Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Giuseppe Stinca
L’intento di questo lavoro è porre in parallelo le categorie che Levinas utilizza per declinare
la trascendenza di Dio con le considerazioni di Neher sul silenzio di Dio e con la sua analisi della
fenomenologia del silenzio come inerzia, energia e sfida, nel suo libro L’esilio della parola1.
Il punto di contatto ci è sembrato essere la concezione di Levinas della trascendenza di Dio
fino a una sua possibile confusione col brusio del c’è, nella quale la parola «brusio» richiama quella
che, nel testo biblico di 1Re 19, 12b, letteralmente ed etimologicamente è resa con “la voce di un
tenue silenzio”.
La clavis hermeneutica del lavoro va pertanto individuata in questa vicinanza di termini e di
significati. Facendo perno su tale contatto sono stati individuati dei temi comuni – espressi con
linguaggio e immagini differenti – accostabili in una sequenza logica, per la quale l’autore
principale di riferimento rimane Levinas.
Dio insensato
1 2
NEHER A., L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Maretti, Genova 1983 1997 ; d’ora in
poi citato NEHER.
2
LEVINAS E., Dieu, la Morte t le Temps¸Édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici,
Dio, la Morte e il Tempo, Jaka Book, Milano 1996, p. 180; d’ora in poi citato DMT; ecco l’elenco delle altre
abbreviazioni: Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. di M.T. Aiello e S. Petrosino,
Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaka Book, Milano 1983: AE; De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982,
trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaka Book, Milano 1986: DQVI; E. LEVINAS, Ethique et Infini,
Feyard, Paris 1982 ; trad. It. Di E. Beccarini, Etica e Infinito, Città Nuova, Roma 1984: EI; Le temps et l’autre, Fata
Morgana, Montpellier 1979, trad. it. Di F. Ciglia, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1987: TA; Totalité et Infini,
Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. Di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaka Book, Milano 1980 19902: TI.
3
Cfr. Ibib., pp. 172-174.
4
Ibid., pp. 174-175 passim.
1
Bisogna chiedersi se l’essere e il pensiero siano la sorgente ultima del senso o se ci sia una
significazione anteriore alla presenza che significhi in maniera eccezionale non oltre l’essere, ma
prima e altrimenti che essere. Una tale modalità sarebbe quella di un linguaggio non dossico, ma
paradossale5, pensato non come affermazione, ma come domanda, come questione.
In tutta la tradizione occidentale il pensiero è tetico, pone ciò che afferma, e così forma un
mondo. Anche l’idealismo moderno, che punta l’accento sull’attività del pensiero, non si congeda
da questa visione, dalla priorità del mondo; nessuna trascendenza “proprio mentre il Dio della
Bibbia significa in maniera inverosimile […] l’al di là dell’essere, la trascendenza”.6
Dio Trascendente
Per Levinas il pensiero occidentale si configura come una secolarizzazione dell’idolatria. In
esso la meraviglia diviene filosofia, l’idolatria astronomia, la razionalità ateismo; e tutto ciò
appartiene al gesto d’essere cioè alla fonte dalla quale la razionalità prende senso e fondamento, fa
parte del movimento stesso del sapere che pone l’essere come suo fondamento e che abbraccia il
tutto con il suo sguardo. Tuttavia, a differenza di Heidegger, per Levinas la tecnica non è la fine
dello spirito umano. In questa situazione Dio trova uno spiraglio nella rottura del movimento del
pensiero che riposa sull’essere e che segna il regno dello Stesso.
Secondo Levinas la tecnica ha avuto sull’uomo un effetto di disincanto, ma essa non lo salva
da ogni mistificazione, soprattutto non lo salva dalla mistificazione del pensiero stesso e
dell’apparire. Dunque se si deve ipotizzare una Trascendenza la si deve pensare a partire da
qualcosa che sia al di là del pensiero, al di là del movimento unificatore dello Stesso, della filosofia,
della tecnica e dell’ateismo. Una secolarizzazione della secolarizzazione.7
Tale disincanto del disincanto avviene per Levinas nell’appello crudo della corporeità, della
povertà dei bisognosi, in quella che in una parola egli definisce “fame”. Questa trascendenza che ha
origine nella corporeità non è ontologica perché non ha al suo inizio nel pensiero, ma è di colpo
responsabilità per l’altro uomo. Solo tale responsabilità permette di uscire dall’incantamento del
pensiero e dell’apparire, permette di secolarizzare la secolarizzazione,8 e apre una fessura di uscita
in direzione di un al di là nel quale si collocherebbe un Dio trascendente.9
Trascendenza e silenzio
5
Cfr. ivi.
6
DQVI, pp. 78-79 passim.
7
Cfr. DMT, pp. 226-229.
8
Cfr. Ibid. p. 231.
9
Cfr. Ibid. p. 232.
2
Nella sua analisi della fenomenologia del silenzio biblico Neher individua tre ambiti di
silenzio: inerzia, energia, e sfida, caratterizzati ciascuno da una coppia di termini che designano la
parola “silenzio”.
Tra il silenzio inerte del Nulla e il silenzio energetico dell’Essere si colloca la coppia di
termini: `âlâm e haster panîm. Il primo termine è utilizzato nella Bibbia per indicare il silenzio
degli uomini, anche se i rabbini lo utilizzeranno per il silenzio di Dio; invece il secondo è il termine
maggiormente usato nel testo biblico per indicare il silenzio di Dio.
‘Illem, la cui radice è la medesima di `âlâm, significa muto, ma un muto che è tale non per
motivi fisiologici; la chiave di lettura del contesto ce la fornisce l’espressione haster panîm, che
significa letteralmente nascondere il volto, con un travestimento, o una maschera. “Il denominatore
comune di questi due termini, come si vede, è la nozione di gioco teatrale. Nei due casi, il silenzio è
una maschera”.10
In questa dinamica teatrale l’uomo e Dio giocano a nascondino in un dramma nel quale
rischiano di perdersi o di dimenticare di essere partners dell’azione. Nella Bibia il mondo è aperto,
nessuna soluzione certa è già scritta. Il silenzio, allora, risulta necessario alla libertà dell’incontro e
del dialogo tra uomo e Dio.11
3
al male, qualcuno verso il quale va la mia interpellanza, la mia domanda sul perché della mia
sofferenza, una domanda che suppone un Bene dietro il Male. “Il senso comincia dunque nella
relazione dell’anima a Dio a partire dal suo risveglio attraverso il male. Dio mi fa male per
sradicarmi dal mondo in quanto unico ed eccezionale : in quanto anima”.15
C’è un terzo momento in questa fenomenologia del male: il mio odio del male.16 In questo
senso il male mi colpisce nell’orrore che ho di esso e nella mia conseguente relazione paradossale
al Bene, una relazione che è una attesa senza mira, non intenzionale, è un’attesa senza atteso, una
pazienza.
L’analisi di Levinas si distingue rispetto a quella di Nemo nell’interpretare il tacere
dell’uomo di fronte all’onnipotenza di Dio come appello alla responsabilità verso il mondo, una
responsabilità che trova l’uomo sempre in ritardo, un comandamento primordiale, che può avere
senso solo all’interno di un’umanità solidale. Tale responsabilità è ricollegata da Levinas a quella
destata nell’uomo dall’appello anarchico del Volto d’Altri.
In questo senso, secondo Levinas, la storia sarebbe un dramma nel quale il Medesimo è
scompigliato dal Male e dall’Altro, e tentato di tornare al riposo della tematizzazione del mondo.
Un’alternanza di fratture e ricomposizioni, nelle quali non c’è sintesi, ma rinvio, mira senza
coincidenza, ambiguità, “ma anche l’approssimarsi di un Dio infinito, approssimarsi che è la sua
prossimità”.17
4
frattura incolmabile nella sua vita, il filo sottile che unisce Giobbe a Dio si spezza. È come se Dio
avesse assunto per Giobbe il rischio che si era rifiutato di correre con Abramo. Infine, il termine
ŝadday che non compare nel caso di Abramo è invece utilizzato nell’esperienza di Giobbe.
Per Neher ŝadday è Colui che basta a se stesso, non l’Esser da cui ci si aspetta tutto, ma
l’Essere da cui non ci si può aspettare nulla. “È il Dio senza eco, senza vigilia e senza domani, il
Dio del Silenzio assoluto”.20
L’esperienza biblica parla di due tipi di prova: quella vera e propria, e quella che si potrebbe
definire una falsa prova – quella di Giobbe. Se il Dio della prova è quello dei ponti sospesi, quello
della falsa prova è il Dio delle arcate spezzate.21
La Bibbia, così costituita, risulta essere il documento teologico più inquietante che sia stato
offerto alla riflessione umana, e la riflessione ebraica non è rimasta refrattaria a tale inquietudine.
Il Dio del silenzio che da essa emerge può essere accostato al Dio che non è compromesso
in alcun modo con l’essere, il cui legame con l’uomo non si declina con le categorie del senso, del
pensiero e della Parola, ma con quelle del Silenzio.
Sono queste le categorie che troviamo nell’esperienza del profeta Elia.
Il brusio dell’il y a
La trascendenza paradossale
Restano per Levinas due domande: se sia possibile pensare un Dio al di fuori dell’onto-teo-
logia, e se un tale modello d’intelligibilità possa essere formulato a partire dall’etica, che costituisce
una significanza senza riferimento al mondo, all’essere e alla conoscenza. In tal modo “la
trascendenza come tale sarebbe una mira che resterebbe mira; in questo senso sarebbe una
trascendenza non dossica, ma para-dossale […]. Una trascendenza infinita, poiché l’idea di colmare
una mira intenzionale con una visione è qui fuori luogo, fuori proporzione. Una trascendenza s-
proporzionata”.22
20
Ibid. p. 144.
21
Cfr. Ibid. pp. 145-146.
22
DMT pp. 190-191 passim.
5
soggetto di consolidarsi in quanto tale, ma che costituisce, allo stesso tempo, proprio la
soggettività.23
Tale passività è, allo stesso tempo, impossibilità di cogliere l’oggetto come oggetto
intenzionale nell’attesa. In questo senso la pazienza è un’attesa senza atteso, una mira che resta
mira, nella quale l’oggetto non viene a colmare il vuoto dell’attesa, e nella quale non c’è sintesi
noetico-noematica, ma uno scoraggiante parallelismo, una pazienza nella quale il tempo si riferisce,
si deferisce all’infinito.
In qualche modo, nell’intrigo etico, la trascendenza “significa” diversamente dalla
significazione legata alla presenza e alla rappresentazione, essa è paradossale e infinita, perché non
ha un inizio né una fine nel tempo, ed è sproporzionata perché l’oggetto della sua attesa si allontana
con l’avvicinarsi a esso in quello che Levinas chiama «approssimarsi».
“Questo paradosso iscrive la gloria dell’Infinito nella relazione abitualmente chiamata
intersoggettività. L’infinito si innalza gloriosamente da tale relazione”.24
In questo modo la trascendenza è altrimenti che essere. L’essere in quanto essere, infatti,
annoda un intrigo al quale ogni senso è sospeso. L’essere regna, e la conoscenza dell’essere, in cui
l’essere si manifesta, appartiene alla vita stessa dell’essere. Ma l’intrigo etico ha tagliato con
l’intenzionalità.25
La soggettività anarchica
Di più. “L’etica taglia corto con l’intenzionalità così come con la libertà […]. È come se vi
fosse qualcosa prima dell’inizio: un’ an-archia”.26
Nella relazione con l’altro l’io è chiamato a una responsabilità anteriore a ogni suo a priori,
a ogni possibile rappresentazione. “Abbiamo chiamato ossessione questa relazione irriducibile alla
coscienza”.27
Nella significazione anarchica l’io è ossessionato perché non può mai assumere ciò da cui è
affetto, si configura in essa un’eteronomia che “designa l’intrigo o il dramma meta-ontologico
dell’anarchia che disfa il logos” .28
In tale responsabilità senza scelta, anarchica, anteriore alla coppia libertà/non libertà vi è per
l’io una investitura che va al di là dei suoi disegni egoistici, che si pone prima del suo costituirsi
come soggetto, e in ciò è altrimenti che essere.29
23
“Questa responsabilità arriva fino alla fissione, fino alla de-nucleazione dell’io. E questa è la soggettività dell’io”.
DMT p. 191.
24
Ibid. p. 224.
25
Cfr. Ibid. pp. 221-222.
26
Ibid. p. 235 passim.
27
AE p. 126.
28
DMT p. 237 passim; vedi anche AE pp. 127-128 passim.
6
In questo senso l’etica viene prima della libertà, l’io si trova compromesso col Bene prima
di averlo scelto, il Bene deve eleggerlo per primo e esso stesso deve essere in ciò anteriore alla
libertà, anteriore alla bipolarità del bene e del male, prima dell’essere, prima della presenza.30
“In questa relazione del Bene con me, relazione che è assegnazione di me ad Altri, accade
qualcosa che sopravvive alla morte di Dio”.31
29
Cfr. Ibid. p. 238.
30
Cfr. Ibid. pp. 241-242.
31
Ibid. pp. 242.
32
Ibid. p. 265 passim.
33
Ibid. p. 266 passim.
34
Cfr. TA p. 21.
35
EI p. 66.
7
La seconda caratteristica è quella della passività, aspetto molto fecondo che attua
un’evoluzione negli scritti di Levinas, fino a un suo ruolo positivo che chiude il cerchio in
Altrimenti che essere. Nei testi giovanili la passività, riguarda l’impossibilità di sottrarsi al campo di
forze neutro e impersonale dell’essere, un essere esposti che comprende anche l’angoscia, che non è
angoscia di fronte al nulla, ma un’apertura all’ignoto.
Tali figure tornano in Altrimenti che essere. Di nuovo l’il y a è caratterizzato dalla sua
neutralità, monotonia, anonimato, insignificanza, dal suo brusio. Questo il y a urta contro l’io che
vuole costituirsi tale nella libertà, che vuole tornare a se stesso come presente, e sfuggire
all’inesorabile c’è.36 Per Levinas il soggetto non può mai liberarsi dall’incombenza del c’è, non può
farlo costituendosi come Io perché “il brusio incessante del c’è urta in modo assurdo l’io
trascendentale attivo-cominciante, presente”.37
Però, paradossalmente, è proprio questa passività estrema, questa impossibilità di fuga,
questa esposizione, a costituire, mediante la responsabilità per Altri, il nascere anarchico della
soggettività, che si pone non più in relazione con l’essere, costituendosi come essenza, ma con
l’altrimenti che essere mediante il disinteressamento. “Per sopportare senza compenso gli è
necessario l’eccessivo o la nauseante confusione e l’ingombro del c’é”.38
Il brusio del c’è diviene, dunque, luogo-non-luogo in cui è possibile il verificarsi della
soggettività come responsabilità per altri, la soggettività che è luogo-non-luogo dove avviene la
trascendenza.
Il brusio dell’il y a avvolge la soggettività esposta urtandola nel suo tentativo di costituirsi
come Io trascendentale, ma nello stesso tempo le offre la possibilità di costituirsi come soggettività
responsabile ed anarchica, cioè il luogo-non-luogo in cui accade la trascendenza. Il fenomeno della
trascendenza è circonfuso dal brusio dell’il y a.
Tale il y a è riconducibile a Dio? Se così fosse Levinas tradirebbe le sue iniziali intenzioni di
parlare di Dio, come un termine significante all’interno di una significazione anteriore alla
presenza.
L’il y a possiede, però, delle caratteristiche che hanno molte analogie in comune con quel
termine significante che chiamiamo Dio, e con quello che è il sostrato per la possibilità
fenomenologica della Trascendenza e dell’Infinito: l’impossibilità del nulla, l’irremissibilità
dell’essere, l’esposizione, la passività senza assunzione, la responsabilità anarchica.
36
Cfr. AE p. 204.
37
Ivi.
38
Ibid. p. 205.
8
Neher, leggendo le prime righe di Genesi, afferma che quasi tutta la tradizione rabbinica ha
sempre individuato nell’espressione “Dio disse” il primo atto della creazione. In tal modo è con il
dire della Parola che tutto ha avuto inizio. In tale concezione tutto è armonia, ogni lato negativo
della creazione è compreso in una sintesi unitaria. Tutto è Parola e non c’è spazio alcuno per il
silenzio e per il dialogo che esso sottende.39
Ora l’interpretazione rabbinica della Bibbia introduce invece, in questa visione di armonia,
la concezione di un mondo pieno di lacune e di vuoti, creato non tutto d’un colpo perfetto dalle
mani di Dio, ma solo dopo svariati tentativi, e contenente ancora numerose imperfezioni, restando
solo sufficientemente stabile e nel quale trova il proprio adeguato spazio il silenzio. Uno spazio che
è contrappunto della parola, in un’aggressiva opposizione dialettica a essa, che non la accompagna,
ma la precede nella logica del pro-logo.40
Letteralmente prologo significa prima della parola, ma quale è la sua vera identità? Nei
primi versi di Genesi una serie di sostantivi e aggettivi vengono utilizzati per descrivere questa
situazione caotica che i filosofi hanno identificato e bollato subito come Nulla, affermando che la
creazione è ex-nihilo.
In Genesi, tuttavia, questo Nulla non è niente, bensì un ciarpame che il primo colpo di scopa
della Parola disperde ai quattro venti, che esiste da qualche parte in una zona pre-verbale.41
Il Nulla è pertanto qualcosa di gigantesco, una serie di mondi non riusciti che si rovesciano
l’uno sull’altro in abissi senza fondo, un serbatoio di forze negative che l’atto creativo ha respinto
nel passato, ma che non ha rimosso per sempre. Questo Nulla è “pronto anche a rispondere
all’appello dell’Essere qualora questi, all’improvviso, si ricordasse della sua originale parentela con
il Nulla.
Appare allora il Silenzio − il grande solenne silenzio-inerzia − non come una passeggera
sospensione della parola, ma come il portavoce dell’invincibile nulla. Allora il Silenzio sostituisce
la Parola, perché il Nulla è ridiventato il luogo-tenente dell’Essere”.42
Lô’-dûmmyâ. Il Non-Silenzio
Morte, notte e silenzio sono tra loro collegati e costellano la Bibbia con le loro apparizioni,
ma Neher si sofferma sul Salmo 22 perché esso rappresenta una lotta frontale contro la morte e la
notte e perché l’incantesimo del salmista viene reso con un’espressione − lô’-dûmmyâ − la cui
singolare incisività stupisce poiché lô’-dûmmyâ è letteralmente il Non-Silenzio.43
39
Cfr. NEHER pp. 70-71.
40
Cfr. Ibid. p. 72.
41
Cfr. Ibid. pp. 73-74.
42
Ibid. pp. 74-75.
43
Cfr. Ibid. p. 77.
9
Neher non segue la tradizionale interpretazione dei versi nei quali è inserita questa
espressione: «anche di notte non trovo riposo». Per Neher lô’-dûmmyâ è il non-silenzio che non è la
parola, ma una caduta in un silenzio più silenzioso del silenzio, l’accesso ad una dimensione
metasilenziale. Di giorno Dio non risponde al Salmista «Io sono colui che sono», e di notte, col suo
silenzio, sembra dire «Io sono colui che non sono». “Il Signore appone all’uomo il Dio nascosto. Il
Non-Silenzio gli oppone un Dio il cui Essere non può essere colto se non a partire dalle radici
fuggenti del Nulla”.44
Potremmo quasi, forzando la mano nelle analogie e traduzioni, accostare il Non-Silenzio del
Salmo 22 al brusio anonimo dell’il y a. Non parola (logos) né silenzio: il Non-Silenzio.
Circondato dal Non-Silenzio il salmista è esposto ai propri nemici fino alla responsabilità
del male che gli fanno.
Ritroviamo tutti gli aspetti dell’il y a, e il Non-Silenzio sembra essere il luogo-non-luogo
dove la passività estrema senza assunzione può divenire relazione con l’Infinito nella responsabilità
per Altri, meta-luogo dell’attuarsi della Trascendenza.
10
Agendo in base alla convinzione che gli idoli sono falsi e muti e il Dio vero è il dio della parola e
della luce, Elia gioca il tutto e per tutto: «La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!»
(1Re 18, 24).
Neher sottolinea come in realtà la tecnica della mantica sia costruita ad arte per funzionare:
un idolo escogitato per parlare parlerà, ma la sua parola non sarà che una parodia della parola
reale.46
Eppure, nell’episodio citato, gli idoli non rispondono mentre JHWH manda il fuoco. E se
Dio non avesse risposto? E ancora: rispondendo non si è forse consegnato anch’Egli alla dinamica
della mantica e degli idoli? A tali interrogativi la Bibbia non è insensibile.47
La vicenda del profeta Elia sul monte Carmelo, infatti, trova il suo completamento con gli
eventi dell’Oreb.
46
Cfr. Ibid. p. 90.
47
Cfr. Ibid. pp. 91-92.
48
Cfr. Ibid. pp. 96-97.
11
intenzionale e tetico. Dio non può essere presente in tal modo. In tal senso preferisco coniare il
termine in-assenza, nel quale il prefisso in − come già nell’in-finito levinasiano − indica un non e
un in. Una doppia negazione che non è posizione, ma una scivolata nel linguaggio dell’altrimenti
che essere. Tuttavia una negazione significante di una significazione anteriore alla presenza, in una
relazione non riconducibile all’ontologia, significante nella sua Trascendenza, nel suo Silenzio!
Di fronte all’in-assenza dalla Trascendenza l’uomo è interpellato nel suo atteggiamento e
nel linguaggio che esso deve assumere. Un linguaggio che in Levinas è descritto con i caratteri del
Dire, in Neher assume l’aspetto drammatico della responsabilità dell’uomo di fronte al Silenzio.
È qui che ci si scontra con un altro silenzio: quello dell’uomo che si estende nei primi undici
capitoli di Genesi, come se una chiave della creazione fosse stata smarrita. “Questa chiave è il
termine stesso che designa la parola nella Bibbia: il termine dabar. Ora, è con l’abracadabrante
avventura del dabar che tutto avrebbe avuto inizio e che, nella Bibbia, il silenzio attinge una nuova
dimensione, perforando l’inerzia per accedere all’energia”.49
La nostra analogia si estende alle considerazioni sul Dire senza Detto e alla paradossalità del
dabar.
49
Ibid. p. 99.
50
Cfr. DQVI p. 97.
51
Cfr. Ivi.
12
Secondo Lavinas il Detto è inteso come noema di un atto intenzionale, nel quale il soggetto
si restringe in pensiero e fornisce un segno che rinvia ad un significato. Ma il soggetto del Dire non
è il significato di questo segno, e la significazione del Dire non si risolve tutta nel Detto. Essa rinvia
a un intrigo preoriginario della responsabilità che può essere descritto come rovesciamento
dell’intenzionalità.52
Il Dire, infatti, non si risolve nell’invio di segni, perché questo presuppone una preliminare
rappresentazione di questi. Ci troveremmo di fronte a un soggetto già costituito come Io-penso che
traduce i suoi pensieri in linguaggio, in segni. Si tratterebbe, dunque, di un’azione intenzionale.
L’invio di segni, invece, presuppone già una prossimità ad Altri, un intrigo di tipo etico che
è anteriore alla rappresentazione. “L’intrigo della prossimità e della comunicazione non è una
modalità della conoscenza”.53
L’esposizione significante
Nel Dire il soggetto si trova totalmente destitutito, stanato dalla sua permanenza in sé, non
abitando più nessun luogo. Questa non abitazione si risolve non nel dare segno, ma nel farsi segno,
nella totale obbedienza.54
Il Dire è quindi una risposta che sorge come iperbole dalla passività, nella responsabilità per
Altri, una passività che è rovescio dell’intenzionalità, un rovescio senza diritto, un essere come
vulnerabilità. Situazione nella quale il soggetto è vocato come unico.55
Vulnerabilità dell’essere che si espone al rischio del non senso, e così alla possibilità della
Trascendenza che deve necessariamente prodursi come contro-senso.56
52
Cfr. AE pp. 58-59.
53
Ibid. p. 61.
54
Cfr. Ibid. pp. 62-63.
55
Cfr. Ibid. pp. 63-64.
56
Crf. DMT pp. 262-263.
57
AE p. 166.
13
Anche la soggettività è concepita all’interno di questo sistema. Il ruolo che essa svolge è quello di
raccogliere la manifestazione e, così, di rientrare nell’inglobante atto d’essere.
Il soggetto, dunque, verrebbe assorbito totalmente nel Detto e non sarebbe l’origine di
alcuna significazione. E anche la significazione, l’intelligibilità e lo spirito risiederebbero nella
manifestazione, nella presenza.58
Ma nello straordinario del rapporto etico abbiamo intravisto una significazione anteriore alla
presenza. Pertanto la significanza della significazione non si esercita come modo della
rappresentazione, la significazione non riposa nell’essere.59
E la relazione nella quale il soggetto è chiamato come unico è la responsabilità. Essa rompe
con l’anfibologia dell’essere e dell’ente, ma anche con la spiritualità della manifestazione, come
articolazione del senso e avventura dello spirito.60
Nella significazione del Dire il soggetto è liberato in quanto unico cioè come soggettività
anarchica e responsabile.61
In questo senso la significazione è una nascita latente del soggetto62 in quanto unico, latente
in quanto anarchica, in quanto precedente ad ogni rappresentazione, in un obbligo senza impegno
preso. In questa nascita senza inizio, nel disinteressamento, si ode la voce dell’Infinito che viene dal
di fuori dei confini dell’ontologia.63
Sopra abbiamo detto che il soggetto che si costituisce come Io all’interno del sistema della
manifestazione e nella quale la sua soggettività è tale nel suo raccogliere la rappresentazione, si
cristallizza nel Detto. Ora di fronte alla voce dell’Infinito che la disfa in disinteressamento, la
soggettività si apre ad una manifestazione che non si concretizza nel Detto.
“Davanti a questa an-archia − davanti a questo senza-inizio − fallisce la raccolta dell’essere.
La sua essenza si disfa in significazione, in Dire al di qua dell’essere e del suo tempo, in dia-cronia
della trascendenza”.64
58
Crf. Ibid. pp. 169-170.
59
Crf. Ibid. p. 171.
60
Crf. Ibid. p. 173.
61
Cfr. DMT p. 223.
62
Crf. AE p. 175.
63
Cfr.Ibid. pp. 175-176.
64
Ibid. p. 176.
14
l’interpolazione del segno, senza proporsi come tema”. La significazione è pertanto un atto del
Significante che riprende il segno esponendolo, è un assistere alla donazione di segno.65
In tal senso la significazione è affidata ad Altri, alla sua parola con la quale riprende il segno
dato per illuminarne ciò che nella parola era ancora oscuro. La verità è promessa, e la promessa è
linguaggio, è Dire.
È solo all’interno di questo intrigo che l’oggettività acquista un peso, che la verità può
rivelarsi come promessa, come Dire. Solo questa alterità permette di infrangere l’incantesimo del
sistema segno-significato. Il significante è esteriore, è Altro, Altri.66
65
Cfr. TI pp. 91-96.
66
Cfr. Ibid. p. 96.
67
Ibid. p. 98 passim.
68
Cfr. AE p 180 nota 8.
69
Cfr. Ibid. p. 181.
70
Cfr. Ibid. p. 182.
15
«Eccomi» come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia perché esso non è
rappresentazione. E non vi è testimonianza che dell’Infinito. Tutto può essere detto perché appare a
chi lo dice come noema e, pertanto, può essere tematizzato. Non così per l’Infinito. “L’Infinito non
appare a colui che ne fa testimonianza. Al contrario, è la testimonianza che appartiene alla gloria
dell’Infinito. È attraverso la voce del testimone che la gloria dell’Infinito si glorifica”.71
L’infinito all’inverso
L’Infinito non è davanti al suo testimone, non gli appare come Detto, come un noema.
Rispetto a esso il testimone non si pone come soggetto che afferma, ma come accusativo che è
chiamato a obbedire a un comando appartenente a un passato che mai fu presente, mai fu dinnanzi
al suo testimone.72
Il modi in cui l’Infinito non appare a colui che lo testimonia è ordinando attraverso la sua
stessa bocca, divenendo ispirazione e profezia.73
L’Infinito non può che ordinare mediante l’ambivalenza dell’ispirazione per restare tale,
infinito, trascendente. Mediante l’ispirazione la soggettività è chiamata, con tutto il peso della
responsabilità, ad agire di propria iniziativa mediante la responsabilità, come se dovesse essere un
passo avanti all’Infinito che le ordina. “L’infinito non è davanti al suo testimone, ma come al di
fuori o «all’inverso» della presenza, già passato, fuori presa”.74
71
Ibid. 184.
72
Crf. DMT p. 274.
73
AE pp. 186-187.
74
Ibid. p. 187; vedi anche DMT p. 274.
75
Crf. NEHER p. 103.
76
Cfr. Ibid. p. 105.
16
abortiti: tra Adamo ed Eva, o Caino e Abele, ma anche tra i progenitori e Dio e Questi e Noè, che
esegue solo pedissequamente le indicazioni che gli vengono date.
Ora il termine debarîm ´ahadîm si trova nell’episodio di Babele, che rappresenta da una
parte l’idea di universo concentrazionario, dall’altra la volontà superba dell’uomo di soppiantare
l’ordine della creazione annullando la distanza terra-cielo.77 Le parole e le cose a Babele divengono
solo oggetti commerciabili, e come tali, secondo la terminologia levinasiana, in-significanti perché
la significazione ha origine dalla primigenia prossimità ad Altri. Qui, invece, l’uomo stesso è ridotto
a cosa.
Di fronte all’iniziativa di Babele Dio reagisce con un evento dissolutivo, cioè disperde le
potenzialità chiuse nei debarîm in diverse lingue, conferendo all’iniziativa umana un’autonomia
irreversibile. Ma Dio non tocca l’alienazione dei debarîm, “e sarà necessario qualcun altro per
dissigillare i debarîm, per provocare l’esodo della parola, la sua redenzione dal di dentro delle
cose”.78
Un dabar libero: ecco ciò che Dio aspettava dopo aver liberato la śapâ. Un dabar liberato,
dall’interno, dall’uomo, e non dall’esterno, da Dio; ecco il compito per cui si rendeva necessaria la
comparsa di un Prometeo che creasse questo dabar, con un’iniziativa di assoluta libertà umana.
“Questo Prometeo sarà Abramo […]. Abramo ha dissigillato i debarîm chiusi: ha provocato
l’esodo della parola e la sua redenzione. Abramo è l’inventore della Parola”.79
77
Cfr. Ibid. p. 115.
78
Ibid. p. 122.
79
Ibid. p. 123 passim.
17
Abramo osa ledabber a Dio: per la prima volta, Abramo parla a Dio attraverso il dabar. Il
dabar non è fuori di lui, ma dentro, dandogli la forza per ergersi davanti a Dio in un atteggiamento
d’indignazione profetica. Qui grammaticalmente, dabar è un verbo: si potrebbe dire che con
Abramo, la Parola è diventata Verbo.80
Da dove prende Abramo tutta questa potenza? Paradossalmente dal silenzio. La sua
avventura comincia nell’obbedienza silenziosa ai comandi di Dio, ed anche al vertice del dialogo,
nell’episodio di Mamre, egli cessa all’improvviso di parlare, fermandosi alla clemenza per dieci
giusti, forse credendo che la misericordia di Dio non possa andare oltre una cifra ragionevole, e così
rinuncia alla propria responsabilità lasciando che Dio prosegua la sua opera da solo. Poi è Dio a
lasciarlo nel silenzio della prova quando gli chiede di sacrificare Isacco. Infine, dopo l’episodio
della ‘aquedâ entrambi i partners di questo dialogo potente tacciono. Un dialogo nato e terminato
nel silenzio.81
80
Cfr. Ibid. pp. 127-128.
81
Crf. Ibid. pp. 128-129.
82
Ibid. pp. 129-130.
18
La seconda caratteristica di questo cambio è la sua irreversibilità. Abramo non è più nominato col
termine Abram in tutta la Bibbia. Il cambio del suo nome ha dato alla storia un indirizzo, una
direzione irreversibile. Dalla Genesi all’Esodo.
Quando Dio chiama Abram gli dice lek-leka, «vattene» (Gen 12, 1); ma quando gli cambia il
nome in Abramo gli dice hitallek lepanay, «cammina davanti a me» (Gen 17, 1). La vocazione
dell’Esodo è quella di camminare davanti a Dio.83
Abramo corre così davanti a Dio come responsabile della Storia. Quando il dialogo tra i due
partners si interrompe, dopo l’aquedà, Abramo viene lanciato da Dio in avanti, verso il silenzio
dell’avvenire. Egli sperimenta, senza afferrarne il perché, ma raccogliendone l’incontestabile
evidenza che, per l’uomo dell’Esodo, gli appuntamenti con la Parola sono ineluttabilmente
appuntamenti mancati.84
Abramo lanciato avanti verso l’avvenire, nei confronti del quale è responsabile in prima
persona. Un avvenire nel quale Dio spesso scompare, lascia solo l’uomo con la sua responsabilità
proprio perché essa resti tale rispetto a una Trascendenza che, per restar tale, ha bisogno di contrarsi,
di interrompersi − per dirla con Levinas. Una Trascendenza ambigua.
83
Cfr. Ibid. pp. 131-132.
84
Cfr. Ibid. p. 134.
85
AE p. 187.
19
La trascendenza epifenomenica
Mediante l’ispirazione la Trascendenza resta tale entrando in una relazione col soggetto che
non è tetica, e nemmeno sfugge al pensiero come concetto negativo − che la legherebbe ancora
all’essere e al pensiero. Il soggetto non dice, ma testimonia l’Infinito, nel gioco del linguaggio, nel
quale la testimonianza significa attraverso l’ambiguità di ogni Detto, mediante il farsi segno nella
donazione di segno, nel profetismo che riveste le apparenze di informazioni circolanti come le altre,
che subiscono le influenze dei limiti e delle ferite del soggetto stesso. Ambiguità, ma anche regime
di trascendenza dell’Infinito.86
Così ciò che eccede il pensiero, l’ideatum che infrange la propria idea, che rovescia la
coscienza la quale si disfa in significazione nel Dire, «accade» nella quotidianità mediante la sua
interruzione, nel profetismo e nell’ambiguità di questo. Non è, infatti, profetismo solo quello che
sembra eccesso nel parlare, ma lo sono finanche i limiti e le ferite del soggetto. Ogni ferita è fessura
attraverso la quale l’Infinito irrompe nel tempo, nella vita. Vi irrompe non come fenomeno evidente,
dimostrabile e tematizzabile, ma mediante la propria contrazione rinvenibile tuttavia nelle tracce.
La Trascendenza non come fenomeno, ma come epifenomeno.
L’ambiguità dell’epifania
La Trascendenza raggiunge la soggettività in modo ambiguo appellandola nella
responsabilità anarchica, infinita, per Altri verso cui si è esposti. Il soggetto entra nei disegni
dell’Infinito, vi entra mediante la propria responsabilità, tale da essere chiamato in prima persona,
ad agire non contando su niente e nessuno, come se tutto dipendesse da sé, dal finito. Ma è proprio
questo l’unico modo in cui l’Infinito può accadere senza smentirsi in quanto Infinito. 87
“L’Enigma dell’Infinito il cui Dire in me, responsabilità in cui nessuno mi assiste, diviene
contestazione dell’Infinito, ma contestazione attraverso la quale tutto m’incombe a me”.88
Solo attraverso l’ambiguità fino alla contestazione l’Infinito può entrare nell’intrigo della
soggettività senza smentirsi in quanto Infinito, senza porsi come oggetto infinito della conoscenza.
86
Cfr. Ibid. p. 191.
87
Cfr. Ibid. pp. 192-193.
88
Ibid. p. 193.
20
stessa nella quale l’Infinito avviene come ambiguità dell’ispirazione nella quale la parola Dio entra
come “una parola abusiva”.89 È così che fenomenologicamente il Silenzio possiede una voce, non
sonora, ma più tenue del silenzio.
89
Cfr. Ibid. pp. 195-196.
90
Cfr. Ibid. p. 198.
91
Cfr. Ibid. pp. 202-203.
92
Cfr. NEHER pp. 156.
93
Cfr. Ibid. pp. 156-157.
21
Il problema della libertà
Dio fa tanto appello alla libertà dell’uomo che lo chiama con l’interiezione «Ascolta!». Con
questa esclamazione l’uomo è creato tale nella sua possibilità di rispondere agli appelli di Dio nella
storia. Dio cerca l’uomo, lo invita a un incontro nella storia.
“Tra gli scambisti efficaci della storia, alcuni hanno voluto sfuggire a questa caccia, a questa
«persecuzione» di Dio. Sono i profeti”.94
Tra i grandi profeti, quello che può meritare certamente questo nome è Ezechiele la cui
esperienza è una vera e propria tragedia del silenzio.95 Ezechiele, a un punto della sua vicenda, si
trincera in un ostinato isolamento. Come risponde Dio a tutto ciò? Chiude nel silenzio Ezechiele e
anch’Egli si chiude nel silenzio fino a che, parlerà di nuovo al suo profeta sciogliendogli la lingua
per permettergli di parlare al suo popolo in sua vece.
“Due esseri di cui l’uno tentava di sfuggire all’altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia,
si ritrovano nel rovescio silenzioso dei Volti nascosti […]. Cessando di essere un rifugio, il silenzio
diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l’uomo all’appuntamento
ineluttabile, ma è l’appuntamento nell’universo opaco del silenzio”.96
94
Ibid. p. 160.
95
Crf. Ibid. pp. 168-176.
96
Ibid. p. 178 passim.
97
Crf. Ibid. p. 179.
98
Cfr. Ibid. p. 180.
99
Cfr. Ibid. p. 186.
22
incammina su entrambe: il sogno/promessa restituito che è il figlio, e l’opera, concreta e silenziosa,
che è la vita.100
L’ambiguità dell’alleanza
Giobbe non è, tuttavia, un martire del Silenzio per i maestri della tradizione ebraica, i quali
trovano questo martirio nell’emergenza silenziosa di un intervallo che c’è tra il primo e il secondo
versetto del capitolo XX del libro di Ezechiele. In questo brano alcuni anziani di Israele vanno a
consultare Dio che non si lascia interrogare da loro. Dopo tale affermazione troviamo un rigo
bianco e poi un’esclamazione di Dio, per bocca del profeta, che afferma che non lascerà vivere il
suo popolo come le altre genti, e regnerà su di lui con mano forte.103
Ciò che forse impensierisce gli interlocutori di Dio non è la fine dell’Alleanza, più volte
minacciata, ma le sue perpetue tergiversazioni di fronte alle quali si richiede da Dio una risposta
100
Cfr. Ibid. p. 190.
101
Cfr. Ibid. pp. 203-205.
102
Ibid. p. 209.
103
Cfr. Ibid. pp. 212-213.
23
schietta, oggettiva e inequivocabile. A questa esigenza di tranquillità della coscienza Dio risponde
con tutta l’aggressività del silenzio e dell’ambiguità.104
Neher propone un’altra interpretazione che è quella del Rashi. Ciò che preoccupa gli
interlocutori del profeta è l’eccessiva luce dell’Alleanza; ciò che li stanca è proprio la responsabilità
alla quale sono chiamati davanti a tutti i popoli, il non aver alcun appoggio in un Dio. Quindi ciò
che li spinge a interpellarlo non è il desiderio di una sistemazione borghese, ma la nostalgia di un
silenzio che faccia da barriera tra il loro Io e il mondo, il loro Io e Dio che li ossessiona col suo
comando.105
Ed è per questo che Dio li travolge con l’uragano di parole pronunciate dal profeta. Come
Giobbe di fronte all’uragano aveva imparato che non si può artificiosamente parlare davanti a Dio,
così, adesso, essi imparano che non si può artificiosamente tacere davanti a Dio.106
24
L’in-assenza di Dio.
25