Sei sulla pagina 1di 173

Adalberto Piovano

Tristezza

SAN PAOLO
Introduzione
Le passioni tristi e la passione della tristezza

J j e s passions tristes. Suffrutice psychique et crise


sociale. Con questo titolo (nell’edizione italiana tra­
dotto con L'epoca delle passioni tristi) è apparso in
Francia, nel 2003, un interessante saggio che offre
una precisa analisi della situazione esistenziale di
tanti giovani d’oggi, caratterizzata da una diffusa
angoscia e paura della vita1. Gli autori di questo stu­
dio, psichiatri e psicanalisti francesi, compiono un
inquietante viaggio nel mondo giovanile a partire
proprio dalla loro esperienza di incontro con tan­
te situazioni patologiche affrontate in vari anni di

1 M. Benasayag - G. Schmit, Les passions tristes. Suffrance psychique


crise sociale, La Découverte, Paris 2003. Tr. italiana: Lepoca delle passioni
tristi, Feltrinelli, Milano 2004. Cfr. anche la presentazione di questo libro
in I. Seghedoni, «Lepoca delle passioni tristi» di Miguel Benesayag e Gérard
Schmit, in «Tredimensioni» 2(2005), pp. 323-331.
6 I Tristezza

analisi nel campo dell’infanzia e dell’adolescenza.


È un viaggio appunto “inquietante”, perché ha con­
dotto questi psichiatri alla scoperta di un malessere
diffuso, di una tristezza che attraversa e ferisce la
vita di tanti giovani. La crisi che emerge in questo
itinerario è, di conseguenza, non tanto del singolo,
quanto il riflesso nel singolo della crisi della società.
Presentando questo saggio, il filosofo U. Galimber­
ti si domanda: «In che consiste questa crisi? Da un
cambiamento di segno del futuro: dal “futuro-pro-
messa” al “futuro-minaccia”. E siccome la psiche è
sana quando è aperta al futuro (a differenza della
psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della
psiche maniacale tutta concentrata nel presente),
quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre,
è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insi­
curezza, inquietudine, allora “il terribile è già acca­
duto” perché le iniziative si spengono, le speranze
appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’energia
vitale implode»2.
Delusione e perdita di fiducia, paura del futuro

2 U. Galimberti, Noi, malati di tristezza. “L’epoca delle passioni trist


vista da Umberto Galimberti, in «La Repubblica», 1° giugno 2004.
Introduzione I 7

e speranze frustrate, fragilità e incapacità di regge­


re gli scarti della vita: sono queste le maschere che
coprono lo sguardo con cui si affronta l’esistenza. È
lo sguardo della tristezza, anzi, come dice il titolo,
lo sguardo delle “passioni tristi”, espressione evoca­
tiva che esprime bene quelle tensioni negative che
diminuiscono il coraggio di pensare e di agire e, in
fondo, paralizzano la vita. L’espressione “passioni
tristi” è stata usata dal filosofo B. Spinoza non tanto
in riferimento a quella tristezza che nasce dal dolo­
re e si esprime nel pianto, quanto piuttosto a quel
malessere diffuso prodotto dalla delusione e dalla
perdita di fiducia. E l’orizzonte che oggi si apre a
tanti giovani è quello di un futuro segnato dal falli­
mento di un’illusoria fede nel progresso, un futuro
che appare cupo, che non sembra riservare speran­
ze, che ingenera un senso pervasivo di impotenza e
di incertezza. Un futuro, insomma, che porta a rin­
chiudersi in se stessi, a vivere il mondo come una
minaccia, o ad affrontarlo in una disperata fuga in
emozioni che stordiscono e non fanno altro che au­
mentare la tristezza.
La tristezza appare quasi come una cifra riassun­
tiva di tanti stili di vita di oggi, come clima e sbocco
8 I Tristezza

esistenziale: tristezza nelle relazioni, tristezza nelle


parole e nei silenzi, tristezza negli sguardi, tristezza
nei comportamenti, nei divertimenti, nelTaffrontare
il tempo, ecc. La tristezza diventa quasi il male della
vita, di una vita che rincorre continuamente occa­
sioni e mete irraggiungibili, sempre più lontane e,
alla fine, si infrange nella delusione e nella frustra­
zione. Tra l’altro, oggi più che mai, la tristezza mo­
stra un suo particolare volto: l’invidia. Come nota
una studiosa, E. Pulcini, in un affascinante saggio
su questa particolare forma di tristezza (definita nel
titolo stesso del libro La passione triste), «in que­
sto mondo artificiale e spettacolare, ricattato dalla
perdita del futuro e dallo smarrimento dei valori,
l’invidia domina sovrana, perché, a differenza di
una competizione schietta e progettuale, essa si ac­
contenta di mete transitorie e si nutre della perenne
ansia di conferma di un Io senza identità»3.
Dunque, dobbiamo onestamente riconoscere
che oggi la tristezza può prendere veramente spa­
zio nella vita di tanti uomini e donne (addirittura
nella vita di un’intera società), perché trova in essa

3 E. Pulcini, Invidia. La passione triste, Il Mulino, Bologna 2011, p. 137.


Introduzione I9

un terreno fecondo su cui attecchire. Ed è un ter­


reno ricco di “passioni tristi”: paura, mancanza di
fiducia e progettualità per un futuro senza vero re­
spiro; mancanza di speranza che provoca un ripie­
gamento su di sé, che suggerisce di attaccarsi a una
sicurezza immediata e illusoria; depressione per una
vita che sembra bloccata in uno stallo esistenziale;
angoscia nel rincorrere un tempo che appare sem­
pre più veloce, inafferrabile, frammentato. E si po­
trebbe andare avanti in questo elenco, incorrendo,
però, anche nel rischio di fare il gioco stesso della
tristezza. Di renderci sempre più depressi. Piuttosto
converrebbe domandarsi: c’è una terapia per questa
situazione patologica? Che cosa può contrastare la
tristezza? Verrebbe da rispondere immediatamente:
all’opposto della tristezza ci sono la speranza e la
gioia. Certo, ma come educare in una società “tri­
ste” alla gioia e alla speranza? E poi, quale speranza,
quale gioia? La tristezza che avvolge la vita di tanti
uomini e donne di oggi non è forse il risultato di
tante speranze e gioie deluse? Che qualità, che con­
sistenza devono avere gioia e speranza per reggere
alle fragilità, alle contraddizioni e ai fallimenti inevi­
tabili che si incontrano nella vita? Si deve riconosce­
10 I Tristezza

re che oggi «la sfida della speranza consiste anche


nello smascherare le false speranze, le speranze ne­
gative, nel denunciare le perversioni della speranza.
Insomma, nel non cadere nel tranello che il termine
“speranza” sia parola magica che riveste sempre e
soltanto una valenza positiva. La sfida della speran­
za si declina anche come critica della speranza»4. E
certamente questo vale anche per la gioia. Quanti
giovani (e non solo giovani) per strapparsi all’apatia
della loro vita si consegnano a una gioia nevrotica, a
una gioia maschera della tristezza che portano den­
tro, a una gioia che dura davvero un attimo e poi
lascia amarezza e noia!
Forse, prima di offrire una terapia al male della
tristezza, conviene guardare in faccia questa passio­
ne, togliere ad essa tutte le maschere che assume e
cogliere la radice profonda, il luogo in cui essa vera­
mente si nasconde. In altre parole, per compiere una
“diagnosi” corretta di questo male, si potrebbe ini­
ziare con questo interrogativo: la tristezza che oggi
l’uomo vive è solo legata alla crisi esistenziale cau­
sata da questo particolare momento storico oppure

4 L. Manicardi, Sperare l'insperabile (= Testi di meditazione 141), Qiqa


jon, Bose/Magnano 2008, p. 6.
Introduzione I 11

è una passione che abita il cuore dell’uomo? Anzi,


proprio partendo dall’attuale contesto socio-eco-
nomico segnato da profondi smarrimenti, ci si po­
trebbe anche domandare: le frustrazioni esistenziali
che oggi attraversano il quotidiano di tanti uomini
e donne non rivelano forse un disagio più profondo
che intacca il mondo interiore? In una recente inter­
vista, lo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna offre
questa interessante lettura della situazione attuale
(soprattutto a livello economico): «Il piano della
crisi economica oggettiva e quello dell’interiorità e
delle sue sofferenze sono ovviamente distinti... Le
due autonome forme di crisi possono, però, sovrap­
porsi e intrecciarsi in un tempo come il nostro, già
in precedenza segnato da una diffusa sofferenza psi­
cologica... Quando viene messa in gioco la possibili­
tà stessa di dare sostentamento e speranza ai propri
figli, viene intaccata quell’area interiore di cui par­
lavo. Se la disoccupazione si fa di massa, si accresce
drammaticamente quell’altra crisi impalpabile, che
si fa cruda entrando nei gorghi della depressione.
È singolare, però, come in genere si parli solo dei
fallimenti economici e finanziari, trascurando le ri­
sonanze interiori negli uomini che ne sono toccati, e
12 I Tristezza

che possono essere ben più drammatiche. Perché se


i default economici possono essere arginati con ma­
novre pubbliche ed interventi di sostegno..., molto
più difficile è cercare rimedio al senso di sconfitta di
chi si vede irrimediabilmente fallito in ciò che aveva
perseguito per la sua vita»5.
Gli antichi autori monastici, nella loro straor­
dinaria capacità di penetrare il mondo interiore
dell’uomo, avevano individuato nella tristezza una
via pericolosa con cui il tentatore si insinua nel cuo­
re dell’uomo. Mettendo in guardia dal sottovalu­
tare questa passione, l’avevano collocata tra quelle
principali, tra quei “pensieri malvagi” che generano
poi ogni sorta di male nella vita dell’uomo. Nella
sua lista degli otto pensieri “tipici”, Evagrio collo­
ca la tristezza al quarto posto (dopo l’ingordigia, la
lussuria e l’avarizia), presentandola come il primo
dei pensieri che colpisce più direttamente la psiche
dell’uomo. Certamente, come vedremo, i Padri era­
no ben coscienti che non ogni tristezza è negativa:
c’è una tristezza che è strutturale alla natura dell’uo­
mo in quanto esprime una reazione interiore di sof­

5M. Corradi, C’è il dovere di sperare per tutti, in «Avvenire», domenica


11 dicembre 2011, p. 3 (intervista a Eugenio Borgna).
Introduzione I 13

ferenza di fronte al dolore. Anzi c’è addirittura una


tristezza indispensabile per ritrovare il cammino di
conversione: è la tristezza “secondo Dio”, il soffri­
re di essere lontano da Lui, il sentire nostalgia del
suo amore, il provare dolore del proprio peccato.
Ma c’è un altro tipo di tristezza che non apre al­
cun cammino, anzi, blocca ogni via di accesso alla
vita. È proprio quella tristezza di cui sembra soffrire
l’uomo d’oggi, una tristezza che conduce allo sco­
raggiamento, all’apatia, alla disperazione. Questa
tristezza, ci ricordano gli antichi monaci, non è so­
lamente frutto di una sensazione di fallimento della
propria vita, di una delusione o una frustrazione per
un futuro che non offre vie d’uscita. Questa tristez­
za dipende da un cuore che ha perso la speranza e la
gioia, un cuore che ha soffocato l’azione dello Spi­
rito, quello Spirito il cui frutto maturo è Vagape e la
gioia. La passione della tristezza distrugge proprio
la relazione con Dio, la fiducia in Lui, la speranza
nella sua misericordia; ma indebolisce anche la fi­
ducia nell’uomo, nelle possibilità che gli sono date,
nella creazione che gli è stata affidata come spazio di
responsabilità e di creatività, in quel futuro pieno di
speranza che, nonostante i fallimenti, il Signore gli
14 I Tristezza

apre. Per questo motivo, la tristezza è una malattia


dello spirito in quanto intacca le forze vitali dell’uo­
mo, quella vita autentica che abita in profondità,
nel suo cuore: «Grande è la forza della tristezza -
avverte san Giovanni Crisostomo - e noi abbiamo,
perciò, bisogno di molta fortezza per poter resistere
validamente a questa passione dell’anima»6. E op­
ponendola alla gioia, Evagrio ci offre questa inquie­
tante litania della tristezza:

«La tristezza è un inquilino dannoso, un confidente


funesto, un anticipatore dello sradicamento, nostalgia
della famiglia, un compagno dell’angoscia, un con­
giunto dell’accidia, un lamento esasperante, ricordo
delle offese, oscuramento delPanima, umiliazione
morale, prudente ebbrezza, antidoto ipnotico, appan­
namento delle forme, un verme della carne, afflizione
dei pensieri, prigione di un popolo»7.

6 Giovanni Crisostomo, Commento al vangelo di san Giovanni


LXXVIII, 1: Id., Commento al vangelo di Giovanni, cur. A. Del Zanna,
Città Nuova, Roma 1970, p. 160.
7Evagrio Pontico, I vizi opposti alle virtù1)'. Id., A Eulogio. Sulla confes­
sione dei pensieri e consigli di vita. I vizi opposti alle virtù, cur. L. Coco, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 128-129.
Introduzione I 15

Chi non riconoscerebbe in queste maschere del­


la tristezza altrettante situazioni esistenziali che ap-
pesantiscono la vita dell’uomo d’oggi? Nostalgia,
angoscia, lamento, oscuramento, verme che corro­
de: ecco i nomi di questo disagio interiore che gli
antichi monaci chiamavano tristezza. È davvero un
“inquilino dannoso” della nostra vita che ci paraliz­
za e rende priva di senso ogni possibile prospettiva;
anzi ci convince che non c’è alcuna prospettiva. E
già Evagrio aveva intuito che la tristezza può di­
ventare addirittura la “prigione di un popolo”, cioè
può intaccare una società intera, trasformandosi in
uno sguardo globale e condiviso verso un futuro
senza speranza. Come appare dal testo di Evagrio,
il mondo della tristezza è un mondo complesso,
dalle molteplici sfaccettature, un mondo che ri­
schia di diventare una “prigione”, un luogo senza
vie d’uscita. Rinchiuso in questo spazio soffocante,
l’uomo resta come paralizzato, solo con le sue pau­
re, i suoi fantasmi; e questi a loro volta diventano i
volti insidiosi della tristezza.
In queste pagine, sempre guidati dai testi dei
Padri e degli autori monastici, cercheremo di guar­
dare in faccia questa passione dell’anima, di identi-
16 I Tristezza

ficame i sintomi nella vita dell’uomo, di interpretar­


ne le dinamiche, di prendere consapevolezza della
sua pericolosità per la vita secondo lo Spirito. Solo
affrontando questo percorso all’intemo della com­
plessità di quei cammini esistenziali a cui conduce
la tristezza potremo giungere a comprendere a qua­
le speranza, a quale gioia siamo chiamati. Solo se si
ha il coraggio di intraprendere un cammino nella
verità, a volte doloroso e umiliante, ma capace di
dare un nome alle tante tristezze che abitano in noi,
si potrà allora gustare quella gioia che il mondo non
conosce, quella gioia che ha radici profonde in un
Dio che ha attraversato tutte le contraddizioni della
nostra umanità per trasfigurarle e renderle luogo di
speranza. «Esiste una gioia - scriveva D. Bonhoeffer
in una Lettera dell’Avvento del 1942 - che ignora
del tutto il dolore, l’angoscia e la paura del cuore
umano; essa non ha nessuna consistenza, può solo
anestetizzare per pochi attimi. La gioia di Dio, inve­
ce, è passata attraverso la povertà della mangiatoia
e l’angoscia della croce, per questo è invincibile, ir­
resistibile. Non nega la miseria là dove c’è la mise­
ria; ma proprio li, al cuore di essa, trova Dio. Non
contesta la gravità del peccato, ma è proprio così
Introduzione I 17

che trova il perdono. Essa guarda la morte in faccia,


ma proprio lì trova la vita. Ecco, di questa gioia si
tratta, ed è una gioia vittoriosa. Solo di essa ci si può
fidare, solo essa aiuta e risana»8.

8 D. Bonhoeffer, Memoria e fedeltà, Qiqajon, Bose/Magnano 1995, p.


128.
I

Lo sguardo della tristezza

p
JL er indicare il tema di questo capitolo, in cui ten­
teremo di abbozzare un primo ritratto della tristez­
za, abbiamo scelto questa espressione: lo sguardo
della tristezza. Il motivo di questa scelta è duplice.
Anzitutto la passione della tristezza opera una tra­
sformazione radicale dello sguardo sulla realtà: di­
venta un modo di vedere e di interpretare tutto ciò
che compone la vita di un uomo, tutto ciò che lo
circonda, gli avvenimenti, gli altri, il proprio cammi­
no, il tempo e lo spazio, ecc. Ma la tristezza si riflette
in modo particolare sul volto di una persona, quasi
concentrandosi e rispecchiandosi negli occhi: occhi
sospesi nel vuoto, senza un guizzo di vivacità; oc­
chi velati da un buio che nasconde un cuore abitato
dalla delusione, dal fallimento, dalla mancanza di
un senso; occhi proiettati troppo lontano per esse­
20 I Tristezza

re presenti a ciò che li circonda, angosciati da un


futuro senza speranza; oppure occhi concentrati su
uno spazio troppo ristretto, lo spazio del proprio io,
simile a una prigione senza vie di fuga. Certamente
uno sguardo può essere attraversato momentanea­
mente da un velo di tristezza; il disappunto per qual­
cosa che uno non si aspettava oppure la momenta­
nea delusione per un desiderio non avverato posso­
no esprimere, nella tristezza, una reazione emotiva
che si rispecchia poi negli occhi. Ma resta pur vera
questa parola di Gesù riportata in Mt 6,22-23: «La
lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio
è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se
il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tene­
broso». Per capire dove risiede il buio che oscura lo
sguardo, bisogna scendere in profondità e scoprire
se il centro stesso della vita è avvolto dalla tenebra.
Si tratta di andare alla radice della tristezza che si ri­
specchia negli occhi e individuare le varie maschere
dietro cui si nasconde questa passione. Gli occhi e il
cuore sono in stretta relazione e ambedue possono
essere spazi in cui abita la tristezza. Ma sicuramente
è il cuore il luogo in cui si nasconde la pericolosità
di questa passione, il luogo in cui la tristezza condi­
Lo sguardo della tristezza I 21

ziona scelte e percorsi, in cui essa diventa veramente


sguardo sulla realtà. E i testi che ora riporteremo
non solo ci aiuteranno a cogliere alcuni tratti del vol­
to della tristezza, ma lasceranno già intravedere la
profondità che questo male può raggiungere e la sua
pericolosità per la vita dell’uomo.

1. Un profeta rattristato

Vorremmo iniziare con un testo della Scrittura, in


cui sono descritte alcune reazioni tipiche di un cuo­
re piombato in quella tristezza che emerge quando
la vita di un uomo viene attraversata da un ostacolo
imprevisto o, meglio, da un’attesa delusa. Si tratta
del brano biblico che riporta l’esperienza del profeta
Elia così come è narrata in IRe 19,1-18: l’incontro
del profeta con Dio, sull’Oreb, incontro tuttavia
preceduto e causato dalla fuga di Elia di fronte alle
minacce di Gezabele. Una parola di morte sembra
provocare repentinamente la crisi di un profeta così
appassionato e radicale come Elia, sembra frantu­
mare tutte le sue certezze su Dio, sulla sua missione
di profeta, su Israele.
22 I Tristezza

«Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi.


Giunse a Bersabea di Giuda. Lasciò là il suo servo.
Egli s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino e
andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di mo­
rire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita,
perché io non sono migliore dei miei padri”. Si co­
ricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che
un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati, mangia!”. Egli
guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta
su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve,
quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta
Fangelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Alzati, man­
gia, perché è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò,
mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò
per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di
Dio, FOreb» (IRe 19,3-8).

Sorprende la reazione di Elia a questo attacco


imprevisto: il profeta di fuoco (cfr. Sir 48,1-11), che
non ha mai avuto paura di nessuno, per la parola di
una regina di origine pagana, è “impaurito” (v. 3).
La paura è, dunque, il primo sentimento che trova
spazio nel cuore del profeta. Elia si sente improvvi­
samente sprofondare: la sua vita è minacciata e fug-
ge lontano, con il solo desiderio di salvarsi. La paura
Lo sguardo della tristezza I 23

sembra così avere la meglio su tutto e, in qualche


modo, sembra distruggere nel profondo l’identità
del profeta: è come se dimenticasse il senso della sua
vita, quella presenza che gli è stata luce, quel fuoco
che ha bruciato nel suo cuore, quell’esperienza di
cura tenerissima con cui il suo Signore l’ha circon­
dato. Tutto svanisce come fagocitato dalla paura. E
la paura sembra aprire due drammatici sbocchi per
il cammino di Elia: la solitudine e lo sconforto.
Infatti, la fuga angosciata porta il profeta nel de­
serto, nel luogo della solitudine. E non può essere
diversamente: ci sono ore nella vita in cui l’angoscia
è tanto grande da non riuscire a condividerla con
nessuno; soltanto la solitudine può lasciarla macera­
re nell’attesa di un qualche intervento (forse inspe­
rato) del Signore. E in questa solitudine il cuore di
Elia è come attanagliato da una sensazione: che tut­
to sia finito perché tutto è senza senso. È la tristez­
za fino alla morte generata dal fallimento e avvolta
dallo sconforto. È proprio il demone della tristezza
e dell’accidia a impossessarsi della vita di Elia: «De­
sideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Pren­
di la mia vita...» (v. 4); Elia, vinto, stanco, logorato,
sembra esclamare: «Non ne posso più, Signore; tu
24 I Tristezza

mi hai deluso e, soprattutto, io ho deluso me stesso».


Lo sconforto e la tristezza, che si impadroniscono
di Elia e sembrano chiudere ogni possibile speranza
per un futuro, hanno un solo sbocco per il profe­
ta: la morte. Ma c’è una motivazione o, meglio, uno
sguardo amaro sulla propria vita in cui è raccolto
questo desiderio di morte: «Perché io non sono mi­
gliore dei miei padri» (v. 4). Elia ha semplicemente
constatato che la sua vita non sta più andando verso
un compimento; non ha fatto nulla di più dei suoi
padri. La sua vita non sta andando verso una luce,
ma verso le tenebre e, dunque, verso la morte. In
fondo, si accorge di essere nel solco dei suoi padri,
nel solco di una storia fatta di fallimenti e di infedel­
tà. Elia si rende conto di essere un uomo debole e
impastato del peccato del suo popolo. E sorprenden­
temente questo lo ferisce nel suo essere profeta. Non
si aspettava questo passaggio attraverso le tenebre:
non pensava che anche un profeta, che ha il dono
della fede grande, può incontrare la radicale tenta­
zione della fede. E quasi per acconsentire alla morte,
Elia entra nel sonno, come Giona (cfr. Gn 1,5-6). Il
dormire è una prima forma di morte, una resa e una
fuga di fronte alla vita e ai suoi fallimenti.
Lo sguardo della tristezza I 25

L’esperienza del profeta Elia ci offre quasi un


percorso tipico che aiuta a interpretare la dinamica
della passione della tristezza. Le varie reazioni, che
si susseguono e si intrecciano nel cuore di Elia, si
rivelano come altrettanti volti di quella tristezza che
si è impadronita della vita del profeta. Paura e fuga
di fronte a un ostacolo che frantuma un’immagine
di sé (quella del profeta invincibile e senza com­
promessi); bisogno di solitudine e sguardo pieno di
amarezza e sconforto sulla propria vita; desiderio di
morire, di farla finita perché non c’è più un futuro
in quanto ci si accorge di «non essere migliore dei
propri padri»: ecco i lacci con cui la tristezza avvolge
il cuore del profeta.
Ma la radice della frustrazione, della crisi del
profeta è molto più radicale: essa coinvolge la re­
lazione con Dio. Ciò che ha causato in Elia questa
profonda tristezza è lo scacco di fronte a un Dio che
non si è rivelato come il profeta aveva immaginato,
è la frustrazione nata da una pretesa di conoscere
il volto di Dio. È, in fondo, la stessa esperienza vis­
suta da Giona. Anche questo profeta, in fuga dalla
sua missione, prova «un grande dispiacere», misto
a irritazione (cfr. Gn 4,1), quando scopre in Dio un
26 I Tristezza

amore senza confini e senza discriminazioni, un


Dio che non è esclusiva proprietà di un popolo. La
sua resistenza, la sua fuga avvengono a causa di un
volto di Dio diverso da quello che lui immaginava:
«Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis,
perché so che tu sei un Dio misericordioso e pieto­
so, lento all’ira, di grande amore, e che ti ravvedi
riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore,
toglimi la vita, perché meglio è per me morire che
vivere!» (Gn 4,2-3).
Per uscire dalla tristezza che paralizza la sua
vita, Elia deve convertirsi, ricollocarsi nuovamente
di fronte al volto di Dio. Questo avverrà sul mon­
te, quando Dio si rivelerà come «il sussurro di una
brezza leggera» (IRe 19,12), quando si manifesterà
al profeta in un modo così diverso da quello che
Elia si sarebbe atteso. Ma il dialogo che precede
questa rivelazione fa emergere con chiarezza le ra­
dici della crisi della tristezza del profeta. Giunto
sull’Oreb, Elia «entrò in una caverna per passarvi
la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Si­
gnore in questi termini: “Che cosa fai qui, Elia?”
Egli rispose: “Sono pieno di zelo per il Signore, Dio
degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato
Lo sguardo della tristezza I 27

la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno


ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed
essi cercano di togliermi la vita”» (IRe 19,9-10). Elia
è nuovamente interpellato dalla Parola. È come un
inizio di ripresa della sua vocazione profetica, an­
che se però vediamo che la Parola non lo manda, ma
lo interroga, quasi sorpresa di vederlo qui. È come
un’eco della parola risuonata nel giardino dell’Eden,
la parola rivolta ad Adamo (cfr. Gen 3,9): «Dove sei,
Adamo?... Che cosa fai qui, Elia?». Dio sa molto
bene dovè Adamo, ma Adamo non sa più dovè il
suo posto; Dio sa cosa sta facendo Elia in quel luogo,
ma Elia sa cosa sta facendo? Sa qual è il suo posto
nella storia in cui Dio stesso l’ha collocato? Sa cosa
significa ancora stare alla presenza del Signore? Che
cosa cerca qui Elia? Dio chiede al profeta di ripen­
sare al perché più profondo della sua vita.
E cosa si può rispondere a una simile parola?
Elia non può fare altro che mostrare la ferita della
sua vita, il suo fallimento, la sua solitudine, tutta la
tristezza che rende tenebroso il suo cuore. Ma lo fa
accusando e lamentandosi contro il popolo, facendo
emergere quel frutto amaro della tristezza che è la
mormorazione. Forse sta proprio qui la conversione
28 I Tristezza

che Elia deve compiere, e cioè abbandonare quel­


la pretesa di essere rimasto l’unico fedele in Israele.
E, in fondo, accusando il popolo, accusa Dio stesso:
non ha tanto fallito lui come profeta, è Dio che ha
fallito con il suo popolo.
La seconda parola che Dio rivolge a Elia è l’inizio
di questo cammino di conversione, è l’esodo perso­
nale di Elia: «Gli disse: “Esci e férmati sul monte
alla presenza del Signore”» (v. 11). Elia è invitato a
uscire da quel groviglio di frustrazione, di accuse,
di fallimenti che amareggiano la sua vita e gli ren­
dono impossibile di scoprire in profondità ciò per
cui è stato chiamato. Deve uscire da questa tristezza
e prendere posto in alto, cambiare lo sguardo per
realizzare pienamente e nuovamente il suo rapporto
con il Signore. Elia deve ritrovare il luogo e il senso
del suo stare alla presenza del Signore.
C’è ancora un ultimo aspetto, nel racconto di Elia,
che merita di essere sottolineato. Si tratta del posto
che occupa la consolazione con cui Dio risponde
alla preghiera amareggiata del profeta: «Ma ecco
che un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati, mangia! ”.
Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia,
cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò
Lo sguardo della tristezza I 29

e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la se­


conda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli dis­
se: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te
il cammino” (w. 5-7). Elia si era lamentato con il
Signore e davanti a lui aveva posto l’insopportabi­
le pesantezza della sua vita: «È molto, è troppo, la
misura è piena» (traduzione letterale del v. 4). Ora
l’angelo mette di fronte a Elia il cammino che gli sta
davanti riprendendo le parole del profeta: «È troppo
per il te il cammino». Questa misura senza fine, che
rendeva la vita di Elia insopportabile, ora acquista
un senso nuovo: «C ’è ancora strada da fare - sembra
suggerire l’angelo a Elia -, il deserto scelto non è un
termine o un vuoto assoluto. Hai ancora un cam­
mino da percorrere, vai verso un destino preciso, e
per questo hai bisogno di mangiare e di bere. Vai!
Alzati, mangia e cammina!». La focaccia e l’acqua
sono il segno della consolazione. Ed è significativo
che la consolazione di Dio sia collocata proprio al
centro, tra un dolore troppo pesante e un cammino
che sta davanti, troppo lungo. La consolazione di
Dio che apre alla speranza è sempre collocata all’in­
terno di una fatica. Non può essere scambiata per
meta, per punto d’arrivo (ecco perché dopo di essa
30 I Tristezza

c’è ancora un cammino da fare). Però permette di


rileggere diversamente e il fallimento troppo pesan­
te del passato e il cammino lungo e incerto del fu­
turo. Grazie ad essa, lo sguardo di Elia inizia a libe­
rarsi da quella tristezza che gli impediva di leggere
con lucidità il suo passato e il suo futuro. Ed Elia
riprende coscienza di un fatto fondamentale: che il
suo fuggire impazzito aveva una meta nella mente
di Dio. Dio lo attende al termine della sua fuga e lì
Elia potrà ritrovare il senso profondo del suo stare
davanti al Signore. La consolazione del Signore per­
mette al profeta di camminare «per quaranta giorni
e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb»: un
tempo lungo, il tempo della preparazione, gli anni
d’Israele nel deserto, i giorni di Gesù sul monte del­
la tentazione.

2. Il demone della tristezza

Se il racconto della crisi del profeta Elia ci pre­


senta la situazione esistenziale di un uomo posto
di fronte al fallimento della sua vita, situazione
da cui emergono le varie reazioni interiori susci­
Lo sguardo della tristezza I 31

tate da quella tristezza che sembra chiudere ogni


possibilità di futuro, gli antichi autori monastici
preferiscono addentrarsi in un’analisi più detta­
gliata di questa passione, cercando di individuar­
ne le cause e smascherarne le sottili suggestioni
nascoste nel cuore. Quali sono le caratteristiche di
questo pensiero malvagio? Con quali armi com­
batte il cuore dell’uomo? Da dove trae origine?
Come sempre, a queste domande gli autori mona­
stici preferiscono rispondere descrivendo lo stato
d’animo di colui che è colpito dalla tristezza. Così,
ad esempio, Evagrio tratteggia, nel suo Trattato
pratico 10, le varie sensazioni prodotte da questo
pensiero malvagio:

«La tristezza sopravviene a volte per frustrazione dei


desideri, a volte fa seguito alla collera. Quando è per
frustrazione dei desideri, essa sopravviene così: alcuni
pensieri, facendosi avanti, conducono l’anima a ricor­
darsi della casa, dei genitori e della vita precedente. E
quando vedono che essa invece di resistere si mette a
seguirli e con il pensiero si crogiola nei piaceri, allora
l’afferrano e la immergono nella tristezza, dato che le
cose di una volta non sono più né potranno più essere
a causa della vita che sta facendo; e l’infelice anima,
32 I Tristezza

quanto più si è crogiolata nei precedenti pensieri, tan­


to più viene abbattuta e umiliata dai secondi»1.

In questo testo, Evagrio si fa portavoce di una vi­


sione comune agli antichi autori monastici, i quali
identificavano due cause immediate da cui provie­
ne la tristezza. Su di esse ritorneremo in seguito, ma
fin d’ora Evagrio ci aiuta a focalizzarle. Anzi, in un
altro testo, Evagrio ci offre una sintesi ancora più
precisa sull’origine della tristezza: «I desideri inap­
pagati causano tristezza... e la tristezza si introduce
in mezzo a chi è irritato... La tristezza è una malattia
dell’anima e del corpo, essa imprigiona la prima e
consuma il secondo là dove si trova»2.
Anzitutto la tristezza è provocata da quello che
Evagrio chiama “cessazione di un desiderio” o fru­
strazione di un piacere. Quando un desiderio affetto
da egoismo non trova la possibilità di realizzarsi, op­
pure appare così lontano da essere visto come un so­
gno impossibile, si genera nel nostro cuore uno stato
di frustrazione, un senso profondo di impotenza che

1 Evagrio Pontico, Trattato pratico. Cento capitoli sulla vita spirituale,


cur. G. Bunge, Qiqajon, Bose/Magnano 2008, pp. 87-88.
2 Evagrio Pontico, A Eulogio. Sulla confessione dei pensieri 7: tr. it., pp.
56-57.
Lo sguardo della tristezza I 33

avvolge tutto ciò che si pensa o si fa. Ci si sente ab­


battuti, pieni di desolazione, ripiegati su se stessi. Il
passo verso la mancanza di speranza o il pessimi­
smo, soprattutto quando questo stato diventa croni­
co, è breve. In particolare, come sottolinea Evagrio,
questo pensiero può essere provocato da realtà che
erano parte della propria vita, ma che di fatto sono
ormai relegate in un passato lontano e irraggiungi­
bile. Ecco perché il presente è colto con disgusto,
come una situazione senza sbocco né futuro; tutto è
sommerso dalla tristezza. Come nota E. Bianchi, la
tristezza è «una frustrazione di chi non vive in modo
equilibrato il rapporto con il tempo e resta incapace
di arrivare all’unificazione del tempo della propria
vita. Lacerato tra nostalgia del passato e fughe irre­
ali in avanti, l’uomo, preda dello spiritus tristitix, è
incapace di aderire all’oggi, al presente»?.
Anche l’ira può essere una delle cause scatenanti
il pensiero della tristezza. E, in fondo, ciò che colle­
ga l’ira alla tristezza resta ancora la mancata realiz­
zazione di un desiderio o di un progetto. Un ostaco­
lo imprevisto, provocato da qualcuno o da qualcosa,

3 E. Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interio­


re, Rizzoli, Milano 1999, p. 38.
34 I Tristezza

suscita una sorta di irritazione interiore oppure una


reazione esteriore impulsiva, violenta ed emotiva.
Essa lascia nel cuore di chi è preda di questo stato
d’animo un senso di impotenza, di insuccesso, di
amarezza. «Il monaco rattristato - ricorda ancora
Evagrio - non conosce il piacere spirituale; infatti,
la tristezza è un abbattimento dell’anima (katépheia
psychés), che segue ai pensieri di collera. Infatti, l’ira
è brama di vendetta, ma la vendetta non soddisfatta
genera tristezza; la tristezza è la fauce del leone, che
facilmente divora colui che è rattristato»4.
Nel descrivere la tristezza, Cassiano sottolinea
anzitutto il clima distruttivo e opprimente che
essa genera, compromettendo in particolare la vita
spirituale. Sfruttando le varie circostanze della
vita, soprattutto quelle che appaiono come osta­
coli nella realizzazione dei propri progetti, prende
progressivamente spazio in tutti gli ambiti dell’e­
sistenza, raggiungendo poi il cuore. Così Cassiano
inizia il capitolo dedicato alla tristezza nelle sue
Istituzioni-.

4 Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 11: Id., Gli otto spiri
della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità, cur. F. Moscatelli, San
Paolo, Cinisello Balsamo 1996, pp. 48-49.
Lo sguardo della tristezza I 35

«La nostra quinta lotta consiste nel reprimere gli im­


pulsi della tristezza, una passione divoratrice, che se
in qualche modo, con i suoi continui assalti e a segui­
to delle varie vicende della vita, riesce a impadronirsi
della nostra anima, a poco a poco ci separa dalla con­
templazione divina e, dopo aver fatto cadere la stessa
mente dall’intero suo stato di purezza, la scuote nel
profondo e la deprime...»5.

Inoltre, Cassiano non manca di sottolineare una


seconda modalità con cui si presenta la passione
della tristezza: il carattere subitaneo e irrazionale di
tale pensiero e il riflesso negativo che esso introduce
nelle relazioni fraterne. Richiamando le due cause
di questo vizio, Tira e il desiderio frustrato, Cassiano
aggiunge:

«Altre volte, anche senza alcun motivo apparente che


ci spinga a cadere in questo precipizio, ma solo perché
pungolati dal nostro astuto Nemico, ci sentiamo im­
provvisamente oppressi da una così grande afflizione

5 Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche IX, 1: Id., Le Istituzioni ce­


nobitiche. De institutis coenobiorum et de odo principalium vitiorum libri
XII, cur. A. De Voglie - L. D ’Ayala Valva, Qiqajon, Bose/Magnano 2007,
p. 255.
36 I Tristezza

che non riusciamo ad accogliere con la consueta affa­


bilità neppure le persone che ci sono care e a cui sia­
mo più legati; e qualunque cosa ci dicano, per quanto
adeguata alla circostanza, ci sembra inopportuna e
superflua, e rispondiamo loro in modo del tutto scor­
tese, perché il fiele dell’amarezza invade ormai tutte le
profondità del nostro cuore»6.

Questi testi di Evagrio e di Cassiano ci offrono,


dunque, un primo ritratto della tristezza; sottoli­
neano le cause che scatenano questo stato d’ani­
mo e mettono in evidenza due sensazioni globali
che si accompagnano a questo pensiero malvagio:
la pesantezza, che corrode e impedisce ogni scelta
esistenziale, e l’irrazionalità, che rende faticoso un
pronto discernimento. Ambedue gli autori mona­
stici non mancano di mettere in guardia dalla pe­
ricolosità di tale pensiero in quanto il suo obiettivo
o, se si vuole, il luogo che cerca di raggiungere è il
cuore.
Vorremmo ancora aggiungere un testo interessan­
te che, pur non trattando specificamente la passione
della tristezza, ne descrive molteplici manifestazioni

6 Ibid., IX,4: Ibid.yp. 251.


Lo sguardo della tristezza I 37

a partire da una situazione concreta. Si tratta di un


opuscolo di Giovanni Crisostomo, un’esortazione
a un monaco, Stagirio, caduto in un grave stato di
depressione in seguito alle asprezze della vita asce­
tica intrapresa7. Lo stesso Giovanni Crisostomo,
come asceta, non era stato esente da problemi fi­
sici legati alla durezza della vita intrapresa e, for­
se, questa sua esperienza gli permette di analizzare
dettagliatamente le cause e le manifestazioni che
accompagnano lo stato depressivo in cui è entrato
Stagirio. Tuttavia, la malattia del giovane monaco
non è semplicemente psicosomatica: è uno stato di
prostrazione spirituale e in questa prospettiva viene
affrontata dal Crisostomo. Significativo è il titolo
dato a questo opuscolo: A Stagirio asceta tormentato
da un demone (daimóndnta). Per Giovanni Criso­
stomo, questo zelante asceta si trova in uno stato

7 Questa esortazione fu composta dal Crisostomo durante il periodo


antiocheno, probabilmente tra il 380 e il 381, secondo l’ipotesi di B. de
Montfaucon. Infatti, nella sua edizione delle opere crisostomiane, ri­
prodotte poi nella Patrologia Greca, l’erudito monaco francese fa questa
singolare annotazione: «Scrisse quest’opera tra il 380 e il 381, dopo che,
ammalatosi in seguito a un duro regime di vita che l’aveva fatto stare due
anni in una caverna, era stato costretto a tornare in città, dove, dopo un
po’ di tempo, sarebbe stato ordinato diacono da Melezio» (PG 47, col.
424): cfr. Giovanni Crisostomo, A Stagirio tormentato da un demone, cur.
L. Coco (= Testi Patristici 163), Città Nuova, Roma 2002, p. 19.
38 I Tristezza

radicale di tentazione, assalito da una suggestione


diabolica che l’ha colpito nelle profondità del suo
essere e di cui i vari stati d’animo e le reazioni estre­
me che tormentano il monaco (addirittura pensieri
di morte) non sono altro che manifestazioni esterne
di una situazione interiore malata. «Sembra che alla
base della tua depressione - scrive Giovanni Criso­
stomo - ci sia unicamente il furore di questo terri­
bile demone, e molti sono gli effetti dolorosi che si
possono rinvenire determinati da questa radice»8.
Non viene dato un nome a questo demone, ma dal­
la descrizione dei sintomi potremmo identificar­
lo con quello della tristezza e dell’accidia. Infatti,
Crisostomo elenca subito una serie di motivazioni e
sensazioni che sembrano creare questo stato gene­
rale di sconforto e di abbattimento e che lo stesso
Stagirio gli ha confidato: l’insofferenza e la pigrizia,
il confronto con la vita mondana all’apparenza più
facile, le durezze della scelta fatta e la continuità nel
perseverare in questo cammino, la disperazione che
conduce a pensieri di morte. Ma la manifestazione
più evidente di questa malattia spirituale è la perdi­

8 Giovanni Crisostomo, A Stagirio tormentato da un demone 1,1: tr. it


p. 42.
Lo sguardo della tristezza I 39

ta di una speranza. Infatti, Crisostomo conclude il


suo elenco di queste variegate maschere con cui il
demone si fa presente al povero monaco, con queste
parole:

«Sommo di tutti i mali confessavi, infine, di non aver


fiducia nel futuro e di non sapere con certezza se era
possibile una risoluzione e una liberazione da questo
morbo, perché spesso te ne eri immaginato la fine,
per ricadere di nuovo nella condizione di prima. Ba­
sta questo - è vero - a disturbare l’anima e a colmarla
di tanta agitazione, quell’anima però che è sfinita, che
non si riesce a controllare e che è snervata»9.

Come vedremo in seguito, tutta la costellazione di


sintomi che caratterizzano lo stato d’animo descritto
dal Crisostomo sono volti della tristezza e dell’ac­
cidia, intese sia nelle loro ricadute psicosomatiche,
sia come malattie spirituali. Il risultato finale è ben
definito con questi termini: «Quell’anima che è sfi­
nita, che non si riesce a controllare e che è snervata».
Questo stato generale di prostrazione e afflizione è
chiamato dal Crisostomo con il termine di athymia,

9Ibid.yp. 44.
40 I Tristezza

espressione che indica un abbattimento dell’animo,


una tristezza mescolata al dolore, una depressione.
E una situazione che si potrebbe collocare tra l’ac­
cidia e la tristezza e che diventa, nello stesso tempo,
causa e manifestazione del “demone” che tormenta
Stagirio. D’altra parte, Giovanni Crisostomo mette
in guardia il suo “paziente” da un pericolo: quello
di favorire l’azione del demone proprio attraverso
questa athymia, quasi crogiolandosi dentro a que­
sto stato patologico di sconforto e di tristezza. Molti
pensieri che tormentano il povero asceta non sono
causati da una realtà a lui esterna, ma sono parte di
quel miscuglio indecifrabile che è lo stato di tristez­
za che l’ha colpito. Ad esempio, il pensiero di porre
fine alla propria vita,

«non è un consiglio solo del demone, ma anche della


tua depressione, anzi più di questa che di quello e for­
se solo di questa, il che si evince dal fatto che molti di
quelli che non sono tormentati dal demone, solo per
il trovarsi in una condizione di afflizione, desidera­
no per sé cose simili. Scaccia, dunque, e allontana la
depressione dal tuo animo e il demone non ce la farà
né a persuaderti in quei disegni né prima di tutto a
suggerirteli... Non è il demone a mettere in moto la
Lo sguardo della tristezza I 41

depressione, ma è essa a rendere il demone forte e a


suggerire pensieri nefasti»10.

L’analisi di Giovanni Crisostomo e, in partico­


lare, quest’ultima osservazione sullo stato d’animo
di cui soffre il monaco Stagirio ci presenta dunque
un aspetto importante della tristezza: essa è una
passione, un “demone”, che riesce talmente ad av­
velenare la vita tanto da creare una situazione di
prostrazione senza difese e senza possibili reazioni
da diventare arma pericolosa nelle mani della stessa
tristezza. Essa crea un circolo vizioso: il pensiero
malvagio crea un clima di sconforto e di dispera­
zione e questo rafforza la passione della tristezza.
Questo impedisce allora di discernere a quale livel­
lo si radica questa malattia (è una patologia psichica
o spirituale?) e quali siano le cause che scatenano
questa tormentata situazione. Inoltre, dalle parole
stesse di Crisostomo e dalle varie manifestazioni
presenti in Stagirio, sembra quasi che questa sof­
ferenza che abbatte e avvilisce diventi una sorta di
“prigione” da cui uno, alla fine, non vuole veramen­
te uscire.

10Ibid. 11,1: tr. it,p p. 86-87.


42 I Tristezza

Vediamo allora più in dettaglio l’origine di que­


sta passione, i sintomi di questa patologia così dif­
ficile da identificare e, soprattutto, il suo vero vol­
to, così tenebroso da rabbuiare il cuore e togliere
ogni fiducia.
Un male corrosivo:
la patologia della tristezza

Ne, sentire comune, si tende a identificare la tri­


stezza con particolari stati d’animo che spesso fan­
no parte della struttura caratteriale di una persona.
Si possono incontrare uomini o donne che vivono
spesso in uno stato di malinconia oppure hanno uno
sguardo spesso velato da tristezza. D’altra parte, so­
prattutto oggi, si è portati a identificare la tristezza
come un disagio psichico con chiari riflessi sul com­
portamento, sulle relazioni, sul modo di affrontare
la vita. Abbiamo fatto accenno, nell’introduzione,
a questa situazione esistenziale che coinvolge oggi
spesso i giovani e trascina dietro di sé una lunga
litania di sensazioni e staii d’animo: scoraggiamen­
to e sfiducia, pesantezza e dolore psichico, abbatti­
mento, sgomento, angoscia, svalutazione di sé, ecc.
Addirittura si giunge a percepire che la tristezza
44 I Tristezza

potrebbe essere un contenitore di questo miscuglio


di sensazioni che creano un profondo disagio, il cui
punto d’arrivo può essere o la depressione o la di­
sperazione. Se, da una parte, si intuisce la pericolo­
sità di una tristezza come clima esistenziale, come
modo di affrontare la vita o come stato morboso,
tuttavia si fa fatica a vederla come una patologia spi­
rituale e tanto meno come un peccato, una passione
distruttrice, un vizio in cui entra in gioco la respon­
sabilità della persona. Spesso si tende ad attribuire
a fattori esterni o a condizionamenti di vario genere
la presenza di tale patologia in una persona; essa
si trasforma in una malattia psichica (cfr. le cause
é le manifestazioni della depressione). E se si deve
ammettere che le cause di tale disagio sono molto
complesse e non sempre dipendenti dalla volontà
personale, tuttavia ci si può chiedere: alla base della
tristezza non c’è a volte una serie di comportamenti
o di logiche di vita liberamente scelti? Si vive nella
tristezza solo perché si ha un carattere portato ad
essa o si è condizionati dall’esterno, oppure perché
si è dato spazio a una vera e propria passione di­
struttiva? Nel suo Trattato del carattere E. Mounier,
sottolineando il processo della tristezza nella vita di
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 45

una persona, precisa: «Al primo grado si presenta


la tristezza semplice. È legata a una forte emotività
ostacolata da un’incapacità all’azione... La tristezza
è un processo di valorizzazione delle cose, che le
colpisce nella misura in cui non siamo trascinati
ad agire a loro proposito. È - dice Bergson - un
orientamento verso il passato, un impoverimento
delle nostre sensazioni e delle nostre idee, come se
ciascuna di esse aderisse solo a ciò che dà, e come
se d’ora in poi l’avvenire ci fosse chiuso. Deriva da
questo sentimento: “A che serve?”. È insieme una
dimissione da noi stessi e una disperazione sul mon­
do: perciò i teologi vi hanno visto una tentazione
del demonio e un peccato»1.
Le riflessioni degli autori monastici collocano la
tristezza proprio nell’ambito spirituale ed etico: essa
è una passione che rende schiavo l’uomo, distrugge
ogni relazione, paralizza la vita e conduce alla dispe­
razione. L’analisi del pensiero malvagio della tristez­
za renderà evidente questa dinamica e le patologie
spirituali ad essa collegate.

1 E. Mounier, Trattato del carattere, I, Edizioni Paoline, Alba 1949, p.


287 (abbiamo adattato alcune parole della traduzione italiana a un lin­
guaggio più corrente).
46 I Tristezza

1 .1 nomi della tristezza

L’espressione greca utilizzata da Evagrio per in­


dicare il quarto pensiero malvagio, la passione della
tristezza, è il termine lype. Secondo la concezione
greca, nel suo senso più ampio, questa parola de­
signa «la sensazione dell’istinto vitale, dell’uomo
come dell’animale, che di per sé tende all’edoné.
Dato che il naturale istinto vitale è la psyché, la
lype tocca la psichi, e siccome questa per i greci ab­
braccia la sfera sia della vita corporale, sia di quel­
la spirituale, la lype è la sofferenza del corpo non
meno che il dolore dell’anima... Come dolore dello
spirito, lype è affanno, pena e preoccupazione per
una disgrazia, una morte; è la sensazione irosa di
molestia e offesa di ogni genere, specialmente di
umiliazione e di diffamazione»2. Da questa precisa­
zione semantica di R. Bultmann, ci si rende subito
conto che il senso dato al termine tristezza va oltre
la sfera emotiva e sottolinea una sensazione di do­
lore che investe soprattutto l’interiorità, dolore che

2 R. Bultmann, Lype, lypéò, in Grande Lessico del Nuovo Testament


VI, Paideia, Brescia 1970, coll. 843-844.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 47

è provocato da una realtà che sembra contrastare il


naturale desiderio dell’uomo alla felicità e al piace­
re. Di conseguenza, il termine “tristezza” ingloba
in sé una varietà di reazioni e di sentimenti che, a
loro volta, diventano nomi di questo particolare sta­
to d’animo e sue manifestazioni. Infatti, negli autori
monastici «la tristezza {lype) appare come uno stato
dell’animo fatto, oltre a ciò che questo termine può
indicare, di scoraggiamento, di astenia, di pesantez­
za e di dolore psichico, di abbattimento, di sgomen­
to, di oppressione, di depressione, accompagnato
frequentemente da ansia e anche da angoscia»5. La
tristezza è, dunque, una passione complessa e, come
l’accidia, difficile da discernere nella sua reale peri­
colosità.

Ma forse più interessante è la distinzione che qua­


si tutti gli autori monastici fanno a riguardo di due
tipi di tristezza: quella secondo il mondo e quella se­
condo Dio. Ritorneremo su questa distinzione quan­
do parleremo del significato del pentimento (il pén-

3 J.-C. Larchet, Terapia delle malattie spirituali. Una introduzione alla


tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, San Paolo, Cinisello Balsamo
2003, p. 189.
48 I Tristezza

thos o la compunctio cordis). Qui facciamo solamente


alcune sottolineature che ci aiutano a comprendere
le radici della passione della tristezza.
Questa differenza tra una tristezza che è legata
alle realtà mondane e un’altra che fa riferimento alla
relazione con Dio è già presente nell’apostolo Paolo.
Testo di riferimento è 2Cor 7,10: «La tristezza (lypè)
secondo Dio produce un pentimento irrevocabile
che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mon­
do produce la morte». Per Paolo morte o salvezza
sono lo sbocco finale di due tipi di tristezza: «La
lypè del mondo è lo sgomento di quanti vedono nau­
fragare il loro benessere e le loro aspirazioni terrene,
la katà theòn lypè è la tristezza di coloro che si rendo­
no conto di essere perduti nel mondo e dal mondo si
rivolgono, nella lypè, a Dio»4.
Questa duplice forma della tristezza, la cui dif­
ferenza risiede nel tipo di relazione che si ha con il
mondo o con Dio, è evidenziata con insistenza dagli
autori monastici. Così Basilio di Cesarea, nelle sue
Regole, offre questa spiegazione sulla differenza dei
due tipi di tristezza:

4 R. Bultmann, op. cit., col. 865.


Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 49

«È tristezza secondo Dio affliggersi perché viene tra­


sgredito un comandamento, come sta scritto: “Mi ha
preso lo sdegno a causa dei peccatori che abbandona­
no la tua legge” (Sai 118,53). È tristezza del mondo,
invece, rattristarsi per qualcosa di umano e degno del
mondo»5.

Il duplice sguardo sulle cose visibili e su quelle


invisibili, sguardo che provoca una diversa forma di
tristezza, viene sottolineato in un testo di Giovanni
il Solitario (lo pseudo-Giovanni di Licopoli, secoli
V-VI), presente nel suo Dialogo sull’anima e le pas­
sioni dell’uomo:

«La tristezza corporale conduce verso le cose che si


vedono; la tristezza che nasce dairindignazione con­
tro i peccati è un sentimento virtuoso che partecipa
alla scienza dellanima; la tristezza alla quale non è
mescolato nessun pensiero della carne, ma che evolve
nei movimenti della scienza, si presenta quando si è
sensibili alla grandezza futura, quando si ha consa­
pevolezza della propria dignità di creatura, quando

5 Basilio di Cesarea, Regole Brevi 192: Id., Le Regole. Regulse fusius


tractatae. Regulee brevius tractatse, cur. L. Cremaschi, Qiqajon, Bose/Ma-
gnano 1993, p. 346.
50 I Tristezza

si contempla la natura gloriosa dellanima e quando


ci si rattrista di vedere in quale corpo infermo si è
racchiusi»6.

Cassiano, d’altra parte, confrontando questi due


tipi di tristezza in rapporto alla vita spirituale, of­
fre anche alcuni criteri per un discernimento. Le
manifestazioni che appaiono nella tristezza secon­
do Dio aprono progressivamente e misteriosamen­
te alla salvezza, procurando una gioia profonda.
Infatti, «la tristezza, che produce un pentimento
irrevocabile che conduce alla salvezza (2Cor 7,10), è
ubbidiente, affabile, umile, dolce e paziente, perché
deriva dall’amore di Dio: mentre si sottopone in­
faticabilmente a ogni tipo di sofferenza fisica e di
contrizione spirituale per desiderio di perfezione,
resta però in qualche modo gioiosa e, fortificata
dalla speranza del proprio progresso, custodisce la
dolcezza dell’affabilità e della pazienza, avendo in
se stessa tutti i frutti dello Spirito Santo». Rattri­
starsi per ciò che è mondano è una via di morte

6 Jean le Solitaire, Dialogue sur l ’àme et les passions des hommes, cu


I. Hausherr (= Orientalia Christiana Analecta 120), Pontificio Istituto
Orientale, Roma 1939, p. 99.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 51

in quanto distrugge l’azione dello Spirito: «L’altra


tristezza è quanto mai amara, insofferente, dura,
piena di rancore, di sterile avvilimento e di penosa
disperazione. Impedisce ogni attività a chi ne rima­
ne vittima e lo distoglie dall’afflizione che porta alla
salvezza, poiché è irrazionale e non solo distrugge
l’efficacia della preghiera, ma elimina tutti i frutti
spirituali...»7.
In questa distinzione tra due forme di tristezza,
dunque, possiamo già individuare alcuni elementi
essenziali che permettono di interpretare se la pro­
pria situazione esistenziale è intaccata da questa pas­
sione. Si tratta, cioè, di valutare per che cosa ci si af­
fligge e quali sono le sensazioni profonde provocate
dalla tristezza: una tristezza secondo Dio, ci ricorda
Cassiano, accende un desiderio di vita e fa nascere
nell’intimo una misteriosa gioia (di cui parleremo in
seguito); la tristezza causata da una frustrazione per
un bene mondano non posseduto riempie di ama­
rezza, di rabbia e, a lungo andare, blocca lo stesso
desiderio di vita, causando depressione e disperazio­
ne. Si potrebbe orientare un discernimento a partire

7 Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche IX ,11: tr. it., pp. 260-261.


52 I Tristezza

da una semplice domanda: per che cosa o per chi


vale la pena essere tristi?

C’è un ultimo aspetto generale che merita di es­


sere sottolineato per valutare la portata della tristez­
za. Ed è il legame di questa passione con gli altri
pensieri malvagi. Ritroviamo la tristezza sia negli
elenchi di Evagrio e di Cassiano e sia nella serie dei
vizi capitali riferita da Gregorio Magno. Dunque, è
presentata come un vizio ben identificato, un pen­
siero “tipico” distinto dall’accidia. Tuttavia, nella
trattazione e nella descrizione delle passioni, molti
autori non seguono la chiara distinzione di Evagrio e
tendono a fondere tristezza e accidia (è il caso di Cli-
maco, che tuttavia dedica ampio spazio al pénthos).
Nella tradizione occidentale, inoltre, l’attenzione è
posta su una particolare forma di tristezza, l’invidia
(presente nell’elenco di Gregorio Magno), le cui ma­
nifestazioni etiche in ambito relazionale sono certa­
mente molto più evidenti8.
Se si fa riferimento all’elenco di Evagrio, allora

8 Sui vari elenchi dei vizi nella tradizione occidentale, da Cassiano


Gregorio Magno, fino al secolo XII, cfr. gli schemi in A. Del Castello, Ac­
cidia e Melanconia. Studio storico-fenomenologico su fonti cristiane dall 'An­
tico Testamento a Tommaso d Aquino, Franco Angeli, Milano 2010, p. 72.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 53

diventa significativo il posto che occupa la tristezza,


un posto che le conferisce una fisionomia più precisa
e che già rivela l’origine di tale pensiero malvagio.
Infatti, la tristezza è tra l’avarizia e l’ira, tra un bi­
sogno smodato di possedere e la violenza di fronte
a ciò che si ritiene ostacolo per il raggiungimento di
uno scopo. Evagrio sottolinea bene il legame tra ava­
rizia e tristezza: «L’amante del denaro, quando ha
subito una perdita, sarà afflitto amaramente, ma chi
disprezza le ricchezze sarà sempre sereno»9. D’altra
parte, la tristezza ha un rapporto stretto con l’ira: è
causata dall’ira ma, nella misura in cui favorisce un
rancore covato, è porta aperta alla collera. Gregorio
Magno intravede nei vizi dell’invidia, ira e tristezza
gli anelli di una pericolosa catena:

«L’invidia genera l’ira, perché nella misura in cui l’a­


nimo è colpito dall’interna ferita del livore smarrisce
pure la mansuetudine della tranquillità; e poiché è
come toccare un membro dolente, la mano dell’azione
opposta viene sentita come più pesante. Dall’ira poi
sorge la tristezza, poiché la mente turbata quanto più
disordinatamente si agita, tanto più cedendo rimane

9Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 12: tr. it., pp. 50-51.
54 I Tristezza

confusa; e, quando abbia perduto la dolcezza della


tranquillità, si pasce della tristezza che scaturisce dal
turbamento»10.

Per quanto riguarda il legame tra tristezza e ac­


cidia, il problema è molto più complesso e riman­
diamo ad alcune osservazioni fatte nel nostro libro
sull’accidia11. C’è una tendenza, soprattutto nei trat­
tati spirituali e morali del Medioevo occidentale, a
identificare i due vizi; le manifestazioni sono molto
simili e spesso anche Evagrio o Cassiano, pur trat­
tando separatamente dei due pensieri malvagi, ten­
dono a sovrapporre accidia e tristezza12. Facendo ri­
ferimento alle Istituzioni cenobitiche di Cassiano, A.
Del Castello, in uno studio sul rapporto tra accidia e
malinconia negli autori medievali, dice: «Negli Insti-
tuta i due vizi, pur essendo sufficientemente distinti,
sono stati inquadrati in una dinamica psichica reci­
proca, ideale almeno o, meglio, potenziale: la tristez-

10 Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe VI, 31, 45, 89: Id.,
Commento morale a Giobbe/4, cur. P. Siniscalco - E. Gandolfo (= Opere di
Gregorio Magno 1/4), Città Nuova, Roma 2001, pp. 322-323.
11A. Piovano, Accidia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011, pp. 31-34.
12 Per quanto riguarda il rapporto tra accidia e tristezza in Evagrio,
cfr. G. Bunge, Akedia. Il male oscuro, Qiqajon, Bose/Magnano 1999, pp.
53-59.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 55

za può dare luogo a insofferenza nei confronti dei


doveri, e la confusione della mente, effetto dell’ac­
cidia, può essere una delle cause della tristezza»13.
Si potrebbe, dunque, dire che fra tristezza e accidia
esiste un rapporto circolare. La tristezza, nella mi­
sura in cui diventa un atteggiamento che condizio­
na la vita e ne orienta lo sguardo sulla realtà, sfocia
nell’accidia, situazione più globale in cui tutto viene
risucchiato in un vuoto senza fine. Trattando nella
sua Regola del pensiero malvagio della tristezza, Nil
Sorskij così conclude: «La tristezza che non è secon­
do Dio, infatti, è radice di ogni male. Se rimane a
lungo in noi, ben presto, dopo aver assunto la forma
di mancanza di speranza, si trasforma in disperazio­
ne vera e propria e rende l’anima vuota e triste, pri­
va di forza, impaziente, pigra nella preghiera e nella
lettura»14. D’altra parte, l’accidia trova una delle sue
manifestazioni più tipiche nella tristezza, in questa
frustrazione di ogni desiderio.
Ma si può ancora aggiungere che la tristezza, alla
fine, è una delle manifestazioni che seguono ogni

13 A. Del Castello, op. cit., p. 50.


14 Nil Sorskij, La vita e gli scritti, cur. E. Bianchi, Gribaudi, Torino
1988, p. 81.
Tristezza

pensiero malvagio, poiché, quando il centro della


vita è catturato da una passione e ne è schiavo, tutta
la vita piomba nella tristezza, al di là che uno se ne
renda conto. A ragione Evagrio può dire: «La tri­
stezza sorge dalla frustrazione dei desideri carnali;
ma il desiderio è unito a tutte le passioni. Colui che
ha vinto il desiderio ha vinto le passioni, e colui che
ha vinto le passioni non può essere dominato dalla
tristezza»15.

2. Le cause della tristezza

Un pensiero così complesso e indecifrabile come


la tristezza può avere molte cause; alcune possono
essere legate alla struttura psichica della persona, al­
tre favorite da un clima esistenziale che condiziona
emotivamente, altre invece molto più circostanziate,
in relazione a fatti negativi che mettono in scacco il
progetto della propria vita. Molte situazioni, dunque,
possono concorrere a immettere nel cuore di una
persona amarezza, sconforto, sfiducia, depressione,

15Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 11: tr. it., pp. 48-49.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 57

paura, ecc. E la tristezza diventa così un contenitore


di tutti questi stati d’animo, stendendo sullo sguar­
do del cuore un velo di oscurità e di disperazione. Si
crea così una sorta di ripiegamento su se stessi (non
è forse questa una delle caratteristiche dello sguar­
do dell’uomo triste?), in cui è favorito una sorta di
monologo incessante fatto di lamentela, di rabbia, di
pessimismo e in cui continuamente la tristezza trova
motivazioni (anche ragionevoli) per accrescere il suo
potere. Così, ad esempio, Gregorio Magno immagi­
na questa motivazione suggerita all’anima dalla tri­
stezza: «La tristezza è solita esortare quasi in nome
della ragione il cuore dominato, dicendo: Che gusto
ci provi a ingoiarne tante da parte del tuo prossimo?
Devi mostrare la faccia oscura a quanti ti amareggia­
no con tanto fiele»16.
Generalmente gli autori monastici identificano
due situazioni immediate che generano questo stato
di desolazione interiore, amareggiando e quasi para­
lizzando in profondità l’esistenza di chi è preda della
tristezza: la collera e la frustrazione di un piacere.
Il testo del Trattato pratico 10 di Evagrio, già citato

16 Gregorio Magno, op. cit., VI, 31, 45, 90: Id., Commento morale a
Giobbe/4, pp. 324-325.
58 I Tristezza

in precedenza, presenta questa duplice origine della


tristezza. E nella stessa linea si colloca anche Cassia­
no: «A volte la tristezza è conseguenza dell’ira che
l’ha preceduta, oppure è generata da un desiderio
frustrato o da qualche guadagno mancato, quando
cioè uno si vede svanire la speranza che nutriva per
questa o quella cosa»17. Perché ira e frustrazione
causano la tristezza?

Una reazione impulsiva, violenta ed emotiva, ge­


nerata da un cuore abitato dall’ira, lascia sempre
un’amarezza e un senso di impotenza. E generalmen­
te questo avviene nel momento in cui non si riesce
a portare a compimento un determinato progetto:
così, un ostacolo imprevisto (qualcuno o qualcosa)
sembra essere causa di un insuccesso. Questo stretto
legame tra ira e tristezza è messo bene in evidenza
da Evagrio: «Infatti, l’ira è brama di vendetta, ma la
vendetta non soddisfatta genera tristezza; la tristezza
è la fauce del leone, che facilmente divora colui che
è rattristato»18. Soprattutto nella sfera dei rapporti
interpersonali, emerge con più chiarezza la “conver­

17Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche IX,4: tr. it., p. 257.


18Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 11: tr. it., pp. 48-49.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 59

sione” dell’ira in tristezza. Nelle relazioni è inevita­


bile che nascano tensioni: l’altro, in qualche modo,
può diventare impedimento alla realizzazione di un
progetto personale. Ecco sorgere allora un’irritazio­
ne, manifesta o meno, per l’ostacolo imprevisto pro­
curato dall’altro (o almeno così appare). E l’ira, di
conseguenza, trascina dietro di sé vari stati d’animo
dei quali la tristezza diventa una sorta di contenito­
re. Essa allora può essere legata al «sentimento di
collera eccessivo o sproporzionato rispetto a ciò che
l’ha causata, o che, al contrario, non è stato suffi­
ciente in quanto non ha manifestato, con abbastanza
chiarezza, ciò che si prova o non ha provocato, in
colui o in coloro ai quali essa si rivolgeva, la reazione
che ci si aspettava»19.
Una parola o un atteggiamento, avvelenati dalla
collera, provocano tristezza sia in chi ne è respon­
sabile, sia in colui a cui sono diretti. Ciò è espresso,
sotto forma di sentenza, in questo detto attribuito
a Giovanni Crisostomo: «Se non vuoi essere triste,
non contristare il prossimo»20. Come ci ricorda l’apo­

19J.-C. Larchet, op. cit., p. 189.


20 Geronticon Etiopico 447b: I padri del deserto, Detti editi ed inediti,
cur. S. Chialà - L. Cremaschi, Qiqajon, Bose/Magnano 2002, p. 200.
60 I Tristezza

stolo Paolo, ogni parola cattiva che esce dalla bocca,


ogni «asprezza, sdegno, ira,... maldicenza» (Ef 4,31)
seminano tristezza e il tempo dato all’ira è «spazio
dato al diavolo», tempo segnato dallo sconforto e
dalla tristezza, non dalla gioia: «Non tramonti il sole
sopra la vostra ira e non date spazio al diavolo... E
non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con
il quale foste segnati per il giorno della redenzione»
(E/4,26-27.30).

Una seconda causa della tristezza è identificabile,


secondo Evagrio e Cassiano, in uno stato di delu­
sione, collegato a un piacere o a un desiderio fru­
strato, non realizzato. Come pensiero passionale, la
tristezza è, conseguentemente, espressione tipica di
desideri “carnali” incompiuti.
Questa frustrazione, pur avendo una radice cir­
coscritta, può provocare una insoddisfazione più
generalizzata, rivelando sia la qualità dei desideri
profondi, sia la loro mancata realizzazione. Tale fru­
strazione globale, in particolare, assume due orien­
tamenti, quasi due schermi attraverso i quali si legge
la situazione della propria vita. Da una parte, provo­
ca nostalgia per la vita precedentemente condotta,
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 61

reputata ottimale, e conduce «l’anima a ricordarsi


della casa, dei genitori e della vita precedente»21.
Questo uso perverso della memoria, abitato solo
dal rimpianto senza speranza, fa cogliere il presen­
te con disgusto, come una situazione senza sbocco
né futuro; tutto è sommerso dalla tristezza, «dato
che le cose di una volta non sono più né potranno
più essere a causa della vita che sta facendo»22. È
una vera e propria lacerazione tra passato e futuro
che impedisce di dare unità alla propria vita: questa
“schizofrenia” del tempo non può fare altro che ge­
nerare angoscia e sconforto, diventando uno scher­
mo che impedisce di guardare con realismo il pre­
sente. Questo atteggiamento distruttivo che investe
il tempo (passato, presente, futuro) può trasformarsi
in una prima avvisaglia di un altro pensiero che in­
veste più globalmente la vita: l’accidia. La tristezza
può trasformarsi allora in una sorta di passività di
fronte al quotidiano, in un’incapacità di affrontare
realisticamente la propria vita, di cogliere se stessi e
gli altri con sguardo sereno, limpido, fiducioso: si di­
venta ripiegati su di sé e si percepiscono solo i propri

21 Evagrio Pontico, Trattato pratico 10: tr. it., p. 87.


22Ibid.
62 I Tristezza

e gli altrui limiti. Di conseguenza, interiormente e


spiritualmente la tristezza provoca una sorta di inde­
bolimento, una perdita di tensione, una monotonia,
una mancanza di motivazioni.
Chi non sa convivere con le frustrazioni proprie
e altrui, chi si lascia sopraffare dall’irritazione per­
cependo l’altro come ostacolo ai propri desideri, vi­
vrà sempre immerso nella tristezza. E non solo non
saprà accettare il suo limite, la sua realtà concreta,
la stagione della sua vita, il tempo che gli è donato,
ma inseguirà sempre un ideale di sé inappagabile.
E proprio in questo ideale/idolo possiamo scopri­
re la radice profonda della tristezza. Ancora una
volta è la philautia, questa idolatria di sé che non
deve conoscere concorrenti e che di fronte a ogni
avvisaglia di ostacolo reagisce o con una volontà di
riaffermazione (ira) o chiudendosi nell’amarezza e
nello sconforto (tristezza). «La tristezza - nota J.-
C. Larchet - si rivela, allora, essere l’espressione del
sentimento di fallimento o di impotenza che prova
l’io in questo tentativo di riabilitazione di sé»23.

23J.-C. Larchet, op. cit., p. 190.


Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 63

3. Sintomi e manifestazioni della tristezza

Se la collera e il desiderio frustrato sono, per lo


più, le cause immediate che provocano la tristezza,
i sintomi con cui questo pensiero malvagio avvelena
il cuore di colui che ne è colpito sono diversificati.
Essi costituiscono un quadro psicologico che Cas­
siano descrive bene in rapporto al monaco attaccato
dallo spiritus tristiti%\

«La nostra quinta battaglia è contro lo spirito della


tristezza che oscura all’anima ogni contemplazione
spirituale e le impedisce ogni opera buona. Quando,
infatti, questo spirito malvagio afferra lamina e la ot­
tenebra tutta, non le permette di compiere le sue pre­
ghiere con animo pronto né di perseverare nel profit­
to che trae dalle sacre letture; non lascia che luomo
sia mite e tenero verso i fratelli; insomma, ingenera
odio per qualsiasi tipo di attività e per la promessa
stessa della vita. In una parola, la tristezza, confon­
dendo tutte le salutari decisioni dellanima, rilassan­
done il vigore e la costanza, la rende come istupidita
e paralizzata, tenuta dal pensiero della disperazione.
Perciò, se ci siamo proposti di combattere la battaglia
spirituale e, con Dio, di vincere gli spiriti della mali­
Tristezza

zia, dobbiamo con ogni possibile vigilanza custodire


il nostro cuore dallo spirito della tristezza. Come la
tarma rode Pabito e il verme il legno, così la tristez­
za rode lamina dell uomo. Essa induce a sottrarsi a
ogni buona conversazione e non permette di accettare
una parola di consiglio neppure da amici sinceri né
di dare loro una risposta buona e pacifica: al contra­
rio, avviluppa tutta l’anima colmandola di amarezza e
di accidia. Le suggerisce anche di fuggire gli uomini,
come se questi fossero colpevoli del suo turbamento.
E non le permette di riconoscere che il suo male se lo
porta dentro e non le proviene dallesterno: si manife­
sta quando, sotto lo stimolo delle tentazioni, è portata
allo scoperto»24.

Questa lunga descrizione di Cassiano ci aiuta a


individuare i sintomi più frequenti nella vita di colui
che è oppresso dalla tristezza.
Cassiano sottolinea, anzitutto, due ambiti che
risultano particolarmente “turbati” dalla tristezza:
il rapporto con Dio, soprattutto nella preghiera, e

24 Giovanni Cassiano, Al vescovo Castore. Gli otto pensieri viziosi, i


La Filocalia, 1, tr. M.B. Artioli - M.F. Lovato, Gribaudi, Torino 1982, pp.
145-146. Questo testo è una versione ridotta di quanto Cassiano scrive in
Istituzioni cenobitiche IX ,1-5: tr. it., pp. 255-258.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 65

il rapporto con i fratelli. Qui facciamo solamente


un breve accenno a questi due sintomi della tri­
stezza, concretamente verificabili nella propria
esperienza; li riprenderemo quando analizzeremo
lo stile di vita a cui orienta questa passione. Anzi­
tutto, rilassando la tensione interiore e avvelenan­
do il clima spirituale con una sorta di disgusto e
sfiducia generalizzati, la tristezza appesantisce la
preghiera, resistendo in qualche modo all’azione
dello Spirito Santo, il cui frutto nel cuore del cre­
dente è, appunto, la gioia (cfr. Gal 5,22). Ma an­
che le relazioni interpersonali vengono in qualche
modo avvelenate dalla tristezza. E questo è inevi­
tabile, in quanto la maggior parte delle occasioni
che ostacolano i propri progetti sembra provenire
dagli altri. Parole piene di amarezza, rabbia e ran­
core, mormorazione, irritazione repressa, invidia
non sono altro che i lacci con cui la tristezza avvi­
luppa il cuore. Ecco perché si fa fatica a guardare
l’altro con serenità; si preferisce fuggirlo, come se
l’altro fosse la causa della propria desolazione e del
proprio fallimento. Scrivendo a un monaco, Marco
l’Asceta mette bene in evidenza come la tristezza
condiziona sia il rapporto con Dio, sia il rappor­
66 I Tristezza

to con il prossimo e dice: «Non lasciarti vincere


dall’ira che genera odio per i fratelli: e non cagio­
nare tristezza a te stesso e agli altri per un deplo­
rabile e misero pretesto, raccogliendo il ricordo di
cattivi pensieri verso il prossimo, venendo meno
alla preghiera pura verso Dio, rendendo schiavo
l’intelletto e guardando bieco, con pensieri selvag­
gi, il fratello che ha la tua stessa anima»25.
Cassiano, poi, usa un’immagine che esprime
bene la potenza distruttiva della tristezza: «Come
la tarma rode l’abito e il verme il legno, cosi la
tristezza rode l’anima dell’uomo». La tristezza è
come una presenza nascosta, a volte impalpabile
o difficilmente identificabile; i suoi effetti, però,
si vedono nella misura in cui si percepisce che la
propria vita si sta sgretolando. E in chi sente la
propria vita ormai fragile e a pezzi emerge la sen­
sazione del vuoto e dell’inutilità di tutto ciò che
fa; sente che la sua vita perde valore, dignità, soli­
dità. Ancora Cassiano dice: «Un vestito mangiato
dalle tignole non ha più alcun valore né può più
servire per un uso decoroso. Ugualmente un legno

25 Marco l’Asceta, Lettera al monaco. Nicola: Filocalia, I, pp. 214-215.


Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 67

corroso dai tarli non può più essere utilizzato per


arredare una casa, anche modesta, ma merita solo
di essere bruciato nel fuoco». E, utilizzando que­
sta metafora per una vita corrosa dalla tristezza,
aggiunge:

«Così anche lamina che è divorata dai feroci morsi


della tristezza non potrà più avere quella funzione
di veste sacerdotale che riceve abitualmente Folio
profumato dello Spirito Santo... Ma essa non potrà
neppure servire alla costruzione e all’arredamento di
quel tempio spirituale di cui Paolo, come un sapien­
te architetto, ha posto le fondamenta dicendo: “Voi
siete il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi”
(ICor 3,16)... Dunque, per il tempio di Dio si scelgono
dei tipi di legno che abbiano un buon odore, che non
marciscano e siano in grado di resistere sia allusura
del tempo sia ai tarli»26.

Questo «verme del cuore», come definisce Eva­


grio la tristezza, troverà sempre occasioni, con­
traddizioni, frustrazioni, paure e fantasmi di cui
nutrirsi e pian piano distruggerà ogni forza e ogni

26Istituzioni cenobitiche IX,3: tr. it., pp. 256-257.


68 I Tristezza

desiderio di bene nell’uomo. Anzi questa capaci­


tà distruttiva toglie ogni gusto per la vita, anche
per i piaceri terreni. Evagrio sottolinea bene que­
sto paradosso del pensiero malvagio della tristez­
za; essa ha un veleno tanto potente da annientare
tutte le sensazioni piacevoli che le altre passioni
procurano. Infatti, scrive Evagrio, «tutti i demoni
insegnano all’anima ad amare i piaceri; uno solo, il
demonio della tristezza, non accetta di farlo, e anzi
rovina i pensieri degli altri demoni che si sono in­
sinuati nell’anima, spogliandola di ogni piacere e
inaridendola con la tristezza... Il simbolo di questo
demonio è la vipera, cui la natura amante dell’uo­
mo ha concesso di distruggere il veleno delle altre
belve, ma che, assunta senza mescolanze, distrug­
ge la vita stessa»27.
Una vita distrutta dalla tristezza si trasforma
in un’esistenza trascinata, senza forma e tensione,
senza azione e vivacità, quasi paralizzata di fronte
alla realtà e al tempo. Nel testo sopra citato, Cas­
siano afferma che «la tristezza, confondendo tutte
le salutari decisioni dell’anima, rilassandone il vi­

27 Evagrio Pontico, Sui diversi pensieri della malvagità 13: tr. it., pp
86-89.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 69

gore e la costanza, la rende come istupidita e pa­


ralizzata, tenuta dal pensiero della disperazione».
È una situazione molto simile a ciò che avviene
in colui che cade in uno stato depressivo: sembra
che nulla sia possibile perché, alla fine, nulla è
desiderabile, nulla è abitato da una qualche spe­
ranza. Allora tutto quello che compone la vita o
che caratterizza la scelta fatta perde il suo valore:
la tristezza, ci ricorda ancora Cassiano, «ingenera
odio per qualsiasi tipo di attività e per la promessa
stessa della vita».
Anche la capacità di discernere, l’uso della facoltà
razionale, viene indebolito. Spesso gli autori mona­
stici parlano di ottenebramento o di oscuramento
dell’intelletto: è come una nebbia fitta che impedi­
sce di cogliere la realtà nei suoi contorni veri. Anzi,
la tristezza sembra allontanare dagli occhi del cuore
ogni desiderio di luce perché ha alterato la percezio­
ne interiore:

«L’oscurità ottenebra l’acutezza degli occhi e la tri­


stezza ottunde la mente capace di contemplazione; il
raggio del sole non raggiunge la profondità del mare,
e la visione della luce non illumina un cuore immerso
70 I Tristezza

nella tristezza: è dolce per tutti gli uomini il sorge­


re del sole, ma anche di questo è scontenta l’anima
rattristata»28.

L’ossessione e il tormento procurati dalla tristez­


za rendono, alla fine, la vita insopportabile. Il tem­
po non presenta nessuna possibilità: il presente è
oppresso dalla tristezza, il passato dalla nostalgia, il
futuro dall’incertezza. Alla fine, colui che è intrap­
polato nella tristezza, «in un modo o nell’altro, si
rifugia in un mondo immaginario per non aderire
alla realtà: così facendo, però, non coglie il presente
come l’oggi di Dio, come l’ora irrepetibile che ci è
data da vivere»29. Lo sbocco tragico a cui porta la
tristezza è la disperazione, la mancanza di ogni spe­
ranza. E quando il cuore stesso della vita è irrime­
diabilmente intaccato dalla tristezza, allora «l’uomo
fondamentalmente dispera di Dio e, pertanto, si
separa da lui. Per questo lascia campo libero all’a­
zione del diavolo, si affida con piedi e mani legate al
suo potere e si vota alla morte spirituale»?0.

28 Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 12: ibid., pp. 50-51.
29 E. Bianchi, Una lotta per la vita. Conoscere e combattere i peccati
capitali, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011, p. 176.
30J.-C. Larchet, op cit., p. 192.
Un male corrosivo: la patologia della tristezza I 71

Tuttavia se il tentatore è pronto a prendere pie­


de in ogni spazio libero dalla speranza in Dio, è
altrettanto vero che questo spazio glielo offre l’uo­
mo. Non si deve mai dimenticare la responsabilità
dell’uomo all’interno del combattimento spirituale.
E questo vale anche nella lotta contro la passione
della tristezza. Non si deve con troppa facilità sca­
ricare sul diavolo (o spesso sugli altri) quella situa­
zione di sconforto e sofferenza che, spesse volte, è
frutto di scelte esistenziali sbagliate. «Quantunque
alcuni avvenimenti esterni possano suscitare e mo­
tivare la tristezza - scrive J.-C. Larchet -, occorre
sottolineare, in verità, che non è in questi che essa
ha la sua fonte: essi ne sono l’occasione non la causa,
che è unicamente nell’anima stessa dell’uomo, più
precisamente nell’atteggiamento che egli adotta sia
di fronte agli avvenimenti esterni sia di fronte a se
stesso. Egli, dunque, è il responsabile della tristez­
za che lo colpisce, e le circostanze esterne e i mali
stessi che può aver subito non potranno fondamen­
talmente servirgli a scusarlo. “Le nostre gioie e le
nostre tristezze, scrive san Giovanni Crisostomo,
vengono meno dalla natura stessa delle cose che
dalle nostre proprie disposizioni. Se queste sono
Tristezza

saggiamente regolate, avremo sempre nel nostro


cuore una grandissima contentezza... Se le malattie
del corpo sono appannaggio della nostra natura,
le altre (dell’anima) dipendono solo dalla nostra
volontà»?1.
Ili

«Si fece scuro in volto e se ne andò


rattristato»: camminare nella tristezza

N e i vangeli è narrato un episodio che può di­


ventare parabola di una vita avvolta dalla tristezza:
è l’incontro di Gesù con l’uomo ricco (cfr. Mt 19,16-
30; Me 10,17-22; Le 18,18-30). La gioia di una ricerca
che sembra giungere a compimento, una parola che
apre un cammino di luce e, infine, un buio che im­
merge la vita di un uomo nella tristezza. Alla propo­
sta di Gesù di abbandonare le proprie ricchezze per
iniziare un cammino di sequela, quell’uomo che
cercava la vera vita, «a questa parola si fece scuro
in volto e se ne andò rattristato: possedeva, infat­
ti, molti beni» (Me 10,22). Una parola di luce svela
il buio della contraddizione nascosto nel cuore di
quell’uomo e che si riflette nel suo volto: un’ombra
rabbuia il suo sguardo e orienta i passi della sua vita
nel cammino della tristezza. Siamo di fronte al fai-
74 I Tristezza

limento di una chiamata o, più semplicemente, al


fallimento di una vita. Una vita appunto che abban­
dona una possibilità di gioia per incamminarsi su di
una via avvolta dal buio della tristezza.
Viene allora da chiedersi, proprio pensando a
quell'uomo, che cosa sarà diventata la sua vita?
Com’è una vita nella tristezza? Quali sono i segni
della tristezza nell’esistenza quotidiana di un uomo?
Certamente una vita avvolta nella tristezza è una vita
senza slancio, senza passione, senza quello sguardo
che permette di affrontare il tempo, sguardo di chi
sa sperare con coraggio e umiltà. E nel capitolo pre­
cedente abbiamo descritto, con l’aiuto di alcuni au­
tori monastici, il clima distruttivo che avvolge la vita
di chi è preda della tristezza. Si tratta ora di indivi­
duare alcuni spazi concreti in cui la tristezza esercita
con prepotenza il suo potere paralizzante. Pensan­
do alla struttura della persona, a quegli ambiti co­
municativi e vitali che la mettono in relazione con
la realtà, potremmo individuare tre spazi della tri­
stezza: uno sguardo senza speranza, una parola senza
rendimento di grazie e un cuore senza pace. Sguardo,
parola e cuore sono le espressioni fondamentali che
comunicano l’orientamento di una vita. Quando lo
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 15

sguardo, la parola e il cuore sono preda della tristez­


za, allora la vita è senza gioia.

Quell’uomo ricco, nel momento in cui aveva ri­


volto la sua domanda a Gesù, aveva guardato al suo
futuro con speranza: «Maestro buono, che cosa
devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Me
10,17). Davanti ai suoi occhi si apriva l’orizzonte di
una vita senza fine, cercata e desiderata. La paura
di perdere, di lasciare alle sue spalle la sicurezza di
una vita ricca, per rischiare di incamminarsi verso
un tempo abitato solo dalla speranza, spegne la luce
negli occhi di quell uomo. Il suo sguardo si ripiega
sulle sicurezze già possedute e da esso si allontana
ogni speranza: se ne andò rattristato, con uno sguar­
do senza speranza.
Proprio a partire dalla vicenda dell’uomo ricco
possiamo cogliere la direzione a cui orienta la tri­
stezza di uno sguardo senza speranza: verso il passa­
to. In fondo, l’uomo non può vivere senza speranza
e la tristezza di per sé non annulla questa tensione
interiore dell’uomo; semplicemente la stravolge. Tra­
sforma in speranza ciò che sta alle spalle, falsifican­
do il tempo presente e svuotando di ogni speranza
76 I Tristezza

il futuro. Ma poiché il passato non è più ricupera­


bile, se non a livello di memoria, ecco allora che la
tristezza promette una speranza che non può dare.
«Lo sguardo verso il passato - nota A. Griin - ren­
de ciechi verso il presente; non si affronta la realtà,
ma si fugge nel mondo apparente di un passato tra­
sfigurato. E, non appena ci si deve confrontare con
il presente, si sprofonda nella tristezza e niente è in
grado di tirarcene fuori»1.
La tristezza, anzitutto, cattura lo sguardo quando
fa cogliere il passato solo nella sua valenza positiva
e irrepetibile: un passato ottimale che donava possi­
bilità di speranza, un passato, però, non più ricupe­
rabile e quindi da guardare con profonda tristezza.
È una delle suggestioni con cui la tristezza attacca il
cuore, secondo la descrizione di Evagrio nel Trattato
pratico 10. Ma Evagrio stesso insinua anche un’altra
arma con cui la passione della tristezza toglie la spe­
ranza all’uomo: guardare al passato come luogo di
fallimento e al futuro come luogo senza possibilità
di salvezza. Nel suo Antirrhetikos, Evagrio suggeri­
sce due testi della Scrittura per controbattere alla

1 A. Griin, Per vincere il male. La lotta contro i demoni nel monacheSim


antico, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 44.
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 77

parola falsa della tristezza, parola che induce alla


disperazione:

«Contro lo spirito malvagio che attacca l’anima, evo­


cando i peccati passati, facendomeli vedere e sforzan­
dosi di insinuare in me la tristezza: “Non gioire su
di me, mia nemica, perché sono caduto; ancora mi
rialzerò, poiché se siedo nella tenebra, il Signore mi
illuminerà”» (Mi 7,8)...
«Contro il demone che mi ricorda i peccati della mia
giovinezza: “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova;
le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuo­
ve”» (2Cor 5,17)2.

«Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate


di nuove»: ogni prospettiva di speranza contenuta in
questa parola viene come annullata dalla tristezza.
Non c’è possibilità di novità, come di fatto non è più
possibile dare vita a ciò che è passato. Ecco allora
che la tristezza, paradossalmente, apre davanti allo
sguardo una sola prospettiva: la “di-sperazione”. È
questa la via più pericolosa che apre la tristezza, il

2 Evagrio Pontico, Antirrhetikos 55. 73: Id., Contro i pensieri malvagi.


Antirrhetikos, cur. G. Bunge - V. Lazzeri, Qiqajon, Bose/Magnano 2005,
pp. 108.113.
78 I Tristezza

baratro che può risucchiare una vita. Questa tristez­


za così radicale, che spegne ogni orizzonte di vita,
deve essere temuta, come ammonisce Cassiano:

«Esiste un altro genere di tristezza, ancor più dete­


stabile, che induce il peccatore non a correggere la
propria condotta di vita e a purificarsi dai vizi, ma a
disperare in modo pericolosissimo della propria sal­
vezza: fu questa tristezza a impedire a Caino di pen­
tirsi dopo l’uccisione del fratello e a spingere Giuda,
dopo il tradimento, non a cercare di riparare la sua
colpa, ma a impiccarsi per la disperazione»?.

Ma dobbiamo ammettere che uno sguardo senza


speranza è uno sguardo che ha cancellato dal pro­
prio orizzonte esistenziale Dio; solo Dio può dare
speranza all’uomo, perché lui stesso per primo spe­
ra nell’uomo. Come sottolineano con insistenza gli
autori monastici, la tristezza nasce dal fallimento di
desideri legati a fragili speranze. Di conseguenza, la
tristezza distoglie lo sguardo dalla vera speranza fa­
cendo piombare la vita in un ateismo pratico, in cui
le possibilità che Dio offre all’uomo sono continua-

3Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche IX,9: tr. it., p. 260.


«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 79

mente scartate o annullate. Fede in Dio e speranza


sono compagne e, abbandonando luna, si perde an­
che 1altra. Così scrive Isacco il Siro:

«Non dire: “Ho lavorato per tanto tempo e non ho


trovato”. Oppure: “La verità della realtà non è se­
condo la grandezza delle parole”. Guardati da que­
sto pensiero, perché la punizione segue la mancanza
di fede; il cuore che non ha fede è condannato. Qual
è la punizione? Che da qui, attraverso Pabbandono
che la tua mancanza di fede provoca, cadi nella di­
sperazione; la disperazione ti consegna al disgusto, e
il disgusto ti finisce con la morte e ti allontana dalla
speranza. Non c’è alcun male più di questo che possa
venire su di te»4.

Se la vita è abitata dalla tristezza, anche la pa­


rola che esce dalla bocca comunica tristezza. E
ognuno ha esperienza della capacità distruttiva di
una parola triste. Essa comunica amarezza, trasci­
na nel dubbio, leva la speranza, corrode fiducia e
stima, induce al giudizio, spegne la gioia. E, at­
traverso la parola, la tristezza può comunicarsi in

4 Isacco di Ninive, Uriumile speranza. Antologia, cur. S. Chialà, Qiqajon,


Bose/Magnano 1999, p. 154.
80 I Tristezza

tanti modi: sono tristi le parole cariche di invidia,


di maldicenza, di sarcasmo, di lamentela, di scon­
forto; sono tristi le parole che comunicano il vuoto
contenuto nel cuore, l’indolenza e la sfiducia con
cui si trascina la vita, l’inquietudine e l’angoscia
con cui si guarda al futuro. Ma c’è una parola che
ha la forza di trasmettere tutto il veleno corrosivo
della tristezza: è la mormorazione. E potremmo
definire la parola triste della mormorazione una
parola senza rendimento di grazie.
Per gli autori monastici, la mormorazione è uno
dei frutti più amari della tristezza; infatti, proviene
da un cuore schiavo di questa passione e procura
tristezza in colui che riceve tale parola. Parlando
della mormorazione e della maldicenza, Evagrio
così afferma:

«Chi va dietro alle dicerie, rapina le anime dei miglio­


ri, cavando fuori dalle calunnie una cattiva fama; chi
evita la lingua ingiuriosa del vicino, allontana anche
la propria ingiuria; chi porge gradito ascolto a chi in­
sulta, succhia dalle orecchie veleno del diavolo!»5.

5Evagrio Pontico, Sulla confessione dei pensieri e consigli di vita 16: tr.
it., pp. 76-77.
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 81

«Non mormorare»: con questo imperativo collo­


cato all’interno del capitolo 4 della sua Regola (Sugli
strumenti delle buone opere), Benedetto condanna
senza riserve il vizio della mormorazione6. Altrove
ammonisce: «Non compaia per nessun motivo e con
nessuna parola o segno il male della mormorazione.
Se qualcuno incorrerà in simile vizio, dovrà subire
una punizione molto severa»7. Perché tale durezza
nei confronti di questo genere di parola? Benedet­
to sa bene, a partire dalla sua esperienza spirituale
e dalla condivisione della vita con altri fratelli, che
questa smania di criticare si trasforma, alla fine, in
un atteggiamento negativo che contamina la vita di
una comunità e in uno sguardo opaco sulla realtà.
Mormorare è seminare tristezza, sfiducia, inquietu­
dine; è privare ogni relazione di uno sguardo che sa
rendere grazie e di una parola che sa benedire. La
mormorazione diventa, dunque, veicolo dell’incapa­
cità di collocarsi con umiltà di fronte a una realtà
inevitabilmente limitata: invece di essere strumen­
to di gratitudine e di lode, la parola si trasforma in

6Regola di san benedetto 4,39.


7 Ibid., 34,6-7. Ben dodici volte ritorna in RB il termine “mormorazio­
ne” e i suoi derivati.
82 I Tristezza

strumento di giudizio, pretesa, mancanza di ricono­


scenza e di misericordia.
La mormorazione è sempre piena di amarezza; ri­
vela una modalità di lettura della realtà radicata su
un terreno non buono. Parte dal cuore, il cui sguar­
do interiore è come offuscato, quasi impedito di ve­
dere chiaramente fatti, persone, se stessi e affiora
sulle labbra sotto forma di giudizio, recriminazio­
ne, pretesa, ecc. Ed è interessante notare che questo
tipo di mormorazione può essere comunicato anche
attraverso lo sguardo o altri atteggiamenti corpo­
rali che traducono insofferenza o critica. «L’origine
delle nostre critiche - dice J. Loew - viene dal fat­
to di non aver accettato il posto in cui ci troviamo,
il nostro limite... Quando accettiamo la debolezza
della critica, quando ci rivoltiamo interiormente,
sappiamo che con una punta d’ago feriamo la no­
stra anima e la priviamo del soffio dello Spirito... Il
contrario della mormorazione e della demolizione è
esattamente la gioia che nasce dalla lode della gloria
di Dio»8.
Un’incapacità a frenare la lingua, dando spazio alla

8 J. Loew, Comme s i i voyait Vinvisible. Un portrait de Vapòtre d’a


jourd’hui, Cerf, Paris 1979, pp. 195,202.
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 83

mormorazione, ha la sua radice in un cuore achàri-


stos, senza pace e senza gratitudine, un cuore avvolto
dalla tristezza. Come dice Isacco il Siro: «Ciò che
conduce la grazia di Dio all'uomo è un cuore mosso
a un continuo rendimento di grazie. Ciò che intro­
duce le tentazioni alla presenza dell’anima è il moto
della mormorazione che si agita continuamente nel
cuore. Dio pazienta in tutte le debolezze dell’uomo,
ma non sopporta di non correggere colui che mor­
mora continuamente»9. Una mormorazione che af­
fiora sempre sulle labbra non fa altro che sprofonda­
re sempre di più il nostro cuore e tutta la nostra vita
nella tristezza e nell’inquietudine. E questo alla fine
genera un disgusto di tutto, diventando insofferenza
non solo verso gli altri, ma verso Dio stesso. Siamo
nell’anticamera dell’accidia, come nota Climaco:
«L’accidia accusa Dio di essere senza misericordia
(lett.: “senza viscere”, àsplanchnos) e senza amore
per gli uomini (aphilànthropos)»10; «coloro che vi­
vono in luoghi privi di conforto (aparàkletos)... sono
assediati dal tiranno dell’accidia e dell’ingratitudi­

9 Isacco di Ninive, op. cit., p. 105.


10 Giovanni Climaco, Scala del Paradiso XIII, 1: Id., La Scala del Para­
diso, cur. L. D ’Ayala Valva -J. Chryssavgis, Qiqajon, Bose/Magnano 2005,
p. 237.
84 I Tristezza

ne (acharistia)»u. Questa mormorazione che intacca


tutte le sfere della vita, soprattutto quella spirituale,
è veramente distruttiva e deleteria sia per la propria
che per l’altrui vita, in quanto semina tristezza ed
è segno di un’accidia latente e subdola. Di fronte a
uno che critica e mormora continuamente, Isacco il
Siro invita a tagliar corto, controbattendo con una
sana tristezza una tristezza malvagia: «Rendi scuro il
tuo volto con colui che comincia a sparlare dei suoi
fratelli davanti a te. Così facendo, sarai trovato vigi­
lante sia da Dio sia da lui stesso»12.

La mancanza di speranza che avvolge lo sguardo


dell’uomo triste e l’amarezza comunicata dalla sua
parola non sono altro che il riflesso di un cuore senza
pace e senza gioia. È nel cuore dell’uomo che la tri­
stezza prende dimora e scatena la sua dura battaglia.
Quando questa passione conquista lo spazio interio­
re dell’uomo, allora lo riempie dei suoi fantasmi; sono
appunto la paura di fronte al tempo che sta davanti,
l’angoscia per la precarietà che rende fragile la vita,
le tante amarezze causate da fallimenti e frustrazio­

11Ibid., XXVI/2,15: tr: it„ p. 359.


12Isacco di Ninive, op. cit., p. 105.
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 85

ni, gli ostacoli che gli altri sembrano continuamente


creare e impediscono una realizzazione di sé. Tutto
questo miscuglio di sensazioni (che spesso non han­
no fondamento reale e si trasformano, appunto, in
fantasmi) viene prontamente strumentalizzato dal­
la passione della tristezza; attraverso questo mondo
in cui si proietta minacciosa ogni sorta di paura, la
tristezza sconvolge il cuore e lo fa piombare in uno
stato di sconforto. Veramente la tristezza sembra es­
sere compagna di ogni forma di inquietudine. Nella
Vita di santa Sindetica, questa madre del deserto fa
una considerazione nei confronti di chi lascia abitare
nel proprio cuore quella insofferenza generata dalla
tristezza. Interpretando un versetto della Scrittura
(Is 1,5 secondo la versione greca), Sindetica afferma:

«Con l’espressione “tristezza nel cuore”, la sentenza


mette in evidenza la condizione di incertezza e di
miseria delle persone che vivono nel mondo. Infatti,
considerando che il loro cuore è sempre eccitato ed
è ritenuto essere il luogo dove dimora la collera e la
tristezza, tali persone non sono mai completamente
liberate dall’agitazione e dallo sconforto. Non rice­
vendo elogi, sono rattristati; aspirando ai beni degli
altri, sono presi dalla noia; trovandosi privi di beni,
86 I Tristezza

diventano impazienti; se sono ricchi, diventano pazzi


perché la preoccupazione di custodire la loro fortuna
impedisce loro di dormire»13.

Quando nel cuore manca quella pace che nasce


dall’accettazione della propria realtà limitata e dalla
consapevolezza che non è sempre possibile realizza­
re ogni desiderio, quando la tristezza diventa l’atteg­
giamento normale che sostiene la propria vita, allora
viene a mancare la gioia. La tristezza non solo è la
passione contraria alla gioia, ma ha la capacità di an­
nullare il desiderio della gioia. Vedremo in seguito
la qualità profonda della gioia in rapporto alla tri­
stezza; ma fin d’ora si può dire che la tristezza impe­
disce anzitutto di gioire delle realtà più quotidiane e
normali presenti nella vita di un uomo. Ma di fatto
senza gioia alla fine non c’è più vita. «La gioia - dice
A. Louf - è il terreno in cui ogni vita mette radici
per essere in grado di esistere. Senza la gioia non po­
tremmo vivere o, meglio, non potremmo sopravvi­
vere. La gioia sgorga in modo particolare in occasio­

13 Paolo Evergetinos, Synagogè III, 13, 1, 4: Paroles et exemples des an


ciens. Recueil ascétique de Paul surnommé Evergetinos, III, tr. N. Molinier,
Monastère saint-Antoine-le Grand/Monastère de Solan, 2010, pp. 88-89.
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 87

ne di momenti esistenziali eccezionali, quando ci è


dato di fare esperienza della nostra realtà profonda,
della bellezza o della vita... Questa gioia è destinata
a crescere nella misura in cui cresce il nostro essere,
perché la gioia è la caratteristica di un essere viven­
te e in crescita, di un essere che si sviluppa verso
un plus-essere. La gioia è, quindi, sempre legata alla
dinamica degli uomini e delle cose, possiede in sé
un ritmo che, per il nostro sviluppo, è importante
abbracciare. Inoltre, la gioia che giace alla sorgente
del nostro essere ci spinge sempre in avanti; il suo
compito specifico è quello di farci crescere nell’esse­
re. Solo la gioia ne è capace»14.
Alla luce di questa riflessione di A. Louf, si può
comprendere bene la capacità distruttiva della tri­
stezza: bloccando la dinamica della gioia, anzi elimi­
nandola come sorgente stessa della vita, la tristezza
blocca il processo stesso della vita. La vita è come
paralizzata e non camminando in avanti, si ripiega
su se stessa (il ritorno al passato) e si nasconde die­
tro a quelle maschere che la tristezza le offre (paura,
sconforto, disperazione). Paradossalmente la tristez­

14 A. Louf, Sotto la guida dello Spinto, Qiqajon, Bose/Magnano 1990,


pp. 120-121.
88 I Tristezza

za può anche usare la stessa gioia per illudere o per


nascondere il suo veleno mortale. Quante volte si
incontrano persone che trasmettono una gioia vio­
lenta, squilibrata, piena di rancore e tristezza. Que­
sta gioia, se così si può chiamare, è nient’altro che
una maschera del buio e dell’inquietudine che abita
il cuore; è una gioia nevrotica che si trasforma in
ribellione e attacco all’altro (sarcasmo). Altre volte
questa gioia falsa diventa solo una patina superficia­
le, una reazione emozionale legata a situazioni posi­
tive immediate; essa appare come una fuga deside­
rata da quello spiritus tristitiae che di fatto attanaglia
il cuore. In ogni caso, una gioia di questo tipo non
conduce da nessuna parte; non essendo abitata dalla
vita (e dallo Spirito della vita), non apre porte alla
vita, ma fa continuamente ripiombare in uno stato
di morte interiore.
Da un cuore senza pace e senza gioia la tristezza
si trasmette, soprattutto, nelle relazioni con gli altri
e con Dio.
Nelle relazioni con gli altri, la tristezza si annida
soprattutto in due atteggiamenti, strettamente uniti:
l’invidia e il rancore. Dell’invidia parleremo a parte,
mentre in questo contesto facciamo un accenno al
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 89

rancore. Questa ira covata e tenuta ben nascosta è


come un carbone acceso sotto una coltre di cenere,
un carbone che continua a produrre fumo15. E que­
sto fumo che oscura e brucia gli occhi è proprio la
tristezza. Ce lo ricorda Massimo il Confessore: «La
tristezza è unita al rancore: quando dunque la mente
guarda con tristezza il viso del fratello, è evidente
che ha rancore verso di lui»16.
Ma, al di là del rancore, la tristezza trova molti
modi per turbare le relazioni con gli altri. Infat­
ti, un cuore incatenato e soffocato dalla tristezza,
privo della gioia e della consolazione dello Spirito,
rischia di riversare sugli altri questa tenebra inte­
riore procurando sconforto e scoraggiamento. E
per esperienza sappiamo come è facile lasciare nel
cuore del fratello una goccia del veleno della tri­
stezza che dimora nel nostro cuore attraverso uno
sguardo, attraverso un gesto o una parola. E molte
volte la perdita di tono nelle relazioni è il residuo di

15L’immagine del carbone infuocato e del fumo per esprimere la dina­


mica del rancore è utilizzata da Doroteo di Gaza nella sua Catechesi V ili:
cfr. Doroteo di Gaza, Scritti e insegnamenti spirituali, cur. L. Cremaschi,
Edizioni Paoline, Roma 1980, pp. 141-147.
16Massimo il Confessore, Centurie sulla carità III, 89: Id., Capitoli sulla
carità, cur. A. Ceresa-Gastaldo (= Verba Seniorum, NS 3), Studium, Roma
1963, pp. 186-187.
90 I Tristezza

parole o gesti tristi che hanno intaccato il cuore dei


fratelli. Abbiamo già ricordato un détto attribuito
a Giovanni Crisostomo: «Se non vuoi essere triste,
non contristare il prossimo»17. Questa sentenza sot­
tolinea una certa circolarità della tristezza. Se un
cuore immerso nella tristezza riversa nel fratello
questa desolazione, di fatto ogni parola o gesto che
generano tristezza negli altri diventano una sorta di
boomerang, un’arma a doppio taglio: non fanno che
aumentare la tristezza nel proprio cuore, trasfor­
mandola in un vortice che risucchia. Ogni parola
triste allontana sempre di più la gioia dello Spirito
dal cuore. E se nel cuore non abita il Consolatore,
tutto ciò che si fa o si dice sarà senza consolazione e
senza compassione.
Ma è soprattutto la relazione con Dio a perdere
la sua tensione e vivacità quando il cuore è immer­
so nella tristezza, senza pace e senza gioia. Ce lo ri­
corda Evagrio riferendosi al monaco soffocato dalla
tristezza:

«Il monaco afflitto dalla tristezza non conosce la gioia


spirituale, come uno che ha molta febbre non gusta

17Geronticon Etiopico 447b: Detti editi ed inediti, p. 200.


«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 91

il miele. Il monaco rattristato non muove la mente


alla contemplazione né fa salire al cielo una preghiera
pura; la tristezza è ostacolo a ogni bene. Avere i piedi
legati è un ostacolo alla corsa, la tristezza lo è per la
contemplazione»18.

Una preghiera che non sale al cielo, trascinata


giù dal peso di un cuore ripiegato su di sé, è forse
il segno più eloquente di come la tristezza intacchi
la relazione con Dio. «Abba Nilo disse: “Se desi­
deri pregare come si deve, non avere l’anima tri­
ste, se no corri invano»19. Colui che è colpito dallo
spiritus tristitiee ha coscienza della gravità del suo
stato interiore soprattutto nel momento della pre­
ghiera. Si potrebbe quasi dire che durante la pre­
ghiera (poiché nella vita spirituale essa esercita la
funzione di “specchio deHanima”) si riflette tutta
l’opacità e la tenebra che avvolgono il cuore di co­
lui che è preda della tristezza. Infatti, rilassando la
tensione interiore e avvelenando il clima spirituale
con una sorta di disgusto e sfiducia generalizzati,

18 Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 1: tr. it., pp. 48-49.
19 Nilo 6: Vita e detti dei padri del deserto, II, cur. L. Mortari, Città
Nuova, Roma 1975, p. 61.
92 I Tristezza

la tristezza appesantisce la preghiera, resistendo


in qualche modo all’azione dello Spirito Santo,
il cui frutto nel cuore del credente è, appunto, la
gioia (cfr. Gal 5,22). Sottolineando l’inconciliabi­
lità tra la tristezza e il dono dello Spirito, il Pasto­
re di Erma descrive in questi termini la preghiera
dell’uomo triste:

«“L’uomo triste si comporta sempre male. Prima


agisce male perché contrista lo Spirito Santo che fu
dato gioioso (ilarón) all’uomo; poi, contristando lo
Spirito Santo, compie l’ingiustizia di non supplicare
Dio e di non confessarsi a Lui. La preghiera dell’uo­
mo triste non ha mai la forza di salire all’altare di
Dio”. “Perché, chiedo, la preghiera del triste non
sale all’altare?”. “Perché, dice, la tristezza risiede
nel suo cuore. La tristezza unita alla preghiera, non
permette che la preghiera ascenda pura all’altare.
Come l’aceto e il vino mescolati assieme non hanno
lo stesso sapore, così la tristezza frammista allo Spi­
rito Santo non conserva la stessa preghiera”»20.

20 Pastore di Erma, Precetto X, 42, 3 : / Padri Apostolici, cur. A. Quac


quarelli (= Collana Testi Patristici 5), Città Nuova, Roma 1976, pp. 282-
283.
«Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato» I 93

La preghiera di colui che è triste è, dunque, una


preghiera che ha perso la sua vivacità, caricata da
quella zavorra di pensieri che indeboliscono il rap­
porto con il Signore, svuotandolo di ogni fiducia
e soffocandolo nella mormorazione. Ecco perché,
come sottolinea il detto di abba Nilo, «si corre in­
vano»: la preghiera gira su se stessa, è sempre allo
stesso punto, non procura nessun avanzamento nella
vita spirituale, perché è priva della gioia dello Spi­
rito. Tuttavia l’abbandonare la preghiera in questo
stato interiore di tristezza sarebbe peggio; sarebbe
la vittoria totale dello spiritus tristitiae e, dunque,
condurrebbe il cuore a un passo dalla disperazione.
Anche se la preghiera di un cuore rattristato è pe­
sante, si ha l’impressione di “correre invano”, tutta­
via è più saggio rimanere con umiltà in questa sorta
di desolazione continuando a supplicare il Signore.
Se non si avanza, almeno non si indietreggia e, mi­
steriosamente, questa preghiera arida diventerà una
forza contro il nemico. E così lo stesso abba Nilo
consiglia: «La preghiera è rimedio contro la tristezza
e lo sconforto»21.

21Nilo 6: Vita e detti dei padri del deserto, p. 61.


IV

Fra tristezza e ira:


l’invidia

IL delle manifestazioni più “turbolente” del­


la passione della tristezza è sicuramente l’invidia,
uno dei mali che maggiormente intaccano le rela­
zioni e hanno una ricaduta sociale evidente. Di per
sé l’invidia non è inserita, come passione-madre
nell’elenco tipico di Evagrio e neppure in quello
di Cassiano. Tuttavia, gli autori ne parlano a più
riprese e con toni che chiaramente la relegano nel­
la sfera dei pensieri malvagi. Appare, invece, come
vizio capitale nella lista di Gregorio Magno; ciò ha
fatto sì che essa diventasse, soprattutto nella lette­
ratura medievale, uno dei vizi più “bersagliati” dai
predicatori e dai trattati morali. E, d’altra parte,
rispetto alla tristezza a cui è profondamente legata,
l’invidia ha un volto più appariscente. Forse que­
sta insistenza sull’invidia nasce anche dal fatto che
96 I Tristezza

essa è, in qualche modo, all’origine del dramma


dell’uomo. «Sì, - dice il libro della Sapienza - Dio
ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, l’ha fatto a
immagine della propria natura. Ma per l’invidia
del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fan­
no esperienza coloro che gli appartengono» (Sap
2,23-24). L’invidioso per eccellenza è il diavolo,
«destinato a rodersi di invidia verso tutti coloro
che godono del favore di Dio, a lui ormai irrime­
diabilmente precluso»1. Ed è lui a mettere l’uomo
su questa strada rendendolo invidioso e geloso di
Dio; l’immagine del serpente strisciante in Gen 3
e la suggestione che introduce nel cuore del primo
uomo e della prima donna non orientano forse a
un capovolgimento del rapporto con Dio, avvele­
nandolo con la gelosia? «Il primo atto di invidia,
all’inizio dei tempi - commentano le studiose Ca­
sagrande e Vecchio, introducendo la riflessione su
questo vizio, - ebbe effetti devastanti... Invidioso
che creature a lui inferiori godessero del favore di
Dio, mentre lui era inesorabilmente decaduto, il
diavolo tentò Adamo ed Èva e li indusse al pecca-

1E. Pulcini, op. cit., p. 43.


Fra tristezza e ira: Vinvidia I 97

to. A quella prima tragica apparizione dell’invidia


ne seguirono altre. Gli uomini da oggetto di in­
vidia del diavolo ne divennero ben presto fedeli
imitatori e la loro invidia provocò, al pari di quella
diabolica, lutti e sciagure: l’invidia di Caino nei
confronti di Abele, prediletto da Dio, fu la causa
del primo omicidio; quella di Esaù verso Giacob­
be, favorito nella successione, seminò la discordia
nella famiglia; per invidia Giuseppe fu venduto
come schiavo dai suoi fratelli e Davide fu perse­
guitato da Saul... L’allarme lanciato dal testo bibli­
co fu raccolto dai Padri, che ripresero e amplifica­
rono le suggestioni bibliche sugli effetti nefasti di
questo vizio»2.
Anzitutto ci si può domandare: l’invidia viene
percepita come un peccato? È considerata un vi­
zio? Certamente tutti sono coscienti degli effetti
distruttivi dell’invidia, soprattutto nell’ambito dei
rapporti interpersonali. E anche socialmente si con­
sidera l’invidia come un male che crea conflitti e
divisioni: i Padri non mancano di mettere in rilie-

2 C. Casagrande - S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel


Medioevo, Einaudi, Torino 2000, p. 36.
98 I Tristezza

vo la dimensione sociale dell’invidia a partire dalle


varie filiazioni che essa produce3. Tuttavia, proprio
in relazione alle dinamiche che muovono le relazio­
ni in una società, l’invidia rivela la sua ambiguità.
Non mancano momenti nella storia in cui l’invidia
quasi diventa una virtù, in quanto produce compe­
titività ed emulazione, attirando energie positive e
creatività. È interessante a questo riguardo la bre­
ve sintesi storica sull’invidia proposta dal sociologo
P. De Nardis:

«Invidia. Un tabù per le scienze sociali, che in realtà


può riposare in un vero e proprio puzzle ancora irri­
solto per le stesse. Eppure da peccato inconfessabile,
vizio capitale nella teologia cattolica, ha svolto nella
modernità una funzione importante, ma spesso al­
trettanto letale di mediazione sociale. Invidia come
categoria sociologica, dunque, basata sulla pena esi­
stenziale della sofferenza per l’altrui gioia o successo
di fronte a un pubblico giudicante. La Riforma prote­
stante, collante ideologico del protocapitalismo, l’ha
trasformata in competitività; la Controriforma, recu­
perando la dimensione della comunità egualitaria, è

3Cfr. ibid.y pp. 45.50-51.


Fra tristezza e ira: Vinvidia I 99

sembrata non ammettere la possibilità di emergere


dell’uno rispetto all’altro. Da questa contraddittoria
forbice nasce forse la moderna invidia che sovente di­
venta disprezzo e, insieme, ammirazione per l’altro,
ma non certo recupero e interesse universalistico per
Palterità, alla base quest’ultimo dei grandi processi
di cambiamento sociale e di allargamento democra­
tico in termini di giustizia e di eguaglianza sociale,
prodotti, del resto, dai grandi conflitti sociali della
modernità. Da qui i diversi aspetti dell’invidia, come
invidia di genere, invidia nelle professioni, invidia
nell’arte, invidia politica, eccetera»4.

Tuttavia, nella spiritualità e nell’etica cristiana,


l’invidia è sicuramente un male, una passione mal­
vagia, un vizio. I testi che citeremo in seguito ne
riveleranno tutta la portata negativa. Riportando
la tradizionale visione teologico-morale cattolica,
nel Dictionnaire de Spiritualité si presenta così la
dimensione etica e spirituale dell’invidia: «La gra­
vità obiettiva del peccato di invidia non potreb­
be essere esagerata. “Peccato capitale” e “peccato
contro il Santo Spirito”, lo è nella misura in cui si

4 P. De Nardis, Linvidia. Un rompicapo per le scienze sociali, Meltemi,


Roma 2000, p. 9.
100 I Tristezza

oppone ai princìpi stessi della vita spirituale. Pro­


cedendo dall’orgoglio, l’invidia misconosce l’ordi­
ne dei valori essenziali e ostacola le disposizioni
della Provvidenza. Inconciliabile con lo spirito di
fede che sarebbe necessario per accettarsi umil­
mente cosi come si è, indifferente ai beni incom­
parabili che fanno l’oggetto della speranza, incom­
patibile con la dimenticanza di sé e la benevolenza
a cui inducono la carità, l’invidia è un’antitesi alle
virtù teologali. Come ogni egoismo, di cui incar­
na uno dei volti più ripugnanti, essa compromette
l’opera della salvezza personale e, contrastando le
vedute di Dio in ciò che concerne la propria voca­
zione, espone l’invidioso a contrastare in modo se­
rio anche quella degli altri. Riprendendo la parola
di Cipriano, Agostino vede nell’invidia il peccato
diabolico per eccellenza»?.
Se, dunque, si deve considerare l’invidia una pas­
sione che compromette la vita spirituale e intacca
l’agire dell’uomo, in quale relazione essa sta con gli
altri vizi? Qual è il posto dell’invidia nella litania dei
pensieri malvagi? Sappiamo che Gregorio Magno

5 E. Ranwez, Envie, in Dictionnaire de Spiritualité, IV, Beauchesn


Paris 1959, col. 777.
Fra tristezza e ira: Vinvidia I 101

«conferì all’invidia un posto di assoluto rilievo nella


sua classificazione, collocandola in seconda posizio­
ne, subito dopo la regina superbia, e assegnandole,
al pari degli altri vizi, una corte di peccati da essa
generati e governati»6. Se la radice dell’invidia resta
la philautm, un orgoglio e una stima di sé urtati e fe­
riti dal bene dell’altro, tuttavia essa ha stretti legami
con due altre passioni: la tristezza e l’ira. Per Grego­
rio invidia, ira e tristezza sono tre anelli strettamente
scollegati della catena dei vizi7. Una rabbia covata,
soprattutto se provocata dal bene dell’altro, bene che
si vorrebbe possedere, è nutrimento per l’invidia;
così pure un cuore pieno di risentimento e di odio
trova nell’invidia un terreno fecondo. Ma l’invidia
assume soprattutto il volto di una tristezza piena di
rancore e di amarezza. Essenzialmente nel sottofon­
do dell’invidia c’è la tristezza suscitata dalla visione
del bene altrui e proprio questo porta a una rabbia, a
un’irritazione interiore verso colui che ingiustamen­
te, così pensa l’invidioso, deruba il bene che gli spet­
terebbe. Come nota Tommaso d’Aquino, l’oggetto

6 C. Casagrande - S. Vecchio, op. cit., p. 37.


7 Gregorio Magno, op. cit., VI, 31,45,89: Id., Commento morale a Giob-
be/4, cur. P. Siniscalco - E. Gandolfo (= Opere di Gregorio Magno 1/4),
Città Nuova, Roma 2001, pp. 322-323.
102 I Tristezza

della tristezza è il male proprio; per l’invidia, invece,


è sentire il bene altrui come male proprio8.
L’invidia è, dunque, collocata tra l’ira e la tri­
stezza; da quest’ultima, tuttavia, riceve il tratto e la
maschera che la distinguono. L’invidia si nutre di
tristezza e provoca tristezza e dolore. Come scrive
S. Natoli, «l’invidia è il tormento dell’impotenza
che si consuma in se stessa e desidera costante-
mente la distruzione di colui che viene invidiato.
In questo senso, l’invidia ha effettivamente a che
fare con il non videre nel doppio significato che
non sopporta la visione della gloria dell’altro, ma
anche nel senso che l’altro, a cagione del suo suc­
cesso, gli risulta inviso, vale a dire odioso. In breve,
ciò di cui non si sopporta la vista deve scomparire,
nel senso realissimo di essere distrutto. La tradi­
zione metaforizza perfettamente l’invidia quando
la rappresenta nella forma dell’accecamento e del
livore»9. Alla fine, viene quasi da ammettere che
l’invidia, più che un vizio, è una pena: la tristezza
trasformata in tormento.

8 Cfr. Tommaso d Aquino, Summa Theologias, II-II, q. 36, a. 1.


9 S. Natoli, Invidia. Il tormento dell'impotenza, in «Avvenire», 2 gen­
naio 2011, p. 19.
Fra tristezza e ira: l'invidia I 103

1. L’invidia allo specchio

Negli affreschi che adornano la parte inferiore


della cappella degli Scrovegni a Padova, Giotto ha
dipinto (tra il 1303 e il 1305) alcune figure allego­
riche: sette vizi a cui sono contrapposte sette virtù.
In questo settenario (che di fatto non rispetta quello
tradizionale) è raffigurata anche l’invidia, di fronte
alla quale è collocata la Carità. Nei simboli utilizzati
per raffigurare l’invidia, Giotto ci offre un interes­
sante ritratto di questo vizio. L’Invidia è rappresen­
tata come una vecchia, che tiene stretto in una mano
un sacchetto. Il corpo è avvolto da fiamme e dalla
bocca emerge una lunga lingua a forma di serpen­
te che si ritorce contro il volto, accecando gli occhi.
La posizione delle mani, rapaci e pronte a catturare,
indica quasi il bisogno costante di possedere ciò che
l’altro ha. Le fiamme che avvolgono il corpo sono un
simbolo dell’ira nascosta che tormenta, brucia e di­
strugge chi è vittima di questa passione. L’invidioso
è ben lontano dal godere della propria passione poi­
ché è causa di sofferenza a se stesso. Ciò è anche sug­
gerito dalla lingua a forma di serpente che si avventa
contro gli occhi. Ma il simbolo della lingua a forma
Tristezza

di serpente mette bene in rilievo uno strumento uti­


lizzato dall’invidia: la parola. Attraverso una parola
subdolamente usata, piena di doppiezza, difficil­
mente afferrabile, come è appunto il serpente (ad
esempio, la maldicenza e la diffamazione), l’invidia
ha la potenza distruttrice del fuoco. Questa parola
insidiosa e aggressiva alla fine diventa uno schermo
che impedisce di vedere l’altro nella sua realtà; forse
anche per questo motivo la lingua-serpente colpisce
gli occhi dell'invidioso rendendolo cieco10.
Quest’ultimo aspetto che emerge nella descrizio­
ne pittorica di Giotto, la parola invidiosa che rende
se stessi ciechi e l’altro in-viso, merita di essere sot­
tolineato. Troviamo qui due elementi essenziali del
ritratto dell’invidia: lo sguardo e la parola.

Lo sguardo dell’invidia proviene da un occhio


irrimediabilmente malato: è un occhio cieco. Lo
stesso termine latino “invidia”, nella sua etimologia,
evidenzia questa incapacità di vedere correttamente.
«Prima di ogni definizione e analisi - sottolineano

10 Cfr. un interessante commento all’affresco di Giotto in U.G.G


Derungs, Sì sì, no no, in «Servitium» 195/serie III. Anno XLV, maggio/
giugno 2011, pp. 115-117.
Fra tristezza e ira: l'invidia I 105

le studiose C. Casagrande e S. Vecchio - è la stes­


sa parola che designa questo peccato a mostrarne la
natura: invidia è in-videre, guardare di malocchio.
Dall’etimologia la metafori: l’invidioso è qualcuno
che non può vedere bene, che vive nelle tenebre, che
si allontana dalla luce cercando l’ombra... L’immagi­
ne più potente di questa metafori dell’invidia, tutta
giocata sul tema delle tenebre e dell’accecamento, è
quella della massa ondeggiante di invidiosi che Dan­
te incontra nel “Purgatorio”. Costoro avanzano len­
tamente sorreggendosi l’un l’altro come ciechi che
chiedono l’elemosina»11.
Questa situazione di cecità rende la vita di chi è
colpito dall’invidia profondamente inquieta, sempre
minacciata, sempre tormentata, sempre proietta­
ta verso ciò che si vorrebbe possedere o verso ciò
che si vorrebbe essere. La tristezza e la sofferenza
sono, alla fine, le caratteristiche di questo sguardo
senza luce. Un velo è posto sull’occhio dell’invidia e
questo velo genera solo tenebre, avvolgendo in esse
tutto: l’altro, la realtà e, soprattutto, il proprio cuore.
Davvero l’invidioso è condannato a vivere nell’oscu­

11C. Casagrande - S. Vecchio, op. cit., p. 38.


106 I Tristezza

rità e questo è il suo dolore. In unbmelia dedicata


alPinvidia, piena di acute osservazioni psicologiche
elaborate con un linguaggio finemente ironico, Basi­
lio di Cesarea descrive così questo stato di tristezza
e oscurità che avvolge l’invidioso:

«L’invidia è tristezza per il benessere del prossimo. In


questo senso afflizione e depressione non fanno mai
difetto all’invidioso. Il campo del vicino porta più
frutti? La casa abbonda di ogni cosa che può servire
alla vita? Le gioie non mancano a un uomo? Tutte
queste circostanze sono un alimento per il male e
costituiscono un di più di dolore per l’invidioso, che
non è diverso da un uomo nudo ferito da ogni cosa...
Per di più, aspetto più grave della malattia, egli non
può neppure palesarla: abbassa gli occhi, se ne sta ab­
battuto, confuso, lamentoso, rovinato dal male»12.

L’impossibilità di palesare ciò che corrode il cuo­


re è segno ulteriore della condanna subita dall’in­
vidioso: vivere nell’oscurità e tormentarsi nella soli­
tudine. Veramente l’invidia è una passione triste in

12 Basilio di Cesarea, Omelia XL. Sull'invidia: «Non è invidiosa la c


rità» (lCorinzi 13,4), cur. L. Coco, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002,
pp. 25-26.
Fra tristezza e ira: l’invidia I 107

tutti i sensi in quanto è senza piacere e senza gioia,


solo tormento e sofferenza, infelicità pura: «Nessuna
lusinga di possibili piaceri - sentenzia Alano di Lil­
le -, nessuna seppur vaga ombra di letizia, nessuna
immagine di felicità... Solo un tormento senza refri­
gerio, una malattia senza medicina, una fatica senza
respiro, una continua pena»13.

Se la sofferenza che l’invidia procura è tenuta na­


scosta nel cuore, il veleno con cui attacca e uccide è
trasmesso attorno a sé soprattutto mediante la pa­
rola. La potenza della parola emerge chiaramente
nella passione dell’invidia: la parola può distrugge­
re, corrompere, uccidere la vita. E anche in questo
caso la parola si nasconde dietro la tenebra perché
la parola dell’invidia non è mai chiara, è sempre
strisciante, doppia, piena di dubbio, proprio come il
serpente-lingua dell’affresco di Giotto oppure come
il serpente del racconto di Gen 3. Ed essenzialmen­
te sono due le forme con cui si trasmette il veleno
dell’invidia attraverso la parola: la maldicenza e
la diffamazione. Anzi, maldicenza e diffamazione

13 Alano di Lille, Summa de arte praedicatoria, V ili (testo citato in


C. Casagrande - S. Vecchio, op. cit., p. 39).
I

108 I Tristezza

sono strettamente legate: si dice male dell’altro per


distruggere la sua reputazione e con essa la sua vita,
ciò che è e che ha (tutto quello che l’invidioso non
riesce a sopportare al proprio sguardo). Ricordiamo
qui ancora un passaggio di Evagrio sulla maldicenza,
in cui mette in guardia dall’ascoltare simili parole:

«Le tue orecchie non si lascino affascinare dalle mal­


dicenze perché, essendo stato corrotto da un vizio, tu
non divenga il servo di molti altri.. Che esse non as­
saggino questa amara pozione, affinché tu pure non la
trasmetta all’altro»14.

La maldicenza e la diffamazione sono un riflesso


della psicologia dell’invidia: la parola usata dall’in­
vidia è certamente piena di veleno e di odio, ma
questo viene trasmesso a piccole dosi. Come già no­
tava Basilio di Cesarea, l’invidioso non mostra mai
palesemente la sua violenza: agisce di nascosto. In
particolare la diffamazione, come arma sottile, im­
palpabile, efficace, «riesce con poco sforzo a liberare
l’invidioso dall’assillante confronto con l’eccellenza

14 Evagrio Pontico, Sulla confessione dei pensieri e consigli di vita 16:


tr. it., pp. 76-77.
Fra tristezza e ira: F invidia I 109

dell’invidiato. Poche parole, sapientemente dette alle


persone giuste nei momenti opportuni, riescono, in­
fatti, in poco tempo a distruggere la buona fama di
chiunque e senza fama non c’è piena appartenenza
al corpo sociale, non c’è pubblico riconoscimento di
meriti, non c’è insomma nessuna possibilità reale di
eccellenza»15.
Ritratto triste e inquietante, dunque, quello
delPinvidia: esso sembra quasi un concentrato di
tutti i vizi, capace di rendere palpabile l’opera per
eccellenza di colui che è chiamato o diabolos, cioè
dividere e distruggere. Ecco come Evagrio sintetiz­
za, in una litania di malvagità, ciò che è contenuto
nell’invidia:

«L’invidia è un abito della superbia e uno spogliarsi


dell’umiltà, radice della maldicenza, malattia degli
occhi che non ti fa vedere lo star bene, simulazione di
amicizia, inganno di confidenza, odio della carità, ge­
losia di chi è apprezzato, disturbo di chi è ben saldo,
critica di chi gode una buona fama, alterazione degli
occhi, un amico della curiosità»16.

15 C. Casagrande - S. Vecchio, op. cit., pp. 43-44.


16Evagrio Pontico, I vizi opposti alle virtù 9: tr. it., pp. 132-133.
110 I Tristezza

2. La dinamica dell’invidia

Nel testo precedentemente citato Basilio di Ce­


sarea dava questa definizione di invidia: «L’invidia
è tristezza per il benessere del prossimo». Dunque,
l’oggetto dell’invidia è bene precisato: è il bene
dell’altro, tutto ciò che può procurare felicità sia a li­
vello materiale che spirituale. L’invidia gioca proprio
su questo paradosso: la vista della felicità dell’altro
causa la mia infelicità. Di conseguenza, sembra che
l’unica via di uscita per l’invidia sia o quella di met­
tere le mani sulla felicità dell’altro oppure distrug­
gerla. Su questa ossessione della felicità e del bene
dell’altro, che diventa insopportabile alla vista di chi
è accecato dall’invidia, si gioca la dinamica di questa
passione e prendono forma tutti i sentimenti che la
caratterizzano.
Un testo di Gregorio Magno evidenzia con pre­
cisione alcuni elementi che entrano in gioco nella
dinamica dell’invidia:

«Quando questa livida putredine (l’invidia) investe e


corrompe il cuore, anche l’aspetto esteriore indica la
grave follia che scuote l’animo... Mentre nel profondo
Fra tristezza e ira: Vinvidia I 111

del cuore si nasconde Iodio crescente, la ferita inter­


na tortura la coscienza con cieco dolore. Non si gusta
più nessuna gioia nelle proprie cose, perché la propria
pena ferisce lamina che si consuma e che la felicità
altrui tormenta. Quanto più si leva in alto ledificio
costruito dagli altri, tanto più scende in profondità il
fondamento dellanima invidiosa; quanto più gli altri
avanzano verso il meglio, tanto più essa scende ver­
so il peggio; in questa rovina coinvolge anche il bene
che credeva di aver costruito con altre azioni virtuose.
Quando l’invidia consuma lamina, consuma tutte le
buone azioni che trova. Perciò dice bene Salomone:
“Un cuore sano è la vita della carne, l’invidia è la ca­
rie delle ossa”... perché, a causa del vizio dell’invidia,
davanti agli occhi di Dio perdono ogni valore anche
le robuste azioni virtuose»17.

Non poteva essere descritto meglio il processo di­


struttivo dell’invidia! Tutto viene travolto dalla furia
di questa passione: interiorità, corpo, relazioni, azio­
ni, rapporto con Dio. Il punto di partenza, il luogo
dove si nasconde l’invidia, però, resta sempre il cuo­

17 Gregorio Magno, op. cit., V, 46, 85: Id., Commento morale a Giob­
be/l, cur. P. Siniscalco - E. Gandolfo (= Opere di Gregorio Magno I/l),
Città Nuova, Roma 1992, pp. 472-473.
112 I Tristezza

re. Anzitutto perché il cuore, luogo nascosto dell’in­


teriorità, permette all’invidia di agire secondo lo
stile che gli è proprio: quello dell’ambiguità e della
doppiezza, evitando accuratamente di palesarsi. Ma
l’invidia prende possesso del cuore perché esso è il
centro della persona ed è lì che deve seminare il suo
veleno. Quando l’invidia abita il cuore, allora tutta
la persona (volontà, pensiero, azione, sentimenti) è
tenuta in ostaggio. Ce lo ricorda Cipriano di Carta­
gine nel suo Liber de zelo et livore: «Le ferite della
gelosia sono nascoste e occulte, ed essa non ammette
una cura che possa guarire quanto sta chiuso in un
cieco dolore nelle profondità insondabili della co­
scienza». E, rivolgendosi all’invidioso, Cipriano ag­
giunge: «La rovina è chiusa dentro di te, tu sei legato
e stretto da catene del cui intreccio non si può avere
ragione. Tu sei prigioniero del potere della gelosia e
nessun conforto ti può essere dato»18.
Cosa avviene in questo luogo nascosto? Quali
sentimenti suscita l’invidia? Quali sono le reazioni?
Anzitutto si può notare che la scintilla che fa scoc­
care l’invidia è un bisogno patologico di confron­

18 Cipriano di Cartagine, Trattato sulla gelosia e l’invidia IX: «Non


invidiosa la carità», pp. 57-58.
Fra tristezza e ira: Vinvidia I 113

tarsi con l’altro senza accettare se stessi, rimanendo


ossessionati da ciò che l’altro ha. C’è certamente un
confronto che è positivo e da cui scaturisce emu­
lazione e creatività. Ma come germe dell’invidia il
confronto diventa negativo quando impedisce di
vedere e di accettare la propria singolarità, con i
suoi limiti e le sue ricchezze, e reputa ingiustizia il
dono posseduto dall’altro. E il confronto intaccato
dall’invidia fa scattare due reazioni: o ricercare una
superiorità non posseduta o vivere con frustrazione
la propria inferiorità. L’invidioso vive nell’angoscia
e nel tormento di non essere “il più” e, di conse­
guenza, il bene dell’altro diventa un ostacolo per
questa pretesa superiorità: « Insomma, l’invidioso è
un superbo deluso nella sua volontà di eccellenza,
un arrogante frustrato dall’eccesso di gloria altrui,
un orgoglioso che si vuole superiore agli altri e che
si addolora se vede che costoro sono riconosciuti
migliori di lui»19. Ma questa pretesa frustrata non
fa altro che aumentare la sfiducia in se stessi: un
confronto continuo per raggiungere una superiori­
tà che non viene riconosciuta fa sentire l’invidioso

19C. Casagrande - S. Vecchio, op. cit.yp. 42.


114 I Tristezza

sempre inferiore. Così scrive Gregorio Magno: «“E


l’invidia uccide il piccolo”. Non possiamo invidiare
se non quelli che riteniamo migliori di noi. È dun­
que piccolo chi si lascia uccidere dall’invidia, poiché
egli stesso ammette di essere inferiore a colui per il
quale prova invidia»20. Ecco un’ulteriore infelicità
provocata dall’invidia: il bisogno di superiorità si
ritorce in un senso di inferiorità.
Nel bisogno di eccellere e nella frustrazione di
fronte alla superiorità di un altro si vede bene il lega­
me tra orgoglio e invidia. Di per sé c’è una differen­
za tra orgoglio e invidia: l’orgoglio tende ad appari­
re, mentre l’invidia preferisce nascondersi. Eppure,
nota S. Natoli, «l’invidia è sottesa dalla superbia a
tal punto da poter essere intesa come la pena pagata
per essa. In breve, l’invidia altro non è che l’espiazio­
ne della superbia. E ciò spiega perfettamente perché
essa è un vizio senza piacere. Tutto ciò risulta più
chiaro se si tiene conto della definizione che Tom­
maso d’Aquino dà della superbia: la superbia è l’a­
more della propria eccellenza, da cui discende una
smisurata presunzione di superare gli altri. Se dalla

20Gregorio Magno, op. c i t V, 46, 83: tr. it., pp. 470-471.


Fra tristezza e ira: l'invidia I 115

superbia si genera la presunzione di superare gli al­


tri, risulta evidente che qualora si venga superati non
ci si rassegni. In questo non rassegnarsi si consuma
quel tormento che è l’invidia»21.
Fondamentalmente l’invidia è uno dei volti più
pericolosi della philautta: è egocentrismo, perché fa
vedere tutto in funzione di se stessi negando ogni
alterità e trasformandosi in una forma patologica di
possesso. Questo emerge chiaramente in una par­
ticolare forma dell’invidia che è la gelosia. Gelosia
e invidia sono molto simili e sono sentimenti che si
sovrappongono. Ma c’è tra loro una differenza: la
tristezza che nasce dall’invidia ha come oggetto ciò
che l’altro ha, mentre quella che proviene dalla gelo­
sia nasce dalla paura di perdere ciò che si ha. Detto
in altre parole: l’invidioso non ha nulla e guarda a
colui che ha tutto, mentre il geloso possiede e vuole
essere il solo ad approfittare di ciò che possiede. E
in questa prospettiva la gelosia emerge soprattutto
nei rapporti interpersonali. «Invidia come forma di
gelosia? - si domanda P. De Nardis -. La psico­
analisi ha analizzato profondamente la differenza

21 S. Natoli, Invidia. Il tormento dell’impotenza, in «Avvenire», 2 gen­


naio 2011, p. 19 (inserto Agorà, p. 5).
116 I Tristezza

tra i due concetti: e le risposte non sempre sono state


univoche. Ma sembra chiaro che, mentre la gelosia
presuppone un rapporto a tre (si è gelosi e si teme di
perdere qualcuno poiché c’è una terza persona che
tenta lo “scippo”), nell’invidia il rapporto è a due, al
di là di tutte le analogie. Un dato è certo e cioè che
in entrambi i casi c’è un’idea di possesso ossessivo di
qualcuno o qualcosa che va dalla persona amata, per
esempio, fino al successo individuale o sociale»22.
Questa “idea di possesso ossessivo” rende il mecca­
nismo dell’invidia simile a quello dei primi tre pen­
sieri malvagi, in particolare a quello ddl’avarizia:
l’invidia crea un’angustia continua per ciò che non
si ha e che gli altri possiedono. E così, «essendoci
sempre cose di cui si è sprovvisti, l’invidia è poten­
zialmente infinita e cresce esponenzialmente: simile
a un buco nero essa finisce per divorare l’intera esi­
stenza dell’individuo»23.

22 P. De Nardis, op. cit., p. 29. La differenza tra invidia e gelosia è stata


elaborata soprattutto dai moralisti francesi dei secoli XVI e XVII: cfr. P.
Adnes, Jalousie, in Dictionnaire de Spiritualité V ili, Paris 1974, coll. 70-72.
Cfr. anche E. Ranwez, op. cit., coll. 115-116.
23 G. Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali, Edizioni AdP, Roma 2008,
p. 82.
Fra tristezza e ira: l'invidia I 117

Il bisogno di possedere, la frustrazione e l’ira co­


vata che nascono dal confronto innescato dall’in­
vidia generano varie reazioni che sconvolgono il
cuore e la vita di chi è colpito da questa passione.
E certamente uno dei sentimenti più forti è l’odio.
L’altro, allo sguardo dell’invidioso, diventa in-viso,
cioè odiato: non facendo vedere nell’altro nulla di
buono, l’invidia rende l’altro non amabile. Anzi
poiché l’altro è di ostacolo, diventa oggetto di ira,
vendetta, risentimento, oggetto di odio. Descriven­
do le reazioni dei figli di Giacobbe nei confronti
del loro fratello Giuseppe, Gen 37,4.11 dice: «I suoi
fratelli, vedendo che il loro padre amava lui (Giu­
seppe) più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riu­
scivano a parlargli amichevolmente... I suoi fratelli,
perciò, divennero invidiosi». Per Basilio di Cesarea
è proprio l’odio che rende l’invidia un male molto
pericoloso e radicato:

«L’invidia è un tipo di odio molto difficile da trat­


tare. Infatti, le buone azioni rendono estremamente
più miti i nemici, invece il ricevere benefici irrita chi
è invidioso e maligno. Quanto più gli tocca, tanto più
si adira, si addolora e prova disgusto, perché tollera
118 I Tristezza

il potere del benefattore meno di quanto sia ricono­


scente per ciò che gli viene assegnato. Quale fiera non
vincono gli invidiosi per asprezza di modi?..., I cani
quando hanno mangiato diventano mansueti..., gli in­
vidiosi, invece, sono resi più selvatici da qualsiasi tipo
di attenzione»24.

L’odio, d’altra parte, è continuamente alimentato


dal rancore e dal risentimento. Del rancore abbiamo
già parlato. Per quanto riguarda il risentimento, un
avvelenamento del cuore che l’invidioso si procura
(l’invidioso è un masochista), ci pare interessante
questa osservazione della filosofa E. Pulcini: «Esso
insorge quando sappiamo che in linea di principio
potremmo avere accesso ai beni che desideriamo e
che l’altro possiede, ma che non abbiamo di fatto
alcuna chance di conquistarli. E reagiamo, di con­
seguenza, covando dentro di noi un rancore che si
trascina e acuisce nel tempo, finendo per intossicare
l’intera personalità con sentimenti negativi come la
vendetta, la perfidia, la gioia maligna per il male al­
trui... Qualunque ne sia la causa, il germe del risenti­

24 Basilio di Cesarea, Omelia XL. Sull’invidia: «Non è invidiosa la c


rità», pp. 31-32.
Fra tristezza e ira: /’invidia I 119

mento si annida nella nostra incapacità di dare sfogo


ai nostri sentimenti e di tradurli in azione»25.
Alla fine, dobbiamo riconoscere che ciò che muo­
ve l’invidia, consapevolmente o inconsapevolmente,
è un desiderio di morte. E questo emerge non solo
dal fatto che l’invidia procura in tanti modi la morte
dell’invidioso e dell’invidiato, ma anche dal fatto che
questa passione ha in qualche modo un solo piacere:
distruggere e non procurare vita. Facendo riferimento
all’odio generato dall’invidia, Basilio di Cesarea sot­
tolinea questo bisogno di morte proprio nello stato di
contraddizione in cui si viene a trovare l’invidioso:

«Questo l’obiettivo dell’odio, saperlo da felice infe­


lice, da ammirabile miserabile. Allora si avvicina e
diventa amico, quando si accorge che uno piange ed
è afflitto, perché non è contento con chi gioisce, ma

preferisce piangere insieme a chi soffre... Ammira la


ricchezza, ma dopo la rovina. Loda ed esalta la con­
dizione, la forza e il buono stato del corpo, ma nella
malattia. Insomma, è nemico di chi è vivo e amico di
chi è morto»26.

25 E. Pulcini, op. cit., p. 22.


26 Basilio di Cesarea, Omelia XL. Sull’invidia: «Non è invidiosa la ca­
rità.», pp. 27-28.
120 I Tristezza

Davvero l’invidioso «distrugge e impoverisce il


mondo senza riuscire in alcun modo a valorizzare
se stesso»27.

3. Il ritratto dell’invidioso

Gli autori monastici e i Padri, quando parlano


dell’invidia, hanno quasi il bisogno di caratterizza­
re questa passione descrivendone gli effetti psicoso­
matici su colui che ne è vittima. Ne nascono ritratti
a volte grotteschi, a volte caratterizzati da una fine
psicologia. Il volto, gli atteggiamenti corporali, i
sentimenti che si intrecciano nel cuore diventano
così maschere dell’invidia stessa. Conviene allora
soffermarsi brevemente su questo ritratto dell’invi­
dioso presente nei testi monastici e patristici.
Anzitutto il volto dell’invidioso attira l’attenzione.
È un volto completamente immerso nella tristezza,
quasi assente e inespressivo in quanto deve nascon­
dere ciò che prova. «Gli invidiosi - dice Basilio di
Cesarea - si riconoscono per la loro stessa faccia.

27 S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 199


p. 65.
Fra tristezza e ira: Vinvidia I 121

Gli occhi sono secchi e senza luce, il volto è cupo,


il sopracciglio contratto»28. E Gregorio Magno così
descrive il riflesso dell’invidia sul volto: «Il volto
diventa pallido, gli occhi si abbassano, la mente si
riscalda e le membra si raffreddano, i pensieri diven­
tano rabbiosi, i denti stridono»29. Al di là dell’esa­
gerazione di tali descrizioni, la dolente fisiognomica
dell’invidioso riesce a esprimere bene gli effetti del
clima dell’invidia: tristezza, cupezza, minaccia, in­
sensibilità.
Ma è, soprattutto, lo sguardo a concentrare la
passione che rode l’invidioso. Viene alla mente la
risposta data dal padrone della vigna all’operaio che
si lamentava, sentendosi defraudato del dovuto. «Tu
sei invidioso (lett. “hai l’occhio invidioso”) perché io
sono buono?» (Mt 20,15). Così Cipriano descrive lo
sguardo dell’invidioso: «L’espressione dell’invidioso
è minacciosa, lo sguardo torvo. Le sue parole sono
rabbiose, la disapprovazione sfrenata, le mani sem­
pre pronte alla violenza e al danno e, anche se non
stringono al momento nessuna spada, esse sono tut­

28 Basilio di Cesarea, Omelia XL. Sull’invidia: «Non è invidiosa la


carità», p. 37.
29Gregorio Magno, op. cit., V, 46, 85: tr. it., pp. 472-473.
122 I Tristezza

tavia armate dell’odio della mente infuriata»?0. Ma


all’invidioso gli occhi servono anche a eludere e a
nascondere il suo tormento: non avendo il coraggio
di manifestare l’invidia che lo divora, «abbassa gli
occhi, se ne sta abbattuto, confuso, lamentoso, rovi­
nato dal male»?1.
All’inespressività del volto, maschera di un male
tenuto nascosto e che solo a lampi si palesa negli
occhi, fa da contrasto l’agitazione del cuore. E qui i
Padri descrivono con finezza la guerra che avviene
all’interno dell’invidioso: «L’invidioso non conosce
nessuna mensa lieta, nessuna piacevole bevanda -
dice Cipriano -. Sospira sempre, si lamenta ed è
addolorato. Egli non manifesta mai la sua invidia
e il suo cuore ossessionato è lacerato giorno e notte
ininterrottamente»?2. E anche Basilio insiste sugli
inconfessabili sentimenti che il cuore dell’invidio­
so tiene ben nascosti: «Interrogato su cosa abbia,
ha difficoltà ad ammettere pubblicamente il fatto
che lo amareggia l’invidia, che il bene degli amici

30 Cipriano di Cartagine, Trattato sulla gelosia e Vinvidia, V ili: «Non è


invidiosa la carità», p. 56.
31 Basilio di Cesarea, Omelia XL. Sull}invidia: «Non è invidiosa la ca­
rità», p. 26.
32 Cipriano di Cartagine, op. cit., VII: «Non è invidiosa la carità», p. 55.
Fra tristezza e ira: l'invidia I 123

lo irrita, che lo addolora la prosperità del fratello,


che non sopporta la vista della buona condizione
altrui... Così dovrebbe parlare, se volesse dire la ve­
rità. Ma poiché non vuole manifestare niente di ciò,
si tiene dentro il morbo che consuma e corrode le
sue viscere»?3.
Se questo è il ritratto dell’invidioso, allora la sua
vita non sarà altro che tristezza, povertà esistenzia­
le, sofferenza. Chi si lascia catturare dalla passione
dell’invidia, in fondo si autocondanna, poiché l’invi­
dia «si autodistrugge alimentandosi e, coltivandola,
rende sempre più infelici, acidi e incattiviti; essa in
tal modo si estende a macchia d’olio e finisce per
diventare il tutto della vita, assorbendo totalmente
la vista, la mente e il cuore dell’invidioso. L’invidia,
però, ha questo di unico, che non mira ad alcun
bene possibile»?4.
Come comportarsi di fronte all’invidioso? La vi­
gilanza che è richiesta deve mirare, soprattutto, a
non lasciarsi catturare dal suo laccio entrando nel
gioco dell’invidia; è meglio mantenere distanza e si-

33 Basilio di Cesarea, Omelia XL. Sull’invidia: «Non è invidiosa la ca­


rità», p. 26.
34 G. Cucci, op. cit.y p. 96.
124 I Tristezza

lenzio di fronte alle parole dell’invidia. Evagrio dà a


questo riguardo alcuni consigli:

«Tieni nascosto ciò che può essere invidiato in te par­


ticolarmente da chi è invidioso. Quando il tuo amico,
vinto dalle parole positive sul tuo impegno, comincia
a invidiarti in modo tale da scagliare anche davanti
ai vicini frasi che ne sottolineano la vanità, al fine di
oscurare la tua fama che si va diffondendo, facendo
delPironia su di te, tu non essere angustiato, dando
retta alla sua gelosia, per non attirare sulPanima tua
un amaro veleno»?5.

Il veleno delPinvidia è molto pericoloso: guai se


entra nel cuore di chi è invidiato!

4. Si può guarire dall’invidia?

«Chi vuole essere totalmente libero dalla peste


delPinvidia - scrive Gregorio Magno - ami quell ere­
dità che non diminuisce col crescere degli eredi, che
è una sola per tutti e tutt’intera per ciascuno, che si

35Evagrio Pontico, Sulla confessione dei pensieri e consigli di vita 17: tr.
it., pp. 78-79.
Fra tristezza e ira: Vinvidia I 125

rivela tanto più ricca quanto più cresce la moltitudine


dei partecipanti. L’invidia diminuisce quando sorge
l’affetto della dolcezza interiore, e il perfetto amo­
re delPeternità la fa morire del tutto. Infatti, quan­
do l’anima si libera dall’avidità di quello che si deve
spartire tra il numero dei partecipanti, tanto più ama
il prossimo quanto meno teme il proprio danno dal
vantaggio di lui. Se poi è perfettamente rapita verso
l’amore della patria celeste, diventa anche pienamente
solidale nell’amore del prossimo, perché, non deside­
rando nessuna cosa terrena, non c’è più nulla che si
opponga alla sua carità verso il prossimo»?6.

Non ci si può affrancare dalle torture dell’invidia


se non con il balsamo della carità, di quella cari­
tà che è, nella sua struttura più profonda, libera da
ogni forma di invidia (cfr. ICor 13,4). Se l’invidia si
nutre di un possesso ossessivo, se tenta sempre di
distruggere l’altro, se rincorre continuamente una
superiorità che non riesce a raggiungere, la carità
è invece capacità di condivisione, desiderio di cre­
scita dell’altro, consapevolezza umile e serena della
propria realtà, dei propri doni e dei propri limiti.

36Gregorio Magno, op. cit.yV, 46, 86: tr. it., pp. 472-473.
126 I Tristezza

«Combattere l’invidia - scrive G. Cucci - signifi­


ca dunque imparare a guardare la vita da un punto
di vista più ampio e profondo, uscendo da se stes­
si e dal proprio egoismo, imparando a incontrare e
ascoltare gli altri, animati dalla curiosità di cono­
scere il loro mondo e non di distruggerlo»?7. Come
ci ricorda Massimo il Confessore, si vince l’invidia
con la compassione: «Potrai arrestare la tua invidia,
se ti rallegrerai di ciò di cui si rallegra chi è da te
invidiato e se anche tu ti rattristerai di ciò di cui
egli si rattrista, adempiendo la parola dell’Apostolo:
“Gioire con coloro che gioiscono e piangere con co­
loro che piangono”»?8.
E nella relazione con l’altro, questa carità assume
lo stile dell’accoglienza e del rispetto: senza accusare
l’altro, senza allontanarlo perché è diverso, accet­
tando che l’altro sia l’altro, rallegrandosi di ciò che
l’altro è e di ciò che si è. Proprio questo senso di gra­
titudine per se stessi e per l’altro, questa “eucaristia”
che neutralizza ogni philautia, è l’antidono contro
l’invidia: «Ha ucciso il sentimento di invidia in sé

37 G. Cucci, op. cit., p. 106.


38 Massimo il Confessore, op. cit., Ili, 91: Id., Capitoli sulla carità, pp.
188-189.
Fra tristezza e ira: Vinvidia I 127

chi sa dire: “Ciò che ho potuto fare di bene, l’ho


fatto grazie agli altri che sono con me: senza questi
miei fratelli, senza questi miei amati, non avrei potu­
to fare quel poco di bene che ho operato! V 9.
Tuttavia, come ci rammenta Gregorio Magno,
non è possibile entrare in questa via liberante se lo
sguardo non si apre a un orizzonte più ampio, se
il cuore «non è perfettamente rapito verso l’amore
della patria celeste». In altre parole, si è chiamati a
passare dallo sguardo catturato e angusto dell’invi­
dia a quello libero e aperto di chi sa guardare in alto
o, meglio, dall’alto, dal punto di vista di Dio. Allora
ogni cosa acquista il suo valore e ci si rende conto
dell’assurdità di ogni forma di invidia: «Quando si
sono superate col pensiero le questioni umane - dice
Basilio - e tenendo presente il vero e lodevole bene,
ci vorrebbe molto per giudicare felice e invidiabile
qualcuna delle cose corruttibili e terrene. Chi è in
questa condizione e non si fa meraviglia delle cir­
costanze mondane per quanto grandi, è impossibile
che possa essere colto dall’invidia»40.

39 E. Bianchi, Una lotta per la vita, p. 184.


40 Basilio di Cesarea, Omelia XL. Sull’invidia: «Non è invidiosa la ca­
rità», p. 42.
128 I Tristezza

Se questa è la via per essere liberati dall’invidia,


restano tuttavia ben presenti ai Padri e agli autori
monastici le difficoltà di intraprendere tale cammi­
no a chi è vittima di tale passione. L’abbiamo sot­
tolineato a più riprese: l’invidia è un vizio molto
pericoloso, molto subdolo e i suoi lacci hanno una
forza sorprendente perché hanno origine nell’io più
profondo dell’uomo. È una pianta maligna facile da
attecchire, ma difficile da estirpare. Ne è ben con­
vinto Cassiano quando scrive:

«L’invidia è dannosa e più difficile a essere corretta di


tutti gli altri vizi, anche perché essa viene accresciuta
da quegli stessi rimedi che servono a estinguere gli
altri vizi. Occorre persuadersi che il male dell’invidia
giunge alla guarigione più difficilmente che non gli
altri vizi. In effetti, io oso dire che, se uno si lascia una
volta sorprendere dalla peste di quel veleno, rimarrà
senza la possibilità di rimediarvi»41.

Tuttavia, accanto a questo pessimismo di Cas­


siano si può collocare un principio generale che

41 Giovanni Cassiano, Conferenze XVIII, 16: Id., Conferenze ai monac


II, cur. L. Dattrino (= Coll. Testi Patr. 156), Roma 2000, p. 255.
Fra tristezza e ira: Vinvidia I 129

riguarda tutte le passioni che colpiscono l’anima


(principio ricordato altrove dallo stesso Cassiano):
nel momento in cui si ha il coraggio di riconoscere
e dare un nome al male che c’è nel cuore, allora
prende avvio il cammino di guarigione, anche se
dobbiamo ammettere che proprio l’invidia resiste
più di ogni altra passione a questo salutare smasche­
ramento.
Possiamo concludere questo percorso tra le insi­
die dell’invidia, di questo spazio di tristezza e in­
quietudine, con due ritratti dell’uomo liberato da
questo male, ritratti in cui emerge un volto nella
pace, sereno e mite nello sguardo, capace di verità
e armonia nelle relazioni, umile e illuminato dalla
gioia e dalla carità di Cristo:

«La non-invidia (aphthoma) è una guida dell’umiltà,


odio della maldicenza, un’amica del benessere, since­
rità nei rapporti, chiarezza nella manifestazione dei
pensieri, armonia nelle relazioni, gioia verso chi gode
di una buona fama, ribaltamento delle cattive azioni,
supporto di fermezza»42.

42Evagrio Pontico, I vizi opposti alle virtù 9: tr. it., pp. 132-133.
Tristezza

«Chi abbraccia la pace nella casa del suo cuore, in­


fatti, prepara una dimora a Cristo, perché Cristo è la
pace e vuole riposare nella pace. L’invidioso è male­
detto in tutto. Luomo di pace è sempre tranquillo,
l’invidioso è simile a una nave sballottata dalle onde
del mare. L’uomo di pace ha un cuore saldo, l’invidio­
so è sempre turbato... E come la pace illumina i re­
cessi del cuore, così l’invidia acceca le profondità del
cuore... Ogni caligine è messa in fuga dallo splendore
della pace e dove domina l’invidia, là vi è l’oscurità e
le tenebre esteriori»43.

43 Pseudo-Basilio, Ammonizione ad un figlio spirituale 5: Nella tradi­


zione basiliana. Costituzioni ascetiche. Ammonizione ad un figlio spirituale,
cur. L. Cremaschi, Qiqajon, Bose/Magnano 1997, pp. 173-174.
V

Speranza, pentimento, gioia:


una terapia per la tristezza

P
JL er iniziare un cammino di liberazione da qua­
lunque passione, è necessario avere il coraggio di
riconoscere il male che abita nel proprio cuore. E
sotto certi aspetti questo passo iniziale è il più dif­
ficile, soprattutto nei riguardi della tristezza. Tale
vizio sa camuffarsi molto bene, sa trovare giustifica­
zioni, ha molte maschere dietro le quali si nasconde.
«La terapia della tristezza - nota J.-C. Larchet - più
di tutte le altre passioni suppone la coscienza di es­
sere malati e la volontà di guarire. Difatti, non è
raro, come osserva specialmente san Giovanni Cri­
sostomo, che il malato si compiaccia di questo male,
ne tragga il “beneficio secondario” di un certo godi­
mento morboso, e si abbandoni quindi passivamen­
te al suo stato, senza tra l’altro accorgersi che è pre­
da di una passione particolarmente grave per i suoi
132 I Tristezza

effetti nefasti su tutta la vita spirituale»1. La dina­


mica della tristezza favorisce un certo ripiegamento
su se stessi, impedendo alla volontà di reagire. Non
dimentichiamo, come abbiamo più volte sottolinea­
to, che la tristezza favorisce un clima di totale sfidu­
cia, un clima depressivo per cui sembra impossibile
uscire da una determinata situazione negativa. Qui
emerge anche la necessità di accompagnare un pro­
cesso di guarigione mediante una parola di corag­
gio, una parola che sa aprire lo sguardo alla realtà,
una parola spirituale nel senso forte, cioè abitata dal
Paraclito. È questo, ad esempio, il senso dell’esorta­
zione a Stagirio di Giovanni Crisostomo. E altrove,
lo stesso padre sottolinea, mediante un paragone
con la medicina, la necessità di donare consolazione
a chi è nella tristezza:

«Fintanto che questa ferita della tristezza non sarà


chiusa, vi si applicherà il rimedio della consolazione.
Se, infatti, i medici curano le piaghe del corpo fino
a quando ogni dolore sarà cessato, non dobbiamo
agire allo stesso modo riguardo ai mali dell’anima?

1J.-C. Larchet, op. cit.yp. 578.


Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 133

La piaga delle vostre anime è la tristezza e occor­


re versarvi continuamente l’acqua benefica di dolci
parole... I medici hanno bisogno di una spugna, noi
applichiamo il rimedio con le parole: noi non abbia­
mo bisogno di fuoco, come i medici per riscaldare
l’acqua; è la grazia dello Spirito Santo che scalda i
nostri discorsi»2.

Il riconoscimento del proprio male richiede, di


conseguenza, un’azione terapeutica sulle cause. Ma
anche in questo caso bisogna aver l’onestà di iden­
tificare le cause della tristezza, senza facili giustifi­
cazioni. Chiaramente la causa di ogni passione è la
philautta, ma essa, nella passione della tristezza, si
serve dei desideri frustrati e di un’emotività incon­
trollata (l’ira), come abbiamo precedentemente vi­
sto. Di conseguenza, una terapia della tristezza passa
attraverso un’educazione di questi due ambiti umani
e spirituali: saper discernere i desideri, operare una
purificazione da quelli più facilmente attaccabili
dalle passioni e accettare che non ogni desiderio può
essere realizzato. E poi saper gestire le tensioni e non

2 Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue VI, 1. Citato in J.-C. Lar-


chet, op. cit.y p. 582.
Tristezza

lasciarsi travolgere da reazioni passionali, come Tira,


il risentimento, il rancore. Anche nelle relazioni si
devono accettare frustrazioni.
Tuttavia queste terapie sono ancora superficiali,
iniziali, anche se necessarie e insostituibili. Il pro­
cesso di liberazione dalla tristezza deve condurre
a uno spazio in cui lo sguardo del cuore riacquista
una relazione positiva e fiduciosa con la vita, con
il tempo, con i propri limiti, con gli altri, con Dio.
Utilizzando la metafora del buio a cui ci orienta
proprio la passione della tristezza, possiamo dire
che il cammino di guarigione non conduce solo
a una capacità di vedere in questo buio/tristezza,
di imparare a muoversi circondati dalla nebbia. Si
è liberati dalla tristezza quando si cammina nella
luce. E i Padri e gli autori monastici hanno indivi­
duato un itinerario profondo che veramente sradi­
ca ogni tristezza negativa. Potrebbe essere sintetiz­
zato con due parole della Scrittura, un versetto del
salmo 43: «Perché ti rattristi anima mia, perché ti
agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
lui salvezza del mio volto e mio Dio» {Sai 43,5). E
poi un invito di san Paolo: «Siate lieti nella spe­
ranza» (Rm 12,12). Speranza e gioia sono la rispo­
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 135

sta terapeutica con cui si è liberati dalla tirannia


della tristezza. Se la tristezza annebbia talmente
lo sguardo da rendere impossibile ogni visione di
bene, per sé e per gli altri, e da togliere ogni fidu­
cia in ciò che Dio può fare per l’uomo, la speranza
diventa lo sguardo verso una meta possibile (e non
ancora posseduta) e desiderabile; la gioia è il frut­
to di questo sguardo. Tra la speranza e la gioia, gli
autori monastici hanno collocato un passaggio im­
portante in questo cammino di liberazione dalla
tristezza: è ilpénthos, la tristezza secondo Dio, cioè
lo sguardo umile (colmo di speranza e di gioia)
sulle verità del proprio cuore e sulle ferite della
propria vita, come altrettanti spazi aperti alle pos­
sibilità di Dio.
Seguiamo allora questo itinerario di guarigione
che i Padri ci indicano.

1. Lo sguardo della speranza

«Il problema non è definire la speranza - scrive


E. Bianchi - ma viverla. Certo, possiamo dire che
la speranza è “un’attiva lotta contro la disperazio­
136 I Tristezza

ne” (G. Marcel), è “la capacità di un’attività intesa,


ma non ancora spésa” (E. Fromm), ma soprattutto
è ciò che consente all’uomo di camminare sulla
strada della vita: non si può vivere senza sperare!
Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene
l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende
capace di futuro»5. Ritrovare la posizione eretta
di chi spera e cammina guardando in avanti è pro­
prio il segno di una guarigione da quella passio­
ne che rende ripiegati su di sé, la tristezza, e che
chiude lo sguardo alla meta. Proprio in rapporto
al tempo si vede la contrapposizione tra speranza
e tristezza: la tristezza è coscienza di un tempo
chiuso, in cui lo sguardo si volge al passato con
nostalgia e al futuro con paura; la speranza pone
davanti allo sguardo un tempo aperto che sa nu­
trirsi della memoria del passato (senza bloccarsi
in esso) e sa proiettarsi verso il futuro senza an­
goscia. Alla luce di questa prima considerazione,
senza la pretesa di approfondire la virtù teologale
della speranza, vediamo come questa diventa te­
rapia della tristezza.

3E. Bianchi, Le parole della spiritualità, Rizzoli, Milano 1999, p. 163.


Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 137

Anzitutto possiamo dire che la speranza libe­


ra dalla tristezza, se essa ha la qualità deH’eterno,
se essa è rivolta verso ciò che non muore, ciò che
contiene la vita, ciò che è al di là del posseduto.
Ogni speranza che rimane chiusa nell’umanamen-
te prevedibile, nel già conosciuto o programmato,
nel visibile, è destinata a fallire. In fondo, è questo
lo scacco della tristezza: essa proviene da una spe­
ranza non vera e per questo porta alla delusione.
L’occhio della speranza, invece, è orientato a ciò che
non si vede e non si possiede (nemmeno razional­
mente) e che, d’altra parte, è promesso proprio a
chi umilmente spera. Ce lo ricorda l’apostolo Paolo:
«Nella speranza siamo stati salvati. Ora, ciò che si
spera, se visto, non è più oggetto di speranza: infat­
ti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo?
Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo atten­
diamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). Dunque,
per vincere la tristezza (e le sue illusorie speranze)
la nostra speranza deve compiere una conversione,
un salto di qualità. E nei vangeli abbiamo un’icona
di questa conversione: il racconto di Le 24,13-35, i
discepoli di Emmaus. Due discepoli si allontanano
dal luogo della delusione e della sconfitta (Gerusa­
138 I Tristezza

lemme) per ritornare al luogo della loro vita quoti­


diana portando con sé solo tristezza. Uno straniero
si unisce a loro: è Gesù in persona, ma gli occhi di
questi discepoli sono senza luce. Questo straniero
li interroga: ma di fronte alla sua parola, i discepoli
«si fermarono col volto triste» (v. 17). E tale tristez­
za ha una ragione: una speranza delusa; una speran­
za troppo prevedibile e piena di pretese e, alla fine,
fragile, non realizzata; una speranza che attendeva
un volto di Dio troppo scontato: «Noi speravamo
che egli (Gesù) fosse colui che avrebbe liberato
Israele...» (v. 21). Un luogo di morte e un’assenza
infrangono e deludono questa speranza: «...lui non
l’hanno visto» (v. 24). A questi uomini Gesù indica
una speranza che ha un altro sguardo, lo sguardo
della parola di Dio, in cui è già contenuto il percor­
so di una autentica speranza: dalla morte alla vita,
da ciò che è impossibile all’uomo a ciò che è pos­
sibile a Dio, da ciò che l’uomo pretende a ciò che
Dio dona. Questa pagina finale del vangelo di Luca
presenta, dunque, la disillusione e la tristezza che
nascono dalla fine della speranza di due discepoli
e la conversione della loro speranza. Ma, come nota
L. Manicardi, «è intrigante la contemporaneità di
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 139

perdita della speranza e giorno della risurrezione.


Il giorno dell’evento che è alla base della speranza
cristiana diviene per questi due discepoli il giorno
della morte della loro speranza. I due potranno di­
venire testimoni del Risorto a partire dal lutto per
le speranze (riduttive) che nutrivano nei confronti
di Gesù. Questo era il vuoto contenitore dei loro
desideri, la figura su cui proiettavano le loro attese:
non Gesù era la loro speranza, ma erano loro a di­
pingere con i colori delle loro speranze (politiche,
in questo caso) la figura di Gesù»4.
Qui si rivela anche un altro paradosso che dà qua­
lità alla speranza: essa matura proprio nei luoghi ove
umanamente sembra contraddetta, nei luoghi di di­
sperazione. Il paradosso è proprio questo: sperare
contro ogni speranza (cfr. Rm 4,18). La tristezza con­
duce la vita a uno stato di morte, alla disperazione;
la speranza si colloca in una vita disperata e giunta al
limite per aprirla a una possibilità donata. È appun­
to lo sguardo della speranza che il Risorto apre ai
due discepoli: guardare la morte e scoprire che essa
è stata attraversata dalla Vita e dunque vinta. «Nel

4L. Manicardi, op. c i t p. 8.


140 I Tristezza

silenzio del Sabato santo - scrive M.I. Angelini - in


quell’abisso degli Inferi (di cui tanto ci ha rivelato
Silvano del Monte Athos: “Tienti consapevolmen­
te agli inferi e non disperare”), che rappresenta un
tempo insuperabile e decisivo della fede cristiana,
c’è sempre, più viva di tutti i massi, una fessura da
cui passerà la vita, nuova, dall’alto. Un’impossibile
fessura. “Speranza contro speranza”. Speranza che si
àncora solo nella fedeltà del Dio vivente. Importante
è avvistarla, anche e proprio nell’ora della desola­
zione. È uno sguardo che gli evangeli appropriano
per lo più alle donne: esse vanno al sepolcro piene
di presagi; nell’attesa malinconica i discepoli orfani
aspettano chiusi nel cenacolo o in fuga da Gerusa­
lemme. Quella degli Undici uomini è un’attesa vuo­
ta di anticipi: “Noi speravamo”»?.
Convertire le proprie speranze e sperare contro
ogni speranza, per il credente, è possibile solo in una
dimensione di fede: è possibile sperare perché Dio è
fedele. Ed è interessante notare che questo rapporto
tra speranza e fede è, di fatto, la terapia che Giovan­
ni Crisostomo consiglia al monaco sconsolato e de-

5 M.I. Angelini, Prendere bene tutte le cose. Lora della speranza cristi
na, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp. 52-53.
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 141

presso, Stagirio. I vari esempi biblici richiamati dal


Crisostomo (Mosè, Giuseppe, Abramo) mettono in
luce questa dimensione: nelle prove essi sono «rima­
sti fermi» di fronte al Dio fedele. Riassumendo la
visione di Crisostomo, L. Coco così scrive nella sua
introduzione al trattato A Stagirio-. «Non ci sareb­
be storia se noi già conoscessimo le determinazioni
di Dio. Bisogna accettare la scommessa e scegliere,
come fece Noè quando costruì l’arca; partire, come
fece Abramo dalla terra dei Caldei... Essi sono la
prova di questo abbandonarsi senza cercare con­
ferme, assicurazioni e rassicurazioni, di questo farsi
lavorare dalla provvidenza di Dio. A una tale fede
piena di abbandono che ogni uomo deve attribuire a
Dio sembra richiamare Giovanni Crisostomo quan­
do ribadisce la certezza che “proprio questo è in spe­
ciale modo un effetto della potenza di Dio: trovare
un passaggio là dove la via è impraticabile”. Meuporìa
di Dio contro l’aporia del dubbio, dell’abbattimento,
dello scetticismo, delle parole dello stolto che dice:
“Dio non c’è”. La fede è fondamento delle cose che
si sperano»6.

6 Giovanni Crisostomo, A Stagirio tormentato da un demone, cur. L.


Coco (= Testi Patristici 163), Città Nuova, Roma 2002, pp. 31-32.
Tristezza

Infine, lo sguardo della speranza purifica roc­


chio annebbiato dalla tristezza, quando si fissa su
un tratto essenziale della fedeltà e del volto stesso
di Dio: la misericordia. La tristezza distrugge la
vita secondo lo Spirito perché, trascinandoci nella
disperazione, allontana dallo sguardo questo trat­
to del volto di Dio. La vita secondo lo Spirito, non
dobbiamo dimenticarlo, cammina sempre tra spe­
ranza e misericordia. Anzi potremmo dire: la vita
secondo lo Spirito cammina nella speranza della
misericordia:

«In tutte le strade che gli uomini percorrono in que­


sto mondo - dice Isacco il Siro - essi non trovano la
pace finché non si avvicinano alla speranza in Dio. Il
cuore non trova pace dalle vessazioni e dalle offese
finché non si avvicina a questo luogo; questa speranza
dà alPuomo la pace e infonde la gioia nel suo cuore.
Questo è ciò che ha detto quella bocca adorabile pie­
na di santità: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati
e oppressi e io vi darò riposo”. Dice: “Avvicinatevi alla
speranza che è in me e allontanatevi dalle molte stra­
de, e voi troverete riposo dalle fatiche e dal timore”.
La speranza in Dio innalza il cuore, mentre la paura
della geenna lo spezza. La luce del pensiero genera la
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 143

fede, la fede genera la consolazione della speranza e la


speranza fortifica il cuore»7.

A questo riguardo, è significativo che san Bene­


detto, nel suo lungo elenco degli strumenti dell’arte
spirituale al capitolo 4 della sua Regola, collochi a
metà e alla fine questo richiamo alla speranza e alla
misericordia8. Infatti, come il primo “strumento”
dell’arte dello Spirito orienta tutta la vita all’amore
di Dio («amarlo con tutte le forze, con tutta l’anima,
con tutto il cuore»), così la speranza nella misericor­
dia di Dio diventa la forza quotidiana che permette
di vivere questo amore al di là e dentro le tentazioni
e le prove (compresa quella della tristezza): «Ripor­
re in Dio tutta la propria speranza... e della mise­
ricordia di Dio mai disperare», cioè non dubitare
mai dell’amore che Dio ha per noi, vivere in quella
certezza che Dio non cessa neppure per un istante di
amarci (anche quando non sappiamo amarlo e non
sappiamo amarci).
Per quanto grande possa essere la realtà di pecca­
to di cui l’uomo fa esperienza, molto più grande, al

7 Isacco di Ninive, op. cit., pp. 149-150.


8Regola di san Benedetto 4,41-74.
144 I Tristezza

di là di ogni attesa, di ogni speranza che possiamo


concepire, è la misericordia di Dio: «Come il cielo
è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia
su quanti lo temono; come dista l’oriente dall’oc­
cidente, così allontana da noi le nostre colpe» [Sai
103,11-12). Alla luce di questo versetto si potrebbe
dire che, oltre a quello spazio che l’occhio umano
non riesce a raggiungere, c’è un luogo infinito in cui
non c’è posto per la disperazione: è lo spazio della
misericordia di Dio.
La speranza nella misericordia di Dio dà al nostro
sguardo interiore una dimensione di luminosità, di
apertura, di profonda e costruttiva fiducia. Davvero
contrasta e guarisce da ogni forma di tristezza. Per­
mette di guardare in avanti: non ci si ripiega su quel­
lo che non si riesce a fare o non si è saputo compiere
(sui desideri frustrati che generano tristezza), non ci
si lamenta di quello che non siamo, accusando Dio
o gli altri dei nostri limiti, delle nostre imperfezioni;
ma si scopre e si realizza quello che Dio vuole per
noi, a partire dalla nostra realtà concreta, incarnata,
così come siamo, nella verità e nella speranza che
solo Lui può compierlo. E chi vive nella speranza
della misericordia di Dio guarda anche con oc-
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 145

chio diverso gli altri. Non si lascia più prendere da


quell’ira che getta amarezza nel cuore. Ce lo ricorda
ancora Isacco il Siro parlando dell’uomo che non sa
offrire speranza agli altri e li giudica:

«O uomo, non giudicare le azioni di tutti gli uomini


dalla tua propria situazione, e non pesare la loro con­
dotta con la bilancia della tua debolezza. Se desideri,
inizia con la speranza, e sarai aiutato. Non essere in­
credulo per non essere abbandonato anche da colui
che in te semina queste cose»9.

2. La tristezza secondo Dio

Proprio la speranza nella misericordia e nel per­


dono di Dio ha la forza di operare una straordina­
ria conversione della tristezza mediante la tristezza
stessa. È questo il paradosso che emerge da quella
distinzione di due tipi di tristezza, quella secondo il
mondo e quella secondo Dio, presente nei testi pa­
tristici e monastici e di cui già abbiamo parlato. A
noi può sembrare strano cacciare una tristezza con

9Isacco di Ninive, op. cit., pp. 152-153.


146 I Tristezza

un’altra tristezza, poiché il contrario della tristezza


è la gioia. Ma qui sta il percorso di guarigione pro­
posto dai Padri: passare da una tristezza che genera
morte a una tristezza che genera vita e apre la vita
alla gioia. Questo cammino, doloroso e liberante
nello stesso tempo, ha un nome: pénthos. Tale ter­
mine greco esprime il lutto, l’afflizione, la tristezza
che nasce dall’aver offeso o contristato qualcuno che
si ama, la tristezza nella salvezza perduta. Bisogna
subito chiarire, a scanso di equivoci, che questo at­
teggiamento non ha nulla di autopunitivo, non è ma­
sochismo spirituale: non è un ripiegamento morbo­
so sullo stato del proprio peccato e tanto meno una
memoria peccati senza speranza. Il pénthos è un cam­
mino di purificazione e liberazione da ogni forma
di tristezza senza vita attraverso l’accoglienza della
propria vulnerabilità davanti a Dio (lasciarsi ferire il
cuore, la compunctio cordis, la katànyxis). Commen­
tando il tema del pénthos e delle lacrime in Giovanni
Climaco, lo studioso J. Chryssavghis dice: «Questa
vulnerabilità è la sola via verso la santità. Più profon­
da è la nostra personale miseria, più abbondante è la
sua (di Dio) eterna ricompensa. Più profondo è l’a­
bisso dell’umana corruzione, più grande è la grazia
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 147

della compassione celeste. Più coinvolgente è il no­


stro abbandonarci alla via della croce, più intensa è
la nostra esperienza della luce della risurrezione»10.
Dunque, questo cammino permette di trasformare
le ferite del peccato in feritoie attraverso cui passa
la grazia, la consolazione dello Spirito, la misericor­
dia, lasciando scorrere quelle lacrime che purificano
e generano gioia. Così l’abba Iperechio definisce il
pénthos\ «Il monaco si affatica vegliando di giorno
e di notte, perseverando nelle orazióni. Pungendo il
suo cuore, ne fa uscire lacrime e attira più in fretta la
misericordia di Dio»11.
Inoltre, gli autori monastici ci ricordano un’altra
dimensione del pénthos, ed è quella che lo lega alla
dinamica pasquale: se la tristezza secondo il mondo
conduce la vita alla morte, il pentimento fa passa­
re dalla morte alla vita. Ancora J. Chryssavghis ci
fa comprendere questo aspetto: «Pentimento non è
un atto di autorigenerazione o una condizione. È un

10J. Chryssavghis, Una spiritualità dell’imperfezione. La via delle lacri­


me in Giovanni Climaco, in Giovanni Climaco e il Sinai. Atti del IX Con­
vegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa/sezione bizantina.
Bose, 16-18 settembre 2001, cur. S. Chialà - L. Cremaschi, Qiqajon, Bose/
Magnano 2002, p. 192.
11 Serie Sistematica III, 17:1 padri del deserto, Detti, cur. L. Mortari,
Roma 1980, p. 65.
148 I Tristezza

passaggio - una pàscha - dalla morte alla vita e un


continuo rinnovamento di quella vita. Consiste in
un mutamento di quello che era divenuto il model­
lo normale di sviluppo, il movimento dalla vita alla
morte. È una nuova vita o una “risurrezione” che
segna la nostra presenza davanti a Dio e la presenza
di Dio nella nostra vita: “Il pentimento è figlio della
speranza e rinnegamento della disperazione... È ri­
conciliazione con il Signore... e un contratto con Dio
per una seconda vita”»12.
11 tema del pénthos, nella tradizione monastica,
è molto vasto e presenta molte angolature. Noi ci
fermeremo solo su alcuni aspetti in relazione alla
passione della tristezza; per un approfondimen­
to sul pénthos, rimandiamo all’ampio studio di
I. Hausherr13.
Due definizioni di pénthos che Giovanni Cli-
maco ci offre, nel VII gradino della sua Scala, ci
presentano in sintesi questo aspetto del cammino
spirituale. Introducendo questo capitolo dedicato

12J. Chryssavghis, op. cit.yp. 177. Il testo citato è di Giovanni Climaco,


op. cit.yV, 2: tr. it., p. 165.
13 I. Hausherr, Pénthos. La doctrine de la compunction dans VOrient
chrétien (= Orientalia Christiana Analecta 132), Pontificio Istituto Orien­
tale, Roma 1944.
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 149

al pénthos, e che significativamente intitola “Sull’af­


flizione che è fonte di gioia (Peri tou charopoioù
pénthos), Climaco dice:

«L’afflizione secondo Dio è una tristezza dell’anima,


ovvero quella certa disposizione in cui si trova un
cuore immerso nel dolore, che cerca sempre smanio­
samente l’oggetto della sua sete e, non potendolo rag­
giungere, lo insegue affannosamente, e dietro ad esso
emette strazianti grida di dolore.
Oppure in altre parole: l’afflizione è un pungiglione
dorato dell’anima, spoglio di qualsiasi attaccamento
o legame, che viene conficcato in essa dalla santa tri­
stezza, per sorvegliare il cuore»14.

Abbiamo in questo testo di Climaco gli elementi


essenziali che caratterizzano l’esperienza del pénthos.
Anzitutto il termine stesso richiama un tratto
fondamentale che dà al pénthos un orientamento
ben preciso. Esso non è solo pentimento, conver­
sione, ma è sofferenza e dolore. Difatti, la parola
pénthos ha la stessa radice del termine pàthos, ter­
mine che indica nello stesso tempo sofferenza e

14Giovanni Climaco, op. cit., VII, 1-2: tr. it., p. 193.


150 I Tristezza

passione. Il pénthos è una sofferenza che genera


ricerca appassionata per ciò che si ama, ciò che si
possedeva ed è stato perduto. Chiaramente non
è un dolore qualsiasi perché ciò che si cerca è la
salvezza perduta con il peccato o, meglio, quella
salvezza che nasce dall’incontro con l’amore di
Dio. È la sofferenza «per l’assenza di Dio, un’ine­
stinguibile sete della presenza di Dio. Uno si af­
fligge per il proprio estraniamento da Dio e i suoi
occhi diventano “una fonte di lacrime”... Teodo-
reto di Ciro conclude: «E una passione (pàthos)
per Dio che dà origine alle lacrime {pénthos)»13.
Proprio questo legame tra dolore e passione ci
fa comprendere come il pénthos sia la risposta
a quella situazione senza vie d’uscita, senza ten­
sione generata dalla frustrazione della tristezza.
Questo dolore/passione che ridà slancio alla vita
è espresso anche nelPimmagine del «pungiglio­
ne dorato dell’anima... conficcato in essa dalla
santa tristezza». La ferita che provoca il pénthos
(la compunctio cordis o, in greco, katànyxis) è, in­
sieme, «dolorosa e stimolante. Si ha un’improv­

15J. Chryssavghis, op. cit., p. 178.


Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 151

visa sensazione dolorosa e, al tempo stesso, si


è spronati ad avanzare lungo un sentiero che si
apre dinanzi: questa è la via delle lacrime... La
compunzione, perciò, non implica semplicemente
rimorso o rimpianto, ma anche un incitamento,
una spinta verso la perfezione»16.
Ciò che provoca questo dolore che accende il
desiderio è una nostalgia e una tristezza per il
bene dell’amicizia di Dio che si è perduto. Ecco
altri due aspetti del pénthos: nostalgia e tristezza.
La nostalgia non è un semplice ricordo: è la consa­
pevolezza che ciò che ha fatto parte della propria
vita e che sembra relegato al passato (luoghi, rela­
zioni, esperienze) è ancora essenziale per vivere e
sperare. E nel nostro caso, la nostalgia è quella che
fa desiderare Dio stesso. Silvano del Monte Athos,
nel suo cantico dedicato al pianto di Adamo, de­
scrive con immagini poetiche questo dolore velato
di nostalgia:

«Adamo, padre dell’umanità, in paradiso conobbe


la dolcezza dell’amore di Dio; così, dopo essere stato
cacciato dal paradiso a causa del suo peccato e avere

16Ibid., pp. 172-173.


152 I Tristezza

perso l’amore di Dio, soffriva amaramente e levava


profondi gemiti. Il deserto intero riecheggiava dei
suoi singhiozzi. La sua anima era tormentata da un
unico pensiero: “Ho amareggiato il Dio che amo”.
Non l’Eden, non la sua bellezza rimpiangeva, ma la
perdita dell’amore di Dio che a ogni istante attrae in­
saziabilmente l’anima a Dio. Così ogni anima, che ha
conosciuto Dio nello Spirito Santo e ha poi smarrito la
grazia, prova lo stesso dolore di Adamo»17.

La tristezza che provoca il pénthos è chiara­


mente quella secondo Dio e che Climaco chiama
la “santa tristezza”. Non insistiamo oltre sulla dif­
ferenza tra questa tristezza generatrice di vita e la
passione mortale che corrode il cuore e lo avvele­
na. Notiamo soltanto che, generalmente, gli auto­
ri monastici presentano anche uno sguardo posi­
tivo sulle situazioni che provocano tristezza e non
solamente in relazione all’esperienza del pénthos.
Parlando a Stagirio, Giovanni Crisostomo non
teme di mettere davanti agli occhi del suo mona­
co depresso anche la possibilità di trarre profitto

17 Silvano dell’Athos, Non disperare! Scritti inediti e vita, Qiqajon


Bose/Magnano 1994, p. 65.
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 153

dalla tristezza che sta vivendo. E dice: «Dio ha


voluto inserire la depressione nella natura umana
non perché con leggerezza e inopportunamente
ricorriamo ad essa nelle circostanze contrarie e
neppure per consumare noi stessi, ma per trarre
da essa il massimo profitto. Come guadagnarci?
Se sappiamo prenderla nel modo giusto. Dobbia­
mo essere depressi non quando patiamo qualco­
sa di avverso, ma quando operiamo male»18. È,
dunque, necessario scoprire la pedagogia di Dio
alFinterno di una situazione che genera tristezza.
Questo aspetto viene sottolineato da Diadoco di
Fotice (che parla di “desolazione educativa”)19 e
da Gregorio Magno. Quest’ultimo traccia un vero
e proprio itinerario di maturazione spirituale da
scoprire all’interno della tristezza. Alla fine di
una lunga descrizione che focalizza tre tappe del
cammino umano e spirituale (la conversione, la
tentazione e la morte), Gregorio riassume così
questa pedagogia di Dio che sa alternare tristezza
e gioia:

18 Giovanni Crisostomo, A Stagirio 14: tr. it., p. 165.


19Cfr. Diadoco, Cento considerazioni sulla fede, cur. V. Messana (= Col­
lana Testi Patristici 13), Città Nuova, Roma 1973, pp. 96-98.
154 I Tristezza

«Dopo la prima fase della tristezza e della letizia che


ciascuno conosce nell’impegno di conversione, viene
questa seconda fase: affinché non cada nella rilassa­
tezza per la negligenza che può nascere dalla sicurez­
za, subisce l’assalto della tentazione. È vero che spesso
all’inizio della conversione egli viene colmato dalla
dolcezza della consolazione, ma poi sperimenta la
dura fatica della prova»20.

Dunque, solo chi sa perseverare nella prova e sco­


prire come questa custodisce una sapienza spirituale,
allora passerà da una tristezza che uccide l’anima alla
“tristezza gioiosa” che è il pénthos e che ridà all’ani­
ma il gusto dello Spirito. Ed è opportuno ricordare
che la tradizione liturgica bizantina ha espresso stu­
pendamente questo cammino di conversione in un
inno che può essere, a ragione, considerato il cantico
della “gioiosa tristezza”. Si tratta del Canone peni­
tenziale attribuito a sant’Andrea di Creta (t 740) e
ancora oggi cantato nel periodo quaresimale nella
liturgia della Chiesa ortodossa21. Nel suo contenuto,

20 Gregorio Magno, op. cit., V, XXIV, 11,27. Id., Commento morale a


GiobbeZi, cur. P. Siniscalco - E. Gandolfo (= Opere di Gregorio Magno
1/3), Città Nuova, Roma 1997, pp. 364-365.
21 II Canone è una particolare composizione innografica della tradi-
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 155

il Canone si presenta come un progressivo cammino


di liberazione dal peccato attraverso l’esperienza del
pénthos, cammino nutrito e modellato dalla Scrittura.
Come sottolinea A. Schmemann, «scopo del Grande
Canone è proprio quello di rivelarci il peccato e di
condurci al pentimento; ed esso lo svolge non attra­
verso definizioni ed enumerazioni, bensì attraverso
una profonda meditazione sulla grande storia biblica,
che è, infatti, la storia del peccato, del pentimento e
del perdono. Questa meditazione ci introduce in un
mondo spirituale diverso, ci confronta con una vi­
sione totalmente differente dell uomo, della sua vita,
delle sue mete e delle sue motivazioni. Essa ristabili­
sce in noi il quadro spirituale fondamentale, all’inter­
no del quale ridiventa possibile il pentimento»22. In
un’introduzione di O. Clément al testo del Canone,
pubblicata significativamente col titolo 11 canto del-

zione liturgica bizantina che si struttura a partire da nove odi tratte dalla
Scrittura. Andrea, nativo di Damasco e vescovo di Gortina nell’isola di
Creta, è uno dei grandi compositori poetico-liturgici della Chiesa bizanti­
na. Il Canone penitenziale o Grande Canone viene celebrato tutto di segui­
to, nelle chiese ortodosse, il giovedì della quinta settimana di Quaresima,
alPufficio di Compieta. Suddiviso in quattro parti, viene poi letto dal lu­
nedì al giovedì della prima settimana di Quaresima.
22 A. Schmemann, La Grande Quaresima. Ascesi e liturgia nella Chiesa
Ortodossa, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 70.
156 I Tristezza

le lacrime, il teologo ortodosso rilegge il contenuto


di questa composizione poetica proprio alla luce del
cammino progressivo a cui apre il pénthos. Il Canone
inizia con queste parole: «Su quale gesto della mia
vista darò inizio al pianto? Quali note scriverò a pre­
ludio di questo mio lamento? Nella tua misericordia,
o Cristo, dei miei peccati dammi il perdono»23. La
presa di coscienza del proprio peccato, la quale ri­
sveglia il timore di Dio, è l’inizio di questo itinerario.
E ogni tappa è caratterizzata da una progressione e
da un’apertura sempre più luminosa e liberante alla
misericordia di Dio in Cristo e nutrita da un inces­
sante pénthos. E le varie tappe di questo cammino
sono altrettanti temi che caratterizzano il pénthos:
la nostalgia del Paradiso perduto; la consapevolezza
del peccato e delle passioni che abitano il cuore; la
scoperta della potenza liberatrice della risurrezione
di Cristo (della sua discesa agli Inferi); la fiducia, l’u­
miltà e l’impegno ascetico che provengono da questa
scoperta; e infine le lacrime, segno limpido che testi­
monia il passaggio dalla memoria del proprio peccato
alla memoria del perdono di Dio. Come scrive altro­

23 Grande Canone, prima ode: O. Clément, Il canto delle lacrime. Saggi


sul pentimento, Ancora, Milano 1983, p. 113.
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 157

ve O. Clément, «all’esperienza dell’umiltà e del ricor­


do della morte è connesso il “dono delle lacrime”. Il
cuore si spezza e trasalisce nello Spirito, nella gioia
immensa, gioia “dolorosa”, perché inseparabile dal­
la croce, ed è segno che tutta la forza della passione
umana, crocifissa e risorta, si condensa, si rappacifi­
ca, si trasfigura in una specie di tenerezza ontologica.
Quando il cuore di pietra diventa così cuore di car­
ne in uno strappo e in uno stupore di tutto l’essere,
succede che alcune lacrime scendano discretamente,
dolcemente, senza contrazione del volto. “Emozio­
ne” del cuore che ciascun uomo conosce a momenti,
nell’esperienza della compassione, dell’amore o della
bellezza, ma che qui si stabilizza»24.

3. Le lacrime che generano gioia

Segno e frutto dell’efficacia del pénthos sono le


lacrime. E l’insistenza degli autori monastici su
questa particolare e misteriosa esperienza è una
delle espressioni più caratteristiche di questo cam­

24 O. Clément, Alle fonti con i Padri. Mistici cristiani delle origini. Testi
e commento, Città Nuova, Roma 1987, p. 159.
158 I Tristezza

mino di liberazione dalla passione della tristezza.


Però ,dobbiamo anche subito riconoscere che tale
esperienza può creare un certo disagio all’uomo
d’oggi. Come è possibile esprimere la liberazio­
ne dalla tristezza attraverso una delle immagini
più immediate che richiamano la sofferenza e lo
sconforto? E non c’è il rischio di collocare tutto
quanto si è detto a un livello sentimentale ed emo­
tivo? Certamente questa ambiguità è possibile.
Ma l’esperienza delle lacrime di cui si parla qui è
comprensibile solo a partire da quanto abbiamo
detto prima. Sono lacrime che condividono la stes­
sa qualità del pénthos, e cioè lacrime “che gene­
rano gioia”. Inoltre, non sono un’emotiva reazione
di fronte a un evento che suscita alcune risonanze
interiori; sono il frutto di un doloroso processo di
verità su se stessi e di umiltà, fatto di ferite che
si aprono ad accogliere il dono della misericordia
di Dio. Sono lacrime simili a quelle versate dalla
peccatrice sui piedi di Gesù ed esprimono il rico­
noscimento della propria povertà e del bisogno di
salvezza (Le 7,36-50). Sono lacrime che hanno una
sola fonte, l’amore: «Sono perdonati i suoi molti
peccati, perché molto ha amato» (v. 47). Cerchia­
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 159

mo allora di sottolineare qualche aspetto di questo


paradossale luogo di gioia.
Come sottofondo di questa esperienza spirituale,
rimane sempre nei testi monastici la parola di Gesù:
«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno
consolati» (Mt 5,5). C’è una beatitudine (e quindi
un dono) nelle lacrime, c’è una consolazione già in
esse custodita; si tratta solo di scoprirla per grazia. E
gli autori monastici, a partire dalla loro esperienza,
sono entrati in questo luogo di beatitudine e ce ne
hanno rivelato alcuni tratti.
Anzitutto questa esperienza è un dono a cui ac­
cede solo un cuore ferito e capace di accogliere la
tenerezza di Dio. Le lacrime del pénthos non sono in
potere della nostra volontà. Ce lo ricorda Cassiano
riportando l’esperienza di un anziano:

«Frequentemente, infatti, apparse le lacrime al ricor­


do delle mie colpe, fui ricolmato da tale ineffabile
gioia per la visita del Signore, che la grandezza di
quella letizia mi suggerì di non dover disperare del
perdono. Io ritengo che non vi sarebbe nulla di più
sublime di quello stato, se il suo ricupero dipendes­
se dall’arbitrio umano. E così io, quanto godo della
profusione delle lacrime concessa da Dio, altrettanto
160 I Tristezza

provo dolore, allorché io, pur desiderandolo, non ri­


esco a trovarla»25.

All’uomo non resta altro che preparare il terreno


del suo cuore per ottenere questo misterioso dono di
liberazione e invocarlo. Nell’antico Messale romano
era conservata questa preghiera, forse di origine ca­
rolingia (sec. Vili):

«Signore, onnipotente e misericordioso, hai fatto


scaturire dalla roccia la sorgente di acqua viva per
il tuo popolo assetato: fa’ scaturire, ti preghiamo,
dalla durezza del nostro cuore le lacrime della com­
punzione. Potremo allora piangere i nostri peccati
e meritare di ricevere dalla tua misericordia la loro
remissione»26.

D’altra parte, proprio nella preghiera le lacrime


diventano il segno dell’intensità del dialogo con
Dio, dialogo fatto, appunto, di passione, di soffe­
renza, di desiderio,... di lacrime. «Come simbolo di
purificazione - scrive J. Chryssavghis - le lacrime

25 Giovanni Cassiano, Conferenze, I, IX, 28: Conferenze ai monaci, I,


p. 379.
26 Traduzione citata in Clément, Il canto delle lacrime, p. 26.
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 161

ripuliscono i nostri occhi perché vedano, ma anche


perché siano visti da Dio in preghiera. La ricerca di
Dio nella preghiera avviene proprio attraverso l’af­
flizione. La preghiera è contemporaneamente la cau­
sa e la conseguenza delle lacrime, o - come Climaco
afferma - “la madre e anche la figlia delle lacrime”.
La preghiera “contiene” le nostre lacrime e le la­
crime costituiscono il compimento più pieno della
preghiera. “Nella vera preghiera - secondo Antonio
l’Egiziano - ci si dimentica che si sta pregando”, e
le lacrime ci rendono capaci proprio di dimenticare
noi stessi in un desiderio orante di Dio»27.
Tuttavia, per gli autori monastici, c’è una progres­
sione in questa esperienza e non tutte le lacrime ver­
sate nella preghiera hanno una medesima origine.
In un testo di Giovanni il Solitario sono descritti tre
tipi di lacrime a partire dalla classica distinzione tra
l’uomo carnale, l’uomo psichico e l’uomo spiritua­
le. Per l’uomo carnale i motivi delle lacrime sono le
preoccupazioni di questo mondo; nell’uomo psichi­
co, le lacrime nascono dalla paura del castigo, dalla
coscienza del peccato, dalla meditazione della mor-

27J. Chryssavghis, op. cit., p. 184.


162 I Tristezza

te; le lacrime delluomo spirituale nascono invece da


questi pensieri:

«L’ammirazione della maestà di Dio, lo stupore da­


vanti alla profondità della sua saggezza, la gloria del
mondo futuro, la perdizione degli uomini e altre
cose simili. Dal persistere di questi sentimenti sgor­
gano le lacrime davanti a Dio. D’altronde, queste
lacrime non vengono da una emozione di tristezza,
ma da una gioia intensa. Questi pianti nascono dalla
gioia, come capita a molte persone, le quali, riveden­
do i loro amici dopo una lunga assenza, piangono di
gioia alla loro vista...»28.

Si può, dunque, dire che anche le lacrime parte­


cipano della stessa dinamica del pénthos: esse sono
chiamate a passare dalla consapevolezza del proprio
peccato e dal timore di Dio alla coscienza del perdo­
no e alPamore. Solo così conducono alla gioia. Così
scrive Isacco il Siro:

«Tra le lacrime ve ne sono alcune che bruciano e


altre che ungono. Infatti, tutte le lacrime che scen­

28Jean le Solitaire, op. cit.ypp. 40-41.


Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 163

dono dalla compunzione o dall’angoscia del cuore a


motivo dei peccati disseccano il corpo e lo brucia­
no... È in primo luogo in questo ordine che l’uomo
incontra le lacrime; e da queste gli è aperta la porta
per il secondo ordine, che è molto più prezioso del
primo perché è segno che egli ha ricevuto miseri­
cordia. Qual è questo? Quando le lacrime fluiscono
dalFintelligenza ungendo il corpo e scendono da
se stesse, non coatte... Esse si effondono su tutta la
persona, nella quiete deU’intelligenza, e il corpo ne
riceve una sorta di nutrimento e sulla persona si im­
prime la gioia»29.

Infine, il paragone tra le lacrime e il battesimo of­


fre una profonda dimensione cristologica a questa
esperienza. Le lacrime sono come una possibilità
sempre rinnovata di ricuperare la conformazione
battesimale a Cristo perduta con il peccato. Esse al­
lora acquistano una forza “sacramentale”, senza pe­
raltro sostituire la grazia del battesimo. Certamen­
te Climaco, paragonando lacrime e battesimo, usa
espressioni forti:

29Isacco di Ninive, op. cit., pp. 136-137.


164 I Tristezza

«Più grande del battesimo è la fonte delle lacrime che


sgorga dopo il battesimo, per quanto l’affermazione
possa essere un po’ ardita. Il battesimo, infatti, ci pu­
rifica dai peccati commessi prima, ma questa fonte da
quelli commessi in seguito... E se Dio, nel suo grande
amore per gli uomini, non avesse concesso loro que­
sta grazia, quelli che si salvano sarebbero veramente
pochi e difficili da trovare»?0.

Non c’è in Climaco una svalutazione o sostitu­


zione del battesimo; il suo linguaggio, d’altron­
de, è spirituale e non teologico. «Il potere delle
lacrime è quello di ringiovanire, dare continuità
alla funzione purificatrice del battesimo... Il bat­
tesimo delle lacrime illumina - non elimina - il
battesimo d’acqua e di Spirito»31. Come rinnovata
illuminazione dello Spirito donato nel battesimo,
le lacrime diventano, secondo una felice espres­
sione di Simeone il Nuovo Teologo, un «sigillo
di Cristo»: «Dov’è abbondanza di lacrime unita
a conoscenza vera, là è pure il risplendere della
luce divina; dove splendore di luce, là profusione

30 Giovanni Climaco, op. c i t VII, 8: tr. it., p. 194.


31J. Chryssavghis, op. cit., p. 183.
Speranza, pentimento, gioia: una terapia per la tristezza I 165

di ogni bene e, impresso nel cuore, il sigillo dello


Spirito Santo...»32.
Davvero questo cammino indicato dagli antichi
monaci, pur paradossale che possa sembrare a co­
loro che rischiano sempre di valutare tutto con i pa­
radigmi dell’ovvio e dello scontato, ci apre una pro­
spettiva infinita perché liberante. È vero, capovolge i
nostri schemi, ma ci introduce nella logica della vita
secondo lo Spirito, la logica di Cristo. E se teniamo
ben presenti le dinamiche della tristezza, dobbiamo
riconoscere che la via del pénthos e delle lacrime ha
veramente la forza di smascherare gli inganni di que­
sta passione: la tristezza chiude ogni possibilità di
vita, getta nello sconforto, non permette di accettare
i propri limiti, si nutre di frustrazioni e collera, gene­
ra sfiducia e disperazione; il pénthos, facendo inizia­
re il cammino dell’uomo dalla propria vulnerabilità
accolta con umiltà, trasforma questa in porta aperta
alla misericordia di Dio, la sola che può far sperare
un futuro di novità. Attraverso questa tristezza che
genera gioia «abbandoniamo le nostre immagini in­

32 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 2, Le Catechesi, cur. U. Neri


(= Fonti cristiane per il Terzo Millennio 12), Città Nuova, Roma 1995, pp.
115-116. L’espressione «sigillo di Cristo» è usata da Simeone poco prima
(cfr. ibid., p. 115).
166 I Tristezza

fantili di Dio e ci arrendiamo all’immagine vivente


di Dio... Quando ammettiamo la nostra mancanza
di speranza e la nostra disperazione e riconosciamo
che abbiamo toccato il fondo nelle nostre relazioni
con gli altri e con Dio, allora scopriamo anche la
compassione di un Dio che volontariamente ha as­
sunto la vulnerabilità della crocifissione»?3. Da qui
nasce la gioia che vince ogni tristezza.

33J. Chryssavghis, op. cit., p. 192.


Conclusione
La gioia che libera dalla tristezza

F o r s e qualcuno riterrà eccessiva questa insistenza


sul tema del pénthos e su quello delle lacrime, aspet­
ti che sembrano richiamare una spiritualità colpe­
volizzante, un po’ lontana dallo stile di vita cristiana
che oggi prevale. Anche il linguaggio degli autori
monastici appare forse un po’ desueto. Ma a nostro
parere, il percorso indicato in questi testi, percorso
che nasce da un’esperienza personale e dev’essere
assunto come tale, riflette una realtà fondamentale:
l’accettare quella serietà e quella responsabilità che
nascono quotidianamente nell’impegno della seque­
la Christi, a partire dalla lotta contro il male che
è in noi (metanolo) e dall’umile accettazione della
propria fragilità. Il cammino che porta alla gioia
dello Spirito passa attraverso il doloroso crogiolo
della purificazione, del pénthos e delle lacrime. È un
168 I Tristezza

itinerario ancora valido per tanti uomini e donne


di oggi, feriti e tentati dalla tristezza, i quali posso­
no scoprire, in questo misterioso deserto che fiori­
sce, un senso ai tanti luoghi di disperazione in cui
sono costretti a vivere: per loro diventa vera quella
espressione di Silvano dell’Athos, più volte ricorda­
ta: «Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare».
E ancora oggi si possono incontrare uomini e donne
che hanno avuto il coraggio di intraprendere questo
cammino. Il loro percorso attraverso la tristezza e
le lacrime che generano gioia rimane per lo più na­
scosto; ma i loro volti trasmettono pace e serenità,
infondono speranza e le loro vite sanno portare i
pesi di tante ferite e frustrazioni.
Ma questo cammino proposto dagli autori mo­
nastici antichi ci rivela soprattutto un altro aspetto
importante: la qualità di una gioia che ha veramente
la forza di liberare la tristezza. E, proprio a partire
da ciò che abbiamo detto precedentemente, la qua­
lità della gioia sta nella capacità di accettare quella
misteriosa morte, dolorosa e necessaria, per dare
spazio all’autentica vita e far nascere in noi l’uomo
nuovo, generato dallo Spirito. In questo processo
di rinascita convivono paradossalmente gioia e tri­
La gioia che libera dalla tristezza I 169

stezza, l’una aperta all’altra, l’una custode dell’al­


tra. È una sorta di circolarità ben espressa in queste
due sentenze: «Colui che vive nella continua affli­
zione secondo Dio non cessa di essere in festa ogni
giorno»1 e «chi non conosce la gioia non conosce
neppure l’afflizione secondo Dio»2. Permanere nel­
la gioia ha una condizione: accogliere ogni giorno
la dolorosa purificazione operata dallo Spirito che
agisce in noi. Ma solo lasciandosi condurre da que­
sta gioia, allora, è possibile accogliere quel dolore
da cui sgorga la vita. Gesù stesso ci ha rivelato il
senso di questo paradosso, quando dice: «Voi sare­
te nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà
in gioia. La donna, quando partorisce, è nel dolore,
perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla
luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza,
per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv
16,20-21). La nascita dell’uomo spirituale compor­
ta sempre una sofferenza, perché comporta la mor­
te dell’uomo “carnale”. Ma in questo dolore inevi­
tabile è già contenuta tutta la forza che sprigiona la

1Giovanni Climaco, Scala del Paradiso, VII, 38: tr. it.,.p. 200.
2 Collezione Etiopica 14,65: Les Sentences des Pères du désert. Nouveau
recueil, cur. L. Regnault, Abbaye Saint-Pierre de Solesmes, Sablé-sur-
Sarthe 1977, p. 331.
170 I Tristezza

gioia della vita. Allora è necessario abbandonarsi


a questa gioia, certamente nascosta a volte anche
ai nostri occhi, consapevoli però che essa è abitata
dallo Spirito. Allora ogni fatica e dolore nel cammi­
no di crescita secondo lo Spirito acquisterà senso
profondo alla luce di questa gioia nascosta e sarà
liberato da ogni tristezza. Sono illuminanti queste
parole di A. Louf: «L’ascesi è un abbandono sciolto
e morbido di fronte alla gioia che ci abita, una di­
stensione e un’apertura che permettono alla vita di
trascorrere senza ostacoli e quasi senza fatica. È la
liberazione e la nascita di un uomo nuovo: l’ascesi
ricorda allora stranamente quello che viene chia­
mato parto indolore... Il parto indolore è la più bella
immagine dell’ascesi, che implica gioia e dolori in­
sieme: esprime l’unica ascesi possibile in un’ottica
cristiana, un’ascesi che si fonda sulla gioia e ad essa
si abbandona»3.
Quando la gioia custodisce questo cammino di
rinascita alla vera vita, allora veramente libera da
ogni tristezza e dona la pace. Diventa porta aperta
a ogni cammino di pace anche quando la tristezza

3A. Louf, op. cit.y p. 123.


La gioia che libera dalla tristezza I 171

può riprendere il sopprawento, può ancora sferra­


re i suoi attacchi; è l’inizio di ogni via di pace per­
ché si radica nella consapevolezza di essere custo­
diti nel luogo dove la gioia stessa abita, lo Spirito:

«Se dunque nell’impegno ascetico - ci ricorda Eva­


grio - acquisteremo l’abito di una gioia pacifica, per
suo tramite rigetteremo col rendimento di grazie le
difficoltà che possono sopraggiungere, senza acco­
gliere il demone lamentoso della tristezza, il quale,
tagliando le gambe nei momenti affannosi, si avventa
soprattutto sulPanima e prepara il terreno allo spirito
di accidia, per gettare un’ombra su di essa e contem­
poraneamente cancellarne gli sforzi. La gioia della
pace sia dunque la legge iscritta nei nostri cuori. Essa
allontana la tristezza, scaccia l’odio, annienta lo sde­
gno e dissolve l’accidia. Essa si annida nella compren­
sione pacifica, nello specchio d’acqua del rendimento
di grazie e della perseveranza. Essa è un mare di virtù
che sommerge con la croce l’opposto schieramento
del diavolo».

«La gioia della pace... è un mare di virtù che


sommerge con la croce l’opposto schieramento del
diavolo»: questa ultima espressione di Evagrio ci
172 I Tristezza

suggerisce due immagini a conclusione del nostro


percorso. Sono due immagini di gioia e di pace,
due visioni che ci confermano della possibilità di
vincere la battaglia contro lo spirito della tristezza.
Sono un’icona e un volto, l’icona della Discesa agli
Inferi e il volto di un santo, Antonio il Grande.
Nel Museo Russo di San Pietroburgo è conser­
vata una suggestiva icona della Discesa agli Inferi4:
La struttura iconografica di questa rappresenta­
zione obbedisce al canone classico che raffigura la
discesa di Cristo, attorniato dalle potenze angeli­
che, nel luogo della morte per liberare i progenitori
dell’umanità, Adamo ed Èva, e i giusti della prima
alleanza. Ma in questa icona c’è un particolare in­
teressante: è raffigurata la lotta tra le virtù e i vizi.
Le virtù sono rappresentate dagli angeli raffigurati
nella mandorla luminosa di Cristo, mentre terribili
demoni diventano le maschere simboliche di ogni
passione malvagia. La lotta tra virtù e vizi mette a
confronto la potenza del Cristo risorto, di Colui che
attraverso la sua morte ha donato la vita, e il terribi­

4 Proveniente dalla chiesa della Natività della Madre di Dio al mona


stero Ferapontovo (sulle rive del lago Bianco), questa icona è attribuita
alla scuola del maestro Dionisij e risale agli anni 1502-1503.
La gioia che libera dalla tristezza I 173

le volto della morte che annienta l’uomo facendolo


passare attraverso la decomposizione dello spirito
(le passioni). Le porte degli inferi sono ormai di­
strutte e divelte, calpestate dalla Vita: la morte non
ha più alcun potere. Ma la lotta sembra continua­
re nel luogo delle tenebre, quasi un segno di quel
combattimento che continua nel cuore dell’uomo.
L’abisso della morte appare in tutto il suo orribile
volto, come tenebre che risucchiano. Ma assume
anche la forma di una bocca che grida la sua scon­
fitta. È interessante notare che questo luogo, ormai
privo di presenze umane (le anime dei giusti stanno
uscendo dal buio della morte), è comunque abitato
da esseri tenebrosi. Sono le potenze demoniache,
i volti del male. Le lance degli angeli colpiscono
questi esseri diabolici accanto ai quali è posto un
nome. Sono i nomi dei vizi, dei pensieri malvagi che
rendono schiavo il cuore dell’uomo: gola, ira, lus­
suria, invidia, tristezza, ecc. Il male parte dal cuore
dell’uomo ed è nel cuore che dev’essere sconfitto.
La vittoria di Cristo libera radicalmente l’uomo.
Ma ogni angelo, oltre alla lancia con cui colpisce
il demone, tiene in una mano una piccola sfera con
un nome: è il nome della virtù opposta al vizio, la
174 I Tristezza

virtù che uccide il vizio. E allora vediamo che un


angelo trapassa con la sua lancia un demone, acca­
sciato, con il volto abbattuto e sommerso da grande
sconforto: è il demone della tristezza (così è scritto
di fianco). Ma l’angelo regge nella sua mano una
sfera su cui è inciso un altro nome: gioia. La gioia
che nasce dal Risorto ha la forza di uccidere la tri­
stezza che conduce alla morte.
E quando nel cuore e nella vita di un uomo
si è operato questo passaggio dalla tristezza alla
gioia, allora tutto l’uomo è avvolto nella gioia e il
suo volto ne dà testimonianza. Così viene descrit­
to da Atanasio di Alessandria, il volto dell’uomo
spirituale, di Antonio il Grande, di colui che aveva
avuto il coraggio di affrontare il male nascosto nel
suo cuore, nella certezza e nella speranza di quella
vittoria già ottenuta dal Risorto:

«Il volto di Antonio era pieno di grazia. Aveva avuto


anche questo dono singolare dal Salvatore... Si distin­
gueva dagli altri non perché fosse più alto o più ro­
busto, ma faceva questo effetto la serietà dei costumi,
la fermezza e la purezza del suo animo. Essendo la
sua anima quieta, anche il suo aspetto visibile resta­
va senza turbamenti, di modo che la gioia e la letizia
La gioia che libera dalla tristezza I 175

dell’animo apparivano sul suo volto, e i movimenti del


corpo lasciavano sentire e capire la stabilità dell’ani­
mo, come sta scritto: “Quando il cuore gode, il volto è
lieto. Quando invece è triste, anche il volto è mesto”.
E così si poteva riconoscere Antonio. Come avrebbe
potuto turbarsi, se il suo animo era sempre quieto e
sereno? O quando avrebbe potuto essere triste, se la
sua mente era sempre gioiosa?»?.

Da dove viene la pace di Antonio? Qual è la fon­


te della sua gioia? Dov’è il suo cuore? Perché An­
tonio non è triste? La risposta a questi interrogativi
la troviamo in un apoftegma-. «Si racconta che un
anziano chiese a Dio di vedere i padri e li vide, ma
il padre Antonio non c’era. Dice allora a colui che
glieli mostra: “E il padre Antonio dov’è?”. Gli dis­
se: “Egli è là dove c’è Dio”»6. Antonio abita dove
abita Dio: lì è il suo cuore, lì la sua pace e la sua
gioia. Ma Antonio abita nel luogo di Dio perché
abita nel suo amore: «C’è un’umiltà che viene dal

5 Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 68,4-8: Vita di Antonio, cur.


C. Mohrmann - G.J.M. Bartelink, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori,
Milano 1974, pp. 132-133.
6Antonio 28: Vita e detti dei padri del deserto, I, cur. L. Mortari, Roma
1975, p. 91.
176 I Tristezza

timore di Dio, e ce n’è una che viene dall’amore di


Dio. C’è chi è stato reso umile dal timore di lui, e
c’è chi è stato reso umile dalla gioia di lui. All’uno
si accompagna la compostezza delle membra, l’or­
dine dei sensi e un cuore sempre contrito; all’altro,
invece, una grande dilatazione e un cuore che fio­
risce e non può essere contenuto»7. Nell’amore la
gioia vince ogni tristezza.

7 Isacco di Ninive, Un'umile speranza, p. 180.


Indice

Introduzione
Le passioni tristi e la passione
della tristezza pag. 5

I. LO SGUARDO DELLA TRISTEZZA » 19


1. Un profeta rattristato » 21
2. Il demone della tristezza » 30

II. UN MALE CORROSIVO:


LA PATOLOGIA DELLA TRISTEZZA » 43
1.1 nomi della tristezza » 46
2. Le cause della tristezza » 56
3. Sintomi e manifestazioni della tristezza » 63

III. «SI FECE SCURO IN VOLTO


E SE NE ANDÒ RATTRISTATO»:
CAMMINARE NELLA TRISTEZZA » 73
IV. FRA TRISTEZZA E IRA: L’INVIDIA pag. 95
1. L’invidia allo specchio » 103
2. La dinamica dell’invidia » 110
3. Il ritratto dell’invidioso » 120
4. Si può guarire dall’invidia? » 124

V. SPERANZA, PENTIMENTO, GIOIA:


UNA TERAPIA PER LA TRISTEZZA » 131
1. Lo sguardo della speranza » 135
2. La tristezza secondo Dio » 145
3. Le lacrime che generano gioia » 157

Conclusione
La gioia che libera dalla tristezza » 167

Nota bibliografica » 177

Potrebbero piacerti anche