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Teologia dell’Anno Liturgico.

11.02.2002. –1a Lezione.


Prima Parte del Corso
Introduzione al Corso: alcuni criteri metodologici.
All’inizio del corso, è stata distribuita una fotocopia della struttura relativa al
programma che sarà sviluppato. Ci si limiterà ad illustrare, l’inizio dell’Anno Liturgico, i
presupposti ed il ciclo pasquale.
Si seguirà un metodo attraverso il quale si potrà approfondire lo studio dell’Anno
Liturgico secondo il ciclo di Avvento – Natale – Epifania. Lo schema distribuito segue una
logica: in primo luogo, vedremo alcuni criteri di metodo per comprendere il modo di
esporre la materia. In secondo luogo vedremo due temi dedicati al tempo (kairos e aión);
anche se nello schema occupano un certo spazio, non sono, in realtà, molto lunghi. Non c’è
dubbio che, se si deve parlare dell’Anno Liturgico, dobbiamo avere una cornice in
relazione al tempo nella Bibbia, nella Storia della Salvezza e nell’ambito della
celebrazione (dimensione celebrativa). A tale riguardo, diventa importante il rapporto tra il
tempo e la storia della salvezza e tra il tempo e la celebrazione del mistero della salvezza.
In questa cornice si può collocare l’Anno Liturgico, per cui si può già cogliere una prima
dimensione teologica dell’Anno Liturgico per evitare una lettura dei dati della storia, che
sia solo un semplice sguardo ai fatti storici, ed incoraggiare, invece, un certo
approfondimento dei medesimi dati.
Dopo questi due temi, si proseguirà il corso attraverso un metodo storico-genetico, nel
senso di studiare l’Anno Liturgico, così com’è nato e non come lo conosciamo nella sua
struttura odierna. In effetti, l’Anno Liturgico nasce dal “nocciolo” che è il mistero della
Pasqua, il quale, a poco a poco, si espanderà nel corso degli eventi.
Un capitolo sarà dedicato alla Domenica, giorno del Signore, quale prima celebrazione
che appare nel corso della Storia. Seguirà, poi, la Pasqua Annuale ed i suoi sviluppi nella
Liturgia Romana. Quello che si spiegherà in merito al IV secolo, è valido per tutta la
Liturgia della Chiesa: fino a quel momento, infatti, non c’erano ancora le cosiddette
famiglie liturgiche, né vi era una distinzione tra il rito orientale ed il rito occidentale.
Dunque, dal IV secolo in poi, ci concentreremo soltanto sulla Liturgia Romana. Qui si
seguirà il tema caro al PIL, cioè uno sguardo alle fonti (testi dei Padri, ai Sacramentari, gli
Ordines, i Pontificali), perché la storia si fa con documenti, non con la emotività, né con la
passionalità. Anche oggi, la stessa Liturgia andrebbe trattata attraverso i documenti o le
fonti. Seguirà, finalmente, un capitolo dedicato alla teologia dell’Anno Liturgico, che ha
presente altri elementi che non sono stati ancora spiegati, come ad esempio, tutto il ciclo di
Natale – Epifania. Essi devono essere recuperati nell’orizzonte del mistero pasquale, dal
momento che essi costituiscono l’inizio del grande Mistero della Pasqua.
Come testi di riferimento si possono considerare sia Anàmnesis, sia il Manuale di
Scienza Liturgica al volume V. Un testo scritto dal prof. Matias Augé, porta il seguente
titolo: Quaresima, Pasqua, Pentecoste. Tempo di rinnovamento nello Spirito, edizioni San
Paolo1. Più in là uscirà un altro piccolo volume dedicato all’Avvento. Ci sono altri libri che
saranno citati al momento opportuno.

1
Si tratta di un piccolo libro, che pur avendo una parvenza scientifica, vuole essere di carattere popolare è
stato pensato per gli animatori liturgici, per i catechisti e segue un andamento pastorale-spirituale. Esso
rimanda, comunque alle Fonti. Per quanto riguarda il commento, in relazione all’Avvento, alla Pasqua e alla
Pentecoste, questo piccolo testo segue sempre due tappe distinte: teologia e parentesi. Viene usato lo schema
di San Leone Magno. La seconda parte del libro riguarda direttamente i testi liturgici, i testi dei Padri, le
preghiere liturgiche, riportati interamente in italiano. Segue, infine un indice tematico. I dati che sono sempre
in ordine alla vita del cristiano.
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Entrando pienamente nel preambolo metodologico, la celebrazione della Messa e della


Liturgia delle Ore, di ogni giorno e di ogni festa, si realizza mediante i riti, le letture, le
orazioni che variano lungo l’Anno secondo un ordinamento che oggi è indicato con
l’espressione Anno Liturgico. Considerato in sé stesso ed in rapporto con le azioni cultuali
della Chiesa, l’Anno Liturgico si presenta come la struttura portante dell’intero edificio
liturgico. Esso, infatti, non è un’azione cultuale strettamente parlando, ma è ciò che
sorregge le singole celebrazioni. Dunque, una Messa, una celebrazione eucaristica, nel
tempo di Pasqua ha un qualcosa di particolare che non si trova, ad esempio, nel tempo di
Natale. Tutte le celebrazioni sono, in qualche modo, colorate dal momento dell’Anno
Liturgico in cui vengono celebrate. Ora, la quasi totalità delle numerose e recenti
pubblicazioni dell’Anno Liturgico, sviluppano la trattazione presentando, da prima il
capitolo storico e analizzando, successivamente, i testi liturgici di quel particolare periodo
dell’Anno Liturgico. Complessivamente, il metodo seguito dagli autori rispecchia tanto
l’evoluzione storica dello stesso Anno Liturgico – indispensabile per capire l’oggetto
preciso della sua celebrazione – quanto l’attuale contenuto dottrinale e spirituale dei diversi
periodi e delle diverse feste.
Ora, le pubblicazioni a cui facciamo riferimento, quasi all’unanimità (non tutte),
premettono all’esame analitico, precedentemente indicato, quello che appare più
opportuno, cioè una breve sintesi sulla concezione del tempo e della festa secondo la
tradizione biblica. Meraviglia, invece, alcuni critici, il fatto che vi si trovi aggiunto un
capitolo sulla teologia dell’intero Anno Liturgico. Se si prende, ad esempio, il volume 6 di
Anàmnesis, si nota il metodo secondo cui si parla della nozione di tempo, cosa è il tempo
secondo la Bibbia, seguita da una breve teologia del tempo. La domanda che questi critici
pongono è come si giustifica, sotto l’aspetto metodologico, questo modo di procedere. In
effetti, la teologia dell’Anno Liturgico non è astratta, ma è concreta: essa si esprime nei
testi e nelle celebrazioni in ogni singola festa e in ogni singolo periodo dell’Anno
Liturgico. Allora, se ciò è vero, solo dopo una visione globale dello stesso Anno Liturgico
e di ogni sua parte, in quanto convergenza di molteplici fattori sotto l’aspetto teologico,
storico, liturgico, pastorale e celebrativo, si possono tracciare alcune linee sintetiche circa
la teologia, la spiritualità e la pastorale dell’Anno Liturgico. In parole più povere, questi
critici si chiedevano come iniziare a spiegare la teologia dell’Anno Liturgico, ancora prima
di rifarsi alla storia e al contenuto dello stesso. Dunque, il metodo deve iniziare con la
storia, con i contenuti e con le celebrazioni per concludere il tutto con una sintesi
teologica2.
Da quanto si è detto, l’Anno Liturgico non è una serie di idee o una successione di feste
più o meno importanti, ma – come diceva bene Pio XII nella Mediator Dei – è “una
Persona”, Gesù Cristo. A tale riguardo è interessante vedere cosa dice la SC 5:
«Dio, il quale “vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla
conoscenza della verità” (1 Tm 2,4), “dopo avere a più riprese e in più modi
parlato un tempo ai padri per mezzo dei profeti” (Eb 1,1), quando venne la
pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto dallo Spirito
Santo, ad annunziare la buona novella ai poveri, a risanare i cuori affranti,
2
A tale riguardo, un articolo di Cavagnoli nella Rivista Liturgica del 1988, in merito all’Anno Liturgico. Egli
fa un’osservazione giusta dal punto di vista del metodo, anche se gli autori collocano subito all’inizio della
trattazione un capitolo teologico. Più che fare una teologia specifica dell’Anno Liturgico, applicano all’Anno
Liturgico i principi generali di Teologia Liturgica. In questo modo intendono offrire una chiave di lettura
dell’insieme delle celebrazioni annuali. Ad esempio, in Anàmnesis, L’Anno Liturgico ed il Mistero di Cristo,
vol. 6, pp. 29-34, si trova una teologia liturgica generale, applicata all’Anno Liturgico, tanto da stabilire un
rapporto tra la teologia e la stessa Liturgia. C’è, dunque, una corrispondenza di contenuti: la Liturgia vista
come la continuazione dell’intervento di Dio che salva, nella storia attraverso i segni rituali, prolunga ed attua
nel tempo, mediante la celebrazione, le ricchezze salvifiche del Signore. Si realizza, allora, il mistero
liturgico e nient’altro.
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“medico di carne e di spirito”, mediatore tra Dio e gli uomini. Infatti la sua
umanità, nell'unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra
salvezza. Per questo motivo in Cristo “avvenne la nostra perfetta
riconciliazione con Dio ormai placato e ci fu data la pienezza del culto
divino”. Quest'opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di
Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo
dell'Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore principalmente
per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte
e gloriosa ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte
e risorgendo ha restaurato la vita”. Infatti dal costato di Cristo dormiente
sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa”».
Da una parte, è giusto che organizziamo il nostro studio partendo dai dati della storia
per arrivare ad una teologia, premettendo alcune considerazioni sul tempo nella Bibbia e
nella celebrazione. Però, dall’altra parte, costruire una teologia dell’Anno Liturgico, lo si
deve fare premettendo una teologia generale di ciò che è il mistero liturgico. E’ vero,
comunque, che nella maggior parte delle monografie sull’Anno Liturgico, a nostra
disposizione, compresa Anàmnesis, manca un capitolo teologico conclusivo, che riprenda e
rielabori in modo sistematico, gli elementi salienti delle singole tematiche teologiche, che
sono emerse volta per volta, nell’analisi dei diversi periodi dell’Anno Liturgico.
Questa lacuna si è cercata di coprirla nel volume V del Manuale di Scientia Liturgica.
Certamente, da questo sguardo si notano i limiti di queste opere – non solo quelli di coloro
che le scrivono – ma anche quelli relativi all’organizzazione.

Il Concetto di Anno Liturgico: termini e sviluppo dell’Anno


Liturgico.
Andando avanti nella nostra riflessione, ci sono ancora due questioni preliminari, oltre
a quella metodologica: l’espressione o il concetto di “Anno Liturgico” è adeguata? Qual è
la struttura organica dell’Anno Liturgico, dal momento che si dà per scontato una certa
struttura?3
Dunque, l’espressione “Anno Liturgico” è piuttosto recente: essa corrisponde ad una
preoccupazione di organizzazione concettuale propria dei tempi moderni 4. Più o meno, nel
secolo XIX, quando vennero alla luce le grandi pubblicazioni relative ai Padri della Chiesa
(ad es., il Migne), ci fu una grande attenzione alla storia. In questo contesto nacque
l’espressione odierna dell’insieme delle celebrazioni. I libri ufficiali della Liturgia
Romana, dei secoli XVI, XVII, cioè da Trento in poi, non adoperarono mai un nome
proprio per indicare il complesso delle feste liturgiche, distribuite nel corso dell’Anno. La
prima attestazione di un nome specifico, la si trova nella Liturgia luterana, alla fine del
XVI secolo, alcuni decenni dopo la rottura definitiva con la Chiesa Cattolica, in ambito
tedesco. Tale espressione è la seguente: L’anno della Chiesa o Anno ecclesiastico(Kirchen
Jahr).
Nel secolo XVII, in Francia, appare la nozione o l’espressione Anno Cristiano (Année
Chrétienne) in un’opera famosa composta in tredici volumi di N. Letourneux. Si tratta di

3
Il prof. Matias Augé, affronta l’argomento in un altro piccolo manuale da lui composto dal seguente titolo:
Storia, celebrazione, teologia e spiritualità. In esso si parla dell’Anno Liturgico, per il quale ci sono degli
aspetti che non sono trattati altrove. In questo piccolo manuale, Augé si è richiamato ad un bellissimo studio
in Revue Histoire d’Ecclésiastique del 1988, pp. 601-616, dove si trova un articolo di uno studioso belga dal
titolo: La délimitation de l’Année Liturgique dans le premier siècle de la Chrétienne été. Caput Anni
Liturgici.
4
A tale riguardo, per comprendere meglio il concetto è interessante richiamarsi alla Storia della Liturgia
attraverso le epoche culturali di B. Neunheuser OSB.
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una specie di commento all’Anno Liturgico. Invece, nei Paesi di Lingua inglese, nello
stesso periodo è stata usata l’espressione Christian Year, che ricalca quella francese.
Queste due espressioni, sopra citate, dietro hanno una teologia vera e propria nel senso
che rimandano a Cristo e al suo mistero celebrato nel corso dell’anno. L’espressione
“Anno Liturgico”, sembra che sia stata usata per la prima volta nel secolo XIX, da Dom
Prospero Guéranger, il famoso riformatore di Solesmes ed iniziatore, in un certo qual
modo, del Movimento Liturgico. Egli usò intitolò una delle sue principali opere con
l’espressione l’Année Liturgique. Perché questa espressione è così tardiva? Se si guarda
all’origine del termine “Liturgia”, nei LXX significava il culto ufficiale del Tempio, mentre
nel Nuovo Testamento, si è cercato di evitare l’uso di questa parola, perché si voleva, forse,
sottolineare la novità del culto cristiano. A quanto pare, solo in un testo del NT, negli Atti
degli Apostoli, c’è l’uso del verbo greco Leiturghein, per indicare una celebrazione
cultuale cristiana, quando ad Antiochia si radunò la comunità cristiana per congedare Paolo
e Barnaba e mandarli in missione. Questo verbo indica la comunità che si raduna per
celebrare: si tratta di una riunione cultuale – forse eucaristica – nella quale la Comunità si
appresta ad invocare lo Spirito Santo su Paolo e Barnaba.
Poi, negli scritti posteriori al 70 d.C., l’espressione Leiturghia (Leiturghein) riappare in
Oriente nel Greco, allora in uso. Invece, in Occidente si useranno altre espressioni, come
Ufficium, Cultus, ecc. La parola Liturgia riappare ufficialmente, con il Codice di Diritto
Canonico del 1917. Dunque, se si parla così tardivamente di Liturgia – Anno liturgico, è
perché questa parola “Liturgia” è stata ricuperata molto tardivamente. Poi, l’espressione
“Anno Liturgico” entrerà anche nei documenti del Magistero, come ad esempio, nella
Mediator Dei (1947), nella Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II,
al cap. V, dedicato alla natura della Liturgia e la sua importanza nella vita della Chiesa. Ciò
viene confermato anche dall’uso che ne fa il Codice di Diritto Canonico del 1983. Questo
dato rimane importante, perché in riferimento alla stessa Riforma Liturgica, la medesima
espressione “Liturgia” si dovette adattare alla terminologia dello stesso Codice di Diritto
Canonico che la consacra definitivamente pur non essendone la fonte.
L’espressione Anno del Signore, viene impiegata da alcuni Liturgisti. Essa sottolinea la
centralità della Pasqua Annuale del Giorno del Signore, il passaggio dalla morte alla vita.
Tutte le feste si celebrano sotto un unico evento-mistero salvifico, attraverso una continua
presenza salvifica del Signore nella comunità celebrante.
Paragonando i dati della storia e della Liturgia con l’attuale concetto reso presente
dall’espressione “Anno Liturgico”, si ha l’impressione che tale concetto corrisponda ad
una volontà di organizzazione razionale, tipica dell’epoca moderna, nel tentativo di voler
concepire l’insieme delle feste cristiane, come una unità e come un tempo sacro
contrapposto al tempo cosmico e profano. Si tratta quasi di un tempo specifico e
particolare. Questa sarebbe una tentazione che non corrisponderebbe allo spirito della
Liturgia, che non intende contrapporre il tempo sacro ad un tempo profano. Come si vedrà
più avanti, il ritmo fondamentale delle celebrazioni cristiane è quello settimanale
(ebdomadario) della celebrazione eucaristica domenicale.
Come dice un teologo della Sacramentaria, molto vicino alla Liturgia, Luis Marie
Chauvet, per comprendere bene il calendario liturgico, bisognerebbe paradossalmente
incominciare a dimenticarlo in conseguenza al fatto che l’Anno Liturgico rischia di essere
più percepito come un grande “socio-dramma” che mima le tappe della vita di Gesù.
Quello che appare ancora più ambiguo è la successione cronologica dei diversi momenti
della Pasqua. La Parusia sarebbe rinviata alle “calende greche” e si perderebbe il senso
escatologico della Liturgia. Questa affermazione dice, in sostanza, di dimenticare il
calendario liturgico per capirlo, cioè porsi il problema della struttura organica che si trova
dietro l’Anno Liturgico. Proprio per evitare una terminologia che contrapponga il tempo
liturgico a quello profano o civile, alcuni consigliano di usare non l’espressione di “Anno
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Liturgico”, ma altre espressioni, come ad esempio, “Tempo e Liturgia”: tale titolo è ancora
più ambiguo perché aperto a più interpretazioni.
Per provare che l’espressione “Anno Liturgico” può creare una certa ambiguità, è
importante capire la struttura organica dell’Anno Liturgico. In merito a questo quesito, è
bene fare una lettura un po’ originale di un breve capitolo di Anàmnesis, scritto dal Prof. A.
Nocent che ha come titolo: Panoramica storica dell’evoluzione dell’Anno Liturgico, vol. 6,
pp. 35-55. Si deve, dunque, evitare di considerare l’Anno Liturgico come una serie lineare
di feste e di eventi che iniziano da un punto e terminano in un altro punto: ad esempio,
dalla Prima Domenica di Avvento, sino l’ultima domenica del tempo Ordinario (Solennità
di Cristo Re dell’Universo). In tale ambito, l’attuale calendario romano non si pone il
problema dell’inizio e della fine dell’Anno Liturgico. Se si prende il documento, Norme
Generali per l’ordinamento dell’Anno Liturgico e del Calendario, queste norme si limitano
ad esporre i principi e a stabilire le regole generali che riguardano i giorni ed il ciclo
liturgico.
Certamente, i libri liturgici attuali hanno un inizio ed una fine: nell’attuale Liturgia
romana riguarda le due domeniche sopra ricordate. Nella sua realtà vissuta, l’Anno
Liturgico ha una sua logica interna che è da scoprire. Non si parlerà dell’Avvento, ma tutti
noi abbiamo una cultura generale ed un’esperienza spirituale di celebrazione dell’Anno
Liturgico. In effetti, durante l’Avvento, la prima domenica parla della fine della storia, a
significare che in esso si intrecciano l’inizio e la fine della Storia della Salvezza. Dunque,
non è facile partire dall’idea secondo cui l’Anno Liturgico è una specie di calendario
scolastico, in cui si organizzano una serie di cose, ad un principio e ad una fine. In realtà la
questione è più complessa.
Ora, la concezione dell’Anno Liturgico, come tutto uno, si è sviluppata lentamente ed
maturata nel corso dell’ultimo Medioevo, quando – in ambiente protestante – si è parlato di
“Anno Ecclesiastico”. Già allora maturava una concezione unitaria di tutte le celebrazioni.
E’ stato notato da alcuni studiosi che l’espressione “Circulus Anni” che si trova nel titolo
dei due antichi Sacramentari Romani, il Gelasianum Vetus ed il Gregoriano Adrianeo, non
presuppone la nostra concezione di “Anno Liturgico”. Ad esempio, il titolo Liber
Sacramentorum Romanae Aeclesiae Ordinis Anni Circuli, del GeV, sottostà l’idea di un
ciclo in cui, ogni giorno, ritorna di nuovo. Però, dove inizia e dove termina questo ciclo,
non è oggetto di attenzione: la parola “circulus” non viene presa sul serio, tanto che non
sussiste il criterio legato al concetto di principio e fine. Questo lo aveva già spiegato J.
Pascher che ha fatto un libro molto bello sull’Anno Liturgico, tradotto in svariate lingue,
anche se è anteriore all’attuale Riforma Liturgica. E’ vero comunque che l’apparizione dei
libri liturgici che devono organizzare il materiale, in un certo modo, conduce alla
concezione dell’Anno Ecclesiastico – come ciclo annuale – che si distingue dall’anno
civile, attraverso un inizio ed una durata propria. Ciò pone una domanda che non è
puramente accademica, ma ci fa entrare in una certa mentalità dell’Anno Liturgico: qual è
l’inizio dell’Anno Liturgico? Questo quesito è provocatorio, perché, con alcuni dati della
storia, vedremo che l’Anno Liturgico è stato iniziato ed organizzato in diversi modi,
secondi i diversi tempi. Ad esempio, c’è un Lezionario Gallicano antico del 500 ca., il
quale testimonia un Anno ecclesiastico che pone il suo inizio nel giorno di Pasqua, mentre
il Sabato prima di Pasqua. Questo Lezionario lo si trova pubblicato nella Collana tedesca
Texte und Arbeiten Boiron 1936.
Tracce di una simile organizzazione o delimitazione dell’Anno Liturgico, si trova in
diversi Padri della Chiesa, come ad esempio, San Zeno di Verona, in una serie breve di
sermoni dedicati alla Pasqua, e Sant’Agostino che, nel trattato sul San Giovanni, al cap.
XIII, chiama la “Settimana Santa” come “ultima settimana” (novissima ebdomada)
dell’Anno Liturgico, ricordando le parole del Salmo 22 e commentando la Passione di
Cristo. Ora il fondamento di concepire in questo modo l’anno ecclesiastico, con l’inizio a
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Pasqua è sicuramente antico. L’idea di fondo è che la Risurrezione di Cristo costituisce un


nuovo inizio, in particolare si trova più volte l’idea che Cristo è risorto lo stesso giorno in
cui fu creato il mondo. Dunque, segna l’inizio di una creazione “messa a nuovo”. Si tratta,
in effetti, di una tematica tipicamente battesimale. Anche in San Leone Magno in uno dei
suoi sermoni (Serm. 9,3), si parla della Pasqua come di un exordium, cioè un inizio del
mondo, e come di un inizio dove il cristiano rinasce (christiana creatura principium).
Questa idea teorica soggiace con l’inizio di tutte le celebrazioni.
Ora, se è vero che nessun dei libri liturgici, eccetto il Lezionario Gallicano, sopra
accennato, presenta il primo di marzo come l’inizio dell’Anno, c’è però un certo numero di
elementi che va nella stessa direzione. Ad esempio, si può menzionare la terminologia
delle “Quattro Tempora” dei mesi di marzo, di giugno, di settembre e di dicembre, che
sono stati introdotti a Roma come digiuni del 1°, del 4° del 7° e del 10° mese. Se si prende
il Sacramentario Gelasiano, nella prima parte, Sez. XX, è curioso notare che le Tempora di
marzo si chiamano del “primo mese”, mentre quelle di Giugno del “quarto mese” e così
via. Il GeV chiama marzo “primo mese” perché nelle Gallie si trova un testo di Sidonio
Apollinare, verso la fine del V secolo, dove il mese di febbraio è indicato con l’espressione
“mese duodecimo”, che corrisponde all’ultimo mese dell’Anno5. Tale testo dice:
«Quam duodecimum nostrum quem Nume mensem vos non cupatis»6.
La traduzione italiana è la seguente: Il nostro mese duodecimo che voi chiamate il mese
di Numa. Ciò ricorda un po’ la storia di Roma. Numa Pompilio fu il successore di Romolo
che aveva diviso l’anno in dieci mesi. Numa Pompilio notando che l’anno del suo
predecessore non corrispondeva né al ciclo solare, né a quello lunare, aggiunge due mesi:
gennaio e febbraio.
Inizialmente, si sa, che l’anno civile romano iniziava il 1° di marzo. Comunque,
nell’anno 153 a.C., per la prima volta, i nuovi Consoli si insediarono il 1° gennaio, per cui,
a partire dalla metà del secondo secolo a.C., il 1° gennaio già costituisce l’inizio ufficiale
dell’anno a Roma. Contrariamente a quanto affermano alcuni libri di Liturgia, ad esempio
la prestigiosa opera di Mario Righetti (Storia Liturgica), si afferma che il 1° marzo non è
stato preso come inizio dell’Anno Liturgico, in conformità con l’Anno civile, perché – da
lungo tempo – iniziava con il 1° di gennaio. In effetti, è vero il contrario: dal momento che
il 1° gennaio era celebrato a Roma in modo esuberante e con ogni sorta di pratiche pagane,
contro le quali la Chiesa agiva con una certa determinazione, venne scelto deliberatamente
un inizio significativamente diverso. Se si prendono, ad esempio, le preghiere del
Sacramentario Gregoriano del 1° gennaio, ci sono ancora le tracce di riparazione per gli
scandali del mese di gennaio.
Non c’è dubbio, che nella scelta del mese di marzo, bisogna attribuire importanza
decisiva a quanto prescrive l’Antico Testamento sulla celebrazione della Pasqua, come ad
esempio Es 12,18:
«Nel primo mese, il giorno quattordici del mese, alla sera, voi mangerete
azzimi fino al ventuno del mese, alla sera».
Si tratta del primo mese del calendario sacerdotale giudaico che era un calendario
lunare che iniziava verso la metà di marzo, cioè nell’equinozio di Primavera. Al riguardo,
ci sono una serie di testi cristiani che indicano l’inizio della celebrazione della Pasqua
cristiana nel 1° mese. Non si può negare, in questo caso, un influsso da parte dell’AT. Ora,
a partire da un certo momento, il 1° marzo non è da considerarsi più l’inizio dell’Anno
ecclesiastico, perché la Quaresima si prolungherà: se all’inizio, l’Anno Liturgico

5
Si trova nel Liber Epistolarum di Siconio Apollinare 9,16 PL 58,637.
6
Questa significativa ed importante informazione è stata trovata nell’opera di Tito Livio, Urbe condita, libro
primo.
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consisteva nel giorno di Pasqua, preceduti da due giorni di digiuno, nascerà la pratica dei
quaranta giorni di preparazione alla Pasqua stessa, tanto che il 1° marzo si troverà
all’interno di questo periodo preparatorio. Conseguentemente, l’inizio dell’Anno
ecclesiastico si sposterà alle domeniche: prima di Quaresima, poi di Quinquagesima e di
Septuagesima. Tale testimonianza la si trova in un Sacramentario antico di Salsburg
dell’800 circa: esso inizia con le celebrazioni della domenica di Septuagesima. Ciò
dimostra che è sempre la Pasqua che regge gli inizi dell’Anno Liturgico come si può notare
in Texte und Arbeiten, nn. 49-50, Beuron 1958.
Finalmente, a partire dal VI, sino all’VIII secolo, si impose gradualmente un nuovo
inizio dell’Anno ecclesiastico, sino ad arrivare a Natale. Questo avveniva perché, all’inizio
del IV secolo, il Natale e l’Epifania si troveranno in un calendario del 350: si tratta di una
prima testimonianza in merito alla celebrazione del Natale a Roma. Ora, a proposito del
Natale esso appare come una festa di Santi, con la conseguenza che la celebrazione della
nascita di Gesù è compresa nel Santorale e non nel Temporale.
Sant’Agostino ha interpretato il Natale del 450 circa, come un semplice anniversario
della nascita di Gesù. Lui dice che mentre la Pasqua si celebra nell’evento salvifico, il
Natale, invece, si celebra come anniversario. A questa idea risponde Leone Magno più
tardi, alla fine del secolo V, affermando che il Natale non solo anniversario, ma anche
l’inizio della salvezza. In questo contesto appare famosa la sua frase: «Sacra primordia
salutis» (Sacro inizio della salvezza). Quindi il Natale è visto da lui come l’inizio del
mistero della Pasqua, con la conseguenza di uno spostamento dell’inizio dell’Anno
Liturgico, all’inizio del Natale. Se si guarderanno poi i Sacramentali, si noterà che l’inizio
dell’Anno Liturgico corrisponde con l’inizio del periodo di Avvento-Natale, così che il
Natale e l’Epifania saranno considerate come parti delle celebrazioni nell’ambito del
Temporale e non più del Santorale. Già nel GeV del VII secolo si trova un’importante
testimonianza relativa alla distinzione tra il temporale ed il Santorale, anche se in
quest’ultimo non c’è ancora l’Avvento. Quest’ultimo apparirà soltanto a partire dall’VIII –
IX secolo, quando si presenterà come istituzione stabile e generalizzata. Quello che era
avvenuto con il ciclo pasquale, secondo una certa estensione, allo stesso modo avverrà con
il Natale, quando sarà compreso come inizio del mistero pasquale. Tutto sarà, dunque,
compreso nel ciclo pasquale.
Detto questo e dopo aver posto in luce i diversi criteri metodologici, si nota lo sviluppo
di una dinamica sempre più profonda che ha il suo nucleo di partenza nella Pasqua del
Signore. Così si spiega la nascita e lo sviluppo dell’Anno Liturgico secondo il movimento
che parte dal centro ed arriva alla periferia. Questo modo di procedere si contrappone ad un
modo di organizzare la preghiera e la stessa vita cristiana, partendo da temi mensili.
In effetti, se si organizza l’Anno Liturgico per mesi (ad es. il mese di marzo come mese
della pietà dei cristiani, oppure il mese di maggio come mese mariano, ecc.) si ha una
visuale completamente diversa. Certamente, il mese non ha alcuna rilevanza
nell’organizzazione dell’Anno Liturgico, mentre hanno un certo peso sia la settimana, sia
l’anno stesso. A tale riguardo entriamo in una tematica importante, relativa al tempo che ha
una dimensione antropologica e si trova nell’ambito del rapporto tempo-celebrazione.

Tempo e Anno Liturgico.


Possiamo iniziare questo argomento con una suggestiva interpretazione del formarsi
dell’Anno Liturgico, di uno studioso americano, Jonathan Smith, che nel 1987 pubblicò un
libro dal titolo To take place, Chigago (v. Ecclesia Orans, Alcune riflessioni sull’hodie
liturgico alla luce del formarsi dell’Anno Liturgico, 1999). Questo autore parte da una
prospettiva antropologica per spiegare il rapporto tra Tempo e Anno Liturgico. Per questo
studioso americano, sin dalle origini, il rito sarebbe legato ad un posto particolare e ad
oggetti specifici, perché essi danno il senso della regolarità, che è una delle caratteristiche
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proprie del rito. In modo particolare, per quanto riguarda il Cristianesimo, questo autore
afferma che fino al IV secolo i posti in cui si celebravano certe ricorrenze sarebbero stati in
seguito estesi e fissati in determinati giorni della settimana.
Se si prende un documento del 381, l’Itinerarium Egeriae, la cui testimonianza appare
fondamentale, si nota che è legato ai luoghi. Si celebrava in ogni luogo leggendo la Bibbia
e pregando. Questo autore si fonda anche su questo documento. In seguito, partendo da
Gerusalemme, questi riti legati ai luoghi (si tratta della tesi presentata da J. Smith, ma che
merita di essere discussa), verranno legati al tempo secondo un ciclo che si ripete: ad
esempio, se un pellegrino che si reca al Santo Sepolcro, celebra la morte di Gesù, poi
questa morte di Gesù viene presa e collocata in un ciclo temporale che si celebra ogni
anno. Se all’inizio è il luogo l’origine del rito, in seguito – in modo graduale – la struttura
locale si sposterà al livello temporale.

_________Note Personali di
Studio____________________________________________
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 9

18.02.2002. – 2a e 3a Lezione.
Tempo e Anno Liturgico (Seconda Parte)
Si è parlato nella lezione precedente dei criteri metodologici per lo studio dell’Anno
Liturgico. Rimane costante il riferimento sia al 6° Vol. di Anàmnesis e sia al 5° Vol. di
Scientia Liturgica, dedicato – in gran parte all’Anno Liturgico.
L’idea di Anno Liturgico, come un’unità di celebrazioni che abbracciano un intero
anno, è un concetto non tanto antico: l’inizio e la fine del medesimo Anno Liturgico,
almeno nei primi cinque secoli, e forse oltre, non è stato chiaramente identificato con
l’inizio dell’Avvento, che appare nella Liturgia romana tardivamente.
E’ importante il tema del tempo, come argomento propedeutico all’Anno Liturgico.
Nell’ambito biblico, si può ricordare Jonathan Smith che ha scritto un libro dal titolo To
take place, già in precedenza menzionato. Egli ha difeso una sua teoria, da un punto di
vista antropologico, vedendo nell’Anno Liturgico un’insieme di festività e memorie in
connessione al tempo. Per lui, il rito, sin dalle origini, è legato ad un luogo particolare, ad
un posto determinato e ad oggetti specifici, dai quali si trae il senso della regolarità e della
ripetitività del rito stesso. In particolare, per quanto riguarda il Cristianesimo, Smith
afferma che, almeno sino al IV secolo, i posti in cui si celebravano certe ricorrenze,
sarebbero stati estesi, poi, in determinati giorni della settimana. Lui, in modo giusto, cita la
Bibbia di Gerusalemme, della quale si hanno notizie dettagliate nell’Itinerarium Egeriae.
Si tratta di una lunga lettera che una pellegrina dell’Occidente ha scritto alle sue
connazionali, dopo che si è recata in Palestina. Da questo documento si hanno notizie
molto chiare sull’organizzazione dell’Anno Liturgico a Gerusalemme.
Jonathan Smith dice che lentamente Gerusalemme avrebbe trasportato le strutture
rituali locali a livello temporale, cioè i luoghi santi di Gerusalemme, come il Golgota, il
Santo Sepolcro, il Monte degli Ulivi, la Grotta della Natività a Betlemme, ecc., avrebbero
dato la possibilità di inserire un sistema astorico (astorico nel senso di un rapporto solo
con un preciso luogo, non con il tempo). Successivamente sarebbe stato inserito in un
sistema temporale, con il quale avrebbe dato vita all’Anno Liturgico. Quindi, secondo
questo autore, al principio le celebrazioni erano legate ad un posto con una visione
escatologica della storia della Salvezza, rappresentata dalla Domenica, la quale –
ciclicamente, ogni settimana – commemorava tutto il mistero della salvezza, incentrato
nella Pasqua di Gesù. Così, lentamente, le festività – apte loco – passarono ad essere
festività e memoria ad un luogo e ad un giorno precisi (apte loco et diei: è una
terminologia tipica dell’Itinerarium Egeriae). In questo modo, si formerà un calendario,
finché, uscendo da Gerusalemme, questa liturgia localizzata diventerà una liturgia
conformata al giorno e non al luogo, dal momento che si celebra dappertutto. Questa teoria
presenta un certo fascino, dal momento che sembra quasi logico il modo in cui Smith
presenta la nascita dell’Anno Liturgico.
Al riguardo, però, qual è l’opinione di altri studiosi, per meglio giudicare questa
impostazione? Precedentemente a Jonathan Smith ci fu un grande studioso della Chiesa
d’Inghilterra che procedette quasi allo stesso modo. Egli si chiamava Dom Gregory Dix,
che insieme ad altri autori, aveva sostenuto lo stadio dello sviluppo raggiunto da
Gerusalemme nel secolo IV come l’inizio di una nuova coscienza storica della Chiesa,
trasformando o rimuovendo l’originale assetto escatologico. Sappiamo benissimo che i
primi cristiani vivevano l’attesa imminente del Signore (Parusia). Questa coscienza
escatologica sarebbe stata corretta, dopo la Pace costantiniana del 313, dimostrando che la
Chiesa primitiva iniziava a capire che era necessario camminare con la storia, per avere
una coscienza degli eventi passati.
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Altri studiosi preferiscono più semplicemente dire che la ritualizzazione del tempo
procede gradualmente, man mano che si affievolisce il sentimento di imminenza della
Parusia. Anche se Gregory Dix fu una grande autorità nel campo della Liturgia e della
Ecclesiologia, non tutti furono d’accordo con la sua teoria, circa l’origine dell’Anno
Liturgico, soprattutto per quanto riguarda il passaggio da un sistema astorico ad una
concezione puntualmente storica, come se al principio la Chiesa non avesse una visione
storica degli aventi, ma avesse soltanto uno sguardo puramente escatologico. Di fatto, però,
questi due modi di vedere non si oppongono tra loro.
Un altro liturgista della Chiesa Episcopaliana Tomas Talley (di lui è significativo
ricordare uno studio: L’origine dell’Anno Liturgico, v. edizione italiana del 1991), il quale
afferma che la commemorazione e l’attesa escatologica fin dalla spiritualità pasquale del
secolo I.
Un altro studioso, non della Liturgia, ma delle religioni, Nircea Eliaf, originario
dell’Europa Orientale, nota che Origene ha compreso molto bene che l’originalità del
Cristianesimo consiste, prima di tutto, nel fatto che l’Incarnazione è avvenuta in un tempo
storico e non in un tempo cosmico. Essa è, dunque, il frutto di un processo storico, in cui si
compie una storia, per cui non sarebbe logico contrapporre la visione storica a quella
escatologica . In effetti, i cristiani non dimenticano che il mistero dell’Incarnazione non
può essere ridotto alla sua storicità; d’altronde il Cristianesimo ha proclamato la divinità di
Cristo, compresa la trascendenza o la trans-storicità del Signore. Rimane, però, il fatto
che – almeno fino al IV secolo – la Chiesa ha ignorato il calendario liturgico. A tale
riguardo non sappiamo se abbia distribuito religiosamente il tempo dell’Evento Cristo sui
ritmi del calendario solare, lunare, stagionale, secondo un procedimento quasi universale,
per così dire naturale da un punto di vista antropologico. Prima del IV secolo non ci sono
testimonianze sul fatto che la Chiesa abbia avuto la preoccupazione di distribuire – in
qualche modo – gli eventi della salvezza durante un periodo dell’Anno e del mese, per poi
celebrarli. Dunque, queste teorie sopra viste hanno un certo fondamento perché, a partire
dal IV secolo, c’è un risveglio ed un attenzione alla storia per la celebrazione degli eventi
salvifici.
D’altra parte, si deve affermare che il culto cristiano è libero da determinazioni
spaziali, come il tempio e l’altare, e da quelle temporali, come i giorni festivi e feriali. Il
Vangelo e gli scritti neotestamentari, soprattutto quelli paolini, sono molto chiari nel
sottolineare il fatto che i cristiani non hanno il tempio, né l’altare, ma tutto trova
compimento in Cristo. Questa visione arituale, che corrisponde al tema teologico della
Lettera agli Ebrei, costituisce una base importante. Gesù proclama ed insegna un culto in
spirito e verità (v. Gv 4) che non è legato al Monte Garizim, né a Gerusalemme. San Paolo
ricorda insistentemente ai primi cristiani che nessuno li deve condannare riguardo alle feste
ai noviluni e al sabato. Qui è importante ricordare che questi testi neotestamentari sono
interpretati non solo alle feste, ai noviluni, ecc., giudaici, ma hanno una valenza più
generale.
Ciò nonostante la coscienza liturgica delle antiche comunità cristiane ha inserito la
preghiera e le altre celebrazioni dentro tempi determinati: ha ridisegnato un nesso più
stretto e qualificante tra Liturgia e Tempo, di quanto lo sia la relazione Liturgia-Spazio.
Allora, quel processo di cui parla Jonathan Smith, diventa un processo valido dal punto di
vista storico. Ora, negare che al principio i cristiani avevano anche una visione temporale
del culto è più problematico.
Dovendo affrontare lo studio dell’Anno Liturgico, in particolare la sua teologia, appare
del tutto ovvio richiamarsi alla categoria “Tempo”, nel suo valore teologico: la teologia del
tempo sottostà alla struttura dell’Anno Liturgico. Si deve notare, però, che gli aspetti – che
oggi connotano il tempo (v. l’accelerazione e la frammentazione) – imprigionano il tempo
stesso all’interno di una concezione cosificante che misconosce la sua dimensione di
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mistero costringendolo ad essere imbrigliato nelle maglie di una comprensione di tipo


produttivo ed efficientista che dimentica che il tempo è essenzialmente evento di relazione
e spazio di alleanza. Qui ci sarebbe da fare tutto un discorso che, in sostanza appartiene,
alla Pastorale dell’Anno Liturgico, in merito alla visione che si ha del tempo nella nostra
cultura. L’uomo di oggi è l’uomo di un momento, perché incapace di durata, di costruire
una storia e di concepire la vita stessa come storia. Infatti, se un secolo fa la storia era in
una stima crescente, oggi si trova in una stima decrescente, a motivo di un
disinteressamento progressivo della storia medesima.
In ogni modo, l’Anno Liturgico è una realtà che trova nel tempo un parametro per
definirsi. Ciò riguarda anche tutta la Liturgia, il cui contenitore è proprio l’Anno Liturgico.
Nella Bibbia stessa troviamo gli elementi specifici per interpretare il Culto e
l’organizzazione cultuale, che si connette direttamente ai ritmi cronologici. In una logica
che intende primariamente la celebrazione liturgica come rito memoriale dell’evento
salvifico di Dio in Cristo, avvenuto nel passato e fondante il senso all’oggi e al domani del
popolo dei credenti, la ciclicità della memoria liturgica della Chiesa domanda di essere
letta ed interpretata in termini conseguenti. Ciò lo si afferma per giustificare la concezione
del tempo nella Bibbia (v. Anàmnesis 6, pp. 15-21; v. Scientia Liturgica, vol. V, pp. 15-25).
In questa sede, ci interessa cogliere, negli scritti biblici, il pensiero ed il messaggio
teologico circa il tempo, così come Israele e la primitiva comunità cristiana l’hanno vissuto
ed espresso. Al riguardo ci sono diversi studi che si possono trovare nel Dizionario di
Teologia biblica delle Edizioni Paoline.
La Rivelazione ebraico-cristiana è da connettere all’orizzonte delle cosiddette religioni
storiche. Anzi, tale rivelazione ci offre una delle più alte e sistematiche rappresentazioni
dell’ingresso di Dio nel tempo e dell’eterno nel contingente. La riflessione sulla
temporalità, allora, va ben oltre le considerazioni antropologiche sull’esistenza e sul limite
umano per assestarsi in un ambito squisitamente teologico. Ora, la concezione ebraica del
tempo, pur con le inevitabili dipendenze ed arricchimenti, rispetto alle culture circostanti
ha una sua storia autonoma ed originale di senso e di messaggio teologico. Il mondo
ebraico ha elaborato una sua visione del tempo che non coincide esattamente con quella
delle culture circostanti al mondo ebraico, né con quella della cultura ellenica.
Sullo sfondo di un quadro culturale che mantiene alcune grandi articolazioni, comuni a
tutte le tradizioni religiose, si va – via, via – imponendo in Israele una visione sempre più
originale del tempo, rifiutando qualsiasi idea di sacralizzazione mitica del tempo cosmico.
Senza rinnegare il tempo come elemento della storia degli uomini, la Bibbia vede nei
momenti del tempo altrettanti ritmi del rivelarsi di Dio. Sono ritmi nei quali Dio porta a
compimento la salvezza dell’uomo. Naturalmente l’Antico Testamento prende coscienza di
questa visione storica in modo graduale.
In questa prospettiva esiste un’unica storia di salvezza che, per i cristiani, ha in Cristo il
suo compimento definitivo. Oggi, noi parliamo in modo molto normale della storia della
salvezza, ma già sessant’anni fa tale argomento non era sentito nelle scuole teologiche.
Un autore, che diede grande rilievo, e dal quale in gran parte dipende la visione attuale,
è Oscar Culmann, celebre per la sua opera: Cristo e il Tempo. In quest’opera viene
elaborata la teologia della storia della salvezza che offre una visione unitaria della Bibbia.
I vocaboli ebraici per l’AT ed i vocaboli greci per la versione dei LXX, che esprimono
diversi aspetti della categoria “tempo” sono molti e di natura tecnica. Notevole è la varietà
di significati, che simili vocaboli presentano nei diversi scritti in cui questi stessi vocaboli
vengono presentati. In effetti, si tratta di un ambito semantico assai vicino alla vita di fede
del popolo di Dio, soggetto – perciò – alle accentuazioni sempre nuove che l’esperienza
religiosa sempre apporta. Non si tratta del fatto che il popolo di Israele ha elaborato, sin da
principio, una visione storico salvifica unitaria, ma – piano, piano – la sua esperienza di
fede l’ha portato ad interpretare la storia in un certo modo. C’è un progressivo prendere
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coscienza che di pari passo con delle terminologie diverse. Anche se non entreremo nella
complessità di questi problemi esistono, tuttavia, delle aree in cui le differenti famiglie o
gruppi di vocaboli esprimono una prevalenza di significato dando, così, origine a capitoli
distinti dell’esperienza ebraico cristiana e della rivelazione divina, intorno alla dimensione
di tempo. A tale riguardo è bene soffermarci in due settori:
1. lo spazio temporale dell’uomo e del cosmo scandito dai ritmi della
natura creata (Anno, Mese, Settimana, Giorno e Ora da un punto di vista
teologico);
2. studio di tre termini per sintetizzare la teologia biblica del tempo. Essi
sono:
a) kronos;
b) kairos;
c) aion.
In merito allo spazio temporale dell’uomo e del cosmo, si può parlare di quelle unità
differenti del tempo astronomico che, da sempre, furono in uso presso tutti i popoli, anche
se con differenti criteri diversi di calcolo. Nell’interesse culturale, religioso ed ebraico-
cristiano, non tutti questi spazi di tempo hanno la stessa rilevanza. Ciò non è indifferente
alla nostra visione dell’Anno Liturgico. Ciò che qui occorre sottolineare e che tutte queste
unità temporali vengono congiunte all’esperienza di fede, per cui hanno una valenza
teologica.
L’Anno è lo spazio in cui Israele e – successivamente – il Cristianesimo, vive e
rievoca, in un crescendo continuo, gli incontri con Dio, che si manifesta e salva.
Nell’inserimento di diverse celebrazioni, i popoli ebraico-cristiano rievocano l’incontro
continuo con Dio Salvatore. Di anno, in anno, il popolo di Dio celebra in novità continua e
progressiva, non secondo la ciclicità della natura e della mitologia, le sorprese della Storia
della Salvezza, sempre orientate verso un tempo finale che riassumerà il suo cammino
attraverso la storia stessa. Da qui si nota l’importanza del calendario religioso, annuale e
giubilare: ciò appare già nelle più lontane teologie ebraiche sul tempo, testimoniate dalla
Bibbia (v. ad esempio, il rituale delle feste annuali, l’anno sabbatico).
In merito al Mese, essa è la dimensione meno consistente del tempo nella cultura e
nella teologia ebraica. Ad esempio nel libro dei Nm 28 7, si trova un rituale che prescrive
che il primo giorno di ogni mese lunare si faccia l’olocausto di due tori, di un montone e di
sette agnelli, con offerte e libagioni, più il sacrificio di un capro per il peccato. Si può
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Il testo di Nm 28,1-14 così recita: «Il Signore disse a Mosè: “Dà quest’ordine agli Israeliti e dì loro: Avrete
cura di presentarmi al tempo stabilito l’offerta, l’alimento dei miei sacrifici da consumare con il fuoco,
soave profumo per me dirai loro: Questo è il sacrificio consumato dal fuoco che offrirete al Signore; agnelli
dell’anno, senza difetti, due al giorno, come olocausto perenne. Uno degli agnelli lo offrirai la mattina e
l’altro agnello lo offrirai al tramonto; come oblazione un decimo di efa di fior di farina, intrisa in un quarto
di hin di olio di olive schiacciate. Tale è l’olocausto perenne, offerto presso il monte Sinai: sacrificio
consumato dal fuoco, soave profumo per il Signore. La libazione sarà di un quarto di hin per il primo
agnello; farai nel santuario la libazione, bevanda inebriante per il Signore. L’altro agnello l’offrirai al
tramonto, con una oblazione e una libazione simili a quelle della mattina: è un sacrificio fatto con il fuoco,
soave profumo per il Signore. Nel giorno di sabato offrirete due agnelli dell’anno, senza difetti; come
oblazione due decimi di fior di farina intrisa in olio, con la sua libazione. È l’olocausto del sabato, per ogni
sabato, oltre l’olocausto perenne e la sua libazione. Al principio dei vostri mesi offrirete come olocausto al
Signore due giovenchi, un ariete, sette agnelli dell’anno, senza difetti e tre decimi di fior di farina intrisa in
olio, come oblazione per ciascun giovenco; due decimi di fior di farina intrisa in olio, come oblazione per
l’ariete, e un decimo di fior di farina intrisa in olio, come oblazione per ogni agnello. È un olocausto di
soave profumo, un sacrificio consumato dal fuoco per il Signore. Le libazioni saranno di un mezzo hin di
vino per giovenco, di un terzo di hin per l’ariete e di un quarto di hin per agnello. Tale è l’olocausto del
mese, per tutti i mesi dell’anno. Si offrirà al Signore un capro in sacrificio espiatorio oltre l’olocausto
perenne e la sua libazione”».
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comprendere, dunque, che il mese non ha un grande importanza nelle scadenze o nelle
cadenze rituali di Israele. Secondo il Libro del profeta Ezechiele, il principe dovrebbe
offrire, nel primo giorno del mese, un toro, un agnello ed un montone. Si trovano così
neomenie o feste della luna nuova, che continuarono ad essere celebrate sino alla fine
dell’AT. Pian piano, però, esse perdettero molto della loro importanza, in merito alla
distribuzione del tempo religioso. Lo stesso avviene nel NT. Facendo un’applicazione
moderna, il devozionalismo ha organizzato l’Anno in base ai mesi (es. il mese mariano),
che non è tipico della Bibbia, né del popolo ebraico, né della tradizione neotestamentaria.
In merito alla Settimana, è una misura di tempo che ricorre numerose volte nella
concezione di tempo dell’AT. Si sa, ad esempio, che il racconto della creazione, quello
attribuito alla Fonte Sacerdotale, cioè Gen 1, vuole dare una classificazione logica ed
esauriente degli esseri creati secondo un piano riflesso nel quadro di una settimana, che si
conclude con il riposo sabbatico. Dunque, la legge ebdomadaria, in questo modo viene
considerata come un’istituzione divina di valore universale, secondo la fonte sacerdotale. A
tale riguardo una testimonianza chiara la si ha nello stesso decalogo della Legge, secondo
Es 20,8-11 quando dice:
«Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai
ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio:
tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo,
né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in
essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno
di sabato e lo ha dichiarato sacro».
Si nota, in questo modo, come la settimana abbia dei riflessi importanti per la stessa
vita religiosa di Israele. Quindi, la settimana è importante per i costumi e per le pratiche
religiose dell’AT. Le feste degli azzimi e dei tabernacoli durano una settimana come lo
testimonia Nm 28,16-258:
«Il primo mese, il quattordici del mese sarà la pasqua del Signore. Il
quindici di quel mese sarà giorno di festa. Per sette giorni si mangerà pane
azzimo. Il primo giorno si terrà una sacra adunanza; non farete alcun lavoro
servile; offrirete in sacrificio con il fuoco un olocausto al Signore: due
giovenchi, un ariete e sette agnelli dell’anno senza difetti; come oblazione, fior
di farina intrisa in olio; ne offrirete tre decimi per giovenco e due per l’ariete;
ne offrirai un decimo per ciascuno dei sette agnelli e offrirai un capro come
sacrificio espiatorio per fare il rito espiatorio per voi. Offrirete questi sacrifici
oltre l’olocausto della mattina, che è un olocausto perenne. Li offrirete ogni
giorno, per sette giorni; è un alimento sacrificale consumato dal fuoco, soave
profumo per il Signore. Lo si offrirà oltre l’olocausto perenne con la sua
libazione. Il settimo giorno terrete una sacra adunanza; non farete alcun
lavoro servile».
Anche la Pentecoste o festa delle settimane ha luogo sette settimane dopo il sabato
della Pasqua. Ogni settimana di anni terminava con Anno Sabbatico o Anno Giubilare, in
cui si dovevano liberare gli schiavi e lasciar riposare la terra.
Ora nel Nuovo Testamento, la settimana acquisì un nuovo valore religioso: essa parte
non dal giorno del sabato (come ultimo giorno della settimana, che corrisponde al settimo
giorno della creazione), ma dalla domenica, quale primo giorno della settimana, perché
intende sottolineare non solo il giorno del Signore, ma anche la celebrazione ebdomadaria

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Oltre al testo di Num 28,16-25 ci sono altri testi dell’AT: Dt 16,1-8; Es 12ss.; Lv 23,5-8; Ez 45,21-24.
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della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Dunque, la prima unità cronologica
dell’Anno Liturgico è proprio la Domenica. Più tardi apparirà il ritmo annuale quando si
celebrerà la Pasqua annuale. Come si vedrà più avanti, è opinione comune che il nucleo
originale dell’Anno Liturgico sia proprio quello ebdomadario. Anche se alcuni non sono
d’accordo, il problema principale sta nel determinare in quale momento è nata la
celebrazione della Pasqua Annuale. Secondo le opinioni comuni, prima del 150 non ci sono
testimonianze certe della celebrazione rituale della Pasqua annuale. Invece, già nel NT si
hanno testimonianze della celebrazione della domenica.
Un’altra unità del tempo è il giorno, quale spazio astronomico di 24 ore: è una misura
di tempo che ricorre frequentemente nell’AT. Si sa, al riguardo, che l’inizio della giornata
per il mondo ebraico, almeno dopo l’esilio di Babilonia, corrisponde alla sera del giorno
precedente, cioè a partire idealmente dall’interpretazione sacerdotale dei singoli giorni
della settimana della creazione. In questo racconto della creazione, è significativo che per
ogni giorno, si trovi l’espressione alla fine: «E fu sera e fu mattina, primo… secondo…
terzo… quarto, ecc.». Quindi la Bibbia dispone che Israele inizi la sera precedente – dopo
che il sole è già calato – il suo tempo festivo per Dio. Ma nel suo abbondantissimo uso del
termine “giorno”, la Sacra Scrittura dedica un notevole numero di testo, in merito alla
trascrizione teologica e simbolica di questa descrizione del tempo, riferendosi soprattutto
agli interventi decisivi di Dio, dentro i giorni degli uomini. In questo senso, si trovano delle
formule che hanno una certa densità teologica; ad esempio sono concrete le seguenti
espressioni: «alla fine dei giorni…», «verranno giorni in cui… », «il giorno di Jahvè».
Queste espressioni sono inserite in una dimensione simbolica particolarmente riferita ad un
intervento salvifico di Dio, anche se alle volte non manca l’aspetto punitivo. C’è anche una
visione astronomica del “giorno” che rimane importante per capire, ad esempio, il racconto
degli Atti degli Apostoli in cui San Paolo si ferma a Triade per celebrare l’Eucaristia nel
primo giorno della settimana. In questo frangente nasce una lunga discussione per sapere
se si doveva celebrare la sera del sabato oppure alla domenica. A tale riguardo ci sono
pareri diversi. Dunque, ci si domanda: qual è la visione di giorno cronologico che ha San
Luca, quale autore degli Atti? Ha una visione ebraica, oppure romana? Il giorno può
cominciare quando il sole tramonta, e proseguire fino alla sera del giorno successivo; può
iniziare alle 12,00 della notte ed arrivare sino alle 12,00 della notte del giorno successivo.
Il giorno, però, può iniziare anche in altri modi, cioè – quando furono scritti gli Atti degli
Apostoli – vi erano almeno tre possibilità di capire l’inizio del giorno. Ciò rende assai
complessa l’interpretazione di alcuni testi importanti del Nuovo Testamento.
Ora, passiamo all’ultima unità della categoria tempo: l’Ora. Essa è la ripartizione più
piccola del tempo astronomico ebraico, che ha un certo interesse teologico. Confrontato,
con i LXX dell’AT, l’uso del termine è molto più frequente nel NT. Infatti, l’uso della
Parola è quasi raddoppiato. Nell’AT il termine “ora” può esprimere l’onnipotenza divina,
quando si impegna con gli uomini in modo puntuale e straordinario. Si tratta dell’ora di
Jahvè. Ciò entra nell’ambito della salvezza come testimoniano Es 9, Giosuè 11, 1Re 19 ed
altri testi veterotestamentari. L’Ora può anche significare lo spazio di 60 minuti nel NT. Ci
sarà un’ora definitiva, quella della consumazione che vedrà la rovina del nemico. Così
viene a svilupparsi una visione escatologica come appare evidente nel Libro di Daniele e
nel Libro dell’Apocalisse di San Giovanni Apostolo. Poi, un uso simbolico del termine
“ora” lo si trova nei Vangeli, in modo particolare in Giovanni, a proposito della Passione di
Gesù, come momento disposto dal Padre, nel quale sembra che trionfino le tenebre, ma che
in realtà è Gesù stesso a trionfare sulle tenebre stesse. Ciò da unità a tutta la vicenda di
Cristo.
Dunque, che senso ha ricordare queste nozioni? I due ritmi cronologici dell’Anno e
della Settimana, che nella tradizione ebraica hanno una valenza teologica, sono quelli sui
quali si costruisce l’intera struttura dell’intero Anno Liturgico. Ora, non basta una visione
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simbolica dei ritmi del tempo, perché nella Bibbia si trova una terminologia nella quale è
importante poter leggere la storia della salvezza e l’avvicendarsi delle feste liturgiche. In
questo senso, partendo dalla versione dei LXX e del NT, e facendo riferimento talvolta
all’ebraico in modo generico, ci sono tre termini sopra ricordati: kronos, kairos e aion. Il
vocabolo greco, che non nella lingua ebraica un termine unico e corrispondente è il kronos
che viene usato circa 100 volte nell’AT (versione greca dei LXX) e circa 54 volte nel NT
greco. Kronos serve a definire formalmente un momento, oppure spazio di tempo, la cui
durata non è precisata. Il punto di partenza sta nel fatto che il termine greco “kronos”
significa tempo, nel senso più comune della parola. Bisogna, poi, notare alcuni significati:
c’è un tempo dell’uomo e della sua vicenda storica, ma nel tempo degli uomini si è inserito
quello di Cristo. Soprattutto nelle lettere paoline e deutero-paoline, questa dottrina è molto
presente. La comparsa di Cristo porta, una volta per tutte, il tempo a pienezza, cioè il
tempo degli uomini è invaso e penetrato dall’agire di Dio, il quale dà in Cristo questa
pienezza. Ciò non si ripete nella storia con altre modalità. Una testimonianza diretta di ciò
l’abbiamo dal testo di Gal 4,4:
«Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato
da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge,
perché ricevessimo l’adozione a figli».
In tutti i testi del NT il termine usato è kronos. L’evento ed il tempo storico di Cristo ha
distinto – nel tempo degli uomini, quello passato e quello nell’ignoranza e nel peccato.
Cristo non solo compie il tempo ma gli dà pienezza. Così si distingue il tempo anteriore
all’azione salvifica di Cristo da quello dopo Cristo, in cui ormai è presente la salvezza.
Allora, il tempo di Cristo diventa la misura del tempo storico, sia del passato, sia del
futuro. Egli ritornerà nei tempi della restaurazione di tutte le cose (At 3,21) 9. Anche la
stessa teologia, secondo anche quanto riferisce Oscar Culmann, è incentrata in Cristo. Ciò
è fondamentale per capire l’Anno Liturgico. Il tempo dopo Cristo non offre alcuna novità:
è il mistero della salvezza culminante in Cristo che poi troviamo nel rito. Dunque, l’Anno
Liturgico non è una serie di concetti, ma è la celebrazione un unico evento di salvezza. E’ il
tempo in cui Cristo entra e dà pienezza. Quindi l’Anno Liturgico non può essere
trasformato in calendario devozionale.
Il kronos non è un’entità assoluta, ma è spazio e forma che permette di contemplare
l’azione storica di Dio e la risposta data dall’uomo nel tempo, il quale considera il suo
presente strutturato in base al tempo di preparazione dell’AT e di compimento di Gesù
Cristo. Il concetto di kronos diventa, dunque, molto importante.
Il secondo termine è kairos: è il tempo come momento pregnante ed occasione propizia
in cui possiamo essere raggiunti dalla salvezza di Dio. Esso è passato, tra l’altro nella
letteratura laica. E’ significativo per la comprensione neotestamentaria del tempo che,
quando Gesù visse la sua vicenda nel mondo, il concetto “kairos” fosse maggiormente
qualificato dal punto di vista del contenuto che non il concetto formale di kronos. Non
sorprende che kairos (con circa 300 esempi) compaia nei LXX il triplo di volte, rispetto a
kronos. Nel NT troviamo 85 volte la parola kairos, contro 54 volte del termine kronos. Ad
esempio si può notare quante volte nel Vaticano II è usata l’espressione “mistero
pasquale”.
Nell’AT, il vocabolo ebraico, che corrisponde al termine greco kairos, significa
prevalentemente il tempo cultuale. Ad esempio, i profeti accostano tale termine ebraico al
giorno del Signore. Dunque, è un tempo determinato. Il tempo giusto è quello dell’incontro
con Dio. Allora, se kronos indica il tempo in modo molto ampio, kairos significa un tempo
molto definito. Nel NT kairos allude, per lo più, all’area teologica del tempo di Dio, dentro
9
Il testo è il seguente: «Egli dev’esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose, come
ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti».
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a quello umano, cioè kairos è il momento in cui Dio interviene nella storia dell’uomo in
modo molto puntuale, per la sua salvezza. Con l’evento di Cristo ha inizio un tempo
particolare di azione salvifica che qualifica tutto il resto del tempo, alla quale occorre
convertirsi riconoscendo il kairos come appello, e conformando la vita agli interventi e ai
ritmi del tempo di Dio. A tale riguardo si può ricordare il testo di Lc 19,44:
«“Abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra
su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”».
Queste sono le parole di Gesù, rivolte a Gerusalemme. Ora, rispetto ai tempi passati di
ricerca e di attesa, questo tempo di salvezza è presente. Esso si apre anche alla prospettiva
del futuro, non priva – però – di tensione e di rottura, con l’esperienza umana che lo
caratterizza. Di questo tempo puntuale, che noi chiamiamo tempo cristologico, alla luce
unitaria di una storia, la Liturgia cristiana è il segno scandito secondo la logica del
significato, cioè la memoria dell’evento, la testimonianza della sua efficacia e la promessa
del suo compimento futuro, secondo l’ordine del significante (l’ora, il giorno, la settimana
e l’Anno).
Se kronos ci insegna a vedere l’Anno Liturgico come un’insieme di memorie di uno
stesso evento salvifico, che culmina in Cristo, il termine kairos ci insegna a cogliere il
valore di ogni singola celebrazione dell’Anno Liturgico, la quale assume un valore
salvifico, come memoria di interventi cultuali di Dio nella storia della salvezza.
In ordine all’ultimo termine, aion, si indica la dimensione temporale della vita umana
coinvolta dal tempo di Dio in una visione più ampia. Esso è, dunque, da situarsi tra kronos
e kairos. Nella versione greca dei LXX, “aion” appare circa 450 volte ed è usato per
tradurre il termine ebraico equivalente (holan). Il significato iniziale dei termini greco ed
ebraico è la durata della vita, del mondo, insieme al significato di lungo tempo e di
eternità. Allora, non si tratta di un tempo indeterminato, né di un tempo puntuale o
determinato, ma di una durata di tempo, secondo una certa lunghezza.
Ora, questi tre vocaboli sopra visti esprimono una dimensione temporale connessa
all’esistenza umana, ma che trascende – andando oltre essa – verso il passato ed il futuro.
Ciò avviene a causa di un coinvolgimento diretto dell’intervento di Dio. Qui si nota una
costante nel senso che questi tre termini (kronos, kairos e aion) sono, allo stesso momento,
i tempi dell’uomo, e di Dio che interviene:
1. nel kronos per organizzarlo attorno a Cristo;
2. nel kairos attraverso il Cristo;
3. nell’aion per distinguere i tempi e contrapporli a quelli della storia.
Nel NT, il sostantivo aion compare almeno 100 volte con il significato di lungo tempo,
e così via. Alcuni scritti neotestamentari, soprattutto San Paolo ed i Sinottici, mai, però,
San Giovanni, distinguono l’eone, cioè il tempo presente da quello futuro, quasi fossero
due periodi storici o due mondi successivi. Ad esempio in Mt 12,32 si dice che la
bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro. Ma
alla distinzione dei due aion (eoni) non corrisponde alcun dualismo teologico, cioè Satana
insidia il mondo presente, ma Dio – in Cristo – lo ha redento, per cui la nuova creazione è
già iniziata. Così la stessa Vita Eterna è quella del futuro. Giovanni precisa che questa vita
eterna, come precisa Giovanni, è già presente, per cui la morte non la può arrestare.
Questa visione delle cose assume una certa importanza perché la stessa Liturgia non è
contrapposta ad una precisa realtà, ma è già pregustazione la futura Liturgia, quella
Celeste. Questo fatto è ancora più presente nella teologia orientale.
Detto questo, si può passare a vedere quale esperienza ed espressione di fede ha avuto
il popolo di Dio relativamente al tempo, cioè quale visione del tempo ha Israele, rispetto
alle culture circostanti, dal momento che tutti riconoscono ad Israele, quindi all’AT, una
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particolare visione del tempo. Rispetto alle culture contemporanee, l’esperienza religiosa
del popolo di Dio si esprime in una concezione propria relativamente alla storia. Bisogna,
però, ricordare che la Bibbia, più che una trattazione sistematica, filosofica e teologica, è
una fonte di indicazioni e proposte molteplici che tendono a far cogliere e vivere la
categoria di tempo. Per questa ragione non si può pretendere di trovare in tutti i libri della
Sacra Scrittura una medesima visione di tempo. Allora, si deve cogliere quel crescendo di
consapevolezza che predominerà alla fine.
Per Israele c’è una profonda connessione tra l’interpretazione della storia e lo sguardo
di fede in Jahvè. Al riguardo ci sono due esperienze fondamentali della storia di Israele:
1. l’evento dell’uscita dalla schiavitù d’Egitto;
2. il ricordo di un appuntamento con Dio nel tempo.
Il Libro del Deuteronomio 6,22-23, a tale riguardo afferma:
«Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili
contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là
per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci».
Israele vede questo evento come un qualcosa che Dio opera nel tempo. La successiva
Alleanza non è stata altro che la seconda parte di quest’unica esperienza storica. Lo ricorda
Dio stesso quando, prima di sancire l’Alleanza attraverso Mosè, dice agli Israeliti: “Voi
stessi avete visto ciò che Io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi”. Le formulazioni
teologiche si moltiplicheranno nel tempo successivo, dovuto alla connessione di
quell’evento fondamentale con nuove esperienze di liberazione e alleanza. Israele, nella
misura in cui vive la sua storia, mette in rapporto eventi che hanno una struttura simile di
liberazione e salvezza che, in modo paradigmatico si è realizzato nel passaggio dalla
schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa. Dunque, mette tutti questi
avvenimenti in rapporto con l’esperienza fondamentale della Pasqua.
Un’altra esperienza storico religiosa segna le fede e la sua espressione nel popolo di
Dio: è quella fondata in Jahvè che guida il suo popolo. Egli entra in guerra e combatte
contro chi opprime Israele. Dona a Israele la terra di Canaan, perché Dio è l’unico Signore
di tutta la terra. Infine, Jahvè chiede al suo popolo di servirlo e riconoscerlo quale unico
Signore e Re. La tradizione deuteronomica fa risalire questa lettura teologica all’epoca
della conquista della Terra Promessa, cioè all’epoca dei Giudici, subito dopo la fine
dell’esperienza del deserto, quando ci sarà un rapporto intimo con l’esperienza della
Pasqua. La storia, quindi, è per l’antico popolo di Dio, teatro delle liberazioni e delle
alleanze e ambito in cui Jahvè si manifesta come Signore e come Re dell’Universo.
Ora, l’espressione teologica di questa duplice esperienza storica della fede ha in Israele
almeno due centri distinti e complementari:
a) il culto (santuario, feste, tempio);
b) i profeti.
Nel culto c’è un’espressione teologica della visione del tempo, mentre i profeti
realizzano anche loro un’interpretazione teologica del tempo. Questi due modi, come
vedremo, si completeranno a vicenda. In effetti, nei profeti viene espresso il senso dei fatti
storici, che al principio non sono compresi come eventi salvifici. Grazie ad una successiva
riflessione dei profeti, Israele rileggerà la propria storia, divenendo consapevole di Dio che
interviene per salvarlo.
Sempre i profeti, estenderanno – poi – il senso della salvezza ad una dimensione più
universale, come ad esempio Amos, Isaia, Geremia ed Ezechiele. Per Israele, il far
memoria è uno sperimentare l’appartenenza alla storia, cioè il culto d’Israele è
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intimamente legato alla storia. Al riguardo, le feste di Israele avevano elementi cosmici che
avevano ereditato dalle culture circostanze:
- in primavera ringraziavano il Signore;
- offrivano degli animali al Signore per chiedere la protezione sul proprio
gregge;
- offrivano i primi frutti della terra secondo un ritmo cosmologico delle
feste.
Pian piano, però, questo ritmo cosmologico divenne ritmo storico, per cui a queste feste
viene ricollegato un evento salvifico. Per Israele, il far memoria, è il sperimentare la
propria appartenenza alla storia, cioè ad una storia unitaria. Tale aspetto è presente nelle
confessioni di fede, come ci indica lo stesso libro del Deuteronomio, dove Israele – quando
proclama la sua fede – si proclama secoli dopo gli eventi della sua storia, come partecipe di
quei fatti avvenuti. Lui si sente coinvolto in quell’evento fondante anche secoli dopo. Lo
stesso si può dire per quanto riguarda le formule del memoriale del rito della Pasqua
ebraica, in cui si imita, addirittura con i gesti, ciò che è avvenuto storicamente. In poche
parole, c’è una visione unitaria del tempo, anche se ci sono dei testi dell’AT dove manca
del tutto. C’è un tempo per morire, un tempo per piantare, un tempo per piangere ed un
tempo per ridere. Se si vuole cogliere quella progressiva coscienza del valore del tempo e
della storia, si può dire che Israele ha elaborato questa visione unitaria, in cui si inserisce la
visione cristiana del tempo.
Avvicinandosi sempre di più al mistero celebrato nell’Anno Liturgico, arriviamo a
Cristo Signore del Tempo. Nel NT la storia acquista un senso nuovo, in rapporto alla
visione veterotestamentarie. Se si prendono in considerazione, ad esempio, alcuni inni
delle lettere paoline e deutero-paoline, nonché le prime confessioni cristiane di fede, Gesù
Cristo viene dichiarato centro e senso unico della storia, come la 1Tm 3,16:
«Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà:
Egli si manifestò nella carne,
fu giustificato nello Spirito,
apparve agli angeli,
fu annunziato ai pagani,
fu creduto nel mondo,
fu assunto nella gloria».
Si tratta di un inno liturgico che è, al tempo stesso, una confessione di fede. C’è qui una
visione, appunto, di Cristo come Signore della Storia. Un altro passo significativo è il
prologo di San Giovanni, dove si afferma:
«In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».
Si tratta dell’Incarnazione di Cristo che si inserisce come compimento del tempo.
Allora, il tempo di Dio raggiunge il suo senso pieno e salvifico con la venuta di Gesù di
Nazareth. La sua presenza nella storia riassume passato e futuro. Così diviene rivelazione
del volto misterioso di Dio. La signoria di Dio e, quindi, quella di Cristo nella storia, va
verso un tempo finale. Cristo domina e compie la storia, ma – al tempo stesso – l’orienta
verso un tempo definitivo. Si tratta del grande capitolo dell’escatologia biblica. La serie
delle liberazioni o salvezze parziali, di cui le pagine dell’AT sono piene, progredisce verso
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quella che sarà la liberazione riassuntiva delle precedenti. Così le forme temporanee e
limitate del dominio e regalità divina sugli uomini e sul cosmo tendono verso totale
presenza divina nella storia e nel cosmo, quando come San Paolo dice nella 1Cor 15,28,
Dio sarà tutto in tutti. La visione della storia è un progressivo compiersi sino alla pienezza.
Cristo, quale Signore del Tempo, è una delle categorie teologiche fondamentali che spiega
l’unico evento di salvezza. In questi ultimi anni non è mancato mai questo elemento. In
effetti, si celebrano gli eventi salvifici, che sono i misteri della vita di Cristo: al Padre va
tutto il culto che suggerisce una visione unitaria del Tempo. Questo fa comprendere che
non ha senso chiedere una festa del Padre, o allo Spirito Santo. Non ci si può fermare ad un
solo aspetto, ma ci si deve orientare all’unico mistero salvifico. Ora, senza il Padre che
invia il Figlio non ci sarebbe Liturgia, né avrebbe più senso il sacerdozio ministeriale di
Cristo. Tutto questo non va contro la vera devozione che è espressione di totale dono di sé
al Padre.
A questo punto, sono di grande interesse le diverse affermazioni neotestamentarie
indicate dai termini “plèroma” e “pleroma”, cioè la “pienezza” e il “dare pienezza” (il
secondo termine indica un verbo, pur rifacendosi allo stesso significato). Queste parole
esprimono l’adempimento e la pienezza, rispetto ad un tempo di attesa, di promessa e di
provvisorietà. Al riguardo, facciamo qualche applicazione: quando dopo il Vaticano II,
sono state nominate le Commissioni per la riforma dell’Anno Liturgico e dei Sacramenti,
nella Commissione che doveva riorganizzare l’Anno Liturgico, si doveva affrontare il
problema relativo al valore da dare alla festa della Madonna di Lourdes, o della festa della
Madonna di Fatima. Secondo la teologia la Rivelazione si chiude certamente con l’era
apostolica. Quindi non c’è nessuna rivelazione privata che aggiunga qualcosa di più a
quello che già è presente nel Vangelo. Ciò non significa la polemica dei liturgisti contro le
apparizioni, ma c’è un criterio fondamentale che molti non hanno colto. Per quanto
riguarda la rivelazione privata si è tolto il riferimento all’apparizione, lasciando, invece, il
riferimento al contenuto in rapporto alla fede. Ad esempio, se prima la festa della Madonna
di Lourdes, si chiamava Apparizione di nostra Signora di Lourdes (v. Messale di Pio V),
ciò dimostra che la Chiesa si pronuncia su un evento stupendo di fede. L’intento è
puramente teologico.
Tutto questo va visto in rapporto alla pienezza che Cristo dà al tempo. Non c’è dubbio
che tutte le manifestazioni carismatiche possono aiutare ad approfondire il medesimo
mistero di Cristo, ma non possono scoprire nulla di nuovo.
Nella professione di fede del Nuovo Testamento, il riferimento a Cristo diviene
decisivo, per comprendere il nuovo equilibrio della storia e lo spostamento di accento della
speranza cristiana, rispetto alla speranza messianica dell’AT. Questi capitoli di
introduzione hanno lo scopo di creare l’ambiente teologico giusto per comprendere al
meglio l’Anno Liturgico. La cosa più importante è formare una giusta mentalità delle cose
che eviti una semplice riduzione alla storia o ad un’insieme di norme, senza un retroterra
teologico. Dunque, il NT ha una concezione squisitamente lineare del tempo: ha un
presente, un passato ed un futuro. Però, la concezione lineare della storia era stata
affermata dalla fede ebraica: già l’AT distingueva il tempo presente da quello futuro,
mentre l’attesa-speranza era orientata verso quel tornante decisivo fra i due tempi. Ora,
Gesù sposta l’equilibrio della storia: il kairos definitivo, cioè l’intervento puntuale,
definitivo e salvifico è già pervenuto alla sua pienezza con l’annuncio del Regno di Dio,
come lo stesso San Marco, al capitolo 1,14 afferma:
«Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea
predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di
Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”».
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Il tempo è compiuto ed il Regno di Dio è vicino. Come lo specifica San Paolo nella
Lettera ai Romani ed in quella agli Efesini, il tempo è compiuto non genericamente in
Cristo, ma con la morte e risurrezione di Cristo. Perciò, già durante il tempo presente, che
va verso la consumazione finale, è iniziato il tempo futuro. Conseguentemente tra la fine di
Cristo e questo eone, il cristiano è invitato a vivere con l’animo di colui che già appartiene
al tempo definitivo, pur restando legato a quella storia umana e cosmica che va verso la sua
consumazione. Quindi, celebrando una liturgia con i suoi riti, i suoi segni e le sue strutture
temporali, siamo già orientati verso il futuro, tanto che la Liturgia, come realtà rituale, deve
scomparire. Quindi, non diamo ai segni un valore definitivo. Ciò indica anche la visione
precaria del rito stesso. C’è, dunque, un’apertura verso questo futuro, nel quale la fede e la
riflessione teologica della Chiesa Apostolica colgono nel fatto dell’Incarnazione, Morte e
Risurrezione del Figlio di Dio, la chiave per interpretare tutta la storia. Nello stesso Anno
Liturgico tutto si interpreterà alla luce della Pasqua, poiché tutto nasce dalla Pasqua. Una
volta per tutte Cristo ha salvato il mondo, attuandone la liberazione-salvezza e
prospettando il pieno compimento di tale evento alla fine dell’eone presente, con la sua
seconda venuta nella storia.
Allora, il tempo precedente al fatto redentivo, va compreso a partire dal suo evento
culminante, cioè tutto è stato creato per mezzo di Cristo e in vista di Lui, dice Gv 1,1-5.
Poi, il tempo successivo alla morte-risurrezione di Cristo cerca ancora dalla sua Pasqua
contenuti verso cui camminare e sperare (Rm 8,11)10. Quindi, la rivelazione biblica non
nega il tempo dell’uomo, né lo dissolve nell’eternità, ma il tempo stesso riceve una nuova e
superiore consistenza. Per questa ragione, in ogni festa liturgica noi possiamo trovare un
collegamento con il tempo cosmico, con l’evento salvifico e con la storia di oggi
dell’uomo. Dunque, si può leggere l’Anno Liturgico da una visione del tempo cosmico.
Oltre a questo evento temporale e cosmico, troviamo l’evento salvifico.
Tutto questo comporterà anche una chiave di lettura della Liturgia stessa. Il mistero
dell’Incarnazione con il suo equilibrio perfetto tra Logos e Sarx, tra Verbo e Carne, tra
Eternità e Contingenza, tra Escatologia e Storia, è il modello supremo e pieno per
comprendere la natura del tempo salvato. Al contrario, ci sarebbe il rischio grave di creare
delle liturgie che celebrano soltanto l’uomo e non l’evento salvifico di Cristo.

Storia e Tempo della Celebrazione.


Passando ad un altro capitolo dal titolo, Storia e tempo della celebrazione, e
concludendo il tema del Tempo, si comprende che la celebrazione stessa è anche un tempo
determinato. Che rapporto essa con la storia salvifica? E’ un punto centrale del nostro
discorso. Nel 6° volume di Anàmnesis, dopo aver parlato della dimensione storico-
temporale, dell’evento salvifico, si considerano le istituzioni cultuali ordinate a rendere
questo evento salvifico presente ed efficace per gli uomini nel corso del divenire storico.
Come può rendersi presente un evento avvenuto nel passato, nel tempo della celebrazione
o liturgico? Dell’evento storico al memoriale liturgico si può vedere il vol. 6 di Anàmnesis,
p. 23. La Liturgia si fonda su un ordine temporale che le è proprio, cioè su un tempo
trascendente ed ordinato, presieduto da ciò che è, una volta per sempre, accaduto nella
storia. La Pasqua di Gesù, punto focale ed avvenimento glutinante, di tutta la storia, è stata
compiuta e realizzata una volta per tutte. Sia prima (la Pasqua di Israele), sia dopo (la
Pasqua della Chiesa), sono contenuti nella Pasqua di Gesù. C’è, dunque, un momento di
anticipazione (la Pasqua ebraica) ed un momento di presenza della Pasqua di Cristo nella
Pasqua della Chiesa. Allora, la Pasqua è presa come valore sintetico e glutinante. Questa
10
Il testo di Rm 8,11 afferma: «E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui
che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che
abita in voi».
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osservazione ci porta a considerare il tempo liturgico come un tempo lineare e come


continuazione del tempo biblico o storico-salvifico. Quando noi celebriamo la liturgia della
Chiesa non facciamo altro che metterci in contatto lineare con gli eventi della Bibbia
(Antico e Nuovo compiuti in Cristo). In questo tempo veramente liberatore, l’avvenimento
è sempre profezia ed annunzio di un futuro migliore. E’ sempre un già e non ancora, che
attualizzando gli eventi passati di Dio, in un presente celebrativo, a sua volta anticipa e
offre le primizie di un compimento in pienezza. Un esempio lo si trae dalle preghiere
liturgiche che fanno riferimento al mistero celebrato e partecipato, nonché al compimento
definitivo.
Il tempo presente ha, dunque, una consistenza. Se tutto fosse orientato verso l’Eternità,
c’è il rischio di minimizzare la portata dell’una volta per sempre che riguarda anche il
presente. Quindi, l’equilibrio tra questi tre momenti del tempo diventa fondamentale, cioè
tra il passato della storia di Dio, il presente della partecipazione ed il futuro del
compimento. Esso, però, si può rompere, naturalmente, con una visione non armonica della
storia. Se il tempo presente, che inizia dopo la Pasqua di Gesù, cioè il tempo della fede e
dei segni, che inizia dopo la glorificazione del Figlio (è il tempo intermedio o tempo della
Chiesa), è completamente determinato sia dall’avvenimento centrale della Pasqua di Gesù,
sia del futuro pienamente compiuto, come può avere ancora un suo significato? In parole
più semplici, se noi diciamo che tutto è stato realizzato in Cristo e che dall’altra attendiamo
il compiersi, che senso ha il tempo celebrativo che si trova tra la pienezza di Cristo e la
pienezza della storia? Si deve notare, ora, che Cristo regna ora invisibilmente, sul cielo e
sulla terra; quindi agisce visibilmente nella Chiesa e attraverso la Chiesa. Continua,
dunque, ad esercitare tutte le sue funzioni, compresa quella di Sommo Sacerdote,
intercedendo presso il Padre e presentandogli tutte le nostre preghiere. Quindi, il tempo
presente è intimamente legato all’evento di Cristo, perché quest’ultimo non è scomparso
nel sepolcro, ma è vivo alla destra del Padre. Se Cristo non fosse risuscitato, tutto il nostro
discorso non avrebbe alcun significato e sarebbe vano farlo.
Questa dottrina, brevemente abbozzata, è bene approfondirla di più. E’ importante
avere il concetto di mistero di Cristo e di mistero pasquale che entrano nel vivo del
contesto dell’Anno Liturgico.
Alla luce della Bibbia, la storia dell’umanità è tutta quanta disseminata di avvenimenti
che accaddero un tempo e che non si sono più ripetuti, anche quando tali avvenimenti
avevano presupposto un intervento di Dio nel futuro. Ora, questi interventi di Dio si
chiamano kairoi, perché sono eventi puntuali e decisivi per la storia dell’uomo. Essi non
sono sconnessi tra loro, ma rispondono o sono da interpretare in un disegno salvifico di
Dio che è unitario per propria natura. In greco lo si può indicare con il termine oikonomia
(economia). Lo scenario degli avvenimenti è il kronos, cioè il tempo degli uomini. Questo
scenario si trasforma in tempo di salvezza (kairos). Ora, il culmine di tutti questi kairoi è il
mistero pasquale che ha un valore unico ed irripetibile. A tale riguardo, è importante sapere
cosa è il mistero pasquale nel quale non si può trascurare il sacrificio di Cristo, perché il
mistero pasquale non è solo la risurrezione, ma è anche la passione e la morte di Cristo.
Questi concetti vanno capiti in profondità.
Dando un rapido sguardo alle lettere paoline e deutero-paoline, si nota che il termine
greco mysterion assume apposizione centralissima che indica l’evento salvifico di Cristo.
San Paolo parla del mistero di Cristo o di Dio o della pietà o del Vangelo: queste locuzioni
hanno significati affini o simili. La dottrina paolina, al riguardo, la possiamo riassumere
dicendo che il mistero è la volontà salvifica divina, è il mirabile disegno di salvezza di
Dio, le cui linee si raccolgono e si intrecciano in Gesù Cristo. Quel piano che Dio ha di
salvare l’uomo si concentra nell’evento di Cristo. Questo disegno, che era nascosto sin
dall’eternità, è stato pienamente manifestato in Cristo, il quale ne ha consegnato l’annuncio
ufficiale agli Apostoli, affinché predicassero il Vangelo, suscitassero la fede in Cristo e
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riunissero la Chiesa. Di tutto ciò – afferma la Dei Verbum – gli scritti del NT sono
testimonianza perenne e divina.
Ora, il senso del mistero non consiste in un qualcosa di nascosto, ma è la realtà a noi
rivelata per mezzo della fede. Esso è una visione globale di tutta la storia della salvezza,
che si compie per mezzo di Cristo: esso si manifesta come disposizione temporale della
salvezza. Ogni momento di questo grande disegno salvifico, al riguardo, può essere
chiamato anche mistero, il cui contenuto è l’evento stesso della salvezza che viene
proclamato, secondo Paolo, per noi. Esso non è soltanto rivelato al popolo giudaico, ma è
rivelato a tutta l’Umanità.
Ora, manca la dimensione cultuale, perché in San Paolo, l’evento di Cristo non è
ancora celebrativo. Poi, troviamo un’altra espressione parallela, dal secolo II in poi. Si
tratta dell’espressione “mistero della Pasqua”. Al riguardo, è interessante soffermarci
sull’omelia di Melitone dei Sardi sulla Pasqua, che testimonia la celebrazione rituale della
Pasqua annuale. In questa omelia ed in un’altra omelia contemporanea di un autore
anonimo, della stessa area geografica di Sardi (Asia Minore), appare questa espressione:
“mistero della Pasqua” o “mistero pasquale”. Cosa significa questa espressione? Tutto
quello che è stato detto, cioè quello che San Paolo intende per mistero di Cristo, è anche
presente nel concetto di mistero pasquale. Però, viene aggiunta un’altra espressione: il
mistero pasquale non solo è espressione dell’intera economia salvifica, compiuta in Cristo,
ma ne esprime anche la partecipazione, che, di questa economia salvifica, si fa nella Chiesa
attraverso i riti sacramentali.
Dunque, quando si afferma che l’Anno Liturgico celebra il mistero pasquale, si dice
qualcosa di globale. Lo stesso San Leone Magno fa intendere che quando la Chiesa celebra
il mistero pasquale, vuol dire che la Chiesa stessa fa memoria di tutto l’evento salvifico
operato da Cristo per noi, che è presente per noi nel sacramento. Questa dimensione, che
nel tempo si era persa, è stata poi ricuperata con Odo Casel, per quanto riguarda lo
sviluppo di una nuova teologia liturgica.
Nel Messale Romano attuale, l’espressione “mistero” o anche “sacramento pasquale”
indica tanto l’economia salvifica, compiutasi nella morte e risurrezione di Cristo, quanto la
celebrazione annuale della Pasqua ed i sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, quale
centro di tutta la Liturgia cristiana, mediante i quali l’economia salvifica si attualizza nella
Chiesa. Un riferimento, a tale riguardo, lo abbiamo nel CCC al n° 1085, in cui
sinteticamente si dice che nella Liturgia della Chiesa Cristo significa e realizza
principalmente il suo mistero pasquale.
Il Vaticano II è consapevole della centralità del mistero pasquale, inteso nel modo in
cui lo abbiamo spiegato. Nella vita del cristiano pone questa dottrina come fondamento e
come chiave interpretativa della Liturgia intesa come azione-memoriale e come esperienza
vitale dell’evento salvifico. A tale riguardo possiamo riferirci alla Sacrosanctum Concilium
che ne parla ai nn. 2, 5, 6, 61, 104 e 109. Un riferimento lo si trova anche nella Optatam
Totius n. 8 e nella Gaudium et Spes nn. 14 e 22. Dunque, la Liturgia della Chiesa è
annunzio e celebrazione del mistero pasquale, per mezzo del quale Cristo ha compiuto
l’opera della salvezza, affinché i fedeli lo vivano e ne rendano testimonianza nel mondo.
Da quanto si è detto il “mistero di Cristo” ed il “mistero pasquale” sono due espressioni
equivalenti: è il mistero annunziato, celebrato, vissuto e testimoniato. Esso è il nocciolo da
cui si sviluppa tutta l’esperienza della vita cristiana (al riguardo c’è un bell’articolo nel
Dizionario di Liturgia di Sorci, alla voce di Mistero pasquale).
La Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Vaticano II, nel capitolo dedicato alla
vocazione universale alla santità, indica ciò che si può dire la regola riassuntiva della
santità cristiana, sulla quale si devono modellare tutte le forme di espressione della
medesima santità, con queste parole:
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«Nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è coltivata da
quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e
adorando in spirito e verità Dio Padre, camminano al seguito del Cristo
povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua
gloria» (LG 41a).
Anche se in questo testo non appare l’espressione “mistero di Cristo” o “mistero
pasquale”, appare, però, il concetto: la santità cristiana, pur realizzandosi in una gamma
ricca di sfumature, consiste sempre nel seguire l’esempio di Cristo morto e risorto, dal
momento che il cristiano è chiamato a conformare la propria vita in quella di Cristo. San
Leone Magno parla di imitazione dei sacramenti, cioè dell’imitazione di quello che
celebriamo, cioè il donarsi continuo di Cristo al Padre.
Ora, questa dottrina, che si trova nel Vaticano II, si trova sviluppata di più nel
magistero post-conciliare. Se si prendono i grandi documenti del Magistero Pontificio, si
può porre in evidenza un dato molto significativo: l’espressione di “mistero di Cristo” non
appare mai nel capitolo VI sui religiosi della Lumen Gentium (v. i nn. dal 43 al 47), ma è
invece, presente nella Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II, Vita
Consecrata (1996), almeno 10 volte. L’espressione “mistero pasquale” è presente, nello
stesso documento, ben 6 volte, mentre è presente 4 volte l’espressione “mistero di Dio” o
“mistero del regno”. Ci sono, tra l’altro, altre espressioni equivalenti a quelle sopra
enunciate. Questo documento non riguarda soltanto i cosiddetti consacrati. Nel Sinodo del
1994 al quale fa riferimento, si compiva un processo del sinodo del 1990 (sui presbiteri),
anticipando le linee del sinodo del febbraio del 1997 (sui fedeli laici). Ora, in questo
documento pontificio, viene ripresa tutta la problematica dei diversi stati di vita nella
Chiesa, la loro identità, la relazione tra loro, la loro specificità ed il loro reale contributo
per la Chiesa stessa. Nella ricerca di un’identità di una nuova spiritualità, la Chiesa cerca di
guardare sempre di più alla realtà del mistero pasquale. Ciò è interessante, perché si nota
un progressivo recupero della categoria centrale del “mistero pasquale” che rimane
fondamentale per la teologia dell’Anno Liturgico.
Dunque, ogni cristiano è inserito nella Chiesa per mezzo del Battesimo. Ogni cristiano
è chiamato a camminare in novità di vita. San Paolo esprime il suo pensiero in quella sua
usuale forma dialettica che mette in rilievo i due poli dell’evento pasquale e, di
conseguenza, i due poli dell’esistenza cristiana. Grazie al Battesimo, l’esistenza cristiana è
profondamente e strutturalmente segnata da una forma e da un ritmo pasquale: morte,
sepoltura, vita risurrezione, crocifissione dell’uomo vecchio, liberazione dal peccato e
cammino in un’esistenza nuova. Occorre, quindi, che dalla vita nuova, comunicata nel
sacramento, si passi ad una vita quotidiana, rinnovata a sua immagine. Tutte queste idee,
che sembra vadano per altri percorsi che non sono l’Anno Liturgico, sono – invece –
fondamentali, perché l’Anno Liturgico medesimo è il binario sul quale si muove e cresce la
vita cristiana. Questo fatto fa comprendere l’importanza di insistere in una visione
teologica ampia cha abbracci tutta la vita cristiana.
Dunque, l’intima unione con il Cristo pasquale, che si inaugura con il Battesimo e la
Confermazione, si consolida nella partecipazione eucaristica. In questo modo, come
vedremo, l’Eucaristia costituisce il fulcro di tutto l’Anno Liturgico, cioè tutta la Liturgia ha
senso perché si celebra l’Eucaristia. Cristo è sempre presente nel suo mistero.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 24

04.03.2002 – 4a Lezione.

Il Tempo e la storia nella celebrazione (conclusione).


Una prima visione teologica di fondo dell’Anno
Liturgico.
Nell’ultima lezione era stato affrontato il mistero di Cristo secondo il pensiero di Paolo,
che esprime tutta la realtà del disegno salvifico del Padre che si realizza in Cristo. Si è
parlato anche del concetto di mistero pasquale, che appare dal II secolo in poi e al quale si
aggiunge la dimensione sacramentale, attraverso cui si partecipa all’evento salvifico.
Concludendo questa parte, l’evento liturgico non è propriamente diverso dal mistero
salvifico di Cristo, intendendolo l’intervento storico partecipato nel sacramento.
Riprendendo alcune idee della Dei Verbum 2, si può dire che quanto la Bibbia racconta,
dalla Genesi all’Apocalisse, la Liturgia lo ripresenta lungo il cammino che dalla Prima
Domenica di Avvento porta all’ultima Domenica del Tempo Ordinario, cioè un unico piano
di salvezza. La DV 2, al riguardo dice:
«Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e
manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli
uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello
Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4).
Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel
suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-
15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla
comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e
parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella
storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate
dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in
esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su
Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è
insieme i1 mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione».
In riferimento alla DV 2, secondo i modi che sono propri alla Liturgia, essa stessa
rinarra questo cammino storico e salvifico, perché lo interpreta e lo annuncia realizzato nel
mistero di Cristo Gesù il quale è, insieme, il mediatore della pienezza della Rivelazione.
Riprendendo questa idea della Dei Verbum, si può dire che il mistero salvifico non è
propriamente diverso dall’evento liturgico, perché esso rimane presente sino al giorno
escatologico del mistero liturgico.
Quindi, il mistero del Cristo pasquale informa di sé le coordinate storiche attualizzando
l’oggi della salvezza. Questo mistero si manifesta attraverso i mysteria carnis Christi, che
sono le azioni attraverso le quali in Cristo si è rivelato concretamente e completamente il
disegno salvifico di Dio, per cui l’Anno Liturgico è la celebrazione del complesso delle
azioni salvifiche del Cristo che compendiano tutta la storia della salvezza, dall’inizio del
suo rivelarsi nella creazione sino alla realizzazione finale. Anticipando alcune idee, che
vedremo in seguito, poiché è lo stesso Cristo il protagonista dei vari avvenimenti, ogni
avvenimento celebrato rende presente tutto il mistero che è Cristo.
Non si tratta, come talvolta si potrebbe pensare, di una semplice riproduzione
drammatica della vita terrena di Cristo o della storia della salvezza che trova in Lui
compimento. Il contenuto, cioè la realtà ultima delle celebrazioni liturgiche, sparse lungo
l’Anno Liturgico, esprime sempre la totalità del mistero di Cristo. Infatti, si vede che in
ogni celebrazione, apparentemente parziale, viene sempre celebrata l’Eucaristia in cui
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 25

avviene il “Tutto”. Dunque, il mistero è sempre completo, secondo anche il pensiero di


Casel nella sua opera classica: Il Mistero del Culto Cristiano.
Concludendo, l’Anno Liturgico è un’Eucaristia pasquale, sdoppiata, celebrata durante
tutto l’Anno, insieme ai diversi aspetti del mistero redentore. Tali concetti sono sempre
presenti nelle preghiere dell’Anno Liturgico e anche perché, prima di studiare lo sviluppo o
la genesi del ciclo delle feste annuali, c’è già una visione teologica di fondo che
naturalmente dovremo arricchire, approfondire e maggiormente arricchire.

La domenica festa primordiale dei cristiani


Tempo del lavoro e senso della festa.
Il tempo trova in Cristo un punto di riferimento ed il compimento. Il mistero di Cristo
ed il mistero pasquale sono concetti pregnanti che esprimono tutto il disegno salvifico di
Dio che si svolge nel tempo. Nell’ambito del primo nucleo festivo, la Domenica, che
appare nella storia dell’Anno Liturgico, è bene dividerlo in due temi:
a) il tema della festa;
b) il tema della domenica propriamente detta.
Perché iniziamo con il parlare del tema della festa? Il Concilio Vaticano II nella
Sacrosanctum Concilium al n° 106, quando parla della domenica, afferma:
«Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della
risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni,
in quello che si chiama giustamente “giorno del Signore” o “domenica”. In
questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la
parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della passione,
della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e render grazie a Dio, che li
“ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo
dai morti” (1 Pt 1,3). Per questo la domenica è la festa primordiale che deve
essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche
giorno di gioia e di riposo dal lavoro. Non le venga anteposta alcun'altra
solennità che non sia di grandissima importanza, perché la domenica è il
fondamento e il nucleo di tutto l'anno liturgico».
Qui si trova la definizione della domenica con la famosa espressione “festa
primordiale dei cristiani”. E’ primordiale nel senso che è la prima festa celebrata dai
cristiani. Ciò entra nel discorso se la domenica sia da considerarsi nell’ambito della festa.
Nel suo libro, La Domenica, festa primordiale dei cristiani, al primo capitolo, il Prof.
Augé, ne parla ponendo l’accento sulla dimensione antropologica. Per la bibliografia si può
aggiungere, per la dimensione antropologica della festa, un altro libro dal titolo: Tempo del
lavoro e senso della festa, Alba Ed. Paoline 1999. Questo testo contiene tre articoli di
Franca Alacevich, Stefano Zamagnani e Andrea Grillo (Tempo, Lavoro e Festa cristiana in
epoca post-moderna). In Anàmnesis, da pagina 23 a pagina 28, il Prof. Augé parla delle
feste di Israele e delle feste della Chiesa, nonché delle strutture teologiche della festa
biblica. Ad Anàmnesis, purtroppo, manca un’introduzione di tipo antropologico, ma – in
effetti – prima di parlare della festa cristiana, è bene parlare della festa in quanto realtà
umana.
L’uomo è per natura un essere “festivo”, nel senso che non lavora soltanto, né pensa
soltanto, ma è colui che canta, celebra, si riposa e gioca. La festa è un fenomeno tipico
dell’esperienza e del comportamento umano. Se si vuole, però, analizzare la nostra
esperienza del far festa, si sente un certo imbarazzo, perché nell’attuale Società, complessa
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e pluralistica, esiste una tale quantità e varietà di feste, che diventa assai difficile scorgere
degli elementi in comune tra le une e le altre. Facendo un’astrazione dei diversi elementi
comuni, diventa difficile scorgerli nell’unico alveo della festa come dimensione
antropologica dell’uomo di oggi. Certamente le diverse feste coinvolgono, di volta in volta,
gruppi e persone diverse, oppure una medesima festa può essere di fatto percepita e vissuta
in modi molto diversificati o dagli uni o dagli altri. Ad esempio, si può pensare ad un
gruppo di Musulmani che vive in Italia o ad un gruppo di Cattolici che vive in uno dei
Paesi islamici. C’è una visione diversa della festa. Ogni gruppo celebra la festa a modo
suo, secondo il proprio credo personale. Ciò è particolarmente evidente alla domenica,
quale giorno di festa dei cristiani per antonomasia, che regola il ritmo festivo settimanale.
Ora, analizzando le caratteristiche e le componenti essenziali, che si riscontrano, ad
esempio, nelle società umane più arcaiche e più semplici, la festa appare come un fatto
antropologico, molto ricco e molto complesso. La festa è una componente essenziale della
vita dell’uomo: rivela un popolo, la sua cultura. La festa è lo specchio di tutto un modo di
pensare e di vivere. In qualche modo essa visualizza un determinato modo di vedere il
mondo e la vita stessa.
La complessità della festa comporta anche una certa ambivalenza, se non una certa
paradossalità, perché nella festa stessa ci sono elementi contradditori. La festa la si
potrebbe, in un qualche modo, definire per comprendere meglio tali elementi. Si potrebbe
dire, ad esempio, che la festa è un complesso o insieme di celebrazioni comunitarie
straordinarie, dal momento che non ogni giorno è festa. Queste celebrazioni si trovano in
un equilibrio tra la norma – in quanto la festa è regolata da norme precise – e la
spontaneità. La festa si trova anche in un equilibro tra gioia e serietà e tra liberazione e
riposo.
Dunque, la complessità della festa viene confermata anche dall’oggetto della
celebrazione festiva, che riconduce alla domanda: cosa celebra l’uomo quando fa festa?
L’oggetto della celebrazione festiva può essere costituito da tante cose. In qualche modo,
può essere tutto ciò che un popolo o una cultura percepisce come valore.
Le feste sono, allora, motivate da valori che, nell’ambito sociale, sono di carattere
collettivo o comunitario. Ogni Comunità festeggia ciò che ritiene importante: l’oggetto
della festa spazia tra il profano ed il sacro, tra la morte e la vita. Ecco perché alla festa è
connaturale la dimensione religiosa. Quasi in tutti i popoli si può vedere che la festa trova
anche una connessione con la dimensione religiosa del vissuto quotidiano di un popolo.
Allora, si deduce che i linguaggi che caratterizzano la celebrazione festiva sono
linguaggi legati alle diverse componenti culturali di un popolo e alle caratteristiche del
tempo in cui questo popolo si è sviluppato e si sviluppa. Ciò lascia intravedere ad una serie
di tradizioni che sono state ereditate dal passato e dalla sensibilità particolare con cui i
partecipanti svolgono la festa.
Spiegando brevemente le diverse componenti ci si domanda: chi fa festa? Certamente,
guardando ad una prima dimensione il soggetto connaturale della festa non è l’individuo
in sé, ma è la collettività o il gruppo, perché nessuno riesce a far festa in solitudine. Appena
si pretende di far festa ci si trova subito dinanzi ai valori in cui si crede, alla comunità nella
quale si è inseriti e alla tradizione dal quale si proviene. Ciò comporta un rapporto ed una
relazione con gli altri. La festa è, dunque, per sua natura, un evento sociale che, per
principio, riguarda l’intero gruppo umano. Questo fatto tocca le strutture portanti in base
alle quali si identifica un popolo o una nazione.
La festa mette in gioco i diversi schemi di pensieri, nonché una serie di moduli
comportamentali e di valori comuni del gruppo, facendo comunque riferimento al gruppo
stesso. Non solo, la festa, oltre ad allacciare rapporti collettivi, tende a coinvolgere anche
individui estranei al gruppo. Una festa si dice che è riuscita quando è partecipata da un
gran numero di persone. Ciò spiega un ritrovamento del profondo senso comunitario, dove
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 27

viene a svilupparsi una precisa esperienza. La festa è la più alta forma di identificazione
dell’individuo con il gruppo. Essa risponde, tra l’altro, al desiderio di unirsi che è un fatto
connaturale alla persona umana. La stessa dispersione del quotidiano accresce ancora di
più questo bisogno di ritrovarsi. Nella cultura attuale, alcuni di questi elementi festivi sono
un po’ cambiati nella psicologia dell’uomo di oggi.
Una seconda dimensione della festa riguarda l’insieme delle celebrazioni comunitarie,
di carattere straordinario: il tempo della festa è un tempo puntuale e preciso, un tempo
straordinario. Infatti, non ogni momento è festa. Di per sé il tempo è un elemento neutro
dal momento che scorre in modo omogeneo. Esso è ineluttabile ed inarrestabile.
Ora, il tempo della festa è un tempo legato a certi momenti precisi, che si possono
identificare nello scorrere del tempo, perché l’uomo li ha determinati in un modo preciso.
Quindi, sono legati ad una determinata data che noi chiamiamo calendario. Il sistema delle
feste dei diversi popoli ha dato vita al calendario che è uno strumento con cui l’uomo
organizza il suo tempo. Il tempo riceve senso quando l’uomo riflette sul suo divenire,
trovandone dei precisi valori. Infatti, l’uomo situa se stesso con la dimensione
fondamentale della sua esistenza umana che è il tempo stesso.
In questo contesto, la festa rappresenta un’alternativa ed una rottura con la vita
quotidiana. Essa interrompe le diverse attività ed esprime la vita con altri moduli e con
altre caratteristiche. Essa, però, non si oppone alla quotidianità perché nella sua
caratteristica di diversità esprime il valore del quotidiano, collocandolo in una cornice di
senso. Essa intende rigenerare il quotidiano per renderlo pregnante di valore.
Una terza dimensione riguarda la presenza di elementi concorrenti fra loro: ad
esempio, da una parte, c’è il ricordo di qualcosa di passato, mentre, dall’altra, c’è un
qualcosa di presente. Nelle culture primitive il rapporto tra festa, tempo e realtà, si esprime
attraverso il modulo mitico. Il mito (dal greco mitos = racconto o narrazione) non è una
cosa irreale, ma è un modo di spiegare, sempre in forma narrativa, le realtà fondamentali
della vita, come ad esempio, l’origine del mondo, di un’istituzione o di una realtà precisa.
Questa spiegazione avviene risalendo all’evento primordiale operato dalla divinità. Da
quell’evento proviene, poi, quella realtà di cui noi facciamo memoria. In questo senso, si
può dire che è un mito il racconto della creazione che si trova nel Libro della Genesi, che
contiene delle Verità eterne, rivelate successivamente. Dunque, in tutti i popoli troviamo
che quando gli uomini fanno festa – ricordando precise realtà che danno senso alla loro
esperienza – essi si servono di racconti mitici.
Ora, questo evento, al quale il mito dà un senso, è concepito come un evento che porta
in sé una forza salvifica. Quindi, l’evento viene, in qualche modo, perpetrato in un preciso
contesto rituale e cerimoniale; ancora meglio, viene perpetrato in una cornice simbolica
che esprime e rende attivo un significato che il gruppo che celebra la festa condivide e
sancisce, poi, nella vita quotidiana con il suo comportamento sociale.
Certamente, i miti – ricordando i fatti grandiosi che sono avvenuti nel passato – fanno
sì che questo passato venga recuperato attraverso l’evento festivo (ad es., la festa
dell’Indipendenza, oppure della Liberazione, ecc.). In tale evento festivo si sviluppano
delle cerimonie che producano una specie di ritualità. Quest’ultime recuperano certi valori
che in passato hanno dato vita ad una determinata realtà (ad es., la fondazione di uno
Stato). Ciò lascia intendere che il mito può essere anche rigenerato ed arricchito.
Quando una comunità o un gruppo umano celebra nella festa, ricorda nella gioia un
avvenimento pregnante di significato della sua vita. Allora, la festa diventa espressione
rituale e comunitaria di esperienze e di speranze comuni. La festa diventa il ricordo
dell’“evento salvifico”, ma è anche presenza di tale evento, non solo a livello psicologico,
ma a livello fondante di valori per il presente, che devono continuamente essere tradotti,
cioè applicati alle nuove situazioni della società.
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Nella festa, come è già stato detto prima, ci sono degli elementi in ambivalenza: la festa
è al tempo stesso normata (rito regolato da norme tradizionali) e causa di una fantasia
creatrice. Tutto questo ci servirà a capire come la festa cristiana abbia assunto determinati
valori universali, nonché alcune di queste dimensioni tradizionali dell’evento festivo, che
sembrano andare per altre strade. Quindi, la festa è, al tempo stesso, rito tradizionale e
fantasia creatrice.
La celebrazione della festa rinnova ed attualizza i miti delle origini attraverso le antiche
usanze tradizionali, per cui questa attualizzazione è stabilita da riti prestabiliti e da
minuziose liturgie da ripetere puntualmente. D’altra parte, il mito – nel senso di racconto –
si colloca sempre sul piano sacro, dal momento che fa riferimento ad un ordine di realtà e
di cose che è stato ricevuto dalla Comunità umana come normativo. Ad un ordine di realtà
si fa riferimento con un carattere di assolutezza nei confronti della relatività e transitorietà
delle cose del mondo.
Ora, bisogna aver presente che il rapporto tra la norma rituale e tradizionale e la
fantasia creatrice deve essere armoniosamente regolato perché la presenza di elementi
istituzionali (normativi), verso la transitorietà delle cose potrebbe – in qualche modo – la
realtà e l’intensità della festa, perché quest’ultima, da una parte, è iniziativa e superamento
dei limiti e dei condizionamenti, mentre dall’altra, esprime una dimensione del rito che non
deve assolutamente distaccarsi dalla realtà. Per fare un esempio concreto, si può fare
riferimento ad un libro, dal titolo Risus Paschali, dove si legge che nel Medioevo, in
alcune parti dell’Europa, nel giorno di Pasqua, in chiesa il celebrante compiva degli atti
osceni con lo scopo di far ridere. Lo scopo era quello di sottolineare l’espressione della
libertà nel giorno di festa. Questa tesi è stata molto discussa e non tutti l’hanno accolta.
In effetti, la festività concede all’uomo una certa libertà dalle convenzioni sociali.
Senza una certa possibilità di infrangere le norme che regolano il comportamento sociale,
la festività non sarebbe tale, perché la festa comporta sempre alcune diversità del modo di
comportarsi dei giorni feriali. Ad esempio, nei giorni di festa si indossano vestiti più
sfarzosi, si dorme di più, si mangia di più, e così via. C’è una specie di dismisura e di
diversità, rispetto alla quotidianità dove la regola è più seguita. Allora, una certa creatività
sul piano dell’immaginazione religiosa rinnova la materia mitologica tradizionale. La
creatività nella festa, piano piano, rinnova quella tradizione che il mito tramanda.
Ciò illustra, dunque, questa dualità insita della festa che corre tra la spontaneità e la
norma. Se da una parte si ammira la freschezza di una festa realmente spontanea e non
artificiosa, dall’altro si apprezza la stabilità di una ricorrenza secondo l’uso determinato dal
calendario, che indica una certa normatività ed una certa gestualità, quali elementi di non
improvvisazione, ma di profonda e lunga preparazione.
Un’altra ambivalenza della festa è la linea tra la gioia e la serietà: in fondo, si può dire
che la comunità festeggia sé stessa, perché ha una storia e protende ad un futuro migliore.
In questo senso, ogni festa è collocata nel contesto e nella cornice di una storia o di una
cultura, orientata ad un futuro verso il quale quel popolo o quella cultura medesima
cammina. C’è quindi, nel far festa:
- un certo ottimismo nell’orizzonte della vita;
- c’è l’affermazione pubblica comunitaria della dimensione gioiosa
dell’esistenza.
La gioia della festa è, poi, il riflesso del mondo giusto, solidale e conviviale. Nella festa
tutti si sentono legati gli uni agli altri. La gioia presente in ogni celebrazione festiva, però,
non è neanche esente da una certa una dolce e delicata tristezza, perché nella festa stessa
possono emergere i problemi del quotidiano, nonché le ingiustizie ed i ricordi inquietanti
del passato. Questo fatto dimostra che nella festa è inseparabile questo dualismo tra chiaro
e scuro. La festa non sopprime, quindi, la tragedia della vita, ma – in qualche modo –
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assume questa tragedia collocandola in una visione più ampia e ricomponendo tutto il
mondo di valori della società umana.
Far festa vuol dire ricominciare di nuovo per orientare la vita verso traguardi sempre
più positivi. La festa, a suo modo, è un momento contemplativo, estetico e celebrativo
della vita, perché fa parte di quelle realtà che di per sé non hanno uno scopo, ma hanno un
senso. Essa è come il gioco. La festa riposa in sé stessa, anche se oggi ha assunto uno
scopo commerciale.
Andando avanti nel nostro discorso, la festa possiede una spinta liberante che esce
dall’ordine consueto: è un’emancipazione dalle soffocanti catene del ritmo quotidiano.
Essa è una sosta improduttiva, che comporta una pace contemplativa ed un ozio che
dovrebbe arricchire l’uomo.
La diversità del giorno festivo è avvertita dalla stessa psicologia umana che sente il
bisogno di ristabilire l’equilibrio talvolta perduto, dopo aver accumulato le tensioni a causa
del lavoro quotidiano. Oggi, c’è anche, purtroppo, la sindrome della festività (depressione
festiva): non c’è più, in questo caso, la reale dimensione della festa, dal momento che il
soggetto colpito ha perso il vero senso della festa a causa del fatto che non si trova più in
attività.
L’uomo ha bisogno di determinati momenti di ozio festivo per rendersi conto che
neppure un iperbolico prodotto lordo nazionale ed il pieno impiego possono portare la
felicità e la salvezza ad un intero popolo. Nei giorni di festa si cessa di lavorare, si gode dei
tradizionali momenti di convivialità umana, senza i quali la vita stessa non sarebbe umana.
La festa, come il gioco, la contemplazione e l’amore, è fine a sé stessa, per cui non
deve essere strumentalizzata.
Infine, la festa permette all’uomo di dedicarsi a ciò che egli ritiene essenziale per la sua
vita. La festa umana, nel suo significato più intimo, è un riconoscimento, una
proclamazione ed una accettazione della propria esistenza come dono e come gratuità,
come libertà e come liberazione dalla schiavitù. Certamente questa visione deve essere
corretta, come fa presente il Prof. Grillo nel suo articolo sopra menzionato, perché il modo
di vedere le culture antiche fa sì che si veda nella realtà del lavoro una condizione penosa,
opprimente (il lavoro è sentito come obbligo) e non liberale.
In effetti, nella cultura attuale il lavoro è vista come realtà liberante che soddisfa
l’individuo che crea il lavoro, per cui la festa non viene esercita come in passato.

La dimensione cristiana della Festa.


La Domenica
Dopo quanto abbiamo detto, qual è la reale dimensione cristiana della festa? In tal
caso, ci interessiamo dei connotati della festa cristiana. Per tale ragione possiamo
sintetizzare alcune idee, partendo dalla festa nella Bibbia, sino ad arrivare alle linee di una
teologia della festa cristiana.
Il modello festivo che emerge dalla Bibbia (AT e NT) è contemporaneamente collegato
al tempo ed è superiore al tempo. Esso si rivela connesso all’esistenza, ma contempora-
neamente la trascende. Si incarna e si manifesta come promessa. In particolare possiamo
vedere alcune strutture che caratterizzano la festa cristiana. Esse sono tre:
1) la festa biblica è una celebrazione rimemorativa dei grandi eventi
compiuti da Dio nella storia in favore dell’uomo (dimensione di
ricordo);
2) la festa è un’anticipazione gioiosa del futuro dell’uomo (l’evento
storico che viene ricordato e celebrato, viene celebrato in un compimento
escatologico);
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3) la festa è impegno per la vita (dimensione morale della vita dell’uomo).


Dunque, la festa non solo racconta il passato degli eventi in cui Dio salva l’uomo, ma
invita a rivivere questi eventi ed atteggiarsi dinanzi a un Dio che salva, in modo coerente.
Ora, quanto è stato detto, ci permette di individuare i protagonisti della festa biblica che
sono un Dio trascendente ed operante nella storia, l’uomo nella comunità, con cui Dio
stesso stabilisce un’Alleanza e trattiene un rapporto d’amore, il mondo nel quale si
concretizza il suo disegno salvifico, ed il tempo che è tempo di Dio per la salvezza
dell’uomo.
Questi elementi sono già sufficienti per indicarci, in qualche modo, alcuni criteri della
festa cristiana. Si potrebbe affermare che per il cristiano non ha più senso parlare di feste
come giorni speciali, distinti e diversi dai giorni feriali, perché in ordine al vissuto della
fede, non sembra che abbiano più valore e pertinenza alcune categorie cronologiche
delimitanti i tempi ed i giorni. In questo ambito ritorna il concetto di Cristo come pieno
compimento del tempo stesso, che arriva ad essere salvato e ad essere tutto cristologico. Lo
stesso San Paolo nella Lettera ai Colossesi ed in altre Lettere, arriverà a dire:
«Nessuno, dunque, vi condanni più in fatto di cibo o bevanda o riguardo a
feste, noviluni e a sabati: tutte queste cose sono ombra di quelle future, ma la
realtà invece è Cristo!» (Col 2,16-17).
Il testo di San Paolo non riguarda solo le feste ebraiche, ma sottolinea la dimensione
escatologica della vita cristiana. Egli ricorda che se ha un senso parlare di festa cristiana,
questo senso è Cristo stesso.
Se si pone, quindi, l’accento nella dimensione escatologica della salvezza, dal
momento che noi speriamo nella gloria futura, ogni giorno diventa per i cristiani diventa
una festa, nella quale si fa esperienza, non di una realtà qualsiasi, ma di un’attesa che
orienta tutta la vita verso l’incontro con Dio ed il compimento della salvezza in Cristo.
L’evento salvifico diventa un fatto permanente nella storia, per cui il cristiano non
dovrebbe più preoccuparsi delle feste, ma questa realtà salvifica deve emergere a livello
personale e collettivo, nonché al livello psicologico, per cui il cristiano può recepire la
tradizione della festa come valore umano, avendo, però, presente che ogni giorno, in
definitiva, ha la stessa realtà festiva.
In Cristo tutto si è compiuto, ma per un altro verso tutto si deve compiere. L’azione
salvifica di Dio in Cristo deve compiersi in modo storico-sacramentale, attraverso il tempo
della Chiesa. Questo fatto spiega il perché l’evento salvifico è aperto a tutti i tempi e a tutti
gli uomini mediante l’anamnesi eucaristica.
Dunque, i cristiani celebrano le loro feste ed apparentemente non manifestano una
modalità propria del proprio modo di celebrare, perché hanno accettato ed accettano i
moduli antropologici della festa. Evidentemente sul piano dei contenuti e dei significati la
festa fa emergere – nel modo che le è proprio – la peculiarità cristiana.
Nell’ambito di un desiderio di ritrovare l’autenticità cristiana, dopo il Vaticano II, nel
periodo in cui fu un forte influsso del secolarismo e della secolarizzazione, alcuni
arrivarono a difendere una liberazione dai giorni festivi. In concreto, una teoria che si
ritrova nelle riviste di quel tempo ed anche dopo così si esprimeva:
«Perché obbligare i cristiani a partecipare alla messa alla domenica?…
Ogni giorno è festa. Ogni giorno c’è l’Eucaristia. Ogni giorno noi abbiamo
l’evento salvifico… Come tale il tempo è reale».
Scompare, perciò, il duplice piano di una storia mitica e di una esistenza reale. Gesù
Cristo è, fra tutti gli eventi di questa vera storia, quello supremo, definitivo, irreversibile.
E’ vero che abbiamo la possibilità di celebrare l’evento salvifico attraverso l’Eucaristia, ma
ciò non sopprime la dimensione antropologica, cioè il bisogno di far emergere questo
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 31

valore permanente con i moduli normali delle culture. Il tempo per i cristiani, si sa, è
lineare, dal momento che ha inizio da Dio e riconduce a Dio. La presenza di Cristo, al
scorrere della storia, è sempre una presenza in atto.
Le feste cristiane seguono i ritmi cronologici propri della civiltà in cui si trovano
inserite, ma non per questo rimangono prigioniere dell’ordine cosmico. La stessa ciclicità
astronomica è stata assunta da Cristo, il quale viene proclamato come il primo e l’Ultimo,
come l’Alfa e l’Omega, come il principio e la fine.
Il soggetto della festa cristiana è, anche in questo caso, comunitario e non individuale.
E’ la Comunità cristiana che si riunisce per celebrare l’evento salvifico di Cristo. La
celebrazione festiva del Cristianesimo assume il passato, il presente e le tensioni verso
l’avvenire, sotto la forza giudicante, trasformante della Pasqua del Signore. Allora,
l’oggetto specifico della festa cristiana lo si trova sempre nel mistero di Cristo: in concreto
lo si ha nel ritmo del venire incontro a Gesù e dell’obbedienza alle parole di Gesù stesso:
«Fate questo in memoria di me».
Si può, quindi, concludere che nella prospettiva cristiana la dimensione antropologica
ed anche quella religiosa della festa comunemente intesa, pur non scomparendo, diventano
inadeguate ad esprimere tutta la realtà della festa cristiana. Esse non sono sufficienti a
fondarla. Per questa ragione, la festa primordiale dei cristiani è nata piuttosto come una
non festa dal punto di vista di alcune caratteristiche antropologiche e sociali. Essa è nata
non legata ad un ritmo stagionale, ma si è originata da un ritmo breve della settimana. Non
è nata connessa con l’interrompersi dei giorni feriali, ma – per i primi cristiani, sino al
secolo IV – la Domenica era un giorno di lavoro.
Se, poi, in regime di cristianità le feste della Chiesa hanno acquisito spontaneamente i
caratteri della festa, come fatto sociale e culturale, ciò – pur essendo legittimo ed anche
positivo – non si è realizzato senza qualche rischio, in merito alla conservazione del loro
significato originario e originale. Tutto questo lo si vedrà in modo più concreto nella storia
della domenica.
Finalmente si può dire qualcosa sui condizionamenti attuali, posti alla festa cristiana:
oggi c’è una crisi del senso festivo e non delle feste. Il problema si manifesta sull’assenza
dell’uomo e sulla sua estraneità al fatto festivo. L’uomo si atteggia in un modo diverso
rispetto alla tradizione anteriore. La perdita della disposizione a far festa ha un profondo
significato religioso. Chi è l’uomo religioso, in senso molto generale? E’ colui che situa la
propria esistenza in una cornice storica e cosmica molto più vasta. E’ colui che si considera
in un contesto in cui ci sono dei valori, c’è un’origine e c’è un destino. Egli si considera
parte di un tutto più grande, cioè di una storia più ampia nella quale si sente chiamato ad
avere un ruolo. I riti, i canti, i gesti festivi legano l’uomo a questa storia, perché lo aiutano
a situarsi nel vissuto concreto.
Questo fatto spiega il perché senza autentiche occasioni festive e senza il
sostentamento della fantasia celebrativa, lo spirito e la psiche dell’uomo tendono a
deteriorarsi. La mancanza del senso festivo può spiegare, in parte, il malessere, il tedio e la
noia dei nostri contemporanei. Infatti, la celebrazione festiva, ben gestita, mette in moto un
insieme di ricordi in comune, di speranze collettive e di valori che danno senso alla vita.
Quando il senso di celebrare la festa scompare, viene meno anche l’insieme di questi punti
di riferimento importanti. Oggi sembra che qualcosa, in questo senso, si stia deteriorando.
Le stesse feste cristiane non hanno più la vitalità di un tempo. I condizionamenti
attuali, a cui è assoggettata la celebrazione della festa cristiana, sono molteplici: nella
nostra cultura post-moderna c’è il rischio (v. la new age) ad un sacro, non nel senso
dovuto, ma nel senso sincretistico, con radici cosmico-vitalistiche e naturalistiche, che
lasciano intravedere una sorta di miscuglio tra diversi credi religiosi. Nasce, così, un tipo di
festa “neo-pagana”, con riti, musiche e modelli di comportamento, che non sono prive di
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 32

celebrazioni comunitarie. Questa voglia di far festa, inizialmente è positiva perché


recupera alcune delle dimensioni antropologiche della festa, ma diventa ambigua e
pericolosa nella misura in cui colloca l’uomo nella vaga dimensione sacrale e cosmica,
impedendogli di esprimere la propria identità personale e la propria vocazione
trascendente. In questo ambito, è bene non dimenticare che la persona umana ha in sé un
elemento di profondità e di valore individuale che lo rende superiore al cosmo. Inoltre, il
suo rapporto con Cristo e la sua proiezione storica, nonché la sua azione rivelatrice, non
possono essere ridotti ad un solo ambito celebrativo.
In secondo luogo, per un altro verso, non è infrequente nella nostra società interpretare
la festa in un modo molto riduttivo, cioè considerarla come “vacanza”, “tempo libero” o
“relax”. La vera festa, secondo alcuni, è “il non far niente”. Anche questa mentalità – tra
l’altro molto presente tra noi – è pericolosa perché confonde la festa con un tempo vuoto.
In realtà, la festa non è un tempo vuoto, perché i “tempi vuoti” o di vacanza, sono – in
parte nella Società occidentale – modellati dalle feste cristiane, che esercitano un effetto
ambiguo. La festa si riduce al semplice sentirsi liberi dal peso e dai fastidi della vita
quotidiana e al semplice bisogno di evasione. Questo fenomeno è particolarmente evidente
nella concezione che oggi si ha della domenica.

_______Note Personali di
Studio______________________________________________
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 33

11.03.2002 – 5a Lezione.

La dimensione cristiana della Festa.


La Domenica (Seconda Parte)
La sua origine
Riprendendo il discorso dell’ultima lezione, ci eravamo riferiti alla SC 10611 che
chiama la Domenica «festa primordiale dei cristiani». Ci siamo, fermati, inoltre, a
descrivere che cosa si intende per festa, illustrando brevemente la dimensione
antropologica partendo da una nozione di festa partendo dalle celebrazioni comunitarie
straordinarie, in equilibrio tra spontaneità e norma, tra gioia e serietà, tra liberazione e
riposo. Sono state ricordate le tre dimensioni fondamentali della festa biblica, della festa
cristiana, come memoria di un evento salvifico, come orientamento verso il compimento
escatologico di quella salvezza, e come impegno che ciò comporta per la vita.
Quale conseguenza ha tutto ciò nella visione cristiana, per quanto riguarda la festa
cristiana? Certamente, i diversi elementi biblici ed antropologici non necessariamente sono
in contraddizione, perché quelli che emergono dalla dimensione antropologica della festa,
sono aperti a diverse tipologie di feste. D’altra parte, però, è già stato affermato che per il
cristiano non ci sia bisogno di distinguere i giorni festivi da quelli feriali, i giorni sacri da
quelli senza alcuna rilevanza sacra. Con San Paolo è stato detto che ciò che è importante
per il cristiano: in ogni momento è presente il mistero della salvezza che va vissuto nella
dimensione escatologica, verso il compimento della salvezza stessa.
Ciò che è una realtà perenne nella vita cristiana, e che l’Eucaristia perpetua in qualche
modo, deve emergere al vissuto del credente. Oggi, c’è, dinanzi a questa visione della
festa, ci sono una serie di condizionamenti nella nostra cultura, tanto che il senso stesso
della festa si sia un po’ impoverito. A tale riguardo si notava già un senso del ritorno al
festivo e del sacro, ma riguarda un senso ambiguo, sincretistica e naturalistico che genera
una visione cosmico-vitalistica della festa. Un’altra insidia è la riduzione della festa ad un
semplice vacanza.
Attualmente ci sono altre situazioni, come ad esempio le cosiddette feste umane, così
chiamate da Bernard Botte in un articolo pubblicato nella Maison Dieu del 1958. Botte, al
riguardo ha voluto sottolineare il fatto che una festa liturgico-cristiana suppone sempre la
memoria di un evento salvifico del passato che trova in Cristo il suo compimento. Ciò
bisogna intenderlo in un senso forte perché, non solo si ricordano i diversi eventi salvifici
del passato, ma essi stessi sono efficaci anche nel presente. E’ evidente che queste feste
umane (festa della Mamma, festa del lavoro, festa del papà, ecc.), come riferisce lo stesso
Botte, non possono mettersi sullo stesso piano, anche se è vero che la paternità, la
maternità ed il lavoro sono elementi peculiari della vita umana, il quali devono rientrare in
una visione salvifica. Essi, però, non sono l’oggetto della festa cristiana.

11
Il testo così recita: « Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della risurrezione
di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente “giorno
del Signore” o “domenica”. In questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la
parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della passione, della risurrezione e della
gloria del Signore Gesù e render grazie a Dio, che li “ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della
risurrezione di Gesù Cristo dai morti” (1 Pt 1,3). Per questo la domenica è la festa primordiale che deve
essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche giorno di gioia e di riposo dal
lavoro. Non le venga anteposta alcun'altra solennità che non sia di grandissima importanza, perché la
domenica è il fondamento e il nucleo di tutto l'anno liturgico».
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 34

Finalmente abbiamo oggi le feste civili che sono di interesse per una determinata
collettività in cui un gruppo celebra una ricorrenza particolare. Molte volte queste
solennità, nella misura in cui non hanno alcuna rilevanza o contenuto religioso e rituale-
celebrativo, tendono ad essere tempo libero.
Detto questo, entriamo nello studio dell’origine della Domenica, quale giorno di festa
dei cristiani. In merito a questo argomento ci sono una serie di testi del Nuovo Testamento,
nonché dei Padri della Chiesa. Un riferimento lo possiamo avere nel volume sesto di
Anàmnesis, alle pagine 71-91, dedicato proprio alla Domenica, a cura di M. Rooney. Si
seguirà anche il V volume di Scientia Liturgica. Questi testi sono interpretati in modo
diverso da autori diversi. Certamente bisogna considerare i primi testi neotestamentari
dove trova fondamento la celebrazione cultuale della domenica: da taluni sono considerati
in senso minimalista, mentre da altri sono visti in senso massimalista. Allora si può dire
che il capitolo di Rooney, molto bene elaborato, è piuttosto minimalista nel valutare la
forza probativa di questi testi del NT, in merito alla domenica.
Ora, sulla Domenica stessa, c’è un documento del Magistero che risulta una sintesi
abbastanza ben riuscita. Si tratta dell’Enciclica di Giovanni Paolo II, Dies Domini. Questa
enciclica è stata pubblicata il 31 maggio del 1998, due anni prima del Giubileo. Di essa si è
parlato poco, ma fa una valida sintesi sulla teologia della domenica.
Anche in questo contesto ripartiamo dalla SC 106, la quale afferma che la domenica è
di origine apostolica. In realtà, bisogna vedere se nel NT (lettere apostoliche, Atti degli
Apostoli) ci sono le testimonianze relative alla celebrazione della domenica. Cosa
intendiamo per celebrazione della domenica? Intendiamo dire che i cristiani, già nei tempi
apostolici, si riadunavano in assemblea il giorno di domenica per celebrare l’Eucaristia.
Non troviamo ancora il riposo come elemento domenicale, perché la domenica non nasce
come festa, nel senso di accoglienza di tutti gli elementi antropologici della festa. Quindi,
nel NT troviamo alcuni dati che devono essere poi confrontati con i primi testi dei Padri
della Chiesa. Dunque, ci sono tre testi del NT:
a) 1Cor 16,1-212;
b) At 20,7-1213;
c) Ap 1,9,1014.
Sono i tre testi che la stessa Enciclica, sopra accennata, cita, quando al n° 21 afferma:
E’ su questa base che, fin dai tempi apostolici, “il primo giorno dopo il
sabato”, primo della settimana, cominciò a caratterizzare il ritmo stesso della
vita dei discepoli di Cristo (cfr. 1Cor 16,2). “Primo giorno dopo il sabato” era
anche quello in cui i fedeli di Troade si trovavano riuniti “per la frazione del
pane”, quando Paolo rivolse loro il discorso di addio e compì un miracolo per
rianimare il giovane Eutico (cfr At 20,7-12). Il Libro dell’Apocalisse
12
Il testo di Paolo afferma: «Quanto poi alla Colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato
alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito
di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrò io».
13
Il testo recita: «Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane e Paolo conversava
con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo, prolungò la conversazione fino a mezzanotte. C’era un
buon numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti; un ragazzo chiamato Eutico,
che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e,
sopraffatto da un sonno profondo, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo allora scese giù, si
gettò su di lui, lo abbracciò e disse: “Non vi turbate; è ancora in vita”. Poi risalì, spezzò il pane e ne
mangiò e dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì. Intanto avevano ricondotto il ragazzo vivo, e si
sentirono molto consolati».
14
In questo testo si legge: «Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e
nella costanza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patos a causa della parola di Dio e della
testimonianza resa a Gesù. Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come
di tromba, che diceva… ».
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 35

testimonia l’uso di dare a questo primo giorno della settimana il nome di


“giorno del Signore” (1,10). Ormai ciò sarà una delle caratteristiche che
distingueranno i cristiani dal mondo circostante. Lo notava, fin dall’inizio del
secondo secolo, il governatore della Bitinia, Plinio il Giovane, constatando
l’abitudine dei cristiani “di riunirsi a giorno fisso prima della levata del sole e
di cantare tra di loro un inno a Cristo come a un dio”. E, in effetti, quando i
cristiani dicevano “giorno del Signore”, lo facevano dando a questo termine la
pienezza di senso derivante dal messaggio pasquale: “Gesù Cristo è Signore”
(Fil 2,11; cfr. At 2,36; 1Cor 12,3). Si riconosceva con ciò a Cristo lo stesso
titolo col quale i Settanta traducevano, nella rivelazione dell’Antico
Testamento, il nome proprio di Dio, JHWH, che non era lecito pronunciare».
In sostanza, questi tre testi proverebbero che già nei tempi apostolici la Comunità
cristiana si riuniva per celebrare l’Eucaristia. In merito al primo testo accennato, c’è da dire
che San Paolo si rivolge ai cristiani di Corinto, invitandoli a fare la colletta per la Chiesa di
Gerusalemme. Ci troviamo intorno all’anno 55-56. Perché questo brano è importante, dal
momento che non si parla di Eucaristia, né di Assemblea Liturgica? L’importanza di questo
brano sta nella data in cui Paolo dice di raccogliere la colletta per i poveri di Gerusalemme:
si tratta del primo giorno della settimana che, nella terminologia del tempo, indica il giorno
dopo il sabato ebraico. Ora San Paolo indica questo giorno per una regolarità della raccolta
dei risparmi perché? In base all’opinione minimalista, anche a quel tempo c’era l’uso di
pagare gli operai ogni settimana. Invece, per l’opinione più comune segue questa linea di
pensiero: anche se il testo di Paolo non parla esplicitamente di un’Assemblea cultuale, il
fatto che indichi ogni primo giorno della settimana, presuppone che i primi cristiani si
radunano e possono consegnare il loro obolo per i poveri di Gerusalemme. Quindi, si tratta
di un’assemblea della comunità di Corinto, ogni primo giorno della settimana. Inoltre,
alcuni esegeti notano che San Paolo, in altri testi, chiama la colletta con la parola
“leithourghia” cioè “servizio sacro”, come ad 2Cor 9,12 o anche Rm 15,25-27. Questa
espressione potrebbe indicare un qualche legame della colletta con l’Assemblea cristiana.
Secondo il prof. Augé, la prova più convincente che questo testo abbia un rapporto con
assemblea eucaristica e domenicale, consiste nel fatto che verso la metà del II secolo
(intorno al 150), San Giustino nella prima apologia (una delle lettere inviate
all’Imperatore), spiega che cosa facevano i cristiani, dando una prima descrizione della
liturgia della messa e della domenica. In questa descrizione della liturgia domenicale,
Giustino dice che alla fine della celebrazione dell’Eucaristia domenicale si fa la colletta ai
poveri. Dunque, si nota una certa sintonia tra il testo di Paolo scritto tra il 55 ed il 56 e
questa prima Apologia di Giustino. Allora, il testo di Paolo deve essere interpretato in una
cornice più ampia, al fine di provare qualcosa di concreto, circa l’Eucaristia domenicale.
La Dies Domini cita nuovamente questo testo al n° 70, quando descrive la domenica come
giorno di riposo, di gioia e di solidarietà. Infatti essa afferma:
«Di fatto, fin dai tempi apostolici, la riunione domenicale è stata per i
cristiani un momento di condivisione fraterna nei confronti dei più poveri.
“Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è
riuscito di risparmiare” (1 Cor 16,2). Qui si tratta della colletta organizzata
da Paolo per le Chiese povere della Giudea: nell’Eucaristia domenicale il cuore
credente si allarga alle dimensioni della Chiesa. Ma occorre cogliere in
profondità l’invito dell’Apostolo, che lungi dal promuovere un’angusta
mentalità dell’“obolo”, fa piuttosto appello a una esigente cultura della
condivisione, attuata sia tra i membri stessi della comunità che in rapporto
all’intera società. Sono più che mai da riascoltare i severi moniti che egli
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 36

rivolge alla comunità di Corinto, colpevole di aver umiliato i poveri nell’agape


fraterna che accompagnava la “cena del Signore”: “Quando dunque vi
radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore.
Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e
così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare
e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e far vergognare
chi non ha niente?” (1 Cor 11,20-22). Altrettanto vigorosa è la parola di
Giacomo: « Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un
anello d’oro al dito, vestito splendidamente, e entri anche un povero con un
vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite:
“Tu siediti qui comodamente” e al povero dite: “Tu mettiti in piedi lì”, oppure
“Siediti qui ai piedi del mio sgabello”, non fate in voi stessi preferenze e non
siate giudici dai giudizi perversi? » (2,2-4)».
Dunque, l’Enciclica interpreta questo testo nel senso di un’Assemblea della comunità
cristiana, il giorno di domenica che acquista anche la dimensione di giorno della
solidarietà.
Il secondo testo della Scrittura, At 20,7-12 è quello più importante, dal momento che è
il più esplicito. Qui parla l’autore degli Atti degli Apostoli, in prima persona: si tratta,
dunque, di un testimone oculare. Questo passaggio è importante è degno di attenzione:
siamo negli anni 57-58 dell’era cristiana. Paolo si trova in una comunità che aveva fondato,
cioè Troade. Si tratta, per caso, del primo giorno della settimana, quando tutti sono riuniti
per spezzare il pane. L’espressione “spezzare il pane”, non solo negli Atti, ma anche in
San Paolo, indica la celebrazione eucaristica. Il riferimento del testo, di questa riunione ad
un piano superiore, molto illuminato, ricorda anche il passo di Mc 14, quando Gesù ordina
di preparare la Pasqua nel piano bene illuminato.
Tutto questo fa pensare che non si tratti di un’assemblea casuale, ma che questa
comunità si raduna abitualmente il primo giorno della settimana perché la comunità non si
raduna per congedare Paolo, ma – al contrario – essa si raduna con Paolo che presiede alla
stessa assemblea. Quindi, la partenza di Paolo non costituisce l’occasione di questa
celebrazione. Ora, il problema, tra altri quesiti su questo testo, riguarda il tempo della
riunione, nel senso che occorre sapere se questa assemblea della comunità di Troade ha
avuto luogo la sera del sabato o alla sera della domenica. E’ una questione non ancora
risolta, perché non si sa se Luca usa un computo ebraico oppure un computo ellenistico,
romano o greco-romano. In effetti, per il computo ellenistico, il giorno andava dall’alba
all’alba. Dunque, se si sono riuniti, ciò sarebbe avvenuto alla sera della domenica, come
primo giorno della settimana; diversamente se Luca usa il compito giudaico, la comunità si
sarebbe riunita la sera del sabato, quando inizia il primo giorno della settimana. Su questo
argomento i diversi autori assumono una posizione diversa.
In ogni caso, si pensa che Luca abbia usato il computo giudaico, tanto da porre la
celebrazione la sera del sabato. L’opinione di alcuni, secondo i quali la riunione avrebbe
luogo di sera della domenica, farebbe pensare ad un’ipotesi suggestiva, perché si
tratterebbe del primo caso di messe vespertine che oggi sono molto comuni. In realtà,
almeno prima del Concilio di Trento fino al pontificato di Pio XII, le messe non si
celebravano nel pomeriggio. Nel Diritto Canonico del 1917 l’ultima ora per celebrare
l’Eucaristia era sempre Mezzogiorno. In ogni caso, il testo di Luca parla di una comunità
che si raduna periodicamente.
Il terzo testo segnalato (Ap 1,9-10), risale alla fine del I secolo, in Asia Minore.
Giovanni è il primo autore ad usare l’espressione “domenica”. In greco corrisponde ai
termini “Kyriakē hēméra”, corrispondente all’espressione latina “Dies Dominica”.
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Dunque, Kyriakē è un aggettivo. Non è il giorno del Signore. Si tratta, comunque, della
prima ed unica volta in cui viene fuori nel NT questa espressione.
Ora, questa espressione ci chiama all’attenzione perché diventerà ormai, in questo
stesso tempo si colloca la data della Didaché, questo piccolo scritto, post-neotestamentario,
in cui già troviamo la Domenica come “giorno del Signore”. Ora, il problema è che il
contesto non parla né di assemblea liturgica, né di Eucaristia, ma di una visione nel giorno
del Signore. Questo testo che importanza ha per il nostro contesto? Per dare una risposta a
questo quesito e meglio comprendere il problema, è bene indicare alcune questioni:
a) questa locuzione, “giorno del Signore”, si avvicina ad un’espressione
di San Paolo, che si ritrova più volte negli Atti, cioè “Cena del
Signore”. San Paolo chiama Gesù “Signore”, solo dopo la risurrezione.
Quando è compiuto il disegno di Dio, Gesù è pienamente Signore e
redentore del Creato, per cui la “Cena del Signore” e “Giorno del
Signore” pare che manifestino una certa sintonia;
b) cosa si intende per “Giorno del Signore”? Il contesto dell’Apocalisse
non offre, al riguardo, un accenno chiarificatore. Alcuni si rivolgono alla
Didaché, la quale dice più o meno così, in merito alla Domenica: “Riuniti
nel giorno del Signore, spezzate il pane e rendete grazie”. Tale
espressione, in effetti, sembra che si rivolga alla celebrazione
dell’Eucaristia domenicale. Bisogna, però, tener presente che, sia nell’AT
che nel NT, il giorno del Signore, ovvero il “giorno di Jahvé” (al genitivo
nominale) è una locuzione per indicare il giorno definitivo escatologico.
Ciò richiama all’intervento definitivo di Dio nei tempi escatologici.
Nell’AT si può pensare naturalmente al fatto che questi tempi
escatologici inizino con il Messia, cioè con Cristo.
Si può dire che nell’ambiguità, questa espressione applicata alla domenica proclama, da
una parte, la Pasqua di Cristo, mentre, dall’altra, richiama al Cristo come colui con il quale
cominciano i tempi escatologici. Questa ambiguità rimanda alla questione dell’Enciclica
Dies Domini che ha la seguente struttura:
INTRODUZIONE
CAPITOLO I – Dies Domini: La celebrazione dell’opera del Creatore.
CAPITOLO II – Dies Christi: Il giorno del Signore risorto e del dono dello Spirito.
CAPITOLO III – Dies Ecclesiae: L’assemblea eucaristica cuore della domenica.
CAPITOLO IV – Dies Hominis: La domenica giorno di gioia, riposo e solidarietà.
CAPITOLO V – Dies Dierum: La domenica festa primordiale, rivelatrice del senso
del tempo.
Con la critica mossa a questa enciclica in merito all’espressione “Dies Domini”, questo
schema non regge più dal momento che è più giusto dire “Dies domenica”, che esprime un
certo senso cristiano. Dunque, “Dies Domenica” non vuol dire giorno escatologico, ma
giorno del Signore. Questa critica è stata unanime, dal momento che si tratta di una
questione tecnica. Il problema è stato risolto così: la prima nota dell’enciclica, rimanda ad
Ap 1,10 ed anche alla Didaché 14,1 e S. Ignazio di Antiochia, Ai cristiani di Magnesia 9,
1-3. C’è anche un riferimento a SC 10. In sostanza, si dice “Dies domini”, ma in realtà si
vuol dire “Dies domenica”.
Ritornando al testo di Ap 1,9-10, pare che l’espressione “Kyriakē hēméra” non si trovi
in un contesto cultuale. Pare che non si tratti dell’Eucaristia. La stessa Apocalisse esprime
una visione del regno futuro e della gloria futura. E’ descritta da Giovanni con la
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 38

terminologia “Liturgia celeste”, che si anticipa già nel presente nella celebrazione della
liturgia terrena.
Giovanni, in questo giorno dedicato all’Eucaristia, in cui si anticipa il banchetto
celeste, egli vede in prospettiva la Liturgia celeste.
Questi tre testi del NT illustrati, vengono presi dagli stessi Padri della Chiesa. Oltre a
questi tre testi, che in modo abbastanza chiaro affermano che già ai tempi apostolici la
comunità cristiana si radunava in Assemblea per celebrare l’Eucaristia nel primo giorno
dopo la settimana, che già nell’Apocalisse si chiama “giorno del Signore”, per capire
l’origine della domenica è importante ricordare quei testi neotestamentari che parlano delle
apparizioni del Signore il primo giorno dopo il Sabato. Tutte le apparizioni di Gesù sono
collocate il primo giorno della settimana o il primo giorno dopo il sabato.
Anche Giovanni, oltre Matteo, Marco e Luca, narra che, il primo giorno dopo il sabato,
le pie donne si recano al sepolcro di buon mattino, mentre la sera di quello stesso giorno
Gesù appare agli Apostoli. Il Maestro riapparirà otto giorno dopo, nuovamente il primo
giorno dopo il sabato, quando era presente anche San Tommaso. Segue, poi, la sua
apparizione ai discepoli di Emmaus, nello stesso giorno della risurrezione. Più di una volta
Gesù appare durante l’ora dei pasti e mangia con i discepoli. San Pietro, successivamente,
quando parlerà dei testimoni della risurrezione di Cristo, affermerà che hanno mangiato e
bevuto con Gesù dopo la sua risurrezione dai morti (At 10,41).
Si nota pure che nell’episodio di Emmaus, la scena dello spezzare il pane, ricorda – in
qualche modo – il momento culminante dell’apparizione, quando i discepoli riconoscono
in quel personaggio Cristo. Lo spezzare il pane rimanda direttamente al contesto
dell’Eucaristia. Si nota pure che Luca designa questo pasto con il risorto con lo stesso
nome che usa anche negli Atti degli Apostoli, cioè “frazione del pane”. Allora si può
affermare che la frazione del pane o l’Eucaristia è in qualche modo connessa ai pasti, presi
dai discepoli con Cristo risorto.
Su questo sfondo, i frequenti richiami al pasto eucaristico, suggeriscono questa realtà:
le comunità cristiane si radunano nel ricordo del Signore, apparso agli Apostoli. Dando uno
sguardo d’insieme a tutte queste testimonianze del Nuovo Testamento, si può affermare
che la domenica, come giorno dell’Assemblea cultuale, è documentata in modo chiaro
nelle comunità in Asia Minore e della Grecia, perché tutti i tre testi citati sono originari
dell’Asia Minore (il testo di Giovanni) e dell’area ellenistica (i testi di Paolo e di Luca). Si
tratta, quindi di comunità fondate da San Paolo e da San Giovanni. Secondo alcuni, però, si
può provare che la Comunità di Gerusalemme, osservava la stessa prassi di Assemblee
eucaristiche il primo giorno della settimana. Al riguardo non ci sono delle testimonianze
dirette, ma si sa dagli Atti degli Apostoli che i cristiani di Gerusalemme (v. At 2 e At 3) non
abbandonarono completamente il Tempio e la Sinagoga. Questi cristiani, consapevoli che
l’antico culto della legge era ormai stato compiuto in Cristo e dopo la preghiera nel
Tempio, si radunavano per la frazione del pane. Quindi, si possono considerare queste
riunioni nel primo giorno della settimana, anche se non è specificato il giorno. Da una
parte, il legame con il culto giudaico, e, dall’altra, la necessità di creare un nuovo culto,
spiega il perché i cristiani si radunano per celebrare il nuovo culto nella notte che va dal
sabato alla domenica. Ciò avveniva dopo il tramonto.
Concludendo questo primo approccio, in merito all’origine della domenica, si può
affermare che la domenica stessa, nasce dagli eventi pasquali, più probabilmente dalla
memoria dell’evento della risurrezione, almeno come causa principale, e non dalle
apparizioni del risorto. In riferimento a ciò, ci sono diverse opinioni: un testo citato in
Scientia Liturgica, scritto Da W. Rordorf, ha il seguente titolo: Il Sabato e la Domenica
nella Chiesa Antica. Questo libro è pubblicato nella Collana Traditio Christiana, al n° 2,
che si trova in diverse lingue. Questa Collana la si trova in diverse lingue: essa raccoglie
tutte le testimonianze (testi), in modo sistematico, dell’origine cristiana e della Chiesa
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antica, secondo singoli temi. Nel nostro ambito ci sono tutti i testi che, dall’Antico
Testamento sino a Gregorio Magno (604), parlano della domenica. Essi sono ordinati
cronologicamente e sono disposti in bilingue (latino o greco ed italiano), accompagnati da
delle note esplicative. Lo stesso si può dire della Pasqua, sino al VII-VIII secolo.
Ritornando all’argomento, ci sono diverse opinioni: alcuni sostengono sia evidente, con
il Nuovo Testamento, che i cristiani cominciarono a celebrare l’Eucaristia nel giorno di
Domenica, ricordando l’evento della Risurrezione di Cristo: essi la facevano nella sera che
va dal sabato alla domenica. Altri negano che sia l’evento della risurrezione a produrre la
celebrazione domenicale. Infatti, solo nel secolo II si trovano collegamenti espliciti, in cui
si afferma che l’Eucaristia domenicale è in memoria dell’evento della Pasqua di Cristo. Ad
esempio, un autore tedesco, riguardo a questo problema è intervenuto con una proposta che
suona così:
«La celebrazione cristiana della domenica sarebbe stata introdotta non per
motivi cristologici, cioè memoria della risurrezione di Gesù, ma
semplicemente per motivi di carattere puramente pratico. I cristiani si
sarebbero radunati la sera del sabato dopo aver partecipato di giorno al culto
divino del tempio e nella Sinagoga. La sera del sabato sarebbe stata il
momento più opportuno per il culto cristiano. Secondo il modo giudaico di
calcolare il tempo…la sera del sabato avrebbe fatto già parte del primo giorno
della settimana, la domenica. Solo più tardi si pone l’accento sul ricordo della
risurrezione di Gesù».
In effetti, questo autore ha ragione nel fatto che solo più tardi, ed in modo esplicito, si
trova un collegamento tra la spiegazione del perché si raduna la Comunità nel giorno di
Domenica e la risurrezione di Gesù. Tutto questo fa vedere che il “Dies Domenica”
ricorda il Kyrios, il Risorto, anche se nel primo secolo non si trova alcuna affermazione
specifica che vada in questa direzione. E’ probabile che questo aspetto fosse
inconsapevolmente già presente proprio nel primo secolo.
Arrivati a questo punto, si può affermare che la domenica è il giorno in cui
l’Assemblea cristiana si raduna: è un giorno per l’ascolto della parola, per la celebrazione
dell’Eucaristia e per la comunione dei beni tra i fratelli (agape fraterna). La domenica,
però, esprime soprattutto il senso della festa cristiana, come celebrazione comunitaria del
memoriale sacramentale degli eventi della Pasqua di Cristo. Il riferimento alla risurrezione
del Signore non è solo rivolto al fatto storico, cioè non è solo commemorativo, ma è
esperienza continuativa dell’oggi della celebrazione sacramentale. E’ quello che si chiama,
in modo tecnico, memoriale e che si trova al centro della stessa celebrazione eucaristica.
Dunque, la domenica – nella celebrazione sacramentale – realizza pienamente l’incontro
della Chiesa con il Signore glorificato. Nello stesso tempo essa è rivolta al futuro: se si
guarda al dies domini veterotestamentarie esso annuncia ed anticipa il ritorno glorioso del
Risorto, quando verrà. Da quanto si è detto si possono dire, in sintesi, i seguenti elementi:
1. Memoria della Pasqua;
2. orientamento escatologico, verso il compimento della salvezza;
3. giorno dell’Assemblea;
4. giorno della condivisione.
Tutto quello che è stato detto fino ad ora fa emergere un problema: che rapporto c’è tra
il Sabato giudaico e la Domenica cristiana? Al riguardo c’è un testo, citato anche in
Scientia Liturgica, di Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose. Il titolo
di questo libro è il seguente: Giorno del Signore, giorno dell’uomo, per un rinnovamento
della domenica, Editrice Piemme 1994. Questo autore ha una spiritualità molto ebraica,
tanto che ha rivalutato molti elementi veterotestamentari. All’inizio del suo testo ricorda
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 40

che sia gli Ebrei, sia i Musulmani, sia i Cristiani, hanno in comune una scadenza
settimanale con una festa settimanale, anche se in giorni diversi, nel senso che il
Musulmani osservano il Venerdì, mentre gli Ebrei ed i cristiani osservano rispettivamente il
Sabato e la Domenica. Le tre grandi religioni monoteistiche hanno, dunque, un giorno che
fa riferimento alla settimana biblica della creazione. In questo modo c’è un riferimento a
Dio e all’uomo: ad esempio, il Venerdì musulmano è il giorno in cui Dio ha creato l’uomo.
Ciò richiama al Dio Onnipotente, che agisce prima e senza l’uomo e che mostra la sua
incondizionata ed assoluta signoria sul mondo e sull’uomo che nei suoi confronti è il
sottomesso. Per il Musulmano, Dio è inaccessibile per l’uomo stesso. Invece, il Sabato
ebraico è il giorno del riposo di Dio: esso ricorda che il mondo è stato affidato all’uomo.
Se i cieli sono i cieli de Signore, la terra è stata data agli uomini. Una precisa responsabilità
nei confronti dell’umanità è affidata da Dio al suo partner, cioè a Israele nella storia.
L’uomo è come colui che crea la storia. Per i cristiani, la Domenica è l’ottavo giorno, ma
soprattutto è il giorno della risurrezione di Cristo: esso è memoria sia della creazione, sia
della ricreazione dell’uomo in Cristo, ponendo il compimento totale della creazione.
Dunque, la visione di Dio e della storia si proietta in un già e non ancora, cioè in una
memoria della salvezza già avvenuta in Cristo, ma che attende ancora il compiersi
definitivo. In alcune realizzazioni ecumeniche si cerca di vivere le tre festività in armonia,
recuperando il valore del Venerdì, del Sabato e della Domenica.
Ora, possiamo vedere in modo più organizzato il rapporto tra il Sabato e la Domenica.
L’enciclica Dies Domini rivaluta il sabato in modo particolare, soprattutto nel capitolo
dedicato al riposo, cioè il capitolo IV. Al riguardo, soprattutto in area luterana, c’è la
tendenza di recuperare il senso mistico del riposo, la sera del sabato, come segno di
fraternità con gli Ebrei ed arrivare a concludere con la celebrazione della Domenica
cristiana. In questo senso, c’è il desiderio di recuperare le due dimensioni, quella ebraica e
quella cristiana, ma non secondo la casistica di persone fanatiche da parte ebrea o cristiana.
Detto questo ci si domanda: che senso ha nell’AT il Sabato? Qual è il rapporto tra il
sabato e la domenica, in base ad alcuni testi del NT? Per l’AT il sabato non è un giorno
tabù, perché non trova fondamento in fattori astrologici, né semplicemente naturali, ma
basa la sua rilevanza sul fatto di essere il giorno santificato dalla sua relazione con il Dio
dell’Alleanza. Il sabato stesso è elemento costitutivo della Nuova Alleanza, nel senso che
progressivamente l’osservanza del sabato diventa una vera e propria decima del suo tempo,
cioè un tributo che bisogna pagare al Signore. Si tratta del tempo che si dà al Signore. Ciò
parte dalla fede di Israele in Jahvè. Il sabato, dunque, diviene una confessione di fede in
Jahvè, quale unico Signore del tempo, della vita e della storia. Ciò comporta l’accettare la
sovranità di Dio sulla storia: l’Ebreo rinuncia alla propria persona e alla propria autonomia
per affermare la signoria di Jahvè su di sé e per rigettare tutti gli altri idoli.
L’antichità e la straordinaria importanza del precetto sabbatico emergono già dalla
elementare constatazione che esso si trova in tutte le parti legislative del Pentateuco.
Naturalmente, il concetto e la spiritualità del sabato hanno una storia che si può vedere
attraverso i libri dell’AT.
Come è già stato detto più volte, nell’AT la settimana è caratterizzata da un ritmo di sei
giorni feriali, più uno festivo (il sabato), come ultimo giorno, al contrario della domenica
come primo giorno della settimana, secondo i cristiani. Ora, il giorno di sabato affonda le
sue radici nei due atti per eccellenza con cui Dio si rivela:
1. la Creazione;
2. la Redenzione e la liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto;
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 41

Nel libro della Genesi 2,1-315 si conclude il racconto sacerdotale della creazione,
menzionando il sabato come settimo giorno che completa, porta a pienezza e finalizza i sei
giorni del lavoro della Creazione. Il settimo giorno è caratterizzato soprattutto da un
momento di astensione dal lavoro. Questa visione negativa del sabato è controbilanciata
dal gesto positivo con cui Dio benedice il settimo giorno. Ora, nel racconto dei primi due
capitoli della Genesi troviamo tre benedizioni di Dio:
1. benedizione degli animali (Gen 1,22);
2. benedizione dell’uomo (Gen 1,28);
3. benedizione del sabato (Gen 2,3).
Se il sabato è giorno santificato che si distingue dagli altri, lo è anche perché è il giorno
senza sera e senza tramonto. Infatti, nella Genesi, per ogni giorno creato segue l’espressio-
ne: “e fu sera e fu mattino, primo… secondo… terzo…” ecc. Quando si arriva al sabato
tale formula non viene ripetuta: ciò indica il giorno che, secondo la profezia di Zaccaria
14,7, sarà proprio senza notte e senza giorno. Qui si nota anche una dimensione di riposo
escatologico e definitivo, secondo il pensiero ebraico. Questo fa comprendere il rapporto
del sabato con il Dio creatore, con il Dio salvatore. La sostanza storica della fede di Israele
ha percepito e formulato l’idea del sabato non solo in rapporto al racconto della creazione,
ma anche in rapporto all’evento della liberazione dall’Egitto (v. Dt 5,12-15)16.
Nel nostro contesto, di quanto è stato appena detto, interessano due cose: qual è
l’atteggiamento dei primi cristiani nei confronti del sabato ebraico e qual è il rapporto tra il
sabato e la domenica? La polemica sul sabato risale probabilmente al tempo stesso di
Cristo, perché troviamo, nella vita di Gesù, degli episodi in cui il sabato è punto di frizione,
quando Gesù stesso guarisce nel giorno di sabato, oppure viene accusato di non osservarlo.
Probabilmente, questi episodi riflettono una situazione storica precisa in cui Gesù è venuto
a trovarsi nell’ambiente giudaico, anche se conserva le tracce di una polemica che si è
trascinata anche dopo. Allora, gli autori del NT, quando narrano la vita di Gesù, in queste
polemiche tra il Maestro ed i capi della Sinagoga, collocano anche delle problematiche che
erano ancora discusse, dopo la risurrezione di Gesù, nelle prime comunità apostoliche.
L’atteggiamento di Gesù che si dichiara Signore del Sabato e lo pone, poi al servizio
dell’uomo, si rivela come un elemento chiarificatore della sua missione messianica. E’
anche vero, però, che Gesù non ha mai dichiarato di voler abolire il sabato.
Più ancora, si dovrebbe applicare al sabato ciò che Gesù stesso dice riguardo ai precetti
dell’Antica Legge, in generale, quando dice che non è venuto ad abolire la Legge, ma a
perfezionarla e portarla a compimento. Apparentemente, i primi cristiani che vengono dal
Giudaismo non si pongono alcun problema, nel senso che essi continuano ad osservare la
Legge di Israele, frequentando il Tempio e la Sinagoga. La domenica nasce come giorno di
culto e non come giorno di riposo, rispetto al sabato che conserva il contenuto del riposo e
l’aggancio con la legge veterotestamentarie. Tuttavia, bisogna pensare che il modo di agire
di Gesù non poteva lasciare indifferenti i primi cristiani, provenienti dal giudaismo. In
questo senso nascerà qualche problematica. Invece, per le comunità cristiane non

15
Il testo così recita: «Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio,
nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro.
Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando
aveva fatto».
16
Il testo così recita: «Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha
comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo
Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo
bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo
schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il
Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti
ordina di osservare il giorno di sabato».
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giudaiche, non è previsto l’obbligo di osservare la legge giudaica. Ciò emerge soprattutto
dal chiarimento del primo Concilio di Gerusalemme. Per i cristiani, provenienti
dall’ambiente ellenistico, invece, ci sarà una rottura violenta per quanto riguarda la Legge
di Israele e con la tradizione del sabato.

18.03.2002 – 6a Lezione.

Conclusione della Prima Parte del Corso


Alcune sintesi conclusive sulla Domenica come “giorno del
Signore”.
Signore”.

Nella lezione precedente è stato illustrato il significato di tre testi che nel Nuovo
Testamento testimoniano, in qualche modo, la domenica, come festa cultuale cristiana, sin
dai tempi apostolici. Certamente si è chiesti quale fosse il rapporto che i primi cristiani
hanno avuto con il sabato. Questo giorno era per gli Ebrei importante, tanto che nella
stessa tradizione ebraica, gradualmente, aveva acquisito un contenuto dottrinale e spirituale
rilevante, in rapporto sia con il Dio Creatore (la Creazione), sia con il Dio Liberatore
(liberazione dall’Egitto).
Ora, l’atteggiamento dei cristiani verso il sabato e la domenica è testimoniato dai
Sinottici, dove – più volte – Gesù appare in un rapporto polemico con il sabato. Mai Gesù
ha abolito il sabato, anche se ha avuto una certa libertà di rapporto, secondo la mentalità
del tempo. Apparentemente, pur osservando il sabato, il Maestro indica una strada che lo
supera, andando oltre la visione ebraica. I primi cristiani, allora, apparentemente non si
posero il problema del sabato, tanto che quelli provenienti dal mondo giudaico hanno
continuato a frequentare la Sinagoga ed il Tempio, osservando la Legge mosaica. Non
pensarono di trasferire alla Domenica gli elementi caratteristici del Sabato. D’altra parte,
non potevano pensare di realizzare una simile operazione. Tuttavia, il modo di agire di
Gesù, raccontato dai Sinottici, rispetto alla Legge e al Sabato, pone delle domande ai primi
cristiani. In questo modo, si nota – da una parte – San Paolo e – dall’altra – il gruppo degli
ellenisti, guidati da Santo Stefano, che arriveranno alla rottura con la legge sabbatica.
Con il Concilio di Gerusalemme, descritto da At 15, viene definitivamente sanzionata
la libertà dei cristiani nei confronti della Legge, anche se in questo concilio non si parla in
modo esplicito del sabato. Al riguardo, il testo di At va interpretato alla luce delle norme
giudaiche, eccetto quanto viene detto in concreto. Dunque, bisogna anche affermare che,
nei primi quattro secoli, i cristiani elaborarono una teologia del sabato in chiave cristiana,
che rappresenta, in qualche modo, l’assunzione di idee giudaiche con trasposizione di
motivi in ambiente cristiano.
In concreto, nell’analisi dei testi che riguardano il precetto sabbatico, questi primi
cristiani furono guidati da una triplice serie di considerazioni che, fondamentalmente,
convergono tra loro, nella tendenza a privare il precetto sabbatico da ogni valore letterale,
dandogli, invece, un senso allegorico, teologico e spirituale. In questa prospettiva, quindi,
il sabato è visto come tempo futuro di salvezza, come astensione dal male ed esercizio di
opere buone e come somma di ogni bene in Cristo, raggiunta con la salvezza eterna. Allora,
il Cristo è presentato come il vero sabato. In questo modo, i cristiani dei primi tre secoli
operarono una spiritualizzazione del sabato giustificando ormai la definitiva messa in
disparte dell’osservanza giudaica. Malgrado ciò, però, almeno fino al IV secolo, ci fu una
specie di rivalutazione del sabato. A tale riguardo ci sono stati alcuni autori dal II al IV
secolo, come ad esempio Ignazio di Antiochia, che parla di alcuni cristiani osservanti delle
pratiche giudaiche, pur credendo in Cristo. Nello stesso periodo, San Giustino nel suo
Dialogo con Trifone, fa comprendere che in quel tempo vi erano alcuni che osservavano
ancora il sabato giudaico. Un secolo più tardi, nel Nord Africa (Africa Romana),
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 43

Tertulliano parla di un gruppo di cristiani che non si inginocchiavano il sabato allo scopo
di osservarlo, come testimonia nel suo trattato sulla preghiera. Sempre nel secolo III c’è la
Traditio Apostolica che, nella versione etiopica, parla di una celebrazione eucaristica che si
fa solo il giorno di sabato, oltre quella di domenica. Finalmente nel secolo IV, nel capitolo
VII delle Costituzioni Apostoliche (ci troviamo più o meno alla fine del sec. IV), compilate
in Siria, si trova accanto alla celebrazione della domenica una sottolineatura cultuale del
sabato. Dunque, fino alla pace costantiniana, il sabato non è solo stato spiritualizzato, ma
esso stesso è stato venerato culturalmente, anche se con alti e bassi. Solo con il V secolo,
scomparirà il culto del sabato.
Senza entrare in altri dettagli, si può concludere dicendo che le motivazioni, che si
trovano alla base del sabato giudaico, e quelle, che si trovano alla base della domenica
cristiana, sono diverse tra loro. Infatti, Il sabato era il giorno santificato in memoria
dell’opera della creazione e della liberazione dalla schiavitù dall’Egitto, mentre la
domenica, già dall’inizio, appare come il giorno in cui la comunità cristiana si raduna in
assemblea per celebrare la memoria del Signore risolto, nell’ascolto della Parola e nella
frazione del pane. Non è la domenica, in quanto tale, che dà la pienezza al sabato, ma è lo
stesso Cristo che dà tale pienezza, in una dimensione escatologica. Allora, la domenica non
nasce come una specie di sabato cristiano anche se, come si vedrà, alcuni elementi del
sabato giudaico entreranno formalmente a far parte della domenica cristiana. La stessa
enciclica Dies Domini di Giovanni Paolo II segue questa stessa linea.
Certamente, nascerà – più tardi – la necessità di dare un fondamento teologico e
spirituale al riposo della domenica, istituito dall’Imperatore. Detto questo e prima di
cercare di tracciare una teologia della domenica, così come si presenta nei primi quattro o
cinque secoli, si deve dire che dopo i testi neotestamentari, che abbiamo più volte
ricordato, la domenica stessa appare incentrata attorno all’assemblea eucaristica. Al
riguardo ci sono numerose testimonianze post-bibliche. Oltre al testo di Giustino – la sua
Apologia all’Imperatore – c’è un testo molto famoso, cioè una testimonianza fatta dal
governatore della Bitinia, Plinio il Giovane, che invia all’Imperatore stesso un rapporto sui
cristiani. Naturalmente lui interpreta, a modo suo, quello che fanno i cristiani, affermando
che i cristiani stessi, in un giorno stabilito (stato die), prima dell’alba (si tratta,
probabilmente, di un assemblea notturna) «innalzavano un carme a Cristo come a un Dio e
si impegnano, mediante un giuramento (sacramentum), contro il furto il latrocinio,
l’adulterio ed il rinnegamento del pegno depositato». Questo testo viene riferito alla
celebrazione eucaristica domenicale. Quando Plinio parla dei cristiani che prestano un
giuramento sul quale fondare un patto, spiega l’Eucaristia secondo questa visuale: c’è una
lettura romana dell’assemblea eucaristica, intesa come assemblea cultuale che ha, come
punto centrale, un sacrificio che fonda un’alleanza ed un impegno di vita. Nello stesso
secolo, ci sarà l’interpretazione di San Giustino, con la quale si nota una differenza: essa
non coincide nell’orario con Plinio il Giovane. San Giustino dice, nella Prima Apologia,
che i cristiani si radunavano nelle prime ore dell’alba, e non prima dell’alba. Quindi,
probabilmente, dal momento che erano proibite le riunioni notturne, i cristiani – già al
tempo di Giustino – hanno iniziato a celebrare l’Eucaristia al mattino dello stesso giorno di
domenica. In questo modo, appare chiaro il centro della celebrazione domenicale, cioè la
costante dell’Assemblea eucaristica, quale soggetto principale della celebrazione stessa.
Nel secolo IV si trova un altro elemento centrale riguardante la domenica: viene a
consolidarsi la preghiera della comunità cristiana. Al riguardo, c’è una significativa
testimonianza di un documento del 381 ca. Si tratta dell’itinerario di Egeria: esso è una
specie di resoconto di un viaggio che una certa Egeria compie alla fine del IV secolo. Ora,
a noi interessa la descrizione che essa fa della Liturgia a Gerusalemme. Infatti, essa nota
che in tutte le domeniche c’è una veglia notturna, in cui la comunità stessa celebra, tutte le
domeniche dell’Anno Liturgico, l’«Ufficio della risurrezione». Questa espressione non l’ha
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data Egeria, ma uno studioso Gesuita, Padre Matteos. Il punto centrale di questa veglia
rimane, appunto, la risurrezione di Cristo. A questo punto, Egeria dice che il vescovo, in
persona, proclama, dinanzi al sepolcro, il Vangelo della Risurrezione. Questo elemento
nuovo, che sarà tipicamente domenicale, dal momento che prima le veglie comunitarie
erano originarie del mondo monastico e non avevano come elemento centrale la
risurrezione stessa, spiega ancora meglio l’origine della domenica, perché quest’ultima
risulterà come Memoriale della Memoria dell’evento della risurrezione di Cristo. Piano
piano, tale evento diverrà il punto culminante di tutta la storia della salvezza. La domenica,
un po’ come la Pasqua, celebra tutto il disegno di Dio che si compie nel Cristo pasquale.
Andando avanti, possiamo far presente qualche altra notizia, secondo la quale sono
evidenti due nuovi elementi:
1. il riposo domenicale;
2. il precetto della cosiddetta Messa domenicale.
Come è stato detto prima, i primi cristiani non si posero il problema del riposo
domenicale, perché erano una minoranza, tanto da adeguarsi ai ritmi del lavoro e del riposo
del posto in cui vivevano. Si trova però, prima della pace costantiniana, un qualche cenno
del riposo domenicale, attraverso la testimonianza di Tertulliano sul trattato relativo alla
preghiera. Ci troviamo intorno all’inizio del secolo III. L’autore parla della convenienza di
sospendere gli affari nel giorno proprio della domenica, cioè nel giorno del Signore, per
dare spazio al culto divino. In questo modo, non si parla ancora in modo esplicito del
riposo domenicale. Ora, gli inizi veri e propri del riposo domenicale si trovano in una legge
dell’Imperatore Costantino, circa dopo otto anni dalla firma della pace con la Chiesa. Si
tratta di un testo del 321 in cui lo stesso Imperatore, che rivolgendosi al Prefetto di Roma,
Elpivio afferma:
«Tutti i giudici e le popolazioni urbane e tutti coloro che esercitano
mestieri nel giorno del sole (usa la terminologia comune del tempo), degno di
venerazione, facciano riposo. Tuttavia, le popolazioni agresti attendano
liberamente, e senza impedimento alcuno, all’agricoltura, perché capita spesso
che non ci sia giorno più adatto per affidare il frumento ai solchi e le vigne alle
fosse, in modo che non si perda così il favore di un’occasione momentanea,
concesso dalla Provvidenza Celeste».
Più tardi, lo stesso Costantino emanò altri decreti, puntualizzando che nel giorno della
domenica era possibile fare delle cose buone, come ad esempio, stabilire un giudizio per
liberare uno schiavo.
Il famoso storico della Chiesa, Eusebio di Cesarea, nella Vita Costantini, dedica un
commenta a questi decreti, nel Libro IV, 18-20. Ciò dimostra la fondatezza di questa
notizia storica: l’Imperatore sarebbe stato il primo a stabilire un giorno di riposo, cioè la
domenica. E’ bene, comunque, far presente che l’Imperatore stesso non fa riferimento
diretto al giorno domenicale, cioè al cristianesimo. Costantino parla del giorno del sole. Al
riguardo ci sono alcune interpretazioni su questo modo di procedere. Dal momento che da
poco è stata fatta la pace con la Chiesa ed ancora molti veneravano il culto al Dio Sole (v.
concetto di Sole Invitto), soprattutto nella parte di Campo Marzio, alcuni pensano che
Costantino abbia voluto conciliare il giorno dei cristiani con il giorno del sole venerato dai
pagani. A questo punto ci si chiede: come la Chiesa ha interpretato ed accolto questa nuova
legge imperiale? Ciò non vuol dire che i cristiani fossero contrari a questa norma civile,
anche se qualche autore, non esclude che siano state alcune gerarchie cristiane ad ispirare
l’Imperatore. Alcuni, invece, considerano questo decreto secondo una visione deteriore
della domenica, nel senso di “paganizzazione”. Tra tutte queste diverse opinioni quella che
prevale di più, riguarda proprio l’idea secondo cui Costantino abbia voluto favorire sia i
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cristiani, sia i pagani, in modo che il culto domenicale si potesse svolgere con serenità. In
questo modo, l’Imperatore venne incontro alle diverse necessità cultuali, facendo
incrementare le conversioni, nell’ambito delle grandi città. Anche il riposo diventerà più
propriamente elemento connaturale della festa, insieme alla gioia.
Al principio, i Padri della Chiesa non commentarono questo decreto, ma – in seguito –
nella necessità di creare una specie di piattaforma teologica, nella quale collocare questo
riposo domenicale, hanno applicato alla domenica la spiritualità del sabato giudaico, anche
se in parte, insieme alla spiritualità che era maturata nei primi tempi del cristianesimo. Così
si può notare che se, da una parte, c’è una legge civile che stabilisce il riposo, dall’altra, ci
sarà una giustificazione spirituale secondo specifici elementi del sabato giudaico. A tale
riguardo, è curioso che i Padri dei secoli IV e V ed i Concili locali, accennano appena al
riposo domenicale, mentre dal secolo VI in poi ci saranno diversi sinodi locali che ne
parleranno soprattutto nell’ambito della Chiesa delle Gallie. Una testimonianza la si ha
proprio da Cesario di Arles che invita, addirittura i proprietari delle terre ad usare la verga
contro chi non avrà osservato il riposo domenicale. Questo dimostra che, a partire da
questo periodo, il riposo nel giorno del Signore è un fatto ormai consolidato nella
tradizione della Chiesa.
Al principio del Medioevo, a partire soprattutto dal tempo Carolingio in poi, iniziò una
casistica sul tipo di riposo distinguendo i lavori servili (lavori materiali) da quelli liberali
(lo studio, la musica, la lettura). Infatti, questa terminologia la troviamo sino a nostri tempi,
come si può notare nel Diritto Canonico del 1917. Questa visione attualmente è scomparsa.
Questa casistica si accentuò fino al punto di non avere più alcun collegamento con
l’Eucaristia e con il raduno della comunità. Si tratterà di una casistica tutta individuale,
tanto che il precetto cesserà di essere una realtà comunitaria e passerà ad essere
semplicemente un fatto individuale. A tale riguardo, non c’è contraddizione, almeno
apparentemente, tanto che, su questo argomento, rimane significativa la testimonianza
delle Costituzioni Apostoliche quando dice che tale osservanza ha lo scopo di «non togliere
al corpo di Cristo» qualche membro del Corpo medesimo. Chi non partecipa e come se il
Corpo di Cristo non fosse interamente partecipe. C’è qui una teologia, già presente nei
secoli precedenti.
Ora, questo accentuare sempre la dimensione personale, farà si che anche il Diritto
Canonico del 1917 ne parlerà, tanto che determinerà il precetto domenica. La novità del
Diritto attuale, la si trova nel canone 1247, dove si legge:
«Nel giorno della Domenica e negli altri giorni festivi di precetto, i fedeli
sono tenuti all’obbligo di partecipare alla Messa. Inoltre si astengano da quelle
opere e da quegli affari che impediscono il culto da rendere a Dio e turbano la
gioia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del corpo».
Il Diritto anteriore non parlava ancora dell’obbligo di partecipare alla messa
domenicale, ma parlava solo dell’obbligo di andare alla Messa. In realtà, l’espressione
“partecipare” dice qualcosa di più profondo rispetto all’espressione “andare”. In secondo
luogo, appaiono evidenti le tre motivazioni che si danno circa il riposo domenicale. Esse
sono:
1. rendere culto a Dio;
2. poter esprimere la gioia del Signore;
3. dare al corpo e alla mente quel necessario riposo di cui hanno bisogno.
In questo modo si ritorna alle motivazioni profonde che danno senso alla festa e al
culto, secondo anche la stessa testimonianza di Tertulliano. Su tale linea, tra l’altro, si trova
il Catechismo della Chiesa Cattolica (v. i nn. 30, 1193, 1726, 2175, 2216).
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In merito all’altro elemento nuovo del precetto della Messa domenicale, sia nel NT, sia
nei primi testi post-apostolici, il fatto stesso di radunarsi in assemblea è un evento che si
afferma come tradizionale. Le stesse Costituzioni Apostoliche parlano della Chiesa
dicendo:
«Poiché siete membra di Cristo non disperdetevi dalla Chiesa, non
riunendovi, ma il giorno di Domenica, mettendo da parte ogni cosa,
affrettatevi alla Chiesa».
C’è qui una costante in questo modo di radunarsi dei cristiani in questo giorno del
Signore. Si afferma, quindi, il bisogno di riunirsi. In tale contesto sono importanti gli atti
del martirio di un gruppo di cristiani del Nord Africa, della Bitinia. Essi vengono ricordati
come martiri della domenica, che vengono citati anche dall’Enciclica Dies Domenica di
Giovanni Paolo II. Stando alle testimonianze, questi martiri vennero presentati al tribunale
romano, perché – contro le norme relative del IV secolo, prima della pace costantiniana, si
erano radunati per celebrare l’Eucaristia. Dinanzi al giudice essi affermano che non
possono vivere senza radunarsi per celebrare l’Eucaristia (dominicum = indica la
celebrazione eucaristica e la domenica; in altre parole si tratta della liturgia domenicale).
Una testimonianza importante in merito al precetto domenicale, oltre al tema del
radunarsi per celebrare l’Eucaristia, la si ha con il Concilio di Elvira che nell’anno 300-302
offrirà diversi elementi che poi ritroviamo tradizionali nella Chiesa. In questo concilio, per
la prima volta, si parlerà anche del celibato sacerdotale.
Sempre in questo concilio, si trova un testo un po’ difficile, ma che tutti interpretano
nel senso di un obbligo di partecipare all’Eucaristia. Si tratta proprio del canone 21 che
così afferma:
«Colui che si trova in città e durante tre domeniche non si reca in Chiesa
deve essere scomunicato per breve tempo, affinché sia ammonito».
Il testo non dice di più, ma appare importante quello che dice dal momento che pone
l’obbligo della Messa domenicale. Anche qui, come è avvenuto per il riposo domenicale, i
testi abbondano a partire dal VI secolo in poi. Ciò lo si nota soprattutto nei sinodi delle
Gallie, dove si parlerà spesso dell’obbligo di partecipare all’Eucaristia domenicale. In uno
dei sinodi, nei quali presiederà San Cesario di Arles, addirittura si precisa che alcuno può
abbandonare l’assemblea per la celebrazione dell’Eucaristia, prima del Pater Noster e
prima della benedizione.
Nel tempo carolingio, dal 300 in poi, in merito sempre all’obbligo del precetto
domenicale, la legislazione diverrà sempre più precisa, attraverso le leggi, dette capitolari,
le quali raccomandano la celebrazione domenicale in Chiese e non nelle Cappelle. Tutto
questo segna un passaggio che nel secondo millennio sarà più chiaro: da un’accentuazione
del dovere della comunità di radunarsi si passa ad un’accentuazione del dovere individuale
di andare all’assemblea domenicale. Così San Tommaso d’Aquino nel secolo XIII, fu il
primo a collegare il precetto del santificare le feste con il precetto di partecipare
all’Eucaristia domenicale. Soltanto più tardi, nel secolo XV venne ritenuto da un moralista
l’affermare il principio secondo cui compie un peccato mortale colui che non adempie al
precetto di partecipare alla liturgia domenicale. Tale affermazione, per la prima volta, la si
trova in una Summa Theologica del vescovo domenicano Antonio di Firenze, del XV
secolo. Questa tradizione si consoliderà sempre di più.
Soltanto a partire dal 1917, tale obbligo verrà introdotto come “obbligo universale”
dallo stesso Codice di Diritto Canonico.
Nel contesto del nostro corso, questo breve exursus, anche se non ci tocca direttamente,
è importante per capire come gradualmente viene a delinearsi l’obbligo del precetto
domenicale, a partire dall’antichità.
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Tentativi di costruzione della Teologia della Domenica.


Dopo aver detto tutto questo, cerchiamo di costruire una teologia della domenica. La
domenica ha una teologia che è legata ad un diverso tipo di domeniche durante l’anno: ad
esempio, si può parlare della teologia delle quattro domeniche di Avvento, come pure delle
domeniche del Tempo Ordinario e della Quaresima. Però, la domenica ha una sua
consistenza anteriore al formarsi del ciclo annuale, quando ancora non esisteva nemmeno
la Pasqua annuale. Quindi, in questo tempo (i primi tre-quattro secoli) i Padri della Chiesa
costruirono una teologia domenicale, partendo da una serie di nomi che la domenica stessa
ha ricevuto dalla Bibbia e dalla prima tradizione cristiana. Partiamo, dunque, da questo
nomi che sono:
1. la domenica, primo giorno;
2. la domenica, giorno del Signore;
3. la domenica, giorno ottavo;
4. la domenica, giorno della Trinità.
Se si guarda ad Anàmnesi, nel capitolo dedicato alla Domenica, Marcel Rooney cerca
di trovare una specie di teologia della domenica, guardando gli antichi lezionari, per vedere
che tipo di letture si usavano, nonché l’Eucologia e le preghiere fatte di domenica. Lui
stesso ammetterà che questo metodo non darà alcun frutto concreto, dal momento che è
differente dal mettere la domenica in relazione con i diversi cicli dell’Anno Liturgico. In
effetti, non si può fare una teologia della domenica in sé, senza la lettura che hanno fatto i
padri.
Guardando alla domenica, quale primo giorno dopo il sabato, ricorda il fatto che alla
domenica gli Ebrei davano proprio questo appellativo “primo giorno dopo il sabato”.
Infatti, leggendo il NT, si può notare che gli Apostoli non sentissero mai il bisogno di
cambiare il nome al giorno della risurrezione. Infatti, tutti i testi che sono stati citati,
eccetto l’Apocalisse di San Giovanni Apostolo, parlano della domenica con la terminologia
ebraica: “primo giorno dopo il sabato”, “secondo giorno dopo il sabato”, “terzo giorno
secondo il sabato”, ecc.
Ancora oggi, le comunità cristiane di lingua aramaica conservano questa nomenclatura
e parlano della domenica come primo giorno della settimana. Quindi, come primo giorno,
la domenica rimanda nei commenti dei Padri, da una parte, al racconto della creazione
della Genesi (l’inizio della Creazione: il primo giorno in cui Dio crea la luce), dall’altra, al
racconto evangelico di San Marco, nel quale si evoca la risurrezione di Cristo, avvenuta il
primo giorno dopo il sabato. Al riguardo, molto presto ci sarà un collegamento tra la
creazione della luce e la risurrezione di Gesù.
E’ stato Giustino, nella sua Prima Apologia, ad essere il primo autore cristiano a
collegare, in modo esplicito, l’inizio della creazione con la risurrezione. Infatti, lui dice che
i cristiani si adunano nel giorno del sole, perché il primo giorno in cui Dio, eliminando le
tenebre, plasmò il mondo e in cui Gesù Cristo, Salvatore, risorse dai morti. In seguito i
Padri interpreteranno la prima creazione come tipo o figura della seconda creazione, cioè
quella che nasce con Cristo risorto. Questa teologia la ritroviamo ancora oggi, in cui il
riferimento pasquale sottolinea questa nuova creazione.
La domenica diverrà, perciò, memoria di queste due creazioni, divenendo memoriale
della Pasqua che è vista al centro di un misterioso e grandioso disegno salvifico di Dio.
Essa diventa la celebrazione della sintesi di tutto il mistero redentore, perché la
risurrezione di Cristo diventa il momento culminante dell’agire salvifico di Dio. In questi
termini, attualmente, si parla di Storia della salvezza, secondo una visione unitaria.
Andando avanti, merita attenzione particolare il tema della luce. Nell’AT essa
prefigura, infatti, l’avvenimento messianico, mentre nel NT la luce si trova in riferimento
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 48

all’avvenimento salvifico in Cristo, alla sua persona e alla nuova condizione di coloro che
seguono il Maestro. Un esempio concreto è l’apparizione di Cristo risorto a Paolo in una
luce splendente, sulla via di Damasco.
Il primo atto creatore di Dio è stato quello di separare le tenebre dalla luce. Quindi, il
frutto della redenzione operata da Dio in Cristo è, invece, la nostra liberazione dal potere
delle tenebre ed il trasferimento nel Regno del suo Figlio diletto, come afferma lo stesso
San Paolo nella Lettera ai Colossesi.
Nei Padri dei secoli II, III e IV, viene ripreso questo simbolismo biblico della luce per
applicarlo al mistero cristologico celebrato nel giorno della domenica, come, ad esempio,
in Sant’Eusebio di Cesarea, Sant’Atanasio di Alessandria, San Girolamo (i Gentili
chiamano domenica giorno del sole). Questa tematica biblica sarà dunque interpretata
come tema domenicale. In questa visuale si accetta la terminologia pagana del giorno del
sole, perché Cristo risorto è sole di giustizia.
Nel secolo IV, poi, apparirà la festa del Natale contrapposta alla festa del Sole invitto.
Questo dimostra che, nel secolo IV, il tema del sole è abbondantemente cristologico.
Contrariamente a quanto insegna la cultura attuale dell’«week end», la Liturgia della
Chiesa considera, ancora oggi, la domenica come primo giorno della settimana. Quindi la
nomenclatura “primo giorno” si conserva ancora come un elemento cristiano.
Un altro nome, che in questo periodo appare nella tradizione dei Padri, ma che manifesta
una radice biblica, è il “giorno del Signore”, già in precedenza spiegato (in latino
corrisponde al dominica dies) che nelle lingue anglosassoni, al contrario di quelle latine,
conserva ancora la dizione “giorno del sole”. Questa sarà anche la denominazione che si
troverà nella tradizione orientale, eccetto nell’ambito della Liturgia bizantina, dove la
domenica è indicata dal termine greco “anastasimos”, che indica la domenica stessa come
“giorno della risurrezione”.
Tornando all’area di lingua latina, è bene evidenziare che dalla parola “dominica dies”
si passò presto a “dominicum” per indicare la Cena del Signore. Un riferimento parte dal
testo di Ap 1,9-10, in merito all’espressione greca “Kyriakē hēméra”, che si può collegarla
con l’espressione paolina “Cena del Signore” (“Kyriakē deipnon”), perché c’è un
collegamento tra la domenica e l’Eucaristia.
Questa espressione “giorno del Signore” rimanda, quindi, al Kirios, cioè al Risorto. I
Padri hanno commentato abbondantemente questo nome dato alla domenica. Ad esempio,
Sant’Ignazio di Antiochia, in una delle sue lettera afferma che «per le antiche cose sono
arrivati alla nuova speranza e non osservano più il sabato ma vivono secondo la domenica,
in cui è sorta la nostra vita per mezzo di lui, il Kirios e della sua morte». La domenica non
è semplicemente un’osservanza, ma uno modo di essere ed uno stile di vita che distingue i
cristiani da coloro, che vivendo secondo l’antica legge, attendono ancora il compimento
delle promesse. Per i cristiani, ormai, il Signore ha vinto la morte ed ha portato
definitivamente la vita. La domenica, mentre ricorda la Pasqua è anche il giorno della
Chiesa che la rivive nell’assemblea eucaristica. Nella celebrazione domenicale
dell’Eucaristia, la Chiesa prende coscienza di essere comunità convocata per la
celebrazione, nella quale – a sua volta – è edificata e costruita in unità, come Corpo di
Cristo.
Nei primi secoli della Chiesa, andare all’Assemblea significava costruire l’Ecclesia,
fare l’Ecclesia, al punto di stabilire l’identità tra la partecipazione all’assemblea e
l’appartenenza alla Chiesa. Una nota caratteristica, del giorno del Signore, è la gioia
festiva: a tale riguardo molti testi dei Padri parlano di questa caratteristica, come ad
esempio San Giovanni Crisostomo invita i suoi ascoltatori a non aver nostalgia delle feste
pagane, perché nella festa cristiana loro possono vivere pienamente la gioia. Ci sono, poi,
altri testi, sino al secolo V, che danno una testimonianza di questo genere.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 49

Il giorno del Signore è anche il giorno della riconciliazione: l’essere fedeli alla
raccomandazione del Signore di mettersi in pace con il fratello, prima di compiere l’offerta
all’altare, costituisce un esempio concreto e chiaro dello spirito di chi partecipa alla
celebrazione eucaristica domenicale. Una testimonianza di questo tipo la fa la Didaché,
quando dice che «riuniti nel giorno del Signore si spezza il pane rendendo grazie, dopo
aver confessato i peccati, perché sia puro il sacrificio dato a Dio».
In conclusione, la domenica, come giorno del Signore, è memoria e presenza del
Signore risorto tra i suoi, radunati nel suo nome. Quindi, i cristiani, riconciliati, si radunano
in assemblea per proclamare con letizia la presenza storico-salvifica e sacramentale del
mistero pasquale del Signore.
Un altro nome dato alla domenica è quello di “ottavo giorno”: è un termine poco
popolare. Questa denominazione sembra fondata nel NT, nel senso che potrebbe provenire
dal racconto delle apparizioni del Risorto, come testimonia Gv 20,26, dove dice: «Otto
giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era anche coloro Tommaso». Alcuni
vedono in questo testo, una specie di punto di partenza di questa espressione: «ottavo
giorno». In effetti, nel contenuto ha altre origini. Infatti, dire che la domenica è l’«ottavo
giorno» della settimana, al primo sguardo può sembrare un po’ paradossale, dal momento
che esso coincide con il primo giorno. Tuttavia, se si ragiona in una chiave simbolico-
escatologica, l’ottavo giorno allude ad una nuova realtà, cioè annunzia l’eterna beatitudine,
cioè l’incontro definitivo con il Risorto. Nello stesso tempo, questo “ottavo giorno” indica
che non c’è più alcuna successione di giorni.
Ora, a partire da questa idea, in modo diverso i Padri dell’Oriente e dell’Occidente,
usando l’allegoria, hanno elaborato la teologia della storia, in cui confluiscono,
integrandosi in qualche modo, la concezione greca del tempo (concezione ciclica) e la
concezione ebraica del tempo (concezione lineare: il tempo scorre in avanti e trova il suo
approdo nel Signore).
Il simbolismo dell’ottavo giorno è di origine cristiana e fa la sua comparsa in alcuni
testi antigiudaici, a parte quello di Giovanni, dove alcuni vedono l’origine di questa
espressione. La prima menzione chiara della domenica come “ottavo giorno” la troviamo
in una lettera del tempo post-apostolico, nei Padri cosiddetti “Apostolici”, nella Lettera di
Barnaba (135). L’autore, un anonimo, nel contesto della polemica contro i Giudei, mette in
bocca del Signore queste parole: «Non vi sono ora accetti i sabati, ma quello che ho
stabilito, in cui, ponendo fine a tutte le cose, farò il principio dell’ottavo giorno, che è
l’inizio del nuovo mondo». Questo autore così conclude: «Per questo passiamo nella gioia
l’ottavo giorno in cui Gesù è risorto dai morti e si è manifestato salendo al cielo».
Quindi, il sabato rimane, per così dire, l’ultimo giorno, il settimo giorno che chiude
l’AT, mentre il giorno della risurrezione, la domenica, è l’ottavo giorno, cioè l’inizio di un
nuovo cammino verso il regno celeste. Si tratta di un simbolismo che i Padri illustrano
anche con molti testi dell’AT. La domenica, in questa visione dell’ottavo giorno, è tutta
orientata dal presente della celebrazione verso il passato, perché compie tutto il tempo
della storia del passato, nella prospettiva del futuro. Però, le due dimensioni, il passato ed il
futuro, si identificano in qualche modo, dal momento che l’atteggiamento del futuro lo si
intende come il recupero delle proprie radici e come ritorno alle origini. In questo modo, la
domenica si situa nella dinamica del tempo e conferisce alla storia stessa un nuovo senso.
Anche l’enciclica del Papa, Dies Domini, dedica alcuni paragrafi al simbolismo
dell’ottavo giorno recuperando alcuni testi dei Padri. Il simbolismo dell’ottavo giorno
raggiunge il suo culmine proprio nel secolo IV, quando i Padri mettono in rilievo il tema
battesimale, insieme a quello escatologico. Le antiche fonti battesimali erano costruite
generalmente in forma ottagonale (v. ad esempio il Battistero di San Giovanni), perché il
numero “otto” acquisisse un senso di perfezione e di totalità escatologica. Al riguardo, è
particolarmente ricca la dottrina di Agostino. D’altra parte si sa che la tradizione patristica,
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 50

riprendendo il parallelismo tra il diluvio ed il Battesimo, fa notare che nell’Arca si sono


salvate otto persone. In questo simbolismo, i Padri vedono il futuro della salvezza in
Cristo, per cui queste otto persone rappresentano la nuova creazione salvata dal diluvio e
dalla morte.
Ora, tutti questi aspetti della domenica, come “ottavo giorno”, ci ricordano che l’attesa
del secolo futuro è l’attesa del Cristo pasquale, che verrà a consumare la nostra salvezza.
La domenica, quindi, è segnata – in qualche modo – da una dimensione escatologica.
Questo fatto lo si vedrà in maniera ancora più chiara nella Veglia pasquale, della quale uno
dei sensi, non è tanto il vegliare, attendendo l’ora della resurrezione, ma è il vegliare
attendendo che il Signore ritorni. Il Vaticano II ha ripreso nella Costituzione Sacrosanctum
Concilium, la tematica dell’ottavo giorno. Infatti, la SC 106 dice:
«Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della
risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni,
in quello che si chiama giustamente “giorno del Signore” o “domenica”. In
questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la
parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della passione,
della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e render grazie a Dio, che li
“ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo
dai morti” (1 Pt 1,3). Per questo la domenica è la festa primordiale che deve
essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche
giorno di gioia e di riposo dal lavoro. Non le venga anteposta alcun'altra
solennità che non sia di grandissima importanza, perché la domenica è il
fondamento e il nucleo di tutto l'anno liturgico».
Un altro riferimento lo si trova nell’inno domenicale delle Lodi, del Tempo Ordinario,
che così recita:
«O giorno primo ed ultimo,
giorno radioso e splendido
del trionfo di Cristo!
Il Signore risorto
Promulga per i secoli
l’editto della pace.
Pace fra cielo e terra,
pace fra tutti i popoli,
pace nei nostri cuori.
L’alleluia pasquale
risuoni nella Chiesa
pellegrina nel mondo;
e si unisca alla lode,
armoniosa e perenne,
dell’assemblea dei santi.
A te la gloria, o Cristo,
la potenza e l’onore,
nei secoli dei secoli. Amen».
Qui si nota la frequenza di questo tema anche nella Liturgia attuale.
Andando verso la conclusione, si può parlare della domenica, come giorno della
Trinità, come ultima denominazione, che appare recente perché non la ritroviamo nei
Padri. Soltanto a partire dalla metà del secolo IX, la domenica appare come il “giorno
della Trinità”. Nel secolo XII viene attestato l’uso del prefazio della Trinità di domenica.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 51

Lo stesso Messale di Pio V determinerà, come unico prefazio domenicale, per le


domeniche ordinarie, proprio quello della Trinità. Tale situazione si manterrà fino alla
riforma promossa dal Vaticano II, il quale ha operato un cambiamento abbastanza
importante della domenica. Da secolo XVI, fino ad oggi, la domenica non emergeva come
giorno della risurrezione, ma piuttosto appariva come giorno della Trinità. Questo prefazio,
che ancora oggi ritroviamo nei Messali, è l’unico prefazio con il quale è stato recuperato il
senso pasquale della domenica, ma non è stato abbandonato il senso della domenica come
“giorno della Trinità”.
La domenica, giorno della redenzione non può non essere il giorno della Trinità, perché
l’opera della salvezza è comune alle tre Persone: Dio ci salva per mezzo di Cristo nello
Spirito. Dunque, tutto viene dal Padre, per mezzo del Figlio incarnato nella presenza in noi
dello Spirito, che unendoci al Figlio riconduce tutto al Padre.
Se si ha presente questa teologia, non ci può meravigliare che ad un certo momento,
soprattutto nel Medioevo, abbia dato alla domenica questa dimensione trinitaria.
Ora, prendendo spunto dai tre nomi principali della domenica, ecco che si può fare una
sintesi teologica di ciò che è la domenica:
- essa è memoriale della Pasqua di Cristo;
- è il giorno in cui il Risorto si rende manifesto alla Chiesa con i doni
salvifici ed in particolare con l’effusione dello Spirito, frutto della
Pasqua;
- la domenica è, per eccellenza, il giorno dell’assemblea convocata per
celebrare la presenza del Signore Risorto ed accogliere i suoi doni;
- l’assemblea è l’espressione della Comunità riconciliata, sensibile alle
necessità dei bisognosi (la domenica è il giorno in cui si raccoglievano le
elemosine per i poveri, dopo l’Eucaristia domenicale);
- la domenica è il giorno della comunità dei redenti che forma l’unico
Corpo di Cristo;
- la domenica, come giorno in cui è convocata l’assemblea, sottolinea la
missione della Chiesa inviata a proclamare al mondo la forza salvifica del
mistero pasquale;
- la domenica è il giorno della proclamazione della Parola e della
celebrazione eucaristica, perché non si concepisce l’Assemblea senza la
proclamazione della Parola, il cui scopo è annunziare il mistero pasquale.
In fondo, la Parola è sempre il kerigma apostolico;
- lo stesso si deve dire, e con più ragione, dell’Eucaristia, perché ogni volta
che si mangia il pane e si beve il calice, annunziamo la morte del Signore,
finché Egli venga;
- la domenica è il giorno dei sacramenti, come si può vedere già nella
Traditio Apostolica, in merito al Battesimo che viene dato proprio nel
giorno di domenica;
- la domenica è anche giorno di gioia, che scaturisce dall’esperienza dei
doni pasquali, di cui la Chiesa usufruisce nella speranza del compimento
escatologico;
- la domenica è anche concepita come giorno di riposo, inteso come
liberazione dalla schiavitù, come spazio contemplativo e cultuale, nonché
come segno dell’eterno riposo17.

17
Vedi, a tale riguardo, la Lettera Enciclica Dies Domini di Giovanni Paolo II ed anche due numeri del
Catechismo della Chiesa Cattolica, dove si trova un’ottima sintesi della domenica, dal punto di vista
teologico. Questi due numeri sono: 1166 e 1167. Essi riprendono i tre nomi dati alla domenica.
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O8.04.2002 – 7a Lezione.

Seconda Parte del Corso


La Pasqua di Cristo
La Celebrazione della Pasqua Annuale nei primi quattro
secoli

Nell’affrontare questo argomento si seguirà il Manuale di Scientia Liturgica, vol. 5°.


Per quanto riguarda la bibliografia, nel Manuale di Scientia Liturgica c’è ne una
abbastanza completa, anche se non mancheranno degli aggiornamenti, durante lo sviluppo
di questa lezione e di quelle successive.
Questo argomento relativo alla Pasqua, enumera una trattazione che contempla in
genere tutte le tradizioni liturgiche. In sostanza, prima del IV secolo non si può parlare, in
modo compiuto, di diverse tradizioni liturgiche. Ci concentreremo, a partire dal secondo
capitolo, sulla liturgia romana, quando si studieranno gli sviluppi delle celebrazioni
pasquali, dal secolo IV in poi.
Ora, il primo problema che si deve risolvere o illustrare è se la festa annuale della
Pasqua era già conosciuta in tempo apostolico. In effetti, noi abbiamo, più o meno provato,
che la Pasqua settimanale (la Domenica) è una celebrazione presente già in tempo
apostolico. Si può affermare lo stesso in merito alla celebrazione annuale della Pasqua?
Alcuni autori affermano che si può presumere con sicurezza, più o meno sufficiente, che
già la Chiesa Apostolica conosceva la celebrazione annuale della Pasqua. Ad esempio, nel
volume di Hansjörg Anf Der Maur, del manuale tedesco, al Volume 5, dell’edizione
italiana, viene affermato:
«Anche se non abbiamo alcuna testimonianza diretta dei primi tempi, si
può presumere con abbastanza sicurezza che già la Chiesa Apostolica
conosceva la celebrazione annuale della Pasqua».
In modo simile, un altro autore, Thomas J. Talley, studioso americano nel suo libro, Le
origini dell’Anno Liturgico, a pagina 33, afferma:
«L’osservanza del primo giorno della settimana, come giorno
dell’Assemblea eucaristica e l’osservanza annuale della Pasqua risalgono ai
tempi apostolici».
Come si può vedere questi autori, che oggi sono molto recenti, parlano solo di
probabilità, perché non ci sono delle testimonianze dirette in favore di una celebrazione
rituale della Pasqua annuale. In tempo apostolico c’è una coscienza della Pasqua cristiana,
cioè del fatto secondo cui l’evento pasquale si compie in Cristo. Però, una cosa è la
consapevolezza della fede del popolo, mentre un’altra è che questa consapevolezza si
esprima in un rito annuale.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 53

Ora, alcuni biblisti, come l’americano Fuller, che scrisse agli inizi degli anni Settanta,
affermano che la prima versione dei racconti della Passione e della Risurrezione di Gesù ha
il suo ambiente vitale (sitz im leben) nella liturgia della Comunità cristiana. In altre parole,
i racconti del Vangelo, che ci narrano la Passione, la Morte e la Risurrezione di Gesù,
sarebbero nati nel culto. In genere si parla del Nuovo Testamento come avente la culla nel
culto. Se si ammette questa teoria, il problema non è ancora risolto, perché bisogna sapere
se questo culto, nel cui ambito sono nati i racconti della Passione e della Risurrezione, era
in genere domenicale (settimanale), oppure era di tipo annuale, in riferimento sempre alla
Pasqua. Per dare una risposta un po’ più compiuta a questa domanda, è bene dare uno
sguardo ai testi narrativi del NT, come ad esempio gli Atti degli Apostoli e gli stessi
Vangeli.
Prendendo in considerazione gli Atti degli Apostoli, si parla con una certa enfasi in due
occasioni, in merito alla ricorrenza della Pasqua annuale, come ad esempio At 12,3-4 e At
20,6. In ambedue i testi, ci sono delle precisazioni temporali. In At 12,3-17 si legge:
«Vedendo che questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche
Pietro. Erano quelli i giorni degli Azzimi. Fattolo catturare, lo gettò in
prigione, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati
ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua.
Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva
incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui. E in quella notte, quando poi
Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro piantonato da due
soldati e legato con due catene stava dormendo, mentre davanti alla porta le
sentinelle custodivano il carcere. Ed ecco gli si presentò un angelo del Signore
e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse:
“Alzati, in fretta!”. E le catene gli caddero dalle mani.
E l'angelo a lui: “Mettiti la cintura e legati i sandali”. E così fece.
L'angelo disse: “Avvolgiti il mantello, e seguimi!”. Pietro uscì e prese a
seguirlo, ma non si era ancora accorto che era realtà ciò che stava succedendo
per opera dell'angelo: credeva infatti di avere una visione. Essi oltrepassarono
la prima guardia e la seconda e arrivarono alla porta di ferro che conduce in
città: la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a
un tratto l'angelo si dileguò da lui. Pietro allora, rientrato in sé, disse: “Ora
sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha
strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei
Giudei”.
Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto
anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in
preghiera. Appena ebbe bussato alla porta esterna, una fanciulla di nome Rode
si avvicinò per sentire chi era. Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non
aprì la porta, ma corse ad annunziare che fuori c'era Pietro. “Tu vaneggi!” le
dissero. Ma essa insisteva che la cosa stava così. E quelli dicevano: “E`
l'angelo di Pietro”. Questi intanto continuava a bussare e quando aprirono la
porta e lo videro, rimasero stupefatti. Egli allora, fatto segno con la mano di
tacere, narrò come il Signore lo aveva tratto fuori del carcere, e aggiunse:
«Riferite questo a Giacomo e ai fratelli». Poi uscì e s'incamminò verso un
altro luogo».
In questo racconto ci sono delle informazioni che motivano l’imprigionamento di
Pietro e la sua conseguente liberazione. Il contesto temporale avviene in due momenti:
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a) v. 3 “sono i giorni degli azzimi, quando Pietro viene catturato”.


b) v. 4 “Erode aspetta la fine della Pasqua ebraica, prima di far
comparire Pietro davanti al popolo”.
In primo luogo, sembra evidente che si tratti degli Azzimi della Pasqua ebraica, non di
una eventuale celebrazione rituale della Pasqua cristiana. Però, alcuni biblisti vedono in
questa narrazione delle indicazioni simboliche pasquali e cristiane. In altre parole, Pietro
viene arrestato come Gesù, in prossimità della Pasqua o della festa degli azzimi. Il
simbolismo ricorre anche nei versetti 6 e 7. Il contenuto è questo: Pietro è liberato dalla
morte prossima, come Gesù è liberato dalla morte, però, avvenuta nel suo corpo. Pietro
dorme in prigione e viene svegliato dall’angelo: i due termini greci “dormire”
(koimèmenoj) e “svegliare” ('An£sta) sono usati nel greco del NT per indicare anche
la morte e risurrezione di Gesù. Pietro, successivamente liberato, dà subito la notizia ai
discepoli e comanda di riferire l’avvenimento (v. 17) a Giacomo e ai fratelli. Nei versetti
dal 12 al 17, il racconto dell’arrivo dell’Apostolo, a casa di Maria, madre di Giovanni, ha
una notevole somiglianza con l’apparizione di Gesù risorto ai discepoli, così come la
narrano i Vangeli Sinottici. In questo caso si sottolinea la gioia di Maria, quando bussa
Pietro alla porta. Maria vive il timore di vedere uno spirito, giustificato dallo stupore di una
visita inattesa, dalle parole pronunciate da Pietro e dalla scomparsa dell’Apostolo, di cui si
dice semplicemente che uscì e si incamminò verso un altro luogo.
Ora, leggendo questi versetti, si può vedere come questa interpretazione, che alcuni
biblisti fanno in chiave simbolico-pasquale, di questo evento, ha veramente molti punti di
contatto con l’esperienza di Gesù risorto. Si parla, dunque, di una Pasqua cristiana che la
comunità vive quando Pietro viene liberato.
Ancora, altri elementi, sempre in favore di questa opinione, si possono ricavare dal
fatto che resta significativo che i Sinottici descrivano l’Ultima Cena come un banchetto
pasquale. Gesù manda i suoi discepoli a preparare una stanza per celebrare la Pasqua.
Paolo, seguendo la cronologia di Giovanni, interpreta la morte di Cristo, come il vero
sacrificio pasquale (1Cor 5,7), dichiarando il superamento della festa ebraica della Pasqua,
dal momento che la nuova e vera Pasqua è Cristo immolato e risorto. Per la prima, ed unica
volta, nel NT Paolo parla di una Pasqua cristiana. Tutte le altre volte che compare il
termine Pasqua, sempre in San Paolo, esso si riferisce alla Pasqua dei Giudei, ma
quell’unica volta, sarebbe sufficiente per testimoniare che nella comunità cristiana, ad una
ventina di anni di distanza dagli eventi reali della passione e della morte di Gesù, esisteva
ormai la coscienza di possedere una propria Pasqua. Questo potrebbe far pensare anche ad
una celebrazione annuale della Pasqua.
Finalmente, si cita – in genere – la Prima Lettera di Pietro, secondo anche gli studi
compiuti negli Anni Cinquanta, dal famoso Cross (La Prima Lettera di Pietro, una liturgia
pasquale). Secondo questo autore, questa Prima Lettera di Pietro, sarebbe stata costruita
sulla piattaforma letteraria di una pre-esistente catechesi pasquale, diretta soprattutto ai neo
battezzati. Questa lettera, al capitolo 4 si conclude con una dossologia che sembra porre
fine alla prima parte di questa Lettera. Inoltre, sempre secondo questo studioso, questa
prima parte sembrerebbe un’omelia o catechesi pasquale e successivamente trasformata in
Lettera.
Solo nella Prima Lettera di Pietro, si trova espressa la discesa di Cristo agli inferi,
come si può notare ai cc. 3 e 4. Si scorge, qui, un segno dell’ampiezza della sovranità di
Cristo e dell’efficacia universale della redenzione da Lui operata. In altre parole, Pietro
mette in evidenza non solo un fatto storico, ma un evento storico che passa direttamente
nell’ambito sacramentale, in quanto partecipato dalla Comunità cristiana. Quindi, si
potrebbe dire che se questo testo del NT è stato costruito su una catechesi pasquale,
quest’ultima potrebbe trovarsi in relazione con una liturgia pasquale annuale. Oggi, su
questa ipotesi, non si insiste più di tanto.
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Di tutti questi testi citati, l’opinione più comune è che essi testimoniano che l’emergere
della Pasqua cristiana ed il suo distacco dalla matrice giudaica, è un processo già avviato in
tempo apostolico. Però, la festa cristiana della Pasqua, come festa rituale e annuale, non è
chiaramente testimoniata. Si può solo dire che la festa cristiana della Pasqua fu celebrata in
spirito e verità nell’intimo dei cuori dei discepoli di Gesù, ancora prima di un rito o una
festa propria. Questa è la teoria di studiosi come Padre Raniero Cantalamessa e l’Abate
Marsili che sono molto vicini alla posizione del Pontificio Istituto Liturgico, su questa
materia. La questione è tuttora aperta.
Detto questo possiamo riferirci a documenti dove in modo chiaro si parla della Pasqua,
anche come festa pasquale annuale. Non ci troviamo più nel campo delle ipotesi. Le prime
testimonianze esplicite della Pasqua annuale risalgono alla metà del II secolo (150-160).
Esse provengono da una stessa area geografica, quella che comunemente si chiamava Asia
Minore che oggi coincide con l’attuale Turchia.
Ora, le Chiese dell’Asia Minore, celebravano la Pasqua il 14 del mese di Nisan, giorno
in cui era stato prescritto ai Giudei di immolare gli agnelli. Gli stessi cristiani che, per il
fatto di celebrare la Pasqua il 14 di Nisan, presero il nome di “Quartodecimani”, e
convinti che la morte di Cristo avrebbe sostituito la Pasqua giudaica, celebravano la
Pasqua, digiunando e terminando il digiuno alla sera con la celebrazione eucaristica, che
aveva luogo durante la veglia notturna, tra il 14 ed il 15 di Nisan.
Ma cosa è il 14 di Nisan? Gli Israeliti seguivano un calendario lunare. Dal momento
che le fasi lunari durano ventinove giorni, dodici ore ed una frazione, i mesi lunari avevano
alternativamente 29 e 30 giorni. Dopo l’uso di diverse nomenclature, Israele finì per
adottare la nomenclatura babilonese per indicare i mesi, il cui primo mese era chiamato
“Nisan”, che corrisponde al periodo che va, all’incirca, dal 15 marzo al 15 di aprile.
Diverso è il computo islamico: si parte dalla fuga di Maometto a Medina, nell’anno 622
a.C. Esso, più tardi sarà dichiarato come l’inizio dell’era mussulmana, anche se l’inizio
dell’anno islamico è fissato al 16 di luglio. Secondo il computo islamico ci dovremmo
trovare intorno all’anno 1423.
Dunque, quando si parla dei “Quartodecimani”, si può dire che essi celebravano la
loro pasqua nello stesso giorno in cui gli Ebrei celebravano la loro Pasqua, cioè quando
Cristo fu crocifisso sulla Croce. Le altre Chiese, guidate da Roma, celebravano la Pasqua
la domenica dopo il 14 di Nisan. In merito a questo fatto, c’è un documento che ci parla
proprio della disputa relativa alla data di Pasqua, intorno alla fine del secolo II. Si tratta del
Libro V della Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea che è un autore del IV secolo.
Egli ci informa su una controversia sorta alla fine del II secolo, fra le Chiese di Asia
Minore e quella di Roma, quando si raggiunge un livello altissimo di tensione, nell’anno
190 ca., all’inizio del Pontificato di Vittore (193-203). Questo Papa minacciò di
scomunicare le Chiese di Asia Minore perché celebravano la Pasqua il 14 di Nisan.
Eusebio ci racconta che in questa tensione era intervenuto un grande ed autorevole
vescovo: Sant’Ireneo di Lione, che proveniva dalle Chiese dell’Asia Minore ed era stato
discepolo del vescovo Policarpo di Smirne. Anche se alcune delle affermazioni in Ireneo
vengono interpretate in modo diverso da alcuni autori, si può riassumere il suo pensiero:
a) Ireneo ricorda al Papa di Roma, che una quarantina di anni prima,
Policarpo di Smirne era stato a Roma per trattare questo argomento
della Pasqua con Papa Aniceto. I due erano giunti all’accordo che
ognuno seguisse la propria tradizione;
b) Vittore, pur minacciando di scomunicare le Chiese di Asia Minore non
consta che lo abbia fatto (non c’è alcun documento che lo abbia fatto).
Per completezza, però, si può notare che l’opinione di coloro, che interpretano le parole
di Ireneo, sempre riportate dalla Historia Ecclesiastica di Sant’Eusebio, arrivano alla
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 56

conclusione che prima di Papa Sotero (ca. 160), la Pasqua annuale non era celebrata, in
nessun modo, a Roma. Il riferimento di Ireneo, relativo a coloro che celebrano la Pasqua o
di coloro che non la celebrano, apparirebbe non abbastanza chiaro. Tale conclusione
significherebbe per Roma che il ciclo liturgico settimanale, cioè la domenica come unica
festa dell’Anno Liturgico, non ancora sviluppato, era la sola articolazione liturgica del
calendario, quando ancora non c’era nessuna festa annuale che distinguesse una domenica
dall’altra, fino al 165, periodo intorno al quale fu stabilita la Pasqua da Papa Sotero.
Ora, questa spiegazione potrebbe appartare luce su un certo silenzio, altrimenti
inesplicabile o inspiegabile di Giustino, al riguardo dell’osservanza cristiana della Pasqua.
In tale ambito, si sa che Giustino nelle sue apologie parla abbondantemente della
Domenica, ma non dice nulla della Pasqua. Questo fatto può far comprendere che la
Pasqua, probabilmente, non si celebrava a livello annuale. A tale riguardo bisogna tener
presente che San Giustino scrisse le sue apologie nella prima metà del secolo II.
Ritornando a Sant’Ireneo, appare leggere, qualche brano riportato da Eusebio, in merito
alla lettera indirizzata al Papa Vittore. Dice Eusebio nella parte V, cap. 24, 1ss.:
«Policrate guidava i vescovi asiatici che affermavano doversi osservare
l’antico costume ad essi tramandato dall’antichità. Lui stesso, nella lettera che
scrisse a Vittore e alla Chiesa di Roma, così espone la tradizione giunta fino a
lui: “Anche noi celebriamo in modo irreprensibile il giorno [della Pasqua],
senza nulla aggiungere o togliere. Anche in Asia, del resto, riposano grandi
luminari18 che risorgeranno nel giorno della Parusia del Signore, quando
verrà con gloria nel cielo a ricercare tutti i suoi santi: Filippo, uno dei dodici
apostoli, che riposa a Gerapoli, le sue due figlie invecchiate nella verginità ed
una terza figlia che visse nello Spirito Santo e riposa in Efeso; Giovanni che
riposò sul petto del Signore, che sacerdote insignito della lamina d’oro,
martire e maestro e che è sepolto in Efeso 19. Policarpo a Smirne, vescovo e
martire; Trasea di Eumania, vescovo e martire che è sepolto a Smirne. C’è poi
bisogno che menzioni Sagaris vescovo e martire 20 che è sepolto in Laodicea e
ancora il beato Papirio, Melitone, l’eunuco21 che in tutto si condusse secondo
lo Spirito Santo e che giace in Sardi, in attesa della visita celeste 22, nella quale
risorgerà dai morti? Tutti costoro osservano il giorno quartodicesimo per la
Pasqua, in accordo con il Vangelo, senza in nulla deviare, ma seguendo la
regola della fede. Infine, anch’io, Policrate, il più piccolo di tutti voi, continuo
la tradizione dei miei parenti, di alcuni dei quali sono anche successore.” Sette
furono infatti i miei parenti vescovi e otto con me. Tali miei parenti sempre
celebrarono la Pasqua quando il popolo [giudaico] si astiene dal pane
fermentato».
Nell’ambito di questo brano, c’è da ricordare che Melitone di Sardi è l’autore del primo
testo della Pasqua annuale, un’omelia che è arrivata sino a noi. Egli è citato fra gli autori
che danno autorità alla Chiesa di Asia Minore.

18
E’ sottinteso non solo a Roma, dove (come forse aveva ricordato nella sua lettera Vittore) riposano Pietro e
Paolo.
19
Sulla sepoltura di Giovanni in Efeso, cfr. anche Policrate in Hist. Eccl. 3,31,3; il titolo di martire deriva
dalla tradizione del supplizio subito sotto Domiziano: cfr. Hist. Eccl. 3,20,1ss.
20
Su Sagaris, morto martire nel 164-166, cfr. più avanti n. 25.
21
Eunuco indica, in questo caso, il celibato volontario come in Clemente negli Stremata 3,105,1 e nel
Paedagogus 3,4. Non si tratta di una mutilazione volontaria come nel caso di Origene.
22
Secondo il pensiero di Padre Raniero Cantalamessa, la menzione di Melitone, in questo contesto, non lascia
dubbi che egli fu un quartodecimano.
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A proposito dei Quartodecimani, viene, dunque, difesa la tradizione delle Chiese


dell’Asia Minore che sarebbe stata fondata dallo stesso San Giovanni Apostolo. E’ un
modo per dire che i vescovi di queste Chiese erano fedeli ai loro predecessori, cioè a
queste grandi figure della Chiesa, a quel tempo.
Più in avanti, Eusebio riporta l’intervento di Ireneo, nella parte V, cap. 24, vv. 11-18.:
«Uno di essi fu Ireneo che scriveva in nome dei fratelli della Gallia che
presiedeva. Egli era d’accordo sul fatto che si dovesse celebrare il mistero della
risurrezione del Signore solo in giorno di domenica; però scongiurava Vittore
e con molti argomenti lo esortava affinché non scomunicasse intere chiese solo
perché mantenevano la tradizione di un antico costume. A tali parole
aggiungeva: “La controversia non riguarda soltanto il giorno 23, ma anche la
forma del digiuno. Alcuni infatti credono di dover digiunare un giorno, altri
due, altri ancora più giorni, altri infine calcolano, per il loro giorno,
quarant’ore tra diurne e notturne. Questa varietà nel modo di osservare [il
digiuno] non è nata ora, ai nostri giorni, ma molto prima, ai tempi dei nostri
predecessori, i quali, discostandosi, a quanto pare, dell’esattezza, trasmisero
poi ai posteri quell’uso nato da ignoranza e particolarismi. Tutti, nondimeno,
furono in pace, come lo siamo ancora tra noi, sicché la diversità del digiuno
conferma l’accordo della fede”. A tutti questi motivi aggiunge un episodio che
ritengo opportuno riferire. Il suo tenore è il seguente: “Tra essi, ci furono
anche i presbiteri predecessori di Sotere e che furono a capo della Chiesa che
ora governi tu: parlo di Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto 24. Costoro non
osservarono, né permisero di farlo a coloro che dipendevano da essi e,
nondimeno, essi che non osservavano erano in pace con coloro che venivano
presso di loro da comunità nelle quali vigeva invece l’osservanza 25, anche se
l’osservanza creava un contesto ancora maggiore nei confronti di coloro che
non osservavano26. Eppure nessuno fu mai rigettato per questo motivo, ma
anzi gli stessi tuoi predecessori che non osservavano mandavano l’eucaristia 27
a coloro di altre comunità che osservavano. Quando il beato Policarpo venne a
Roma al tempo di Aniceto28, avendo su altre” cose delle piccole divergenze tra
loro, trovarono subito l’accordo, ma su questo capitolo non stettero a discutere
23
Il giorno in cui celebrare la Pasqua (Richard), oppure il giorno in cui porre fine al digiuno (Nautin e
Campenhausen), cfr. nota 26.
24
Con questa lista Ireneo non intende fissare l’origine della Pasqua e Roma, al tempo di Papa Sisto, ma solo
addurre ad una serie di esempi: cfr. Rordorf, ThZ 18 (1962) 169.
25
Secondo Cantalamessa, è questo il passo cruciale per conoscere la situazione pasquale prima di Vittore.
Sulle tre interpretazioni dell’antitesi, osservare – non osservare, cfr. Introduzione del testo: R.
CANTALAMESSA, La Pasqua nella Chiesa Antica, Traditio Christiana, SEI, Torino 1978, XIX ss.
26
Si tratta di una frase piuttosto oscura. In base alle tre interpretazioni accennate (v. nota 25), il «contrasto
maggiore» sotto i predecessori di Vittore consisteva: a) nell’osservanza del 14 Nisan a Roma stessa, da parte
di quelli provenienti da comunità asiatiche (Morhmann ed altri); b) nel fatto che a Roma non si osservava,
fino a Sotere, alcuna festa annuale di Pasqua, mentre ora il contrasto è solo nella data in cui celebrarla (Holl,
Richard); c) nel fatto che a Roma, fino a Sotere, non si osservava alcun digiuno prima della Pasqua, mentre
altrove esso era comune (Zahn, Campenhausen).
27
Su questa usanza della Chiesa romana, cfr. LA PIANA, HThR 18 (1925) 215-218; diverso è il caso relativo
all’espressione greca «paracwre‹n t¾n eÙxarist…an» perché indica che il vescovo di Roma cedeva
l’onore di far celebrare l’Eucaristia ad un altro in sua presenza.
28
Sulla venuta di Policarpo a Roma, sotto Aniceto, cfr. IRENEO, Adversus Haereses, 3,3,4. Secondo Eusebio,
nella sua Historia Ecclesiastica, 4,14,1, Policarpo si recò a Roma «per una questione riguardante il giorno
della Pasqua (perˆ tÁj kat¦ tÕ p£sca ¹mšraj)»: ciò sembra escludere, secondo P. Cantalamessa,
l’opinione di Campenhausen (v. nota 25), secondo cui la vertenza avrebbe riguardato il problema del digiuno
(Osterfasten) e non la data della Pasqua (Ostertemin), a meno che non si tratti di un adattamento posteriore di
Eusebio.
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tra di loro. Infatti né Aniceto poteva persuadere Policarpo a non osservare 29,
avendo egli sempre osservato con Giovanni il discepolo di nostro Signore e
con gli altri apostoli con i quali aveva vissuto; né Policarpo, dal canto suo,
riusciva a persuadere Aniceto a osservare, dicendo egli di dover mantenere la
tradizione dei presbiteri suoi predecessori. Anche stando così le cose, però, essi
rimasero in comunione tra loro e Aniceto cedette a Policarpo l’onore di
[celebrare] l’eucaristia nella sua chiesa, separandosi in pace. Tutti nella chiesa
erano in pace, sia coloro che osservavano, sia coloro che non osservavano”.
Queste cose raccomandava a voce e per iscritto Ireneo, che fu davvero
“pacifico” di nome e di fatto. Cose analoghe egli consigliava per lettera
riguardo alla questione in atto non solo a Vittore, ma anche a molti altri capi
delle chiese».
La controversia fra Asia Minore e Roma, nella seconda metà del secolo II era una
controversia sul contenuto della Pasqua, oppure soltanto sulla data? E’ una domanda molto
importante. Infatti, la controversia medesima, non consisteva nel dilemma se la Pasqua
ricordi la morte del Signore, oppure la sua risurrezione, dal momento che i Quartodecimani
celebravano la Pasqua nel giorno della morte di Cristo, mentre le altre Chiese la
celebravano nel giorno della risurrezione di Cristo, ma apparentemente si tratterebbe di una
diversa visione della Pasqua stessa. In realtà, il problema sta nel fatto se la Pasqua debba
essere celebrata nel giorno in cui Cristo è morto, oppure nel giorno in cui è risorto.
La prima prospettiva, cioè il celebrare la Pasqua nel giorno della morte, sottolinea la
continuità tra la Pasqua ebraica e quella cristiana. Nel giorno in cui viene immolato
l’agnello si celebra la Pasqua. Lo stesso San Giovanni riferisce che Gesù è morto quando
venivano uccisi gli agnelli, sottolineando la continuità tra l’agnello ebraico e l’agnello
immolato sulla Croce.
La maggior parte degli studiosi moderni assegna un certo grado di priorità storica alla
Pasqua dei Quartodecimani e conseguentemente ammette che la Pasqua domenicale
rappresenta un adattamento di questa usanza alla domenica settimanale introdotta
indipendentemente. La Tradizione, giustamente, ha legato la Pasqua quartodecimana a San
Giovanni, mentre è considerata più nebulosa la tradizione che risale alla Pasqua
domenicale, cioè a Pietro e a Paolo. E’ chiaro che le Chiese di Asia Minore, che sono nate
con la predicazione di Giovanni, e che custodivano il corpo dell’Apostolo, seguivano una
tradizione di continuità, ma rimane più difficile dimostrare che la Pasqua domenicale, in
uso nelle altre Chiese, provenisse da San Pietro e da San Paolo.
Ora, tra le numerose spiegazioni, che hanno cercato di stabilire la paternità delle due
tradizioni, si può ricordare un famoso liturgista, A. Baumstark che è stato l’autore della
conosciuta opera Liturgie Comparée. Questo autore ha tentato una via psicologica
sostenendo che San Giovanni fu il solo ad assistere alla morte di Gesù. L’Apostolo raccolse
amorosamente il mistero della sua morte, vivendo quel momento con grande intensità.
Invece, San Pietro e gli altri apostoli non furono presenti alla morte del Maestro, anzi San
Pietro vive il rimorso legato a quel momento quando tradì Gesù, rinnegandolo per ben tre
volte. San Pietro, però, sarà il primo ad entrare nel sepolcro, quando Gesù risorto gli
chiederà successivamente, per ben tre volte, se davvero lo ama. Quindi, Pietro rimarrà
legato alla risurrezione di Gesù, come anche lo stesso San Paolo sulla scorta della visione
di Cristo risorto sulla via di Damasco.
Concludendo, per quanto riguarda la Pasqua quartodecimana, non si tratta di una
diversità di contenuto, ma di una diversità di data, secondo un’accentuazione diversa:

29
Anche qui sono possibili tre spiegazioni, in riferimento all’oggetto se è il 14 Nisan o se è la festa di Pasqua,
oppure il digiuno, in base all’espressione greca thre‹n - m¾ thre‹n.
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1. per i Quartodecimani la Pasqua è sempre un passaggio di Gesù dalla


morte alla vita;
2. per l’Occidente la Pasqua è il passaggio dalla morte alla vita, ma
nell’orizzonte della risurrezione di Cristo.
Ora, si nota che, un secolo dopo, sarà imposta la data domenicale della Pasqua, per cui
il decreto pasquale del Concilio di Nicea, il primo concilio ecumenico del 325, non tratterà
più la controversia con i Quartodecimani, ma affronterà la questione dei principi adoperati
per il computo della Pasqua nelle diverse Chiese, alcune delle quali seguivano un nuovo
calcolo, molto difettoso, simile a quello dei Giudei.
Questo decreto di Nicea dice:
«Noi viviamo il lieto annunzio dell’unità che è stata ristabilita intorno
alla festa della Pasqua. Tutti i fratelli dell’Oriente, che prima celebravano la
Pasqua con gli Ebrei, d’ora in poi la celebreranno con i Romani, con noi e con
tutti gli altri che l’hanno sempre celebrata con noi. Con gli Ebrei non perché
la celebrassero nel 14 di Nisan, ma perché prendevano il computo degli Ebrei
che sembra ormai un computo sbagliato».
In altre, parole, c’è un riferimento preciso al computo errato degli Ebrei, che non
rispettava l’antica regola dell’equinozio secondo cui la Pasqua doveva cadere nella prima
luna piena, dopo l’equinozio di Primavera. L’equinozio è l’istante in cui il Sole
muovendosi sull’eclittica si trova a coincidere esattamente con la linea dell’Equatore.
Ci furono, in seguito, altre divisioni in merito all’argomento della data di Pasqua, anche
se, dopo il Concilio di Nicea, tutti i cristiani celebreranno la Pasqua il giorno di domenica.

Struttura celebrativa della Pasqua


in riferimento ad alcuni documenti del II-III secolo.
I più antichi documenti ci offrono poche indicazioni sulla struttura celebrativa della
Pasqua, ad eccezione della Veglia Pasquale. In genere si può dire che la Pasqua annuale è
presentata come un digiuno molto rigoroso, che ha una durata diversa, in base ai documenti
in nostro possesso. Questo digiuno, che non va oltre i due giorni, è seguito da una
celebrazione notturna di preghiere e di letture che si conclude con la celebrazione
eucaristica. Questi sono gli elementi comuni.
All’inizio del secolo III si aggiunge un ulteriore elemento in Occidente: si tratta della
celebrazione del Battesimo nel corso della notte pasquale. Per avere notizie un po’ più
ricche circa la ritualità della Pasqua, bisognerà aspettare il secolo IV o la seconda metà del
secolo III. Si tratta della Didascalia Apostolorum, dell’area siriaca, e l’Itinerarium Egeriae,
un racconto di un viaggio di una gentil donna a Gerusalemme.
Dunque, gli elementi rituali che si possono scorgere sono il digiuno, la veglia di lettura
e preghiere, celebrazione dell’Eucaristia, Battesimo; quest’ultimo si diffonderà
successivamente anche in Oriente.
In merito al digiuno pasquale, alcuni credono che per gli Ebrei la Mishnà prescriveva il
digiuno da ogni tipo di cibo, dal momento dell’offerta del sacrificio serale, che precedeva il
sacrificio degli agnelli per la Pasqua. Si pensa, dunque, ad una imitazione del digiuno,
secondo la tradizione ebraica. Ma cosa era questa Mishnà? Significa insegnamento che si
distingue dal midraš che è, invece, un commento alla Scrittura. La Mishnà riguarda,
invece, la tradizione orale come tentativo di osservare la legge di Dio, anche nelle minuzie
e nel rispetto della Tradizione. Ciò comportò una raccolta di norme tramandate oralmente,
secondo la quale c’era un digiuno da osservare prima della celebrazione della Pasqua.
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Questo digiuno è, probabilmente, il germe del digiuno pasquale cristiano, che i Padri
posteriori commentano in un certo modo.
Per i cristiani, tuttavia, questo digiuno progressivamente fu allungato. Si pensa, in
genere, che la normale pratica dei Quartodecimani avesse esteso il digiuno tutto il giorno
del 14 di Nisan, fino al canto del gallo del 15 di Nisan, quando finiva la Veglia, con
l’Eucaristia che chiudeva il digiuno. A Roma, nel secolo III, il digiuno pasquale durava
solo due giorni prima di Pasqua, ma il capitolo 33 della Traditio Apostolica prevede che gli
ammalati lo osservino per un giorno solo, il Sabato Santo. Questo elemento è stato
reintrodotto anche nella Riforma Liturgica attuale.
Alla fine del IV secolo, secondo l’Itinerarium Egeriae, a Gerusalemme c’era un grande
digiuno il Sabato Santo. Questo documento, tra l’altro, parla del digiuno della Quaresima,
del digiuno dei monaci di stretta osservanza. Ciò richiama al momento in cui lo Sposo
verrà meno, cioè il giorno in cui sarà sepolto.
Già, alla fine del II secolo, Pasqua è una festa che prosegue per 55 giorni, compresa la
Pentecoste. La cosiddetta cinquantina pasquale è già testimoniata da Tertulliano, alla fine
del secolo II, nel suo trattato sul Battesimo. Egli parla dei 50 giorni del Tempo pasquale
come di un solo giorno di festa. In sostanza, al contrario di quello che afferma il Codice di
Diritto Canonico, che sostiene che questi cinquanta giorni pasquali sono di carattere
penitenziale, la Tradizione più antica, invece, insegna che tutti questi 50 giorni sono festivi.
Addirittura è testimoniato che era proibito inginocchiarsi e digiunare in questo periodo.
Le testimonianze più antiche, che ci aiutano a ricostruire l’Antica Pasqua nel II secolo,
e negli inizi del III secolo, sono fornite da tre documenti:
1. l’Epistola degli Apostoli – si tratta di uno scritto apocrifo che non è accertato dalla
Chiesa, neanche come scritto storico. Esso potrebbe risalire intorno all’anno 150.
Non si conosce l’area geografica da cui proviene;
2. l’Omelia sulla Pasqua – è stata scritta da Melitone di Sardi, intorno al 160;
3. l’Omelia di un anonimo – il primo titolo era omelia di Ippolito, che sarà cambiato
con la dizione Omelia dello pseudo Ippolito. Questo documento risale intorno alla
seconda metà del II secolo. Per alcuni studiosi sarebbe posteriore al 160-165 d.C.
Questa omelia è di area quartodecimana. In altri autori, addirittura si trova
questo documento sotto il titolo di Omelia sulla Santa Pasqua dello Pseudo
Ippolito. Oggi, in genere la si menziona con la dizione: Omelia dell’anonimo
quartodecimano.
Essi sono importanti per capire la cornice celebrativa e la teologia della Pasqua, che
arriva fino a noi. Ci saranno documenti posteriori sempre sulla Pasqua.
In merito all’Epistola degli Apostoli (Epistula Apostolorum), c’è una versione anche in
etiopico. Nel capitolo 15 si riferisce a quell’evento degli Atti degli Apostoli, al capitolo 12,
cioè la prigionia di Pietro. In esso si legge:
«…”Dopo il mio ritorno presso il Padre, fate memoria della mia morte.
Quando avrà luogo la Pasqua, allora, a causa del mio nome, uno di voi sarà
gettato in prigione e sarà in tristezza e in ansia, perché voi festeggiate la
Pasqua, mentre egli si trova in carcere e lontano da voi; egli piangerà perché
non celebra la Pasqua con voi. Allora io manderò la mia potenza nella figura
dell’angelo Gabriele e le porte del carcere si apriranno. Egli uscirà e verrà da
voi e farà con voi una notte di veglia, rimanendo con voi fino al canto del
gallo. Quando però avete compiuto la memoria che si fa di me e l’agape, egli
sarà di nuovo gettato in carcere in testimonianza, finché uscirà di lì e
predicherà ciò che io vi ho trasmesso” 30. Noi gli dicemmo: “Signore, è di
30
Gli elementi costitutivi della celebrazione pasquale appaiono già delineati: veglia fino al canto del gallo,
celebrazione dell’Eucaristia (memoria di me, bere il calice fino alla venuta del Signore [cfr. 1Cor 11,26]
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nuovo necessario che noi prendiamo il calice e lo beviamo?”. Egli ci disse:


“Sì: è necessario, fino al giorno in cui io verrò con coloro che furono uccisi per
causa mia”».
E’ un testo che pone le parole nella bocca di Gesù: le cose che dice sulla Pasqua
cristiana, pur essendo un apocrifo, sono valide perché testimonia un uso del tempo. Questo
testo, indica anche una dimensione escatologica e parla della Pasqua come
commemorazione della morte di Gesù nel corso di una Veglia, che culmina nella
celebrazione eucaristica. Questa veglia è quasi in attesa del Cristo che ritorna. Questo testo
si trova in linea con altri documenti quartodecimani, per cui la sua origine, probabilmente.
è quartodecimana.
Il secondo documento citato, l’Omelia di Melitone di Sardi, dice che nell’ambito di
questa veglia, in cui si celebra la Pasqua, il racconto della Pasqua stessa, che si legge è
tratto dal libro dell’Esodo 12, che parla dell’uccisione dell’agnello pasquale. C’è, dunque,
un chiaro riferimento, come figura dell’AT della Pasqua Cristiana, all’uccisione
dell’agnello, cioè alla morte di Cristo, Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. C’è
qui una dimensione pasquale della morte di Cristo.
Anche l’Omelia dell’anonimo quartodecimano, è incentrata sull’esegesi tipologica del
venerando testo di Es 12. Se queste Chiese celebravano la Pasqua, come evento storico-
salvifico, che ha come elemento centrale la morte di Cristo, e come evento sacramentale, il
cui elemento centrale è proprio l’Eucaristia, in Occidente, invece, quando la Pasqua si
concentrò non solo nella morte, ma anche nella risurrezione, non si lesse solo la visione
dell’agnello, ma il passaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della Terra Promessa.
Nel secolo III con la Didascalia degli Apostoli, viene offerta una descrizione più
dettagliata e più ricca della veglia pasquale, in merito alla ritualità. Dopo aver prescritto il
digiuno completo il Venerdì Santo ed il Sabato Santo, in segno di lutto per la passione e
morte del Signore, il testo prosegue. Quindi, ci troviamo dinanzi ad una pasqua già
domenicale. La Didascalia siriaca al cap. 5, 19 dice:
«Per tutta la notte, rimanete riuniti insieme, desti e in veglia supplicando
e pregando, leggendo i Profeti, il Vangelo e i Salmi, con timore e tremore e con
assidua supplica fino all’ora terza della notte passato il sabato e allora
sciogliete il vostro digiuno… Quindi offrite i vostri sacrifici e allora mangiate
e rallegratevi, gioite ed esultate, poiché Cristo è risorto pegno della nostra
risurrezione e questo sia per voi legittimo in perpetuo fino alla fine del
mondo».
Quando si studierà la cornice teologica, si noterà che la Pasqua antica, concentrata
nella morte di Cristo, gradualmente, non solo fa memoria della morte di Cristo e degli
eventi anticotestamentari, ma anche si celebra la morte come sintesi del punto di arrivo
della storia della salvezza. In questo modo, come si può notare già dalla Didascalia degli
Apostoli, viene offerta una panoramica globale della storia della salvezza.
Andando avanti, nella prima metà del III secolo, Tertulliano, in un testo non molto
chiaro, sempre del trattato sul Battesimo (De Baptismo), e poi Ippolito in un commentario
a Daniele, presentano la Pasqua come giorno appropriato per il Battesimo. Si tratta di due
documenti che sono considerati occidentali, anche se Ippolito non può essere considerato
un autore soltanto occidentale. Anche la Tradizione Apostolica, al capitolo 21, pur non
parlando apertamente di Veglia Pasquale, tutti gli autori la interpretano come veglia
pasquale. Ora, le testimonianze di questa prassi, del Battesimo nella Veglia pasquale, si
moltiplicheranno poi nel IV secolo, nel corso del quale diventerà un uso comune. Questo

indicano che si tratta veramente dell’Eucaristia).


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fatto si verificherà in Oriente, più tardivamente, perché il Battesimo era praticato nel
giorno dell’Epifania, strettamente connessa alla festa del Battesimo di Gesù.
Da questi dati abbiamo potuto notare una cornice celebrativa che si può sintetizzare nel
seguente modo: digiuno, una veglia con letture e preghiere, l’Eucaristia ed il Battesimo.

15.04.2002 – 8a Lezione.

Il contenuto teologico presente


nei documenti dei primi quattro secoli.
La celebrazione della Pasqua Annuale.
In questo periodo non si tratta di distinguere la Tradizione Orientale dalla Tradizione
Occidentale, ma si tratta di vedere le prime testimonianze su una celebrazione pasquale
annuale e rituale. Tra gli autori ci sono diverse opinioni sulla celebrazione annuale della
Pasqua in tempo apostolico. Al riguardo non ci sono testimonianze dirette. Però, quello che
sembra chiaro è che la prima Comunità cristiana aveva la consapevolezza che ormai la
Pasqua ebraica aveva ceduto il posto alla Pasqua che è Cristo, come dice San Paolo in
quella sua famosa espressione nella Prima Lettera ai Corinti.
Una prima testimonianza esplicita, in merito alla celebrazione annuale della Pasqua,
appare intorno alla metà del II secolo, nell’aria geografica dell’Asia Minore: si tratta di due
antiche omelie pasquali, cioè quella di Melitone di Sardi e quella dell’Anonimo
Quartodecimano. C’è anche uno scritto apocrifo, cioè l’epistola degli Apostoli. Questi
scritti sono da considerarsi testimonianze dirette dal momento che, già a partire dal II
secolo, si celebrava la Pasqua, anche se esse pongono il problema della data che pone un
riferimento preciso alle controversie tra le Chiese di Asia Minore (celebravano la Pasqua
nel giorno della morte di Cristo) e la Chiesa di Roma, insieme ad altre Chiese
dell’Occidente (celebrava la Pasqua annuale nella domenica seguente al 14 di Nisan).
In questi documenti citati, si nota anche una struttura iniziale della celebrazione della
Pasqua, che consiste in un digiuno, più o meno lungo (uno o due giorni), in una veglia
(lettura biblica di Es 12: l’immolazione dell’agnello pasquale) e in una celebrazione
dell’Eucaristia.
Queste due omelie quartodecimane e la stessa Epistula Apostolorum, hanno anche una
cornice teologica: ci sono alcuni punti nodali, come ad esempio, in che cosa consiste la
memoria della Pasqua, di che cosa si fa memoria, di che cosa è attesa la Pasqua Antica, in
che modo la Pasqua diventa la Pasqua della Chiesa.
Queste domande trovano le risposte negli elementi presenti nelle due omelie
quartodecimane. Nelle due omelie, sopra accennate, la Pasqua è vista come la celebrazione
della morte redentrice di Cristo, inserita in una cornice teologica, dove la caratteristica
principale è la globalità: si tratta del mistero pasquale di Cristo come momento culminante
che raccoglie in sé tutti i grandi momenti della storia della salvezza.
Se si prende in considerazione l’omelia di Melitone di Sardi, si nota che l’argomento
centrale è la Passione di Cristo, vista da diverse prospettive. L’autore non parla subito della
morte del Signore, ma pone, in primo luogo, in rilievo il valore salvifico della Pasqua
dell’Antico Testamento. Poi, dimostra che la stessa Pasqua antica è a vantaggio
dell’umanità peccatrice, anche se il popolo di Israele, pur essendo stato depositario di
questo evento, si dimostrò infedele, tanto da essere punito da Dio. Di conseguenza, l’antico
simbolo della Pasqua non servirà più, perché la vera Pasqua sarà quella di Cristo che
suggellerà una Nuova ed Eterna Alleanza con il nuovo Israele, cioè la Chiesa. In questo
senso, è presente tutta la storia della salvezza. C’è da tener presente che questi autori
quartodecimani, in modo particolare Melitone di Sardi, sono profondamente antisemiti.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 63

Melitone di Sardi contempla la Pasqua antica come un rito salvifico tanto da affermare
al n. 3131:
«O mistero nuovo e inenarrabile!
L’immolazione della pecora divenne la salvezza di Israele32,
la morte della pecora divenne la vita del popolo
e il sangue intimorì l’angelo».
Melitone al n. 4133 dirà ancora:
«La figura aveva dunque valore prima della realizzazione e la parabola era
meravigliosa prima della sua interpretazione. In altre parole: il popolo aveva
valore prima che sorgesse la Chiesa e la Legge era meravigliosa prima che
brillasse il Vangelo».
Melitone riconosce, dunque, il valore della Pasqua antica, come valore salvifico.
Andando più avanti, a numeri 72 e 73, egli parla del rifiuto di Israele, affermando34:
72. «Egli dunque è messo a morte.
E dove è messo a morte?
Nel bel mezzo di Gerusalemme.
E per quale motivo?
Perché egli aveva guarito i loro zoppi,
aveva guarito i loro lebbrosi,
aveva ridato la vista ai loro ciechi
e aveva risuscitato i loro morti.
Ecco perché egli ha patito.
Non è forse scritto nella Legge e nei Profeti: “Mi hanno reso male per bene e la
mia vita senza discendenza”; “hanno tramato cattivi disegni contro di me,
dicendo: Leghiamo il giusto, poiché ci è contrario”?».

73. «Come hai potuto commettere, o Israele, un delitto così inaudito?


Hai disonorato chi ti aveva onorato35

31
I più antichi testi pasquali della Chiesa. Le Omelie di Melitone di Sardi e dell’Anonimo Quartodecimano e
altri testi del II secolo. Introduzione, traduzione e commento di P. R. CANTALAMESSA, CLV – Roma 1991,
31.
32
Melitone parla, a questo punto, di una soteria propria della Pasqua legale. Il giudaismo aveva una forte
coscienza del carattere salvifico della propria Pasqua (cfr. R. LE DÉAUT, La nuit pascale, Roma 1963, passim,
e più ancora N. FLUEGLISTER, Die Heilsbedeutung des Pascha, Monaco 1963). Il Targum di Esodo 12,42
definisce la Pasqua ebraica «la notte fissata e riservata per la salvezza di tutte le generazioni d’Israele» (cfr.
R. LE DÉAUT, op. cit., 65). Anche Melitone e l’Anonimo Quartodecimano riconoscono un certo valore
soteriologico e redentivo alla Pasqua dell’Antico Testamento. Però, come dirà subito ed energicamente
Melitone, questa efficacia salvifica la Pasqua antica non l’aveva per sé, autonomamente, ma soltanto in
previsione della Pasqua di Cristo: era una proiezione all’indietro della salvezza operata dalla passione di
Cristo. Meno drastico, l’altro omileta sembra riconoscere un certo valore salvifico anche alle figure in sé
stesse (cfr. In S. Pascha, 7) accostandosi all’idea di S. TOMMASO (S. Th. III, 61, 3c) di un «sacramento
dell’Antico Testamento».
33
I più antichi testi pasquali della Chiesa, op, cit. 33.
34
I più antichi testi pasquali della Chiesa, op. cit. 41.
35
Comincia la requisitoria contro Israele. In questo e nei paragrafi successivi si intravede chiaramente
l’embrione di quel genere liturgico che andrà sotto il nome di «Improperia», in uso nella liturgia del Venerdì
Santo, che l’Occidente ha ereditato dalla liturgia greca posteriore. Tra Melitone e la formula attuale, l’anello
di congiunzione è costituito da un testo di ASTERIO SOFISTA (IV secolo): Omelia XXVIII in Ps. XV, 5-7 (ed.
M. RICHARD, Asterii Sophistae quae supersunt omnia, Oslo 1965, 225-226). Si tratta di un genere letterario
ereditato dall’Antico Testamento, il processo sacrale (il ríb), con cui si introduce Dio in atto di rimproverare
al suo popolo la propria infedeltà. Particolarmente importante è, a questo riguardo, l’influsso di Dt 32 (il
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 64

hai disprezzato chi ti aveva glorificato


hai rinnegato chi ti aveva riconosciuto;
hai messo al bando chi ti aveva bandito (il Vangelo)
hai ucciso chi ti aveva vivificato
Che cosa hai fatto, o Israele?».
C’è qui uno stile un po’ complesso, mediante il quale si rivolge contro Israele, ponendo
gli stessi pagani contro questa infedeltà del popolo ebraico. In altre parole, l’autore intende
giungere all’apoteosi del Redentore, per sottolineare la vera Pasqua, cioè quella di Cristo.
Questo fatto lo si nota ancora di più guardando ai numeri dal 100 al 105, a cui fa seguito
uno stile molto poetico, attraverso il quale canta la gloria del Redentore. Questi numeri
vale la pena di riportarli:
100. «Il Signore, avendo rivestito l’uomo,
avendo patito per colui che pativa
ed essendo stato legato per colui che era incatenato
e giudicato per colui che era condannato
e sepolto per colui che giaceva nella tomba,»

101. «risorse dai morti e fece udire la sua voce gridando:


Chi vuole stare in giudizio contro di me?
Che si faccia avanti!
Sono io che ho liberato il condannato36
sono io che ho reso la vita al morto;
sono io che faccio risuscitare chi era sepolto».

102. «Chi è il mio contraddittore?


Sono io – dice – il Cristo.
Sono io che ho distrutto la morte,
che ho trionfato del nemico,
che ho calpestato l’Ade,
che ho legato il forte37
che ho rapito l’uomo verso le sommità dei cieli38.
Cantico di Mosè), Michea 6,3-4 e i due lunghi Salmi 77 e 105 che presentano la storia del popolo eletto come
contrapposizione dei benefici del Signore e dell’ingratitudine d’Israele; cfr. anche il discorso di Stefano in
Atti 7,1 ss. Singolarmente affine a Melitone è l’inizio del IV libro di Esdra (IV Esdra, 1,6-27).
36
Questo linguaggio in persona di Cristo richiama i numerosi «ego eimi» (Sono Io) del IV Vangelo, che a
partire dal paragrafo 103, assumono valore predicativo o nominale («Io sono la vostra remissione. Io sono la
vostra Pasqua») e si ispirano ad analoghe dichiarazioni di Cristo («I sono la Luce. Io sono la Verità, ecc.»).
Per la componente stilistica e retorica di questo particolare linguaggio, abbiamo in questo testo di Melitone
un caratteristico linguaggio cristologico che si protrae poi fin quasi al termine dell’omelia. Si tratta di uno
stile in auge nella retorica asiatica della seconda Sofista e impiegato già nell’innologia in onore di divinità
pagane. E’ un genere letterario detto ‘aretalogia’ perché si propone di enumerare tutte le virtù (in greco
arerei) e le imprese operate dalla divinità di cui si celebrano le lodi. Talvolta è la divinità stessa che è
introdotta a parlare in prima persona («Io sono colui che…»), come fa anche Melitone al paragrafo 102.
37
In pochi tratti ci è offerta una rappresentazione drammatica della discesa agli inferi. Nel brano sembra
aversi un’eco della Tradizione apostolica di IPPOLITO: «Offrendosi liberamente alla sua passione, a fine di
sciogliere la morte, spezzare le catene del demonio, calpestare l’Ade…» (Trad. Apost. 4, ed. B. Botte, 14). La
discesa agli inferi – come si vede dalla frase immediatamente successiva del testo – è intimamente legata alla
risurrezione. E’ un tratto che diverrà caratteristico della liturgia e dell’iconografia bizantina. Si nota qui anche
un’analoga descrizione nell’ANONIMO QUARTODECIMANO, In S. Pascha, 111 e nell’omelia dello PSEUDO-
EPIFANIO (v. I più antichi testi pasquali della Chiesa, op, cit. Appendice II, 154).
38
L’uomo che Cristo rapisce verso la sommità dei cieli è la sua umanità personale, ma anche tutta l’umanità
redenta, che nell’umanità del Verbo ha la garanzia e una primizia della propria ascensione al cielo. I due
piani, individuale e collettivo, appaiono così fusi da risultare difficile decidere quale dei due prevalga. La
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Sono io – dice – il Cristo».

103. «Orsù, dunque, venite, voi tutte stirpi umane39


voi immerse nei peccati.
Ricevete la remissione dei peccati.
Sono io, infatti, la vostra remissione;
sono io la Pasqua della salvezza40
io l’Agnello immolato per voi,
io il vostro riscatto,
io la vostra vita,
io la vostra luce!,
io la vostra salvezza,
io la vostra risurrezione,
io il vostro Re.
Io vi conduco alle sommità dei cieli.
Io vi mostrerò l’eterno Padre.
Io vi risusciterò con la mia destra».

104. «Questi è colui che ha fatto il cielo e la terra,


che all’inizio plasmò l’uomo,
che nella Legge e nei Profeti fu annunciato,
nella Vergine incarnato,
sopra un legno fu inchiodato,
nella terra seppellito,
e dai morti risuscitato,
ascese nell’alto dei cieli,
siede alla destra del Padre
e ha il potere di giudicare e salvare tutte le cose lui, mediante il quale il
Padre sempre ha operato dall’origine e per tutti i secoli»41.

105. «Egli è l’Alfa e l’Omega.


Egli è il principio e la fine:
principio inenarrabile e fine incomprensibile.
Egli è il Cristo.
Egli è il Re.

stessa posizione si nota nell’ANONIMO QUARTODECIMANO, In S. Pascha 114-116 e in IRENEO che scrive:
«Egli rese manifesta la sua risurrezione, divenendo egli stesso primogenito dei morti e rialzando in se stesso
l’uomo caduto a terra, innalzandolo verso l’alto, nelle parti superiori del cielo alla destra della gloria del
Padre» (Dimostrazione, 38).
39
Con la morte di Cristo tutte le genti hanno acquisito il diritto a far parte del Regno, una volta ristretto ai
Giudei. Perciò, l’omileta si avvia alla conclusione con una universale esortazione a entrare in Chiesa e a
ricevere il Battesimo. E’ questa la parte più ricca di contenuti biblici e la più lirica dell’opera.
40
L’espressione, «Io sono la Pasqua della salvezza» sembra essere stata usata nella catechesi pasquale dei
quartodecimani (cfr. anche EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica V, 23, 1). Ciò è molto importante
perché conferma il carattere soteriologico (e quindi storico-commemorativo) della Pasqua primitiva della
Chiesa, contro la tesi di coloro che vorrebbero ridurne tutto il contenuto all’aspetto escatologico, all’attesa
cioè della Parusia nella veglia pasquale (B. Lohse).
41
Da notare l’affermazione esplicita che conclude questo terzo ed ultimo schizzo del mistero di Cristo e della
storia della salvezza (v. i paragrafi dopo i nn. 66-71 e 81-86): Cristo è colui per mezzo del quale il Padre ha
sempre operato i suoi interventi nella storia dell’umanità dall’origine e per tutti i secoli, cioè fino all’atto
finale della Parusia. L’ossatura del testo è data dallo schema del simbolo cristologico, come nel paragrafo 70,
con in più la menzione della sessione alla destra del Padre e del giudizio.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 66

Egli è Gesù:
lo stratega,
il Signore,
colui che è risuscitato dai morti,
colui che è assiso alla destra del Padre.
Egli porta il Padre ed è portato dal Padre:
a lui la gloria e la potenza nei secoli. Amen.
Pace a colui che ha scritto
e a chi legge
e a coloro che amano il Signore in semplicità di cuore»42.
Da questi brani riportati si nota che, pur celebrando la morte di Cristo, essa è
comunque aperta alla risurrezione del Signore. In questo senso appaiono forti queste
espressioni: «Egli è l’Alfa e l’Omega», «Egli è il principio e la fine», «principio
inenarrabile e fine incomprensibile». Esse sono seguite da quelle finali che offrono una
cornice piuttosto ampia, dove il contenuto della celebrazione pasquale è la morte vittoriosa
che compie la storia della salvezza.
Ora, se si prende l’omelia dell’Anonimo Quartodecimano, essa ha un contenuto molto
simile, anche se appare molto meno polemica e verbosa, rispetto a quella di Melitone di
Sardi. Il testo si apre con un inno 43 a Cristo – Luce – Vita, del quale qualcuno ha cercato di
vedervi il rito del lucernario. In realtà, non ci sono indizi per dimostrare la validità di
questa ipotesi, dal momento che non ci sono testimonianze rituali del tempo. A questo inno
segue, poi, una prima parte sulla Pasqua giudaica, mentre la seconda parte è dedicata alla
Pasqua cristiana. Il tutto si chiude con un’esortazione di Cristo Pasqua.
Di questa omelia appare interessante leggere il n. 92 44, che parla della Passione di
Cristo:
«Questa era la Pasqua che Gesù desiderava patire per noi 45. Con la
Passione ci ha liberati dalla passione; con la morte ha vinto la morte e per
mezzo del cibo visibile ci ha elargito la sua vita immortale. Questo era il
desiderio salvifico di Gesù, questo il suo amore tutto spirituale: mostrare le
figure per figure e dare invece, al loro posto, ai discepoli il suo sacro Corpo:
“Prendete, mangiate: questo è il mio Corpo. Prendete, bevete: questo è il mio

42
Questo bell’augurio finale è dovuto alla mano del copista che scrisse il testo del papiro Bodmer all’inizio
del IV secolo.
43
L’inno dell’omelia quartodecimana, nella sua parte iniziale, recita così: «Ecco brillare già i sacri raggi
della luce di Cristo, albeggiano i puri lumi dello Spirito puro e si spalancano i tesori celesti della gloria e
della divinità. La notte immensa e nera è inghiottita; la densa tenebra in lui è stata dissipata e la triste
ombra di morte è stata ricoperta di tenebre. La vita si è diffusa su tutte le cose… Per questo un grande,
eterno, luminoso giorno, senza tramonto, si instaura tra noi tutti che crediamo in lui…». L’espressione “luce
di Cristo” è affine a quella con cui si apre ancora oggi la liturgia della veglia di Pasqua: Lumen Christi. Si
tratta di un genitivo epesegetico il cui senso esatto è: La luce, cioè Cristo. Naturalmente questo inno a Cristo-
Luce-Vita, posto all’inizio dell’omelia, costituisce un lontano antenato della laus cerei, cioè dell’Exultet
pasquale, di cui contiene già taluni temi ed espressioni caratteristici. Una tale celebrazione cultuale della luce
nacque come commento e come interpretazione simbolica del rito materiale dell’accensione dei lumi (il
lucernario), ereditato dalla liturgia sinagogale. La struttura strofica e simmetrica del brano è chiarissima nel
testo greco. La seconda ‘terzina’ è imperniata su tre concetti: notte – tenebra – morte, ai quali rispondono,
con parallelismo inverso, nella terzina successiva: vita – luce – aurora. Per conoscere il contenuto di tutto
l’inno, cfr. I più antichi testi pasquali della Chiesa, op, cit., 55-58.
44
I più antichi testi pasquali della Chiesa, op, cit. 78.
45
Nella frase è certamente contenuta un’allusione alla nota equazione: Pasqua = Passione. Infatti, il verbo
pativa contiene un’allusione alla Pasqua come passio. Il senso della frase rimanda alla Pasqua celebrata dal
popolo ebraico in Egitto, quando stava per essere liberato.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 67

Sangue, la nuova Alleanza, che sarà versato per molti in remissione dei
peccati.
Per questo non è tanto mangiare (la Pasqua) che desiderava, quanto
piuttosto patirla, onde liberare noi dalla passione incorsa mangiando»46.
Si nota in questo brano un rapporto tra la Passione e l’Eucaristia. Questo testo conclude
poi chiamando il Cristo con l’espressione greca koregos, che, nel greco classico, indicava
un’autorevole facoltoso cittadino che, per esempio, pagava una festa pubblica. Tale termine
si avvicina a liturgos, che indica colui che pagava una liturgia pubblica. Nel nostro ambito,
però, koregos significa che la Pasqua è una festa di tutto il mondo che Cristo paga con il
suo sangue. In una parola, si può dire che Cristo è il liturgo che prepara il servizio della
salvezza per l’umanità. Quindi, l’Anonimo Quartodecimano chiama la Pasqua la Mistica
Koreghia. In sostanza, Cristo prepara per tutti l’opera della salvezza.
Ora, in questi testi, in modo particolare l’omelia di Melitone di Sardi, diversi studiosi
hanno prestato molta attenzione. Al riguardo si può ricordare J. Pinell secondo il quale (e
secondo anche l’opinione del Prof. M. Augé), in questi testi, viene ad esserci una
dilatazione dell’idea pasquale, inizialmente legata all’espressione “immolazione
dell’agnello. In effetti, quando appare per la prima volta in questi documenti, l’espressione
“Mistero Pasquale” (o “Mistero della Pasqua”), essa giunge a ricoprire o a significare
l’intero piano salvifico di Dio. Quindi, per quanto riguarda queste due omelie antiche, tale
espressione equivale al concetto paolino di mistero di Cristo, nel quale si compie
pienamente l’umanità. Però, come si può ben vedere, nelle omelie quartodecimane viene
aggiunto un concetto in più, dal momento che non c’è solo il pensiero paolino, ma c’è
anche la celebrazione del rito in questo mistero, la quale è idea-concetto che non contiene
l’espressione paolina medesima (Mistero di Cristo).
La celebrazione pasquale commemora tutto il mistero di Cristo che culmina nell’evento
della Croce, anche se bisogna notare che la globalità del mistero celebrato a Pasqua,
conosce diverse accentuazioni nelle diverse Chiese dei tre o primi quattro secoli. Dunque,
come bisogna studiare l’antica dottrina della Pasqua? Come i Padri della Chiesa l’hanno
vissuta? Qual è il metodo da loro impiegato?
Certamente, in questo periodo non abbiamo ancora i Libri Liturgici, ma abbiamo
numerose omelie dei Padri, attraverso le quali si può avere una sintesi dottrinale che indica
quello che la Chiesa del III-IV secolo pensava della Pasqua cristiana. Al riguardo si
46
Abbiamo finalmente l’interpretazione della frase di Gesù: «Ho desiderato ardentemente mangiare con voi
questa Pasqua prima di patire» (Lc. 22, 15) che l’omileta ha annunciato a più riprese (§§ 12 e 22). Per capire
l’affermazione che Cristo «non desiderava mangiare la Pasqua, ma piuttosto patirla» bisogna tener presente
la controversia dibattuta nel corso del II secolo, tra i sostenitori della cronologia giovannea della passione e i
sostenitori della cronologia sinottica e che portò, pare, all’accesa disputa di Laodicea (vedi I più antichi testi
pasquali della Chiesa, op, cit., Appendice, 138). I quartodecimani tradizionali (Apollinare di Gerapoli) e altri
scrittori seguaci della cronologia giovannea (Ippolito di Roma) ponevano l’ultima cena di Gesù al 13 Nisan,
dal momento che egli muore nel pomeriggio del 14 (cfr. Gv. 18, 28), perciò essi erano costretti ad affermare
che la Pasqua del 14, nell’anno della sua morte, Cristo non la mangiò, ma la sostituì morendo quale vero
Agnello sulla croce. È quello che afferma, in nome dei quartodecimani, Apollinare di Gerapoli (vedi I più
antichi testi pasquali della Chiesa, op, cit. Appendice, p. 148) e, fuori dell’Asia Minore, IPPOLITO:
«Nell’anno in cui morì Cristo non mangiò la Pasqua legale, essendo egli stesso la Pasqua preannunciata e
realizzata al tempo stabilito» (Framm. in Chronicon paschale: PG, 92, 80) e ancora: «Quanto alla Pasqua
egli non la mangiò, ma la soffri. Non era quello, infatti (cioè il 13 Nisan), il tempo stabilito per mangiarla »
(Ibidem). CLEMENTE ALESSANDRINO difende lo stesso punto di vista: «Negli anni precedenti, il Signore,
celebrando la Pasqua, mangiò l’agnello pasquale immolato dai giudei. Ma dopo aver predicato il Vangelo,
essendo egli stesso la Pasqua, l’Agnello di Dio condotto come pecora al macello, spiegò ai discepoli il
mistero della prefigurazione e questo il 13… Fu dunque il giorno seguente che il nostro Signore morì,
essendo egli stesso la Pasqua immolata dai Giudei» (Framm. In Chronicon paschale: PG 92, 81). L’Ultima
Cena, in cui Gesù istituì l’Eucaristia, non fu quindi per questi seguaci di Giovanni una cena pasquale, o fu
una cena solo teologicamente, non ritualmente pasquale.
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possono considerare due studi: uno è quello di Cristina Morhmann, una grande latinista che
partecipò anche ai lavori per la Riforma liturgica. Essa studiò i diversi risvolti della
Pasqua, da un punto di vista filologico. C’è anche da ricordare Padre Raniero
Cantalamessa che, quando era più giovane, si era dedicato alla pubblicazione di un testo
dal titolo: La Pasqua della nostra salvezza. In esso ripercorre un po’ la letteratura
patristica. Ci sono anche delle monografie, come ad esempio, la Pasqua in Sant’Agostino e
la Pasqua in Sant’Ambrogio.
Guardando a questi due studiosi citati, si possono proporre ben quattro visioni della
Pasqua:
1. la Pasqua come Passione;
2. la Pasqua come Passaggio;
3. la Pasqua come Ricapitolazione (la Pasqua come nuova Creazione);
4. la Pasqua nella sua dimensione escatologica (Pasqua – Parusia).
Cercando di vedere il diverso materiale patristico, in merito alla prima visione, per noi
rimane comune, dopo Odo Casel, parlare di mistero pasquale della Chiesa Antica. Si
afferma, non senza un fondamento, che l’essenza del mistero pasquale è il mistero della
Passione – Morte – Risurrezione, cioè il mistero della morte e della vita o del passaggio
dalla morte alla vita, di Cristo e, poi, dei cristiani. In genere, si passa a dimostrare la
presenza di questi due poli della Pasqua, per dichiarare che si ha che fare con una Pasqua
teologicamente identica a quella della Chiesa del II-III-IV secolo. Infatti, si nota che in
uguale misura si parla della Pasqua della Passione e della Risurrezione del Signore.
Ora, questo modo di parlare dipende, in gran parte da Odo Casel, che – in numerose
polemiche, che ha sostenuto con alcuni autori, in merito alle sue teorie del mistero cristiano
– ha reso popolare la Pasqua con le due dimensioni sopra accennate. Al riguardo c’è una
piccola opera di quest’autore, presente in tedesco ed in francese. L’edizione più recente si
trova in francese ad opera della Collana Du cerf (Lex Orandi) – Paris dal titolo: La fête de
Pâque dans l’Eglise de Père. Questo studio classico si trova alla base della visione della
Pasqua come passaggio dalla morte alla vita. E’ un’opera meritoria perché ha salvato
l’unità di fondo e l’autentica fisionomia del mistero pasquale. L’insistenza, però, secondo
alcuni autori è troppo unilaterale sull’aspetto del mistero di morte e risurrezione di Cristo,
soprattutto in campo cattolico, per cui non ci sarebbe una piena corrispondenza alla realtà.
In altre parole, il mistero pasquale è visto, alle origini, come tensione di morte e di vita, di
passione e di risurrezione, sia dai Quartodecimani, sia dagli Occidentali. Ma la prospettiva,
o il modo con cui ciò è espresso o spiegato, risulta profondamente diverso sia nei
Quartodecimani, sia negli autori occidentali.
In effetti, la Pasqua Quartodecimana, celebrando la veglia nel giorno della morte di
Cristo, vede la risurrezione sul prolungamento della morte, come una specie di “corollario
naturale” della morte vittoriosa e come una manifestazione visibile di ciò che si era già
compiuto silenziosamente e realmente nella Croce e nella discesa di Cristo agli Inferi.
Non è difficile riconoscere in questa presentazione della Pasqua la concezione
giovannea che tende ad unificare – annullando il tempo tra la morte e la risurrezione – la
morte di Gesù alla morte gloriosa, perché tutta la Passione è un racconto in cui Gesù è il
regista ed il protagonista della sua vicenda personale. Ora, la Pasqua-Passione sarebbe la
prima espressione della Pasqua Antica, il cui contenuto centrale, nell’Asia Minore (II-III
secolo) e nell’area alessandrina, è proprio la morte e la Passione del Signore.
Dunque, la concezione della Pasqua, come Passione, è stata fondata, da questi antichi
autori (ad esempio, Melitone di Sardi e l’Anonimo Quartodecimano), su una falsa
etimologia. In altre parole, questi autori sostengono che Pascha viene dal termine greco
paschein che in latino rende con il verbo “passione”. In realtà, per questa tradizione, la
celebrazione della Pasqua è la celebrazione totale della nostra redenzione: essa, in primo
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luogo, è commemorativa della passione vittoriosa di Cristo. L’opera della salvezza è


narrata con completezza e con una certa linearità, anche se l’accento è posto sempre sulla
passione e sulla morte di Cristo. Allora, la celebrazione della Pasqua ha, come tipologia
fondamentale, l’immolazione dell’agnello pasquale. Questo fa comprendere il perché
nell’antica Pasqua Quartodecimana, si leggeva il venerando testo di Es 12, dove sono
contenute le norme per gli Ebrei che dovevano immolare l’agnello pasquale.
La risurrezione è vista come corollario naturale della morte vittoriosa, il cui rito
centrale rimane l’Eucaristia in cui si annunzia la morte del Signore finché egli venga. In
questo modo, si può constatare che la teologia della Pasqua Antica è molto più ampia di
quella della Domenica, che oggi noi chiamiamo Pasqua settimanale.
Allora, si può dire che nel II secolo, la Pasqua come Passione era vista come il
momento culminante della Storia della Salvezza, celebrata nell’Eucaristia e partecipata
dalla Comunità. Invece, la Domenica, nel II secolo era ancora legata al tema di Cristo
risorto, anche se più tardi contemplerà la risurrezione come momento culminante della
medesima storia di salvezza. In questo senso, potremo vedere la Pasqua annuale e la
Pasqua settimanale come due modi di celebrare tutto l’evento salvifico.
All’inizio del III secolo avviene un altro passaggio: nella scuola alessandrina – quindi
Clemente Alessandrino e poi Origene – ci si renderà conto che la Pasqua non significa
“patire”, ma vuol dire “passaggio” (di£basij  diábasis). A tale riguardo c’è un
frammento di Origene sulla Pasqua47 che sottolinea il fatto che il popolo uscì dall’Egitto,
tanto da chiamare la Pasqua come “pesah”, cioè passaggio.
Clemente Alessandrino48 ricava da questa nuova etimologia pasquale delle conseguenze
molto importanti e di tipo morale: la Pasqua è il passaggio da ogni passione e da ogni cosa
sensibile per passare ad una vita spirituale nuova. Origene spiritualizza ed universalizza la
Pasqua come “passaggio”, secondo il quale la Chiesa, ed ogni singolo credente, celebra
incessante nei sacramenti, in modo particolare nel Battesimo e nell’Eucaristia. Lo stesso
Battesimo indica il passaggio dalla morte alla vita e dalla schiavitù alla libertà.
San Girolamo (siamo nel IV secolo), come tanti altri autori, indica anche lui la Pasqua
come passaggio, ma pone in rilievo il fatto secondo cui, in base all’Esodo, tale passaggio è
innanzitutto il passaggio del Signore. Sant’Agostino accetta questa correzione di senso e fa
la sintesi delle due visioni della Pasqua, come “Passione” e come “Passaggio”. Infatti, nel
commentare il Salmo 120,6 dice:
«Persone più attente e più dotte49 hanno scoperto che Pasqua è una parola
ebraica che non significa “Passione”, ma “passaggio”. Infatti, tramite la

47
Dice Origine nel frammento dell’opera sulla Pasqua: «La maggior parte dei fratelli, per non dire tutti,
pensano che la Pasqua sia chiamata con questo nome a causa della passione del Salvatore. Ma in realtà,
presso gli Ebrei la sopraddetta festa non si chiama pascha, ma phas: sono queste tre lettere di phas, più lo
spirito aspro che presso di loro è più marcato, che costituiscono il nome della festa, [nome] che tradotto
significa passaggio. Poiché in questa festa il popolo uscì dall’Egitto, giustamente essa è chiamata phas, cioè
passaggio. Non essendo possibile nella lingua greca pronunciare il nome stesso alla maniera ebraica,
perché i Greci non riuscivano a pronunciare phas, sprovvisti come sono della forte aspirata degli Ebrei, il
nome fu ellenizzato. Così nei profeti è scritto phasek che, ellenizzato più completamente, divenne pascha. Se
dunque qualcuno dei nostri trovandosi in compagnia degli Ebrei dicesse che la Pasqua si chiama così a
causa della passione del Salvatore si farebbe ridere dietro da essi come uno che ignora del tutto il significato
del termine». Come si può ben vedere, già al tempo di Origene, poteva essere diffusa la credenza che i LXX
avessero tradotto pesah con p£sca, in previsione della passione di Cristo (cfr. scholia a Exodus 12,11 in
Field, Hexapla 1, 100). Forse Origene allude alla tradizione asiatica.
48
Clemente Alessandrino difende la cronologia giovannea della passione e cerca, però, di accordare con essa
quella sinottica, spiegando l’Ultima Cena narrata da essi come un pasto pre-pasquale senza l’agnello rituale.
La sua tesi è ripresa da Eusebio, pasch. 9-10. In Clemente, tra l’altro, è ben presente l’idea di Pasqua come
passaggio dal peccato e dalla morte alla vita e alla virtù cristiana.
49
Agostino allude a San Girolamo. Cfr. R. CANTALAMESSA, Aevum 44 (1070) 232ss.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 70

passione, il Signore “passò” dalla morte alla vita, aprendo la via a noi che
crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita»50.
Quindi, Sant’Agostino continua a parla della Pasqua come morte, ma di una morte che
è passaggio verso la risurrezione. Ora, Sant’Agostino, come Origene, afferma che la
Pasqua non è solo una realtà della veglia pasquale, ma si realizza nella vita sacramentale,
soprattutto nell’Eucaristia. Tuttavia ciò non compromette il significato particolare che ha la
solennità annuale della Pasqua. Infatti, Agostino solleva la seguente questione: se in ogni
Eucaristia noi celebriamo la Pasqua, allora che cosa ha di particolare l’Eucaristia della
Veglia Pasquale, la Pasqua Annuale? Al riguardo, nel Sermo Wilmart 9,2 dice:
«Perciò, o carissimi, la meditazione ininterrotta di tutte queste cose
costituisca per noi una celebrazione quotidiana della Pasqua. Non dobbiamo
infatti ritenere questi giorni [della Pasqua] così fuori dell’ordinario da
trascurare la memoria della passione e della risurrezione che facciamo quando
ci cibiamo ogni giorno del suo corpo e del suo sangue 51. Tuttavia, la presente
solennità ha il potere di rievocare alla mente con più chiarezza, di eccitare
maggior fervore e di rallegrare più intensamente, per il fatto che, ritornando a
distanza di un anno, ci rappresenta per così dire visivamente il ricordo
dell’evento».
Qui è ancora impreciso il modo di difendere o di spiegare la particolarità della Pasqua,
in rapporto all’Eucaristia quotidiana. Ora, questi sviluppi che abbiamo visto, tendono a
spostare il momento tipologico dall’agnello immolato al passaggio del Mar Rosso. Per
questa ragione i Padri si concentreranno ai capitoli 13 e 14 del Libro dell’Esodo, dove si
narra, appunto, il passaggio del Mar Rosso. Conseguentemente, non è solo l’Eucaristia,
come immolazione dell’agnello che è Cristo, ma è anche il Battesimo, come passaggio del
cristiano, attraverso acque, verso la libertà.
Cantalamessa nel suo libro, La Pasqua della nostra salvezza, cerca di spiegare il perché
di questa specie di processo mentale che porterà ad una nuova visione della Pasqua. Se la
Pasqua antica aveva una visione profondamente escatologica, come si può notare nella
stessa Epistula Apostolorum (v. il concetto del ritorno di Cristo nella veglia), con il nuovo
concetto di Pasqua si sottolinea di più il mistero dell’Incarnazione, a partire dalla seconda
metà del II secolo. Tutto questo porterà a vedere la Pasqua in un modo diverso. Ciò pone la
domanda: perché questo spostamento da una visione escatologica ad una visione più
realistica della Pasqua e del mistero dell’Incarnazione? Ciò avviene perché a quel tempo
era viva la controversia suscitata dal Docetismo, cioè una dottrina che negava la realtà del
corpo di Cristo. Ciò comporterà il riaffermare la dimensione storica di Cristo e sostenere la
stessa umanità del Figlio di Dio. Così il paradosso di una morte che diventa vita, è il
prolungamento coerente del paradosso di un uomo che è contemporaneamente Dio. In
sostanza, la morte è stata uccisa perché colui, che come uomo l’ha subita, come Dio l’ha
vinta. C’è qui un richiamo alla dottrina di Melitone di Sardi che nel paragrafo 66 della sua
omelia afferma:

50
Il concetto di pascha-transitus, come si può ben vedere, ha un contenuto storico quando è applicato a Cristo
ed un contenuto mistico e sacramentale quando è applicato all’uomo. Rarissima è l’eccezione antropologica
filoniana in Agostino. L’unico esempio che si può citare, secondo anche il parere dello stesso P. R.
Cantalamessa, è quello dell’Epistola 55, 16, 30, dove pascha equivale al «transitus ab ista vita».
51
Anche per Agostino la Pasqua della Chiesa si realizza essenzialmente nell’Eucaristia. Tuttavia, a differenza
dei Greci, ciò non compromette il significato speciale della celebrazione annuale.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 71

«Egli venne dal cielo sulla terra in favore di colui che soffriva; rivestì 52
questo stesso nel seno della Vergine e apparve come uomo; prese su di sé le
sofferenze di colui che soffriva mediante il suo corpo capace di soffrire, ma
mediante il suo Spirito, non soggetto alla morte, uccise la morte che uccideva
l’uomo»53.
Nel sottofondo di questa visione della Pasqua, ci sarebbe anche una cristologia che si
sviluppa in questo periodo. La risurrezione si inserisce proprio in questo contesto: essa
appare come rivelazione del carattere divino della morte di Cristo, ucciso come agnello e
risorto come Dio.
In merito alla visione della Pasqua come ricapitolazione, è bene fare una premessa:
nella pasqua liturgica d’Israele, il ricordo dell’esodo – l’evento storico che ricordava la
liberazione dalla schiavitù d’Egitto – pian piano si dilatò, fino ad abbracciare anche
l’evento della creazione, nel senso che la prima notte, in cui Jahvè si manifestò sul mondo
per crearlo, costituisce la figura – secondo alcuni racconti midrashici – della notte in cui
Jahvè scese per liberare Israele dalla schiavitù dell’Egitto. Quindi, la Pasqua ebraica è vista
come nuova creazione.
Un processo analogo lo troviamo nella Pasqua cristiana. La concezione della Pasqua
come ricapitolazione, che ritroviamo in San Paolo, in modo particolare nella Lettera agli
Efesini, prende forza dal concetto di “dare un capo”, per caratterizzare l’inizio e la fine di
tutto l’Universo, dando senso a tutta la storia dell’uomo e del mondo. Questo senso lo dà la
morte di Cristo.
Tutta la lettera agli Efesini sviluppa l’idea di Cristo che rigenera ed unisce sotto la sua
autorità il mondo creato. Allora, il concetto di ricapitolazione intende dare una certa unità
del disegno salvifico. Non c’è solo la salvezza, ma c’è anche la creazione: tutto è inserito
in una specie di economia e di disegno salvifico unitario.

52
Come si vede da questo passo e dal § 47, il verbo rivestire o indossare (šndÚsqai) è il termine con cui
Melitone ama designare l’incarnazione. Per un certo tempo, prima che si affermasse il verbo incarnarsi
(sarkoàsqai), questo fu il termine prediletto per designare l’incarnazione. Lo si legge anche nella seconda
omelia (§ 90) e in seguito in Clemente Al., Ippolito e Tertulliano. La Scrittura aveva preparato quest’uso in
tutti quei testi in cui ‘rivestire’ era detto in senso metaforico e soprattutto in S. Paolo dove era detto a
proposito del cristiano che nel battesimo «riveste l’uomo nuovo» che è Cristo (Ef 4,24). Ma c’è anche una
componente non biblica in quest’uso del termine ‘rivestire’. Esso era stato usato dai pitagorici per indicare la
metempsicosi, cioè l’assunzione d’un nuovo corpo da parte dell’anima (ARISTOTELE, De anima A 3, 407 b,
20) e da Platone per designare l’incarnazione dell’anima in un corpo umano, in un accezione, quindi, che
richiamava da vicino quella cristiana. Tuttavia l’uso di ‘rivestire l’uomo per indicare l’incarnazione non
comporta alcuna sfumatura di dualismo o di docetismo. Esso significa un vero ‘farsi’ uomo come in Gv 1,14
e non «prendere le sembianze esterne dell’uomo». Lo dimostra il fatto che sono proprio gli scrittori
antignostici a usarlo per primi e con più frequenza.
53
L’intero § 66 contiene in sintesi tutta la dottrina cristologica di Melitone. Si noti l’affermazione della reale
incarnazione (rivestire l’uomo) e delle due nature designate — sulla scia di Rom. 1, 3-4 — con il binomio
corpo-Spirito. Chiaramente rivolta contro i docetisti è l’insistenza sulla nascita reale dal seno di Maria.
Valentino e Apelle infatti, pur riconoscendo a Cristo un certo corpo pneumatico, negavano che esso fosse
stato assunto nel seno e dalla carne di Maria, affermando che era passato solo attraverso Maria, come
attraverso un canale, proveniente da materia celeste (cfr. TERTULLIANO, De carne Christi, 15 ss.; Adv.
Valentinianos, 27,1). Anche TH. HALTON (Valentinian Echoes in Melito, Peri Pascha?: J. Theol. St., N. S.,
20 [1969], pp. 535-538), basandosi su alcuni Estratti di Teodoto (59, 1; 45, 2; 61, 7), scorge nel presente testo
un’intenzione antivalentiniana. Altro tratto rivolto contro i docetisti è l’affermazione che il corpo del
Salvatore era necessario per redimere il corpo dell’uomo, secondo il noto principio che viene elaborandosi in
questo periodo e che troverà in Origene la sua formulazione definitiva: «l’uomo non sarebbe salvato intero
(cioè anima e corpo) se Cristo non avesse assunto l’uomo intero» (ORIGENE, Dialogo con Eraclide, 7). E’ ciò
che si legge anche nell’omelia dell’Anonimo (§§ 89-90).
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 72

Questo tema lo si ritrova nelle catechesi pasquali del IV e del V secolo. Ad esempio, si
trova un testo del V secolo di Gaudenzio di Brescia dal titolo Trattati sull’Esodo, dove si
legge:
«3. Il Figlio di Dio, per mezzo del quale tutte le cose furono fatte, risolleva
con la propria risurrezione il mondo prostrato nello stesso giorno e nella
stessa stagione in cui egli stesso all’inizio lo creò dal nulla. Così tutto è
restaurato in Cristo, le cose del cielo e quelle della terra, perché, come disse
l’apostolo, tutto è da lui, per mezzo di lui e in lui; a lui la gloria nei secoli…
10. Infatti, egli morì per l’uomo il sesto giorno [della settimana], lo stesso in
cui lo aveva creato; e risorse la domenica, [il giorno] che nelle Scritture è chia-
mato primo della settimana, [quello cioè] in cui il mondo ebbe il suo inizio.
Così egli che il “primo giorno” aveva creato il cielo e la terra, dalla quale poi
plasmò l’uomo, parimenti in un altro « primo giorno » restaurò tutto l’uomo
per il quale creò l’universo. Questo in breve sul significato della Pasqua… 54
13. L’esodo beato e perfetto è quello che si realizza per noi quando il vero
Mosè, uscito dall’acqua del Giordano, il nostro Signore Gesù Cristo, Dio per
natura e non per designazione, con la verga della sua croce ci libera, attraverso
l’acqua del battesimo, dalla schiavitù del Faraone che è il diavolo e dall’Egitto
di tutte le sue tenebre, chiamandoci dalle tenebre dell’agire mondano alle opere
della luce»55.
San Paolo parla del Battesimo come nuova Creazione, per cui il contesto pasquale
corrisponde al Battesimo come rigenerazione. Questo ultimo tema ci potrebbe ad un altro
argomento: il ritorno al paradiso che è comune fra i Padri della Chiesa. Esso ha avuto la
sua inaugurazione nel momento in cui si compiva sulla Croce il mistero pasquale. Ad
esempio, già nell’Omelia dell’Anonimo Quartodecimano appare questa idea, quando Gesù
rivolge al buon ladrone: «In verità, oggi sarai con me in Paradiso».
Sempre nell’Omelia dell’Anonimo Quartodecimano, l’idea della Pasqua come ritorno
alle origini, costituisce la trama di tutta la catechesi, pur rimanendo nella visione della
Pasqua come passione. L’albero della croce è visto come l’albero del Paradiso.
Ciò dimostra lo sviluppo di una simbologia che cerca, nel momento della passione-
morte di Cristo, gli elementi che rappresentano la stessa passione come ritorno al paradiso.
La stessa mano di Cristo distesa sul legno si contrappone al gesto ribelle della mano che
all’inizio si protese verso il frutto proibito. In questo senso, c’è tutta una lettura allegorica
di Cristo, per cui morendo sulla Croce, riapre le porte del Paradiso.
Si nota, quindi, che a partire dal IV secolo, si assiste ad un’evoluzione, tanto che la
Pasqua significherà semplicemente, Domenica di risurrezione. Questo fatto lo si vede già
nelle fonti romane antiche, secondo le quali, la domenica inizierà ad esserci in un clima
gioioso e di festa, dal momento che la Chiesa, dopo la pace costantiniana del 313, salirà
finalmente dalle Catacombe per celebrare liberamente la propria fede cristiana.
In questa ottica, si comprende il perché la Chiesa di quel tempo celebra la Pasqua
soprattutto come vittoria e risurrezione. A questo nuovo clima si aggiungevano le esigenze
della lotta ariana che portavano a concentrare l’attenzione sulla resurrezione di Cristo, vista
come prova apologetica della sua divinità. Se gli ariani negavano la divinità di Cristo, i
cristiani sottolineavano la risurrezione per dimostrare la divinità del Kirios.

54
La tradizione della Pasqua-ricapitolazione della settimana creatrice è inaugurata tra i latini da
Ambrosiaster (quaest. test. 55), fusa con la tradizione della morte di Cristo il 25 marzo: cfr. B. LOI, EL 85
(1971) 8ss.
55
GAUDENZIO DI BRESCIA, Trattati sull’Esodo 1, 3.10.13 (GAUDENTIUS BRIXIENSIS, Tractatus in Exodum
[400 ca.], 1, 3.10.13, ed. A. Glück CSEL 68, Wien-Leipzig 1936, 19-21).
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 73

In questo periodo si vede, tra l’altro, come già in alcuni Padri le omelie non portano più
il titolo sulla Pasqua, ma portano la dizione: Omelie sulla Risurrezione. Questo permetterà,
poi, anche una maggiore distinzione delle diverse fasi del triduo pasquale, secondo questo
nuovo passaggio.
Finalmente la Pasqua assume una dimensione pienamente escatologica, perché inizia
ad essere vista come Parusia.
Già prima è stato detto che nella Pasqua del II secolo (v. l’Epistola degli Apostoli),
l’attesa escatologica costituiva un elemento importante della Pasqua Antica. Ma questo
elemento lo ritroviamo nella Pasqua giudaica.
Per gli Ebrei, già al tempo di Gesù, veniva a consolidarsi una tradizione che legava, in
modo cronologico, la venuta del Messia in una festa di Pasqua, che lasciava intravedere
una visione escatologica e messianica. Così, alcuni autori cristiani, parlarono della Parusia
della notte di Pasqua: alcuni di questi affermano che, quando appare l’alba della domenica,
è sicuro che Cristo non dorme, per cui si può celebrare l’Eucaristia.
San Girolamo riprende questa tradizione, definendola apostolica, ed afferma che i
cristiani celebrano la veglia pasquale nell’attesa della venuta di Cristo. A tale riguardo, nel
Commento al Vangelo di Matteo, 4, 25, 6 si legge:
«A mezzanotte si alzò un clamore: Ecco che viene lo Sposo, uscitegli
incontro. All’improvviso infatti, quasi nel cuore della notte, quando tutti si
sentono sicuri e più profondo è il sonno, preceduto dal clamore angelico e dal
suono delle schiere, si udrà la venuta di Cristo. Diciamo qualcosa che può
essere utile al lettore. Una tradizione giudaica dice che Cristo verrà a
mezzanotte, come al tempo dell’Egitto, quando si celebrò la Pasqua e venne
l’angelo sterminatore e il Signore passò sopra le case e gli stipiti delle nostre
fronti furono consacrati con il sangue. Di qui, credo, quella tradizione apo-
stolica conservatasi fino ad oggi, secondo cui durante la veglia pasquale non è
lecito congedare le folle prima della mezzanotte, quando attendono ancora la
venuta di Cristo, mentre passato quel momento tutti celebrano il giorno di
festa in una ritrovata sicurezza».
Ora, questa dimensione escatologica, per quanto riguarda le due omelie
quartodecimane, si richiama alla caratteristica di una Pasqua commemorativa e
soteriologica, in cui la Comunità cristiana ricorda l’evento salvifico e della morte, nonché
della Risurrezione, sempre in un clima di tensione escatologica.
Proprio la veglia pasquale, nel suo intrinseco significato simbolico, garantisce, in un
certo senso, il mantenimento di questo equilibrio tra commemorazione ed attesa. Anche qui
Sant’Agostino riprende questa idea, vedendo nella Veglia Pasquale un segno o figura della
continua attesa della definitiva venuta del Signore. In altre parole, Sant’Agostino non
colloca la venuta di Cristo nel contesto necessariamente della Veglia pasquale, ma
contempla quest’ultima come segno e figura di questa attesa. A tale riguardo, possiamo
citare un Sermone di Agostino, dove si legge:
«Noi non aspettiamo questa notte il Signore, quasi che egli debba ancora
risorgere, ma piuttosto rinnoviamo con solennità annuale il ricordo della sua
risurrezione. In questa celebrazione, tuttavia, il passato è richiamato da noi
alla memoria in modo tale che questo nostro vegliare sia figura della realtà che
viviamo nella fede. Tutto questo tempo, infatti, nel quale il tempo presente
trascorre a guisa di notte, la Chiesa veglia con gli occhi della fede intenti alle
Scritture (le letture della Veglia Pasquale) come fiaccole che brillano
nell’oscurità, fino al giorno in cui il Signore verrà»56.
56
AGOSTINO, Sermone Wilmart 4,3 (ed. G. Morin, Miscellanea Augustiniana 1, Romae 1930, 685).
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 74

Agostino ha raggiunto qui un raro equilibrio tra i tre elementi essenziali: ricordo,
presenza e attesa della celebrazione pasquale. Più chiaro ancora è un suo imitatore che
scrive:
«La Pasqua che noi celebriamo rende presente il passato e si protende
verso il futuro della risurrezione»57.
Certamente è interessante la preoccupazione di riaffermare il «già accaduto», cioè la
storia, come fondamento sia della liturgia che dell’escatologia. In questo senso, si possono
cogliere le parole di Agostino in un altro Sermone:
«Nessuno speri che egli stia per venire, quasi ignorando che è già
venuto»58.
Ritornando al primo Sermone citato, Agostino parla di tutta la vita cristiana, come
attesa prefigurata nella veglia pasquale nella quale, quello che i cristiani celebrano, si
realizza in tutta la vita in attesa del ritorno del Signore.

Breve Sintesi Conclusiva.


Sviluppo di tutto il ciclo pasquale ed un breve cenno al
Natale.
Questa dottrina, sviluppata mediante queste catechesi dei Padri della Chiesa, passerà
poi ai testi liturgici che sottolineeranno l’uno o l’altro aspetto, in riferimento alle diverse
tradizioni liturgiche che si svilupperanno nel tempo.
Arrivati a questo punto, si è potuto vedere come questo passaggio o evoluzione della
Pasqua abbia potuto originare un movimento attraverso il quale definire meglio il ciclo
pasquale che assumerà, in base alle diverse tradizioni, caratteristiche proprie. Nel nostro
ambito si tratta di interpretare quello che, alla fine del IV secolo (seconda metà del IV
secolo), sono le testimonianze degli stessi Padri.
Effettivamente, in questo periodo iniziò a prevalere una visione frammentata degli
eventi pasquali che tende a celebrare l’evento di Cristo-Pasqua, non in una sola Veglia, ma
tende a far memoria dei diversi momenti in diverse celebrazioni.
Questo avviene, secondo svariate interpretazioni, ma fondamental-mente resta valido
quello che è stato già detto in merito al III secolo, quando nella lotta contro il Docetismo ci
fu un’attenzione sempre più forte alla dimensione storica. Si tratta, dunque, di vedere la
storia nei suoi diversi momenti. Non c’è solo la visione del Cristo globale, ma anche dei
diversi momenti del suo mistero.
Dunque, allo stesso tempo, dopo la pace costantiniana, necessariamente nella sua
Liturgia pubblica, la Chiesa sentì il bisogno di sviluppare il mistero di Cristo morto e
risorto. Alcuni parlano di un processo in cui da una visione escatologica della Pasqua
antica, si è passati ad una visione storica, tanto che la Chiesa stessa raggiunge una
coscienza storica, nel corso del IV secolo. Su questo punto non tutti gli studiosi non sono
d’accordo.
Non manca, però, la prospettiva escatologica verso l’attesa del ritorno di Cristo. In
questo senso, allora, è meglio non parlare propriamente di processo storico, ma si può
parlare di una frammentazione del mistero della redenzione, in una serie di
commemorazioni dei diversi momenti storici distinti, in relazione al mistero.

57
PS. AUGUSTINUS, Sermo Caillau – St. Yves 1, App. 3 [PLS 2, 1020].
58
AUGUSTINUS, Sermo Caillau – St. Yves 1, 38 [PLS 2, 986].
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Questo processo, come si vedrà, al principio, nella Liturgia Romana, non perde la sua
visione unitaria, per cui se anche il mistero pasquale viene celebrato in diversi momenti e
nelle diverse espressioni, conserva la visione unitaria di tutto il mistero della salvezza.
Detto questo, il processo di espansione della Pasqua, si svolge per cerchi concentrici. Il
ciclo pasquale nasce dalla Veglia Pasquale, che prevederà, oltre la struttura iniziale
(digiuno, veglia e celebrazione dell’Eucaristia), l’espansione della cinquantina pasquale,
come secondo momento celebrativo. Naturalmente, poi, dalla veglia pasquale si passerà ad
un triduo pasquale che scandirà i principali momenti della Passione, Morte e Risurrezione
di Cristo. Di esso alcune tracce sono già presenti in Sant’Agostino e Sant’Ambrogio.
Inoltre, man mano che si formerà la liturgia della Pasqua, apparirà anche la Settimana
Santa (detta anche “Maggiore”) che ripercorrerà, giorno per giorno, le tappe anteriori alla
morte di Cristo.
Ora, un documento molto importante per capire questi sviluppi è l’Itinerarium Egeriae,
di cui si già parlato, nell’ambito di questo corso della Teologia dell’Anno Liturgico. Si
tratta di un diario di viaggio di una pellegrina che si reca a Gerusalemme, intorno al 381.
Essa racconta in una lunga lettera lo svolgersi della celebrazione della Pasqua nella quale si
trova già tutto il ciclo pasquale, molto ben organizzato.
L’Itinerarium Egeriae, risulta il primo ed il più antico documento recante questa
testimonianza, dove si trova, oltre alla veglia pasquale con il triduo pasquale e la
cinquantina pasquale, anche la Quaresima. Dunque, se al principio c’era un digiuno che
precedeva la veglia e c’era un’Eucaristia che concludeva tutta la celebrazione pasquale,
ora, il digiuno si prolunga divenendo quaresimale.
Tutto questo sviluppo va accompagnato dalla lettura della Parola di Dio, sia per quanto
riguarda l’AT, sia il NT. Infatti, la Pasqua non rimane semplicemente un ricordo storico,
ma diventa anche meditazione della Parola di Dio, lungo tutto il ciclo pasquale.
Naturalmente la prima testimonianza della Quaresima, non si trova nella Liturgia
Romana, ma è presente in una lettera festale di Sant’Atanasio, intorno al 334. Le lettere
festali sono le lettere che i Patriarchi o Arcivescovi di Alessandria, che prima, ma
soprattutto dopo il Concilio di Nicea (325), inviavano a tutte le Chiese indicando il giorno
per celebrare la Pasqua annuale.
Già lo stesso Concilio di Nicea aveva determinato l’unità della data della Pasqua, non
contro i Quartodecimani, ma per il fatto che alcuni seguivano un computo diverso dagli
altri. Tutti celebravano di domenica, ma non tutti celebravano nella stessa domenica la
Pasqua annuale. Come in Alessandria c’era una scuola di astrologi, capaci di indicare la
luna nelle sue fasi, fu deciso che lo stesso vescovo di Alessandria comunicasse alle Chiese
la data della Pasqua.
Ritornando al nostro contesto, questa lettera festale di Sant’Atanasio, insieme ad altre
lettere festali, rappresenta una riflessione sviluppando una catechesi sulla Pasqua. Si tratta
di documenti che, nella prima metà del IV secolo, offrono una sintesi della visione del
mistero della Pasqua, secondo la Chiesa di Alessandria.
Ancora, c’è un ulteriore sviluppo della cinquantina pasquale: si tratta di sottolineare
successivamente l’ultimo giorno della cinquantina che diventerà, poi, la Pentecoste, come
giorno specifico e non più facente parte della cinquantina.
Oltre a ciò, ci sarà anche la distinzione e la sottolineatura del quarantesimo giorno,
come giorno dell’Ascensione del Signore. Se si prende, ad esempio, l’Itinerarium Egeriae,
si nota la distinzione del cinquantesimo 59 giorno, anche se non è ancora distinto il
quarantesimo giorno (l’Ascensione), nel quale si trova una celebrazione di un altro tipo.
Nella Bibbia, il giorno di Pentecoste significa un preciso giorno, come anche la stessa

59
Egeria dice che oltre a celebrare la venuta dello Spirito, si sale al monte degli Ulivi, dove – secondo la
tradizione Gesù si congedò dai suoi, prima di salire alla destra del Padre. In tale circostanza, si legge il brano
dell’Ascensione. Per Egeria, quindi, l’Ascensione stessa non è ancora collocata nel quarantesimo giorno.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 76

tradizione rabbinica afferma. Invece, nei testi patristici del II-III secolo ed inizio del IV,
Pentecoste indica i cinquanta giorni, come un’unica solennità. Solo più si perderà la
visione unitaria della cinquantina pasquale.
Questo processo sarà già presente nei Sacramentari romani. C’è da aggiungere che,
verso la fine del IV secolo, apparirà la festa del Natale a Roma e quella dell’Epifania in
Oriente che si interscambieranno successivamente tra l’Occidente e l’Oriente medesimo.
Più tardi apparirà, addirittura, un periodo di preparazione al Natale, che prenderà il nome
di Avvento, ed un piccolo prolungamento, tra il Natale e l’Epifania. Se al principio, questa
festa del Natale era vista semplicemente come l’anniversario della nascita di Gesù (v. il
Santorale), quando ancora non era festa rientrante nel contesto della Redenzione, San
Leone Magno darà già, nel V secolo, una dimensione soteriologica al Natale stesso, tanto
da avere una visione di questa festa.

______Note Personali di
Studio_______________________________________________

29.04.2002 – 9a Lezione.
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 77

La Liturgia Romana.

Nella precedente lezione era stata conclusa la Pasqua nei primi quattro secoli. Seguono,
adesso, due capitoli di carattere storico che sposta la nostra attenzione verso la Liturgia
Romana, cioè dal IV al XVI secolo, nel quale ci sarà uno sviluppo delle celebrazioni
pasquali. Si parlerà, successivamente, della celebrazione della Pasqua dopo il Concilio
Vaticano II.
Dividendo in due grandi blocchi la storia, si intende dare alla prima parte gli elementi
per poi valutare la Riforma liturgica promossa dal Vaticano II, comprendendo appieno i
motivi di certe scelte nella Riforma di Pio XII (1956) e della Riforma conciliare
successiva. Un riferimento bibliografico è il Manuale di Scientia Liturgica, già citato
all’inizio del Corso.
Prima di entrare nella descrizione dell’evolversi delle celebrazioni pasquali nella
Liturgia Romana, a partire dalle prime testimonianze, sino alla riforma di Trento, è bene
fare una piccola introduzione di metodo. Si tratta di considerare l’importanza della storia
dei Libri Liturgici, perché dà la struttura scientifica al ricercatore per collocare ogni evento
in un contesto preciso. Spiegando la storia, ci saranno dei riferimenti ai Libri liturgici delle
diverse epoche.
In sintesi, si può ricordare la storia secondo tre tappe fondamentali:
1. epoca precedente ai libri liturgici veri e propri, a partire dal IV secolo (è l’epoca
dei Sacramentari). In essa ci sono elementi di altre liturgie e non solo di quella
romana. Un esempio concreto è l’Itinerarium ad Egeriae (381), che rimane una
testimonianza significativa in merito alla Liturgia di Gerusalemme. Oltre a questo
documento ce ne sono altri che manifestano un’attenzione sempre più crescente ai
diversi episodi dell’unico evento salvifico. Quello che è stato visto nel II-III secolo,
quando il Mistero pasquale era globalmente considerato e celebrato, avrà uno
sviluppo di frammentazione, di crescente storicizzazione.
2. Questa tendenza si concretizzerà proprio con i libri liturgici romani, cioè i
Sacramentari del VI-VII secolo. E’ la fase dei libri liturgici. A cavallo tra queste
due fasi rimane importante la testimonianza di San Leone Magno, morto nel 461
(metà secolo quinto);
3. Ci sarà un’emigrazione della Liturgia Romana verso i Paesi oltre le Alpi (i Paesi
germanici, oltre la Gallia), come fenomeno spontaneo. In questa fase si può
collocare il Pontificato di San Gregorio Magno, all’inizio del secolo VII. E’ un
momento storico nel quale il Papato gode di grande prestigio e la Liturgia Romana
viene celebrata da pellegrini d’oltrape, i quali attraverso i cosiddetti libelli scrivono
una delle pagine più significative della storia della Liturgia. Si tratta, infatti, di
appunti e di note che descrivono lo svolgersi delle celebrazioni liturgiche. Essi
formeranno le basi dei futuri Libri Liturgici come i Pontificali, i Rituali ed altri testi
ancora.
C’è da dire che questa Liturgia Romana ritornerà poi a Roma in un momento di crisi,
quando i libri liturgici non verranno più copiati. Essa porterà con sé elementi non romani
ereditati in quelle regioni dove precedentemente aveva emigrato. Il documento, che
rappresenta questa simbiosi tra elementi romani e quelli gallicano-germanici, a cavallo tra
il primo ed il secondo millennio, è il famoso Pontificale Romano Germanico.
Un’altra tappa, oltre a queste tre descritte, riguarda il periodo che precede la Riforma di
Trento. E’ un momento storico importante dal momento che in esso si consuma un’altra
riforma, cioè la codificazione dei Libri Liturgici della Curia Romana, che sarà poi ereditata
dallo stesso concilio tridentino. Essa è ricordata come riforma della Curia Romana. I papi
del XII e XIII secolo, vollero sintetizzare in un solo libro tutti i libri che servivano non solo
95029 – La Teologia dell’Anno Liturgico. Prof. Matias Augé. 78

per celebrare la Messa, ma anche l’Ufficio Divino. In effetti, si tratta del Messale, seguito
poi dalla comparsa del Breviario come testo distinto.
Se nel secolo VII si consolida una storia frammentata dei diversi momenti della Storia
della Salvezza, successivamente, in modo graduale, non solo ci sarà uno sviluppo di questa
frammentazione, ma ci sarà anche la perdita della nozione di rapporto tra la Pasqua e la
cinquantina pasquale, nonché il senso di triduo pasquale (non più come Triduo della
Pasqua, ma come Triduo della morte di Gesù).
Riprendendo il nostro argomento e seguendo il metodo storico genetico, ci
richiamiamo alla Veglia Pasquale – Triduo Sacro – Settimana Santa, che è il primo nucleo
che troviamo dell’Anno Liturgico. Alla fine del IV secolo, due autori, che non
appartengono alla Liturgia Romana, ma sono le prime testimonianze nel mondo latino,
parlano del Triduo Sacro. Si tratta di Sant’Ambrogio che nell’anno 386, in una lettera ai
vescovi dell’Emilia, in merito alla celebrazione della Pasqua, usa l’espressione “Triduum
Sacruum”, per indicare i giorni nei quali Cristo ha sofferto, ha riposato nel Sepolcro ed è
risorto. L’altro autore è Sant’Agostino che, qualche anno più tardi, in una lettera, dove
risponde ad alcune domande fattegli da un tale di nome Ianuarius, usa un’espressione
simile a quella di Sant’Ambrogio. Egli parla, infatti, del “Sacratissimum Triduum crucifixi
sepulcri suscitati” (Sacratissimo Triduo del crocifisso del sepolto e del risuscitato).
Ora, questa espressione sopra menzionata, la si troverà anche in secoli posteriori,
addirittura quando si perderà la nozione dell’unità del triduo nell’ambito celebrativo. Ad
esempio, nel secolo XII, San Bernardo, in un sermone sulla Pasqua, parla di tre giorni
passati da Cristo in labore, in requie, in resurrectione (nella sofferenza, nella pace, nella
risurrezione). In realtà, il Triduo Sacro corrisponde all’annunzio di San Paolo nella 1Cor
15,3-4, quando egli dice:
«Vi ho trasmesso innanzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè
Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; fu sepolto ed è risuscitato
il terzo giorno».
Ora, per quanto concerne la celebrazione di questo Triduo a Roma, si ha un documento
che assume una certa importanza: si tratta della lettera di Papa Innocenzo I, scritta nel 416,
al vescovo di Gubbio, Decenzio, dove non usa l’espressione “Triduo Sacro”, ma menziona
una celebrazione della Passione al Venerdì ed una celebrazione della risurrezione alla
Domenica. Inoltre, parla del digiuno del Venerdì e del Sabato. Il triduo è considerato da
Innocenzo I, come celebrazione unica, tanto che durante la sua celebrazione non si fa
l’Eucaristia, fuorché nell’ultimo giorno del Triduo stesso, cioè la Domenica. In questo
senso, troviamo già delle celebrazioni che vanno in questa direzione.
Guardando singolarmente i tre giorni del Triduo Sacro, nel Manuale di Scientia
Liturgica, si inizia a parlare del Giovedì Santo che inizialmente non era compreso nel
medesimo Triduo. Questo spiega il perché il Giovedì Santo è chiamato “giovedì prima di
Pasqua”. Infatti, Innocenzo I nella sua lettera usa questa stessa espressione quando parla
del Giovedì: Quinta Feria ante Pasca (Feria Quinta prima di Pasqua). Questo spiega che il
giovedì, in origine, non aveva alcun riferimento particolare con il Triduo Sacro. A Roma,
alla fine del IV, alla conclusione della Quaresima, in questo giovedì prima di Pasqua, si
svolgeva la riconciliazione dei penitenti. Di ciò si trova anche una testimonianza dei Libri
Liturgici, come i Sacramentari. Lo stesso Innocenzo I nel 416, ne parla come di una
consuetudo della Chiesa Romana. Nel secolo V, il Papa San Leone Magno parla ancora di
questa unica messa di riconciliazione, proprio il giovedì prima di Pasqua, ai penitenti che
avevano fatto la penitenza pubblica.
Ora, più tardi quando ci sarà una testimonianza di alcuni libri liturgici, come ad
esempio il Sacramentario Gelasiano Vetus, verranno riportati gli usi della liturgia dei titoli
romani (le parrocchie romane) e non quelli della Liturgia Romana. Nel GeV ci sono tre
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ordinamenti per la riconciliazione dei Penitenti. Secondo Chavasse, il primo apparterebbe


addirittura alla Liturgia papale.
Andando un po’ più nei particolari, il primo suppone un’Eucaristia in cui i penitenti
sono riconciliati. Il rito si svolge nel seguente modo: i penitenti si prostrano per terra,
mentre il diacono li presenta al vescovo, invitandolo a perdonarli e a riconciliarsi con la
Chiesa. Il vescovo fa una breve esortazione nella quale raccomanda a non cadere nel
peccato e successivamente pronuncia delle preghiere (v. il Corso sul Sacramento della
Penitenza, del Prof. Timister). Ciò si svolge nel periodo che va dal V, al VI -VII secolo.
Lo stesso GeV è testimone di una seconda messa nel giovedì prima di Pasqua che si
celebra di sera (non più al mattino) nei titoli. Questa messa ha una particolarità: non inizia
con la Parola, ma inizia con l’Offertorio. Questa Messa sarà la prima testimonianza di
quello che sarà poi la Coena Domini. Qual è il tema principale di questa Eucaristia? Si
tratta della questione della doppia traditio, che, in questo caso, indica la “doppia
consegna”, cioè la consegna traditrice di Giuda che mette Gesù nelle mani dei nemici, e la
consegna che Cristo fa di sé stesso nell’Eucaristia ai discepoli. Dunque, se si legge il
prefatio della Messa, nel GeV 392, si nota la presenza di questa idea della “doppia
consegna”. Infatti, in questo lungo prefatio della Feria Quinta prima di Pasqua, si legge:
«Vere dignum et iustum est. Per Christum dominum nostrum. Quem in
hac nocte inter sacras aepulas increpantem mens sibi conscia traditoris ferre
non potuit, sed apostolorum derelicto consortio sanguinis / praecium a Iudeis
accepit, ut uitam perderet quam distraxit. Caenauvit igitur hodie proditor
mortem suam, et cruentis manibus panem de manu saluatoris exiturus
accepit, ut saginatum cybo maior poena constringeret, quern nec sub praemia
pietas ab scelere reuocaret, Patitur itaque dominus noster Iesus Christus filius
tuus cum hoste novissimo participare conviuiwm, a quo se noverat continuo
traditurum, ut exemplum innocenciae mundo relinqueret et passionem suam
pro saeculi redemptiornel suppleret. Pascit igitur mitis deus barbarum Iudam
et sustinet in mensam crudelem convivam, donec se suo laqueo perderet qui
de magistri sanguine cogitaret. O dominum per omnia patientem! O agnum
inter suas aepulas mitem! Adhuc cybum eius Iudas in ore ferebat, et ad
lanianda membra eius Iudeos carnifices advocabat. Sed filius tuus dominus
noster tamquam pia hostia et immolari se tibi pro nobis patienter / permisit et
peccatum quod mundus commiserat telaxauit. Per ipsum te, domine,
supplices depràecamur, supplici confessione dicentes».
In questa messa si parla, appunto, del traditore e del fatto che Cristo si consegna
nell’Eucaristia. In effetti, c’è da fare un’osservazione: quando il Giovedì diventerà un
giorno di Eucaristia, si perderà il senso secondo cui l’Eucaristia sarà vista come il dono di
Cristo a noi che anticipa il dono di Cristo stesso sulla Croce. Certamente il Giovedì non è il
giorno in cui adorare semplicemente la presenza di Cristo. L’Antica Tradizione vedeva,
infatti, l’Eucaristia guardando alla Croce. Pian piano, questo senso verrà modificato dando
luogo ad un certo sviluppo teologico.
Ancora, il Giovedì prima di Pasqua, il Papa celebrava a mezzogiorno un’altra Messa,
nel corso della quale consacrava il Crisma e benediceva gli oli santi. Anche questo dato è
importante, perché richiama da vicino ad una delle questioni dell’ultima Riforma liturgica.
Si tratta, infatti, dell’origine del Giovedì Santo, quando si consacra il Crisma e si
benedicono gli oli santi. In questo frangente, se si guarda alle prime testimonianze di
questo evento storico, si nota che il primo Concilio di Toledo, celebrato nell’anno 400, il
vescovo poteva confezionare il Crisma quando voleva ed in ogni tempo. In effetti, questa
testimonianza riflette l’uso antico, secondo il quale il vescovo consacrava il Crisma e
benediceva gli oli secondo le opportunità. Nello stesso tempo, si stabilì l’uso di farlo
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nell’ultima Messa prima di Pasqua, cioè il Giovedì Santo. Questo lo si spiega perché nella
Veglia Pasqua si dovevano utilizzare gli oli per i Battesimi e le Cresime. A Roma, il Papa
lo faceva in occasione dell’unica Messa celebrata in Laterano da lui, in memoria della
Cena del Signore. Nella mattina di giovedì, come risulta nei titoli, i presbiteri celebravano
una messa particolare, nella quale benedivano soltanto l’olio dei catecumeni e quello degli
infermi. Quando il GeV arriverà nei Paesi franchi, intorno all’VIII secolo, un compilatore
unificò il rito tanto che anche un presbitero poteva confezionare il Santo Crisma. In effetti,
si tratta di un fatto molto ambiguo perché in Oriente, ad esempio, il crisma è l’unico
collegamento tra la Confermazione ed il Vescovo, come ad indicare che nessun altro
potrebbe consacrare il crisma stesso, anche se non è l’unico ministro della Confermazione,
ma possono intervenire anche i semplici presbiteri.
Quello che interessa al nostro studio è capire il perché anticamente si stabilì di fare la
consacrazione del crisma e la benedizione degli oli il Giovedì Santo. La ragione è di natura
pratica perché questi oli, compreso il crisma, si dovevano adoperare proprio la Veglia di
Pasqua. In questo senso, non c’era un rapporto diretto con il sacerdozio ministeriale, ma
c’era, invece, un rapporto con il sacerdozio comune dei fedeli, i quali nel Battesimo e nella
Cresima sono unti sacerdoti di Dio, per formare parte del popolo sacerdotale e santo.
Questi elementi ci aiutano a vedere e ad analizzare la stessa Riforma del Concilio
Vaticano II con un certo senso critico, dove si può cogliere la diversa accentuazione
teologica.
Passando al Pontificale Romano Germanico, il Giovedì Santo prevedeva soltanto una
Messa crismale ed una Messa della sera, quella che nel GeV commemorava l’istituzione
dell’Eucaristia nel modo di consegna di Cristo a noi nell’Eucaristia. Le celebrazioni si
sposteranno al mattino tanto che nella riforma dei libri della Curia Romana del XIII secolo
e nella riforma di Pio V del 1570, conserveranno questa caratteristica. Infatti, con Pio V
vennero proibite le messe della sera, mentre l’ultima Messa poteva farsi a mezzogiorno
(alcuni interpretavano l’ora solare che corrisponde alle ore 13.00).
D’altra parte, la benedizione del crisma non entrava più nelle celebrazioni del Giovedì
Santo, ma si trovava soltanto nei Pontificali, cioè nei libri dei Vescovi.
Per quanto riguarda altri elementi, come ad esempio la conservazione dell’Eucaristia e
l’adorazione del Santissimo Sacramento, soprattutto il venerdì prima di Pasqua, rispecchia
una tradizione molto antica. Il Venerdì Santo era sempre un giorno non liturgico, cioè un
giorno senza la celebrazione dell’Eucaristia. Una testimonianza di questo uso la si trova
nell’Ordo Romanus XXVIII, che risale intorno all’anno 800. Esso parla della
conservazione dell’Eucaristia per il giorno seguente.
Il passaggio da questa conservazione dell’Eucaristia all’adorazione del Santissimo,
avverrà più tardi, tra il XII ed il XIII secolo. Per capire questo passaggio, è necessario
comprendere anche lo sviluppo della Teologia in questi secoli, quando ci sarà un grande
risveglio del senso della presenza di Cristo nell’Eucaristia. Ad esempio, verso la fine del
XII per la prima volta venne introdotta l’elevazione dell’Ostia, dopo le parole della
consacrazione, quando venne consacrata la cattedrale di Notre Dame di Parigi, per ordine
del Vescovo e per affermare che dopo il racconto dell’Istituzione Cristo era presente
veramente nell’Eucaristia. Nello stesso periodo, precisamente nel 1264, il Papa Urbano IV
istituì la festa del Corpus Domini. Ciò è positivo perché si nota una riscoperta di un
elemento dell’Eucaristia, cioè la reale presenza di Cristo, anche se ciò, pian piano
comporterà una visione diversa del Giovedì Santo. Infatti, al principio la conservazione
dell’Eucaristia, tra il Giovedì ed il Venerdì prima di Pasqua, veniva fatta in sacrestia. In
merito alla storia della Messa, il termine “sacrestia” indica il luogo dove sta la cosa più
sacra. In questo ambito ci troviamo nel primo millennio. Ci sarà poi un evolversi della
coscienza dei fedeli e dei sacerdoti, tanto che gradualmente la conservazione
dell’Eucaristia si sposterà nel tabernacolo posto in Chiesa, in una delle navate. In questo
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contesto nasceranno una serie di riti, tanto che i libri liturgici del XVI secolo, esigeranno
che l’Eucaristia venga conservata nel recinto della Chiesa, sopra un altare, in un luogo
appositamente preparato e che sia trasferita, il Giovedì Santo, in forma professionale. La
centralità che l’adorazione eucaristica acquisterà nel tempo, fa si che la pietà popolare inizi
ad interpretare il tabernacolo come il sepolcro di Cristo, tanto che il Giovedì diventi il
giorno del sepolcro del Signore.
In effetti, il simbolismo del sepolcro è già presente nel secolo IX, secondo la
testimonianza del De Officiis Ecclesiastici di Amalario di Metz, Libro I, cap. XII. In effetti,
ciò comporta una visione erronea dal momento che Cristo non è semplicemente morto, ma
è vivo, tanto che occorre pensare che quando si va a visitare il sepolcro, non si visita il
sepolcro come luogo di riposo del defunto, ma come luogo in cui Gesù è vivo e fa visita
agli inferi per liberare il primo Adamo dai lacci della morte e portarlo con sé nella
Risurrezione.
Da tutti questi sviluppi storici, il Giovedì verrà inserito pienamente nel Triduo
Pasquale, tanto che il Giovedì stesso è il giorno dell’Eucaristia, il Venerdì è il giorno della
morte del Signore, mentre il Sabato è il giorno della Risurrezione di Cristo. Il Sabato Santo
non sarà più giorno di lutto.
Un altro elemento rituale da spiegare e che è tipico del Giovedì Santo, è proprio la
lavanda dei piedi, che una sua storia un po’ complessa. Infatti, nel secolo VII, il XVII°
Concilio di Toledo, collocò la lavanda dei piedi proprio il Giovedì Santo, pur non
considerandola liturgica. La si vedeva come una funzione pia in rapporto al Vangelo di
Giovanni quando, nel capitolo 13, parla di Gesù che lava i piedi agli Apostoli.
Nella storia della Chiesa latina e non solo di Roma, la lavanda dei piedi fu interpretata
ritualmente in due modi:
a. nel battesimo secondo la liturgia ambrosiana (oggi questa tradizione non c’è
più: già nel secolo scorso non si praticava più anche se i libri liturgici
riportavano ancora il rito). Questo rito veniva visto come gesto di purificazione
in un contesto battesimale;
b. in rapporto a Cristo che si dona totalmente nell’orizzonte della Croce. A tale
proposito, alcuni dicono che San Giovanni nel suo Vangelo abbia collocato al
posto dell’istituzione dell’Eucaristia, il racconto della lavanda dei piedi che
esprime lo stesso mistero dell’Eucaristia.
Questi elementi sono significativi per capire anche il perché questo gesto si conservi
ancora oggi nella Liturgia Romana.
Un altro rito, tipico del Giovedì Santo è la spoliazione dell’altare, che si situa dopo la
Coena Domini, senza cerimonie particolari. Anche questo rito ha una storia un po’ lunga.
In sintesi, quando vennero costruite le prime basiliche romane, pare che non ci fosse
ancora un altare fisso, ma si portava la messa al momento della celebrazione. Quindi, non
c’era neppure l’uso di coprire l’altare con una tovaglia, ma soltanto nel momento della
celebrazione era previsto l’uso della tovaglia. Alcuni studiosi, come Righetti, hanno
interpretato questo gesto del togliere la tovaglia dall’altare, come una conservazione di un
uso antico. Ora, molto presto questa spoliazione dell’altare fu interpretata, in senso
allegorico, come Cristo che viene spogliato per essere inchiodato sulla Croce. Infatti, nella
Liturgia, sino al Vaticano II, questa spogliazione dell’altare veniva fatta dal presbitero il
quale accompagnava questo gesto con la lettura di alcuni salmi.
Passando al Venerdì Santo, nel 416 la lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio, parla
di una celebrazione della Passione al venerdì, prima di Pasqua. Invece, nei Sacramentari si
trova già una ritualità che ben presto avrà degli sviluppi. Nel Sacramentario Gregoriano
Adrianeo (VII secolo), ad esempio, si trova la descrizione della liturgia papale. A questo
Sacramentario corrisponderanno anche alcuni Ordines.
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Nel Gregoriano troviamo le cosiddette Orationes Solemnes, cioè quelle preghiere che si
pronunciano alla fine della Liturgia della Parola e che sono arrivate fino a noi e che, in
fondo, non sono altro che il ricordo della preghiera comune o dei fedeli, che oggi è
praticata secondo la riforma del Vaticano II. Seguono anche i Lezionari del VII secolo, che
corrispondono al Gregoriano, dove si trova la lettura della Passione secondo Giovanni. E’
una costante della tradizione della Chiesa Romana, leggere la Passione secondo il racconto
di Giovanni, il Venerdì Santo.
Secondo il Gregoriano, questa celebrazione della Passione si fa nella Basilica della
Santa Croce in Gerusalemme. In questa prima tappa, però, non si parla ancora di
un’adorazione, secondo la Liturgia papale. Invece, in questa stessa epoca, nelle
celebrazioni presbiterali dei titoli, secondo una testimonianza del Sacramentario Gelasiano
Antico, la Liturgia della Parola è collegata con un’adorazione della Croce. Al riguardo, nel
GeV si legge:
«Horam nonam procedunt omnes ad aeclesiam et ponitur sancta crux
super altare».
In sostanza, segue la liturgia della Parola, con le orazioni solenni. La celebrazione, poi
continua con l’adorazione della santa croce posta sull’altare, prima della Liturgia della
Parola. Era prevista anche la comunione di tutto il popolo. Questo elemento della
comunione eucaristica, non appare in tutti i documenti liturgici.
Nella prima parte del secolo VIII, l’omaggio della Croce entra nella Liturgia papale. Il
testimone è l’Ordo Romanus XXIII. Questa celebrazione si svolgeva nel modo seguente:
a. si iniziava con una processione che partiva dal Laterano verso la Chiesa della
Santa Croce in Gerusalemme, portando un pezzo del legno della vera Croce;
b. si venerava questa reliquia della Santa Croce, da parte del Clero, dal popolo,
nel momento in cui si svolgeva la liturgia della Parola.
c. Il Papa ed il clero non si comunicavano, ma soltanto il popolo.
In seguito, circa quest’ultimo aspetto, secondo la riforma dei libri liturgici della Curia
Romana del XIII secolo, ci fu una novità: la comunione era prevista solo per il presidente
della celebrazione, cioè il Papa. Questo fatto spiegherà la riforma di Pio XII, in merito al
Triduo Sacro. Lo stesso Bernard Botte lesse questa tradizione a favore della comunione,
mentre oggi la grande maggioranza dei liturgisti fa una lettura contraria.
Ampliando la lettura delle fonti si potrebbe trovare una logica più profonda di questo
continuo mutare dei riti in base alla propria specifica tradizione.
In merito al Sabato Santo, esso è sempre stato un giorno “aliturgico”, dal momento
che in esso non si celebrava né l’Eucaristia, né si faceva la comunione. In relazione a
questo fatto si può affermare addirittura che nella Liturgia Ambrosiana non era – e non è
tuttora – prevista la comunione al Venerdì Santo, né ad ogni venerdì di Quaresima.
Il Sabato Santo è un giorno di attesa, tanto che qualcuno lo ha definito come la
“celebrazione del tempo sospeso”: così, come il Creatore – secondo il racconto della
Genesi – si riposò il settimo giorno, nel settimo giorno anche Cristo pone compimento alla
sua opera di salvezza, riposando nel sepolcro. Nella stessa liturgia delle Ore si viene a
sviluppare una teologia bellissima di Cristo che discende negli Inferi per liberare Adamo e
tutti i giusti dall’Ade, per indicare che la sua redenzione è per tutta l’umanità.
Andando a parlare della Veglia Pasquale, nelle prime testimonianze appare secondo
una visione unitaria, nel senso che si celebrava tutto il mistero pasquale, inteso come
evento di morte e risurrezione di Gesù che costituisce il punto di arrivo e di partenza di
tutto il disegno salvifico di Dio. Un testimone è proprio San Leone Magno, nei suoi
Sermoni. Egli stesso dice, infatti, che «il racconto del Vangelo ci ha esposto tutto il mistero
della Pasqua». Da queste parole si potrebbe dedurre l’evento della morte e della
risurrezione di Gesù. C’è qui un riferimento anche all’Itinerarium Egeriae, quando questa
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pellegrina in Gerusalemme, accennando alla lettura della Passione, parla del Vangelo della
Risurrezione.
Alcuni anni prima di San Leone Magno, nel 385, il Papa Siricio dice che la Veglia
Pasquale «è la grande notte del Battesimo». Già Tertulliano parlava del Battesimo nella
Veglia Pasquale: si tratta di una tradizione che appare prima in Occidente e poi in Oriente,
dove il giorno del battesimo indica molto di più l’epifania.
Questa testimonianza di Papa Siricio sarà confermata, quasi un secolo dopo, da San
Leone Magno. Ora, secondo i Sacramentari romani, Gregoriano e Gelasiano, nel secolo
VII, si trova una struttura rituale della Veglia Pasquale, ormai molto vicina a quella che
conosciamo oggi. Essa appare divisa in tre parti:
1. c’è una celebrazione della Parola;
2. c’è una celebrazione del Battesimo;
3. c’è una celebrazione dell’Eucaristia.
Questa struttura è prevista sia nella liturgia papale, come ci racconta il Gregoriano, sia
nella Liturgia dei Titoli, secondo il Gelasiano Vetus. Bisogna notare, però, che manca la
liturgia del Cero Pasquale. La liturgia dei titoli inizia, però, con l’accensione e benedizione
del Cero Pasquale: è un rito che entra più tardi nella liturgia papale. A tale proposito c’è
una liturgia del GeV 425 che afferma:
«Primitus enim viia hora diei mediante procedunt ad ecclesiam et
ingrediuntur in sacrario et induunt se vestimentis sicut mos est. Et incipit
clerus laetania et procedit sacerdos de sacrario cum ordinibus sacris. Veniunt
ante altare stantes inclinato capite usquedum dicent Agnus Dei, qui tollis
peccata mundi, miserere. Deinde surgens sacerdos ab oratione vadit retro
altare, sedens in sede sua. Deinde veniens archidiaconus ante altare, accipiens
de lumine quod VI feria absconsum fuit, faciens crucem et inlumimans eum,
et conpletur ab ipso benedictio caerei».
In sostanza, questo testo dice che l’arcidiacono prende una candela dalla luce che era
stata nascosta il Venerdì Santo e facendo una croce sul Cero, lo si accendeva. Questo rito lo
si faceva ancora in alcune parti dove si diceva l’Ufficio detto “delle tenebre” per il
semplice fatto che i preti ed i laici facendo rumore, al buio, con degli oggetti, si dichiarava
morte ai Giudei. In effetti, il Venerdì Santo anche nelle orazioni solenni, c’era una
preghiera contro i Giudei.
In sostanza, in questo rito, c’è l’azione del riprendere la luce che era scomparsa (Cristo
morto e sepolto) ed ricomparsa (Cristo risorto) dalla quale si accendevano le altre candele.
Andando avanti, a Roma, l’alba iniziava alle quattro del mattino: sino al secolo V la
Veglia Pasquale fu essenzialmente notturna. La lettera del famoso di Giovanni Diacono,
forse un discepolo di Sant’Ambrogio, indirizzata a Senario (500 ca.), fa capire che la
maggioranza dei battezzati sono bambini, tanto che ci sarà l’esigenza di modificare l’orario
della Veglia Pasquale. Già nel secolo VII, l’Ordo Romanus XI, considerava la celebrazione
della messa nelle ore notturne, mentre il resto (la liturgia della Parola, il Battesimo, ecc.)
veniva celebrato nelle ore pomeridiane.
Un'altra causa dell’anticipo della Veglia Pasquale, fu il rigore del digiuno pasquale,
cioè il digiuno dei tre giorni. Ciò spiega che si voleva evitare anche il rigore di questi
digiuni. Ad esempio, Carlo Magno (verso l’800), in uno dei suoi decreti capitolari,
stabilisce che eccetto i bambini, gli anziani e gli ammalati, tutti devono osservare il digiuno
pasquale con rigore. Invece, nel secolo XIV, nella prassi liturgica ad Avignone, sede del
Papato, fu introdotto l’uso di finire la Veglia alla dodici del mezzogiorno di Sabato, per
mettersi a tavola alle 15.00. Si passerà, finalmente, alle nove del mattino.
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In merito a questo argomento, c’è un testo interessante di Robert Amiet, dal titolo: La
Veilee Pascale dans l’Eglise. Le rite romain, edito dalle edizioni Cerf e recensito dal Prof.
Matias Augé. Questo libro contiene molta documentazione storica e liturgica, attraverso la
quale si può notare l’evoluzione del rito della stessa Veglia Pasquale.
Già nel secolo VII, come è già stato detto, la Veglia Pasquale tende ad anticiparsi alle
ore serali del Sabato Santo. Questa tendenza si accentuerà ancora di più nei secoli
successivi. Lo stesso Pio V proibirà la celebrazione della Messa dopo le ore 12.00.
Nel corso del secolo VIII, la liturgia papale accoglie il rito della luce, ma senza le
formule. Poi, il Pontificale Romano del XII secolo, sarà il primo documento in cui si trova
già un formulario della benedizione del fuoco, una processione con il Cero Pasquale,
accompagnato dall’acclamazione di Lumen Christi. Inoltre, si può notare la presenza della
benedizione del Cero Pasquale ed il testo dell’Exultet. Si tratta del Preconio Pasquale, che
risale addirittura al III secolo, al tempo di San Girolamo.
Il rito solenne della luce avrebbe avuto, quindi, come punto di partenza, l’accensione
pratica vespertina, necessaria per le celebrazioni, ed il simbolismo per il ritorno della luce
di Cristo risorto.
Ora, in merito alla messa della Domenica di Pasqua, si può dire che essa apparirà
separata dalla Veglia di Pasqua. In questo modo, l’idea della Veglia che celebra il mistero
della morte del Signore, non esiste più, tanto che dopo la morte ci sarà subito la
risurrezione.
Prima di spiegare propriamente la Domenica di Pasqua, è bene riprendere un
argomento che era rimasto sospeso: si tratta della Liturgia della Parola, per la quale si
possono prendere due idee, cioè quella di Bernard Botte e di Talley.
Bernard Botte nota un fatto indiscusso: ci sono tre letture bibliche nella Veglia Pasquale
che troviamo già nell’antico uso delle diverse Chiese. Forse l’uso più antico appartiene alla
Liturgia di Gerusalemme. Queste tre letture che si conservano ancora oggi nella Liturgia
Romana sono: Gen 1 (Creazione), Gen 12 (Sacrificio di Abramo) e Es 14 (il passaggio del
Mar Rosso). Invece, secondo Talley, tutta la storia delle letture della Veglia Pasquale deve
partire dai documenti del Secolo IV-V, cioè un Lezionario armeno di Gerusalemme. In esso
si trovano ben 12 letture della Veglia. Si tratta dell’ordinamento più antico che noi
conosciamo. Per Talley tale ordinamento avrebbe esercitato un influsso sulle tradizioni
posteriori. Dunque, le tre letture della Tradizione sono: la Creazione (Gen 1), il Sacrificio
di Abramo (Gen 12) e l’istituzione della Pasqua, cioè l’immolazione dell’Agnello (Es 12).
Il motivo di questa variante sta nel fatto che la Pasqua quartodecimana aveva al centro il
Vangelo di Giovanni [l’agnello immolato = Cristo immolato sulla Croce], tanto che
predominerà la stessa celebrazione eucaristica. Però, in seguito, nella liturgia romana
l’attenzione si sposterà al battesimo, senza perdere la visione dell’Agnello immolato.
Quindi, la tipologia si addice di più ad una Veglia Pasquale che è una veglia anche
battesimale. L’immolazione dell’Agnello, oggi si legge nella Messa serale del Giovedì
Santo. In questo modo, viene sottolineata l’Eucaristia come sacramento pasquale per
eccellenza. Questa spiegazione di Talley, in qualche modo, coincide con quella di Botte,
anche se la differenza sta nel cambiamento della terza lettura che in origine riguardava il
testo di Es 12.
Altri cambiamenti riguardano le letture apostoliche: al riguardo, nella Veglia attuale si
legge il passo di Rm 6,3-11 (è il brano battesimale), mentre nell’antichità si leggeva Col
1,3-4 (il tema della risurrezione di Cristo). Attualmente, questa ultima lettura è passata al
giorno di Pasqua, cioè la Domenica.
Questi spostamenti, come si può notare, hanno sempre una valenza teologica, perché la
Veglia Pasquale attuale acquista un senso battesimale molto forte.
06.05.2002 – 10a Lezione.
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La Liturgia Romana (Seconda Parte).

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