogo tra Abramo e Dio si chiude, come se per Abramo
quell’evento fosse stato lo spezzarsi di una corda troppo tesa. Due vie si aprono, dunque, davanti a
lui, quella del sogno e quella dell’opera. Entrambe comportano la loro parte di silenzio. Abramo si

                                                                                                               
94
Ibid. p. 160.
95
Crf. Ibid. pp. 168-176.
96
Ibid. p. 178 passim.
97
Crf. Ibid. p. 179.
98
Cfr. Ibid. p. 180.
99
Cfr. Ibid. p. 186.

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incammina su entrambe: il sogno/promessa restituito che è il figlio, e l’opera, concreta e silenziosa,
che è la vita.100

Il Sì ambiguo della speranza


Il Sì dell’Opera è anche il Sì che pronuncia Giobbe, non suicidandosi e scegliendo la vita. Il
rinvio all’opera sarebbe il mezzo col quale Giobbe trova la via d’uscita pronunciando, nella propria
infermità, un Sì al male.101 Sì che possiede tutta la forza inerziale, energetica e di sfida del silenzio e
dell’ambiguità.
È, infatti, nel bel mezzo del dialogo sfida con Dio che Giobbe pronuncia questo Sì, e lo fa
grazie al procedimento ermeneutico del qerê-ketib, che consente all’orecchio umano di sentire ciò
che dovrebbe leggersi, e allo sguardo umano di leggere ciò che dovrebbe sentirsi.
“In quel versetto infatti (13, 15), Giobbe pronuncia due parole che significano
simultaneamente la speranza e la disperazione:
lxya wl
lxya al
Spero in Lui, grida, ma anche:
Non spero, facendo di queste grida contraddittorie ma simultanee la matrice di un nuovo
mondo”.102

L’ambiguità dell’alleanza
Giobbe non è, tuttavia, un martire del Silenzio per i maestri della tradizione ebraica, i quali
trovano questo martirio nell’emergenza silenziosa di un intervallo che c’è tra il primo e il secondo
versetto del capitolo XX del libro di Ezechiele. In questo brano alcuni anziani di Israele vanno a
consultare Dio che non si lascia interrogare da loro. Dopo tale affermazione troviamo un rigo
bianco e poi un’esclamazione di Dio, per bocca del profeta, che afferma che non lascerà vivere il
suo popolo come le altre genti, e regnerà su di lui con mano forte.103
Ciò che forse impensierisce gli interlocutori di Dio non è la fine dell’Alleanza, più volte
minacciata, ma le sue perpetue tergiversazioni di fronte alle quali si richiede da Dio una risposta

                                                                                                               
100
Cfr. Ibid. p. 190.
101
Cfr. Ibid. pp. 203-205.
102
Ibid. p. 209.
103
Cfr. Ibid. pp. 212-213.

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schietta, oggettiva e inequivocabile. A questa esigenza di tranquillità della coscienza Dio risponde
con tutta l’aggressività del silenzio e dell’ambiguità.104
Neher propone un’altra interpretazione che è quella del Rashi. Ciò che preoccupa gli
interlocutori del profeta è l’eccessiva luce dell’Alleanza; ciò che li stanca è proprio la responsabilità
alla quale sono chiamati davanti a tutti i popoli, il non aver alcun appoggio in un Dio. Quindi ciò
che li spinge a interpellarlo non è il desiderio di una sistemazione borghese, ma la nostalgia di un
silenzio che faccia da barriera tra il loro Io e il mondo, il loro Io e Dio che li ossessiona col suo
comando.105
Ed è per questo che Dio li travolge con l’uragano di parole pronunciate dal profeta. Come
Giobbe di fronte all’uragano aveva imparato che non si può artificiosamente parlare davanti a Dio,
così, adesso, essi imparano che non si può artificiosamente tacere davanti a Dio.106  

Hen lâ. Nonostante tutto. La fede ex nihilo


Ancora al Rashi dobbiamo l’ipotesi circa l’identità di quegli uomini. Sono Anania, Azaria e
Misaele. A Nabucodonosor, che vuole costringerli all’idolatria, hanno risposto di essere disposti a
subire il fuoco, sicuri che Dio li salverà. Ora sono venuti a consultare il profeta per essere
rassicurati nelle loro convinzioni. Dio risponde che non li salverà. Proprio loro che sono rimasti
fedeli all’Alleanza, subiscono l’ira riservata agli infedeli. Ebbene, anche se Dio li abbandonasse,
essi sono disposti al martirio.
«NONOSTANTE TUTTO, sappi o re, che noi non adoreremo il tuo!».
“Questo nonostante tutto […]. Hen lâ! Strana sfida della lingua ebraica che si prende gioco
delle contraddizioni e dei paradossi ed esegue con essi sorprendenti acrobazie […]! Hen lâ, formula
della contraddizione, altro non è che la contiguità del sì e del no […]. È dal di dentro del vuoto,
dall’interno dell’assenza, dal cuore del No che scaturisce il Sì: la fede è una genesi, appare ex
nihilo!”.107
La fede e il martirio nascono dal silenzio, perché dovunque si presentasse la parola verrebbe
meno l’esposizione totale del martirio. “Martire è soltanto l’uomo che può ergersi davanti a Dio e
lanciare verso di lui il grido del midrash, con cui il versetto biblico della Presenza: chi è come te fra
gli dei, mî kamôkâ ba’elîm (Es 15, 11), è capovolto da cima a fondo per diventare il versetto
dell’Assenza, il versetto dell’uomo ritto davanti al Silenzio opprimente di Dio: mî kamôkâ
ba’illemîm, chi è come te tra i muti?”.108
                                                                                                               
104
Cfr. Ivi.
105
Cfr. Ibid. pp. 215-216.
106
Cfr. Ibid. p. 217.
107
Ibid. pp 218-219 passim.
108
Ibid. pp. 219-220.

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L’in-assenza di Dio.

Qe dôšê dummyyâ. I martiri del Silenzio


Costoro sono i martiri del Silenzio: gli uomini che vivono nella storia obbedendo a un
comando che sembra provenire dalla loro coscienza, come profezia, avendo avanti a sé un Dio che
li lascia camminare davanti a Lui, senza nessuna sicurezza, li lascia smarrire, perire. Costoro sono
testimoni della Trascendenza col loro «eccomi», con la loro responsabilità assoluta di fronte al
silenzio di Dio.
Essi camminano-avanti con tutto il dolore della speranza/non-speranza, sollevando a Dio un
grido che, nonostante la loro disperazione non può essere mai rottura dell’Alleanza ambigua, un
grido che rimane una delle possibilità del rapporto faccia a faccia con Dio.
Dopo aver incontrato Dio, l’uomo scende dal Sinai incontro alla storia. La terra è stata
promessa, ma non è assicurata una fine. L’uomo deve combattere con Dio le battaglie della storia,
combattere da solo le battaglie della responsabilità per realizzare l’Opera che solo a lui spetta
compiere nel Silenzio.

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