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M ULA

omnsia
IL CASO SERIO
i f '

Hans Urs von Balthasar


Cordula ovverosia il caso serio

UNIVERSITÀ'
DI CAGLIARI

C H R

VoWBAL
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d ip a r t im e n t o

FILOLOGIA
CLASSICA
Dibattito sul cristianesimo
i
Hans Urs von Balthasar

Cordula
ovverosia il caso serio

terza edizione

Editrice Queriniana
Titolo originale
Cordula oder der Ernstfall
Johannes Verlag, Einsiedeln

Traduzione dalla terza edizione in lingua tedesca


di G iovanni Viola e G iovanni M oretto

Edizione italiana a cura di


ENZO Gl AMMAN CHERI

Prima edizione aprile 1968


Seconda edizione luglio 1968
Terza edizione marzo 1969

© Johannes Verlag, Einsiedeln 1966


© Editrice Queriniana, Brescia 1968

Tipografica Queriniana - Brescia


Presentazione

Nella storia dello svolgimento del concilio Vati­


cano li il nome di Hans Urs von Balthasar non sarà
scritto. Nonostante un teologo come Henri de Lu-
bac, che lo ebbe discepolo, l ’abbia giudicato l ’uomo
«il più colto del sup tempo» e l ’abbia riconosciuto
autore «di un’opera le cui immense e profonde pro-
porzioni sono tali che la Chiesa non ne conosce altre
al nostro tempo» (cfr. «Paradosso e mistero della
Chiesa», Queriniana Brescia, 1968, p. 128), Baltha­
sar non fu chiamato a prendere parte né ai lavori
preparatori né ad una delle tante commissioni di
studio che assistettero i Padri durante il concilio.
Sempre de Lubac ha definito, con severità, la man­
cata convocazione una «cosa sconcertante e umilian­
te», anche se poi ne ha cercato una certa spiegazione
quando ha affermato che «Balthasar non è l’uomo
delle commissioni, delle discussioni circa le parole,
delle formule di compromesso e delle redazioni col­
lettive». Non è qui il caso di interrogarsi oltre sulle
possibili motivazioni dell’assenza e, ancor meno, di
prenderne pretesto per ima contestazione. Certo,
quella di Balthasar non è per nulla un’opera di scuo­
la, accademica, facilmente riassumibile e utilizzabile,
di cui con facilità si possa cogliere il centro unitario,

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il particolare logos; non è per nulla, come ha detto
Karl Rahner, una «teologia di corte», pur dopo aver
purificato l ’espressione da ogni equivoco e sottinte­
so, e dopo aver riconosciuto quanto apprezzabile e
utile alla Chiesa sia un corretto rapporto fra il magi­
stero da una parte e la ricerca e le formulazioni dei
teologi dall’altra; non è ancora nemmeno adeguata-
mente recepita dalla stessa teologia. Forse, al di là
della sorpresa perché una voce tanto forte non abbia
potuto essere udita in un’occasione come il concilio,
bisogna soltanto credere con umiltà che Dio ha le
proprie stagioni e segue una propria logica, e che
le astuzie della Provvidenza, per dirla con il Vico,
hanno sempre dalla loro parte un futuro che noi
talvolta appena un poco siamo in grado di intra­
vedere.
Nella storia del concilio, invece, nella misura in
cui esso fu non un’improvvisazione, ma il luogo di
maturazione di ricerche e di riflessioni che da lungo
tempo, e spesso nel silenzio e nell’incomprensione,
impegnavano l ’intelligenza e la passione di molti
cristiani, teologi o pastori d’anime, il nome di Bal­
thasar sarà più volte scritto. Perché non v ’è docu­
mento del Vaticano n che non sia stato da lui in
qualche misura anticipato o nei temi o nel linguag­
gio e nella sensibilità o nelle soluzioni. Ricordiamo
per tutti l ’interpretazione ecclesiale, e perciò cristo­
logica, dei dogmi mariani. Evitando le deviazioni
tanto di una specie di geometria mariologica, che
deduce le prerogative e i carismi della Vergine quasi
fossero dei teoremi e all’insegna di un poco sicuro
«de Maria numquam satis», quanto di un atteggia­
mento di timore e quasi di vergogna che alcuni catto­

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lici provano nell’affrontare il problema di Maria,
Balthasar da molti anni prima del concilio viene in­
segnando che la verità mariana è annodata al centro
del mistero della Chiesa e di Cristo, tanto che Maria,
più di Pietro e degli apostoli, «incarna il tutto della
Chiesa» (in «Abbattere i bastioni», 1958, p. 51).
Il nome di Balthasar sarà infine ricordato come
fondamentale nella storia del post-concilio e della
prima generazione conciliare per almeno due motivi.
Primo: se, come dice de Lubac, il tesoro contenuto
nei testi del concilio non può rivelarsi subito, essen­
do la loro ricchezza e profondità maggiori, perché
opera dello Spirito santo, di quanto intesero gli uo­
mini che li hanno scritti, quando «si vorrà sfruttare
questo nuovo tesoro, ci si accorgerà che per un com­
pito tale nessuna opera offre forse tante risorse quan­
te quella di Hans Urs von Balthasar». Secondo: per
il contributo da lui finora dato ad una comprensione
del concilio che stranamente non comprometta o an­
che soltanto diminuisca il valore assoluto della ve­
rità cristiana, per il richiamo, accorato e talora forte
fino ad essere tagliente, a non lasciarsi fuorviare da
unilateralità, da cedimenti a quella che Paolo chia­
ma la sophia logou (1 Cor. 1,17 ), dagli incantesi­
mi, variamente camuffati, di nuovi miti, compreso
il mito della demitizzazione, da dialoghi che sono
nient’altro che abbassamenti di bandiera, in una pa­
rola a non svuotare il cristianesimo fino a farne una
sovrastruttura ideologica della nostra esperienza co­
me singoli e come soci, magari con l ’intento di ri­
chiamare un mondo sempre più disattento e incre­
dulo. In questo secondo ordine di preoccupazioni
trovano posto e rilievo i libri «Solo l ’amore è cre­

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dibile» (1963), «Chi è il cristiano?» (1963), ed ora
anche «Cordula», libri diffusi e discussi, e che han­
no con sicurezza colpito nel segno di reali problemi
della teologia e della vita della Chiesa oggi.
La situazione che Balthasar evoca in «Cordula»
è quella di una Chiesa post-conciliare profondamente
turbata, di una comunità di cristiani che sembra
smarrita sia nei concetti sia nella pratica, e vittima
di qualche tragica illusione che impedisce d ’esserne
chiaramente coscienti. Esiste allora un criterio per
stabilire con certezza che la strada sulla quale i cri­
stiani si sono messi è quella giusta? C ’è una misura
per regolare il valore cristiano delle formulazioni
dottrinali e delle scelte esistenziali? È appunto que­
sto il problema di «Cordula».
Se i Padri del concilio non furono apprendisti stre­
goni che finirono col liberare forze più grandi di
loro e che ora sono impotenti a dominare; se il ma­
gistero ora non è ridotto alla figura di un profeta
disarmato che si chiude nell’impotenza del lamento
e della mozione degli affetti; se i cristiani non sono
«atei anonimi», coinvolti per motivi di sopravviven­
za nell’attuale processo, d ’umanizzazione del mondo
e della società, e di affermazione dell’assolutezza del­
l ’uomo, per i quali le motivazioni rivelate e teolo­
giche sono alla fine irrilevanti o mantengono un va­
lore «privato» di carica ideologica ed emotiva; se,
rovesciando la prospettiva, si crede veramente che lo
Spirito di Dio anima ancora oggi la Chiesa, dopo
che Cristo, nel punto radicale della storia, esaltando
il suo spirito sulla croce, l ’ha infuso in essa, nata
dal suo cuore trafitto, in attesa che a Pentecoste
erompesse nella forza della fede e dell’amore, ci

8 j
deve pur essere un simile criterio, come ci deve pur
essere un vizio di fondo quando si pensa di caricare
sul concilio, e prima ancora su papa Giovanni, le
responsabilità dell’attuale situazione traumatizzante
nella Chiesa. Qui il salto logico di un «post hoc,
ergo propter hoc» è chiaro per un credente.
Balthasar ci ricorda che il criterio c’è, inequivo­
cabile, e che il vizio di fondo è d ’averlo dimenticato,
o anche soltanto messo tra parentesi, innanzitutto
quando si leggono i testi del concilio o si interpreta
10 spirito di esso.
Cos’è il «caso serio»? È appunto il criterio. Il
termine ‘Ernstfall’ è semanticamente assai ricco di
sfumature. Potremmo anche intenderlo come ’ ‘ele­1
mento essenziale’, il ‘criterio di fondo’, od anche
1’ ‘impegno assoluto’. Il «caso serio» si trova in ogni
filosofia, che sia non un’esercitazione mentale, ma
la problematizzazione della vita, in ogni ideologia e
visione generale della vita stessa. Il «caso serio» è il
cuore di una verità, il nucleo che la pone in essere
come tale, tanto che se il «caso serio» viene com­
promesso o, peggio ancora, svuotato, è la verità
stessa di un pensiero che viene meno.
Il «caso serio» del cristianesimo è uno solo: la
croce di Cristo. Sulla croce si manifesta la ‘gloria’
di Dio, il quale, nella morte di Cristo, si rivela co­
me amore che per gli uomini ha sacrificato il Figlio
suo. La fede cristiana è credere a questo amore, che
è il solo credibile, ed è accettare la croce, la morte
quindi, nel battesimo come, se richiesti, nel marti­
rio, perché solo un amore fino alla morte è adeguato
all’amore di Dio e ci immette in esso, rivelandoci
11 senso ultimo della vita. «Il concilio - ha scritto

9
Balthasar in un articolo del 1966 - ha ben chiara
la consapevolezza che secondo la visione neotesta­
mentaria, e soprattutto giovannea, non esiste altra
gloria di Cristo fuor di quella della sua croce e
che la risurrezione non è se non l ’attestazione di­
vina di questo: l ’amore eterno ha proclamato la sua
gloria suprema attraverso la dedizione e l ’abbandono
estremi di sé nella notte della croce e nella discesa
agli Inferi» (cfr. «Humanitas», 1966, p. 693).
Il «caso serio» è dunque Yessenza del cristiane­
simo. Ogni interpretazione teologica che riduca la
cristologia ad antropologia, l ’amore di Dio all’amore
degli uomini, la carità alla moralità, che svuoti la
croce considerandola un mito, un’analogia, un sim­
bolo, che il binomio amore-morte riduca ad un mo­
dello letterario, è una negazione del cristianesimo.
Il «caso serio» è la forma della vita cristiana.
Ogni scelta che umanizzi la 'Parola della croce’, lo
1
scandalo della croce, ’ 'impotenza di D io’, per so­
stituirvi una vita più 'razionale, e più ‘sociale’, non
è una scelta cristiana, non è più il paradosso della
debolezza fatta forza (2 Cor. 12,9-10), non è più la
sfida cristiana dell’amore, non è più la morale cri­
stiana della Pasqua.
Il «caso serio» è il criterio per la vita della Chie­
sa. Non si può certo contestare al magistero il di­
ritto di usare parole come 'aggiornamento’ e 'dialo­
go’. Ma si può e si deve interpretare quelle parole
sempre dal punto della croce, se si vuole evitare la
confusione delle lingue e abbattere i bastioni di nuo­
vi trionfalismi legati all’equivoco concetto della mo­
dernità del cristianesimo. L ’oggi senza tramonto del
cristianesimo è soltanto la croce, e la modernità del
\

io
cristiano è assicurata quando fiorisce sul sepolcro
di Cristo.
Dal «caso serio» derivano almeno tre conseguen­
ze per la Chiesa e il cristiano. Innanzi tutto l ’iner-
mità. Solo nello scacco della morte Cristo s’è rive­
lato la gloria del Padre; altrettanto per il cristiano,
se vuole vivere veramente la forma di Cristo. In se­
condo luogo, l ’esperienza della solitudine e dell’ab-
bandono. Mai come oggi, e ancor più in futuro, per
quanto si può prevedere, il cristiano ‘serio’ si sente
solo in un mondo che non lo capisce più e lo marti­
rizza col disinteresse totale. Infine, il primato della
preghiera, della contemplazione, del profondo silen­
zio in cui s’affonda lo spirito nel colloquio con Dio,
sopra l ’organizzazione e l’apparato. Il primato cioè
di quel dono intimo di sé, che costituisce da sempre
nella Chiesa la santità, e che s’effonde intorno come
il profumo dei frutti dello spirito, soprattutto la ca­
rità, la gioia, la pace che viene dalla docilità a Dio.
Balthasar non è il solo ad aver fatto un simile
discorso. Viene subito in mente il Maritain de «Le
paysan de la Garonne». Il richiamo è fondato, se si
considerano il fine, l ’intenzione, le realtà denuncia­
te, la passione di tante parole. Ma fra i due vi è una
grande diversità nel linguaggio e nella prospettiva.
Il discorso di Balthasar è soltanto biblico-teologico,
anche se non manca un breve - forse troppo - pro­
filo dello sviluppo del cosiddetto ‘sistema’ moderno,
cioè di quel pensiero filosofico che a partire dalla
contraddizione kantiana tra la ragione pura e la ra­
gione pratica è, secondo l ’autore, la vera matrice
dell’ateismo umanistico d ’oggi. Diverso, quindi, il
linguaggio e diverse le categorie. E forse ancora più

II
convincente, perché il «caso serio» non si presta
tanto alle denuncie di collusioni politiche tra comu­
nisti e cattolici, non si confonde con una nostalgica
evocazione del passato, non è nemmeno un tema per
una disputa fra teologi, ora soprattutto che la po­
stilla alla terza edizione ha smussato le punte di
una polemica con Karl Rahner che certo aveva qual­
che asprezza. È semplicemente un radicale esame di
coscienza per tutti quanti portano il nome di cri­
stiano. È chiedersi: chi è il cristiano? siamo ancora
cristiani? Domande che s’impongono anche ai cat­
tolici della Chiesa italiana, forse meno turbati fino­
ra dalla demitizzazione, ma sempre esposti più che
in altri luoghi, per motivi storici e sociali, al peri­
colo dell’abitudine e del conformismo; alla tenta­
zione di ridurre il cristianesimo nell’ambito delle
questioni sociali e politiche; alle lusinghe di mai
sopiti trionfalismi, quali il numero, le strutture, il
possesso di mezzi sempre più moderni; alla non
esatta coscienza di quanto la società italiana si stia
religiosamente trasformando.
Una fuga dal mondo, dunque? Sì, se la fuga è il
rifiuto di due logiche opposte ed oggi operanti: quel­
la di coloro che credono che la Chiesa sia orinai una /
nave in disarmo e quella di coloro che pensano la
Chiesa con mentalità aziendalistica e da capitani
d ’industria. No, se la presenza del cristiano nel
mondo viene realizzata nella solitudine del Cristo,
nell’amoroso colloquio con la sua Parola, nel cerca­
re d’amare il prossimo come lui ci ha amato.

E n zo G ia m m a n c h e r i

12
Prefazione

Viene qui avanzata una proposta, e la si sottopone


alVesame dei cristiani. Si offre un criterio, e precisa-
mente quello migliore. La pubblicità conosce questo
comparativo senza termine ài paragone. «O M O lava
più bianco». Più bicmco di che cosa? Secondo il di­
ritto commerciale non è permesso dirlo. Sarebbe inol­
tre un errore di tecnica reclamistica, perché la man­
canza di paragone ha una forza evocativa maggiore.
E questa volta ciò che importa è appunto una certa
evocazione.
Il criterio, già se a semplice titolo di prova viene
usato con la fantasia, produce un effetto curioso. Se
tu dicessi a Ber nanos: «Vieni con me, è il caso se­
rio!», il vecchio brontolone senza battere ciglio si al­
zerebbe dalla sedia e ti seguirebbe come un agnello.
Va' da Reinhold Schneider, il poeta di Winter in
Wien (Inverno a Vienna), e digli la stessa cosa: sia­
mo curiosi di vedere ciò che accadrà. Se infine col tuo
appello ti rivolgi in genere ai nostri demitizzati', ai
convertiti al mondo, non so; essi, infatti, hanno già
risolto tutto, hanno ormai soltanto una fede analogi­
ca in una Parola intesa in senso analogico, per le qua­
li certamente vale la pena di morire soltanto in modo

13
analogico, così come il loro cristianesimo merita di
essere vissuto solo in modo analogico.
Prendi tuttavia questa lanterna di Diogene e vedi
a che risultato si può giungere. Con essa potresti
distinguere persone che, giudicate dall’esterno, ap­
paiono molto simili: l ’una arde di carità e ritiene
giusto ogni mezzo che Vaiuti a parlare in modo nuo­
vo della carità di Cristo al fratello duro d ’orecchio;
l’altra, invece, ne ha abbastanza in cuor suo del
Vangelo, della croce, di tutto il lavorio dogmatico
e sacramentale, fiuta l’aria del mattino e prende due
piccioni con una fava: si libera di ciò che le torna
profondamente uggioso, e tuttavia, così facendo,
cammina, come cristiano aperto alla riforma, tenen­
do il passo con la scienza verso un futuro migliore.
Vuna demitizza per credere in modo più profondo
e puro, l ’altra lo fa per non dover più credere.
Quanta ambiguità è nascosta nella cristianità mo­
derna? Come non mai! Prendi dunque la lanterna,
e forse tra tanti professori troverai almeno un paio
di veri confessori. Chissà che, all’inizio dello spetta­
colo, qualcuno non salga ancora sulla scena e voglia
recitarvi di buon grado la parte di Genesio e di
Cordula.

i4
I. Il caso serio

Avendo Gesù, figlio di Dio, manifestato


la sua carità dando per noi la sua vita, nes­
suno ha più grande amore di colui che dà
la sua vita per lui e per i suoi fratelli
(ofr. i Gv. 3,16; Gv. 15,13). Già fin dai
primi tempi quindi alcuni cristiani sono
stati chiamati, e lo ¡saranno sempre, a ren­
dere questa massima testimonianza d’amo­
re davanti agli uomini, e specialmente da­
vanti ai persecutori. Perciò il martirio, col
quale il discepolo è reso simile al maestro
che liberamente accetta la morte per la sa­
lute del mondo, e a lui si conforma nella
effusione del sangue, è stimato dalla Chie­
sa dono insigne e suprema prova di ca­
rità. Ghe se a pochi è concesso, devono
però tutti essere pronti a confessare Cri­
sto davanti agli uomini, e a seguirlo sulla
via della croce durante le persecuzioni, che
non mancano mai alla Chiesa.
Concilio Vaticano n,
Costituzione dogmatica sulla Chiesa, n. 42.
i. fondamento biblico

Perché Gesù Cristo non ha predetto ai suoi disce­


poli altra sorte che la sua, e cioè persecuzione, in­
successo e passione? È vero che il grande discorso
missionario alla fine di Matteo, magnificamente ab­
bellito dallo Spirito, santo, conferisce un mandato
universale che abbraccia tutti i tempi e i luoghi, tutte
le civiltà del presente e del futuro; ma un mandato,
per sé, non comporta la garanzia della sua esecuzione
fino alla fine. Sovente, tra le opere umane, le mag­
giori sono quelle che lasciano prevedere cose enormi,
ma poi si interrompono anzi tempo. Inoltre, un
mandato del genere richiede un impegno così grande
delle forze umane che s’avvicina di molto al pensiero
della sofferenza. Tanto più se si considera che i cri­
stiani sono mandati come agnelli tra i lupi - un’im­
magine terribile, se anche per un solo momento si
riflette su ciò che essa enuncia: non soltanto l ’impo­
tenza e l ’inermità dell’agnello che è mandato, ma la
naturale, e perciò sicura e insopprimibile, brama
omicida del lupo. Il discorso missionario di Matteo
io , che nei confronti dell’idealistico Matteo 28,19-
20 contiene alcuni dettagliati e realistici particolari
dell’esecuzione, pone il detto pecora-lupo come il cri­
terio per due serie di enunciati intrecciate tra loro:

17
2 - Corchila ovverosia il caso serio
una serie viene dopo l ’ammonizione: «Guardatevi!»,
e contiene le predizioni più tetre: 10 ,17.18 .21.22.
34.35.36; l ’altra dipende dal comando: «Non temete
dunque», e contiene le più belle promesse: 10,19-20.
26.28.31.40-42.
Le due serie sembrano contraddirsi apertamente.
Nelle diffide, infatti, si ha ogni volta di mira, aperta­
mente od implicitamente, una situazione di morte.
Essa è già presentata con chiarezza nel detto pecora-
lupo. Per coloro che non la trovassero abbastanza
evidente nella ‘consegna’ (paradosis) ai tribunali,
nelle flagellazioni e nelle traduzioni dinanzi a gover­
natori e re, Giovanni chiarisce: «Chiunque vi uccide­
rà, crederà di rendere culto a Dio» (16,2). Tuttavia,
nel versetto 21 la ‘paradosis’ viene precisata come
‘paradosis’ alla morte: il fratello consegna alla morte
il fratello, il padre il figlio, i figli i genitori. Nel ver­
setto 28 si parla della «uccisione del corpo», in op­
posizione dell’uccisione dell’anima, che spetta a Dio
solo (con la dannazione). La spada, che nel verset­
to 34 e seguenti separa gli uomini, non limita la si­
tuazione di morte, ma ne mostra i presupposti e le
proporzioni intrinseche: l ’odio (vers. 22; Gp. 15,18),
l ’intolleranza della confessione (‘martyrion’, Mt. io ,
18; cfr. 32-33). Mentre la serie delle diffide parla
senza dubbio della situazione di morte, la serie delle
promesse sembra escluderla sempre: «Ma chi avrà
sopportato fino alla fine, questi sarà salvato» (vers.
22); i passeri sono nelle mani del Padre, tanto più i
confessori del Figlio (vers. 29-31).
Sembra quasi che, al Signore che parla, non im­
porti vedere qui la contraddizione, e tanto meno
risolverla. Il punto dal quale egli parla, che è all’ori-

18
gine in modo unitario delle due serie intrecciate di
affermazioni e che rende quindi comprensibile il
tutto, è il punto in cui si pone lui stesso. Anzi, di
più: il punto è lui stesso, ed esiste soltanto perché
lui vi è. «Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato
me prima di voi», chiarisce Giovanni rimandando
esplicitamente al discorso missionario di Matteo. «Ri­
cordatevi della parola che vi dissi: non c’è servo
più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato
me, perseguiteranno anche voi» (G v . 15,18.20). La
parola qui richiamata ha un’ampiezza magnifica in
Matteo: «Il discepolo non è da più del suo maestro,
né il servo da più del suo padrone. Il discepolo si
contenti di essere come il maestro, e il servo di es­
sere come il padrone. Se hanno chiamato Beelzebub
il padrone di casa, quanto più chiameranno così i
suoi familiari!» (vers. 24-25). L ’accrescitivo «quanto
più» può sorprendere, perché in base all’enunciato
discepolo-maestro si potrebbe pensare che la posi­
zione di Gesù non possa essere raggiunta, o lo sia dif­
ficilmente, da chi lo segue. Purtroppo, in questo
caso, essa viene più che raggiunta: se «mi hanno
odiato senza ragione» (G v . 15,25), sarà per voi som­
ma grazia ed onore essere «odiati da tutti a causa
del mio nome» (Mt. 10,22), anche se possono esserci
tanti altri diversi motivi per odiarvi e per chiamarvi
Beelzebub.
Non è questo, tuttavia, il pensiero che qui si trova
in primo piano, bensì quell’enunciato finale che è
un po’ la chiave di tutto: «Chi ama il padre e la
madre più di me, non è degno di me; chi ama suo fi­
glio o sua figlia più di me, non è degno di me; e chi
non prende la sua croce e non mi segue, non è degno

19
di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà, e
chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la tro­
1
verà» (M t. 10,37-39). ° queste parole è chiaro che
la messa in guardia dai ‘lupi’ («Guardatevi dagli
uomini!» Mt. 10 ,17) non riguarda una mera even­
tualità, ma una condizione inevitabile, perché con la
decisione assoluta per Cristo dev’essere presa anche
la controdecisione, «l’odio del mondo». Perché? Si
potrebbe pensare che le cose tra «figlio e padre,
figlia e madre, nuora e suocera» (vers. 35) non va­
dano necessariamente a finire in un modo tanto
ostile; anzi, che in un mondo tollerante, pluralistico,
tutto possa essere risolto amichevolmente, nel sen­
timento di un reciproco «vivere e lasciar vivere»;
chi sa, forse anche questo è imo dei numerosi punti
in cui la cristianità evoluta di oggi è andata più in
là del suo stesso fondatore. Ma disgraziatamente
questi tronca il sogno sia dell’«andar oltre» (vers. 25)
sia della «coesistenza pacifica», dichiarando che la
sua ‘croce’ storica (vers. 38) è supertemporale ed è
la forma permanente di vita per coloro che intendono
seguirlo. Chi lo vuole seguire, preferisce Gesù (che
«vale più» di «padre e madre, figlio e figlia», vers.
37); ma chi preferisce Gesù, sceglie la croce come
il luogo dove il morire è non una eventualità, ma
una certezza assoluta.
L ’affermazione finale illumina allora il paradosso
di tutto il discorso: «Chi cerca di acquistare la sua
vita, la perderà». Chi accanto a Cristo, come conditio
sine qua non, vuol far posto a se stesso, alla fami­
glia, agli amici, alla professione, alla preoccupazione
per il popolo, lo Stato, la cultura, il mondo, il pre­
sente ed il futuro (‘méllonta’, Rom. 8,38), col pre­

20
testo che tutte queste cose sono buone, create da
Dio, che l ’ordine della salvezza non può contraddire
l ’ordine della redenzione, che Dio stesso mira ad una
sintesi di entrambi e che l ’uomo ha perciò il diritto
di fare altrettanto, anzi, più ancora, che proprio l ’or­
dine della redenzione insegna di preoccuparsi di
queste realtà e specialmente del proprio prossimo,
costui perderà la sua vita, in qualsiasi modo questa
vita venga intesa: o l ’esistenza in mezzo a tutti que­
sti pregevoli beni terreni (con l ’eliminazione di G e­
sù) oppure (il risultato però è identico) la vita tra
questi beni in una sintesi (assieme a Gesù) arbitra­
ria, posta come conditio sine qua non. Nel primo
caso l ’uomo perderà la propria vita terrena al più
tardi nella morte, mentre nel secondo caso la per­
derà in modo molto più radicale e doloroso, perché
quella sintesi arbitraria, in senso cattivo ed infe­
condo, è morta, ed in base ad essa non si può con­
durre né una buona vita mondana, né una buona
vita cristiana. «Chi invece avrà perduto la sua vita
per causa mia, la troverà» (cfr. Mt. 16,25; Me. 8,
34,35; Le. 17,33). Il «per causa mia» è ciò che di­
vide (la ‘spada’, Mt. 10,34) e produce da sé l’inspe­
rata unificazione e sintesi: chi punta sull’uno gua­
dagna tutto, sapendo però di perdere tutto ciò che
non è l ’uno.
Il punto dal quale si parla ed al quale si invita
esplicitamente, è quindi la croce. Qui è indifferente
che si parli della perdita di ogni cosa terrena, inclusa
la vita, oppure della insperata protezione, della sal­
vezza definitiva, della sicurezza nelle mani del Padre,
poiché le due cose sono divenute una sola ed iden­
tica, a tal punto che non importa più il modo di

21
esprimerla. È il punto in Gesù Cristo, e per opera
sua in noi stessi, nel quale dalla morte esce la vita.
Il punto in cui, dalla restituzione dello spirito al
Padre, procede lo Spirito santo: «Quando poi vi
avranno tradotti dinanzi a loro, non vi preoccupate
del come e di ciò che dovrete dire, poiché vi sarà
dato in quell'ora ciò che dovrete dire. Non siete voi
infatti che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro
che parla in voi» (M t. iO jic ^ o ).1

1 Josef Schmid compendia il contenuto del discorso con bella


semplicità: « Il pensiero principale e dominante è che la sofferenza
nelle sue varie forme, il distacco dalle persone più amate, la per­
secuzione ed infine il martirio rientrano nel destino del discepolo.
Ciò ha la sua ragione nella persona di Gesù, che costringe gli
uomini a prendere decisione pro o contro. Con la sua persona
e con la sua parola egli è la rivelazione di Dio, che perciò nessuno
può ignorare. Perciò coloro che aderiscono a lui sono necessaria -
m ente oggetto dell’odio di tutti gli altri. A causa dei suo nome
essi sono odiati da tutti (vers. 22). Ciò significa che a creare i
martiri non è un malinteso umano, bensì una necessità divina.
Il martirio, in cui l ’odio del ‘mondo’ contro i discepoli da una
parte ed il discepolato dall’altra raggiungono la loro pienezza, ha
la sua ragione nello scandalo che la persona di Gesù ed il Vangelo
rappresentano per il mondo. M a poiché nessuno può diventare
discepolo di Gesù, se non vi è chiamato da lui stesso, a fare i
martiri non sono le convinzioni umane, anzi neppure un fervore
umano di fede, ma è Gesù stesso a chiamare al martirio ed a
farne quindi una grazia particolare. E per questo motivo le parole,
che il martire dice dinanzi agli organi dei pubblici poteri statali,
non sono parole umane, una semplice confessione di convinzione
umana, bensì parole che lo Spirito santo dice per bocca dei con­
fessori di Gesù Cristo (vers. 20)». (Das Evangelium nach M at -
thäus übersetzt und erklärt von J. Schmid, [I l Vangelo secondo
Matteo tradotto e commentato da J. Schmid], Regensburg 1956
(trad. it., Morcelliana, Brescia).

22
2. Il caso serio in quanto forma

Secondo l ’insegnamento di Cristo lo stato di per­


secuzione è lo stato normale per la Chiesa nel mondo,
ed il martirio del cristiano è la sua situazione nor­
male. Non nel senso che la Chiesa debba essere con­
tinuamente e dovunque perseguitata; ma se lo è per
qualche tempo ed in determinate regioni, essa do­
vrebbe subito ricordare che è partecipe di una grazia
che le è stata promessa: «Vi ho detto queste cose
affinché, quando verrà la loro ora, vi ricordiate che
10 ve l ’ho detto» (G v . 16,4). Tali parole non pos­
sono essere superate da nessuna evoluzione del mon­
do. E non nel senso che ogni singolo cristiano debba
subire il martirio cruento, ma nel senso che egli do­
vrebbe considerare il caso che si presenta come la
manifestazione esterna di una realtà interna, della
quale egli pure vive. Il martirio è l ’orizzonte della
vita cristiana in un senso diverso da come lo era
nella fede giudaica. In questa, infatti, era un’estrema
possibilità umana, per il singolo fedele, di attestare
la propria fede in Jahvé; ciò che in essa fa spicco è
11 valore per amore della fede: sono eroi che ven­
gono presentati come esempi a tutto il popolo, spe­
cialmente alla gioventù (così le due donne che contro
il divieto di Antioco Epifane circoncisero i loro figli,

23
Eleazaro ed i sette fratelli: 2 Macc. 6-7, Daniele ed i
suoi amici: Dan. 3; 6; 14,31 s.).2 Un tale carattere
eroico manca nel Nuovo Testamento, perché non è
l ’uomo che si dirige per primo verso il punto estre­
mo, ma proviene di là dove è già stato definitiva­
mente Gesù Cristo. Questi ha realizzato i canti del
servo di Jahvé, che per lui erano una promessa. Non
c ’è dunque una continuazione della situazione vete­
rotestamentaria, ma solo un ingresso nella condi­
zione di Cristo. Mentre il martirio veterotestamen­
tario chiarisce quanto avrebbe dovuto essere forte
la fede di ogni giudeo, il martirio neotestamentario
manifesta la sua attualità sempre reale, fondata sulla
croce di Cristo e comunicata per grazia ai suoi di­
scepoli.
Così insegna Paolo, da prima senza fornire una
spiegazione: «Se uno solo morì per tutti, allora tutti
sono morti». Soltanto la proposizione seguente con­
tiene la spiegazione: «Ed egli è morto per tutti,
affinché coloro che vivono non vivano più per se
stessi, ma per colui che per essi è morto ed è risu­
scitato» (2 Cor. 5,14-15). La morte di Cristo per noi
è presentata come un ‘a priori’ del comportamento
cristiano, che pertanto ne è totalmente èaratteriz-
zato. Nella lettera ai Romani, questo a priori ogget­
tivo si estende dall’azione di Cristo al battesimo cri­
stiano, che oggettivamente pone la forma della morte
e sepoltura con Cristo come anteriore ad ogni fede

2 Si noti però che i grandi profeti sono chiamati esplicita­


mente all’insuccesso: «Ricopri di grasso il cuore di questo popolo,
rendi ottuse le sue orecchie» (Ir. 6,io ; c£r. Ger. 1,17-19; Ez. 2,7-9),
ad una testimonianza quindi che ha già intrinsecamente per essi
«forma di croce».

24
soggettiva, e poi subito presenta ed esige il compor­
tamento esistenziale del cristiano come determinato
e caratterizzato dallo stesso a priori (Rom. 6,3-11).
Le parole misteriose di Paolo nella lettera ai Galati:
«Per opera della legge io sono morto alla legge, af­
finché io viva per Dio: sono stato crocifisso con Cri­
sto», stanno sullo stesso piano dell’a priori, di ciò
che è presupposto e forma oggettiva della fede da
attuare successivamente: uno solo, morendo per tut­
ti, ha preso con sé sulla sua croce tutti (ed anche me),
e quindi tutti (ed anch’io) sono morti alla legge ed
a tutto il mondo in cui vige la legge. E se ora conti­
nua: «Ormai non vivo più io, ma Cristo vive in me»,
questo enunciato sta nel mezzo tra il presupposto
oggettivo e l ’atto soggettivo di fede, nel punto in
cui il cristiano dice di sì al fatto che uno solo è stato
crocifisso per lui. Un tale sì altro non è che la fede:
«La vita poi che vivo ora nella carne, la vivo nella
fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato
se stesso per me» {Gal. 2,19-20).
Nella giovanile freschezza della fónte zampillante
possiamo comprendere ciò che significa fede e vita
di fede. Significa ringraziare con tutta la vita di es­
sere debitori di tutta la propria esistenza al Gesù
storico. Poiché gli sono debitore della mia esistenza,
avendo dato la sua esistenza per la mia, il ringrazia­
mento non può essere espresso altrimenti che con
tutta l ’esistenza. Qui sta la logica del cristianesimo:
che non si può dir grazie in modo adeguato se non
con tutta la propria esistenza. Perché mai? Non si
potrebbe pensare di ricevere da Dio una grazia (per
la quale Dio ha offerto la vita del suo eterno Figlio,
ma che in fondo non era stata da noi personalmente

25
impetrata) e di ringraziarlo senza doversi impegnare
a propria volta così seriamente? In verità, Dio po­
trebbe accontentarsi di un sincero sentimento di gra­
titudine da parte dei redenti, i quali, dopo aver gra­
dito il dono ricevuto, sono pronti a ricordare conti­
nuamente con gioia il beneficio che a loro è stato
accordato. E tanto più potrebbe accontentarsi dal
momento che, essendo l ’atto di Dio ormai compiuto,
il gravissimo impegno della vita umana non gli può
aggiungere nulla di decisivo e di originariamente ef­
ficace. Come potrebbe mancare qualcosa alle soffe­
renze di Cristo? Non potrebbe essere un’espressione
traslata quella di Paolo, quando pensa di poter sup­
plire con la propria sofferenza ad una supposta man­
canza {Col. 1,24)?
D io non si accontenta di un grazie cordiale. Vuole
riconoscere nei cristiani il Figlio. Per quanto nei
loro sentimenti rimangano al di sotto di Cristo, essi
tuttavia devono, per principio, consentire a quel­
l ’amore, mediante il quale sono redenti. Ma con­
sentire significa trovare che la cosa è giusta, anzi
l ’unica giusta; ma che è pure la rivelazione più alta
dell’amore divino, e quindi - poiché Dio è la verità
- che è la norma di ogni verità. Perciò (ed fi cristiani
lo comprendono) anche per loro nessun’altra norma
di verità può aver valore. Nel ringraziamento non
possono accontentare Dio con un amore e una verità
diversi da quelli che ha loro assegnato. Se si guarda
più a fondo, non sono neppure in grado di riflettere
con quale moneta esistenziale intendono ripagare
Dio. Poiché «se uno solo (ma quale uno!) è morto
per tutti, allora tutti sono morti» (2 Cor. 5,14), Dio
ha disposto in anticipo della morte di tutti, nella

26
supposizione che la suprema manifestazione della ca­
rità e verità divine, la morte di Gesù Cristo, forse
meriti di essere considerata anche dagli uomini come
la loro migliore possibilità, anzi la loro suprema ma­
nifestazione per Dio, e quindi come ciò che deve
essere scelto con assoluta libertà. Il credente altro
non sarebbe se non colui che ha compreso una tale
possibilità, e la sceglie. Non sarebbe, cioè, un uomo
che misura con due metri diversi: uno per Dio e
Cristo ed uno per sé.
La verità, che costituisce la misura della fede, è
la morte di Dio per amore del mondo - per l’uma-
nità e per ciascun membro di essa - nella notte di
croce di Gesù Cristo. Tutte le fonti della grazia sgor­
gano da quella notte: fede, carità e speranza. Tutto
ciò che io sono, in quanto sono qualcosa di più che
un essere caduco e senza speranza, le cui illusioni
sono tutte distrutte dalla morte, lo sono a causa di
quella morte che mi apre l’accesso al Dio che appaga.
Io fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me,
affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del
suo sangue. Perciò, l’amore che ne traggo nella fede,
non può essere di natura diversa da quello del se­
polto.
La fede cristiana è, con ogni possibile urgenza,
l’anticipazione dell’offerta della mia vita a Cristo.
Come il Dio trinità, mistero d’amore, giustificabile
soltanto nell’amore (poiché non aveva bisogno di
noi), si è quasi proiettato fuori di sé, in modo che
dalla vita eterna è caduto nel mondo ed è morto
abbandonato da Dio, così la fede può essere soltanto
una proiezione che l’uomo, rispondendo con la gra­

27
zia, fa di se stesso in Dio, dimostrandosi ricono­
scente a Dio col dimostrare che ha compreso.
Fermandosi alla superficie, si potrebbe vedere in
queste considerazioni una ripresa del pensiero filoso­
fico secondo cui l ’uomo, faccia a faccia con la morte,
all’interno del proprio orizzonte fa filosofia, perché,
nella cosciente anticipazione della morte, egli è spi­
rito che trascende il mondo . Nella concezione cri­
stiana la situazione è completamente diversa: la
morte di Cristo è per noi lo spuntare della gloria
divina dell’amore, e concepire se stessi, in base a
questa morte, come esistenza di fede, significa dare
di sé un’interpretazione che si fonda non sopra un
fenomeno terminale e marginale, ma nel centro as­
soluto della realtà. Ciò esige che l ’uomo possa coin­
cidere con questo centro soltanto toccandolo con il
suo termine, la propria morte, cercando di compren­
dere la serietà dell’amore di Dio mediante il proprio
caso serio.
L ’anticipazione della propria morte come risposta
alla morte di Cristo è il modo per assicurarci seria­
mente della nostra fede. Se fede significa riconoscere
alla verità di Dio il primato su ogni nostra verità
(con la nostra conoscenza, i nostri dubbi* la nostra
ignoranza, le nostre incertezze e riserve), l ’inizio del­
l ’esistenza al di là del possesso di ogni verità umana
e problematica è la prova, a noi possibile, che diamo
la prevalenza alla verità di Dio sulla nostra. Che
questo già sia amore, non c’è bisogno di dimostralo.
Le parole di Gesù: «Nessuno ha maggiore amore di
colui che dà la sua vita per i suoi amici» (G v. 15,13)
sono fondamentalmente parole di umanità universale,
comprensibili a tutti; diventano supreme ed un mi­

28
stero sia perché egli le rivendica per sé, Figlio di
Dio, sia perché permette a noi, suoi fedeli e seguaci,
di farne la chiave della nostra concezione cristiana.
Esistenza di fede significa dunque esistenza nella
morte per amore. Non una qualsiasi dedizione, tem­
perata dal giudizio del momento e manipolata dal­
l ’uomo, ma un’anticipazione dell’offerta della vita
in ogni singola situazione di una esistenza cristiana.
«Ecco da che cosa abbiamo conosciuto l ’amore: dal
fatto che egli offrì per noi la sua vita. Anche noi
quindi dobbiamo per i fratelli offrire le nostre vite»
( i Gv. 3,16): in questo assioma del discepolo pre­
diletto ‘l ’amore’ è l ’amore assoluto, quale è apparso
in Cristo nel mister«?, ma assumendo in sé e supe­
rando tutti i drammi ed i racconti di morti per
amore che si trovano nella letteratura mondiale, così
che noi, credendo il mistero, nello stesso tempo lo
possiamo comprendere, e dalla fede-che-comprende
possiamo trarre per noi la conclusione. L ’offerta della
vita per i fratelli non è un’offerta dosata, umani­
stica; essa ritorna sempre dall’orizzonte della morte
(di Cristo, perciò anche del fedele) alla situazione
concreta «di vita. Comprendendo con la fede che
Gesù ha subito la morte per me, acquisto mediante
la fede (non altrimenti!) il diritto di concepire la mia
vita come una risposta ad essa. Se è diritto, ha per
suo rovescio il dovere di prendere sul serio il caso
serio, in base al quale do un’interpretazione di me
stesso.

29
3· Solitudine della morte e missione

Moriamo soli. Mentre la vita, fin dal seno ma­


terno, è sempre comunione, tanto che un io umano
isolato non può né nascere, né sussistere, e nem­
meno essere immaginato, la morte sospende per un
momento senza tempo proprio la legge della comu­
nione. G li uomini possono accompagnare fino alla
estrema soglia il morente, che può anche sentirsi ac­
compagnato, soprattutto se è la comunità dei santi
ad accompagnarlo nella fede in Cristo; tuttavia vali­
cherà la stretta porta solo ed isolato. La solitudine
spiega ciò che la morte è attualmente; la conseguenza
del peccato (Rom. 3,12); cercare ciò che essa altri­
menti potrebbe essere, è ozioso.
Cristo ha preso su di sé per i peccatori la morte
ad essi dovuta con radicalità estrema, con intensità
drammatica, tanto che non solo fu abbandonato
ostentatamente da tutti gli uomini, non solo fu re­
spinto dai pochi che parteggiavano per lui, ma rimise
esplicitamente nelle mani del Padre divino l ’eterno
vincolo d ’unione che a lui lo collegava, lo Spirito
santo, per sperimentare fino all’ultimo l ’abbandono
completo anche da parte del Padre. Tutta la ric­
chezza dell’amore dev’essere raccolta e semplificata

30
in questo punto d ’unione, affinché, fluendo da esso,
si possa avere una fonte e una riserva eterna.
Non esiste, perciò, sulla terra comunione nella
fede che non derivi dall’estrema solitudine della
morte di croce. Il battesimo, che immerge il cristiano
nell’acqua, lo separa, nella forte immagine della mi­
naccia di morte, da ogni comunicazione, per por­
tarlo alla vera fonte, dalla quale tale comunicazione
ha inizio. La fede stessa, nella sua origine, sta ne­
cessariamente faccia a faccia con l ’abbandono che il
mondo e Dio hanno fatto del crocifisso. Necessaria­
mente, qualunque sia la forza o la debolezza con la
quale colui che incomincia a credere sente la solitu­
dine. È solitudine al-di là di tutti i legami mondani,
animali e spirituali; solitudine che riprende ad un
nuovo livello il «monos pros monon», solo verso il
più solo, di Plotino; il più solo non è Dio (che è
trinità), ma il Figlio, abbandonato dal Padre, nel
momento in cui sulla croce rende lo spirito.
Esiste realmente, nonostante i motteggi dei mo­
derni teologi umanistici, l ’individuo cristiano. Non
è affatto necessario presentarlo nel senso di Lutero o
in quello di Kierkegaard, secondo i quali l ’individuo
difficilmente può essere pensato come membro della
comunione dei santi; è sufficiente che venga presen­
tato biblicamente. Abramo è chiamato alla fede come
uomo completamente solo. È solo nei confronti di
Sara, torna ad esserlo nei confronti di Isacco. Mosè
deve presentarsi solo dinanzi all’Invisibile nel roveto
ardente, e per quaranta giorni è solo dinanzi all’Invi­
sibile nella nube della gloria sul monte. Elia lo incon­
tra dopo aver desiderato di morire e dopo aver cam­
minato quaranta giorni fino all’Horeb per dire a

3i
Dio: «Sono rimasto soltanto io; eppure essi cercano
di togliere anche la mia vita» ( i Re 19,4.10.14).
Nella visione che interrompe ogni rapporto con il
mondo, i grandi profeti vengono incaricati della loro
missione soli dinanzi a Dio. La madre del Signore
viene eletta in una solitudine che incute paura, e
soltanto dopo che ha conosciuto la sorte che la isola
in modo assoluto, con l ’accenno ad Elisabetta viene
nuovamente collegata con gli uomini. Anche Paolo
viene chiamato nell’isolamento, poiché il fuoco del
Signore lo colpisce con la cecità per ogni altra cosa.
E nella Chiesa nulla mai è divenuto fecondo, che
non sia giunto alla luce della comunità dall’oscurità
di una lunga solitudine.
Non si obietti che in questi casi si tratta non della
fede, ma di missioni straordinarie. Le grandi mis­
sioni hanno necessariamente un valore esemplare,
poiché le «colonne della Chiesa» determinano lo stile
di tutto l ’edificio e danno la norma (canone) per
tutti: sono una mediazione chiarificatrice tra la soli­
tudine di Gesù Cristo ed il fondamento della fede
di ciascuno cristiano. Le missioni, sia le grandi sia le
più piccole (ed ogni cristiano ne ha una), derivano
tutte dallo stesso punto. Anzi, missioni e carismi
non vengono ripartiti entro la comunità, ma «a cia­
scuno sono assegnati da Dio secondo la misura della
fede», dal faccia a faccia con Dio entro il corpo eccle­
siale dalle molte membra (Rom. 12,3-4). Soltanto
nella solitudine il cristiano può essere chiamato per
la Chiesa e, nella Chiesa, per il mondo; come un iso­
lato, che nel momento della chiamata non può essere
protetto visibilmente da nessuno; nessuno gli toglie
la responsabilità del suo consenso; nessuno si può

32
caricare della metà del carico che Dio gli addossa.
Per quanto Dio possa anche riunire le missioni, ogni
inviato deve prima essere stato solo dinanzi a Dio.
Nessuno può essere inviato se prima non ha rimesso
tutto completamente in Dio, in piena libertà, cosi
come un morente, che peraltro lo deve fare per forza.
Solo se per principio tutto è offerto e sacrificato, se
Dio è libero di scegliere ciò che vuole nel credente,
senza riserve da parte sua, può aver luogo una mis­
sione cristiana. Solo da questo punto dell’incontro
con il Dio che muore, può infatti maturare un frutto
cristiano da una esistenza di fede. Questo è sempre
un frutto dell’amore, ma fondato sull’offerta che l ’uo­
mo fa di se stesso. È quindi impossibile, nell’incon­
tro con la croce, portare con sé come condizione
l ’amore del prossimo quale viene concepito sul piano
naturale. In quell’incontro non sono possibili con­
dizioni di nessun genere, che un uomo possa porre
relativamente agli altri uomini. L ’amore cristiano del
prossimo è piuttosto il risultato del suo sacrificio,
così come Dio Padre fa servire alla redenzione del­
l ’umanità il sacrificio del Figlio abbandonato. «Se il
chicco di frumento non cade in terra e non vi muore,
resta solo; se invece muore (solo), porta molto frut­
to» (G v . 12,24).
E poiché il «molto frutto» non è affatto in rela­
zione con leggi biologiche o psicologico-propagandi-
stiche, ma viene dato da Dio all’uomo morto una
volta per sempre nel battesimo e nella fede e risu­
scitato dalla forza di Dio, esso è frutto della vita
eterna nel tempo. La Chiesa dei primi tempi lo sa­
peva molto bene quando attribuiva ai martiri una
fecondità soprannaturale per il mondo e la cristia-

33
3 - Corchila ovverosia il caso serio
nità. Non conta quindi il fatto che soltanto alcuni
cristiani che hanno sentimenti particolarmente radi­
cali fondino la loro fede nella morte di Cristo, men­
tre gli altri (probabilmente la maggioranza) possono
accontentarsi di dare alla vita umana naturale una
certa trasfigurazione soprannaturale - un dualismo
d ’altra parte che si vorrebbe chiarire distinguendo
tra «distaccato dal mondo» (in senso escatologico)
e «rivolto al mondo», oppure con «stato dei consi­
gli» e «stato dei precetti». D i questo non si parla,
perché tutti sono «battezzati nella somiglianza della
sua morte» e «congiunti con lui in modo vivo»; per
tutti è vero che «l’uomo vecchio è stato crocifisso
in noi» e che «se siamo morti» (Rom. 6,34.8) e
«sepolti» (Col. 2,12) con Cristo, con lui siamo anche
risorti e saliti al cielo (Ef. 2,6; Col. 2,12); perciò
«la nostra patria è il cielo» (FU. 3,20; Eh. 12,22) e
conseguentemente la terra è il nostro esilio ed il
nostro luogo di pellegrinaggio (1 Pt. 2 ,11; Eb. 1 1 ,
9,13). Marco rileva che Gesù «convocò la folla con i
suoi discepoli» per dire loro la necessità assoluta di
portare la croce e di perdere la propria vita (Me.
8,34 s.). Luca lo ripete (14,235), aggiungendo il
monito della rinuncia completa ai beni: «Così, dun­
que, chiunque di voi non rinunzia a tutte le sue so­
stanze non può essere mio discepolo» (vers. 33).
Tutto ciò è cristianesimo comune. Possibili diffe­
renze dipendenti dalla missione vengono soltanto in
seguito. Tutto ciò rientra nel tentativo di imitazione
di colui che come Cristo per amore del mondo vuole
darle la sua vita per tutti, in obbedienza a quel Dio
che ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo
Figlio unigenito. Vista dall’interno (e qui la si vede

34
già dall'esterno) questa è la forma più alta, cioè in­
trodotta da Dio, di affermazione del mondo. Per
l ’egoismo si può abusare di tutto, anche di quell’in­
vito al momento di morte dell’amore, dove sgorga
la fede, che può essere concepito come un asilo tran­
quillo contro gli assalti del destino, anzi come anti­
cipata assicurazione della vita eterna. Ma come può
il momento della morte nell’abbadono di Dio, quan­
do il cielo si oscura, la terra trema ed i sepolcri
si aprono, essere un rifugio, e non piuttosto l ’espo­
sizione più nuda a tutte le potenze del mondo? «Na­
scondimi nelle tue ferite», si diceva nell’antica pre­
ghiera: ma in quale altro luogo si sarebbe invece più
esposti? In quale altro luogo si è maggiormente si­
curi di ricevere più colpi? E tuttavia là si è di nuovo
al sicuro, perché è il posto ultimo, senza posto, la
completa apertura nella morte-come-amore.
Non c’è per il mondo alcun altro prototipo del­
l ’amore se non questo, che gli è stato posto da Dio.
Ora non è più possibile cavarsela con un concetto
intramondano, umanistico, dell’amore per adattarsi
in ultimo, quando esso fallisce, a quello coniato da
Cristo. Se il primo non si può inserire nel secondo,
se non ne è apertamente o segretamente caratteriz­
zato in anticipo, nel momento del fallimento non ci
si potrà illudere di essere vissuti fino allora nel­
l ’amore. Ciò vale tanto per il cristiano quanto per il
non cristiano. Dal battesimo, dalla fede il cristiano
è posto nell’unica forma di amore che sia gradita a
Dio. La forma che apertamente o segretamente de­
riva dal caso serio.
La libertà del cristiano viene acquistata, come giu­
stamente ha compreso Lutero, nella morte. Nella

35
morte di Cristo per me, alla quale posso rispondere
soltanto con la mia disposizione a morire per lui, o
meglio, con il mio essere morto in lui. Il Figlio è
libero poiché nell’obbedienza al Padre è giunto al
punto estremo (eis telos, Gv. 13,1) in cui nulla più
lo può assalire, semplicemente perché tutto lo ha già
assalito. Egli è al di là, è libero. «Ama sicut Christus
et fac quod vis», nel caso che tu possa ancor agire.
Ma egli stesso nella sua vita terrena ha sempre agito
di là, ha pagato l ’arditezza, si direbbe la temerarietà
delle sue azioni con l ’aggravamento delle sofferenze.
Le sue azioni sono coperte dal caso serio della croce.
Nello Spirito santo egli è certo della sua obbedienza
fino all’ultimo, e ne può disporre in anticipo. Ciò lo
rende infinitamente superiore. Egli non ha bisogno
di legarsi ad una legge che non sia la sua: l ’identità
della sua obbedienza con la sua libertà nel punto
estremo verso il quale corre, che egli realizzerà infal­
libilmente, perché la ragione della sua esistenza è sol­
tanto questa corsa: «Devo ricevere un battesimo, e
come sono angustiato finché non sia compiuto!»
(Le. 12,50).

36
4· A ll’origine della Chiesa

La Chiesa nasce sulla croce; l ’angoscia mortale di


fronte al peccato del mondo e all’abbandono del
Padre apre lo spazio in cui essa può stabilirsi. Avreb­
be potuto formarsi senza l ’assistenza della seconda
Èva, il cui assenso a Dio aprì un giorno al Figlio
la via dell’incarnazione, il cui consenso viene ora ac­
colto esplicitamente nell’ambito della sua angoscia
mortale? La fede dice di no. Non possiamo scru­
tare a fondo questa duplice fecondità, che nell’estre­
ma separazione («Donna, ecco il tuo figlio») celebra
la suprema unificazione: il sì del Figlio nella mor­
te sta nell’ambito del no del Padre; il sì della
madre alla morte del figlio sta nell’ambito del suo
no: essa viene abbandonata, respinta, per essere più
unita a colui che è abbandonato e respinto dal Padre.
Il sì di Cristo è da uomo: è dato per portare ogni
colpa ed ogni abbandono al posto di tutti. Il sì di
Maria è da donna: è accordo con i suoi carnefici,
con il suo sprofondare nella notte. Essa non può
dare altro aiuto se non lasciando che ciò avvenga, e
sapendo bene chi è suo figlio. Le spade che la trafig­
gono — poiché essa deve trovare l ’amore appunto
nell’essere d ’accordo, senza protestare, senza reagire,
ma di tutto cuore, con le cose peggiori che purtroppo

37
non devono toccare a lei, ma a lui - da un punto di
vista umano ci sembrano più crudeli di quelle che
dilianiano lui. Oggettivamente, sembra quasi che fac­
cia ciò che una madre e una sposa vorrebbero con la
massima cura evitare: immergere se stessa come
spada nel corpo e nello spirito del figlio. Sì, soffri!
sì, muori! sì, ti riesca duro comunque vada! Come
se la madre, per amore estremo, dovesse maneggiare
le armi che i peccatori usano contro di lui per odio.
Come se il figlio lasciasse di buon grado che ciò av­
venga, affinché la madre sia iniziata all’estremo della
sua morte come all’estremo del mondo che uccide.
Il terribile dovere dell’amore di essere d ’accordo
con la morte, il «martirio incruento» di Maria, è il
caso serio da cui nasce la Chiesa. È la fecondità della
«mater dolorosa», della donna partoriente dell’Apo­
calisse. Il grido del parto coincide con il muto grido
di morte della madre alla morte del figlio. Ma il grido
di morte non è che la radicale conseguenza dell’as­
senso di Nazareth, che ha dato mano libera a Dio
per tutte le realtà divinamente incalcolabili, che tra­
scendono di molto le possibilità umane. Quell’assen­
so era già mortale, sia che Maria lo sospettasse o no.
Era, infatti, un assenso senza limiti (chi vuole op­
porre limiti a Dio?), che pertanto includeva l ’estre­
mo, il morire e l ’uccidere: e precisamente come even­
to accettato, se è «secondo la tua parola».
Questo sì è la fonte e l ’origine di ogni preghiera.
La preghiera ha la sua misura in questo sì. Poiché
il sì è rivolto a Dio, è una parola di preghiera. Pre­
cede l ’iniziale parola di invito dell’angelo, che crea
l ’occasione e lo spazio per l ’assenso, e questa parola
realizza tutte le sue promesse in croce, dove il Verbo

38
diventa carne offerta e consumata, in modo che in
questo spazio approntato può risuonare anche l ’as-
senso completo. Ogni preghiera di Maria al figlio e
del Figlio al Padre viene compiuta nel rispettivo
essere d'accordo con la volontà del Padre. Ogni rin­
graziamento di adorazione è un’irradiazione del con­
senso senza limiti a tutte le vie della grazia disposte
dal Padre. Nessuna preghiera può porre condizioni;
essa inizia sul serio quando - sia pure tìmidamente
- si decide ad essere senza condizioni. Se nell’Antico
Testamento, prima di Maria, il contendere e il con­
trattare con Dio, la disputa e la resistenza, erano
ancora marginalmente permesse, perché il Verbo non
era ancora disceso fino alla croce e l ’uomo per la
sua sofferenza sembrava essere in un certo senso su­
periore nei confronti di Dio, dopo la croce ciò non
è più possibile, perché l ’accordo senza limiti di Maria
con l ’obbedienza senza limiti del Figlio al Padre è
divenuto il cuore della Chiesa. In base a questo è
caratterizzata la sua essenza e la sua parola di pre­
ghiera; essa è la

«legge per la quale tu inizi,


e nessun tempo e nessuna potenza frantuma
una forma archetipa, che vivendo si sviluppa».

Affinché la legge della prima ora non sia soltanto


un ricordo, che sempre più si allontana lungo i se­
coli, ma rimanga l’inizio di un presente sempre vivo,
nella Chiesa è presente il mistero della eucaristia.
In esso è reso presente il momento della nascita della
Chiesa, che coincide con il momento della morte del
Signore; la Chiesa celebra la sua nascita non tanto
come avvenuta nel passato, ma come in atto, che si

39
realizza sempre nel sacrificio, nella consacrazione e
nella cena, e questo nell’evento della morte del Si­
gnore: «Ogni volta che mangiate questo pane e be­
vete questo calice, voi annunciate (‘katangellein’ ) la
morte del Signore» ( i Cor. 11,26). Nasce di qui
l ’idea che della Chiesa ebbe Caterina da Siena: il
continuo ‘scorrere’ del sangue della croce, che pro­
duce nella Chiesa una continua espiazione e santifica­
zione, una continua assistenza della sposa alla morte
dello sposo. Caterina non è che un esponente sommo
e caratteristico di quella pietà eucaristica che si espri­
me nei libri e nelle raffigurazioni della messa «come
torchio mistico», come «vite», nella devozione alle
ostie che sanguinano, alle apparizioni del cuore san­
guinante del Signore, nel culto e nella raffigurazione
della Chiesa che esce dalla ferita del costato di Cri­
sto», che nello stesso tempo è la Chiesa con il calice
accanto alla croce, che raccoglie il sangue dalla fe­
rita, ecc. Tali materializzazioni del mistero, che in
parte sono popolari, oppure deviano in un esagerato
simbolismo, si possono anche rifiutare come non più
consone al nostro tempo: ciò però obbliga tanto più
profondamente e riflette con serietà sul mistero
originario, sulla «forma arehetipa», alla «quale tutte
queste manifestazioni hanno cercato di dare espres­
sione. È la forma in base alla quale la Chiesa è, in
modo che ogni fede ecclesiale in Cristo non può es­
sere che ordinata ad essa.
D i fatto: se la fede di Maria in quanto «Ecclesia
mater et sponsa» è fondata su questo evento, la fede
di Pietro, della Chiesa visibile, maschile-gerarchica,
è essenzialmente ordinata ad esso. La Chiesa pettina
viene istituita entro la confessione di fede di Pietro,

40
in una fede che trascende «carne e sangue» ed è
fondata dal Padre celeste. Da un tale oggettivo con­
tenuto di fede, che trascende la soggettività di Pietro
confitente (M t. 16,21-23), Gesù prende occasione
per costruirvi sopra la Chiesa e per obbligare Pie­
tro, che soggettivamente si impegna e che viene me­
no, a giungere in futuro a quel punto che la grazia gli
darà come suo estremo (éscaton): «Quando sarai
vecchio stenderai le braccia e un altro ti cingerà e ti
condurrà dove tu non vorrai. Disse questo per indi­
care con qual genere di morte doveva glorificare
Dio» (G v . 21,18-19). Anche Pietro, senza volerlo,
ma lasciando che si compia la volontà di un altro,
mentre in disparte ^rinnegava e piangeva, giungerà
infine là dove stava Maria.
Tra il punto di partenza di Maria ed il punto di
arrivo di Pietro si sviluppa in modo vivo la forma
coniata della Chiesa, che non sfugge a questo cer­
chio. Il singolo presente di essa è occupato nel rea­
lizzare il suo futuro, che non raggiunge la sua ori­
gine mai realizzata; infatti, chi nella Chiesa può dire
di essere al punto di Maria? Il futuro della Chiesa
è l ’arrivo per essa del «segno del figlio dell’uomo
nelle nubi» e la visione di Lui esistenziale svelata.
«Videbunt in quem transfixerunt: vedranno colui che
hanno trafitto»: Z c. 12,10; G v . 19,37; Ap. 1,7.
La Chiesa nella sua verità è caratterizzata dalla
forma della sua origine e della sua fine; ciò che si
attua frammezzo in tanto è Chiesa come ‘corpo’ e
come ‘sposa’ in quanto si adatta a tale forma.
«Figlioli miei, di nuovo io soffro per voi i dolori del
parto, finché Cristo non acquisti forma in voi» {Gal.
4,19), naturalmente la «forma di schiavo in cui egli

4i
si esinanì, affinché abbiate così gli stessi sentimenti
di Cristo Gesù» (FU. 2,5-6). Ciò vale perché la Chie­
sa non è un collettivo astratto od un «soggetto mo­
rale», ma è la realtà misteriosa di una seconda Èva
fatta a somiglianza del secondo Adamo, concreta e
personale al pari di lui, e che perciò non esiste se
non come prolungamento dell’originario atteggiamen­
to personale e normativo in una quantità di persone
che vi partecipano mediante la grazia cristologica. La
Chiesa è un edificio che poggia essenzialmente su
colonne (Ap. 3,12; Gal. 2,9), è edificata sul «fonda­
mento degli apostoli e dei profeti, con lo stesso
Cristo Gesù quale pietra angolare. In lui tutta la
costruzione, ben compaginata, cresce come tempio
santo nel Signore» (E f. 2,20-21). Tale struttura on­
tologica viene fissata palesemente per tutta l ’eterni­
tà nella forma perfetta della Gerusalemme celeste,
in cui la forma della Chiesa dei dodici apostoli si
fonda sulla forma delle dodici tribù di Israele.
Il D io di Israele era solo il Dio di Abramo, quan­
do lo stampo della promessa veniva fondato nella
fede assolutamente aperta; egli è il D io di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe, triplice accentuazione li­
neare del fondamento personale del popolo, corri­
spondente alla misteriosa forma trina dell’appari­
zione di Dio a Mambre. Soltanto allora i dodici figli
e da essi le dodici tribù. La forma di realizzazione
del Nuovo Testamento non è più temporale-lineare,
bensì nuziale nel sì della croce: sposo e sposa, fidan­
zamento per le nozze escatologiche (Ap. 19,7-9). Da
questo cerchio perfetto sono inviati i dodici, ma a
ciascuno di essi appartengono ancora dodici - il ca­
rattere di fondatori viene trasmesso dagli apostoli

42
nella Chiesa - prima che dietro i centoquaranta-
quattro si associno le migliaia «da tutte le tribù e
lingue, popoli e nazioni».
I dodici, che stanno dietro i dodici fondamentali
ed ancora come ‘singoli’ servono da mediatori alla
«Chiesa come popolo» e lo rendono possibile, sono
senza dubbio quei fedeli che hanno ricevuto ed as­
sunto direttamente come loro forma di vita la forma
di Cristo (che è nello stesso tempo la forma di Ma­
ria) e la cui esistenza è orientata verso il sì esclusivo
alla volontà del Padre (obbedienza), nella disposi­
zione attiva che non è impedita da nessun possesso
proprio (povertà), non è limitato da nessun legame
umano indissolubile «(verginità). La forma di vita
cristologico-mariologica ha la forma più marcata nel­
la morte per amore in croce e sotto la croce. Ma
nella morte ogni uomo ha semplicemente rinunzia­
to a disporre di sé (obbediente), è completamente
povero e casto; tuttavia, i singoli gruppi di dodici
che sono fondati, nella conformazione ai fondatori
e colonne della Chiesa, assumono in anticipo volon­
tariamente questa forma di vita, che per l ’azione e
la grazia di Cristo nasconde in sé la forza redentri­
ce del mondo. Infatti, poiché egli si è fatto obbe­
diente fino alla morte in croce, Dio gli ha dato il
nome glorioso di redentore del mondo (Fil. 2,8-11);
poiché si è fatto povero, può arricchire tutti gli altri
(2 Cor. 8 ,11; 6,10); poiché è vergine, può unire a
sé come sposa tutta la Chiesa (2 Cor. 11,2 ) e realiz­
zare eucaristicamente i misteri carnali del paradiso
(Ef. 5,27) e del Cantico dei Cantici: «Il corpo per il
Signore ed il Signore per il corpo» (1 Cor. 6,13). Nel­

43
la Chiesa del Signore la partecipazione alla vita di
Cristo e di Maria non può essere riservata ad un
gruppo di originali isolati, che svolgono il loro culto
particolare in una specie di cappella laterale del san­
tuario in cui celebra il popolo della Chiesa; piuttosto
questa partecipazione avviene in quel luogo dove la
Chiesa, dalle persone che sono all’origine, si apre al
fiume ed al mare del popolo ecclesiale, oppure dove
la Chiesa dalle fondamenta incomincia ad innalzarsi
in un edificio, che però in nessun momento può pre­
scindere dal triplice fondamento mediatore e rendersi
indipendente nella sua struttura propria. La costru­
zione è piuttosto un «edificio di Dio» ( i Cor. 3,9)
che cresce sempre dalla pietra fondamentale (‘auxei’,
Ef. 2,21), eretto dai «collaboratori di Dio», e le cui
singole pietre devono di buon grado «lasciarsi edi­
ficare, simili a pietre viventi, come edificio spirituale»
(1 Et. 2,5). Un tale permesso fa sì che le pietre con­
teste assumano qualcosa della forma di vita delle
persone che stanno all’origine e diventino anch’esse
un «sacerdozio santo» per offrire «vittime spirituali»
(ibid..), cioè «per offrire il loro corpo come ostia v i­
vente, santa» (Rom. 12 ,1) ed aver così parte nello
spirito e nei sentimenti alla vita dei consigli di Cri­
sto (1 Cor. 7,29-31).
Lo stato matrimoniale (e lo stato, ad esso congiun­
to, in cui si possiede e si dispone di cose mondane)
in sé è uno stato della creazione e quindi uno stato
nel tempo che scorre; diventa uno stato di testimo­
nianza per Cristo nella misura in cui, entro la forma
di vita che gli è propria (e senza ridurla, 1 Cor. 7,
2-5), realizza lo spirito dello stato di Cristo e di

44
Maria: mediante il sacramento e mediante i senti­
menti personali. Anche il sacramento del matrimo­
nio conferisce benedizioni in base alla croce e co­
munica grazie in base al confine della morte: grazie
dell’amore-che-rinuncia per tutti i giorni della vita
temporale. G li sposi sono privati del potere di di­
sporre del loro corpo a vantaggio del coniuge ( i
Cor. 7,4), la moglie è ‘carne propria’ del marito, il
cui amore di sé viene però trasferito nella moglie
(E f. 5,28); regola e norma per entrambi è il rap­
porto verginale tra Cristo e la Chiesa.
Questo doveva essere qui ricordato, affinché si
comprenda che la Chiesa può essere descritta morfo­
logicamente solo se· nello stesso tempo viene de­
scritta geneticamente. Soltanto la formazione dalla
‘morphé’ di Cristo ne spiega l’essere. Anzi, la Chiesa
non ha un essere che possa essere staccato la Cristo,
è un continuo formarsi da lui, ed il luogo della for­
mazione a sua volta è sempre il luogo dove avviene
lo ‘scambio meraviglioso’ tra il peccato e la grazia,
tra la morte e la vita: la croce. Soltanto sulla croce
si fa chiaro lo scopo dell’incarnazione di Dio; non si
può perciò parlare di una «tendenza all’incarnazio­
ne» di Dio nella storia passata e futura del mondo,
senza premettere lo scopo di questo movimento di
Dio. La Chiesa non può neppure essere compresa
nello stato immanente di sviluppo (come «popolo
santo»), se non si ricorda continuamente chi è l ’au­
tore dello sviluppo e della legge essenziale alla quale
essa obbedisce. Se la Chiesa è l ’albero cresciuto dal
piccolo granello di senapa della croce, quest’albero
è destinato a produrre a sua volta granelli di senapa,

45
e quindi frutti che ripetono la forma della croce,
perché proprio alla croce devono la loro esistenza.
Producendo frutti, la Chiesa ritorna alla propria
origine.

46
5 · Mistero di gloria

La croce è l ’autoglorificazione dell’amore di Dio nel


mondo. Lo si può comprendere soltanto se si riflette
con fede sulPavvenimento nascosto della croce: por­
tando tutti i peccati - e ciò lo precipita nella più
oscura di tutte le notti - l ’amore eterno si pone nelle
tenebre estreme dell’abbandono di Dio, per dimo­
strare, nella estrema debolezza, d ’essere più forte
di tutta la colpa del mondo. Non soltanto la morte
corporale, ma anche l ’esperienza di ciò a cui porta
il peccato viene subita come ima manifestazione del­
l ’amore eterno e quindi della vita eterna; l ’estrema
involontarietà nell’esperienza della sofferenza (all’in­
chiodamento fisico corrisponde l ’ineatenamento spi­
rituale, molto più terribile) rimane funzione di ima
estrema volontarietà: «Per questo il Padre mi ama,
perché io dò la mia vita, per riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: la dò da me. H o il potere di
darla e il potere di riprenderla» (Gv. 10,17-18). Il
potere di dare implica il potere di riprendere. Non
c’è alcuna incertezza che il Figlio risorgerà; morte e
risurrezione non sono che due facce di uno stesso
avvenimento d’amore; la gloria, che diviene visibile
a Pasqua, è già presente nella gloria velata del ve­
nerdì santo, così come la colonna di Dio nel deserto

47
poteva apparire ora oscura ed ora luminosa, poiché
la gloria è appunto l ’amore di Dio che si glorifica
dinanzi a tutto il mondo. L ’amore ha in se stesso la
propria ricompensa. Ciò non significa che alla soffe­
renza più profonda possa essere riservata la somma
beatitudine ad essa adeguata: notte e luce sono tra
loro correlativi nella epifania d’amore di Gesù Cristo.
Significa invece che l ’amore, che dal risorto fluisce
nella Chiesa e nel mondo, è dischiuso, fatto fluire,
liberato dal colpo di lancia. Col cuore aperto è libero
anche lo Spirito santo: essenzialmente come Spirito
del Padre, che ha fatto soffrire il Figlio perché ha
tanto amato il mondo, ma anche come Spirito del
Figlio che, prima di morire, lo ha rimesso nelle
mani del Padre, per morire nelle tenebre estreme,
«abbandonate dallo spirito». Le ferite sono trasfigu­
rate, lo spirito è pentecostale, la Chiesa sta nella
luce pasquale, che il Signore le ha meritata. Ma ogni
trasfigurazione ed illuminazione di un’esistenza cri­
stiana non può dimenticare di sgorgare dall’oscurità
della morte. Già in croce e durante la sua discesa
agli inferi il tempo è eliminato per il paziente. Per­
ciò, questo avvenimento non dev’essere collocato
dietro di noi quasi fosse un passato" temporale (la
ripresentazione della morte nell’eucaristia deve met­
terci in guardia dal farlo), e di passato si può parlare
nella misura in cui tra la croce e la Pasqua viene col­
locato l ’elemento irreversibile dell 'evento della re­
denzione. Entro questo evento è fondata la Chiesa.
Facciamo però attenzione: il corso della soffe­
renza nell’ultima notte è il corso della vita presente
fino al limite estremo che le è proprio. Qui l ’amore
umano (divino) del Signore raggiunge le proprie di-
mensioni estreme. È, questo, l ’ideale, la misura pie­
na, la norma suprema di un amore umano. «Nessuno
ha un amore più grande...». La trasfigurazione pa­
squale è l’al di là che, al confine, apre le porte della
vita eterna a colui che muore di qua: a tutto il
Cristo, spirito, anima e corpo. Il Signore celeste,
eucaristico, non può più in alcun modo trovare po­
sto nel vecchio cosmo. La dimensione che si apre
per accogliere nella trasfigurazione il cosmo - nella
«primizia Cristo» ( i Cor. 15,23) - non è disponi­
bile in alcun modo per il cosmo (neppure come pro­
prio futuro). La storia del mondo non è in nessun
caso una progressiva cristificazione del cosmo, sia
mediante l ’eucaristia e lo sfruttamento di essa per
scopi mondani, sia mediante devoluzione delle «virtù
teologali» alla comune opera mondana dell’umanità.
Una simile visione dimenticherebbe due cose: pri­
mo, che l ’al di qua delle «ultime cose» (éschaton) è
la morte di croce; secondo, che la Chiesa ed il sin­
golo cristiano sono sempre collocati nel duplice mi­
stero unitario di croce e risurrezione: «Voglio dive­
nire conforme a lui per la morte, perché m’awenga
d ’arrivare alla risurrezione di tra i morti» (FU. 3 ,11).
«Sepolti con lui per il battesimo, in lui pure siete
risorti per la fede nella forza di Dio, che ha risusci­
tato lui di tra i morti» (Col. 2,12). L ’evento di que­
sta svolta è dato ai cristiani come il centro della loro
esistenza.
Verso dove sono quindi orientati? Verso un punto
che, in base al mondo antico, non è affatto possibile
determinare. In mancanza di meglio, ma molto ambi­
guamente, lo si può chiamare ‘escatologico’, ed i

4 - Cordula ovverosia il caso serio


escatologiche». Ma questo che cosa significa? Che
essi si trovano là, dove il mondo antico per grazia
di Dio si trasforma nel nuovo. E ciò nella morte di
Cristo - che viene loro risparmiata come «maledi­
zione», perché «Cristo per noi è divenuto maledizio­
ne» {Gal. 3,13) - alla quale devono essere «confor­
mati» per grazia (FU. 3,10) — e precisamente già nel
punto di partenza della vita cristiana, nel battesimo
- per aver sempre anticipatamente, in ogni azione
terrena, il loro cuore (Mi. 6,21). il loro diritto di cit­
tadinanza in cielo (FU. 3,20). Dove hanno i cristiani
in definitiva la loro dimora? Essenzialmente nel­
l ’evento stesso. Nel tendere ad esso tralasciando tut­
to il resto (FU. 3,12-14), «nella seria aspirazione di
entrare nel riposo» (Eb. 4 ,11), come persone «che
cercano una patria» (Eb. 11,14 ), «correndo con per­
severanza nella gara che viene a noi proposta» (Eb.
12,1). E questa gara, così esorta ancora la lettera
agli Ebrei, la dobbiamo compiere guardando a Gesù:
«Riflettete infatti a colui che ha sostenuto una così
grande ostilità contro di sé da parte dei peccatori,
per non stancarvi perdendovi d’animo. Non avete
ancora resistito fino al sangue lottando contro il pec­
cato» (12,3-4). È quindi una corsa che sempre viene
misurata sulla lotta estrema di Gesù contro il pec­
cato, si svolge entro i suoi confini. Il cristiano vive
nell’ambito dell’evento dell’amore assoluto, cioè nel­
l ’ambito di quell’infinito al di là del quale non si
può immaginare nulla di più grande («id quo majus
cogitari non potest»). Chi cerca di immaginare que­
sto più grande, di far vela «verso nuovi lidi», cade
nel vuoto e distrugge l ’uomo che è stato creato per
amore del più grande e del sempre più grande. Esso

50
non è soltanto un’«idea» (che trascende ogni concet­
to), o soltanto un «essere» (assoluto), ma è in modo
esplicito l’attuazione nel mondo di quell’«essere» che
è l ’amore assoluto, che si verifica in modo trinitario
tra Padre e Figlio nello Spirito, in un evento sia ge­
nuinamente storico dal punto di vista umano, sia
(perché è evento divino) onnistorico e superstorico,
che tocca direttamente ognuno di noi.
Per il cristiano tale evento è il centro dell’esi­
stenza, e tutti i valori del mondo gravitano per lui
intorno a questo centro. Non si può dire che l ’evento
di morte e risurrezione stia alla fine estrema del mon­
do, e che sia pertanto un fenomeno marginale, che
senza punizione e legittimamente possa essere evi­
tato fino a quando il cristiano abbia soddisfatto i
suoi doveri in «un mondo mondano». Piuttosto si
deve dire che tutte le cose mondane si dispongono
in modo concentrico attorno al centro del più gran­
de, la cui caratteristica di mistero irradia su tutto
ciò che esiste. Per il cristiano non c’è un essere «neu­
trale» che dal mistero dell’amore assoluto non venga
toccato, illuminato, giustificato e spiegato in tutta
la sua casualità e problematicità. Tutto nel mondo
deve essere così, affinché possa verificarsi l ’estrema
pienezza dell’amore che D io ha voluto comunicarci.
Il mondo, per quanto assuma atteggiamenti profa­
ni, è bagnato dalla luce sacrale dell’amore assoluto,
non ne è illuminato soltanto esternamente, ma in­
fiammato nel suo più intimo.
Perché? Perché D io si è fatto carne. Perché l ’ac­
cento cade sul corpo, nel quale solo l ’anima si at­
tua. Perché il cristianesimo non è una religione di
«spirito ed acqua», ma di spirito, acqua e sangue
che, inseparabilmente uniti, rendono assieme testi­
monianza ( i Gv. 5,6-8). Dove il cristianesimo è sol­
tanto interiore e spirituale, non può vivere a lungo.
Paradossalmente, già nell’Antico Testamento la glo­
ria di Dio - nonostante la proibizione delle imma­
gini - è visibile. Visibile per i patriarchi, per Mosè,
per il popolo al Sinai, per Davide e Salomone, per
i profeti. E chi conosce questa visibilità, può allora
guardare anche in tutto il cosmo (Sai. r<); 97 ecc.).
La paradossale visibilità non solo viene ripresa nel
N uovo Testamento (‘kathoràtai’ , Rom. 1,20), ma
portata a compimento nella ‘gloria’ di Gesù Cristo:
questa «noi abbiamo vista» (‘etheasametha’, Gv. 1,
14), là dove sangue ed acqua fluiscono dal costato
del trafitto: «Chi ha veduto (heorakos), ne dà testi­
monianza» (Gv. 19,35). ‘Visibile’ significa: che en­
tra nel campo visivo dell’uomo considerato nell’unità
di spirito e di corpo; più ancora: che si impadronisce
del campo visivo per verificarsi in esso. La visibilità,
che alla fine supererà in evidenza tutto il resto
(«Ogni occhio lo vedrà», Ap. 1,7; Mt. 24,30), se­
condo la testimonianza dei discepoli, ha già avuto
inizio nell’esistenza di Gesù.
Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento è la
visibilità di colui che è essenzialmente invisibile
(G v. 1,18; 1 Tim. 6,16); l ’inaccessibile come tale si
crea un’epifania di gloria (Tit. 2,13), non per essere
dominato dagli uomini, ma per introdurli nel suo
campo. L ’esistenza in tale campo aperto si chiama
fede - accettazione di essere assunti da Dio in Cristo
- ed appunto per questo racchiude in sé la speran­
za della partecipazione alla vita eterna dell’amore,
che già si offre nell’apertura stessa del campo. Re­

52
golare la propria esistenza su queste tre realtà signi­
fica vivere secondo il caso serio. Soltanto una simile
esistenza è testimonianza (martyrion) per la verità,
della quale vive.
Che è divenuta oggi questa testimonianza? Per
comprendere le vie che vengono tentate dai cristiani
nel corso della loro testimonianza, si deve partire da
ciò che il mondo moderno contrappone quale con­
cezione generale al pensiero cristiano.

53
IL II sistema e l’alternativa
f;
i:

II
i. Le tesi del sistema

I due blocchi, orientale ed occidentale, fino ad ora


politicamente divisi, convergono tuttavia verso una
media visione generale del mondo che, ormai quasi
raggiunta, si può perciò descrivere in anticipo senza
alcun particolare dono profetico. Come oggi così do­
mani, essa, nella sua 'forma ben maturata, avrà innu­
merevoli sfumature e sette, congiunte però fra loro
con diversi rapporti. L ’elemento comune sarà nello
stesso tempo la nascosta forma radicale del sistema,
che, in quanto tale, ne è il caso serio, e come tale
non mancherà di manifestarsi.
Prima di Hegel ed anche dopo, è stato Kant a for­
mulare, con il duplice enunciato dell’autocritica che
la ragione fa della propria finitezza e del carattere
assoluto (infinito) della libertà, un punto di partenza
decisivo, che riassume gli elementi precedenti. Nel
medioevo, i due enunciati sarebbero stati in modo
assoluto una contraddizione, perché o l ’essere, che
può misurare la propria ragione come finita, parte­
cipa in qualche modo della ragione e della verità in­
finite, e perciò può avere nella propria libertà un
principio di infinità, oppure l ’essere, che dichiara se­
riamente che la ragione è finita, dovrebbe anche am­
mettere (la ragione e la volontà essendo due aspetti

57
correlativi dello stesso spirito) la finitezza della li­
bertà. Non così Kant, per il quale Tatto delTautode­
limitazione critica della ragione diviene un’assun­
zione di potere entro la sfera limitata, a partire dalla
quale, come dalla superficie sferica della piccola ter­
ra, di cui Tumanità ha assunto la direzione, diviene
possibile l ’indagine del circostante universo delle
idee. Sorprendentemente l ’immagine risale allo stesso
Kant. L ’uomo ingenuo, che costruisce sui suoi sensi,
deve ritenere che la terra sia un piatto; in base alla
esperienza, dovunque egli vada, vede sempre attorno
a sé dello spazio, in cui può avanzare, e quindi rico­
nosce i limiti della sua attuale geografia, «ma non i
confini di ogni possibile descrizione della terra. Ma
se sono giunto al punto di sapere che la terra è una
sfera e la sua superficie è una superficie sferica, an­
che da una sua piccola parte, ad es. dall’ampiezza di
un grado, posso conoscere, in modo determinato ed
in base a princìpi a priori, il diametro e mediante
questo l ’intera circonferenza della terra, cioè della
sua superficie... La nostra ragione non è un piano
ampiamente esteso in modo indeterminabile, i cui
limiti si conoscono solo in modo generico, ma deve
essere paragonata piuttosto ad una sfera, *il cui rag­
gio si può trovare dalla curvatura del terreno alla
sua superficie (dalla natura di proposizioni sintetiche
a priori), ma di cui si può anche indicare con cer­
tezza il contenuto e la circonferenza» (Critica della
ragion pura B 787, 790). Questa strana applicazione
di un’immagine scientifica alla realtà spirituale, co­
munque venga spiegata da Kant e da chi lo segue,
dà la chiave per il fatto principale: Tinfinità (libertà)
è la misura della propria finitezza; l ’uomo misura il

58
suo diametro. Se questo (sul piano naturale) gli pree­
siste, egli, prendendolo in mano (sul piano spiritua­
le), può prendere possesso di sé e guidarsi; l ’autono­
mia dell’uomo si dimostra precisamente nell’autopos-
sesso del proprio diametro. Schelling metterà ancor
più chiaramente in rilievo l ’imprevedibilità della li­
bertà umana (e quindi la coeternità di essa con Dio),
e Sartre la finitezza come suo presupposto. Ciò che
in tal modo viene stabilito sul piano speculativo nel
campo filosofico dell’idealismo tedesco, in seguito
viene confermato sul piano empirico, mediante l ’au­
toregolazione sperimentale dell’essere umano: l ’es­
senza, dal punto di vista cibernetico, ecc., diventa la
funzione dell’esistenza che si progetta liberamente.
A questa prima te'si dev’essere associata in modo
ugualmente essenziale la seconda: speculativamente,
come dimostra Fichte, la libertà esiste soltanto come
intersoggettività, come libera comunione. Si attua
in modo dialogico, nell’essere interpellato dal tu e
nell’interpellare il tu. Nel campo dialogico Feuerbach
vede l ’attuazione de «il divino» tra gli uomini, e
Marx ne trae le conseguenze pratiche: la creazione
ad ogni costo e con tutti i mezzi di quello spazio in
cui può svilupparsi in modo umano totale la inter­
soggettività. Ogni essere, che partecipa dell’essenza
dell’autonomia, l ’unica che sia preziosa, che dalla
natura emerga nel campo della libertà, come membro
del regno dialogico dello spirito appartiene all’asso­
luto, ha diritto alla tutela dei diritti umani. È l ’etica
dell’umanesimo.
La terza tesi è quella decisiva. Per ciò che si è
detto, il cosmo speculativamente non può più essere
immaginato se non come l ’autocomunicazione della

59
libertà (Fichte, Schelling, Hegel): se questa è l ’as­
soluto, ma in forma finita, deve conquistarsi me­
diante il non-io, la natura, mediante il superamento
dell’oggettività limitatrice; da idea deve diventare
realtà. Ciò che nell’idealismo è immaginato in modo
speculativo viene confermato nel modo più sorpren­
dente nella teoria empirica dell’evoluzione. La na­
tura è evoluzione creatrice, le forme si sviluppano
l ’una dall’altra in serie ascendente per via di una
dynamis che spinge verso l ’alto. Ma dynamis di chi?
Indubbiamente dello spirito, che vuole tornare a se
stesso; che, come idea che fonda tutto il regno della
natura, si muove verso se stesso come libertà realiz­
zata. Il regno della natura diventa, in Fichte specu­
lativamente, con Marx praticamente ed in modo
sempre più tecnico, il materiale e la miniera della
umanizzazione. Poiché l ’uomo, in quanto mèta di
essa, le è superiore, la natura perde l ’aureola della
mediazione al divino e diventa il ‘mondo monda-
nizzato’.
La quarta tesi è un corollario. Nel circolo tra idea
e realtà è racchiuso tutto l ’essere; perciò un Dio
fuori di questo circolo diventa superfluo, a meno che
si chiami divino l ’attuarsi della libertà ufnana. Lo
spirito, per definizione, è assoluto e padrone di sé.
Tutte le forme della religione perciò si possono, con
Hegel, includere nel circolo quali stadi preliminari
della conoscenza assoluta; sono realmente stadi dai
quali lo spirito, ancora legato alla natura ed ai sim­
boli, ancora isolato, guarda con devozione alla pro­
pria pienezza come all’ideale. Ma l ’assoluto non si
può sdoppiare. Può venire il momento in cui le de
nominazioni del sistema, quali teismo (panteismo)

60
ed ateismo, sono percepite come equivalenti. Fichte,
con profondissima convinzione, può difendersi dal
sospetto di ateismo, ed anche Hegel proibirebbe che
gli sia dato un simile epiteto, mentre i suoi seguaci
di sinistra trovano la conclusione ateistica del tutto
naturale e nemmeno meritevole di discussione. Per
ora, anche per noi ha importanza non la designa­
zione, ma la forza sconvolgente con cui le prime tre
tesi generano la quarta. Infatti, se il cosmo è il pro­
cesso di umanizzazione, se d'altra parte la mèta, la
libertà umana, per definizione è un assoluto (cioè
una realtà che non dev'essere posta dall'esterno, ma
che pone se stessa), ne consegue necessariamente che
la causa finalis dell'eyoluzione ne è anche la causa
efficiens, il primum tnovens. L ’esistenza del cosmo
si spiega con la sua mèta, l'uomo; ma la libertà
dell'uomo (in senso dialogico come amore) giustifica
se stessa, non ha bisogno di giustificazione dall'ester­
no, e con ciò sono distrutte sia le prove cosmologi­
che di Dio sia quelle dalla ‘contingenza’. Il trionfo
del sistema sta nell'essere stato abbozzato prima
speculativamente, e in seguito confermato empirica­
mente. Ora può essere manipolato sperimentalmente
senza pericolo.

61
2. Implicazioni del sistema

Il sistema ha le radici nel terreno della speculazione,


ma innalza tronco e rami nelParia della scienza esatta.
Non ha più bisogno della speculazione, se non come
un’utile premessa ipotetica per l ’esperimento. Ma il
paragone kantiano mette in luce che anche la specu­
lazione era guidata da fondamentali idee scientifiche.
Kant elabora una filosofia teoretica che deve rendere
possibile il rigoroso carattere scientifico della scienza,
la compone secondo lo schema materia (Anschauung)
- forma (Begriff): il materiale ‘mondo’ si lascia ‘domi­
nare’ dal pensiero. A partire da Descartes, Bacone,
Hobbes, il pensiero è pensiero dominatore: i ‘fatti’
devono essere sottomessi a ‘leggi’. I fatti esistono,
ricercarne l ’origine è cosa oziosa; la speculazione
successiva li dedurrà dallo spirito; l ’eventuale pro­
blematicità della loro esistenza e la conseguente in­
quietudine si placa nell’assolutezza dello spirito, che
li ha in sé e non è accessibile con una ricerca del
genere. Frattanto Leibniz aveva già postulato resi­
stenza di essenze perfettissime in base alla loro pro­
pria struttura, estendendo in tal modo l ’argomento
ontologico per l ’esistenza di Dio al mondo (migliore).
Logicamente, per il mondo migliore (che in defini­
tiva è l ’unico possibile) la differenza tra essenza ed

62
esistenza scompare, e non può neppure essere riacqui­
stata nel sistema idealistico e nei suoi epigoni, per­
ché la differenza alPorigine del mondo suppone un
libero creatore (e non un’idea che postula se stessa
come esistente). Neppure nella forma di Heidegger
la differenza potrà essere reintrodotta nel sistema,
perché non la si può sfruttare in alcun modo né
scientificamente né tecnicamente.
Mentre la metafisica antica nella forma medievale
era costruita su una duplice tensione:

esse

forma materia

essentia

la metafisica del sistema è ridotta all’asse longitu­


dinale. Quello trasversale si fonda sul primitivo stu-
pone filosofico dinanzi all’aspetto incomprensibile,
indeducibile, irraggiungibile della realtà (energeia,
actualitas), sia nella natura sia nell’uomo, e dinanzi
alla differenza, che in essa si determina, tra il più
dell’essere che non viene mai raggiunto ed esaurito
dalla somma di tutti gli enti. In che modo il nulla
viene all’essere?, domanda Platone nel Teeteto. O p­
pure, come è possibile una partecipazione? una par­
tecipazione finita-nulla ad una pienezza presupposta
a tale fine? Lo stupore, che scientificamente non
può essere sfruttato e che perciò rimane sterile, vie­
ne meno per il pensiero dominatore, per il quale la
filosofia si riduce a dottrina dello spirito (spirito nella

63
materia che diviene se stesso), e quindi ad antropo­
logia. L ’uomo, infatti, è ciò che abbraccia; pensare
che sia abbracciato, addirittura misurato dall’essere,
è ozioso, tranne che si riferisca quest’essere al Dio
creatore e spirituale, che nel sistema rimane un
corpo estraneo.
L ’uomo ha il suo posto all’interno del sistema,
di cui è il completamento, nel senso che lo conosce,
ma non nel senso che non debba continuamente (in
modo asimptotico, dice Fichte) conquistarlo ed av­
vicinarsi ad esso. Hegel, che è un uomo di pensiero,
si colloca più vicino al completamento ed alla con­
templazione del circolo; Marx, che è un uomo pra­
tico e un profeta, si colloca al centro del processo,
che sta attorno al regno della libertà nelle doglie del
parto. Ciò che allora in ogni caso diventa l ’uomo,
considerato come meta del divenire, è paradossale:
in Hegel, infatti, l ’uomo, in quanto individuo, è
stato sacrificato all’idea realizzata, ed in Marx, in
quanto individuo, è sacrificato continuamente alla
idea da realizzare. Il sistema deve accettare questa
contraddizione; in esso non si può parlare di immor­
talità o di risurrezione. L ’individuo, per mantenere
la propria autonomia, deve rinunciare ad ogni altra
realizzazione delPesistenza che non sia l ’idea della
totalità. L ’incontro dialogico, il reciproco ordina­
mento di uomo e donna ecc., possono evocare questa
idea, ma è impossibile che la realizzino. L ’antropo­
logia totale porta, in quanto tale, al sacrificio totale
dell’uomo a favore dell’umanità, che consta pur sem­
pre di singoli uomini. La sua etica è un altruismo,
che è amore assoluto sia verso il tutto (verso l’idea

64
realizzata ‘D io’) sia verso ciascun prossimo, e che
nel caso serio è disposto a dileguarsi e scomparire
dinanzi al tutto, rappresentato dal singolo prossimo.

65
5 - O n d u la ovverosia il caso serio
3- Alternativa

Paragonato al pensiero della tarda antichità dalle


molteplici aperture, entro il quale i primi cristiani
annunziarono il loro messaggio, quello del sistema è
un pensiero chiuso e che si chiude sempre di più.
La questione del mondo in cui il cristiano moderno
deve incontrare un mondo che professa il sistema,
è una questione di estrema gravità.
La risposta ovvia sembra essere la seguente: far
proprio il sistema, criticandolo nello stesso tempo.
«Esaminare tutto e conservare ciò che è buono». Si
dovrebbe quindi rifare cristianamente lo sviluppo del
pensiero che inizia con l’età moderna; si dovrebbe
iniziare proprio dai suoi vertici - Kant, Fichte, Hegel
- per guidare le correnti. Si può tentare di farlo, e
quasi tutta la neoscolastica è occupata in questo.
Dopo uno Schelling cristiano (che fu condannato in
Giinther, e poi risorse diverse volte, in modo par­
ticolarmente grande e convincente in Solowjew),
viene un Hegel cristiano, soprattutto presso i fran­
cesi, ed un Fichte cristiano, che incomincia a diven­
tare il vero padre della Chiesa della scolastica mo­
derna (a partire da Maréchal). Si può tentare di
farlo, ma sarà opera di epigoni. Il destino epocale,
quale fu Hegel con il suo epilogo Marx, si è com-

66
piuto da tempo, ed è irreversibile. Staccato dagli
inizi speculativi, esso ha maturato un tipo umano
che, formato sulla base di quelle origini, vive con la
naturalezza di una seconda natura nel pensiero e nel­
l ’azione del dominio, e si adatta silenziosamente alla
descritta etica paradossale.
Per il cristiano la situazione è ancora predetermi­
nata, poiché dal mondo del sistema egli è conside­
rato come puro passato, e precisamente come quel
passato che fu premessa non ultima del sistema, e
rimane murato in qualche punto delle fondamenta
di esso. Infatti, considerando le grandi tesi del si­
stema, non è forse stato il cristianesimo a renderne
possibili le tre fondamentali? Il pensiero della li­
bertà, ignoto nel mondo antico, non è forse un frutto
della religione biblica, in cui l ’uomo viene invitato
dal Dio vivente a prendere posizione prò o contro di
lui (Antico Testamento), ed infine, per mezzo della
perfetta e libera decisione di Dio per il mondo in
Gesù Cristo, diviene anch’egli partecipe di una li­
bertà soprannaturale, data da Dio, spirituale, dei figli
di Dio? Inoltre, questo pensiero cristiano della li­
bertà non ha influenzato l ’espressione dottrinale, ispi­
rata senza dubbio dal cristianesimo, della dignità
della persona e dei diritti dell’umanità? E l ’innalza­
mento dell’uomo al di sopra del cosmo, che ha dato
la possibilità di concepirlo come un divenire orien­
tato all’uomo, non ha in fondo il primo fondamen­
to nel racconto biblico della creazione, al cui vertice
l ’uomo viene collocato come sovrano su tutti i regni
della natura? E questi tre pensieri cristiani fonda-
mentali non sono stati strappati di mano alla Chiesa,
che evidentemente con essi non aveva saputo com­

67
binare nulla di buono, per essere affidati per un giu­
sto sviluppo da una parte alla filosofia speculativa,
dall’altra parte alla rivoluzione francese e poi al mar­
xismo? Perché dunque opporsi ad uno sviluppo
tanto logico, rifiutando di dedurre dalle prime tre
tesi la quarta, e di pagare così il tributo allo spirito
ascendente del mondo? Sarebbe un perdere con ono­
re. Sarebbe un toglimento di tipo hegeliano, in
quanto uno stadio preliminare verrebbe salvato in
quello immediatamente superiore, ma col sacrificio
della propria indipendenza. Diventa un «momento
in...». Questa è, secondo il sistema, l ’unica possi­
bilità di salvarsi.
Decisione grave per il cristiano. Posto che egli
resista a questa tacita annessione e voglia conservare
la fede cristiana, in quale forma lo farà? Rimane
la questione (ancora esterna) del modo in cui deve
rivolgersi ed interessare col suo messaggio il fratello
che vive nel sistema. Rimane la questione più pro­
fonda della misura in cui la solidarietà con il fratello
esige che egli entri nelle prospettive del suo sistema.
Rimane la profondissima questione di coscienza del
modo in cui, quale uomo moderno, può essere cri­
stiano. Oppure, per amore di Cristo, deve èssere non
moderno, non all’altezza dei tempi? Ma allora si
condanna a non essere più ascoltato da nessuno,
anzi a cadere in una specie di schizofrenia tra le
epoche. Cristo non esige forse esplicitamente che
dobbiamo saper cogliere i «segni dei tempi»?
Il cristiano deve quindi incamminarsi alla ricerca
del fratello. Anzi, in un senso, egli è sempre vicino
al fratello, perché anch’egli è figlio del suo tempo.
In un altro senso però egli è inviato da Cristo, non

68
è libero, deve annunziare il messaggio in modo die
possa essere compreso. Deve possedere l ’ardimento
di farsi solidale con gli altri anche nella visione del
mondo. Deve superare la distanza di tempo tra Cri­
sto e l ’oggi. Perciò, non può tralasciare di leggere il
Vangelo e di considerare la storia della Chiesa con
l ’occhio dell’uomo moderno che pensa storicamente.
Ciò non avverrà senza esperimenti di pensiero, senza
ipotesi, cui egli deve almeno in parte affidarsi. E que­
sto lo costringerà in apparenza a sospendere in
qualche modo la questione del caso serio descritto
nella prima parte. Fino a quando le grandi, rischiose
trasposizioni, che si rivelano indispensabili, siano
sufficientemente attuate. A l cristiano si deve conce­
dere una simile pausa, se deve eseguire il mandato
cristiano di esprimersi e comportarsi in modo oggi
comprensibile. Dove avviene la decisione per il caso
serio sta appeso un cartello: «Chiuso provvisoria­
mente per restauri».
Nelle pagine seguenti vogliamo seguire il cristiano
nelle sue vie; vie che oggi sono stradoni ampiamente
battuti. Vorremmo sapere dove si va a finire lungo
di essi. Se però ci venisse detto d ie la via non porta
tanto presto al caso serio cristiano, se il locale chiuso
rimanesse inaccessibile fino a nuovo ordine, nella
nostra breve vita non avremmo semplicemente il
tempo di attendere così a lungo. Preferiremmo per­
severare nella nostra fede - «so a chi ho creduto»
(2 Tim. 1,12 ) - per misurare su di essa il sistema
ed in certi casi lasciarlo anche naufragare. Forse la
discrezione degli spiriti, che d è imposta, si potrà
fare più fadlmente in base alla decisione di fede,
perché in tal caso tutto viene misurato sull’evidenza

69
di colui che è sempre più grande (id quo majus cogi-
tari non potest).
In tutta l ’alternativa non si tratta quindi di con­
servatorismo o di progressismo, ma semplicemente
di vedere se il cristiano, per amore dell’aggiorna­
mento, possa sospendere il caso serio. In altre pa­
role, se con la ragione possa fare esperimenti riguar­
danti la fede, senza che sia messa in discussione an­
che la carità. L ’oggetto della fede, infatti, così abbia­
mo visto, non è altro che la rivelazione dell’amore
sempre più grande di Dio per tutti e per me, in
croce.3*il

3 In queste poche pagine non si è trattato naturalmente di


'‘confutare’ il ‘ sistema’. La posizione del nostro tema è diversa.
Tuttavia non è tanto difficile comprendere che una libertà, la quale
deve acquistarsi soltanto mediante un non-io, non può essere
chiamata libertà assoluta (cioè che non ha bisogno di nulla);
inoltre, che nessuna idea può trasporsi da sola nell’ordine della
realtà (salvo che in un pensiero completamente dimentico dell’es­
sere), ma ha bisogno di essere accompagnata ad ogni passo della
realizzazione da un Dio eterno, libero, che non diviene; che tutto
il divenire del mondo rimanda quindi ad un creatore, cui sta a
cuore procurarsi un collaboratore libero che costruisce dal basso
con forze creatura!! e che nella sua indipendenza gli può muo­
vere incontro per l ’ultima unione nuziale.
III. La sospensione del caso serio

Che rapporto c’è, o padre, tra questa dot­


trina e quella del vangelo?
Pascal, Le provinciali.
i. Il dimezzamento del mistero

Kant rispetta la base empirica della scienza (natura­


le): la nostra conoscenza non va oltre ciò che può
essere accertato coi sensi. Ogni conoscenza si costrui­
sce nel rapporto chiuso del lato sensibile e del lato
spirituale dell’essere umano; è, nella sua struttura
più intima, antropologica ed antropocentrica. In que­
sto si differenzia dalla conoscenza antica e medievale,
che si verifica nella tensione tra uomo e physis (sol­
tanto inadeguatamente tradotto con ‘natura’), tra in­
tellectus ed esse. Physis ed esse sono l ’orizzonte en­
tro il quale la cosa singola può essere conosciuta, la
luce non vista dalla quale l ’ente è illuminato e ri­
schiarato per lo spirito. Non sono l ’essenza, ma la
presenza di Dio nel mondo. Si possono citare in pro­
posito le parole del Salmo (36,10): «Nella tua luce
(che non sei tu stesso, ma il tuo brillare per noi) ve­
diamo la luce». L ’essere - quale pura mediazione tra
D io e le cose che esistono - è il punto in cui le realtà
ignote del principio divino si illuminano per l ’uomo
a tal punto che «si intuiscono i suoi attributi invisi­
bili» (Rom. 1,20), certamente (in quanto sono intui­
ti) come qualcosa che diviene visibile (phaneron, 1,
19), non però come compresi in sé, bensì «nelle crea­
ture». Il mistero di un Dio che si rivela nel mondo

73
e nondimeno rimane invisible, al quale tutto riman­
da senza che appaia il punto di rimando, è l'elemento
fondamentale della filosofia (antica). Si disconosce
questo spunto quando si afferma che ciò esprime sol­
tanto una «divinizzazione della natura» primitiva, an­
cora semi-animistica, da cui l'antropocentrismo bibli­
co e tecnico-moderno ci avrebbe, finalmente, liberati.
Infatti, si tratta innanzi tutto non della natura in
quanto somma del mondo (specialmente sottouma­
no), ma dell'essere dal quale si sviluppano gli enti
(phyo, physis). È il mistero di un principio che si
dona e che proprio nel mistero del suo donarsi (ne­
gli enti) è superiore, incomprensibile; un mistero
che si riflette naturalmente nella struttura dello spi­
rito per mezzo del quale avviene la rivelazione di
Dio nell'essere del mondo, ma che lo spirito non
può rivendicare come propria struttura. Anzi, è il
mistero dell'immanenza nel mondo del Dio trascen­
dente il mondo, mistero che può essere inteso con
la formula della «analogia entis» (a patto di capire
ciò che si dice).
Il pensiero dominatore non può fare nulla con mi­
steri filosofici. «Divide et impera» è il suo motto.
Divide il mistero della realtà in due parti:* qui le
«cose note di Dio» (gnostón tou Theou, Rom. 1,19),
che possono essere comprese e fatte proprie; là le
«cose ignote» (aórata, 1,20), per conoscere le quali
non abbiamo alcun mezzo e che per conseguenza non
ci riguardano per nulla. Il movimento del pensiero
moderno è perciò duplice: prima avvicinare Dio al­
l'uomo, perché ciò che porta possa essere assimilato;
poi allontanare Dio, in modo che le sue realtà ignote
non riguardino più l'uomo. Entrambi i movimenti

74
possono avvenire in chiave tanto cristiana quanto
atea. Avvicinando Dio all’uomo si prende sul serio
l ’incarnazione; allontanando Dio, si dimostra il vero
rispetto che non scambia Dio con gli idoli della ra­
gione. Così in senso cristiano. Ed in senso ateo: si
deve avvicinare Dio finché coincida con l ’uomo, ed
allontanarlo finché si dissolva in fumo.
«Dio è diverso» sembra essere una scoperta della
odierna pietà cristiana. Questa ha in verità una me­
moria corta, perché la parola d ’ordine del «Dio com­
pletamente diverso» fu presentata negli anni venti
da Karl Barth, il quale del resto non fece che rin­
novare la millenaria tradizione cristiana della teo­
logia negativa, secondo la quale gli enunciati negativi
sono superiori a quelli positivi (Dionigi Areopagita,
Tommaso d’Aquino) e tra Dio e la creatura non si
può stabilire una somiglianza così grande (nella na­
tura e nella soprannatura) che la dissomiglianza non
sia ancora più grande (Cone. Lateranense iv , Denz.
432). Ma la teologia antica parlava sempre nella
struttura generale del mistero, mentre l ’odierna teo­
logia del «Dio è diverso», sotto il segno del rispetto
(come un tempo Giansenio), difende il diritto del­
l ’uomo di pensare o di sentire Dio lontano da sé.
Perché? Si possono citare tre motivi.
1. Perché l ’uomo viene determinato dalla sua li­
bertà, che lo pone, come nessun’altra creatura, di
fronte & Dio. Egli è lasciato da Dio a se stesso per
realizzarsi da sé, e tal fine ha bisogno di uno spazio
libero, dal quale D io in certo modo si tiene fuori.
Dio, si dice, lascia che il mondo sia. Ciò è vero in
un senso fondamentale; non ne consegue però un
senso derivato. Con semplici giochi di parole non

75
si può filosofare. Inoltre è un pensiero molto limi­
tato, che non è in grado di sostenere il pensiero fon­
damentale della «analogia entis», poiché questa è na­
turalmente anche una «analogia libertatis». Una
creatura tanto più è libera quanto più profonda­
mente partecipa alla libertà di Dio (ciò vale per ogni
tipo di partecipazione); soltanto entro la libertà di­
vina l ’uomo può realizzare la propria capacità di li­
bertà. Diventa allora chiaro che Dio e l’uomo non
possono star di fronte come due interlocutori, perché
«Dio è tutto» (Eccl. 43,27) e non ha quindi un vero
interlocutore. L ’Antico Testamento, con il tirocinio
nell’oggettività, era necessario per superare il pantei­
smo; ma viene a sua volta perfezionato nel Nuovo
Testamento cristologico (cfr. Gal. 3,20 s.). La conce­
zione, da cui parte questo primo motivo, è non sol­
tanto antropocentrica, ma pericolosamente antropo­
morfica.
2. G li stessi filosofi possono argomentare anche
partendo da un punto opposto. Per noi Dio è con­
cettualmente un Dio lontano, perché «non è ogget­
tivo». Qui supponiamo l ’idealismo tedesco: c ’è una
conoscenza categoriale, oggettivante (dove una for­
ma categoriale domina una materia), ed una cono­
scenza trascendentale, poiché la trascendenza dello
spirito sul categoriale gli diviene indirettamente co­
sciente, senza divenire oggettiva. Da ultimo, lo spi­
rito diviene anche indirettamente cosciente della pro­
pria dinamica nell’assoluto, del suo rapporto con
Dio, ed in ciò D io gli è presente in modo non og­
gettivo. Pur affermando l ’incomprensibilità e l ’invi-
sibilità di Dio, contro un simile argomento si deve
dire che esso lega la teologia ad ima filosofia unilate­

76
rale. Se la filosofia trascendentale consuma il con­
cetto del reale, dell’oggettivo, per il pensiero cate­
goriale del dominio, e non lo ha più a disposizione
per il rapporto con Dio, la colpa è sua; ma essa
fallisce la verità contraria al «Dio è tutto», cioè:
D io non è il mondo, perciò tra i due regni vi è un fe­
nomeno originario di oggettività analogo a quello esi­
stente tra l ’io e il tu, ed analogo al mistero intra-
divino dell’oggettività tra le tre persone, mistero
che è la radice ultima di ogni altra oggettività.
3. L ’argomento decisivo per l ’allontanamento di
D io non è però la filosofia trascendentale, ma la sua
attuazione pratica nel «mondo umanizzato». L ’uo­
mo, che considera e tratta il mondo - minerali, pian­
te, animali, astri - come una cava di pietra per la
propria casa, difficilmente scorgerà ancora in esso
una trasparenza verso Dio. È divenuto nuovamente
P«homo faber», ha superato l ’era greca e medievale
della contemplazione (che non frutta nulla). Paolo,
che sapeva vedere «l’eterna potenza e divinità di
Dio... dalla costituzione del mondo nelle creature»,
è appunto un testimone di quell’antico mondo ormai
passato. Noi non possiamo più esserlo, non ne ab­
biamo più né la capacità né il tempo. Dobbiamo fare
di necessità virtù, e trasformare l ’incapacità dell’uo­
mo moderno «di cercare Dio, tentando di sentirlo
e di afferrarlo, egli che davvero non è lontano da
ciascuno di noi» (Atti. 17,27), in un timore di fronte
ad un Dio lontano, che non può essere né sentito
né trovato. Potremmo, è vero, invidiare agli antichi
la loro capacità; ma sarà meglio considerare quella
vicinanza di Dio come propria di una «immagine
mitologica del mondo», che dobbiamo sdivinizzare

77
a nostro vantaggio. D ’altra parte, è anche onorifico
voler incontrare maggiori difficoltà. Poiché l’uomo
moderno incontra evidentemente maggiori difficoltà,
si pensa che il cristiano dev’essergli vicino e prefe­
risca essere con lui un cercatore di D io piuttosto che
un troppo facile e poco credibile scopritore di Dio.
Ma c ’è l ’altro lato. Dio si è rivelato all’umanità
in Gesù Cristo, il quale non soltanto ha portato Dio
vicino a noi, ma ha anche rivelato chi è veramente
l ’uomo. Ha richiamato l ’uomo dalla lontananza da
Dio, e proprio per questo anche dalla lontananza da
se stesso. Si tratta quindi di appropriarsi fino all’ul­
timo di ciò che, in Cristo, Dio ha donato di sé al
mondo, ciò che ha assunto forma umana. Cristo è
colui che rivela l ’uomo a se stesso: la grandezza del-
l ’illuminismo, continuato dagli idealisti tedeschi, sta
nell’aver sfruttato pienamente la cristologia per co­
struire l ’antropologia. Kant lo ha fatto con molta
serietà nella Religione entro i limiti della semplice
ragione, e Fichte lo ha seguito con altrettanta se­
rietà. Nella storia dell’umanità Cristo è il passaggio
da un regno di lontananza da Dio (‘peccato’) ad un
regno di perfetta libertà, quale va sempre più af­
fermandosi nel corso della storia. Giustamente, dice
Fichte, il tempo storico si conta prima e dopo Cristo.
Dovremo parlare ancor più ampiamente della am
tropologizzazione della cristologia, perché merita at­
tenzione quale punto culminante di tutta l ’impresa.
Essa getta il ponte tra l ’autentico cristianesimo
neotestamentario e l ’ateismo che, attraverso questo
ponte, senza saperlo, diviene partecipe della verità
centrale del cristianesimo. Anzi, proprio qui esiste

78
da sempre il punto mobile di contatto tra la cosid­
detta ortodossia cristiana e tutte le varianti liberali
del cristianesimo: sarà per noi un motivo di più per
meditare con attenzione.
A questo punto si può ancora aggiungere una
questione, che è strettamente connessa con il «di­
mezzamento del mistero». In principio Dio creò cielo
e terra. Che cos’è il ‘cielo’ nel primo enunciato
della Scrittura? Esso ritorna senza posa, anzi in mi­
sura crescente lungo tutta la Scrittura: dal cielo Dio
discende ed osserva gli uomini; in cielo rapisce i
suoi veggenti; Gesù prega il «Padre che è nei cieli»
che la sua volontà sia fatta «come in cielo, così in
terra». Gesù sale al cielo; dal cielo manda il suo
Spirito; in cielo, secondo Paolo e Pietro, è la nostra
patria; dal cielo discenderà alla fine la sposa del­
l ’agnello, «la città santa Gerusalemme», «la nostra
libera madre di lassù» {Gal. 4,26). Che realtà è mai
questa?
Certamente, ad una prima considerazione sembra
essere una realtà cosmologica, perché quel ‘firmamen­
to’, che separa le acque inferiori dalle superiori e nel
quale in seguito vengono collocati i grandi luminari,
«Dio chiama cielo» (Gen. 1,8). Eppure, si tratta di
un punto di partenza figurato, la cui importanza de­
cresce nella misura in cui il cielo di D io viene ‘po­
polato’ di esseri viventi. Esso non è Dio, perché
D io stesso lo ha creato; ma non appartiene neppure
al mondo in formazione del cosmo materiale. È il
luogo (ed il ‘mondo’ di Dio appartenente a questo
luogo) che sta in tensione con il luogo dell’uomo e
con il mondo dell’uomo appartenente a questo luogo.
«I cieli sono cieli del Signore, ma la terra egli l ’ha

79
data ai figli degli uomini» {Sai. 115 ,16 ). Tra i due
‘luoghi’ o ‘mondi’ si svolgono tutti gli avvenimenti
che la Bibbia descrive come rivelazione. Non tra un
Dio privo di luogo e di mondo, ed un mondo di cui
l ’uomo sarebbe l ’unico centro. Ma sempre tra cielo
e terra. Il mondo antropocentrico è in un rapporto
vivo con il mondo teocentrico. Il campo di tensione
tra i due è il teatro dell’incarnazione di Dio, della
storia della Chiesa (che appunto si svolge tra Chiesa
terrena e Chiesa celeste), della storia del mondo, le
cui vere dimensioni sono descritte dal veggente del-
l ’Apocalisse. La prospettiva finale indica da una
parte «un nuovo cielo ed una nuova terra», dall’altra
parte la «discesa dal cielo di Dio» della Chiesa cele­
ste, e quindi l ’esaudimento della preghiera «come in
cielo, così in terra», una unità duale, che è realizza­
zione ultima.
Un uomo moderno che cosa può pensare di un
simile enunciato, per giunta così fondamentale? Il
massimo che sembra possibile pretendere da lui sa­
rebbe una dimensione ‘spirituale’ accessoria del co­
smo materiale umano, quale sembra indispensabile
a motivo della risurrezione di Cristo e della pro­
messa risurrezione universale dei morti, lin a trascen­
denza del mondo, che sboccia al sole della grazia
divina, in un nuovo modo definitivo di esistere. Ep­
pure ciò non sembra bastare agli enunciati biblici.
Fin dall’inizio della rivelazione ed in misura sempre
crescente, c’è un’apertura del delo che non soltanto
si forma dalla terra, ma già esiste al di sopra della
terra, un continuo accompagnamento degli eventi
terrestri da parte del cielo, e, viceversa, una crescente
accessibilità del cielo per la terra. Non una persona

80
divina solitaria è in dialogo con gli uomini, ma il
«mondo di Dio» si intrattiene con il «mondo degli
uomini». Tutte le reminiscenze cosmologiche che an­
cora si avvertono, in immagini concrete, ad esempio
nei Salmi, sono scomparse in bocca a Gesù ed agli
apostoli. Il loro enunciato ha un valore teologico in
se stesso.
Il cielo è il grande mediatore biblico tra il Dio
«che abita in una luce inaccessibile, che nessuno degli
uomini vide né può vedere» ( i Tim. 6,16) ed il
mondo degli uomini. Nel cielo si vede la faccia di
Dio (A p . 22,4), egli viene visto com’è (1 Gv. 3,2),
l ’uomo conosce come è conosciuto (1 Cor. 13,12).
Ed è un grande mondo di amore e di gioia: «V i
siete accostati al monte Sion e alla città del D io vi­
vente, la Gerusalemme celeste, alle miriadi di angeli,
cèto festoso, all’assemblea dei primogeniti, iscritti
nei cieli..., agli spiriti dei giusti resi perfetti e al
mediatore della nuova alleanza, Gesù...» (E b. 12,22-
24). Il dimezzamento del mistero amputa questa real­
tà; anzi, la lascia semplicemente cadere. È, questo,
l ’impoverimento maggiore che, nella ricerca dell’uo­
mo moderno, l ’odierna teologia, senza avvertirlo ade­
guatamente, subisce. Secondo la Bibbia l ’esistenza
cristiana si attua dinanzi al delo aperto, nel vivace
accompagnamento di quella che Ignazio di Loyola
chiamava la «curia coelestis», la corte di Dio, in una
manifestazione dinanzi a tutto il mondo dell’amore,
che non ha nulla in comune con la povera concezione
di una coscienza segreta, accessibile unicamente allo
sguardo di Dio. Lo svelamento dell’uomo dinanzi al
cielo giustifica per Paolo la fiducia di appartenere
anch’egli un giorno a coloro che sono completamente
svelati.

81
6 - O n du la ovverosia il caso serio
2. Il rinvio

Nel programma di ‘demitizzazione’ della sacra Scrit­


tura e della teologia, di cui abbiamo ricordato un
esempio e che naturalmente non possiamo trattare
qui in tutta l ’ampiezza, ciò che innanzi tutto colpisce
è il fatto che non è in grado di limitare se stesso,
perché il concetto di ‘mito’ applicato alla Bibbia non
può acquistare contorni sicuri. Infatti, così come
viene usato, si fonda su un duplice criterio, che, in
relazione a questo documento, non può essere ri­
dotto ad un criterio unitario: si considera mitico ciò
che è connesso con un’immagine antiquata del mon­
do e ciò che l’uomo moderno non può più accogliere
e sente come estraneo nella cosiddetta immagine
scientifica del mondo. Il primo è, in apparenza, un
giudizio storico-scientifico, il secondo un giudizio
esistenziale; i due non sono la stessa cosa.
Quanto al primo, si dovrebbe poter dimostrare
che tutto ciò che è connesso con l ’«immagine anti­
quata del mondo», ha nella Scrittura un influsso de­
terminante sugli enunciati teologici; si dovrebbe inol­
tre dimostrare che le cose, che nella Scrittura sem­
brano presentare determinate analogie con circo­
stanti culture mitiche, nell’ambito della rivelazione
biblica non hanno un significato proprio e partico­

82
lare. Al contrario, non è possibile dimostrare che gli
enunciati legati all’immagine tolemaica del mondo
perdono di valore se vi si sostituisce quella coperni­
cana. È già molto discutibile, ad esempio, se i disce­
poli abbiano interpretato in senso veramente cosmo­
logico gli atteggiamenti simbolici con cui il Signore
nell’ascensione scompare verso l’alto (il cielo è ‘in
alto’, e quindi il risorto sale verso l’alto), e non piut­
tosto con la stessa ingenua naturalezza che anche
l’uomo moderno conserva quando interpreta in senso
antropocentrico (e con ragione!) il cosmo come ap­
pare ai sensi: la testa, la luce e l’ampiezza sono in
alto, i piedi, l’oscurità e le tenebre sono in basso.
Sarebbe forse per noi la stessa cosa se Cristo, per
indicare agli uomini forniti di sensi che egli torna al
Padre, fosse scomparso sotto terra? Suvvia, non
agiamo da sciocchi più di quanto già siamo, e non
esageriamo simili banalità, quasi che con il muta­
mento dell’immagine del mondo crolli anche metà
della rivelazione biblica! E le analogie con le cul­
ture mitiche? L’Antico Testamento ha combattuto
contro simili analogie quando, da Mosè ai profeti,
ha proibito ogni materializzazione mitica. E l’uso di
certe immagini e concezioni mitiche di Ugarit? Esse
saranno state sentite dai profeti e dai salmisti non
molto diversamente da Goethe, quando rivolgeva
una poesia alla luna. E gli esseri alati che, nella sua
visione, Ezechiele deve aver visto sulle mura e sulle
porte del tempio di Babilonia? Questo ‘deve’ è sem­
plicemente un’affermazione, e l’insieme è del tutto·
irrilevante. Oppure dovrebbe essere sufficiente per
mettere in discussione, dal punto di vista della psi­
cologia del profondo, l’oggettività delle estasi e delle

83
visioni dei profeti? Ed il parto verginale? Esistono
molti miti, nei quali le figlie degli uomini sono rese
gravide dagli dei! Controdomanda: siamo nell’am­
biente egiziano ed ellenico o non piuttosto nell’am­
biente rigidamente giudaico? Ci si vuol riportare ai
tempi, in cui le religioni misteriche grece dovevano
fornire il modello per le strutture della Chiesa pri­
mitiva, tempi che in verità sono passati? I teologi
cattolici diventano così ciechi da non più vedere che
la verginità di Maria è annodata al centro della
dogmatica? Oppure si vuole incominciare a distin­
guere una verità ‘teologica’ ed una verità ‘storica’ in
una religione in cui si tratta addirittura delPincama-
zione, e quindi della verità storica del contenuto
centrale di fede?
Se per principio si procede oltre, si cade allora nel
campo d’influenza del secondo criterio: non più con­
sono, si dice, al sentimento moderno del mondo. Nel
passaggio dal primo al secondo si dirà: l’antica imma­
gine del mondo, per la quasi totale ignoranza dei
nessi .casuali scientifici, dotava il mondo di ogni spe­
cie di spiriti, potenze, angeli buoni e cattivi, sem­
pre pronti a produrre effetti secondo il piacere o il
capriccio. Ad essi era rivolta la maggior parte delle
preghiere. I miracoli erano molto più owii, e quindi
anche la constatazione che qualcosa era miracolo e
(quasi senza transizione dal punto di vista psicolo­
gico) l’attribuzione di miracoli ad una personalità il
cui possente agire autoritario faceva impressione. Si
noti però che le storie di Gesù non conoscono mira­
coli puerili (che abbondano negli apocrifi): sono tutti
concretizzazioni di verità essenziali su Dio e sulla
azione di Dio. Ma il fatto che Gesù scacci gli spiriti

84
impuri dagli ammalati - in Marco subito dopo l ’an­
nunzio che il regno di Dio sta per venire e dopo la
prima predica a Cafarnao ‘con potenza’ - è la signi­
ficativa concretizzazione dell’urto dei regni dello Spi­
rito santo (Me. 1,12) e dello spirito impuro (1,23)
nel mondo materiale. È lo stesso avvenimento evan­
gelico, e non ha nulla a che fare con il mito. E an­
cora, nella Bibbia, la preghiera non è mai rivolta agli
spiriti, ma esclusivamente a Dio.
Ma sembra che su questa strada non ci siano so­
ste: una cosa tira l ’altra, e ciascuna è più grave e più
radicale della precedente. Quando si sveglia nel
cuore del cristiano, del teologo, l ’inquietudine? (In
punti del tutto diversi). Fin dove può giungere per
motivi pastorali, o forse anche per onestà ‘scien­
tifica’ ?
Anticipiamo un punto notevole: l ’immagine an­
tica del mondo è misera non soltanto nello spazio,
ma anche nel tempo, se paragonata con quella odier­
na, che già alla sola umanità assegna una storia pri­
mitiva di ben cinquecento mila anni. N ell’immagine
di allora l ’annunzio del ritorno di Cristo per il pros­
simo futuro era qualcosa che si adattava benissimo
alla cornice, soprattutto se teniamo conto dell’atmo­
sfera apocalittica del tempo. L ’elemento dell’attesa
prossima sembra incidere molto a fondo in tutta
l ’etica del cristianesimo primitivo e nella sua posi­
zione nei confronti del mondo. Qui non si deve
realmente «fare opera di demitizzazione» con un
profondo taglio chirurgico? Risposta: se da certe
formulazioni degli evangelisti (che senza dubbio spe­
ravano in un ritorno vicino nel tempo) estraessimo
l ’atteggiamento e l ’insegnamento autentici di Gesù

85
(«nessuno conosce l ’ora, neppure il Figlio»), tutto
1’atteggiamento del cristiano non verrebbe che le­
gato ancor più strettamente nell’obbedienza all’ora
di Dio, e precisamente né in un’astrazione liberale
dal tempo, né in una ristrettezza temporale-escatolo­
gica.4 Una simile interpretazione potrebbe lasciar
aperto al futuro del mondo qualsiasi spazio, non
attenuerebbe l ’enunciato che il cristiano e la Chiesa
sono pellegrini e stranieri sulla terra, e molto meno
ancora velerebbe il pensiero che tutta la storia del
mondo corre verso il Cristo sovrano escatologico che,
quale suprema idea cosmica di Dio, non può essere
superato od anche solo avvicinato da alcuna evolu­
zione di forze umane e mondane. In quanto egli è
in anticipo la realtà che è sempre più grande (id quo
majus cogitari nequit), tutta la storia acquista in lui
un giudice - in quanto consolatore che separa, ma
salva - ed un’idea alla quale si può tendere senza
fine.
E però, l ’antica immagine biblica del mondo, so­
prattutto neotestamentaria, nella sua staticità da una
parte, nel suo dualismo di cielo e terra dall’altra,
non è sotto sotto influenzata da idee in parte plato­
nico-gnostiche, in parte tardo-giudaiche-apocalittiche,
che non sono più conciliabili con l’odierna immagine
dinamico-evolutiva del mondo? Allora si bramava
ardentemente di essere in un altro regno, senza po­
tervi anche soltanto aspirare da soli — di qui il molto
pregare e forse il sentimento del peccato («il nostro
cuore è inquieto»); oggi si lavora per un futuro che,

4 Cfr. il mio articolo «Glaube und Naherwartung» (Fede ed


attesa prossima), in Zuerst G ottes Ketch, 1966 (trad. it. in pre­
parazione presso l ’Editrice Queriniana, Brescia).

86
avendo alle spalle il grande sviluppo della natura, si
sente autorizzato a guidare arditamente il divenire,
ad acquistarsi da solo pienezza e salute interne, sotto
la dura legge del lavoro comune, che certamente
non è ‘castigo’, ma distinzione, e probabilmente un
onore reso al creatore più profondo che non la molta
preghiera oziosa. D i qui logicamente, l ’ultimo pas­
so: l ’idea di un ‘ salvatore’, che dal chiaro cielo di­
scende sulla terra oscura, vi lascia un po’ di luce e
poi risale nella sua sfera - un noto modello che
ritorna spesso - non è totalmente legata all’antica
immagine dualistica del mondo? La designazione di
Gesù quale «figlio di Dio», e infine quale «Dio»,
non è la semplice applicazione di quello schema ad
una personalità storica certamente fornita di doti
spirituali? Dalla combinazione della dottrina del­
l ’amore di Dio e del prossimo con la terribile morte
in croce non deriva quasi spontaneamente l’idea che
la sua sofferenza sia stata una sofferenza vicaria di
amore e di espiazione? E, una volta giunti a questo
punto, non deriva anche, con logica quasi inevita­
bile, lo spunto della dottrina della Trinità, dal mo­
mento che il figlio in terra è Dio, che prega il Padre
celeste ed attesta la sua unità con lui, ed entrambi
hanno un unico spirito?
Dobbiamo confutare tutte queste affermazioni,
oppure il benevolo lettore si accontenterà dell’assi­
curazione che semmai potremmo farlo? Infatti, noi
non abbiamo intenzione di fare qui dell’apologetica,
ma di descrivere le vie più battute e di risvegliare
l ’impressione che è difficile, se si vuole essere intel­
lettualmente onesti, non rimanere attaccati in qual­
che punto a questa lunga e spinosa siepe di difficoltà.

87
Avviene allora ciò che, nel nostro contesto, è deci­
sivo e per cui abbiamo costeggiato questa siepe:
il rinvio della decisione di fede. La sospensione al­
meno temporanea, finché i risultati dell’esegesi scien­
tifica siano stati sufficientemente chiariti... Forse,
nell’insieme, si potrebbe trovare una specie di solu­
zione interinale, dichiarando ad esempio che in
tutti gli enunciati della Bibbia (che esigono la fede)
si trova una proporzione tra contenuto e modo di
esprimersi di allora, e che la stessa proporzione,
mediante una trasposizione totale, dovrebbe risor­
gere oggi tra contenuto e modo moderno (demitiz­
zato) di esprimersi. Forse tutto dovrebbe essere in­
teso «in modo analogico».5 Ciò potrebbe forse signi­
ficare che l ’azione di Dio e del Verbo divino, che al­
lora fu espressa come spargimento vicario del san­
gue sulla croce, oggi (certamente anche per la rifles­
sione sul contenuto espresso dall’immagine di al­
lora) dovrebbe essere chiarita in un modo analo­
gico, che interessi direttamente noi, ecc. Il caso serio
(provvisorio) sarebbe allora che io — analogamente
al modo in cui il cristiano che pensava in forma mi­
tologica si lasciava toccare dal Cristo crocifisso — con
la stessa serietà, che quell’immagine mitica rendeva
ovvia, mi lasci toccare dall’azione del Verbo di Dio
in me (che mi promette la salvezza).
Ma allora, in tale costruzione, risulterebbe non più
chiaro il motivo per cui, nel caso serio, io dovrei
essere disposto a morire. Comunque, sarebbe molto
difficile spiegarlo a coloro che mi mettono al muro
di esecuzione. Sarebbe anche molto difficile spie­

5 G . H a s e n h u t t l , Che cosa vuole Bultmann con il suo pro­


gramma di demitizzazione?, in Concilium , ed. it., 2 (1966),
pp. 66-67

88
garlo ai bambini negri nelle missioni. Probabilmente,
invece della analogia, a cui uno personalmente si
attiene, si proporrebbe loro il chiaro motivo antico,
per cui una persona può anche chiaramente morire.
Con l’analogia del contenuto della fede, diventa ana­
logico anche l’atto di fede, e nessuno potrà più af­
fermare, in base all’eguaglianza di proporzionalità,
che è il risultato di una trasposizione totale, di avere
ancora chiaramente quella fede cristiana, quale l’ha
intesa la Chiesa per quasi duemila anni.
Il caso serio è anche qui il criterio migliore, per­
ché mette per forza dinanzi alla verità cristiana: la
mia disposizione a morire per Cristo - con la grazia
di Dio - è l’unica risposta adeguata (che implica
tutta la condotta di vita) al fatto che egli si è de­
gnato di morire per amor mio. Se questo fatto di­
venta discutibile, diventa discutibile naturalmente
anche la mia risposta. Ma questa, in tanto è per
me un criterio, in quanto, mettendo a repentaglio
totale la mia vita, io attesto di aver compreso la
verità cristiana come la rivelazione più alta possi­
bile dell’amore eterno, nei cui confronti tutti i risul­
tati della demitizzazione rivelano una mancanza de­
cisiva, chiaramente visibile e descrivibile, di gran­
diosità divina.
Non è qui il caso di ripetere ciò che è stato am­
piamente esposto in Schau der G estd t [Visione del­
la figura],* e cioè: che dipende da un daltonismo
spirituale il non poter percepire l’unicità, l’ine­
* E il volume i dell’opera H e r d k h k e it, progettata in quat­
tro vasti volumi, di cui i primi tre sono già apparsi nell’edizione
svizzera in lingua tedesca; trad. fr. La gioire et la croix, voi. i:
Apparition (Aubier, Parigi). NetU’edizione francese la parola

89
splicabilità e l’indissolubilità della figura della ri­
velazione quale ci è presentata nell’Antico e nel
Nuovo Testamento, e l ’esaminare invece al mi­
croscopio da tutte le parti il reperto biblico con
occhio professorale e indagatore, che ha perso la
capacità di percepire la qualità e le proporzioni della
forma intera. In quel libro è anche detto che la
contemplazione della gloria di Dio nella sua rivela­
zione è l ’unica via per non dover sospendere l’as­
senso di fede mentre si fa una seria indagine biblica.
Infine, è anche detto quanto dobbiamo essere grati
alla rigorosa scienza biblica, che ha arricchito in
modo inaudito la nostra immagine della rivelazione
e l ’ha vivificata in una plastica scultura tridimen­
sionale. Ma per vedere personalmente tale figura
plastica e per poterla mostrare ad altri, lo scienziato
biblico ha bisogno di un occhio che percepisca ciò
che la figura ha di particolare e di inconfondibile,
un occhio che lo preservi dalla maggior parte delle
tentazioni della demitizzazione. Se il fondatore di
questo metodo e scuola (spiccatamente protestanti)
ha intrapreso tutta la sua opera per estrarre il nu­
cleo permanente della rivelazione dal gusciq, caduco
ed imbarazzante, si dovrebbe, ad un livello superiore,
riconoscere la legittimità della frase di Goethe: «la
natura non ha né nucleo né guscio». L ’amore di
Cristo non è nucleo, e il sangue di Cristo non è gu­
scio; sull’unità di entrambi si fonda la fede. Perciò
— questo è il risultato — non è possibile alcun rinvio
della decisione di fede.

G e s td t (che è una parola-chiave di tutto il volume) è tradotta


con figura (con un significato leggermente diverso da Form , che
si contraddistingue da materia) e significa ima certa forma o
struttura concreta, dotata d ’unità (N.d.E.).

90
3- L'identificazione

Non so, dice il cristiano moderno, se devo impe­


gnarmi in tutta questa costruzione con il caso serio.
Anzitutto passerà ancora un bel po’ di tempo prima
che vengano i cinesi, e poi il cristianesimo è una
religione di vita e non di morte. A decidere è il
mio impegno reale nella vita quotidiana, e non quel-
lp sognato nella morte. Non è forse vero il detto an­
tico: le grandi decisioni vengono da sole, se sono
prese bene quelle piccole? Se cerco di vivere one­
stamente e decorosamente come posso, nella morte
si troverà Patteggiamento giusto. Se la «parola d’or­
dine» del periodo della riforma è stata «fede» (sap­
piamo a che cosa essa ha portato: i cristiani per un
secolo si sono martirizzati a vicenda), «l’amore del
prossimo potrebbe essere oggi la parola originaria e
la parola chiave che realmente muove»,6 Se ciò fosse
vero, il problema del caso serio si sposterebbe com­
pletamente. La decisione per me non dovrebbe af­
fatto essere presa di fronte alla croce di Cristo, quan­
do si esige da me una «fede nuda», una «sola fides»,
ma dovrebbe essere presa quando la deve prendere

6 K. Rahner, Schriften zur Theologie (Scritti di teologia) vi,


297 (trad. it., ed. Paoline, Roma).

91
ogni uomo: nel rapporto con il prossimo, nell’aut
aut tra egoismo ed amore.
Karl Rahner ci libera da un incubo con la teoria
del «cristiano anonimo», il quale, in ogni caso, è
dispensato dal criterio del martirio e, ciò nonostante,
ha pieno diritto alla designazione di cristiano, qua­
lora, consapevolmente o non, renda l ’onore a Dio.7
Infatti, «dovunque l ’uomo, nel totale impegno della
sua libera autodisposizione, pone un atto morale
positivo, questo, nel reale ordinamento salvifico, è
un positivo atto salvifico soprannaturale, anche quan­
do il suo oggetto a posteriori ed il motivo esistente
esplicitamente a posteriori non derivano in modo
percettibile dalla positiva rivelazione mediante le
parole, ma sono in questo senso ‘naturali’». Perciò,
dove «nell’attuale ordinamento salvifico c’è un impe­
gno morale assoluto di natura positiva nel mondo,
c ’è anche evento salvifico... si attua quindi la cari-
tas».8 Certamente ciò non dispensa il cristiano anoni­
mo dal dovere di rintracciare, possibilmente anche
nel campo storico quell’«esistenziale decisivo dell’esi­
stenza umana, Cristo»,9 che egli ha già in se stesso
in modo inconscio, trascendentale, non oggettivo, e
quindi di passare ad una «fase superiore di sviluppo
di questo cristianesimo».10 Allora questo non sarebbe
che «l’enunciato oggettivo-concettuale di ciò che un
uomo ha già attuato nel profondo della sua esistenza
spirituale»,11 e sarebbe soltanto «richiesto i) dalla

7 vi, 250.
8 VI, 285-286; V, 221.
9 «Dio e la grazia di Cristo sono in tutto come una essenza
segreta di ogni realtà mutabile» vi, 15*.
10 v, 155.
11 Ibid.

92
struttura incarnatoria e sociale della grazia e del cri­
stianesimo e 2) perché la più chiara e pura compren­
sione riflessa offre a sua volta in sé anche la maggiore
possibilità salvifica per l ’uomo singolo».12 Per quan­
to ciò sia desiderabile, tuttavia è a sua volta super­
fluo.
Lo si può dimostrare teologicamente mettendo in
luce la «radicale identità»1314 dell’amore di Dio e
dell’amore del prossimo, intesa come il messaggio
centrale di Gesù. Infatti, secondo la sua dichiara­
zione, i due comandamenti sono ‘uguali’ (Me. 12,31
par.), costituiscono assieme il compendio dell’Antico
Testamento, nel giudizio l’amore del prossimo è
l ’unico criterio per l ’ammissione al regno di Dio
(Mt. 25,34 s·)· Paolo sottolinea più volte tali enun­
ciati, e secondo Giovanni noi siamo amati da Dio
(Gv. 14,21) e da Cristo affinché ci amiamo gli uni
gli altri (Gv. 13,34), il quale amore è il nuovo co-
mandamento di Cristo (Gv. 13,34), che è specifico
per lui (Gv. 15,12) ed è il mandato per noi (Gv.
15,17). Per Giovanni ne deriva la conseguenza che
Dio, il quale è amore (1 Gv. 4,16), ci ha amati non
tanto perché lo riamiamo™ quanto perché ci amiamo
gli uni gli altri (1 Gv. 4 ,7.11). Noi infatti non ve­
diamo Dio. Dio non può essere veramente raggiunto
con una sola interiorità gnostico-mistica in modo da
essere così raggiunto realmente dall’amore (1 Gv.
4,12), e perciò il «Dio in noi», nel reciproco amore,
è il solo Dio che noi possiamo amare 15 (1 Gv. 4,12)

12 V, 1 56.
13 VI, 282.
14 II corsivo è mio.
15 II corsivo è mio.

93
tanto che è realmente vero ed un... argomento radi­
calmente apodittico per Giovanni che «chi non ama
il suo fratello che vede, non può amare Dio che non
vede» ( i Gv. 4,2o).16 Nel presupposto della presenza
dell’ordinamento soprannaturale della grazia per tut­
ti gli uomini è quindi vero che ogni genuino amore
del prossimo è, in modo formale e ‘tematico’, amore
di Dio; più ancora: poiché Dio risplende solo in
modo non oggettivo,17 trascendentale, come «espe­
rienza del limite» nel decisivo rimando al tu umano,
«Vamore del prossimo categoriale-esplicito è Vatto
primario delVamore di Dio»,18 in modo che, corri­
spondentemente, deve essere vero che «l’atto tema­
ticamente religioso come tale, in confronto, è e ri­
mane secondario», sebbene quanto all’oggetto abbia
una dignità superiore.19
Una tale costruzione è fatta soltanto con l ’aiuto
dei due elementi: «ordinamento morale» ed «eleva­
zione soprannaturale», senza esplicita menzione della
cristologia. Alla fine «si richiama l ’attenzione sul
fatto che ora per principio si dovrebbe considerare
esplicitamente anche il lato... cristologico della situa­
zione», ma tuttavia questa situazione di storia sal­
vifica ebbe validità per il tempo precedente da com­
parsa di Cristo, dal quale non viene che ‘radicalizza-
ta’ e portata «al suo vertice».20 Con questa osserva­
zione viene chiarita la posizione di Cristo nel disegno
cosmico generale. Se c’è materia e la sua graduale e-

16 VI, 280-281.
17 «Non come oggetto» ibid., 293. «Non oggettività di Dio»
iv, 59·
18 vi, 295, il corsivo è mio.
19 Ibid., 294.
20 Ibid., 296.

94
votazione per amore dell’uomo, in cui la creazione,
acquistando coscienza di sé, si trascende in ordine
a Dio, di fatto l ’illimitata apertura a Dio, che è lo
spirito umano, esiste per permettere a Dio la sua
ultima «spoliazione e manifestazione» in ciò che è
diverso da lui.21 L ’incarnazione del Logos in una per­
sona umana è ora un «elemento intrinseco e neces­
sario del dono che Dio fa di sé a tutto il mondo»,22
perché una simile divinizzazione del mondo «non
può essere affatto pensata senza l’unione ipostatica».23
Cristo è «il primo passo e l ’inizio permanente e la
garanzia assoluta della riuscita dell’ultima autotra­
scendenza che è per principio insuperabile»;24 egli
è una sola volta ciò che sempre deve divenire real­
tà per tutta l ’umanità, lo si può dedurre (natu­
ralmente solo nel pensiero postcristiano) come la
«conditio sine qua non» necessaria della divinizza­
zione del mondo e della mondanizzazione di Dio.25
Egli è «l’unico caso sommo dell’attuazione essenziale
della realtà umana, che consiste nel fatto che l ’uomo
è, in quanto si dona».26 Cristo è, per natura, real­
mente mediatore, più mezzo che fine, possibilità
ontica, idea direttiva per tutti coloro che in futuro,
nella loro autorealizzazione, realizzano anche il fine
perfetto dell’essere: «Chi accetta totalmente il suo
essere uomo... ha accettato il figlio dell’uomo, per­

21 V, 205.
22 V, 209.
23 208.
24 V, 18 6^ 18 7.
25 v , 2 0 1 -2 0 6 .2 1 6 ; I, 206 s.
26 i v , 1 4 2 . N e l v o i. 1, 18 3 si p a r la v a an co ra d e l « v e r tic e in ­
co m m e n s u ra b ile , c h e p e r ò è i l v e r tic e u n ic o d i u n ra p p o r to crea­
to re -crea tu ra » . In v e c e in v i , 348 « L ’u n ic o ca so su p re m o d e lla r e a ­
liz z a z io n e e sse n zia le d e ll’u o m o in g e n e r e » .

95
che in lui Dio ha assunto l ’uomo», ogni uomo.27 In
quanto «Cristo stava in tutta la storia come entele­
chia prospettica»,28 «la cristologia è fine ed inizio
dell’antropologia»,29 e «perciò tutta la teologia è in
eterno antropologia».30
Questa è esattamente la cristologia evoluzionistica
che Solowjew, fondandosi su Schelling, Hegel e su
Darwin, ha presentato nell’ultimo secolo come il
cristianesimo più moderno. Per lui «l’incarnazione
personale del Logos in un uomo individuo non è che
l ’ultimo membro di ima lunga serie di altre incarna­
zioni fisiche e storiche; l ’apparizione di Dio in un
uomo fisico non è che una teofania più completa, più
perfetta, in una serie di teofanie preparatorie incom­
plete».31 Cristo non è «qualcosa di estraneo nei con­
fronti delle leggi generali», ma la legge dell’evolu­
zione divenuta cosciente. Scrive Rahner: «Se Dio
vuole essere non-dio, sorge l’uomo, proprio questo
e null’altro».32 «In definitiva, la natura umana si
spiega in base all’automanifestazione con cui il Logos
stesso si esinanì».33
Ciò determina in anticipo la posizione della croce,
di tutta la soteriologia, in questo sistema, che si pre-
4
27 IV, 154.
28 I, 18 8
29 1, 2 0 5 ; c fr . 1, 1 8 4 : « C r is to lo g ia c o m e a n tr o p o lo g ia c h e tra­
s ce n d e se ste ssa e q u e s ta c o m e c risto lo g ia d e fic ie n te » .
30 iv, 150.
31 S o l o w j e w , V o r le s u n g e n iib e r d as G o ttm e n s c h e n tu m ( L e z io ­
ni s u lla u m a n ità d iv in a ), tra d . te d . d i H a r r y K o e h le r , in Ausg.
Werke in , 207. T r a i d o d ic i t ip i d i te o lo g ia h o tr a tta to q u e s to
t ip o o g g i così a ttu a le a l d e c im o p o s to in Herrlkhkett ( G lo r ia ) ,
v o i. 11, 1 9 6 2 . T u t t o c iò c h e T e ilh a r d h a d i e ssen zia le è a n tic ip a to
in S o lo w je w .
32 i v , 15 0 .
33 i v , 121.

96
senta come spiccatamente scotistico: l ’incarnazione
di Dio come scopo del mondo, anche senza il pec­
cato originale, e non l ’incarnazione in funzione della
redenzione.34 Perciò: «I misteri della soteriologia si
possono ridurre senza dubbio al mistero dell’incar­
nazione».35 Precisamente così: «Poiché il mondo...
diventa la storia di Dio stesso, il peccato, se ed in
quanto è nel mondo, è abbracciato in partenza dalla
volontà del perdono, l ’offerta della autocomunicazio­
ne divina diventa necessariamente... un’offerta del
perdono e della vittoria sulla colpa... La possibilità
di perdono non esiste in base all’uomo, ad ‘Adamo’
in quanto tale, bensì a motivo di quella forza del-
l ’autocomunicazione di Dio che da una parte pro­
duce a priori lo sviluppo di tutta la storia del cosmo,
ma dall’altra, in quanto essa stessa è storicamente
percettibile e scopre la propria meta, diviene mani­
festa nell’esistenza e nella realizzazione dell’esistenza
di Cristo. Il senso della proposizione è questo, che
noi siamo liberati dai nostri peccati ad opera di Gesù
Cristo. Ciò appare chiaro già per il fatto che la deci­
sione di Dio per Cristo e per la sua opera salvifica
produce quest’ultima e non ne è prodotta, per il
fatto che non propriamente l ’atto di Cristo causa in
Dio la volontà di perdonare, ma ne è causato».* È
strano che Rahner, il quale altre volte contro Ago­
stino difende con viva energia una dottrina dell’eco­
nomia trinitaria, qui, nel punto decisivo, parli sol­
tanto di ‘D io’, quasi che in croce la volontà salvifica
divina non si verificasse tra il Padre ‘che permette’
ed il Figlio abbandonato dal Padre in un solo Spirito

34 IV, 160.170; V, 213.


35 IV, 89.
36 v, 215, il corsivo è mio.

97
7 - C o r d u la o v v e r o s ia i l c a s o s e r io
santo, che unisce i due in quanto li separa! È per­
tanto del tutto antiquato separare una «volontà sal­
vifica di Dio per Cristo» dall’«atto di Cristo che
causa la volontà di Dio». Non rientra neppure nel­
l ’argomento quando Rahner, trattando della croce,
polemizza continuamente contro una dottrina giuri­
dica della soddisfazione37 (disconoscendo con ciò le
intenzioni ultime di Anseimo), poiché si tratta del­
l ’interpretazione dell’enunciato neotestamentario se­
condo cui Cristo in croce ha portato i nostri peccati.
Che cosa significa questo? Si esige con diritto una
risposta,38 che tuttavia contribuirà alla soluzione poco
più dell’avvenimento che non si deve badare tanto
all’«amara sofferenza» quanto alla morte, che in Cri­
sto significherebbe l ’accettazione definitiva da parte
di D io :39 il che è certamente vero, ma non fa vedere
la ragione per cui doveva avvenire una morte nel­
l ’abbandono di Dio (che soltanto l ’eterno Figlio di
Dio può conoscere nella sua profondità) come som­
ma dell’« amara sofferenza». Qui manca chiaramente
una theologia crucis, che Rahner finora non ci ha
dato. La valorizzazione della dottrina del cristiane­
simo anonimo40 (con lo sfondo evolutivo, che è stato
prima delineato), richiesta così insistentemente per
la situazione odierna, ha come conseguenza una sva­
lutazione proporzionale della teologia della croce e
corrispondentemente della teologia della vita cristia­
na sulla base del caso serio. Infatti, in base a quel
che abbiamo sentito, l ’uomo redento non è propria­

37 i, 2 1 3 - 2 1 6 ; i v , 1 6 0 .1 6 4 s. e p a ssim .
38 1, 213
39 i v , 1 6 3 -1 6 6 .
40 v i , 522.

98
mente debitore a Cristo, ma alla eterna volontà sal­
vifica di Dio, che gli diviene percettibile «nella rea­
lizzazione dell’esistenza di Cristo». Perciò il «caso
serio» è superfluo, e difatti non se ne parla più.
G li accenti in verità non furono sempre posti così.
Una volta Karl Rahner era un grande sostenitore
della «Ecclesia ex latere Christi», e quindi del culto
al cuore di Gesù; egli riteneva che qui fosse il vero
centro. «La fonte originaria dell’amore è il cuore del
Signore».41 Precisamente come il «cuore più ango­
sciato, messo a nudo, morto». In questo era posto
ciò che è «proprio del tempo» e «della missione».42
È stato anche detto che tale culto è una interna
compensazione alla pietà ignaziana che, per il suo
fondamento nella indifferenza, correva il rischio di
avere una «sensibilità quasi eccessiva per la relati­
vità di tutto ciò che non è Dio stesso». «Ignazio è
l ’uomo della pietà trascendentale, non tanto di quella
categoriale».43
Ora dobbiamo fermarci un momento e porre una
domanda: il culto al cuore di Gesù dev’essere in­
teso come un completamento categoriale di una
pietà trascendentale? Oppure, in questa «fonte ori­
ginaria dell’amore» diviene chiara la fine di tutta
la filosofia kantiana? Nel cuore trafitto del crocifisso
vedo l ’amore di Dio trinitario, oppure no? Giovanni
dice che lo vedo, quantunque nessuno abbia mai ve­
duto Dio. Lo vedo, ma non allo stesso modo in cui
si fa una sintesi categoriale di O ed S. Non dovrem­

41 Sendung und Gnade ( M is s io n e e grazia) 1 9 5 9 , 3 3 3 (tr a d .


it. ed. P a a lin e , R o m a ).
42 Ibid., 4 5 6 .
43 Ibid., 3 2 0 .3 2 2 .

99
mo piuttosto riesaminare ancora una volta, assieme
alla notevole prova scritturistica, tutto il discorso
della «non oggettività» di Dio, che solo nel pros­
simo diventa oggetto di risposta umana primaria?
Naturalmente Gesù compendia in uno solo i due
comandamenti dell’Antico Testamento, e rende il
secondo uguale al primo. Ed altrettanto natural-
mento lo fa in virtù della propria incarnazione, come
è supposto in forma esplicita nella parabola del giudi­
zio quando si dice: «Tutto ciò che avrete fatto al
più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me».
È quindi una parola collegata definitivamente alla
sintesi rappresentata da Gesù Cristo,44 e perciò non
può essere costruita mediante una congiunzione a-
stratta di ‘natura’ e ‘soprannatura’ (moralità e ca­
rità). Inoltre, il senso veterotestamentario delle due
parti viene citato molto consapevolmente e non
scompare semplicemente nella sintesi, in modo che
in senso neotestamentario si possa dire altrettanto
bene: amerai il tuo prossimo con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima e con tutto il tuo spirito. In
Cristo fatto uomo si realizza il traboccare della tota­
lità, di cui siamo debitori a Dio, sul prossimo, essen­
zialmente perché egli stesso è il prossimo, *o (nella
parabola del samaritano) si è fatto tale con tutto il
suo amore per noi, che giacevamo mezzo morti sulla
strada. Certamente: il samaritano non è un orto­
dosso, tanto meno un sacerdote e un levita, è il
tipico ‘eretico’ (tuttavia non un ‘pagano’ ) che, nono-

44 Q u a n tu n q u e la sin te si a b b ia p o tu to essere a v v ia ta g ià n e l
r a b b in a to c o n te m p o r a n e o (Le. 1 0 ,2 7 ) , m a n a tu r a lm e n te c o n i l p ri­
m a to d el c o m a n d a m e n to d e lT a m o r d i D io . Uno s p o sta m e n to di
q u e s to p r im a to s u ll’am o re d e l p ro ssim o e q u iv a r r e b b e in o g n i caso
a d u n a b b a n d o n o d i t u t ta T e tic a te o lo g ic a v e te ro te sta m e n ta r ia .

IOO
stante abbia una fede offuscata, fa il bene. Ma è so­
prattutto l ’invenzione di Cristo, un simbolo di lui
stesso che fuori «del campo del patto» della orto­
dossia (E b. 13 ,11-13 ) ha attuato l ’adempimento.
Interpretare Giovanni escludendo Cristo dovreb­
be essere inammissibile già da un punto di vista
esegetico. È noto che Giovanni argomenta in forma
circolare, e che si devono sempre tener d ’occhio con­
temporaneamente i due movimenti circolari. Sempre
i discorsi d ’addio e la prima lettera presuppongono
l ’amore diretto dei discepoli per Gesù, e precisa-
mente un amore che trascende la sua umanità, cioè
la fede che egli è Figlio di Dio: «Lo stesso Padre,
infatti, vi ama, perché voi mi avete amato e avete
creduto che io sono uscito da Dio» (Gv. 16,27). Il
«rimanete in me», ripetuto sei volte nell’allegoria
della vite, esige naturalmente l ’amorosa perseveranza
nella fonte dell’amore cristiano, affinché il cristiano,
per il reciproco amore tra il discepolo ed il Signore,
osservi il nuovo comandamento. Ciò è detto nuova­
mente in forma circolare: «Se uno mi ama osserverà
la mia parola» (14,23) e «chi ha i miei comanda-
menti e li osserva: ecco chi mi ama» (14,21). Prova
del loro amore per il Signore è il fatto che i disce­
poli lo lasciano andare al Padre (14,28). Anche nella
lettera non si può escludere neppure per un mo­
mento l ’implicazione cristologica, perché il modello
dell’amore, enunciato in forma positiva e negativa,
è sempre l’amore di Cristo: «In questo sta l ’amore:
non noi amammo Iddio, ma egli amò noi e inviò il
Figlio suo a espiare per i nostri peccati» ( 1 Gv. 4,10).
«Ecco ora da che cosa abbiamo conosciuto l ’amore:
dal fatto che egli offrì la sua vita per noi» (3,16).

101
C ’è quindi identità, ma soltanto in senso cristologico,
e con l ’assoluta priorità dell’amore di Dio (genitivo
in senso tanto soggettivo quanto oggettivo), che poi
da Dio ed assieme a Dio si riversa sul prossimo.
Il Cristo, che vive in me, mi è così intimo (è più
vicino di quanto io lo sia a me stesso) perché è
morto per me, perché mi ha preso con sé sulla croce
e mi prende continuamente con sé nell’eucaristia.
Come potrebbe il rapporto con un mio simile essere
paragonabile a quello, e perciò esigere da me come
risposta lo stesso amore? Il ponte per l ’amore ai
fratelli nel senso di Cristo è costituito dal fatto che
egli ha compiuto per ognuno ciò che ha compiuto
per me.45
Cos’è un’esistenza carmelitana? Offerta di tutto
il proprio essere al Dio di Gesù Cristo, affinché egli
usi e consumi quest’essere secondo il suo amoroso
beneplacito per l ’opera della redenzione. Si deve ri­
conoscere in essa la vera identità dell’amore del
prossimo con l ’amore di Dio, ma non come la de­
descrive K. Rahner: l ’«atto religioso in quanto tale»
è addirittura primario.
Inoltre, il sorvolare sulla croce e su tutto «il con-
testo di essa priva il peccato della sua gravità; una
esistenza per l’espiazione della colpa del mondo ap­
pare molto poco ‘operativa’ per quel che riguarda
l ’amore del prossimo. Ed infine, chi può ‘accettare
pienamente l ’essere uomo’ con la decantata ‘onestà’

45 N a tu r a lm e n te c o n c iò n o n è n e g a to i l le g ittim o p e n s ie ro d i
K a r l R a lm e r c h e u n a fid e s im p lic ita e d u n a c o rr is p o n d e n te c a r ità
so p ra n n a tu ra le e sista n o fu o r i d e l c a m p o c ristia n o (cfr. L e . 2 1 ,1 - 4 )
e b i b l ic o (cfr. Mi. 1 5 ,2 1 -2 8 e cc.), e p o s sa n o e siste r e a n c h e in a t e i
te o r e tic i (Rom. 2 ,1 4 - 1 6 ) .

102
e nel 'coraggio per il dovere quotidiano’, senza in­
contrarvi il suo proprio peccato? Che fa allora? Lo
dimentica? Lo perdona a se stesso? O lascia che
esso scompaia nella divina volontà universale di ri­
conciliazione? In che modo però, se la sua coscienza
fosse quella di un Lutero?

103
4 · Il futurismo

Con l ’ultima parola d’ordine teologica, ‘fuga in


avanti’, ci portiamo sul fronte più avanzato: là dove
la grande apertura dinamico-evolutiva nella moderna
immagine del mondo verso il futuro s’incontra con
il pensiero biblico dell’Esodo, interprete della per­
manente estraneità del cristiano in questo mondo
in senso non soltanto statico, ma anche dinamico,
verso il futuro messianico-escatologico del mondo,
verso l ’avvento del regno di Dio. Fuga dal mondo
- perché la patria è altrove — non si può negare che
sia un motivo cristiano, ma dev’essere «fuga dal
mondo illuminata dalla speranza», e precisamente
assieme al mondo (di cui pure la Chiesa è una parte)
‘in avanti’, verso il completamento. La speranza
non è una semplice attesa, appoggiata su un ieri ed
un oggi, la cui incongruenza del mondo viene sentita
dolorosamente dai cristiani, ma dev’essere piuttosto
‘produttiva e battagliera’, i suoi dolori devono es­
sere dolori del mondo in doglie in attesa della na­
scita definitiva. Non possiamo avere due fini ultimi,
uno naturale ed uno soprannaturale; il mondo, che
l ’uomo deve costruire con le forze naturali, è anche
il regno di Dio, al cui avvento egli deve cooperare
con le doglie del parto (G v. 16,21-22; Rom. 8,22-

104
23). La speranza quindi, in quanto è aperta, non
dispone di nessuna immagine ('scientifica’ ) del futu­
ro, anzi neppure del riconoscimento di un progresso,
e tuttavia, nel servizio ai fratelli, collabora alla for­
mazione del regno, sperando contro ogni speranza
a dispetto della morte, è una vita tra croce e risur­
rezione, impegnata nello stesso tempo sul piano
escatologico e mondano, nello stesso tempo spiri­
tuale e politico.
Simili accenti non sono nuovi nella storia della
pietà e della teologia. La radice ultima di essi è
certamente il messianismo del tardo giudaismo, che
sta esattamente nella problematica tra attesa ed av­
vento della fine (cf. ad es. Gog e Magog di Martin
Buber); la tensione è ancora avvertibile all’inizio
(della teologia ecclesiastica in Ireneo;46 in seguito
viene nascosta da un certo platonismo. Ricompare al
seguito degli idealisti, grande nella teologia politica
di Solowjew, con indirizzo diverso nel socialismo
religioso di Kutter e Ragaz e nel primo commento
di Karl Barth alla lettera ai Romani (1919).
È la teologia dello Spirito santo; infatti, il grande
passo sul sospiro della creatura, soprattutto dei figli
di Dio, verso la redenzione del mondo materiale si
trova nel capitolo della lettera ai Romani che tratta
dello Spirito. «Poiché non sappiamo né che cosa si
ha da chiedere nella preghiera, né come convenga
chiederlo» (non disponendo di nessuna immagine
del futuro), lo Spirito viene in aiuto alla nostra de­
bolezza «con gemiti inesprimibili, e colui che scruta
i cuori sa qual è il desiderio dello Spirito: sa che

46 C fr . Herrlkhkeit, l i , 9 2 -9 3 .

105
egli intercede a favore dei santi secondo gli intendi­
menti di Dio» (Rom. 8,26-27).
Ma in questo passo è legittimo anche il discer­
nimento degli spiriti. Non v ’è dubbio che il posto
che il pensiero cristiano deve concedere allo Spirito
santo non è mai abbastanza ampio. Gesù Cristo, Dio
in terra nella forma di servo, fu un momento breve,
appena percettibile, nella storia del mondo. Un paio
di parole, un paio di atti, e tutto è già passato. «Vi
conviene che io vada... Quando però verrà lui, lo
Spirito di verità, vi introdurrà a tutta intera la ve­
rità» (G v . 16,7.13). La limitata rivelazione a parole
ed in opere si apre in dimensioni che sono familiari
soltanto allo Spirito di Dio. Egli è spirito, non più
parola; è libertà, non legata a nessuna filologia ed
esegesi umane; le sue interpretazioni non sono per
principio passibili di conclusione, sono sempre nuo­
ve, sempre sorprendenti, sempre più grandi di quan­
to hanno pensato i teologi; sempre più scomode di
quanto ha sperato una cristianità imborghesita. Chi
è ‘nello Spirito’ viene ‘rapito’, perde il terreno
sotto i piedi; non potrebbe essere ‘nello Spirito’, se
si tenesse fermo a qualche cosa. Lo Spirito è anche
quello che rende testimonianza (Rom. 8,16; 1 Gv. 5,
9-10), ed assieme a lui testimoniano i discepoli (Gv.
15,26-27). Se con la loro vita danno una testimo­
nianza di sangue, sembra che la diano nel campo
dello Spirito che, pieno di conoscenza, con la testi­
monianza e col proprio gemito sostiene la loro pre­
ghiera gemebonda che anela, senza conoscerlo, al
venturo regno di Dio e del mondo. È testimonianza
profetica e martirio, non più obbligati a quel lon­
tano passato storico della croce e morte di Gesù,

106
non attaccati con un piede al piuolo d ’una effettività
storica, ma nella libera accettazione autoresponsabile
delle doglie del mondo «verso la futura gloria che
dovrà manifestarsi in noi» (Rom. 8,18). Se un simile
uomo dello Spirito diventa martire, diventa martire
del regno venturo di cui custodisce in se stesso una
attesa più grande, più aperta che non coloro che
l’uccidono.
Ma non è un martire di Cristo. Il suo martirio
non è una risposta al martirio di Cristo che è morto
per lui. Tuttavia, dello Spirito, che introdurrà alla
verità totale, è detto: «Egli non parlerà per conto
suo, ma dirà quanto ascolta, e vi annunzierà le cose
da venire. Egli mi glorificherà, perché prenderà del
mio per comunicarvelo» (Gv. 16,13-14). La conca­
tenazione di tali parole è paradossale, perché se lo
Spirito non parla per conto suo, ma deve ascoltare
per annunziare, sembra che, se ascolta le cose di
Cristo, le ascolti come passate, ed allora non possa
annunziare ciò che è futuro. Eppure, proprio que­
sto viene detto. La glorificazione, che lo Spirito in­
traprende con le sue interpretazioni, è quella di
Cristo. Non si tratta di glorificazioni indipendenti,
in cui lo Spirito renda pubbliche le proprie esplo­
razioni delle profondità della divinità (1 Cor. 2,10);
se porta il mondo alla «gloria futura» (Rom. 8,18)
ed alla «libertà magnifica dei figli di Dio» (8,21),
anche questo sarà ancora una volta la glorificazione
di Cristo. Cristo è dunque il futuro, in quanto è il
passato interpretato. «Videbunt in quem transfi­
xerunt».”

47 N o n per n u lla q u e s te p a r o le so n o c ita te n e lP A p o c a lis s e .


I l lib r o d e l fu tu r o d e lla B ib b ia e d e lla cristia n ità m e tte in stre ttis-

107
Qui si decide se la ‘fuga in avanti’ è alla fine
una fuga dalla croce o verso la croce. Se i dolori
della formazione del mondo nello Spirito santo sono
rinterpretazione della croce ad opera dello Spirito -
nel senso di sopportare le sofferenze di Cristo {Col.
1,24) e le doglie del parto finché Cristo abbia assunto
forma nel mondo {Gal. 4,19) - , oppure se si tratta
di un processo cosmologico o pneumatologico, in cui
lo spirito dell’umanità lotta per giungere dalla estra­
niazione al proprio essere. Anche se si pensasse il
secondo aspetto integrato nel primo, il criterio della
cristianità nel complesso sarebbe, sia prima che do­
po, il caso serio.
Ogni abbozzo cristiano del futuro cadrà, e dovrà
cadere, nel vuoto, se non rimarrà orientato cristia­
namente, cioè verso Cristo. Cristo non è tuttavia un
programma che si possa abbracciare con lo sguardo,
travasare in bottiglie e quindi assumere semplice-
mente nella ‘operazione futuro’. Soltanto nell’aper­
tura della contemplazione e della preghiera che sta
in ascolto, si disvela, in modo sempre nuovo, che
cosa Cristo, nostra fonte, dice e vuole. Ogni azione
che non ha radici nella contemplazione, è condan­
nata in partenza alla sterilità.

s im o r a p p o r to la p r o fe z ia d e llo s p ir ito e d i l m a r tirio (a d e s. 1 8 ,2 4 ).


Ma m a r tirio è dovunque te s tim o n ia n z a p e r C r i s t o con k m o r te
( 6 ,9 ; 7 ,1 4 ; 1 2 ,1 7 ; 1 8 ,2 4 ; 1 9 ,1 0 ; 20 ,4).

108
5- Noi, atei anonimi, ed il nostro dialogo

Abbiamo ripreso il corso delle idee a tutti i livelli


che abbiamo descritto e lo abbiamo posto di fronte
alla decisione sul caso serio. Ma non sempre ciò è
possibile. Nei princìpi (soprattutto quando vengono
enunciati in forma di_ slogan) è implicito che, una
volta enunciati, se ne possono trarre automatica-
mente le conclusioni. Chi enuncia in tal modo parole
d ’ordine, si assume la responsabilità del fatto che
esse si impongono nella nuda forma di manifesto,
senza i dotti commenti che egli aggiunge per chia­
rirle e limitarle. Alla gente basta il titolo, che ha
un significato a sé e non ha affatto bisogno di una
successiva trattazione per produrre il proprio effetto.
Non si può dire che non sia stato inteso in quel
modo. Chi dice ‘demitizzazione della Bibbia’ viene
inteso in ogni caso come se ‘la Bibbia’ fosse mitica.
In quale misura, per il pubblico è un’altra questio­
ne, molto meno rilevante. Chi afferma di fare ‘teo­
logia in quanto antropologia’, dice per lo meno che
ogni proposizione, che in questa scienza viene detta
su Dio, è detta anche in qualche modo sull’uomo;
ma lascia però tacitamente in ombra il presupposto
di una teologia, e cioè che essa è logos del Dio che
parla e che riguarda anzitutto l ’uomo che ascolta e

109
non anche l ’uomo che parla; la ‘ ...logia’ nell’appa­
rente univocità è una confusione. Chi parla di ‘cri­
stiani anonimi’ non può (e nemmeno vuole) respin­
gere una fondamentale univocità tra cristiani col
nome e cristiani senza il nome, e per conseguenza
può essere irrilevante, nonostante tutte le proteste
successive, che si confessi il nome oppure no. Chi
proclama l ’identità dell’amore di Dio e del prossimo
e pone l ’amore del prossimo come l ’atto primario
dell’amore di Dio, non deve stupirsi (e neppure si
stupisce) se diviene indifferente che l ’uomo confessi
un Dio oppure no. La cosa principale è che uno ab­
bia l ’amore. Ammesso che sappia che cos’è l ’amore.
Ma con quale metro l ’uomo, che è essenzialmente
peccatore, misura l ’amore? Certamente in base a ciò
che forse, con un certo sforzo, è ancora in grado di
fare. Ma un tale metro è sufficiente e può essere in­
terpretato (con la grazia di Dio) come caritas? «In
questo sta l ’amore: non noi amammo Dio...» ( i Gv.
4,10) «...ma Dio dimostra il suo amore verso di noi
per il fatto che Cristo è morto per noi quando si
era ancora peccatori» (Rom. 5,8). Viene così meno
la misura dell’amore con cui rendiamo a Dio l ’onore,
e veniamo posti sotto la sua misura, la quafe esige
che anche noi dovremmo dare la vita per i fratelli.
Solo Dio sa con certezza chi lo fa.
La teologia che si sviluppa da princìpi enunciati
in forma di slogan, è sempre una teologia che livella,
impoverisce e riduce, in definitiva è una teologia di
liquidazione e di svendita; lo voglia o no, si avvi­
cina in modo asimptotico all’ateismo. Un avvicina­
mento del genere, infatti, era la prima decisione pos­
sibile nell’alternativa posta all’inizio. Questo movi-

110
mento ha due cause: una è il tedio per la forma tra­
dizionale della fede ed il bisogno di trovare final­
mente qualcosa di più semplice, di più comprensibi­
le, di più adeguato all’uomo moderno. Lasciamo stare
per il momento questo primo motivo, che del resto è
dovunque avvertibile. La seconda causa è il bisogno
umano e cristiano del dialogo, che al livello più alto
è appunto un dialogo con l ’ateismo. Se si riuscisse
a ridurre tutto il cristianesimo ad umanesimo e, ciò
nonostante, a conservare ancora la convinzione di
| aver raccolto il massimo quasi per compressione nel
punto minimo (cioè l ’amore di Dio nell’amore del
prossimo), in modo che il dialogo con l ’ateismo po­
tesse svolgersi partendo dal centro della verità cri­
stiana, l ’offerta dialogica da parte nostra sarebbe
I * perfetta. Ma mentre noi possiamo considerare con
molta onestà i nostri interlocutori come cristiani
anonimi, nel caso che pratichino sempre la fedeltà e
l ’onestà, ed il buon Dio valuti ed interpreti sempre
le loro virtù in modo soprannaturale come fede,
speranza e carità, essi ci opporranno certamente il
loro diritto di considerare noi come atei anonimi,
perché tutta la nostra cosiddetta dogmatica altro
non sarebbe che la sovrastruttura ideologica di un
umanesimo idilliaco e della sua antropologia. Hanno
torto? Questo è l ’importante. Che cosa in pratica?
Il caso serio. Ma il semplice morire - per quanto
talora possa fare impressione - interrompe umana­
mente il dialogo? Ed un simile dialogo è richiesto!
Dobbiamo quindi porci la domanda: quale forma
il dialogo dovrebbe assumere da parte cristiana?
N ell’umanesimo, che il cristianesimo deve pre­
sentare, dovrebbero divenire visibili tutte le pre-

I
i III
messe che sono state poste da Dio nella rivelazione
al mondo.48 Se riuscissimo a fare dell’esistenza cri­
stiana una funzione della rivelazione al mondo, per
mezzo nostro sarebbe possibile far sentire qualcosa
della parola di Dio al mondo. Si dovrebbe partire
non dalla intersoggettività umana, ma da quella di­
vina, nella quale l’uomo viene introdotto per mezzo
dell’apertura della Trinità nell’incarnazione. Ciò av­
viene nelle parole di Gesù Cristo che ci invita a
chiamare assieme a lui ‘abba’ il Padre trinitario, in
quanto è lui che porta i nostri peccati (che ci impedi­
scono di dire ‘padre’ ) e che ci attrae nella sua forma
di vita di perfetta povertà ed obbedienza in un sen­
timento di verginità (nel caso sommo, addirittura
corporale). Egli infatti rende al Padre l ’onore, la­
sciandogli libero in se stesso ogni spazio per il suo
regno e per la sua volontà. E questo, sia che svolga
l’attività di falegname per trent’anni, sia che predi­
chi in pubblico per un paio di mesi. La disponibilità
illimitata verso il Padre, che può essere chiamato
1 ’ ‘atteggiamento confitente’ di Gesù, gli 'permet­
te di portare in sé il prossimo al Padre, e cammin
facendo di condurlo mediante la sofferenza in un soli­
tario posto nascosto, del quale il peccatóre non sa
nulla e che non è ‘dialogico’ . Del rapporto del cri­
stiano col prossimo sarà quindi dedicato al dialogo
solo un certo livello, e neppure il più importante; la
cosa più essenziale si attua nella preghiera, le cui di­
mensioni si estendono fino all’abbandono sulla croce.
Dalla Trinità, che diviene accessibile nel cuore aper-

Glaubhaft ist nur Liebe, 1 9 6 3 ,


48 P e r c iò c h e se g u e c fr. a n c h e
Solo l'amore è credibile, B o r ia , T o r in o 1 9 6 5 ) ; Dos
7 3 s. (tr a d . it.
Ganze im Frangment ( I l t u t t o n e l fr a m m e n to ) 1 9 6 3 .

1 12
to perché trafitto in croce, sgorga il mistero origi­
nario dell’inimmaginabile amore eterno, e di là, da
esso avvinto, il cristiano apre il proprio cuore (sen­
za limiti fino alla morte) al fratello. A d un livello su­
perficiale dialoga con esso, alternativamente lo inter­
pella e ne è interpellato, seriamente e con l ’impegno
del suo cuore aperto; ma nel profondo, nei confronti
del fratello egli è già a quel punto dove in croce
ogni dialogo tra Cristo e l ’uomo è interrotto, perché
ora Cristo ha gli uomini in se stesso, ed essi lo met­
tono a morte. Morire è ora l ’azione, nel silenzio. In
superficie il cristiano può scuotere la polvere dai
piedi e passare oltre (Mi. 10,14), ma nel profondo
egli porta in se stesso l ’amico o l ’avversario in modo
che «mi augurerei d ’essere io stesso maledetto, sepa­
rato da Cristo per i miei fratelli e parenti» (Rom.
9,3). Questo elemento portante di ogni dialogo non
è colloquiale, non è neppur necessario che sia reso
noto all’interlocutore. L ’elemento teoretico, che dif­
ferenzia l ’umanesimo del cristiano da ogni altro uma­
nesimo, in pratica comparirà nella sfera del dialogo
solo come fenomeno terminale: come disposizione
al caso serio. Avviene ora una cosa strana: proprio
la disposizione transdialogica di andare col prossimo
molto più in là di quanto si possa andare nel dialogo
in genere, apre il cuore cristiano al miglior dia­
logo possibile e al più lungo. Il cristiano si lascia
toccare più a fondo di chiunque altro, perché il suo
interlocutore, forse avversario, è portato nel cuore
crocifisso esattamente come lui. Per motivi di pru­
denza ecc., egli può aggiornare un dialogo; non lo
può interrompere definitivamente. Infatti, sulla croce
il muro divisorio, che provvisoriamente separa gli

113
8 - C o r d u la o v v e r o s ia il c a s o serio
interlocutori, è per sempre abbattuto (E f. 2,14). Non
però mediante discorsi, ma mediante la sofferenza
più solitaria.
Tutto il mondo della Chiesa dovrebbe forse la­
sciarsi integrare anche in questo presupposto? Cer­
tamente, e qui acquistiamo criteri preziosi per il
vero significato e la vera portata dell’ultimo concilio.
Ma proprio tali criteri sottostanno ancora una volta
al nostro criterio: è questo in definitiva che può
distinguere in quale misura quelli indicano vie di rin­
novamento oppure vie di livellamento. La Chiesa de­
ve in ogni circostanza «essere splendore della gloria
di Cristo per tutti gli uomini» (Const. De Eccl. 1 , 1 ) ,
e gloria in senso biblico significa l ’amore eterno che
risplende nell’unità di croce e di risurrezione. Nel
campo sacramentale come in quello istituzionale ed
esistenziale-comunitario la Chiesa dev’essere una ve­
ra, credibile trasmissione del mistero trinitario-cristo-
logico in tutto il mondo, ogni suo ‘per sé’ dev’essere
evidentemente un ‘per tutti’, tutte le sue strade
dovrebbero essere, come quelle della Gerusalemme
celeste, ‘vetro trasparente,’ sulle quali scorre «un
fiume d’acqua di vita splendente come cristallo»
{Ap. 2 1,2 1; 22,1-2). Ciò è molto più difficile della
erezione di un edificio egoisticamente chiuso; il con­
cilio ha chiaramente reso più difficile la vita della
Chiesa; coloro che in tutto ricercano alleggerimenti
e ad ogni barriera che cade lanciano grida di giubilo
per il ‘progresso’ e per la crescente ‘maturità’, non
comprendono ciò che stava a cuore ai Padri. Cioè
di far giungere, completo ed intatto per opera della
Chiesa, che è un mistero divino, il raggio misterioso
dell’amore trinitario e crocifisso al mondo mondano.
Aggiungiamo che soltanto una tale immagine della
Chiesa - comunicazione di tutto l ’amore di Dio a
tutto il mondo — rende possibile il vero amore del
prossimo; devono cadere le barriere che Agostino,
ostacolato dalla sua idea di una duplice predestina­
zione al cielo ed all’inferno, ha posto, e cioè che
ognuno in fondo può sperare soltanto per se stesso.
No: al contrario io devo poter sperare per ogni fra­
tello a tal punto che, in un eventuale caso serio,
quando si trattasse di entrare o lui od io nel regno
di Dio, io con Paolo (Rom. 9,3) sia disposto a la­
sciare a lui la precedenza. Per sapere quello che ciò
significa, si dovrebbe avere al centro del proprio
spirito una teologia del venerdì santo - della discesa
di Cristo agli inferi - od almeno una teologia della
notte oscura, di cui Giovanni della Croce ci ha dato
una descrizione sperimentale. Ma oggi, chi ha tempo
per simili preoccupazioni?
Questo dovrebbe essere il modo per un cristiano
di presentarsi al dialogo con il non cristiano, se non
vuole dimostrarsi del tutto indegno del nome di cri­
stiano. Il cristiano non sorvola sul contenuto della
fede, non lo riduce ad un superficiale mormorio uma­
nistico, ma ne risponde pienamente e, con la grazia
di Dio, lo presenta nella situazione della sua mis­
sione. È del tutto sicuro che ciò è possibile, poiché:
«non vi preoccupate del come e di ciò che dovrete
dire... è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi»
(M t. 10,19-20). Ciò significa con ogni possibile esat­
tezza: smettetela con le vostre squallide trasposi­
zioni dei misteri di Dio in moderne Nursery Rhymes
(poesie per bambini); la parola del Padre mio non
è adatta per Play Bach (sonate di Bach), non fatemi

115
una Basic Theology (teologia di base), secondo la
quale non più Dio ma il presunto interlocutore del
dialogo dà la misura, e che nasce unicamente dalla
vostra ansietà (e che rivela benissimo l ’ambizione
cosciente del vostro ruolo) di essere all’altezza dei
tempi, ma credete piuttosto a ciò che io vi ho pro­
messo: che lo Spirito del Padre vostro sarà abba­
stanza spirito ed avrà abbastanza spirito per domi­
nare le vostre ‘situazioni’.

116
6 . Se il sale diventa scipito

Casa in distruzione è la sapienza per il


fatuo, e parole disordinate la scienza per
Vinsensato.
Eccl. 21,18.

Il commissario (ben intenzionato): Compagno cri­


stiano, mi puoi dire una buona volta chiaramente
che cosa siete voi cristiani? Che cosa propriamente
volete ancora nel nostro mondo? In che cosa ve­
dete il vostro diritto airesistenza? Qual è il vo­
stro mandato?
I l cristiano·. Anzitutto noi siamo uomini come tutti
gli altri, che collaborano adopera di edificazione
del futuro.
Il commissario: La prima cosa la credo, la seconda
la voglio sperare.
Il cristiano·. Da qualche tempo noi siamo infatti
/aperti al mondo’, ed alcuni di noi sono persino
seriamente ‘convertiti al mondo’ .
Il commissario: Questo mi pare un sospetto lin­
guaggio da prete. Sarebbe, infatti, ancor più bello
se voi, ‘uomini come gli altri’, vi foste convertiti
già prima ad un’esistenza degna di uomini. Ma
veniamo al fatto. Perché siete ancora cristiani?
Il cristiano: Oggi noi siamo cristiani maturi, pen­
siamo ed agiamo con responsabilità morale.
Il commissario: Lo voglio sperare, dal momento che
vi presentate come uomini. Ma credete qualcosa
di particolare?

117
Il cristiano·. Questo non è tanto importante; ciò che
importa è la parola epocale; l ’accento oggi cade
sull’amore del prossimo. Chi ama il prossimo, ama
Dio.
I l commissario·. N ell’ipotesi che esista. Ma poiché
non esiste, non l ’amate.
Il cristiano: Lo amiamo implicitamente, in modo
non oggettivo.
Il commissario: A h, la vostra fede quindi non ha
un oggetto. Andiamo avanti. La cosa diventa
chiara.
I l cristiano: Non è del tutto così semplice. Noi cre­
diamo in Cristo.
Il commissario: Ne ho già sentito parlare. Ma sem­
bra che storicamente se ne sappia maledettamente
poco.
Il cristiano: Concesso. Praticamente nulla. Perciò
noi non crediamo tanto al Gesù storico quanto
al Cristo del kerygma.
Il commissario: Che razza di parola è questa? Ci­
nese?
Il cristiano: Greco. Significa la predicazione del
messaggio. Noi ci sentiamo toccati dall’evento lin­
guistico del messaggio della fede.
I l commissario: E che mai c’è in questo messaggio?
Il cristiano: L ’importante è il modo in cui se n’è
toccati. A d uno può promettere il perdono dei
peccati. Questa, in ogni caso, era l ’esperienza della
comunità primitiva. A ciò dev’essere stata indotta
dagli eventi relativi al Gesù storico, del quale ve­
ramente non sappiamo abbastanza per essere certi
che lui...

118
Il commissario·. E questo chiamate la vostra conver­
sione al mondo? Siete gli oscurantisti di sempre.
È con simili chiacchiere prolisse che volete colla­
borare all’edificazione del mondo!
Il cristiano {gioca la sua ultima carta): Abbiamo Tei­
lhard de Chardin, che in Polonia fa una grande
impressione!
I l commissario: La facciamo già noi. Non abbiamo
bisogno, per questo, di dipendere da voi. Ma è
bello che anche voi siate giunti infine a tal punto;
soltanto, liquidate definitivamente le carabattole
mistiche, che non hanno nulla a che vedere con
la scienza, e allora potremo discorrere tra noi del­
l ’evoluzione. Nelle altre storie non entro. Se voi
stessi ne sapete così poco, non siete più pericolosi.
Con ciò ci risparmiate una pallottola. Abbiamo in
Siberia dei campi molto utili, dove potrete dimo­
strare il vostro amore per gli uomini e collaborare
validamente all’evoluzione. Là si ricaverà di più
che sulle vostre cattedre tedesche.
Il cristiano {un po’ deluso): V oi sottovalutate la di­
namica escatologica del cristianesimo. N oi prepa­
riamo il futuro regno di Dio. N oi siamo la vera
rivoluzione mondiale. Egalité, liberté, fraternité:
questo è il nostro compito originario.
I l commissario: Peccato che altri abbiano dovuto
lottare per voi. Dopo, non è difficile essere pre­
senti. Il vostro cristianesimo non vale un fico
secco.
I l cristiano: V oi siete con noil Io so chi voi siete.
Tu pensi onestamente, sei un cristiano anonimo.
Il commissario: Non diventare insolente, giova­
notto. Anch’io ora ne so abbastanza. V i siete
liquidati da soli, e con ciò ci risparmiate la per­
secuzione. Via.
IV. Cordula

Quando gli Unni videro le ragazze, si


lanciarono su di esse con grandi grida e
infierirono come lupi tra le pecore e le
uccisero tutte quante.
Ci fu una vergine, di nome Cordula, che
per la gran paura si nascose durante la
notte nella neve; ma il mattino dopo si
offrì volontariamente alla morte e rice­
vette così la corona del martirio. Ma
poiché la sua festa non veniva celebrata,
perché non aveva sofferto assieme alle
altre, molto tempo dopo apparve ad una
eremita e le manifestò che la sua festa
doveva essere celebrata il giorno dopo la
festa delle unidicimila ragazze.

Leggenda delle undicimila vergini.


Chi è il cristiano? Uno che impegna la propria vita
per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita
al crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fra­
telli? Non soltanto cose visibili; il suo dono - ciò
che è stato dato a lui stesso - affonda nelle cose invi­
sibili di Dio. «Voi siete morti infatti, e la vostra vita
è nascosta con Cristo in Dio» {Col. 3,3). Se pensasse
di poter rendere visibile e dare tutto ciò che egli è,
il cristiano sarebbe un superficiale e non avrebbe più
nulla di profondo da donare. Ci sono cose che egli
può dare e mostrare; ma esse non si trovano nel
campo in cui si è soliti delineare la Chiesa visibile:
culto, feste, sacramenti, uffici sacri. Sono piuttosto
semi di vita divina che, convogliati da questi canali,
dovrebbero fiorire nei cristiani. È difficile esprimerli
in concetti, perché più che una realtà esprimibile
sono un profumo che spira da Dio. «Siamo il buon
odore di Cristo...» (2 Cor. 2,13). Paolo descrive il
giardino dell’amore, che sulla terra incomincia a fio­
rire, con molti nomi: «Tenera compassione, bontà,
umiltà, mitezza, pazienza, reciproca sopportazione...
pace di Cristo... soprattutto la carità» {Col. 3,12-15).
E d ancora: «Carità, gioia, pace, longanimità, beni­
gnità, bontà, fedeltà, mitezza, temperanza...» {Gal.

123
5,22), dov’è importante notare che, subito dopo la
carità, viene la gioia, e che da essa devono derivare
tutti i modi della carità, del perdono, come riflesso
di ciò che è stato dato ai cristiani da Gesù {Col.
3,13) e quindi da Dio (E f. 4,32-5,2), «quale offerta
e sacrificio di buon odore a Dio» {ibid. 5,2). «Gioite!
La vostra clemenza divenga manifesta a tutti gli uo­
mini... Non vi date pena per cosa alcuna» (Fil. 4,
4-6). Gioia nella inermità, un’inermità senza preoc­
cupazione, nella quale diviene visibile una misteriosa
superiorità. Dietro le beatitudini del discorso della
montagna per i miti, i misericordiosi, i pacifici, i po­
veri, dietro le istruzioni di non contraccambiare le
offese e di non resistere, dopo la risurrezione del
Signore quale fonte che tutto alimenta, fluisce la
gioia. Stefano muore nella gioia, vede i cieli aperti.
Paolo vuole morire nella gioia ed invita tutti a gioire
con lui {Fil. 2,17-18). Consapevole del cielo aperto,
del centro manifesto di tutte le cose, il cristiano, an­
che nella vita ordinaria, vive di una fonte che non si
esaurisce mai, che sgorga dal profondo stesso di Dio
e in lui zampilla nella vita eterna {Gv. 4,14). Nel­
l ’amore che fluisce, Dio ha detto un sì definitivo a
tutto, e noi dobbiamo e possiamo rispondergli con
il nostro amen definitivo (2 Cor. 1,18-20), in una
affermazione serena, assoluta dell’esistenza, che non
ha bisogno di giocare con Nietzsche la carta decisiva,
e neanche, essendo il presente il non-ancora, deve
con Bloch precipitarsi in modo utopistico nel futuro.
Non c’è nulla di negativo all’infuori del peccato, che
però è portato nel cuore del Signore. Ogni soffe­
renza, anche la più oscura notte di croce, è sempre
avvolta da una gioia, forse non sentita, ma affermata,

124
conosciuta nella fede. È questa in definitiva la gioia
che costringe Cordula ad uscire dal ventre della nave.
Essa deve affrettarsi per raggiungere le altre. Nella
notte, laggiù nella nave, ha compreso qualcosa, la
stessa che Giona comprese nel ventre della balena:
che la morte dà forma alla vita. Prima non lo si
sapeva; ma dopo il buon ladrone lo si saprà fino
alla fine del mondo. Il cristiano ha dunque l ’inaudita
possibilità di dare forma alla vita in base alla forma
finale di essa? In modo che si possa già sapere chi
egli è? Cordula deve affrettarsi per non perdere tale
possibilità. Non è importante essere celebrati un
giorno; bisogna però essere presenti. Infatti è una
festa, e le feste sono giorni di gioia. Né chi celebra,
né chi muore portano armi, sono inermi. Ciò che
importa è rinermità.
Se si domanda qual è il risultato ultimo dell’ul­
timo concilio (ed il risultato dipende anche da noi),
esso dovrebbe essere il seguente. Lo abbiamo già
detto: esposizione inerme della Chiesa al mondo.
Demolizione dei bastioni; i baluardi spianati in viali.
E ciò senza alcun nascosto pensiero di un nuovo
trionfalismo, dopo che l ’antico è divenuto imprati­
cabile. Non pensare che, quando i cavalli di batta­
glia della Santa Inquisizione, del Santo Ufficio, sono
stati eliminati, si possa entrare nella celeste Gerusa­
lemme cavalcando il mite asino dell’evoluzione tra
lo sventolare delle palme. Inermità nei confronti del
mondo è soprattutto rinuncia ad un sistema assicu­
rativo, che tra natura e soprannatura domini con uno
sguardo metafisico generale dall’atomo fino al giorno
omega, poiché è assolutamente certo che in un simile
sistema la soprannatura diventerà una funzione della

125
natura. La natura, infatti, è sempre nel progetto per
prima, con le sue leggi, strutture, postulati. Per tutto
ciò si ha una comprensione, e di qui una ‘prenozio­
ne’ per le cose della grazia. Esse sono necessarie per
portare a termine od almeno per rettificare la corsa
iniziata, e si inseriscono più o meno come mezzi al
fine (senza l ’incarnazione, l ’evoluzione non giunge
al giorno omega, oppure l ’uomo non giunge alla vi­
sione divinizzante di Dio). L ’uomo dosa ciò che la
parola di D io può e deve dire. Ma questi non sono
altro che bastioni nuovi, più pericolosi, perché più
sottili.
Il cristiano deve continuamente cercare di deter­
minare il proprio posto, per poter rettamente pre­
gare ed agire. Egli viene ai fratelli partendo da Dio,
e con i fratelli guarda a Dio. Quindi sulla via di
Cristo. Non soltanto sulla via del mondo verso Dio.
Ma la curva che Gesù percorre non è calcolabile, per
il fatto che nel mezzo vi è piantato l ’abisso di croce,
inferno, risurrezione. Anche la curva del cristiano
non è calcolabile. Perciò, può abbandonare ogni
preoccupazione e lasciarsi mettere da D io nell’iner-
mità. Che egli, in quanto uomo tra gli uomini, col­
labori in modo solidale e per dovere con tutti nella
comune opera presente e futura, è naturale e non ha
bisogno di essere ricordato o addirittura elogiato.
«Se qualcuno non vuole lavorare, non mangi nep­
1
pure» (2 Te ss. 3,10). Esaltare espressamente ’ ‘aper­
tura al mondo’ dei cristiani è superfluo, perché essi
stessi sono una parte del mondo e devono compor­
tarsi semplicemente come chiunque altro. Soltanto
che i cristiani sono anche qualcos’altro che non può
essere inserito nel ‘mondo’ . Portano infatti la testi-

126
monianza dell·amore sempre più grande di Dio e, se
vogliono, irradiano tale amore nel mondo. Il loro
mandato è di testimoniare, se necessario con la mor­
te, che ramore è superiore alla morte, è vita eterna.
Essi non ricercano la morte, pur conoscendo il mar­
tirio. Vivono in un posto qualsiasi tra il primo (mar­
tire) ed il secondo (di Loyola) Ignazio (ed il secondo
assunse questo nome per venerazione del primo). Il
primo va con gioia verso la morte, e tutto ciò che
conosciamo di lui parla di una involontaria e tut­
tavia amatissima corsa alla morte. Quale monumento
sepolcrale: aere perennius!
«Lasciate che io sia pasto delle belve, per mezzo
delle quali mi è dato di raggiungere Dio... Carezzate
piuttosto le fiere, perché diventino mio sepolcro e
nulla lascino delle mie membra, affinché, anche mor­
to, non sia di peso a nessuno. Quando il mondo non
vedrà più il mio corpo, allora sarò veramente disce­
polo di Gesù Cristo... Ora, in catene, imparo a spo­
gliarmi di ogni desiderio... Quanto è per me più glo­
rioso morire per Cristo Gesù, che regnare su tutta
la terra, fino agli estremi confini. Io cerco colui che
è morto per noi; io voglio colui che per noi è risorto.
Ecco è vicino il momento in cui io sarò partorito...
Lasciate che io raggiunga la pura luce! Giunto là, io
sarò veramente uomo. Lasciate che io imiti la pas­
sione del mio Dio. Chi ha Dio nel cuore, comprende
quello che io bramo... Tenete invece le parti mie,
cioè quelle di Dio. Non abbiate Gesù Cristo sulla
bocca e il mondo nel cuore!... Ora, nel pieno pos­
sesso della mia vita, vi scrivo che bramo morire. Le
mie brame terrene sono crocifisse... Pregate per me,

12 7
affinché possa raggiungere il mio intento!» (Lettera
ai Romani 4-8 passim).
Il secondo Ignazio ascolta tutto ciò e si pone sotto
questo nome. «Gesù, il mio amore, è crocifisso»,
scrive nelle massime. Ma egli non è prigioniero, e
non è in suo potere cercare la morte là dove Dio ha
bisogno di lui vivo ed attivo. Il senso letterale, con
cui il primo ha inteso la chiamata alla morte, è di­
venuto per il secondo l ’esigenza di riempire ogni mo­
mento dell’esistenza con il pieno impegno della vita.
Ciò che soprattutto importa non è la morte fisica,
ma il dono quotidiano della propria vita per il Si­
gnore ed i fratelli. E nel farlo accettare di scomparire
nella vita ordinaria, in modo così totale che le parole
abbiano già un suono troppo forte. Possono essere
trascurate. Dimenticate. La cosa è irrilevante. Nel
«sume et suscipe», il secondo verbo implora il fuoco
divino di aggredirlo, di rapinarlo, di disperderlo con­
tinuamente. Tutto ciò che io sono ed ho: libertà, me­
moria, intelletto, volontà, corpo e beni, appartiene
a te; da te viene, a te lo restituisco, amministralo
al di là di me stesso in te, e in compenso fa vivere
in me soltanto il tuo amore e la tua grazia, questo
basta. Martirio significa testimonianza. Sia che av­
venga una sola volta ed in modo definitivo con la
perdita della vita corporale, sia che avvenga una
sola volta ed in modo definitivo con l ’offerta di tutta
l ’esistenza nel voto di vivere secondo i consigli di
Gesù, sia infine che avvenga una sola volta ed in
modo definitivo nella morte assieme a Gesù nel bat­
tesimo, ma in modo che questa morte e questa risur­
rezione per un’altra vita indefettibile siano veramen­
te vissute {Rom. 6,12 s.): tutto ciò non ha molta im­

128
portanza. La divisione dei doni di vita, quando l ’uo-
mo è docile, è fatta da Dio. Ma in qualsiasi condi­
zione cristiana viva, il fedele vive sempre in base
alla morte ed alla risurrezione, perché tutta resi­
stenza del cristiano è il tentativo di una risposta di
ringraziamento «nella fede al Figlio di Dio, che mi
amò e diede se stesso per me» {Gal. 2,20).

129
Postilla alla terza edizione tedesca

9 - Corchila ovverosia il caso serio


La nuova edizione ci offre l ’opportunità di prendere
posizione nei confronti di alcune riserve e di certi
malintesi.

i. Si può addurre il martirio come prova della


verità della fede cristiana? Eppure quanti hanno
immolato, volontariamente o per forza, la propria
vita per ideali totalmente diversi! Certo, e tributia­
mo la nostra ammirazione a tutti coloro che sponta­
neamente e senza fanatismi hanno osato rendere la
propria esistenza fiaccola ardente per un imperativo
urgente dell’umanità. Le motivazioni per le quali gli
uomini vivono e muoiono possono essere anche di­
verse e contrarie tra loro. Ma per noi era in que­
stione non la serietà morale di una testimonianza e
di una dedizione, ma (vedi l ’introduzione) un cri­
terio intimo per il quale il singolo individuo, inter­
rompendo per un momento i suoi studi esegetici o i
suoi piani di miglioramento del mondo, avrebbe po­
tuto giudicare se si trovava al di qua o al di là del
fosso. Si può morire per diversi motivi. Morire però
per amore di colui che per me è morto nella tenebra
di D io è una decisione di tipo unico, che caratterizza
(e questa è la tesi del volumetto) l ’unicità della ve­

133
rità e dell’esistenza cristiana. Tommaso d’Aquino lo
afferma al suo modo nella risposta che dà alla que­
stione se il martirio sia l ’«actus maximae perfectio­
nis»: non lo è certo in quanto atto di morire come
tale; se però se ne considera il movente che lo anima,
vale a dire l ’amor caritatis, allora «la testimonianza
del sangue dimostra la perfezione dell’amore meglio
di tutti i comportamenti retti» (S. Th. im i , 124,30).
Ed ancor meglio ciò è stato espresso da Kierkegaard
che, nei diari dei suoi ultimi anni di vita, ha formu­
lato in modo molto stimolante tutto quello ch’io ho
tentato di dire.

2. H o quasi motivo di temere che il problema di


Cordula arrivi troppo tardi. Giovani cristiani e teo­
logi seri, per i quali il problema voleva essere occa­
sione di riflessione, sembrano in gran parte essere
già al di là di esso. «Io personalmente - mi scrive
un giovane teologo assai dotato - non ho alcuna
opinione sicura su questo problema. Semplicemente
non so come debba essere ‘storicamente’ il Gesù
storico perché io sia o possa essere ancora un cri­
stiano. M i mantengo molto aperto...». Atteggiamen­
to nobile, ma che sarà di quest’apertura se uno hic
et nunc dovrà professare la sua fede? Certo, l ’impo­
sizione esterna non risolverà in profondità i pro­
blemi esegetici. Però forse porrà in una straordinaria
consonanza esistenziale con Paolo e gli altri che, nel
momento in cui tutto era in discussione, avevano
la coscienza di pagare infinitamente meno di quanto
Dio ha pagato per essi nel Figlio suo. Se Cristo non
avesse sofferto per gli uomini - così argomenta Ire­
neo contro i gnostici (e che cos’è se non una forma di

134
gnosi il dissolvere la croce insanguinata in un «avve­
nimento della Parola») — «come avrebbe potuto
esortare i suoi discepoli a prendere su di sé la croce
e seguirlo? Che egli non dicesse ciò della ‘sublime
scienza della croce’, come alcuni non si vergognano
di spiegare, ma proprio di questa passione ch’egli
doveva sopportare e che incombeva anche sui suoi
discepoli, lo dimostra con le parole: chi mette al
sicuro la sua anima la perderà...» (C. Haer. in 18,5).
Abbiamo il diritto e il dovere di ricercare continua-
mente e con metodi sempre più raffinati la relazione
che esiste tra il kerygma apostolico e il suo substrato
storico. Non si devono però trascurare due cose:
1. che i metodi de;lla critica storica di fronte a Gesù
sono una spada a doppio taglio, che si può usare
sempre nei due versi, a seconda che uno si decide
per o contro la fede in Cristo; 2. che ci sono incon­
dizionatamente — nella scala di valori delle figure
storiche, fra le quali va annoverato anche Gesù come
fondatore del cristianesimo — certe ‘evidenze’ della
qualità (come dice Wolfhart Panneberg1 a proposito
della «prova sufficiente che D io dà di se stesso» in
Cristo), alla stessa maniera che le grandi opere d ’arte
non si spiegano come una confluenza di ‘influssi’ e i
numeri primi sono indivisibili.

3. A d ogni lettore intelligente però doveva essere


chiaro ch’io non volevo né intendevo introdurmi
esplicitamente in alcuna questione esegetica.2 La ra­

1 Dogmatische Thesen zur Lehre von der Ojfenbarung (Tesi


dogmatiche sulla dottrina della rivelazione), in: Offmbarung als
G esehichte (19632) 114.
2 Così purtroppo non posso dare il titolo di «lettore intelli­
gente» al recensore di ‘Orientierung, (15 /3 1 dicembre 1966), che

I35
pida elencazione di tali problemi (fatta a volo d ’uc­
cello) aveva come unico scopo il riunire da questo
punto di vista i motivi ritenuti cogenti per dilazio­
nare l ’opzione di fede. Forse potrò, Deo volente,
affrontare obbiettivamente tali problemi col me­
todo che mi sono proposto, ed approntare presto una
«teologia dell’antica e nuova Alleanza». Intanto vor­
rei pregare almeno che si consideri come sfondo di
‘Cordula’ il volume (non esegetico ma teologico) pro­
grammatico «Solo l’amore è credibile».

4. Alcuni mi hanno chiesto con rammarico se fos­


se veramente necessario attaccare un uomo tanto ce­
lebre come Karl Rahner. Non ho mai fatto mistero
della mia ammirazione per il vigore speculativo e il
coraggio di Rahner,3 e in momenti diffìcili l ’ho anche
difeso con tutte le forze;4 assai presto però ho mani­
festato anche certe riserve,5 dato che il suo accosta­
mento all’idealismo tedesco non mi pareva esente
da pericoli. Queste riserve però hanno dato origine
ad una discussione (si ricordi tutta la polemica sulla
legittimità dell’interpretazione di Tommaso data dal
Maréchal - la trasposizione compiuta qua e là tra
Tommaso e un Kant interpretato da Fichte) il cui
interesse oggi è scemato di fronte al fatto che siamo
stimolati a confrontare quel che c’è di valido in
Tommaso con l ’Hegel presentato al mondo contem-

ricerca solo delle soluzioni di problemi esegetici.


3 Christi. Kultur (Cultura cristiana, Allegato al Neue Zürcher
Nachrichten) 1964, n. 9
4 «Wort un Wahrheit» (1955) 531-533.
5 Cfr. la mia recensione del volume di Rahner G eist in W elt
(Spirito nel mondo) in Zeitschrift für kath. Theologie (Innsbruck)
1939. 371-379·

136
poraneo da Feuerbach e da Marx. Su questo punto
anche l ’eccellente discepolo di Rahner (a lui Rahner
ha affidato la revisione del suo antico capolavoro)
J. B. Metz ha risolutamente superato il maestro. Tra
gli altri, in particolare Gustav Siewerth, nella sua
grande e appassionata opera «Das Schicksal der Me-
taphysik von Thomas zu Heidegger» (Il destino della
metafisica da Tommaso ad Heidegger),6 ha definito
erronea tutta l’interpretazione di Tommaso della
scuola di Maréchal. Non entriamo in questo grovi­
glio di problemi; basti dire al riguardo che Pinter­
pretazione di Maréchal-Rahner delP«excessus» di
Tommaso come dinamismo dell’« affirmation ontolo-
gique» difficilmente rende ragione dei testi e soprat­
tutto compromette seriamente l ’intelligenza che del-
l ’«esse» ha Tommaso. A ll’opposto, godono oggi un
ruolo decisivo nella «precomprensione» della rive­
lazione cristiana l ’intersoggettività, riscoperta da
Feuerbach (alla scuola di Hegel) e valorizzata dal
Metz, l ’incontro dell’Io con il Tu e l ’amore perso­
nale. Ne deriva che Karl Rahner, nei suoi saggi acuti
ma spesso unilaterali e non sempre coordinati tra
loro (esistono diversi Karl Rahner), ha dovuto so­
stenere assai spesso la parte dell’esorcista che non è
riuscito a scacciare dai suoi discepoli gli spiriti che
scongiurava. Alcune sue recenti linee di pensiero
sono ispirate da motivi apostolici e, in lui, giustifica­
te anche teologicamente (così tutta la teoria del cri­
stianesimo anonimo che sta alla base dell’esistenziale
soprannaturale universale); ma però favoriscono di­
rettamente interpretazioni arbitrarie che vengono

6 Johannes Verlag, Einsiedeln 1959.

137
senz’altro recepite da discepoli che vogliono essere
radicali.7 E chi è che non si richiami oggi, in questa
o in altra maniera, al Rahner nel tentativo di allar­
gare liberalisticamente il dogma, di modificarne il
contenuto in qualcosa di «inoggettivabile», in una
enunciazione soltanto indiretta e in ogni caso alta­
mente passibile di cambiamento?
Se cito di preferenza le riflessioni e i pensieri di
Rahner lo faccio a motivo della loro risonanza mon­
diale. La frase pascaliana (p. 71) però aveva lo scopo
di ricordare che per il cristiano è sempre necessario
un ritorno alle origini; nella tredicesima lettera Pa­
scal rimandava i gesuiti del suo tempo alle origini di
Ignazio (non demitizzato!), secondo il quale il fonda­
mento globale si trova in una teologia della croce tra­
dotta nella vita. Colgo quest’occasione anche per far
notare che tutto ciò che la Chiesa ha canonizzato in
duemila anni come santità evangelica (elevata a nor­
ma) corrisponde al criterio proposto in «Cordula»:
tutti i santi hanno cercato di conformare la propria
esistenza ad una risposta dell’amore all’amore trini­
tario e crocifisso di Dio, e si sono messi a disposi­
zione dell’opera di Gesù per l ’avvento del Regno
d ’amore di Dio tra gli uomini. Il tentativo ¿in d u rre
la religione ad un’etica, l ’amore di Dio e l ’amore
personale per Cristo ad un amore del prossimo, con­
traddice in pieno al criterio generale di santità della
Chiesa, e pertanto bisognerebbe chiaramente distin­

7 Un esempio fra gli altri si ha nel libro di H. R. Schlette,


D ie Religionen d s Them a der Theologie. ¡Ueberlegungen zu einer
‘Theologie der Religionen* (Le religioni come tema teologico. Ri­
flessioni per una ‘Teologia delle religioni’ ) (Quaestiones dispu­
tatae), voi. 22, Herder 1964.

138
guerlo dalla tradizione e definirlo ad es. come un
«neo-cattolicesimo ».

5. Nella sua saggezza sempre serena e cristiana


Henri de Lubac, nell’articolo «Le religioni umane
secondo i Padri»,8 si è posto come mediatore tra
le opinioni opposte ed ha presentato ima propo­
sta di conciliazione che, mi sembra, rende soddi­
sfazione ad entrambe le parti, e ciò non solo estrin­
secamente e a parole, ma anche nella profondità
del pensiero. Egli distingue nei Padri della Chiesa
un giudizio rigido sulle singole religioni mitologiche
allora note ed un altro molto più mite sul fenomeno
religioso dell’umanità nel suo complesso, che dalla
Provvidenza è destinato a completarsi nel cristia­
nesimo. «... la Chiesa del Cristo deve, nella sua fede
nel Cristo, integrare convertendolo tutto lo sforzo
religioso dell’umanità. Questo equivale a dire che
l ’integrazione di cui si tratta comporta due aspetti
complementari: l’uno di purificazione, di combatti­
mento pure e di eliminazione, poiché tutto è anzi­
tutto inizialmente più o meno mescolato di errore
o di male; l ’altro di assunzione, di assimilazione,
di trasfigurazione», (ed. it., 93-94). «Il giudizio de­
finitivo dei padri sul fatto religioso, per quanto è
possibile estrarlo da una massa di testi e di com­
portamenti, è un giudizio di ordine, se così si può
dire, dinamico. Si inserisce in una teologia della
storia. È formulato in funzione della sola Chiesa del
Cristo... A maggior ragione, altre religioni, quali die
possano essere i loro meriti, non potrebbero essere

8 In: Paradosso e mistero della Chiesa, ed. it., Theologia


publica 2, Queriniana, Brescia 1968, 87-118.

139
considerate come ‘ salvifiche’, cioè entrare o restare
in ‘concorrenza’ con la fede nel Cristo» (95); «cioè,
noi non dobbiamo giudicare delle diverse situazioni
religiose staticamente, né paragonare tra loro i di­
versi sistemi religiosi... come se si trattasse o di con­
dannarli o di ammettere che alcuni fra loro possano
costituire in se stessi delle vere ‘economie di sal­
vezza’ provenienti da Dio, sia che si voglia chiamar­
le ‘straordinarie’ oppure ‘ordinarie’... Mettere l’uno
accanto all’altro dei sistemi religiosi diversi è sup­
porre possibile che essi vengano egualmente da Dio
tali quali sono, mentre invece propongono delle vie
non solamente diverse, ma divergenti...» (96). Con
Teilhard de Chardin dobbiamo conservare la fede
nell’«unicità dell’asse», in «questa forza propulsiva
ed unificatrice» che incentra tutta la storia religiosa
e profana dell’unità in Cristo e nella sua Chiesa. Si
deve anche evitare, ci dice Henri de Lubac, di divi­
dere «le due parti che si possono distinguere nel­
l ’opera di Gesù: quella del maestro e quella del
salvatore». «In Gesù, lo stesso uomo è colui che in­
segna e che muore, ... l ’essere che si sacrifica per tut­
ti è anche colui che reclama un’adesione incondi­
zionata alla propira dottrina e alla propria perso­
na» (108). La sua rivelazione è meno qualcosa
di motivante la novità che l ’azione del suo morire
redentivo. Però questa novità non impedisce d ie la
grazia di Cristo si estenda anche al di fuori della
Chiesa visibile. «Che esistano certi ‘cristiani ano­
nimi’ nei diversi ambienti, che, per una via o per
un’altra, hanno ricevuto le illuminazioni che proven­
gono dal vangelo, nessun cristiano potrebbe negar­
lo... ma sarebbe un paralogismo concludere da que­

140
sto fatto che esiste un ‘cristianesimo anonimo’ spar­
so dappertutto nell’umanità, o, come si dice, anche,
un ‘cristianesimo implicito’ e che il solo compito del­
la predicazione apostolica sarebbe quello di farlo pas­
sare, immutato in se stesso, allo stato esplicito, co­
me se la rivelazione dovuta a Gesù Cristo non fosse
altro che la messa a fuoco di ciò che già si trovava
esistente da sempre» (109-110); «la rivelazione cri­
stiana si ridurrebbe press’a poco all’insegnamento
di alcune formule, senza penetrarle intimamente,
senza la potenza di rinnovarle. Sarebbe come il do­
no di una specie di etichetta, che noi dovremmo in­
collare su un vaso dal contenuto rimasto immutato,
posseduto da sempre, quantunque in maniera ‘ano­
nima’ » (1 1 1-1 1 2 ). La distinzione illuminatrice di De
Lubac tra un ‘cristiano anonimo’ {fino a quando que­
st’espressione non venga manipolata!) e un ‘cri­
stianesimo anonimo’ mi sembra dia sufficiente giu­
stificazione alle esigenze dell’ora: la certezza da una
parte che il predicatore del messaggio cristiano non
ha a che fare con un ambiente assolutamente privo
della grazia - Cristo infatti è morto per tutti - e
dall’altra l ’acutissima esigenza di testimoniare con
tutta l ’esistenza l ’unica grazia che Dio ci ha dato nel
Figlio suo.9 Ma rivolgiamoci ormai all’ultima obie­
zione.

6. Si è rimproverato al volumetto una certa iro­


nia. Ammetto ch’essa domina in alcune parti, ma
non in quei punti in cui vengono trattati problemi

9 Spero che anche P. Malevez, che vorrebbe conservare l ’espres­


sione ‘cristianesimo anonimo' (cfr. recensione di «Cordula» in:
N R T h, Lovanio, dicembre 1967, 1107), possa aderire alla conci­
liante proposta di Henri de Lubac.
sacri ed elevati. Sono del parere che siano i profeti
e Paolo ad insegnarci ad usare in certi casi, come il
più efficace, questo mezzo stilistico.

7. «Cordula», rinviando alla testimonianza del


sangue, non voleva essere altro che un segnale d ’al­
larme: la situazione della Chiesa è oggi sanguinosa­
mente seria. Stiamo vivendo attualmente uno di quei
momenti in cui, con la «mano libera» di progettare
tutti i possibili cristianesimi, siamo sul punto di per­
dere ogni continuità con ciò che finora è stato defi­
nito come cristianesimo, e forse faremmo meglio a
cambiare il marchio di fabbrica. La situazione è tale
che difficilmente può essere controllata con semplici
decreti ufficiali che richiamano all’obbedienza (in
molti luoghi, a decreti del genere si riderebbe tran­
quillamente in faccia, invece di ritirarsi, come già i
giansenisti, in un «dignitoso silenzio»). D ’altra parte,
bisogna fare di tutto per impedire una fuga dei pro­
gressisti, quasi che i credenti non ne tollerino nem­
meno la presenza nella Chiesa. Come deve compor­
tarsi il cristiano che ascolta una predica nella quale
gli si dice che incarnazione, croce, risurrezione, ascen­
sione e Pentecoste sono semplici rivestimenti mitico-
simbolici, permessi da Dio per tempi ormai passati,
ma che oggi devono essere sostituiti da modi di dire
del tutto diversi? (cfr. ad es. H. R. Schiette, Einheit
im Osterglauben? [Unità nella fede pasquale?], in:
«Kirche unterwegs» 1966, 118). Io chiedo ai ve­
scovi: chi ascolta simili prediche è dispensato dal­
l ’impegno religioso? Può, 0 forse deve, abbandonare
l ’impegno religioso?
D ’altra parte, la Chiesa cattolica non può certo

142
abbandonarsi a simili invenzioni come non può per­
mettere una secessione dei neo-cattolici, che finirebbe
col respingere in integralismi reazionari, privi di spi­
rito e di consolazione, i conservatori.
8. La soluzione, che apertamente e senza vergogne
ci viene presentata in queste difficoltà, è quella di
un ‘pluralismo’ di opinioni nella sostanza del dogma.
Con il termine ‘pluralismo’ si indica già la situazione
della Chiesa nel mondo; perché allora si dovrebbe
eccettuare la vita interna della Chiesa? «Cristo è
risorto?». «Non arrabbiatevi: l’importante è come
lo si intende. In modo analogico, simbolico, ciò è
certo». E se l’espressione ‘pluralismo’ sembra troppo
audace nel campo delle verità di fede, si può sempre
distinguere tra contenuto della fede e forma verbale
di espressione. Certamente, nessuna formulazione
può pretendere di esaurire il mistero. Ho quindi il
diritto di rappresentarmi qualcosa di completamente
diverso sotto le medesime formule: che significano
‘persona’ o ‘natura’? Così la Chiesa cattolica sarebbe
simile in tutto a quella protestante; lo stesso nome,
lo stesso locale ecclesiastico e lo stesso servizio reli­
gioso uniscono i cosiddetti ortodossi e i liberali,
ammesso che queste distinzioni conservino ancora un
senso nell’epoca post-bultmanniana. Se ciò caratte­
rizza effettivamente la situazione odierna della Chiesa
cattolica, essa dovrà - e ciò costerà molte difficoltà -
sopportare tale situazione senza però accettarla. Al­
lora, per sostenere un compito tanto sovrumano, avrà
bisogno non solo di teologi (anche di essi), ma so­
prattutto di santi. Non soltanto di decreti e ancor
meno di nuove commissioni di studio, ma di figure

143
a cui guardare come a fari. Proprio questo era il
senso ultimo dell’allarme di «Cordula». Non è vero
che non ci resti nulla da fare per avere dei santi. D o­
vremmo ad esempio tentare una buona volta, anche
se un po’ in ritardo, di diventare come Cordula.
Meglio tardi che mai.
Indice
Indice

P r e s e n t a z io n e .....................................................5
P r e f a z i o n e ......................................................... * 3

I II caso s e r io ................................................. I3
1. Fondamento b i b l i c o .......................... J7
2. Il caso serio in quanto forma . . . · 2 3
3. Solitudine della morte e missione . · 3°
4. All’origine della C h ie s a .....................37
5. Mistero di g l o r i a ................................47
I I II sistema e l ’a lte rn a tiv a ...........................35
1. Le tesi del sistem a................................57
2. Implicazioni del siste m a .................... 62
3. A lte rn a tiv a ........................................ . 66
I I I La sospensione del caso serio . . . 71
.
1. Il dimezzamento del mistero . . . . 73
2. Il r in v io .................................................82
3. L’identificazione ................................... 9 1
4. Il futurism o..........................................104
5. Noi, atei anonimi, ed ilnostro dialogo 109
6. Se il sale diventa scipito...................117
TV C o r d u l a ........................................................... 121
Postilla alla terza edizione tedesca . . . 131
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QUE RImi â N A
PREZZO L. 1100

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