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KEITH F. PECKLERS
LITURGIA
La dimensione storica e teologica
del culto cristiano
e le sfide del domani
CQ^O]
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QUERINIANA
A Veronica e Jack Kehoe
con affetto e gratitudine
Titolo originale:
Keith F. Pecklers,
Worship
5
modelli di liturgie offerti in certe chiese anglicane e lutera-
ne. Una semplice visita a Cambridge o a Oxford per le fun-
zioni vespertine (Evensong) degli anglicani lo dimostra: a
tutt'oggi, il cattolicesimo non possiede un equivalente di
questi riti che sia praticabile. Ma, a parte la possibilità per le
chiese di prendere lezioni di liturgia le une dalle altre, Fi-
stanza determinata dalla costruzione di un 'ponte' ecumeni-
co in liturgia è di vitale importanza, poiché ci muoviamo in
un nuovo secolo e in un nuovo millennio, desiderando sem-
pre più ardentemente di vivere fedelmente tutti insieme co-
me unico corpo di Cristo.
Il libro è essenzialmente diviso in due sezioni. La prima
parte (capitoli 1-4) presenta i necessari fondamenti storico-
teologici utili a comprendere semplicemente come siamo ar-
rivati liturgicamente al punto in cui siamo oggi. Il capitolo 1
esamina rito e liturgia in quanto emergono nella vita umana,
portando esempi tratti da ritualità profane e dal comporta-
mento rituale che si verifica in tali contesti. Il capitolo 2 trat-
ta dell'evoluzione della liturgia cristiana nel suo sviluppo e
nel suo declino. Gli importanti sviluppi liturgici della chie-
sa primitiva e del periodo patristico gradualmente cedono il
posto al declino nel Medioevo, specialmente riguardo alla
partecipazione laica all'azione cultuale. Il capitolo 3 esplora
la crisi costituita dalla riforma protestante e la sfida della
chiesa cattolica a riformare la propria vita e la propria litur-
gia al concilio di Trento. Sono presi in considerazione pure
temi post-tridentini, come il sinodo di Pistoia del XVIII se-
colo, che sostenne la necessità di molte delle riforme liturgi-
che poi prese in esame al concilio Vaticano II (1962-1965).
Il capitolo 4 presenta il programma del movimento liturgico
del XX secolo e gli scopi che si proponeva, insieme con
un'esposizione delle riforme liturgiche discusse e approvate
al concilio Vaticano II.
6 I Introduzione
Il capitolo 3 introduce altro materiale tematico, trattando
dell'inculturazione liturgica e dell'importanza di una liturgia
contestualizzata secondo la specifica comunità riunita per la
celebrazione. Il capitolo 6 si concentra su questioni sociolo-
giche relative alla religiosità popolare nella sua relazione con
la liturgia. In America latina, per esempio, processioni e pel—
legrinaggi rinsaldano quanti vi partecipano e offrono loro
una speranza nella situazione di oppressione che essi vivo-
no. La liturgia ufficiale non sempre riesce a fare lo stesso, e
così permangono tensioni tra religiosità popolare e liturgia.
Il capitolo 7 argomenta in favore di una liturgia profonda-
mente connessa alla difficile situazione della società umana
e al suo profondo bisogno di giustizia. Per sua stessa natu-
ra, la liturgia autentica sfocia nella vita quotidiana e si tra-
duce in impegno a essere solidali con le gioie e le lotte della
comunità locale e, di fatto, dell'intera famiglia umana. Il ca-
pitolo 8 solleva alcune serie questioni circa il futuro della li-
turgia e il futuro della chiesa stessa. Nei prossimi venti o
trent'anni le chiese dovranno fare alcune scelte importanti
su come celebrare, su chi può guidare la celebrazione, su chi
è 'degno' di parteciparvi e su come questa preghiera collet-
tiva si debba collegare al resto della vita.
7
Santa Clara in California, e la prof.ssa Catherine Cornille,
già del College of the Holy Cross, di Worcester, nel Massa-
chusetts, e ora del Boston College. Le loro utili intuizioni so-
no state apprezzatissime da parte mia. Sono in debito con il
personale amministrativo del Jesuit Institute, Patricia Fle-
ming e Laura Kelly, per la loro straordinaria generosità nei
miei confronti e per il loro umorismo. Uno del momenti sa-
lienti del tempo da me trascorso al Boston College è stato
poter vivere con i miei confratelli gesuiti alla Robert House:
i miei sinceri ringraziamenti vanno a Jaime Badiola, Bob
Barth, Charbel Batour, Michael Buckley, Julio Giulietti, Da-
vid Hollenbach, Bill Neenan, Gerry O'Brien, John Paris,
Don Plocke e Steve Schloesser. La vita alla Robert House
era resa ancora più piacevole dalla presenza della cuoca, De-
borah Fernandez, per la quale cucinare è rito e arte insieme.
Desidero esprimere la mia gratitudine a Robin Baird Smith,
dell'Editrice Continuum di Londra, per l'invito a scrivere
questo testo e per la sua benevola assistenza nell'accompa-
gnarlo fino alla pubblicazione. Infine a mia madre e a mio
fratello, la mia più profonda gratitudine per tutto il loro af-
fetto e il loro sostegno.
8 I Introduzione
1 .
Liturgia e rito
Introduzione
9
'valida', per esempio. Quelle rubriche, istituite al concilio di
Trento (1545-1563), non erano certo un tonico per gente ec-
cessivamente scrupolosa, la quale spesso impiegala più tem-
po preoccupandosi di capire se aveva fatto tutto corretta-
mente o meno (ripetendo le formule liturgiche fino a quan-
do non raggiungeva la convinzione di averlo fatto), che non
preoccupandosi di celebrare la messa stessa. Oggi, non è
difficile comprendere perché gli osservatori protestanti cri-
ticavano duramente questo comportamento ritualistico, per
nulla convinti che questo fosse ciò che Gesù aveva in mente
alle origini del cristianesimo.
Fortunatamente, la situazione è cambiata nel XX secolo
grazie al grande progresso ecumenico e a una certa feconda-
zione incrociata che è andata sviluppandosi. Quando gli stu-
diosi di liturgia degli anni Trenta e Quaranta tornarono alle
fonti patristiche delle origini, scoprirono gli stessi fonda-
menti liturgici. Così, i movimenti liturgici nelle differenti
chiese assunsero un programma simile e promossero un rin-
novamento liturgico più unificato, sebbene con diverse sfu-
mature e accentuazioni. I fedeli che occupavano i banchi
delle chiese, d'altronde, non furono tanto pronti ad accetta-
re le riforme e spesso furono sostenuti dal clero. Agli inizi
degli anni Cinquanta, quando la rivista liturgica benedettina
americana Orate Fratres pensò di cambiare il suo nome con
il titolo inglese Worship, arrivarono numerose lettere al di-
rettore' le quali sostenevano che 'liturgia' (worship, alla let-
tera: 'culto') era «un termine protestante», non utilizzabile
da cattolici. E quando i cattolici tedeschi fecero da battistra-
da per il movimento liturgico statunitense con una grande
enfasi sul canto degli inni, che era stata tradizione bavarese
ancora prima della riforma del XVI secolo, i cattolici irlan-
desi obiettarono con veemenza affermando che il canto de-
gli inni era una cosa da protestanti; da parte loro, i cattolici
10 I Liturgia e rito
avevano il rosario e altre devozioni che li potevano tenere
occupati mentre il prete 'diceva' tranquillamente la sua mes-
sa. Altri accusavano i pionieri liturgici di 'protestantizzare' la
messa cattolica, e perfino di negare la fede nella presenza
reale di Cristo nell'eucaristia, poiché quelli propugnavano
una piena e attiva partecipazione liturgica in lingue vernaco-
le. I critici del rinnovamento liturgico sostenevano che uti-
lizzare il latino significasse essere cattolici, laddove invece la
rimozione del latino dal culto cattolico sarebbe stato l'equi-
valente dell'abolizione della dottrina cattolica. Questo fu
l'argomento contro la liturgia vernacolare di cui fu portavo-
ce al concilio Vaticano II il cardinale di Los Angeles, James
Mclntyre. Le incomprensioni non furono limitate ai cattoli-
ci. Sul versante protestante, più frequenti celebrazioni euca-
ristiche nelle loro chiese insieme con l'uso dell'incenso e l'in-
dossare certi paramenti liturgici furono considerati atteggia-
menti troppo cattolici o 'papisti' da alcuni che, dunque, si
opponevano con una rivendicazione del tipo: «I cattolici
hanno la messa, ma noi abbiamo la Bibbia e il sermone».
Nonostante questi ostacoli, comunque, la rivista Orate
Fratres potè diventare Worship, il canto degli inni diventò
normativo nelle parrocchie cattoliche e il principio di piena
e attiva partecipazione fu promosso enfatizzando quella li-
turgia in lingua volgare, che anglicani e protestanti pratica-
vano da secoli. Il concilio Vaticano II cambiò l'aspetto della
liturgia non solo per i cattolici, ma per tutti i cristiani, dal
momento che influenzò i modi in cui tutti avrebbero intera-
gito liturgicamente nel futuro immediato. Oggi, le celebra-
zioni dell'eucaristia domenicale sono sempre più comuni e
più frequenti nelle principali chiese protestanti e, quando si
celebra l'eucaristia, non è inusuale trovare il presidente ve-
stito in alba e stola e anche in casula o con altri paramenti.
Alcune chiese protestanti hanno adottato l'imposizione del-
1 1
le ceneri per l'inaugurazione del digiuno annuale dì\ quaresi-
ma - una pratica, questa, che sarebbe stata impensabile pri-
ma del Vaticano II, precisamente perché era troppo 'cattoli-
ca'. Abbiamo fatto davvero molta strada, e abbiamo fatto
questo viaggio insieme. Inoltre, grazie ai movimenti ecume-
nico, patristico e biblico del XX secolo, gli studiosi di litur-
gia delle diverse chiese hanno trovato la propria voce unifi-
cata in accademie ecumeniche come la Societas Liturgica in-
ternazionale e la North American Academy of Liturgy. Al
centro della ricerca liturgica ecumenica c'è stato un recupe-
ro dell'intrinseca ricchezza simbolica della nostra liturgia.
12 I Liturgia e rito
dal pioniere liturgico tedesco Romano Guardini, in una let-
tera indirizzata al terzo congresso liturgico tedesco tenutosi
a Mainz nel 1964. Lamentando i problemi di un individua-
lismo rampante nella società moderna, egli sollevò degli in-
terrogativi circa la capacità della persona umana di impe-
gnarsi completamente nell'«azione liturgica». Questo acca-
deva a causa di una sempre più grande separazione tra sim-
bolo e rito - la liturgia stessa - e il moderno mondo analiti-
co, che spingeva in una direzione opposta. Con il trascorre-
re degli anni, il problema è peggiorato invece di migliorare
e oggi le domande sollevate da Guardini si sono fatte parti-
colarmente acute. In quest'epoca post-moderna, la nostra è
una cultura letterale, analitica, che reagisce facilmente a se-
gni concreti. Diversamente dai simboli più complessi, i segni
funzionali tendono a essere chiari e diretti, trasmettendo
informazione, istruzione e direttive precise: «Stop», «Avan-
ti», «C'è posta in arrivo!» - e i nostri progressi tecnologici si
accordano perfettamente con questo sistema.
La cultura occidentale, inoltre, opta in maniera sempre
crescente per la convenienza, portando a un impoverimento
simbolico e, in definitiva, liturgico: le docce rimpiazzano i
bagni, i fast food rimpiazzano i veri ristoranti, tenerci occu-
pati con il lavoro o con internet rimpiazza il genuino tempo
libero e le esperienze di vera comunione umana. Per dire la
verità, la maggioranza di noi vive in una cultura che si ac-
contenta della 'riga del totale' quando si tratta di realizzare
compiti o di affrontare esigenze, e questo tipo di mentalità
può facilmente penetrare nel nostro atteggiamento anche
nei confronti della liturgia domenicale. In alcune parrocchie
cattoliche durante la messa domenicale si cantano pochissi-
mi versi degli inni, «perché cantare tutte le strofe richiede
troppo tempo». Lo stesso argomento è usato per non am-
mettere i laici a bere dal calice alla santa comunione, perché
1 3
non è 'pratico' farlo, o per non usare incenso la domenica,
per non osservare momenti di silenzio dopo le letture, o per
non insegnare alle assemblee come cantare il salmo respon-
soriale. Ironicamente, proprio quando alcune chiese abban-
donano l'incenso, questo è venduto con notevole successo
nelle strade di Londra, Parigi, Roma e New York. Nel frat-
tempo, dischi di canto religioso stanno trovando accoglien-
za tra i giovani, come il famoso CD Canto gregoriano pro-
dotto dai monaci benedettini spagnoli dell'abbazia di Santo
Domingo di Silos diversi anni fa. Queste tensioni, insieme
con l'abbandono di certe pratiche liturgiche in favore di ciò
che è più conveniente, rappresentano ostacoli significativi a
una vita simbolica e indeboliscono il nostro apprezzamento
della funzione del rito nella vita.
Come il simbolo, il rito stesso comporta una varietà d'in-
terpretazioni e significati; alcuni di questi significati concor-
rono nella stessa celebrazione liturgica. In effetti, una sem-
plice indagine su come antropologi e sociologi definiscono
il rito suggerisce qualcosa circa la sua complessità. Indipen-
dentemente da come lo si definisca, il rito è, comunque, es-
senziale alla vita umana e ha una particolare funzione nella
società. Esso preserva tradizioni culturali e, contempora-
neamente, funge da ponte per le transizioni, portando al
cambiamento nella comunità.
Alcuni riti sono ciclici, come le celebrazioni di complean-
ni e anniversari, le festività natalizie, la fine del ramadan o la
pasqua ebraica, o ancora il ciclo ebdomadario della messa
domenicale. Altri riti riguardano la demarcazione e la tran-
sizione. Chiamate 'riti di passaggio', queste esperienze limi-
nali o di soglia segnano il passaggio di un individuo da uno
status a un altro. Qui, il lavoro di antropologi come Arnold
van Gennep e Victor Turner è stato utilissimo. La vita uma-
na, per sua stessa natura, è tesa fra separazione e riunione,
14 I Liturgia e rito
fra esclusione e inclusione, fra abnegazione e rischio, fra
morte e rinascita, e i riti ci servono per marcare questi pas-
saggi. Vivere significa cambiare, ci ricordano questi antro-
pologi. Passiamo da uno stadio di vita all'altro: dalla giovi-
nezza all'età adulta, alla vecchiaia; dalla scuola al lavoro a
tempo pieno; dalla vita individuale all'impegno consacrato;
dal lavoro alla pensione. Accanto all'antropologia, l'area
della semiotica ha offerto il proprio contributo, utile quan-
do esploriamo che cosa la liturgia e i suoi segni comunicano
e come funziona la comunicazione in liturgia. Qui, il lavoro
di semiologi e di analisti del rito come Ronald Grimes e
Catherine Bell ha fornito un importante contributo.
Il rito è intimamente legato al corpo e il movimento gio-
ca un ruolo cruciale. Considerata come un pellegrinaggio, la
vita presenta il proprio rito di partenza (congedo), il viaggio
con i suoi rischi intrinseci e l'arrivo finale. In un tale conte-
sto, la ricerca antropologica e sociologica hanno determina-
to un nuovo modo di comprendere i riti ebraici e cristiani di
passaggio come quelli dell'iniziazione cristiana (battesimo,
confermazione, eucaristia), le celebrazioni come bar mitz-
vah, matrimonio, ordinazione, professione religiosa e unzio-
ne dei malati. Altri rituali ispirati al ciclo della vita, presenti
in molte differenti religioni e gruppi culturali, potrebbero
essere inclusi in questo ambito: i rituali quincinera nella co-
munità messicana*; cerimonie d'investitura; benedizioni di
mamme in attesa; rituali in caso di aborto; anniversari e riti
di pensionamento; liturgie funebri e così via.
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I seguaci del puritanesimo erano sospettosi nei confronti
del rito e privilegiavano la parola parlata, data la loro prefe-
renza per il conscio sull'inconscio, per la mente sul corpo e
per l'individuo sulla comunità. Ma la liturgia è per il rito e il
non-verbale: il senso lo si scopre nell'azione. L'ultimo Mark
Searle suggerisce che, probabilmente, questo è il modo in
cui il rito romano fu capace di sopravvivere per secoli, an-
che a dispetto di un linguaggio liturgico che pochi membri
del laicato erano in grado di comprendere. E questo po-
trebbe spiegare pure perché, quando il latino fu tradotto
nelle lingue vernacole, le traduzioni non riuscirono a conse-
guire «l'immediato effetto sperato». Searle osserva: «Per
quanto il rito sia soggetto ad analisi discorsiva e a valutazio-
ne teologica, esso è sempre più di quanto le parole possano
dire»1.
Esplorando i riti umani e i loro diversi significati simboli-
ci, possiamo delineare quattro elementi distintivi. Il rito è, in
primo luogo, un comportamento appreso in cui è comuni-
cata la tradizione. In secondo luogo, questo comportamen-
to rituale è ripetitivo, cioè atto a rinforzare ciò che è stato
appreso. In terzo luogo, è interattivo o interpersonale, vale
a dire capace di rinnovare sia l'individuo sia la comunità. In
quarto luogo, conduce da un punto a quello successivo ed è
normalmente diretto verso valori particolari che sono soste-
nuti da quella specifica comunità. Anche quando sono pra-
ticati separatamente, i riti normalmente corrispondono al
comportamento rituale condiviso e al modo di vedere del
gruppo.
Mi sia consentito un esempio. Recentemente ho avuto
l'opportunità di osservare un rituale d'iniziazione: un rito
16 I Liturgia e rito
profano, ma con grandi somiglianze con cerimonie religiose.
C'era un'assemblea e c'erano delle guide; tutti i presenti era-
no vestiti formalmente. Quelli che dovevano essere iniziati
furono chiamati uno per uno, e fu letta la biografia di ogni
candidato (che per essere tale doveva essere presentato da
almeno due padrini), così che l'assemblea potesse conosce-
re chi stava per accogliere; seguì il rito d'iniziazione. Il mem-
bro di più alto rango presente - il bailli, 'balivo' - pose una
spada sulla spalla destra del candidato e, con una mano di-
stesa, pronunciò la formula d'iniziazione. Benché l'evento
avesse luogo a Boston, l'investitura fu pronunciata in fran-
cese, com'è tradizione del gruppo. Il nuovo membro fu poi
ufficialmente salutato e accolto dal balivo, mentre l'assem-
blea applaudiva. Immediatamente dopo, il nuovo venuto si
mosse verso una tavola di fianco e gli fu offerto di mangiare
della 'gallina dalle uova d'oro' e di bere un bicchiere di
buon vino rosso. A questa tavola di benvenuto serviva uno
dei vice-cancellieri, che tagliò come si deve la gallina per
ognuno dei neo-iniziati e poi offrì il bicchiere di vino. Seguì
per tutti i presenti un sontuoso banchetto, nel quale molti
salutavano i nuovi iniziati e presentavano le loro personali
congratulazioni. L'evento era l'annuale investitura della
Confrèrie de la Chaìne des Ròtisseurs: una prestigiosa asso-
ciazione di cuochi, proprietari di ristoranti e altri cultori del
cibo e del vino; le origini del gruppo risalgono al XIII seco-
lo, quando fu fondato in Francia durante il regno di Luigi
IX come Corporazione dei rosticcieri. Ogni sede locale si
identifica con la più ampia società internazionale che è atti-
va in più di cento paesi e, logicamente, il quartier generale
dell'organizzazione si trova in Francia - la capitale culinaria
del mondo.
L'esposizione e l'esame di questi rituali può essere utile
quando tentiamo di comprendere il culto cristiano e il suo
1 7
funzionamento. Il summenzionato rituale d'investitura culi-
naria implicava un comportamento appreso. Ad eccezione
di me e di diversi altri ospiti, tutti i membri di quell'assem-
blea erano passati attraverso lo stesso rituale alla presenza di
altri. I quattro neofiti di quella sera erano stati precedente-
mente testimoni dello stesso rituale; ora era il loro turno. In
secondo luogo, il rituale era ripetitivo. Si ripete ogni anno e,
di fatto, è celebrato in un modo virtualmente identico in tut-
to il mondo, in qualsiasi altra sede della Confrèrie de la Chaì-
ne. In terzo luogo, era interpersonale e comportava un rin-
novamento per i nuovi venuti come pure per quelli che era-
no divenuti membri da anni. Infine, offriva il suo 'rito di
passaggio' non solo per i quattro che passavano dall'esclu-
sione all'inclusione, dal non essere socio all'essere socio, ma
anche per l'intera associazione, il cui numero di soci au-
mentava di quattro a motivo di quel rituale.
Leader ecclesiali e studiosi della fine del XIX o degli ini-
zi del XX secolo sarebbero rimasti quanto meno perplessi
per quest'esempio. Il culto cristiano era un fatto religioso -
necessariamente relativo a cose divine - e avvenimenti pro-
fani come il pranzo della Chaine erano un affare completa-
mente differente, senza niente da offrire allo studio della li-
turgia. E stato soltanto nel periodo compreso tra la metà e
la fine del XX secolo, quando il campo della liturgia si è svi-
luppato, che alcuni studiosi arrivarono a riconoscere l'im-
portante contributo delle scienze sociali per la propria di-
sciplina accademica e ciò che sarebbe stato possibile impa-
rare dall'antropologia, dalla psicologia e dalla semiotica.
Dalla fine degli anni Sessanta, le riforme recentemente rea-
lizzate del concilio Vaticano II conseguivano già dei risulta-
ti contrastanti. A un'estremità c'era il desiderio di speri-
mentare le riforme. Ma, poiché era disponibile una forma-
zione o assistenza catechetica davvero scarsa - anche per i
18 I Liturgia e rito
vescovi - , quegli esperimenti furono ampiamente disconti-
nui. All'altra estremità c'erano quanti si opponevano ener-
gicamente alle riforme; alcuni in questo schieramento accu-
sarono papa Paolo VI di aver distrutto per sempre il culto
cattolico. Non furono rari degli scoppi emotivi su entrambi
i versanti. Come rispondere a una nuova realtà sociologica?
Il mondo e, di fatto, la chiesa erano cambiati e non era più
sufficiente fare affidamento unicamente sulla teologia o sul-
la storia; serviva qualcosa di nuovo - le scienze sociali.
La ricerca svolta alla fine del XX secolo nell'ambito degli
studi rituali aveva rivelato anche la dimensione poetica del-
la liturgia, con speciale riguardo alla traduzione dei testi li-
turgici. Non era più sufficiente tradurre semplicemente i te-
sti sacri dal latino in volgare. Per sua stessa natura, il lin-
guaggio è un'entità vivente che evolve con il passare del
tempo; dunque, se i testi liturgici dovevano parlare al mon-
do contemporaneo, quei testi avevano bisogno di essere tra-
ghettati con l'aiuto di poeti e linguisti. Offrendo il loro pro-
prio contributo, i testi liturgici avrebbero dovuto essere me-
glio capaci di comunicare dinamicamente con coloro i qua-
li avrebbero pregato e proclamato quei testi oggi. Grazie al-
la ricerca in quest'area, ora riconosciamo con chiarezza che
la liturgia è una forma artistica, che tocca le più profonde
delle emozioni umane. In effetti, quando i credenti si riuni-
scono, domenica dopo domenica, per ascoltare la parola di
Dio e partecipare alla mensa di Dio, riconoscono e identifi-
cano le proprie gioie e le proprie lotte in tutto quello che la
liturgia cristiana proclama profeticamente. E noi accediamo
al carattere profetico della liturgia attraverso la porta del ri-
tuale e del simbolico; là, i nostri gesti non verbali (ancor più
che le nostre parole pronunciate) comunicano chi è il corpo
di Cristo e che cosa significa. Così facendo, si compiono le
parole del Magnificat lucano: i poveri diventano ricchi e i
1 9
ricchi non sono considerati meglio dei poveri. In una cultu-
ra post-moderna in cui gli anziani e i portatori di handicap,
gli immigrati e i senza tetto sono trattati come insignifican-
ti, quegli stessi individui sono fatti oggetto di rispetto nella
liturgia di Cristo ogni volta che sono aspersi con acqua rin-
frescante, salutati con l'inchino e incensati, unti con olio
santo, toccati e abbracciati, nutriti con cibo e bevanda san-
ti. Questo trattamento privilegiato è possibile solo nel regno
di Dio, di cui l'assemblea liturgica è un'immagine.
Chiaramente, questo implica più che la verbalizzazione
della nostra dottrina o la comunicazione di una conoscenza
santa. Si tratta di gesti e simboli che parlano più profonda-
mente delle nostre parole - una celebrazione sensibile che ci
rivela le profondità della misericordia di Dio in modi che
non avremmo mai potuto immaginare. L'acclamato film II
pranzo di Babette* offre un interessante esempio e ha molto
da dire al culto cristiano. Ambientato nella Danimarca del
XIX secolo, il film presenta due sorelle, Martina e Philippa,
il cui padre era il riverito pastore di una piccola comunità
protestante, rigidamente unita, in una cittadina della costa.
Nonostante le molte opportunità di lasciare il villaggio, le
sorelle scelgono di restare con il papà e di servire quella co-
munità. La vita procedeva normalmente finché un giorno
una rifugiata politica della rivoluzione francese - Babette -
arrivò a cercare alloggio, promettendo di mettersi al loro
servizio come governante e cuoca. Qualche tempo dopo la
morte del padre, le due sorelle decisero di ospitare una ce-
lebrazione per commemorare il centesimo anniversario del-
la nascita del loro padre, dal momento che era stato il fon-
datore della comunità. Avendo vinto la lotteria francese, Ba-
20 I Liturgia e rito
bette insiste per preparare il banchetto. Le sorelle accon-
sentono, benché segretamente nutrano qualche riserva, es-
sendo lei cattolica e straniera. Quello che segue è un ban-
chetto straordinariamente voluttuoso con ricchi cibi e vini
raffinati. Durante il pranzo, con sorpresa di tutti, uno degli
invitati riconosce Babette come la famosa chef del Café An-
glais di Parigi. Quella comunità puritana è inizialmente
scandalizzata per la prodigalità della festa, poiché la loro era
una religione sobria e stoica, che concedeva poco spazio al-
la frivolezza e all'eccesso. Lo scandalo, tuttavia, lascia il po-
sto alla gioia, quando i membri della comunità cominciano
a riconciliarsi tra loro per ruggini del passato e chiaramente,
come conseguenza, vivono differentemente. Babette, una ri-
fugiata, diventa un'immagine di Dio e consente di intrave-
dere qualcosa del regno di Dio. Essa trasforma le vite delle
sorelle, offre da mangiare e da bere agli ospiti, e la vita del-
l'intera comunità viene cambiata in meglio.
Il pranzo di Babette trabocca di immagini simboliche ed è
istruttivo quando consideriamo il potere simbolico della li-
turgia, specialmente entro il contesto eucaristico. Ma non
possiamo penetrare in quella ricchezza solamente mediante
l'intelletto e la volontà; abbiamo bisogno di poeti e di artisti
che ci assistano. La società occidentale ha molto da impara-
re dall'Oriente a questo riguardo, perché l'Oriente c'inse-
gna il potere che i simboli hanno di parlare in tutta la loro
semplicità. Le parole non riescono a catturare la loro pro-
fondità e il loro potere trasformante. Una visita a un giardi-
no zen in Giappone comunica questo potere più eloquente-
mente. Il culto cristiano - non serve dirlo - è radicalmente
differente dal buddhismo zen, ma l'attenzione dello zen per
il non-verbale e per il silenzio può essere formativa, se recu-
periamo la funzione poetica e simbolica della liturgia cri-
stiana.
2 1
Il concetto religioso di pellegrinaggio esibisce di per sé la
propria struttura rituale. Questo è il caso se parliamo dello
hajj islamico alla Mecca, del pellegrinaggio ecumenico a Wal-
singham in Inghilterra, o del cammino per Santiago de Com-
postela in Galizia, in Spagna. Ai pellegrini, portati simboli-
camente da un mondo a un altro, con tutti i pericoli ineren-
ti al viaggio (rifiuto, abnegazione, rischio), con momenti per
la guarigione e la conversione lungo il tragitto, viene offerta
l'esperienza della catarsi. Il pellegrinaggio ci rammenta che il
rituale riguarda fondamentalmente il corpo - sia il corpo in-
dividuale, sia il corpo collettivo. In questi viaggi, i pellegrini
esprimono la loro fede e le loro convinzioni mediante il mo-
vimento. Camminano da soli e, tuttavia, insieme, consapevo-
li della presenza dei loro compagni e della loro identità, sia
individualmente che comunitariamente. Insieme, essi fanno
parte di questo o quel particolare pellegrinaggio o processio-
ne e da quella strada comune i pellegrini prendono le loro
identità individuali. Mentre percorrono la strada insieme,
spesso dividono lo stesso cibo e lo stesso alloggio, siano essi
poveri o aristocratici. L'uguaglianza è il principio operativo e
l'identità individuale è tratta dal gruppo.
Questo rimane vero se applicato al culto cristiano. In
quanto rituale, la liturgia riguarda fondamentalmente il cor-
po. Insieme, il corpo mistico di Cristo afferma la sua identità
collettiva mediante un comune movimento. A partire da
questo corpo collettivo, l'individuo afferma la sua identità
unica; quest'identificazione comincia non con il corpo indi-
viduale, ma piuttosto con quello collettivo. Per dirla diffe-
rentemente, i partecipanti alla liturgia 'subordinano' la loro
individualità nell'interesse del movimento comune del cor-
po articolato. Nel pellegrinaggio, l'individuo potrebbe ben
conoscere una strada differente per raggiungere la destina-
zione; quella strada potrebbe anche essere più diretta. Ma
22 I Liturgia e rito
quell'individuo, per amore del gruppo, si trattiene dalla ten-
tazione di prendere la deviazione. Lo stesso rimane vero per
la liturgia cristiana, specialmente in considerazione del fatto
che uno scelga o meno di assentarsi dalla celebrazione litur-
gica domenicale e preghi separatamente. Quest'individuali-
smo è superato per il bene della più ampia assemblea cri-
stiana, che dipende dalla presenza di quell'individuo. Ed è
in quella santa assemblea che il credente afferma la sua iden-
tità come 'cristiano', ossia quale membro del corpo mistico
di Cristo.
Per la comunità cristiana la preghiera comunitaria non è
negoziabile, e quelli che non pregano in comune con il resto
del corpo di Cristo non possono correttamente chiamarsi
'cristiani'. Potrebbero ben essere persone generosissime,
persone ispirate dalla vita e dal ministero di Gesù Cristo e
potrebbero sforzarsi di agire sempre con giustizia e rettitu-
dine nella vita, ma se non pregano mai in comune con gli al-
tri cristiani non possono rivendicare quest'identità. La qual
cosa non è da intendersi come un'aspra esclusione; è una
semplice asserzione di fatto. Alcune religioni lasciano spazio
o addirittura incoraggiano l'attuazione individuale della re-
ligione, separatamente dal gruppo; il cristianesimo non è fra
queste. Così, il pellegrinaggio della vita cristiana è portato
avanti insieme, come un solo corpo, e la liturgia - il culto co-
munitario - ne costituisce il cuore. Vediamo questo nella
Lettera agli Ebrei, che parla della vita cristiana come di una
processione liturgica ascendente e discendente, con mem-
bra dell'unico corpo di Cristo che camminano tutte insieme
verso il regno di Dio.
2 3
Una definizione di liturgia
24 I Liturgia e rito
lo stesso modo troviamo anche prestiti culturali nel linguag-
gio, nei costumi e nei simboli provenienti dalla cultura gre-
co-romana. I primi cristiani si appropriarono, adattandose-
li, pure di quegli elementi culturali, assegnando a ognuno un
significato e un'interpretazione nuovi per adeguarli ai pro-
pri scopi. Per quanto riguarda i rapporti giudeo-cristiani,
dobbiamo stare attenti a non saltare a conclusioni affrettate,
mostrando legami causali diretti. Ciò vale, per esempio, nel
caso in cui si consideri la relazione tra il battesimo giudaico
e quello cristiano: la ricerca condotta con onestà in quest'a-
rea spesso ci lascia più con domande che con risposte. I cri-
stiani di quel primo periodo erano desiderosi di stabilire la
loro propria identità, la qual cosa sarebbe stata impossibile
se avessero semplicemente incorporato e adattato troppo ra-
pidamente e in maniera integrale pratiche liturgiche giudai-
che. Elemento singolare, specifico della liturgia cristiana,
era un'enfasi sempre più grande posta sulla croce e sul suo
ruolo salvifico.
Gradualmente, leiturghta giunse a significare sia il servi-
zio di Dio sia il servizio della comunità, offrendo un note-
vole indizio per l'importante rapporto tra liturgia e carità. A
partire dal IV secolo i cristiani orientali usarono questo ter-
mine esclusivamente in riferimento all'eucaristia, la 'divina
liturgia', come continua ad essere chiamata ancor oggi: lo si
vede nel caso delle liturgie di san Basilio Magno, di san Gio-
vanni Crisostomo e di san Marco, per esempio. In Occiden-
te, espressioni come 'opera divina' o 'ufficio divino' (opus
Dei) furono usati invece di leiturghta fino al XVI secolo,
quando questo termine fu introdotto grazie all'influenza de-
gli umanisti. Il termine fu adottato da alcune chiese della
riforma nel XVII secolo, e fu introdotto nella letteratura cat-
tolica, durante il XVIII, dalla prima ondata di studi e ricer-
che di liturgia, nei quali si usò il termine in senso più gene-
25
rale per riferirsi a tutti i sacramenti della chiesa. Comunque,
non fu prima del pontificato di papa Gregorio XVI (t 1846)
che il termine fu usato in documenti ufficiali della chiesa ro-
mana. Successivamente, apparve nel Codice di diritto cano-
nico del 1917, in cui si affermava che la santa Sede era re-
sponsabile tanto della regolamentazione della liturgia della
chiesa quanto dell'approvazione dei suoi libri liturgici (can.
1257)2. Durante il XX secolo, grazie all'uso del termine al-
l'interno del movimento liturgico, liturgia' diventò un ter-
mine più normativo nel vocabolario corrente della chiesa.
Nel 1947, con la promulgazione della Mediator Dei di pa-
pa Pio XII, la prima enciclica della chiesa cattolica sulla li-
turgia, il termine è definito come il «culto pubblico che il
nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa»,
ovvero «il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo
e, per mezzo di Lui, all'Eterno Padre: è, per dirla in breve,
il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del
Capo e delle sue membra» (n. 25)3. Questo concetto della
chiesa come «corpo mistico di Cristo» è antico e può essere
fatto risalire a sant'Agostino d'Ippona, o ancor prima alle
lettere di san Paolo {cf. 1 Cor 12,12ss.). E significativo quan-
do si discute della liturgia eucaristica, poiché suggerisce
un'intima relazione tra il corpo di Cristo - la chiesa - che si
riunisce per celebrare «il corpo di Cristo», l'eucaristia. Que-
sta dottrina è stata recuperata dai teologi della Scuola di Tu-
binga del XIX secolo, poi è stata resa popolare dai pionieri
liturgici del XX secolo. I critici accusavano i promotori del-
26 I Liturgia e rito
la teologia del corpo mistico di tentare di minare la natura
della gerarchia della chiesa, chiaramente visibile nella sua li-
turgia strutturata gerarchicamente. Fu solo con l'enciclica
Mystici Corporis Christi, del 1943, che questa dottrina con-
quistò un'universale rispettabilità, divenendo il fondamento
tanto per la Mediator Dei quanto per la costituzione Sacro-
sanctum concilium (= SC) del Vaticano II sulla liturgia.
Al concilio Vaticano II la definizione di liturgia diventò
più sistematica, con l'affermazione secondo cui il culto cri-
stiano è attuato dall'intero corpo mistico di Cristo, «capo e
membra» (SC 7). Sacrosanctum concilium si dedicava al pro-
posito e allo scopo della liturgia: la glorificazione di Dio e la
santificazione dell'assemblea liturgica. Questa santificazione
ha luogo ed è significata «per mezzo di segni sensibili e rea-
lizzata in modo proprio a ciascuno di essi» (SC 7). Questi
«segni e simboli» comprendono gesti come il segno della
croce, l'antico gesto dell'orante - il pregare con le braccia al-
largate - , o il gesto dell'imposizione delle mani che è com-
piuto da un ministro liturgico nelle ordinazioni, nelle unzio-
ni e nelle celebrazioni del sacramento della riconciliazione
(penitenza). Pure compresi sono quei simboli della terra:
pane e vino, olio, acqua e fuoco. In tutti questi segni e sim-
boli è rivelata la presenza di Cristo. Significativamente, an-
che prima che sia riconosciuta nelle sacre Scritture o nel pa-
ne, quella presenza di Cristo è riconosciuta nell'assemblea
riunita, considerata il simbolo liturgico primario.
Questa multiforme presenza di Cristo, naturalmente, è af-
fermata non solo entro le celebrazioni eucaristiche, ma an-
che in tutti gli altri sacramenti cristiani e nella liturgia delle
ore. Probabilmente il termine tedesco Gottesdienst (alla let-
tera, 'servizio divino') si avvicina di più a esprimere l'intera
ampiezza di ciò che è la liturgia cristiana. Sia come sia, la
realtà fondamentale rimane invariata. In tutta la liturgia cri-
2 7
stiana Cristo esercita il suo sacerdozio in pienezza: quando
la chiesa battezza, è Cristo stesso che battezza; quando la
chiesa prega e canta, è Cristo stesso che prega e canta; quan-
do la chiesa impone le mani sul capo di uno dei suoi mem-
bri, lo fa nel nome di Cristo... Qui vediamo un'intima rela-
zione tra Cristo e la sua chiesa, mediante il ruolo ministeria-
le della comunità cristiana nell'ambito del culto. Di per sé,
la liturgia della chiesa è l'attività sacra definitiva; niente può
eguagliare il suo valore o il suo significato. Coerentemente
con la definizione data in Sacrosanctum concilium, il Codice
di diritto canonico del 1983 descrive la liturgia come l'eser-
cizio del sacerdozio di Gesù Cristo, che santifica tutto il po-
polo, e anche come il culto pubblico integrale realizzato dal
corpo mistico di Cristo (can. 834).
Adolf Adam, studioso tedesco di liturgia, porta questa
definizione più avanti, spiegando che 'liturgia', inteso come
studio della liturgia, si basa sull'aggettivo greco leiturghike
che si sottintende essere accompagnato da episteme, 'scien-
za'. Egli allora introduce un'utile distinzione relativamente
ai termini 'liturgo' e 'liturgista': il primo va riferito a chi gui-
da il culto, il secondo allo scienziato liturgico che studia i ri-
ti4. Il Vaticano II, per esempio, ha denominato il vescovo «li-
turgo capo nella sua diocesi», e noi parliamo anche di Cri-
sto come del 'liturgo' in ogni atto del culto cristiano. Colo-
ro che si dedicano allo studio e all'insegnamento della litur-
gia sono invece 'liturgisti' - un gruppo considerato altamen-
te sospetto in alcuni ambienti più conservatori per il fatto
che 'manipolano la nostra liturgia' e, dunque, la tradizione.
Altri lamentano la rigidità dei liturgisti, che sono ostinati e
inflessibili nelle loro opinioni liturgiche. Alcuni lettori pos-
28 I Liturgia e rito
sono avere già sentito da qualche parte il popolare gioco di
parole di parecchi anni fa circa la differenza tra liturgisti e
terroristi: «Con un terrorista si può negoziare, con un litur-
gista no!».
Sacrosanctum concilium è ancora più esplicita nella spie-
gazione del ruolo della liturgia nella vita della comunità cri-
stiana. Dice che la liturgia «è il culmine verso cui tende l'a-
zione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui proma-
na tutta la sua virtù» (SC 10). Qui vediamo come l'integra-
zione tra culto e vita sia essenziale: esse non possono resta-
re entità separate che non riescono a intersecarsi. Quando la
comunità cristiana si riunisce insieme, ogni domenica, porta
con sé tutto quanto le è accaduto la settimana precedente, il
bene e il male, «ciò che abbiamo fatto e ciò che abbiamo
omesso di fare», come pregano gli anglicani nella confessio-
ne dei peccati che si trova nel Book of Common Prayer [Li-
bro della preghiera comune]. Mettiamo in tavola le nostre
gioie e le nostre speranze; portiamo i nostri successi e i no-
stri fallimenti. Facciamo questo individualmente con tutte le
lotte della nostra condizione umana, ma anche collettiva-
mente come comunità: come parrocchia o università, come
monastero o altra comunità religiosa, o come qualunque al-
tro gruppo in cui ci troviamo. Nella liturgia, noi riscopriamo
la nostra missione - sia quella singolarmente personale sia
quella collettiva - e la nostra vita è trasformata e rinnovata.
Dalla liturgia siamo spinti a proseguire in avanti, ricaricati
per provare ancora ad essere il corpo di Cristo su questa ter-
ra. In questo senso, parliamo del ruolo fondamentale della
liturgia nel modellare il comportamento etico, perché si spe-
ra che la liturgia ci porti a vivere la vita cristiana meglio di
prima che entrassimo dalle porte della chiesa.
Troppo spesso nel passato - specialmente prima del Vati-
cano II - si favoriva una certa impressione che ci fossero due
2 9
mondi: il mondo della vita quotidiana e il mondo della li-
turgia. Si voleva partecipare alle celebrazioni domenicali per
lasciare il mondo e tenerlo fuori dalla porta per un'ora, si
voleva pregare Dio per trovare consolazione e pace e poi
tornare alla vita reale, che era esattamente l'opposto. Non
c'è esempio migliore di questa dicotomia di quello dei lavo-
ratori cattolici di Auschwitz e Dachau, che fedelmente pren-
devano parte alla messa nella chiesa vicina, ogni mattina,
dopo di che riprendevano a 'lavorare' e a sterminare centi-
naia, migliaia di innocenti, donne e uomini. In altre situa-
zioni, la liturgia è stata anche usata contro quelli che si defi-
nivano i propri nemici. In altre parole, Dio è dalla nostra
parte, non dalla parte degli altri, e questo noi celebriamo.
Scrivendo dopo la guerra civile americana (1861-1865), il
presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln apostrofò tali
divisioni tra i campi rivali con queste parole:
Sia gli uni sia gli altri leggono la stessa Bibbia e pregano lo stes-
so Dio; e ognuno invoca l'aiuto divino contro l'altro. Può sem-
brare strano che ogni uomo possa osare di chiedere l'assistenza
di Dio per strappare ad altri uomini il pane guadagnato col su-
dore della fronte; ma non giudichiamo per non essere giudica-
ti. Auguriamoci che non abbiamo potuto ricevere risposta le
preghiere degli uni e degli altri, che nessuna delle loro preghie-
re sia stata pienamente esaudita5.
5 ST.B. OATES, With Malice Toward None. The Life of Abraham Lin-
coln, Allen & Unwin, London 1978, 347.
30 I Liturgia e rito
musulmani terroristi) dopo I'll settembre 2001. Due anni
più tardi, quando gli Stati Uniti si preparavano per la guer-
ra in Iraq, troppe parrocchie cattoliche limitavano le loro
preghiere a «i membri delle nostre forze armate», ed erano
meno inclini a includere preghiere per il popolo iracheno
stesso, che era stato tanto sorpreso da questo conflitto quan-
to il resto del mondo. Una dinamica simile fu evidente du-
rante la guerra del Golfo dei primi anni Novanta. Alla fine
della giornata, il nostro celebrare ha a che fare in ogni cosa
con la concreta realtà della vita quotidiana. Nella morte e ri-
surrezione di Cristo noi riconosciamo la nostra morte e ri-
surrezione nella concreta realtà, non in qualche lontana, ipo-
tetica, realtà. Con ciò intendo la morte e risurrezione di que-
sta settimana: il fatto che ho perso il lavoro martedì scorso,
o che la mia sposa o il mio partner mi ha abbandonato, o,
per converso, che ho dato alla luce un bambino sano, oppu-
re ho appena ricevuto la promozione in cui stavo sperando.
Ma siamo anche invitati a guardare, al di là delle nostre si-
tuazioni personali, al quadro più artipio - come l'Iraq, per
esempio - e a immaginare il mondo nel modo in cui lo vede
Dio. A un livello molto pratico, questo significa che le ten-
sioni in Medio Oriente o gli attentati terroristici a Bali pure
interferiscono su di noi, benché viviamo a Londra o a Città
del Capo o a Recife, e noi portiamo nella liturgia comunita-
ria anche quelle preoccupazioni. Naturalmente, non possia-
mo pretendere di sentire le stesse emozioni di quelli che vi-
vono in luoghi di violenza, ma questa violenza e quest'op-
pressione dovrebbero turbarci ed essere una nostra preoc-
cupazione quando preghiamo insieme. Se no, c'è qualcosa
di sbagliato nell'equazione. Nei miei viaggi, mi è stato chie-
sto ogni tanto perché abbiamo bisogno di cantare salmi che
parlano di violenza, sangue e distruzione, o proclamare let-
ture scritturistiche troppo negative o pesanti da sopportare
3 1
in una luminosa, soleggiata, mattinata di primavera. La ri-
sposta è semplice: la liturgia riguarda molto di più che le no-
stre lotte e gioie personali. Il Vaticano II evidenziava questo
quando affermava che «le azioni liturgiche non sono azioni
private ma celebrazioni della Chiesa...» (SC 26). In altre pa-
role, poiché la liturgia appartiene a Gesù Cristo e, fonda-
mentalmente, riguarda il regno di Dio su questa terra, me-
diante il celebrare siamo collegati alla chiesa tutt'intera e, in
realtà, con l'intero pianeta, e non solo con quelli che si tro-
vano alla nostra destra e alla nostra sinistra in chiesa. Que-
sta è la ragione per cui le preghiere d'intercessione o di of-
ferta sono tanto importanti nella liturgia: lo sono per ricor-
darci le necessità della chiesa e del mondo, in modo che pos-
siamo pregare per esse ed essere uniti ad esse.
Correlata a questa tensione tra la chiesa locale riunita per
la celebrazione e la solidarietà globale, c'è un'altra dimen-
sione della relazione che la liturgia ha con la vita: il culto cri-
stiano è in se stesso universale e particolare. Per i cattolici, il
Vaticano II parlava della «sostanziale unità del rito romano»
(SC 38); che la celebrazione abbia luogo a Kinshasa oppure
a Delhi è sempre il 'rito romano'. La conservazione di que-
st'unità è considerata fondamentale ed essenziale per l'iden-
tità di quella chiesa in quanto 'cattolica'. Questo non signi-
fica, comunque, che le celebrazioni liturgiche a Delhi o a
Kinshasa siano esattamente uguali. In effetti ci si deve aspet-
tare di vederle differenti, precisamente perché la realtà cul-
turale e le circostanze particolari sono notevolmente diffe-
renti in quei due luoghi. Così, mentre sostiene «la sostan-
ziale unità del rito romano», Sacrosanctum concilium critica
una «rigida uniformità», che non lascia spazio per adatta-
menti alla comunità o alla regione particolari CSC 37).
Questa diversità culturale si vede meglio in varie espres-
sioni di devozione popolare o 'religiosità popolare' (il rosa-
32 I Liturgia e rito
rio; le novene e altre devozioni ai santi; la via crucis; le pro-
cessioni e i pellegrinaggi e così via), che saranno trattate suc-
cessivamente in questo volume. Il Vaticano II fu pronto ad
ammettere che «la sacra liturgia non esaurisce tutta l'attività
della chiesa» (SC 9) e che la vita spirituale della comunità
cristiana è più ampia della partecipazione alla liturgia (cfr.
SC 12). Conseguentemente, le devozioni popolari non litur-
giche sono incoraggiate dalla chiesa e possono, in realtà, es-
sere un importante strumento di evangelizzazione, che con-
duce il fedele alla liturgia stessa. Ci si aspetta, comunque,
che quelle pratiche devozionali siano «ordinate in modo da
essere in armonia» con i tempi liturgici e non costituiscano
strutture parallele, che potrebbero attirare la gente lontano
dalla liturgia (SC 13). D'altro canto, poiché le devozioni po-
polari non vengono considerate 'azioni liturgiche', nel do-
cumento conciliare non esiste una sezione separata a loro
dedicata, com'è invece il caso dell'eucaristia, degli altri sa-
cramenti, della liturgia delle ore e così via.
In quanto culto pubblico della chiesa, la liturgia cristiana
per sua stessa natura è evangelica (cioè orientata alla missio-
ne) ed escatologica (cioè guarda verso il futuro del regno di
Dio). Nella liturgia questo morire e risorgere è portato a
Cristo, e Cristo lo porta a Dio, e insieme la comunità è gua-
rita e trasformata. L'incapacità di vivere questo legame inte-
grale tra liturgia e vita ha come conseguenza una schizofre-
nia, come quella evidenziata ad Auschwitz o a Dachau. Il
mistero dell'eucaristia e il mistero della vita umana sono la
stessa cosa. Per dirlo con le parole di sant'Agostino: «E il
vostro mistero che voi celebrate».
In quanto fonte e culmine della vita cristiana, quindi, la li-
turgia richiede il pieno coinvolgimento dell'intera comunità
celebrante. Ci sono differenti ministeri, come san Paolo ci
ricorda, ed è il nostro comune battesimo in Cristo che ci
3 3
chiama ad esercitare il nostro sacerdozio battesimale nell'a-
dempimento di quei ministeri. Conseguentemente, il cuore
delle riforme liturgiche del Vaticano II fu il recupero di una
«piena, consapevole e attiva partecipazione» alla liturgia (SC
14). Quando questa partecipazione è condivisa da differen-
ti membri dell'assemblea, allora la chiesa, in quanto corpo
di Cristo, è vista nella sua piena statura. E vero anche il con-
trario. Quando la domenica il presidente dell'assemblea fa
lui da solo ogni cosa senza preoccuparsi dell'assemblea stes-
sa, allora la liturgia è quanto meno anemica: appare monca,
per il fatto che non riesce a rappresentare la ricca diversità
propria dell'unico corpo di Cristo. Già in passato, negli an-
ni Trenta, il pioniere liturgico Martin Hellriegel, tedesco di
nascita, aveva contestato la teoria del 'crogiuolo' in cui tut-
to viene a fondersi in uniformità. Un tale approccio, comu-
ne in quel periodo in cui si parlava ogni giorno di immigra-
zione negli Stati Uniti, non aveva posto nella liturgia cristia-
na. Hellriegel a quello preferiva l'immagine di un mosaico in
cui ogni tessera era diversa e preziosa. Questa diversità non
è mai manifestata più riccamente che nell'assemblea liturgi-
ca, laddove i differenti ministeri sono esercitati da donne e
uomini di età e di colore differenti.
Oggi la liturgia continua a comprendere l'intera ampiez-
za di rituali ufficiali e celebrazioni sacramentali della chiesa,
molti dei quali sono non-eucaristici. Nondimeno, almeno
per i cattolici, il culto è spesso identificato esclusivamente
con la messa e quando si programma qualche evento eccle-
siale è quasi sempre l'eucaristia ad essere scelta come il mo-
do migliore di ritualizzare quel momento. L'eucaristia è, na-
turalmente, la liturgia per eccellenza - culmen et fons, «la
fonte e il culmine» della vita della chiesa, come ci ha ricor-
dato il Vaticano II - , ma la nostra vita liturgica resta impo-
verita se non prendiamo mai in considerazione alcun'altra
34 I Liturgia e rito
forma di liturgia disponibile nel ricco tesoro della chiesa. Le
funzioni vespertine (Evensong) che sono spesso celebrate,
nei pomeriggi della domenica o di altri giorni festivi, nelle
chiese anglicane, costituiscono un buon esempio. Per loro
stessa natura sono liturgia, con la loro piena gamma di mini-
steri liturgici e con le varie forme di partecipazione comuni-
taria. Ma non sono eucaristiche. Ciò che può sorprendere
molti cattolici è che pure la loro chiesa ha una propria for-
ma di preghiera comune del mattino e della sera, ma che è
utilizzata raramente. Di fatto, nonostante la tradizione dei
vespri domenicali in parrocchia fosse stata incoraggiata sia
al concilio di Trento sia al Vaticano II, si fa molta fatica a
trovare vespri domenicali in chiese cattoliche, forse con l'ec-
cezione della basilica di S. Pietro in Vaticano, dove i vespri
sono cantati ogni domenica sera con numerosi fedeli. Detto
semplicemente, tutte le eucaristie sono liturgia o liturgiche,
ma la liturgia non è, o non deve essere, necessariamente eu-
caristica.
Ormai, dovrebbe essere del tutto evidente che la liturgia
cristiana può essere espressa in una varietà di modi e che
giungere a una singola definizione che abbracci tutti gli
aspetti è una sfida tremenda. Molto dipende da ciò che si
vuole enfatizzare: la funzione simbolica della liturgia con
speciale attenzione agli studi rituali; la funzione liturgica di
Cristo come attore principale nell'azione rituale; il corpo
mistico di Cristo e il ruolo dell'assemblea come 'soggetto'
piuttosto che come 'oggetto' dell'azione liturgica. Ciò che è
importante, comunque, è un'integrazione delle differenti
componenti per arrivare ad una sana e bilanciata definizio-
ne di ciò che costituisce la liturgia per i cristiani e del per-
ché essa è così importante per la vita delle nostre chiese.
3 5
La liturgia come incontro con Dio
36 I Liturgia e rito
credenti e non credenti insieme. Di per sé, il celebrare cri-
stiano imita lo schema della nostra salvezza, che cominciò
con l'iniziativa di Dio e proseguì con la nostra risposta, sia
individuale sia comunitaria. Ricordiamo la chiamata di
Abramo e Sara e la loro risposta di fede; la storia di Noè,
con le sue immagini battesimali. Pensiamo a Mosè e alla sua
prontezza nell'accettare la vocazione alla quale Dio lo chia-
mava e a come guidò gli Israeliti fuori dall'Egitto, avendo fi-
ducia in Dio. La fedeltà divina la si vide nell'evento pasqua-
le e nel concedere agli Israeliti un passaggio sicuro quando
attraversarono incolumi il Mar Rosso. Ma soprattutto è l'al-
leanza di Dio offerta agli ebrei (e la loro fedele risposta) che
si estende fino a noi oggi, grazie alla passione, morte e ri-
surrezione di Gesù Cristo. L'iniziativa di Dio e la risposta
umana costituiscono la dinamica operante nella tradizione
giudeo-cristiana e, conseguentemente, anche nella nostra li-
turgia. Per i cristiani, Gesù è la vera rivelazione di Dio: il do-
no di Dio per noi.
Al cuore di questo dialogo nel culto cristiano c'è la Tri-
nità. La chiesa prega il Padre, mediante Cristo, nello Spirito
santo. Noi preghiamo per Cristo ovvero mediante Cristo,
perché Gesù è il nostro mediatore e intercessore; egli è l'at-
tore principale. E questo il caso se parliamo dell'eucaristia,
del battesimo cristiano o della liturgia delle ore: tutta la li-
turgia cristiana è trinitaria. Cristo siede alla destra di Dio co-
me sommo sacerdote {Eh 8,2; 6,20) e intercede a nostro fa-
vore (7,25). Alcune studiose femministe hanno recentemen-
te proposto formule alternative, per esempio suggerendo di
rivolgersi a Dio come Creatore, Liberatore, Santificatore, in
favore di una liturgia più inclusiva. Ma quelle alternative
presentano, comunque, altri problemi, dal momento che
Dio Padre non è solo Creatore ma allo stesso tempo è anche
Liberatore e Santificatore, e lo Spirito santo può essere chia-
3 7
mato anche Creatore (abbiamo testi di inni come il Veni,
creator Spiritus [Vieni, o Spirito creatore], che lo attestano).
Dove possiamo tracciare la linea di demarcazione? Altre
teologhe femministe, come l'ultima Catherine LaCugna, dis-
sentono dalle còlleghe femministe, sostenendo che dal pun-
to di vista relazionale si perde qualcosa quando Padre, Fi-
glio e Spirito santo sono sostituiti con termini più generici.
Questa dossologia è modellata sull'antica comprensione
trinitaria di Dio nella storia della salvezza: Dio è l'origine di
tutta la creazione; Gesù Cristo rivela Dio al mondo ed è, co-
me il teologo domenicano Edward Schillebeeckx ci ricorda,
«sacramento dell'incontro con Dio». Egli è così il capo del-
la chiesa, in quanto opera come intercessore e mediatore; lo
Spirito santo provvede l'energia e la forza, perché Cristo
conduca tutti a Dio. Perciò nella dossologia che conclude la
preghiera eucaristica preghiamo: «Per Cristo, con Cristo, in
Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito
santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli». Da
questa liturgia trinitaria discende Yortodossia: ossia, stando
alla lettera, il 'culto retto', piuttosto che la 'retta dottrina', in
quanto la liturgia è correttamente diretta a Dio - Padre, Fi-
glio e Spirito santo.
Parlare di culto cristiano come dossologia implica neces-
sariamente i concetti liturgici di 'anamnesi' e di 'epiclesi'.
Anamnesi ha a che fare col rendere noto un evento salvifico
nel presente: è il ricordare o richiamare le azioni potenti di
Dio nella storia della salvezza, ma anche ricordare i modi in
cui Dio sta salvando noi qui ed ora - in quest'anno, in que-
sto mese. E precisamente mediante l'azione del ricordare
che la comunità celebrante richiama i prodigi di Dio e il pas-
sato è attualizzato nel presente. Per gli antichi ebrei, questo
senso del ricordare era una realtà molto più dinamica di
quanto non accada nel nostro approccio occidentale analiti-
38 I Liturgia e rito
co alla realtà. In quel contesto semitico, 'ricordare' significa
alla lettera uno spostamento dinamico del passato nel pre-
sente. Oggi, mediante i suoi riti, la chiesa conserva la me-
moria di quegli eventi salvifici che furono la passione, la
morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Johann Baptist Metz
parla di questo ricordo del mistero pasquale come di una
«memoria rischiosa». E 'rischiosa' perché minaccia il pre-
sente e mette in questione o contesta lo status quo. Ma que-
sto memoriale è anche liberatorio, in quanto guarda con
speranza al futuro, chiamando i cristiani a una continua
conversione, «a trasformar se stessi senza posa per adeguar-
si a tale futuro»6. In questa «memoria rischiosa» sta il ruolo
profetico della liturgia, nel suo porsi in posizione dialogica
con la società umana.
Il epiclesi è collegata all'anamnesi, poiché lo Spirito santo
è invocato sul popolo e sui doni offerti. Per il potere dello
Spirito, questi doni - il pane, il vino e la comunità - sono
trasformati nel corpo e sangue di Cristo. Questa trasforma-
zione dei partecipanti alla liturgia li porta alla diakoma, al
'servizio' cristiano degli altri. Così, l'umile servizio di lavare
i piedi (simbolicamente espressivo del generoso servizio agli
altri) e la frazione del pane sono intimamente legati. Anche
se il locus naturale di quest'anamnesi e di quest'epiclesi è la
preghiera eucaristica, tutta la liturgia cristiana include ne-
cessariamente l'anamnesi e l'epiclesi come costitutive di
quel 'culto retto' per cui il corpo mistico di Cristo è convo-
cato. Questa liturgia che intesse un dialogo tra Dio e la co-
munità cristiana, in tal modo, abilita e sprona l'assemblea a
3 9
intessere a sua volta un dialogo che si estenda fino ad ab-
bracciare il mondo di Dio. In Occidente, la nostra com-
prensione del ruolo dello Spirito santo è stata piuttosto sot-
tosviluppata se comparata con quella delle chiese d'Oriente.
La ricerca più recente, come quella del liturgista statuniten-
se Edward Kilmartin e del liturgista italiano Cesare Girau-
do, entrambi gesuiti, ha richiamato l'attenzione sul ruolo
dello Spirito nella liturgia cristiana e, in particolare, sulla
trasformazione che egli opera della stessa assemblea liturgi-
ca, insieme con le offerte.
Come è già stato menzionato, dobbiamo essere attenti a
non fissare l'anamnesi o l'epiclesi in un unico luogo, come
se fossero limitate a momenti specifici. Prima del concilio
Vaticano II c'era un problema simile con la individuazione
del momento puntuale della 'consacrazione' durante la pre-
ghiera eucaristica. In alcune situazioni quello della consa-
crazione fu interpretato come il solo momento che aveva im-
portanza durante la liturgia, e veniva segnalato dallo squillo
di un campanello che serviva ad avvertire tutti quelli che
erano altrimenti occupati con le loro devozioni (la preghie-
ra era normalmente pronunciata tranquillamente dal prete)
che il momento fatidico era giunto7. La più recente ricerca
liturgica ha riscoperto il fatto che, in realtà, Xintera preghie-
ra eucaristica è consacratoria, non solo il racconto dell'isti-
tuzione (quando si pronunciano le parole: «Questo è il mio
corpo», «Questo è il mio sangue»). Non prendere sul serio
questa realtà porta a una divisione entro la preghiera euca-
ristica, dando la priorità a quelli che sono considerati gli ele-
menti più importanti e accordando minore attenzione al re-
sto della preghiera. La preghiera eucaristica dev'essere con-
siderata come un vestito senza cuciture, dal dialogo che apre
40 I Liturgia e rito
il prefazio («In alto i nostri cuori!») fino al grande «Amen»
che conclude la dossologia, in cui l'assemblea dà il suo as-
senso cantato a tutto quanto è stato proclamato. Non con-
servare l'unità e l'integrità della preghiera eucaristica gene-
ra altre problematiche. Una diviene manifesta in certe chie-
se italiane dove, piuttosto che aspettare che la raccolta delle
offerte sia terminata, il presidente procede immediatamente
alla preparazione dei doni eucaristici mentre i fedeli armeg-
giano con i loro spiccioli. La colletta normalmente continua
durante la preghiera eucaristica (incluso il canto del Sanc-
tus), con l'eccezione della 'consacrazione', momento in cui
il sagrestano si genuflette con reverenza sostenendo il cesto
delle offerte dei fedeli. Appena il presidente proclama le pa-
role: «Mistero della fede», il sagrestano scatta di nuovo in
piedi e continua a fare il giro dell'assemblea finché non sia
completata la raccolta delle offerte. Questa confusione per-
petua la dicotomia tridentina tra un nucleo sacramentale de-
gno di attenzione e il resto dell'azione liturgica, che poteva
servire a edificare i presenti, ma non aveva bisogno di coin-
volgerli se non c'era stringente necessità.
Un'accurata attenzione all'anamnesi e all'epiclesi condu-
ce a un accresciuto senso del mistero nel culto cristiano. Per
sua stessa natura, la liturgia è trascendente e maestosa, ci
coinvolge nell'esperienza cosmica del divino insieme con gli
angeli e i santi, che notte e giorno proclamano a gran voce:
«Santo, santo, santo è il Signore Dio, l'Onnipotente» {Ap
4,8). Dio abita «in una luce inaccessibile» (1 Tm 6,16) e Cri-
sto è il mistero di Dio (3,16). Così, anche quando rispon-
diamo all'invito di Dio e siamo coinvolti nel mistero di Dio
mediante la nostra partecipazione liturgica, non afferreremo
mai completamente la profondità di quel mistero su questa
terra. Quaggiù sperimentiamo la tensione escatologica tra il
'già' e il 'non ancora'. In effetti, benché ci venga offerto nel-
4 1
l'eucaristia un assaggio del banchetto eterno, per esempio,
questo rimane solo un pregustare, sino a quando alla fine di-
moreremo con Dio per sempre in cielo. La stessa realtà pro-
lettica rimane vera per tutte le forme di liturgia cristiana: af-
ferriamo qualcosa del mistero del regno di Dio, ma la realtà
piena rimane velata ai nostri occhi.
Questa distinzione tra il 'già' e il 'non ancora' è significa-
tiva quando consideriamo l'attuale realtà liturgica nell'epoca
post-conciliare. In alcune zone del mondo - e questo rima-
ne vero per tutte le chiese cristiane - ci sono stati tentativi di
rendere la liturgia completamente intelligibile in tutte le sue
forme e di spiegare i suoi simboli e gesti fin quando non riu-
sciamo a capirli. Positivamente, possiamo notare lo sposta-
mento verso l'uso delle lingue vernacole nelle celebrazioni li-
turgiche e un più grande accesso alla liturgia, insieme con un
recupero dei differenti ministeri liturgici per tutti i battezza-
ti. Negativamente, alcuni osservatori protestano per liturgie
prive di silenzio e reverenza, prosaiche e banali, perché sono
diventate eccessivamente verbose. In altre situazioni, l'im-
manenza di Dio ha sostituito la trascendenza di Dio e un sa-
no bilanciamento tra le due è andato perduto. In maniera
non sorprendente, tentativi pastorali di spiegare completa-
mente ogni cosa hanno portato alcune comunità a rilevare
un certo malessere nella loro vita liturgica. In tali contesti, la
liturgia è diventata piuttosto un'attività democratica della
classe media, carente di timore reverenziale e di mistero.
Le sacre Scritture del giudaismo e del cristianesimo -
quelle che comunemente sono state chiamate 'Antico' e
'Nuovo' Testamento - costituiscono le basi per il culto cri-
stiano. Non solo la predicazione liturgica è basata sui testi
scritturistici prescritti dal Lezionario festivo distribuito su
un ciclo triennale, ma tutte le altre preghiere e canti liturgi-
ci, gli inviti e le monizioni trovano la loro origine nella Bib-
42 I Liturgia e rito
bia (SC 24). Il comando eucaristico: «Prendete, mangiate,
questo è il mio corpo; prendete, bevete, questo è il mio san-
gue. Fate questo in memoria di me», è esso stesso scritturi-
stico. In effetti, la base scritturistica dei testi liturgici rimane
vera per tutta la liturgia cristiana, sia eucaristica sia non eu-
caristica. Mentre questo fondamento è abbondantemente
chiaro nella liturgia delle ore, la sua influenza è forse meno
evidente in altri riti della chiesa, ma l'ispirazione scritturisti-
ca c'è sempre. Dobbiamo anche chiederci che cosa ci sia al
di là o dietro il testo. Ogni testo sacro, proclamato o utiliz-
zato nella liturgia, proviene dall'esperienza di fede vissuta di
una comunità giudea o cristiana, e questo determina anche
il modo in cui interpretiamo e usiamo quel testo nelle cele-
brazioni cristiane del XXI secolo.
Quest'intimo legame è la preoccupazione dei liturgisti co-
me pure dei biblisti. Più di dieci anni fa, la Pontificia com-
missione biblica sottolineò quest'importante relazione nel
suo documento Linterpretazione della Bibbia nella chiesa8. Il
biblista italiano Renato De Zan ha fatto un'utile distinzione
tra Bibbia e liturgia e Bibbia nella liturgia. Quando parlia-
mo di Bibbia e liturgia abbiamo a che fare con la memoria
di quell'evento salvifico fondante che è conservato e venera-
to non solo nella prima assemblea dei nostri antenati, ma an-
che nell'assemblea contemporanea alla quale è intimamente
connessa. Nella seconda proposizione di De Zan - Bibbia
nella liturgia - parliamo più dell'applicazione pastorale del-
la Scrittura alla liturgia: della struttura soggiacente alla cele-
brazione liturgica e anche della «riformulazione della Scrit-
tura» nel culto stesso. Qui, rientrano questioni come la rela-
4 3
zione tra la prima e la terza lettura, o l'eliminazione di certi
versetti da particolari passi biblici in dipendenza dalla festa
o dal contesto9.
Conclusione
44 I Liturgia e rito
Infatti il pozzo è profondo. Quanto profondo è il nostro sec-
chio? Per dirla con le parole di uno studioso di liturgia:
«Ciò che porti fuori è l'inestimabile privilegio di lodare Dio
onnipotente; questo è ciò che tu porti fuori!». Dire che la li-
turgia non riguarda me significa anche dire che essa non è
né il tempo né il luogo per risolvere le mie questioni e dare
sfogo alla mia creatività a prescindere dagli altri - questo
specialmente in riferimento alla predicazione e alla pro-
grammazione liturgica generale. Inoltre, significa che le ten-
denze reclusive a separarmi dal resto dell'assemblea, quan-
do mi vado a sedere in disparte in un angolo della cappella,
non sono ciò cui il Vaticano II pensava quando parlava di
«piena e attiva partecipazione liturgica».
La liturgia cristiana è, in definitiva, lode e rendimento di
grazie a Dio in quanto in esso noi richiamiamo le potenti
azioni di Dio e arriviamo a ri-scoprire la nostra identità co-
me corpo di Cristo in questo mondo. Come abbiamo già vi-
sto, la liturgia ha anche un'importante funzione intercesso-
ria, perché le necessità delle chiese e del mondo sono rese
manifeste e perché l'assemblea si unisce a quelli che soffro-
no. In questo modo, i partecipanti alla liturgia sono abilita-
ti a guardare il mondo di Dio con gli occhi di Dio. Così, la
liturgia non riguarda mai noi soltanto. Riguarda l'opera di
Dio nel mondo e in una particolare comunità. Instaurando
questa comunione con Dio e degli uni con gli altri, la litur-
gia, di fatto, edifica la comunità, facendole ricordare sia la
sua identità sia il suo destino. Con le parole di Thomas S.
Eliot: «Che vita hai se non hai una vita insieme? Non c'è vi-
ta che non sia in comunità e non c'è comunità che non viva
nella lode di Dio»10.
45
Sviluppo e declino
della liturgia
Introduzione
Il perìodo apostolico
4 7
concetto di un anno liturgico e, in particolare, le feste di pa-
squa e pentecoste. Il culto dei martiri pure ha le sue radici
nel giudaismo. Altre tradizioni liturgiche come l'imposizio-
ne delle mani, inviti come «Preghiamo!», e le dossologie a
conclusione delle preghiere pure furono prese in prestito
dal giudaismo; e questi sono elementi che si possono ancor
oggi trovare nelle celebrazioni cristiane.
Detto questo, dobbiamo essere attenti a non percepire
come troppo intima la relazione tra la pratica liturgica giu-
daica e quella cristiana. Infatti anche se i primi cristiani vo-
levano mantenere le tradizioni del loro passato, essi erano
pure desiderosi di dimostrare quanto fossero ritualmente
differenti dai loro antenati spirituali, in quanto erano ora di-
venuti seguaci di Cristo. Gesù stesso incarna quest'equili-
brio tra il vecchio e il nuovo: «Non sono venuto ad abolire
la legge e i profeti, ma a dare compimento» (Mt 5,17).
Come fedele ebreo, Gesù osservò il sabato ma non ne fu
schiavo. La vera liturgia necessariamente includeva il servi-
zio degli altri - anche in giorno di sabato, quando gli ebrei
dovevano fermarsi da ogni attività (da qui il suo conflitto
con i farisei: Me 2,27). Le persone e le loro necessità veniva-
no prima di ogni servile interpretazione della legge. Anche
Gesù partecipò liturgicamente alle grandi feste dell'anno li-
turgico giudaico: la pasqua (Mt 26,17-19), la pentecoste (Gv
5,1), la festa delle capanne (Gv 7,10) e la dedicazione del
tempio (Gv 10,23). Gesù distinse pure tra il culto che era
meramente cerimoniale o superficiale e il vero culto (e «i ve-
ri adoratori»), che è adorare Dio «in spirito e in verità» (Gv
4,23s.).
Il cristianesimo non emerse nel I secolo come ciò che og-
gi sarebbe considerata formalmente una religione: non c'e-
rano santuari o templi, non c'erano sacrifici o un culto pub-
blico, non c'erano celebrazioni o feste pubbliche. Poiché il
4 9
in questi quattro diversi racconti, poiché i testi furono com-
posti per differenti uditori. Il racconto di Paolo in 1 Cor 11
è significativo, in quanto fa riferimento alla tradizione che
egli stava trasmettendo ai cristiani di Corinto: «Io, infatti, ho
ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso:
il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del
pane...» (1 Cor 11,23). Luca e Paolo includono il comando:
«Fate questo in memoria di me», che non si trova né in Mar-
co né in Matteo. Quest'istituzione dell'eucaristia ha chiara-
mente luogo nel contesto di un pasto domestico, indipen-
dentemente dal fatto che quel pasto fosse o meno la cena pa-
squale.
Per quei primi anni del periodo apostolico, quando la vi-
ta e la missione della chiesa prendevano forma, disponiamo
di informazioni poco dettagliate su come precisamente i se-
guaci di Gesù celebravano, o su che cosa facevano quando
si riunivano insieme per la preghiera comune. Gli Atti degli
apostoli parlano della «frazione del pane» (At 2,46). Tale im-
magine eucaristica si può trovare in numerosi riferimenti
nelle Scritture cristiane, come nel racconto della cena a Em-
maus (Le24,13-35), quando i discepoli stessi richiamano co-
me il Signore risorto spiegò loro le Scritture e spezzò il pa-
ne. Quest'immagine diviene chiara specialmente nel v. 30,
che inizia con le parole: «Quando fu a tavola con loro, pre-
se il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò...». Il batte-
simo porta con sé i propri riferimenti liturgici che rimanda-
no a un'immersione nell'acqua operata dalla parola di Dio
(£/5,26) e che era compiuta nel nome di Cristo per il per-
dono dei peccati e per ricevere il dono dello Spirito (At
2,38). Dei numerosi riferimenti battesimali nelle Scritture
cristiane, solo il racconto della conversione dell'etiope de-
scrive il rito battesimale: «Discesero tutti e due nell'acqua,
Filippo e l'eunuco, ed egli lo battezzò...» (At 8,38s.). Leg-
5 1
chiesa locale e il vescovo, particolarmente in riferimento al-
le celebrazioni sacramentali. Come nella Didachè, troviamo
l'incoraggiamento ai cristiani a giovarsi delle celebrazioni li-
turgiche - specialmente l'eucaristia - per la salvezza delle lo-
ro anime. Per diversi secoli, in realtà, alcuni eretici compo-
sero i loro testi di preghiera, che venivano fatti circolare ed
erano usati anche da ignari cristiani che non conoscevano
niente di meglio.
La storia del culto cristiano delle origini rivela una chiesa
giovane e combattiva che tentava di trovare il proprio per-
corso, e non senza una moltitudine di conflitti interni. Men-
tre c'erano le ovvie tensioni tra i praticanti del giudaismo e
del cristianesimo, un significativo livello conflittuale si regi-
strò pure all'interno della chiesa stessa tra cristiani prove-
nienti dal giudaismo e dal paganesimo. Il dibattito su que-
stioni come la circoncisione e le leggi alimentari, com'è com-
provato dal concilio di Gerusalemme (At 15), offre un esem-
pio. E quel dibattito infuriò per anni. La stessa Didachè par-
la di cristiani che difendono le loro posizioni contro prati-
che liturgiche giudaiche. I giudei convertiti al cristianesimo
continuavano a osservare il sabato, ma poi si riunivano la
domenica per il culto cristiano che comprendeva la predica-
zione della Parola e la frazione del pane (At 20,7); non si sa
chi guidasse questi rituali domestici. Un altro esempio di
tensioni in epoca antica si può trovare in quella che fu chia-
mata 'controversia quartodecimana', riguardante la data
giusta dell'annuale festa di pasqua. La situazione non fu ri-
solta fino al concilio di Nicea nel 325. I cristiani proclama-
vano la loro identità singolare anche in altri modi. Poiché i
giudei osservavano il lunedì e il mercoledì come giorni di di-
giuno regolare, i cristiani scelsero il mercoledì e il venerdì.
A partire dal III secolo essi attribuirono un significato spiri-
tuale alla loro scelta: il mercoledì era per commemorare il
5 3
di per una completa immersione nelle acque iniziatiche, il ri-
vestirsi di una veste bianca, seguito subito dopo da un pasto
rituale celebrativo. Ci fu anche una certa somiglianza nel lin-
guaggio eucaristico. Incise sui muri di un tempio di Mitra a
Roma c'erano le parole: «Tu ci hai salvato, o Mitra, per mez-
zo del tuo sangue prezioso». Basta cambiare il nome 'Mitra'
in 'Cristo' e pòco altro si richiede per tradurre appropriata-
mente quell'esjpressione in un contesto cristiano. In una ba-
silica pagana Sotterranea a Roma c'è un interessante affre-
sco: è rappresentato un altare su cui sono collocati pane e
pesce. Dietro l'altare sta un presidente con le braccia diste-
se in preghiera, vestito di paramenti liturgici non diversa-
mente da come sarebbe stato vestito se cristiano. Ci sono an-
che riferimenti al «cibo per il viaggio» - una condivisione ri-
tuale di cibo con i morti per garantire il loro passaggio sicu-
ro all'altro mondo, non diversamente da ciò che i cristiani
più tardi avrebbero chiamato viaticum (la santa comunione
per i moribondi). Naturalmente quegli elementi linguistici e
rituali significavano cose molto differenti nelle differenti re-
ligioni; nondimeno, la somiglianza nell'espressione e nello
stile è molto affascinante. Ci si domanda come abbiano avu-
to origine questi prestiti liturgico-simbolici e chi abbia ini-
ziato lo scambio.
In aggiunta alle religioni misteriche, ci fu un ulteriore pre-
stito di elementi culturali ritenuto accettabile nel culto cri-
stiano. Tertulliano prese in prestito il termine sacramentum
dal vocabolario militare, là dove la parola originariamente
aveva a che fare con un giuramento prestato all'imperatore.
Altri esempi comprendono l'uso di olio per ungere, una la-
vanda dei piedi dei neo-battezzati e l'usanza di offrire una
coppa di latte e miele nei riti d'iniziazione cristiana. Il lava-
re i piedi e i calici di latte e miele sono esempi particolar-
mente interessanti.
5 5
ci dei quattordici vescovi succedutisi nei primi due secoli
parlavano greco. L'uso del latino nella liturgia ebbe origine
in Nord Africa sotto la guida di papa Vittore (t 203). La
conseguenza fu una liturgia mista, che comprendeva l'uso
del latino per le letture scritturistiche e un uso continuato
del greco per le preghiere (la prima versione latina delle
Scritture apparve intorno all'anno 250). Il vocabolario litur-
gico in latino si arricchì grandemente grazie a scrittori come
Cipriano, Tertulliano e Agostino. Nel frattempo, i cristiani
romani continuarono a usare il greco per le celebrazioni li-
turgiche fino alla metà del IV secolo, durante il papato di
Damaso I, quando la maggioranza dei romani non com-
prendeva ormai più il greco.
In maniera interessante, come una concessione culturale
- ciò che noi chiameremmo 'inculturazione' - la chiesa ro-
mana passò al latino per la liturgia, in modo che coloro i
quali partecipavano fossero in condizione di comprendere
ciò che stavano celebrando. Questo è significativo oggi, vi-
sto che conservatori reazionari premono per un ritorno al la-
tino perché quest'ultimo sarebbe «una lingua più sacrale».
In sé e per sé, il latino non è più 'sacrale' di quanto non lo
siano il greco o il giapponese. Ciò che forse diede al latino
questo carattere sacrale fu il fatto che giunse ad essere usa-
to solo nella liturgia e che era inintelligibile per la maggior
parte degli adoratori. Oggi, il latino rimane la lingua ufficia-
le della chiesa cattolica e della sua liturgia, anche se al Vati-
cano II furono accordate importanti concessioni alle lingue
vernacole. Nel VII secolo ci fu un breve ritorno all'uso del
greco nel culto liturgico, probabilmente a causa di un cre-
scente numero di immigranti provenienti dall'Oriente. Que-
sto cambiamento, tuttavia, doveva avere vita breve. Presto la
liturgia romana sarebbe tornata all'uso esclusivo del latino e
i fedeli sarebbero stati sempre più allontanati dai riti della
59
cita in quest'immagine e in questo disegno architettonico
era l'importanza dell'ospitalità, specialmente nei confronti
degli stranieri, dei poveri e degli emarginati. La liturgia cri-
stiana era incentrata su un pasto e i pasti venivano consu-
mati a casa, non nei templi. In realtà, nell'antica società gre-
ca condividere un pasto con amici intimi era il pranzo per
eccellenza, mentre mangiare da soli non era affatto pranza-
re. Mediante il battesimo, i cristiani diventavano gli «amici
di Dio», come scriveva Gregorio di Nissa, e in tale amicizia
la chiesa era chiamata a rendere culto nella sua casa. Dopo
che fu dichiarata la pace di Costantino con l'editto di Mila-
no (313 d.C.), le chiese domestiche furono usate come fon-
damenta delle più grandi basiliche cristiane, costruite per
accogliere le folle in numero crescente. L'accresciuto nume-
ro di membri fu una conseguenza del nuovo status del cri-
stianesimo riconosciuto come religione di stato dell'impero.
Le chiese costruite furono chiamate tituli perché presero il
loro nome dai proprietari che possedevano il 'titolo' di quel-
la proprietà: Marcello, Cecilia, Pudenziana, Clemente. An-
cora oggi, a Roma, alcune di quelle prime basiliche conser-
vano i nomi originali dei loro tituli.
Poiché l'architettura liturgica cresceva parallelamente al-
la consapevolezza di una condivisa partecipazione al corpo
di Cristo, così fece pure la struttura dei riti liturgici della
chiesa. La prima testimonianza che abbiamo della struttura
dell'eucaristia domenicale proviene da Giustino, filosofo e
martire, nella sua Prima apologia, scritta intorno all'anno
150. Di speciale interesse sono i capitoli sul battesimo (61)
e l'eucaristia (65-67). Giustino si riferisce al giorno «chia-
mato del sole» in cui i cristiani si riuniscono insieme nello
stesso luogo, sia che risiedano nella città o nella campagna.
Una volta radunati in assemblea, leggono dagli Atti degli
apostoli e dagli scritti dei profeti ebraici finché il tempo lo
2 Ibid., 61-63.
5 9
de anche la carità o la diakonia. Infine, il legame tra i mem-
bri assenti e l'assemblea pure è significativo: i diaconi por-
tano una porzione del pane e del vino consacrati a quelli che
erano costretti a casa, così che anch'essi possano partecipa-
re all'unica eucaristia. C'è ancora molto che non conoscia-
mo: come sono vestiti i ministri liturgici; com'è sistemato lo
spazio; qual è il tipo di musica che viene usato; come sono
10 stile e la forma delle preghiere che vengono pronunciate.
Ciò nonostante, in quella primitiva struttura del II secolo
possiamo riconoscere il modello dell'eucaristia che noi cri-
stiani continuiamo a celebrare duemila anni dopo.
La Tradizione apostolica dello Pseudo-Ippolito è un altro
importante documento, poiché presenta i primi testi liturgi-
ci da usare nel culto cristiano. La recente ricerca attribuisce
11 documento a uno Pseudo-Ippolito, perché gli studiosi non
riescono ad accordarsi sull'autore o sull'origine geografica
del documento. Inoltre, la sua datazione precisa è difficile
da accertare. La maggioranza colloca il documento agli ini-
zi del III secolo, nonostante diversi studiosi come Paul
Bradshaw datino il testo ancora più tardi, suggerendo che
potrebbe essere una redazione di diversi documenti, piutto-
sto che un unico testo senza cuciture composto nello stesso
periodo3..Sia come sia, la Tradizione apostolica ci offre un'in-
formazione preziosa sulla vita e sulla pratica liturgica della
chiesa delle origini.
Il testo può essere articolato in tre distinte sezioni. La pri-
ma si occupa dell'ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e
dei diaconi, e della nomina di confessori, vedove, lettori,
suddiaconi, nonché della consacrazione delle vergini. Sono
ces and Methods for the Study of Early Liturgy, Oxford University Press,
Oxford 1992.
6 1
con i poveri. Quando membri regolari della comunità en-
travano in chiesa in ritardo la domenica mattina, i diaconi
potevano assisterli nel trovare il loro posto nell'assemblea.
Se, comunque, il ritardatario era un ospite - probabilmente
un forestiero - o specialmente se la persona era povera, an-
ziana o chiaramente bisognosa, cambiava tutto: allora il ve-
scovo stesso doveva alzarsi e aiutare l'ospite a trovare un po-
sto a sedere. E se non c'erano posti rimasti liberi, allora il ve-
scovo doveva offrire il suo seggio presidenziale all'ospite e
sedersi lui sul pavimento! Questo documento, ampiamente
sconosciuto, ci offre oggi un meraviglioso esempio di ciò
che tutti i membri dell'assemblea sono chiamati a fare acco-
gliendosi l'un l'altro come Cristo, accogliendo specialmente
quanti sono relegati ai margini della società. Esso ci mostra,
inoltre, come l'assemblea liturgica è chiamata a porsi profe-
ticamente in marcato contrasto con le assemblee della so-
cietà civile5.
6 3
per l'immersione battesimale dei neofiti nella notte di pa-
squa. Nel mondo greco-romano le basiliche erano edifici
pubblici, a pianta rettangolare, costituiti da differenti vani -
da tre a cinque, normalmente - delimitati da file di colonne
portanti usate come divisori, con il trono dell'imperatore di
fronte all'assemblea. Questo concetto funzionò bene anche
per i cristiani. L'ampio spazio aperto intorno al perimetro
dello spazio dell'assemblea (la navata) poteva facilitare le
processioni liturgiche che sarebbero state una parte impor-
tante della liturgia 'stazionale' che fiorì a Roma, Costantino-
poli e Gerusalemme dal IV all'VIII secolo. L'area circolare
elevata di fronte all'assemblea accoglieva la sede - una sor-
ta di trono - del vescovo circondata da seggi per i suoi più
stretti consiglieri (i 'presbiteri'). Inoltre, restava spazio per
un altare per celebrare l'eucaristia, un ambone per procla-
mare le letture (tutti pezzi mobili) e il posto per altri mini-
steri liturgici. Questo stile imperiale dell'architettura corri-
spondeva bene alla natura imperiale della chiesa post-co-
stantiniana e all'accresciuto ruolo politico dei vescovi. Il fat-
to che le sedi presidenziali dei vescovi rassomigliassero ai
troni degli imperatori doveva essere compreso dai cristiani
del IV secolo, dato il ruolo che i loro vescovi giocavano nel-
la società secolare. Questo è un altro esempio ancora di pre-
stito culturale con una reinterpretazione a fini cristiani6.
Dopo il 380, quando il cristianesimo divenne 'maggioren-
ne', l'influenza delle sue guide - i vescovi - continuò a
espandersi in tutte le sfere del governo civile. Essi ricevette-
ro l'onore di essere salutati da «un coro di vergini» quando
facevano il loro ingresso in basilica durante le liturgie sta-
zionali. Venivano serviti con i guanti ai loro troni episcopa-
7 Ibid., 69-71.
6 5
alcune delle più profonde omelie sull'iniziazione che esista-
no nella tradizione cristiana. Troviamo un'informazione par-
ticolarmente utile sul processo catecumenale nella Tradizio-
ne apostolica. Essa suggerisce un periodo di preparazione
triennale per i candidati, benché sappiamo che la durata
temporale di questa fase variava da luogo a luogo in base al-
le consuetudini locali e alla preparazione di ogni singolo
candidato. Lo stesso documento offre una lista delle profes-
sioni che automaticamente rendevano uno ineleggibile co-
me candidato per il battesimo cristiano: prostituzione, stre-
goneria e così via. Prima dell'ammissione al programma, i
catechisti dovevano visitare vicini e amici dell'aspirante per
indagare sullo stile di vita della persona. In dipendenza dai
risultati del sopralluogo, la persona poteva essere accettata
0 rifiutata.
L'iniziazione cristiana non era certo un affare individuale.
Una volta iscritti al catecumenato, era responsabilità dell'in-
tera comunità camminare insieme con quegli aspiranti, 'fa-
cendoli crescere', poiché si preparavano alla piena incorpo-
razione nel corpo di Cristo. I catecumeni si univano al resto
dell'assemblea durante la liturgia della Parola nella messa
domenicale, ma dovevano essere congedati prima del bacio
di pace che collegava la liturgia della Parola alla liturgia eu-
caristica, perché «il loro bacio non era ancora puro», come
1 loro vescovi dovevano ricordare loro. Si può solo immagi-
nare l'eccitazione nella veglia pasquale quando quelle stesse
persone venivano ricondotte nella basilica dal battistero,
fresche di vasca battesimale da cui erano emerse, e offriva-
no il bacio agli altri membri della chiesa per la prima volta.
Il ruolo della comunità nel catecumenato può anche esse-
re visto alle origini del digiuno quaresimale. La stessa qua-
resima emergeva come il periodo finale di preparazione di
quelli che dovevano essere battezzati a pasqua: era un tem-
6 7
si levava da ogni dove. Io salutai il popolo e questo si rimi-
se a gridare, moltiplicando il suo entusiasmo. Quando final-
mente il silenzio fu ripristinato, furono proclamate le lettu-
re dalle sacre Scritture». Questa partecipazione era ulterior-
mente mostrata dalla processione con le offerte, quando i fe-
deli presentavano i loro doni: il pane che essi avevano cotto,
il vino che essi avevano prodotto e l'elemosina per i poveri8.
Il segno più pieno di quella partecipazione, tuttavia, arriva-
va nella condivisione «dell'unico pane e dell'unico calice»
durante l'eucaristia. Non era sufficiente per il fedele sempli-
cemente mangiare del pane consacrato; tutti i membri del-
l'assemblea liturgica bevevano anche dal calice, come segno
più pieno della condivisione eucaristica.
In questa stessa epoca assistiamo all'evoluzione del calen-
dario liturgico. Il natale del Signore cominciò ad essere ce-
lebrato a Roma intorno al 336. La data del 25 dicembre fu
scelta quasi a voler 'battezzare' la festa pagana del solstizio
d'inverno in Occidente, mentre la solennità dell'epifania fis-
sata al 6 gennaio in Oriente rappresentò similmente una so-
stituzione della festa pagana della nascita verginale di Dio-
niso, con le leggende ad essa correlate di varie epifanie di di-
vinità pagane, che in quel giorno venivano ricordate. Alcuni
anni più tardi, verso la fine del IV secolo, si cominciò a os-
servare anche la festa di san Giovanni Battista il 24 giugno.
Quest'ultima - cosa interessante - è fissata dunque, come si
vede, in corrispondenza al solstizio d'estate: data la posizio-
ne di Giovanni come precursore in rapporto a Cristo, è pro-
6 9
Non c'è un esempio più chiaro di questa sobrietà del lin-
guaggio semplice delle preghiere dopo la comunione che
troviamo nei primi sacramentari romani. Diversamente da
testi posteriori del periodo medievale, che si riferiscono ai
sacri elementi chiamandoli «il corpo e il sangue di Cristo»,
questo linguaggio qui virtualmente non esiste. Piuttosto,
erano utilizzati termini come «cibo e bevanda spirituali»,
«doni celesti» e «doni salvifici». Altri testi parlano di «pane
del cielo» e «calice di salvezza», termini che oggi continua-
no ad essere un'opzione nell'anglicano Book of Common
Prayer per l'amministrazione della santa comunione («il cor-
po di Cristo, il pane del cielo; il sangue di Cristo, il calice
della salvezza»). Questo, naturalmente, non è per suggerire
che gli antichi cristiani romani non riuscivano a credere in
quella che successivamente sarebbe stata chiamata presenza
reale, ma semplicemente per dire che non era parte del ge-
nio culturale romano parlare in termini così vividi.
Questa stessa nobile semplicità continuò nella liturgia
'stazionale' papale, nonostante le sue elaborate processioni
tipiche del cerimoniale romano di corte che si può notare in
una descrizione del VII secolo nell'Orio Romanus I. La la-
vanda delle mani del presidente è menzionata, ma sembra
essere un fatto puramente igienico, senza alcun particolare
simbolismo collegato. L'altare era allestito solo con una to-
vaglia alla preparazione dei doni (restava spoglio per la li-
turgia della Parola) ed era presumibilmente rimosso imme-
diatamente dopo la comunione. Durante la preghiera euca-
ristica il papa stava da solo all'altare, anche in presenza del
clero concelebrante (che rimaneva al proprio posto). Non
c'erano genuflessioni alle parole di consacrazione, né cam-
panelli o incensazioni e neppure segni di croce sugli ele-
menti. Il canto all'ingresso, alla preparazione delle offerte e
alla comunione duravano abbastanza a lungo da accompa-
7 1
geva intorno al vescovo, con i differenti ministeri condivisi
dagli astanti. Erano presenti nell'assemblea liturgica anche
monaci e monache della città, ed essi pure giocavano un ruo-
lo attivo. Di particolare interesse è l'attenzione di Egeria alla
preghiera comune del canto degli uffici liturgici - la pre-
ghiera del mattino e della sera - che comprendeva il pieno
compimento dei ministeri liturgici così come un certo uso
dei paramenti, di luce e incenso, processioni con il canto di
inni, e una grande enfasi sulla lode e l'intercessione. Salmi e
inni erano spesso cantati responsorialmente o antifonalmen-
te, consentendo una facile memorizzazione dei testi e dando
la possibilità di muoversi liberamente durante le processioni.
A Roma nei giorni di festa venivano scelte le sedi per la li-
turgia stazionale a seconda di quali basiliche conservavano
le reliquie dei santi. Quando le celebrazioni liturgiche non
erano memoriali di santi, quindi per esempio durante la
quaresima, si cercavano altre connessioni tematiche tra il
giorno liturgico e la basilica. Poiché il papa o un suo dele-
gato presiedeva sempre queste liturgie, esse erano i riti cele-
brati più solennemente nella città con la presenza di tutti
quelli che potevano essere presenti, sia del clero sia del lai-
cato di Roma. Accompagnato dal suo clero e dai suoi assi-
stenti, egli procedeva dalla prima stazione (per esempio il
palazzo del Laterano, dove il vescovo di Roma risiedeva) al-
la basilica predeterminata (la seconda stazione) per l'eucari-
stia di quel giorno. Quando il vescovo di Roma partiva dal-
la sua residenza con i suoi assistenti, le sette principali zone
geografiche della città avevano le proprie processioni coreo-
grafiche per arrivare alla basilica più o meno contempora-
neamente. Quelle sette processioni erano ognuna guidata
dalla croce processionale portata dal diacono che soprinten-
deva la diakonta (centri di raccolta per i poveri) in quel
quartiere. Quando il papa con il suo clero giungeva a desti-
7 3
do tipo di liturgia romana di quell'epoca - ovviamente me-
no solenne di quella papale -, fornita di corrispondenti libri
liturgici. E interessante osservare che in origine la finalità dei
tituli era quella di fornire servizi catechetici e penitenziali,
mentre erano le basiliche le sedi normative per il battesimo
e le celebrazioni eucaristiche. Le cose cambiarono per ragio-
ni pratiche, poiché la comunità ecclesiale continuava a cre-
scere. Le comunità più piccole non erano considerate come
parrocchie nel senso moderno; vera 'parrocchia' era la dio-
cesi, e il vescovo ne era il pastore. Così, il fermentum simbo-
leggia l'unità nell'unica parrocchia con il suo pastore, il ve-
scovo. Quando la comunità, crescendo, si espanse al di là
delle mura della città, chiese più piccole furono stabilite in
campagna, con propri presbiteri; quelle comunità furono
chiamate 'parrocchie' e i loro presbiteri furono chiamati 'pa-
stori' ovvero 'parroci'. La lettera di Innocenzo a Decenzio
nota che il fermentum non è portato alle comunità fuori le
mura, ma solo ai tituli: chiaramente c'è una differente rela-
zione fra le due. In campagna troviamo un terzo tipo di li-
turgia romana: la più piccola, meno formale eucaristia ro-
mana, dotata di un minor numero di ministeri liturgici e pri-
va di musica. Successivamente, l'eucaristia celebrata in grup-
pi speciali (celebrazioni durante i pellegrinaggi alle tombe
dei martiri, messe votive, messe celebrate nella cappella pri-
vata del papa con il suo personale domestico) avrebbe tro-
vato la sua origine in questo terzo raggruppamento. In que-
sto terzo tipo di eucaristia romana collochiamo anche i fon-
damenti per l'ordinamento feriale della messa e per le cele-
brazioni private senza un'assemblea (con l'eccezione di un
chierichetto) offerte a favore dei defunti o dei vivi13.
7 5
La storia non finì lì, comunque. Poiché la migrazione di
abati e vescovi continuò insieme con una serie di papi tede-
schi dal 1046 al 1057, grazie agli intrighi politici dell'impe-
ratore Ottone I, elementi franco-tedeschi provenienti dal
Nord trovarono facilmente casa nella liturgia romana. Sen-
za pensarci molto, quei papi tedeschi celebravano la liturgia
romana gallicanizzata che essi avevano conosciuto nelle loro
diocesi. Anche prima del loro arrivo, stante l'assenza di
scriptoria per trascrivere i libri liturgici, a Roma durante il
pontificato di Gregorio V (996-999) la liturgia franco-tede-
sca era diventata normativa nella basilica del Laterano, gra-
zie al dono di libri liturgici fatto dai monaci di Reichenau.
In altre parole, l'influenza liturgica romana cominciò a ro-
vesciarsi nel suo contrario e il 'puro e classico' rito romano
cessò di essere... puro e classico. Il canto del credo niceno
la domenica, per esempio, non era mai stata una tradizione
romana; ma quando nell'XI secolo Enrico II si recò a Roma
per ricevere l'incoronazione, chiese il permesso di avere il
credo cantato tutti insieme, com'era costume nel suo paese
natale. Il permesso fu concesso e il credo divenne parte del
rito romano nel 1014, ma mai come elemento fisso. Carlo
Magno lo aveva già introdotto nella liturgia gallicana nel-
l'anno 794. La chiesa di Milano, che seguiva (e ancor oggi
segue) il rito ambrosiano, nel IX secolo adottò la pratica
orientale di collocare il credo immediatamente prima della
preghiera eucaristica14. Le cosiddette apologie (preghiere
come: «O Signore, non sono degno...») pure sono tipiche
della liturgia gallicana. Anch'esse alla fine entrarono nella li-
turgia romana e, anche se le riforme liturgiche del Vaticano
II hanno tentato di purgare la celebrazione da questi testi
14 CABIÉ, The Church at Prayer, III, cit., 131s. [ed. it. cit., 160].
7 7
dere: «Quale rito romano?». Infatti, per raggiungere il puro
e classico rito romano dovremmo tornare al V secolo, quan-
do quel rito era intatto e nella sua forma più pura. Nella sua
purezza, esso era anche ciò che oggi diremmo 'inculturato',
dal momento che fu un'autentica espressione della cultura
romana - precisamente come il rito gallicano espresse il ge-
nio franco-tedesco.
La tentata romanizzazione del rito franco-tedesco è attri-
buita a Pipino il Breve (751-768) e a suo figlio Carlo Magno
(774-814), che fecero del loro meglio per usare la liturgia ro-
mana come strumento di potere politico per l'impero e per
stringere legami con la sede di Pietro. Il loro compito, co-
munque, fu più facile a dirsi che a farsi, poiché il rito galli-
cano nell'impero conobbe molte differenti forme e variazio-
ni. Come guide delle loro chiese locali, i vescovi avevano
l'ultima parola nella vita liturgica delle loro diocesi (incluse
le strutture e i testi liturgici) e c'era un'enorme varietà litur-
gica da diocesi a diocesi. Così, i tentativi di centralizzazione
liturgica, usando il rito romano come modello, avrebbero
incontrato alcune significative contestazioni. La liturgia ro-
mana fu adottata nell'impero, ma con alcune sostanziali va-
riazioni (che oggi potremmo chiamare 'adattamento cultu-
rale') secondo le consuetudini e gli usi liturgici locali.
Deciso a realizzare l'unità liturgica con Roma e la sop-
pressione dei sacramentari gallicani, Carlo Magno chiese a
papa Adriano I nel 783 di inviare un sacramentario romano
puro che potesse poi essere usato come testo fondante per
la centralizzazione liturgica del suo impero. L'imperatore
dovette attendere diversi anni per ricevere il libro desidera-
to e quando finalmente arrivò era meno che utile. Quello
che il papa inviò era un sacramentario gregoriano da usare
in liturgie papali stazionali. Adriano aveva ovviamente com-
preso male la richiesta, inviando un libro magnificamente
7 9
va raggiunto vertici straordinari. Anche se si potrebbero ci-
tare numerosi esempi, non ce n'è uno migliore che richia-
mare il pontificato di Giovanni XII (955-965), il quale fu
eletto all'età di diciotto anni. Era più interessato alla disso-
lutezza e al sesso che alla costruzione spirituale della chiesa.
Il suo stesso clero a Roma lo accusò di simonia, avendo or-
dinato vescovo un ragazzo di dieci anni e avendo trasforma-
to il palazzo del Laterano in un bordello. Morì per un colpo
apoplettico all'età di ventotto anni tra le braccia di una don-
na sposata. Secondo una teoria alternativa fu ucciso da un
marito geloso. La liturgia riflette sempre la chiesa; così non
c'è da meravigliarsi se la decadenza della chiesa in quel pe-
riodo lasciasse poco tempo per la composizione di nuovi li-
bri liturgici16.
Quando esaminiamo i mutamenti liturgici avvenuti nel
Medioevo, dobbiamo riconoscere che il cambiamento fu
graduale e dev'essere visto insieme con gli altri mutamenti
nella comprensione filosofica e teologica, nonché nella sto-
ria socio-culturale di quel periodo. Sopravvissuta alla deca-
denza del X secolo, la credibilità della chiesa fu restaurata
nell'XI secolo grazie all'elezione al soglio pontificio del
riformatore toscano Gregorio VII (1073-1085). Liturgica-
mente, la riforma monastica di Cluny, in Francia, giocò un
ruolo importante, che ebbe un effetto significativo sulla vita
liturgica dei monasteri in Europa, influenzando in definitiva
la liturgia della chiesa nella sua globalità.
I liturgisti romani del XII secolo tentarono di purgare la
liturgia dagli elementi gallicani e di restaurare il genio cul-
turale del rito romano classico in nuovi libri liturgici. Nel-
l'intento si ottenne ora più, ora meno successo. Il XIII se-
8 1
Il «distanziamento di Dio» si fece particolarmente acuto
nell'eucaristia. Il pane non lievitato fu introdotto in Occi-
dente nell'XI secolo. Dal momento che i laici avevano inter-
rotto la pratica della comunione frequente, portare da casa
pane e vino non aveva più senso17. In modo via via crescen-
te, fu enfatizzata l'adorazione dell'eucaristia piuttosto che la
sua condivisione. La preghiera eucaristica arrivò a essere
pregata a bassa voce o in maniera del tutto inudibile. Il san-
tuario o presbiterio divenne il 'santo dei santi' dove solo il
clero poteva trovare ospitalità. I fedeli laici mantenevano la
loro distanza ed erano separati da una 'balaustra' di legno
che demarcava con nettezza lo spazio liturgico; gradual-
mente quella barriera diventò più opaca. Il coro rimpiazza-
va l'assemblea nel canto della messa; la processione del po-
polo con le offerte cadde in disuso; le messe private abbon-
davano. Da parte sua, papa Gregorio VII fece un tentativo
di far rivivere la processione offertoriale del popolo, almeno
nelle solennità. Tuttavia, la liturgia era diventata proprietà
del clero fino al punto che i libri liturgici addirittura faceva-
no a meno di riconoscere la presenza dei laici nelle messe
pubbliche. Il modo normativo di celebrare la messa era es-
senzialmente quello senza un'assemblea, anche quando una
assemblea era presente. L'eucaristia era diventata una cosa
che il prete faceva per gli altri, piuttosto che l'unico sacrifi-
cio di Cristo offerto tutti insieme in quanto corpo di Cristo.
Allo stesso tempo il concilio di Rouen decretò che il pane
eucaristico non poteva più essere messo nelle mani dei laici.
Come ulteriore segno di rispetto, i comunicandi comincia-
rono a inginocchiarsi per ricevere il sacramento. Questo ge-
sto aveva anche un motivo pratico: serviva a far sì che il mi-
nistro potesse più facilmente porre l'ostia sulla lingua del
17 CABIÉ, The Church at Prayer, III, cit., 132 [ed. it. cit., 161].
8 3
gi, in luoghi come Siviglia, Granada, Malaga nel sud della
Spagna, e in Sicilia e in altre zone del sud dell'Italia. Sono
facilmente identificabili nelle loro processioni della settima-
na santa lungo le strade di quelle città e ancora si incontra-
no fra di loro durante l'anno per svolgere attività regolari.
Nella liturgia^ comunque, i laici restavano spettatori pas-
sivi. Si tendeva à dare la comunione prima o dopo la messa,
ma non durante essa: quando il prete si comunicava, i fede-
li potevano fare la loro 'comunione spirituale'. Erano con-
vinti di essere troppo indegni per fare diversamente. Du-
rante questo periodo aumentarono di numero i miracoli,
specialmente quelli riguardanti l'eucaristia. Erano passati i
giorni in cui l'assemblea considerava se stessa corpo di Cri-
sto e riceveva l'eucaristia per simboleggiare sia la propria
appartenenza a quel corpo sia la comunione degli uni con gli
altri. La messa era diventata l'offerta del prete, poiché egli
celebrava ad orientem (rivolto a oriente), volgendo le spalle
all'assemblea.
Intorno al 1200 l'ostia e il calice cominciarono a essere
elevati durante la preghiera eucaristica e veniva suonato un
campanello per avvertire l'assemblea che il momento della
consacrazione era arrivato. Si credeva che speciali grazie
fossero accordate ai presenti in quel momento. Il popolo co-
minciò a portare i suoi animali in chiesa, credendo che an-
ch'essi potessero essere guariti se si fossero trovati in chiesa
al momento dell'elevazione. Alcuni sostenevano che più a
lungo l'ostia era elevata, più grazie sarebbero state accorda-
te. Ci sono resoconti che attestano come nella campagna in-
glese del XII secolo i parrocchiani pregassero il loro pasto-
re di mantenere l'ostia elevata: «Più in alto, don Giovanni,
più in alto!», lo avrebbero implorato. A quell'epoca faceva-
no la loro comparsa altri resoconti di ostie sanguinanti, o
leggende in base alle quali coloro che ricevevano il corpo e
8 5
quivalente di più grande possibilità di grazia, di remissione
dei peccati e specialmente di 'abbreviazione della condanna'
in purgatorio. In questo periodo pure gli uffici ecclesiastici
(i ministeri) finirono per essere Venduti' e l'immoralità ses-
suale da parte del clero non era cosa rara.
In generale, il Rinascimento fu testimone di un interesse
ancora più grande per la magia - sia buona (cioè 'naturale')
sia cattiva (cioè 'demoniaca'). Così, le interpretazioni magi-
che dell'eucaristia abbondarono e il XIV e il XV secolo fu-
rono epoca di un ulteriore decadimento in ambito liturgico.
La messa fu interpretata allegoricamente sulla base dei dif-
ferenti momenti della vita di Cristo (per esempio, nel Gloria
si richiama la nascita di Cristo) e si arrivò a considerare che
avesse un valore limitato. L'interesse principale era per i
'frutti' della messa e per l'applicazione di quei frutti a inten-
zioni e a individui particolari. Era molto più vantaggioso
avere una messa detta per una persona che una messa offer-
ta per individui insieme con altri. Quest'opinione fu alimen-
tata dalla duplicazione delle messe - secondo il principio:
ogni messa un'intenzione -, poiché i preti non potevano ac-
cettare diversi stipendi per la stessa identica celebrazione21.
Il clericalismo non diminuì e l'apatia era in crescita poiché i
laici cattolici erano sempre più delusi dal loro clero.
Positivamente, questo fu anche il tempo di movimenti re-
ligiosi come la devotio moderna e di grandi guide spirituali
come Meister Eckhart (t 1327), Giovanna d'Arco (t 1431)
e Tommaso da Kempis (t 1471). Ma questi mistici con le lo-
ro espressioni di pietà religiosa fecero poco per restaurare la
vita liturgica della chiesa. Lo storico benedettino Burkhard
Neunheuser, tedesco, si è riferito a questo periodo come
8 7
3.
Liturgia in crisi,
liturgia in discussione
La riforma protestante
8 9
popolo - capaci di comunicare la grazia di Dio. A causa del-
l'errore papale per cui i sacramenti erano stati usati male e
mal rappresentiti, i cristiani erano deprivati della loro fonte
datrice di vita. In quel documento lamentava tre particolari
aspetti della schiavitù della chiesa: la negazione del calice a
tutti i battezzati, la dottrina della transustanziazione e la
dottrina medievale del carattere sacrificale della messa. Lu-
tero attaccò sia la messa come opera sia la messa come sa-
crificio offerto a Dio e, conseguentemente, abolì ogni no-
zione di celebrazione eucaristica senza un'assemblea - la
messa 'privata' - poiché non aveva senso. Con grande enfa-
si sulla liturgia comunitaria, abolì anche la confessione pri-
vata e sostenne la necessità di celebrare in lingua vernacola,
in modo che i fedeli potessero avere un accesso più grande
ai riti. E pubblicò i suoi scritti in tedesco, così che potesse-
ro influenzare un uditorio più ampio.
Analizzando l'eredità della riforma, c'è una tendenza da
parte di alcuni cattolici a riunire i riformatori in un unico
gruppo, quello dei 'protestanti'. Questa scelta si rivela poco
utile, poiché ogni riformatore aveva un programma singola-
re. Martin Lutero è stato chiaramente il più cattolico di tut-
ti. Ulrich Zwingli, Martin Bucero e Giovanni Calvino soste-
nevano una riforma ben più radicale di quella di Lutero e
criticavano quest'ultimo per un approccio che appariva loro
ancora troppo cattolico. Influenzato dagli umanisti, Zwingli
espose la sua riforma come parroco a Zurigo. Come quella
del suo contemporaneo Lutero, l'originaria riforma di Zwin-
gli era piuttosto conservatrice, ma gradualmente diventò
sempre più 'protestante' in ciò che propugnava liturgica-
mente. Tre anni dopo La cattività babilonese di Lutero,
Zwingli compose nel 1523 il suo trattato latino su 11 canone
della messa. In quel testo chiedeva l'uso della lingua verna-
cola nella proclamazione delle letture della Scrittura e rim-
9 1
Diversamente da Zwingli, la riforma di Strasburgo di
Martin Bucero e l'opera di Giovanni Calvino a Ginevra di-
fesero la pratica dell'unica eucaristia settimanale nel giorno
del Signore, poiché quella tradizione era fondata nelle Scrit-
ture cristiane. Bucero ebbe maggior successo di Calvino a
questo riguardo, promuovendo la pratica domenicale del-
l'eucaristia nella cattedrale di Strasburgo. Il rito vernacolo
di Bucero fu pronto nel 1524 e conteneva somiglianze con
la struttura liturgica di Zwingli, nonostante alcune modifi-
che. In realtà, Bucero stava a metà strada tra il conservato-
rismo cattolico di Lutero e l'approccio molto protestante di
Zwingli alla teologia e alla liturgia. Dal 1525 al 1539 Bucero
diresse la revisione della liturgia di Strasburgo, ideata dal
riformatore conservatore Diobald Schwartz nel 1524, e so-
vrintese a non meno di diciotto revisioni. Questo portò nel
1539 alla pubblicazione definitiva della messa di Strasburgo
in tedesco. Le sue riforme liturgiche divennero anche il fon-
damento per la composizione del Libro della preghiera co-
mune di Giovanni Calvino influenzato da Thomas Cranmer
(t 1556). E anche plausibile che la struttura liturgica ideata
da Bucero avesse qualche influenza pure sulle riforme di
Lutero2.
Il desiderio di Giovanni Calvino di un'eucaristia settima-
nale ebbe il veto definitivo dal Consiglio della città di Gine-
vra, che optò per seguire Zurigo nella celebrazione trime-
strale, poiché questa era stata accettata dalle città riformate
e dai cantoni della Svizzera. Quando si celebrava l'eucari-
stia, Calvino insisteva che ci fosse almeno un altro a comu-
nicarsi, oltre il ministro che guidava il servizio religioso, e
9 3
me la piena partecipazione liturgica dei fedeli e il celebrare
nella lingua del popolo. Cranmer fu influenzato dalla osser-
vazione da lui fatta del culto luterano a Norimberga nell'an-
no 1532, sebbene risulti che anche prima del soggiorno di
Cranmer a Norimberga i libri liturgici luterani avevano già
trovato la loro strada in Inghilterra durante gli anni Venti
del XVI secolo.
Come quelle di Lutero, le innovazioni liturgiche di Cran-
mer furono graduali. Il lavoro per il suo Communion Servi-
ce [Riti di comunione] del 1552, per esempio, fu in realtà
iniziato cinque anni prima, nel 1547, quando introdusse
dapprima l'inglese nella messa latina. Fu lo stesso con la
riforma cranmeriana della preghiera del mattino e della se-
ra: dapprima, nel 1543, introdusse la lingua vernacola in
quegli uffici e poi, nove anni più tardi, quindi nel 1552,
completò il lavoro su di essi. La pubblicazione del BCP del
1549, poi, non doveva essere la parola finale, ma piuttosto
un testo provvisorio. In realtà non c'era niente di irriveren-
te o superficiale nell'approccio di Cranmer; piuttosto, vi si
nota la mano di un cauto e attento artigiano di testi liturgi-
ci. Commentando il BCP di Cranmer, R.T. Beckwith nota:
«Egli raggiunge la difficile arte di essere contemporaneo
senza essere colloquiale, di conseguire dignità senza sacrifi-
care vigore e di esprimere fervore senza cadere nel senti-
mentalismo»4. Il BCP del 1549 mostra l'influenza delle litur-
gie gallicana e orientale, come pure influenze medievali ro-
mane. La stessa preghiera eucaristica era una versione rivi-
sta del Canone romano.
Di speciale interesse era l'importanza che Cranmer attri-
9 5
Limiti di spazio impediscono ulteriore attenzione agli svi-
luppi liturgici nella riforma protestante. Questa breve pano-
ramica, comunque, dimostra la complessa diversità nei pro-
grammi liturgici dei riformatori. Lo studioso luterano Frank
Senn nota un'ulteriore distinzione tra liturgia luterana e
riformata nell'ambito del culto pubblico. Mentre il culto lu-
terano continuava a mantenere le classiche preghiere litur-
giche di colletta e le litanie della chiesa, la liturgia riformata
tipica degli anabattisti (alla lettera, 'ribattezzatori') poneva
una grande enfasi sulle preghiere d'intercessione per le ne-
cessità della società umana e anche sulla preghiera libera,
estemporanea, che continua a costituire un esempio di litur-
gia riformata ancora oggi7. Nel frattempo, mentre Calvino
stava realizzando la sua riforma in Svizzera e mentre Cran-
mer redigeva i suoi testi liturgici in Inghilterra, i vescovi cat-
tolici si riunivano in Italia per formulare una risposta a ciò
che essi consideravano degli 'attacchi' della riforma prote-
stante e anche per confrontare le proprie questioni e i pro-
pri problemi all'interno della loro chiesa.
Il concilio di Trento
9 7
della messa nel suo pieno senso sacrificale. Sarebbe inesatto,
comunque, ignorare il programma pastorale del concilio e
anche la sua sensibilità pastorale. Questioni come Yuso del-
la lingua vernacola in liturgia e l'offerta del calice ai laici fu-
rono discusse a lungo e il verbale mostra vescovi schierati
sull'una e sull'altra posizione per ognuno degli argomenti.
La conclusione fu semplicemente che non era il tempo giu-
sto per dare avvio a questi cambiamenti e che ulteriori studi
sarebbero stati necessari. In effetti c'era da aspettarsi che al-
meno alcuni fra i vescovi presenti vivessero con preoccupa-
zione il fatto che una mossa a favore della lingua vernacola o
dell'offerta del calice ai laici potesse facilmente apparire co-
me una concessione al versante protestante. Alla fine si ag-
giudicò la vittoria una rigida uniformità liturgica imposta a
tutta la chiesa cattolica - un'uniformità che sarebbe durata
quattrocento anni, fino all'avvento del concilio Vaticano II.
Nel 1562 i vescovi del concilio approvarono un decreto
disciplinare che ordinava di eliminare i più seri abusi litur-
gici: la messa doveva essere celebrata solo in luoghi consa-
crati; un modo magico di trattare l'eucaristia doveva cessa-
re, insieme con l'uso di musica liturgica inadeguata; i vesco-
vi dovevano sorvegliare più attentamente il loro clero ri-
guardo ai compensi percepiti per le messe; e le pratiche su-
perstiziose circa il numero delle messe pure dovevano esse-
re abolite9. La riforma del Messale e del Breviario non fu di-
scussa fino alla venticinquesima sessione e alla fine fu de-
mandata al papa stesso (Pio IV a quel tempo), il quale im-
9 J . A . JUNGMANN, The Mass of the Roman Rite. Its Origins and Deve-
lopment,, vol. I, Four Courts Press, Dublin 1986, 133-135 [ed. it., Missa-
rum sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa romana, I: La
messa nel corso dei secoli, la messa e la comunità della Chiesa, la messa di-
dattica, Marietti, Torino 1953].
9 9
questa riforma c'era il calendario liturgico, che nel tempo
era stato sovraccaricato di giorni dedicati ai santi, anche di
domenica. Così, una riforma del calendario liturgico avreb-
be consentito all'anno liturgico della chiesa di riguadagnare
il suo originario lustro e scopo, per cui le domeniche erano
conservate come dovevano intendersi per essere celebrate e
i tempi liturgici 'forti' come avvento, natale, quaresima e pa-
squa potevano essere appropriatamente onorati. La conse-
guenza fu che, con l'eccezione delle ottave, sul calendario li-
turgico furono recuperati 157 giorni. Fu data preferenza al-
le messe comunitarie su quelle private - specialmente nelle
comunità religiose - con una gamma completa di ministeri
liturgici. Molto sorprendente, forse, fu l'affermazione se-
condo cui la celebrazione solenne della messa era preferibi-
le alla 'messa bassa', semplificata.
La ventiduesima sessione del concilio (1562) offre un'in-
teressante informazione riguardo l'eucaristia. Fu espresso il
desiderio che i membri dell'assemblea si comunicassero ad
ogni messa, se possibile, e si tenesse la predicazione liturgi-
ca in lingua vernacola almeno la domenica e i giorni festivi.
La stessa sessione affermò la natura propiziatoria della mes-
sa come sacrificio e il Canone romano fu proclamato esente
da errori. Inoltre, fu ricordato al clero che l'acqua doveva
essere aggiunta al calice di vino al momento dell'offertorio,
contrariamente all'obiezione dei riformatori.
Il calendario liturgico fu sottoposto a revisione nel 1582
sotto la guida di papa Gregorio XII; il Martirologio Romano
rivisto seguì due anni più tardi, con ulteriori revisioni nel
1586 e 1589. Sotto la guida della Sacra congregazione dei ri-
ti furono prodotti nuovi libri liturgici. Il Pontificale Romano
(1596) era un libro per i vescovi che conteneva testi propri
per le liturgie pontificali; il Caeremoniale Episcoporum
(1600) conteneva rubriche per liturgie alle quali erano pre-
1 0 1
navata divideva l'aula, cioè lo spazio dei laici, dal presbite-
rio, lo spazio riservato ai monaci e al clero. L'architettura ba-
rocca fu abbastanza differente. La balaustra fu rimossa, con-
sentendo una chiara visuale rispetto all'altare, creando un
singolo spazio liturgico unificato: il barocco enfatizzava il
vedere e il sentire la messa. Questo nuovo, sgargiante stile
architettonico era, in realtà, una festa per gli occhi con i suoi
movimenti teatrali, i suoi colori e i suoi dettagli. Questo è
ben dimostrato dalle colonne attorcigliate nel baldacchino
costruito da Gianlorenzo Bernini (t 1680) per la basilica di
S. Pietro in Vaticano. Nelle chiese barocche anche il presbi-
terio fu eliminato, dal momento che gli stalli del coro non
avevano più una funzione. Inoltre, con l'importanza che era
stata ridata alla predicazione e alla catechesi - specialmente
alla luce della riforma - , il pulpito divenne più importante^
fu collocato al centro della chiesa per una migliore udibilità.
Quest'enfasi sulla parola parlata portò ad accusare i gesuiti
di essere dei «protestanti sotto mentite spoglie». Imperterri-
ti, essi continuarono il loro «ministero della Parola», insi-
stendo perché i gesuiti in formazione si esercitassero rego-
larmente nelle tecniche di comunicazione predicando e in-
segnando alla presenza di confratelli più esperti; quelle pro-
ve nell'arte omiletica ricevevano poi una immancabile valu-
tazione e critica da parte dei più esperti. Costruita tra il 1568
e il 1575, la chiesa madre dei gesuiti, Il Gesù, nel centro sto-
rico di Roma, esemplifica chiaramente questi nuovi interes-
si apostolici e presto diventò il prototipo per l'architettura
barocca11. Poiché missionari gesuiti furono mandati ovun-
que per il mondo, non era raro che abitualmente scrivesse-
1 0 3
stalli mobili o in alto sopra l'altare in un contenitore - il ci-
borio - spesso somigliante nella foggia a una colomba12. Ora
il tabernacolo era di fronte e al centro e sarebbe rimasto co-
sì fino al Vaticano II, portando a una maldestra interpreta-
zione del tabernacolo come elemento essenziale alla cele-
brazione della messa. I tabernacoli furono costruiti di di-
mensioni sempre più grandi, per dimostrare la fede cattoli-
ca nell'eucaristia, divenendo così elementi più centrali e im-
portanti dello stesso altare. Di fatto, l'altare divenne un me-
ro supporto a guisa di trono per il tabernacolo (e per l'o-
stensione durante l'adorazione eucaristica); la messa stessa
fu ben presto subordinata al culto eucaristico.
Quarantanni dopo il Vaticano II, si possono ancora tro-
vare vestigia di questa fede in certi quartieri. Conosco, per
esempio, una chiesa di Roma in cui il sacrestano sposta con-
tinuamente la riserva eucaristica da un altare all'altro, a se-
conda di quale cappella o altare si usi per la celebrazione eu-
caristica in un determinato giorno. Se da un lato possiamo
essere onestamente certi che questo non era quanto Gesù
aveva in mente, possiamo anche affermare che i padri di
Trento non propugnarono mai una tale pratica. In realtà una
stabilità e una permanenza del tabernacolo è continuamen-
te sostenuta nella tradizione della chiesa. Nel primo periodo
medievale, i tabernacoli erano tenuti per la comunione da
portare agli ammalati e ai moribondi; gradualmente il loro
scopo si estese all'adorazione eucaristica e alla preghiera de-
vozionale. Ma la funzione del tabernacolo come elemento
essenziale alla celebrazione dell'eucaristia è cosa senza pre-
cedenti.
12 Ibid., 8s.
1 0 5
quando - saltuariamente - era previsto un inno, la parteci-
pazione laicale alla liturgia rimaneva comunque davvero ri-
stretta. In alcune occasioni, i membri dell'assemblea pote-
vano fare la coniunione, ma prima o dopo la messa; solo il
prete riceveva la! comunione durante la messa. L'adorazione
eucaristica continuava a crescere d'importanza; non c'è da
sbalordirsi se quiella del Corpus Domini diventò la solennità
più popolare dell'anno liturgico, in ragione dell'enfasi che
veniva posta sulla presenza reale.
Una delle maggiori questioni liturgiche nel XVII secolo -
e non fu una questione troppo felice - riguardò la contro-
versia sui riti cinesi. Qui si possono chiaramente osservare
due differenti visioni del mondo: la cultura cattolica d'Eu-
ropa e le culture non cristiane di Asia. I missionari europei
inviati in Asia mettevano in mostra una pluralità di stili e di
strategie di evangelizzazione; alcuni erano più aperti e fan-
tasiosi di altri. Gesuiti come Matteo Ricci, che arrivò a Pe-
chino nel 1601, assunsero l'abbigliamento e gli usi dei cine-
si mandarini, guadagnando la loro accettazione e il loro ri-
spetto. Ricci e i suoi colleghi sostenevano che ai cristiani
neo-battezzati dovesse essere consentito di continuare l'an-
tica pratica di venerare la memoria dei loro genitori e pa-
renti defunti, insieme con altri rituali associati alla tradizio-
ne confuciana.
Queste pratiche simboliche erano ammesse perché non
venivano adorate divinità in quegli atti che erano, in ogni ca-
so, largamente culturali. E, soprattutto, il culto confuciano
era legato al governo e alla vita civile e alla cultura. Com-
prendeva gesti corporali come il kòu tóu (la prostrazione a
terra, tipica del cerimoniale imperiale) e l'offerta di incenso
e denaro, cibo e vino ai santuari domestici. Tutto andò ra-
gionevolmente bene per alcuni anni, finché, negli anni Tren-
ta del XVII secolo, non arrivarono i missionari domenicani
1 0 7
in questo periodo attesta quest'accanita indipendenza da
Roma. In realtà, nel XVIII secolo, 90 delle 139 diocesi in
Francia avevano ile proprie distinte liturgie. Alcuni vescovi
tedeschi seguirono l'esempio dei loro colleghi francesi, al-
meno per quanto riguardava la riforma del Breviario. Fuori
della Francia, comunque, e con poche eccezioni tedesche, la
centralizzazione liturgica tridentina rimase normativa per la
chiesa cattolica in Occidente.
Un ancor più interessante esempio liturgico nel gianseni-
smo venne non dalla Francia ma dalla Toscana, verso la fine
del XVIII secolo. Scipione Ricci (t 1810), vescovo di Pi-
stoia-Prato, nel 1786 convocò un sinodo in cui chiese una
restaurazione della genuina liturgia della chiesa delle origi-
ni. Come accadeva in epoca patristica, il sinodo riconobbe
la guida dei vescovi diocesani nel governo delle loro dioce-
si, sempre previa consultazione e con l'approvazione del
consiglio presbiterale diocesano. Questa stessa indipenden-
za episcopale da Roma era già stata affermata dal gianseni-
smo francese negli articoli del 1682.
Il sinodo di Pistoia promosse l'attiva partecipazione dei
laici all'azione liturgica e criticò la devozione al sacro Cuo-
re, insieme con le processioni con le reliquie dei santi e altre
devozioni popolari. Questi pii esercizi ottenevano soltanto
di sminuire la centralità di Cristo nella celebrazione liturgi-
ca. Nel culto liturgico doveva essere introdotta la lingua del
popolo. Dove si tenevano più messe, queste dovevano esse-
re riunite e le messe non necessarie dovevano essere elimi-
nate, così che la dimensione comunitaria dell'eucaristia po-
tesse esserne valorizzata. L'uso di celebrare più messe si-
multaneamente negli altari laterali di una chiesa doveva es-
sere abolito. La centralità della domenica doveva essere re-
staurata e le parrocchie dovevano avere un'eucaristia princi-
pale con il parroco come presidente. Colui che presiedeva,
1 0 9
no devastanti. Nel 1794, otto anni dopo la conclusione del
sinodo, papa Pio VI condannò ottantacinque proposizioni:
le prime quindici furono considerate eretiche; le restanti fu-
rono definite «malaccorte, false, scandalose e così via». Sei
anni più tardi Ricci fu deposto dall'ufficio episcopale, dopo
essere stato pubblicamente umiliato davanti al suo clero e al
suo popolo.
La chiesa in Germania tenne il suo congresso nello stesso
anno di Pistoia, il 1786. Diversamente da Pistoia, tuttavia, il
congresso di Ems ebbe successo nel produrre una riforma
liturgica che potesse godere di una maggiore longevità. Fu
così nonostante il fatto che l'assemblea episcopale affrontas-
se la delicata questione del primato papale e l'indipendenza
della Germania da Roma; la questione era stata uno degli in-
teressi principali di alcuni dei più importanti vescovi che
partecipavano all'incontro. La diocesi di Costanza divenne
il centro delle riforme tedesche che enfatizzavano la parteci-
pazione liturgica, il canto assembleare e la predicazione li-
turgica. Sotto la guida del vicario generale della diocesi,
Ignaz Heinrich von Wessenberg, nel 1803 fu emanato un
decreto che prescriveva che le messe di tutte le domeniche
e dei giorni festivi fossero celebrate prima di mezzogiorno e
che fosse tenuto un sermone. Sei anni più tardi, nel 1809, un
ulteriore decreto stabilì che ogni parrocchia dovesse avere
una messa principale la domenica mattina, con il canto di in-
ni in lingua vernacola e la predicazione durante la messa
(nell'epoca precedente era diventato abituale predicare pri-
ma della messa, quasi a creare una sorta di preludio all'atto
liturgico). Ulteriori tentativi di accrescere la partecipazione
liturgica continuarono per un certo numero di anni, ma Ro-
ma ne fu meno che compiaciuta e dal 1855 queste tradizio-
ni furono interrotte.
La situazione liturgica del tempo era più promettente
I l i
come il suo corrispettivo di Oxford, recuperando un ceri-
moniale decoroso insieme con un accresciuto numero di ce-
lebrazioni eucaristiche. Un altro movimento nella chiesa
d'Inghilterra, The Parish Communion, procurò un'impor-
tante dimensioni sociale al rinnovamento liturgico, favoren-
do un più intimo legame tra liturgia e giustizia16.
Mentre il rimhovamento della chiesa d'Inghilterra era in
atto, la chiesa cattolica in Germania sperimentava il proprio
rinnovamento teologico, grazie al lavoro di diversi professo-
ri dell'Università di Tubinga. La loro ricerca preparò un so-
lido fondamento teologico al movimento liturgico che ben
presto seguì. Influenzati dall'Illuminismo tedesco, quegli
studiosi recuperarono la fondamentale dottrina della chiesa
come corpo mistico di Cristo, dottrina che avrebbe offerto
le basi essenziali per ciò che divenne il movimento liturgico.
Il teologo Johann Michael Sailer (t 1832) enfatizzò quel-
l'àncora che è il culto cristiano, come fondamento e cuore
della vita della chiesa che forma il credente in una società
organica.
Partendo dalla ricerca di Sailer e da quella del teologo
giudeo-luterano Johann August Wilhelm Neander (t 1850),
Johann Adam Möhler (t 1838) portò questa teologia alla
sua piena statura. Sostenne che la liturgia aveva la responsa-
bilità di far assimilare secondo un profilo interiore la dottri-
na o la teologia che la chiesa aveva esemplificato e testimo-
niato esternamente. Il pensiero di Möhler fu sviluppato
principalmente in due opere importanti: Die Einheit in der
Kirche [L'unità nella chiesa] (Tübingen 1825) e Symbolik
[Simbolica] (Mainz 1832). Diversamente dall'enfasi posta
da Sailer sulla chiesa come società, Möhler scelse l'immagi-
1 1 3
benedettino di Solesmes (1833), soppresso nel 1792 duran-
te la rivoluzione francese. Guéranger utilizzò il suo mona-
stero come un centro liturgico sia per plasmare l'appropria-
ta celebrazione dell'eucaristia e della liturgia delle ore, sia
per ricondurre la chiesa francese, incline al nazionalismo, ai
suoi autentici fondamenti romani. Un ulteriore strumento in
questo processo di romanizzazione fu il lancio di una dop-
pia serie di pubblicazioni: Lannée liturgique, che aveva uno
scopo più pastorale, e le Institutions liturgiques, di carattere
più scientifico. Fino a giorni recenti, Guéranger è stato con-
siderato il 'padre' del moderno movimento liturgico, poiché
egli si proponeva lo scopo di restaurare il vero spirito litur-
gico nel paese, così che tanto il clero quanto il popolo cri-
stiano potessero vivere meglio la liturgia.
Più recentemente, comunque, gli studiosi hanno dimo-
strato che Guéranger seguiva una traiettoria differente da
quella che sarebbe stata una caratteristica del movimento li-
turgico (la piena, consapevole e attiva partecipazione, con
un concomitante interesse per la giustizia). In realtà, l'opi-
nione di Guéranger era quella che, siccome l'azione liturgi-
ca e i corrispondenti libri liturgici erano fondamentalmente
proprietà del clero, i laici non avrebbero dovuto lamentarsi
del fatto che quel recupero non riguardasse loro in primo
luogo. Questa era quasi una cesura rispetto al modello pa-
tristico di liturgia: era esattamente l'opposto di quanto
avrebbero sostenuto i pionieri del movimento liturgico.
L'errore fondamentale di Guéranger era stato quello di li-
mitare la propria ricerca alle fonti liturgiche medievali, ossia
a un periodo in cui la liturgia era completamente clericaliz-
zata e si era allontanata dal popolo. Se avesse continuato la
sua esplorazione, risalendo all'epoca patristica, l'abate
avrebbe scoperto di fatto uno scenario molto differente.
Detto questo, deve essere riconosciuto il suo desiderio di re-
1 1 5
Society nel 1891 e dell'Alcuin Club nel 1899. Le ultime tre
erano società dedicate alla collezione di testi liturgici. Que-
sti gruppi fiorirono nel XX secolo e lavorarono di concerto
con altri aspetti del movimento liturgico classico. E a questo
movimento che ora ci dedicheremo.
1 1 7
anche da molti cattolici ordinari. Alcuni addirittura accusa-
vano i pionieri liturgici di mancanza di fede nella presenza
reale di Cristo nell'eucaristia e nella struttura gerarchica del-
la chiesa, dal momento che propugnavano una partecipa-
zione liturgica che suggeriva che tutti i membri della chiesa
erano il corpo di Cristo - persino i membri laici. Il movi-
mento liturgico, quindi, non ebbe inizio negli uffici vaticani,
né nelle cancellerie diocesane, ma in alcuni monasteri e par-
rocchie e in congressi di studi e circoli culturali.
Il movimento liturgico iniziò in Belgio nel 1909 al Con-
grès national des oeuvres catholiques svoltosi a Malines. Un
monaco benedettino dell'abbazia di Mont César, dom. Lam-
bert Beauduin, fu invitato a tenere una conferenza sul tema:
La vraie prière de l'église [La vera preghiera della chiesa].
Durante la sua conferenza egli sostenne la necessità di una
piena e attiva partecipazione del laicato, non solo nell'area
della liturgia ma anche in tutti gli aspetti della vita e del mi-
nistero della chiesa. In quell'occasione, Beauduin incontrò
Godfried Kurth, un laico e storico che era molto attratto
dalla possibilità di una liturgia più partecipata. Insieme co-
minciarono a pensare una strategia per rendere il loro sogno
comune una realtà per la chiesa in Belgio. Nella sua promo-
zione della causa liturgica Beauduin ebbe più successo di un
altro benedettino, Gérard van Caloen, un monaco di Ma-
redsous che qualche anno prima aveva proposto che i fede-
li ricevessero la comunione durante la messa alla quale assi-
stevano, piuttosto che prima o dopo di essa. Le osservazio-
ni di van Caloen erano state avanzate a un congresso euca-
ristico tenuto a Liegi nel 1883, e furono considerate così ra-
dicali che egli fu rimosso dall'incarico di rettore della scuo-
la dell'abbazia. Il clima era significativamente migliorato al
momento in cui Beauduin comparve sulla scena.
Beauduin fondò le sue osservazioni sul motu proprio di
1 1 9
afflatu, che invitò al riordino del salterio nel Breviario, il
quale fu di nuovo riformato nel 1914.
Così come il movimento liturgico guadagnava forza in
Belgio, ben presto attecchì in Germania, con un profilo più
marcatamente scientifico grazie al contributo scientifico che
venne dai monaci di Maria Laach, un monastero nella re-
gione bagnata dal Reno. Il movimento tedesco emerse da un
contatto, avvenuto nel 1913, tra il benedettino dorn. II-
defonso Herwegen (t 1946) e alcuni studenti universitari, i
quali espressero interesse a vivere più profondamente la li-
turgia nella vita quotidiana. Herwegen invitò gli studenti a
recarsi durante la settimana santa del 1914 al suo monaste-
ro, dove avrebbero avuto la possibilità di unirsi alla vita or-
dinaria e alle celebrazioni quotidiane dalla comunità mona-
stica. Là essi celebrarono per la prima volta la 'messa dialo-
gata'. Durante quella visita, Herwegen e i suoi ospiti discus-
sero di alcune possibilità per un'ulteriore promozione del
rinnovamento liturgico nella chiesa tedesca. Più tardi Her-
wegen divenne abate di Maria Laach, e così gli fu offerta
una significativa piattaforma per inculcare ulteriormente lo
spirito del rinnovamento liturgico in quel monastero. Egli
contrastò le opinioni liturgiche di Guéranger, dimostrando
che, lungi dall'essere l'epoca d'oro della vita liturgica, il pe-
riodo medievale aveva corrotto le precedenti strutture litur-
giche. Per sostenere la sua posizione, Herwegen alludeva al-
le problematiche reinterpretazioni allegoriche e drammati-
che della tradizione liturgica tanto tipiche del Medioevo.
Successivi studiosi di liturgia diedero ulteriore forma alla
teoria di Herwegen.
Giovani monaci emersero nella disciplina della ricerca li-
turgica; fra questi, dom. Odo Casel (t 1948), che era stato
precedentemente discepolo di Herwegen fin dai giorni del-
l'università, quando Herwegen ricopriva l'incarico di cap-
1 2 1
agosto 1921. L'abate Herwegen diede il permesso di cele-
brare la messa, ma delegò la presidenza di quell'eucaristia al
priore, Albert Hammenstede. L'abate inoltre stabilì l'orario
della celebrazione alle sei del mattino e scelse di non essere
presente. La messa comprendeva la preghiera in comune
delle parti ordinarie della messa e la partecipazione dell'as-
semblea alla processione offertoriale: entrando in cripta per
la messa, ognuno deponeva la sua ostia sulla patena; al mo-
mento opportuno, poi, avveniva la presentazione all'altare
di quelle offerte. Mentre la messa segnò una cesura radicale
rispetto a ciò che la precedeva, la lingua liturgica continuò a
essere il latino, nonostante alcune voci che propugnavano il
contrario. Burkhard Neunheuser era presente a quella stori-
ca liturgia come giovane monaco e richiamò vividamente
l'avvenimento quando parecchi anni dopo visitai il mona-
stero. Rapidamente si diffuse tra il clero vicino della diocesi
di Treviri la notizia che i monaci «erano diventati protestan-
ti» - egli ricordò - e l'esperimento liturgico monastico fu ri-
ferito al vescovo. Quando il vescovo fece la sua visita per os-
servare le irregolarità liturgiche riferite, si commosse fino al-
le lacrime. L'anno seguente, al Congresso eucaristico dioce-
sano, egli stesso celebrò la messa su di un altare mobile di
fronte al popolo, dando un duro colpo agli oppositori del
monastero.
Sotto la guida di Guardini crebbe uno stretto rapporto di
cooperazione fra teologi tedeschi e architetti ecclesiastici,
che diede come frutto, nel 1938, un documento sull'archi-
tettura liturgica emanato dai vescovi tedeschi. Questo dialo-
go trovò eloquente espressione nella famosa cappella di
Burg Rothenfels, disegnata da Rudolf Schwartz in collabo-
razione con Romano Guardini, e anche nella chiesa, sempre
di Schwartz, del Corpus Christi ad Aachen. Un altro emi-
nente architetto tedesco, che guidò il movimento per una
1 2 3
fuggire dalla sua natia Germania e a riparare negli Stati Uni-
ti. Queste voci profetiche non restarono inascoltate e il mo-
vimento liturgico tedesco fu aspramente rimproverato per il
suo attivismo in alcuni articoli e anche in un libro di M. Kas-
siepe, intitolato Irrwege und Umwege im Frömmigkeit sieb en
der Gegenwart [Percorsi folli e devianti nella vita di pietà dei
nostri giorni]. Per reagire alla crisi fu costituita una com-
missione liturgica di studio che comprendeva membri della
statura di Romano Guardini. Quando la questione raggiun-
se la gerarchia tedesca nel 1942, la conseguenza fu la costi-
tuzione della Commissione liturgica nazionale tedesca che,
oltre ai membri della commissione liturgica di studio, com-
prendeva anche alcuni monaci di Maria Laach e di Beuron.
H.A. Reinhold si stabilì a New York, portando con sé un
forte messaggio di liturgia e giustizia sociale. Le autorità ec-
clesiastiche, in particolare il cancelliere dell'arcidiocesi di
New York, James Mclntyre (successivamente cardinale arci-
vescovo di Los Angeles), rifiutarono di concedergli le fa-
coltà sacerdotali per esercitare il ministero, poiché la sua vo-
ce profetica lo aveva marcato come un 'agitatore'. Fu Do-
rothy Day, la fondatrice del Catholic Worker Movement,
che si mosse in suo aiuto consentendogli di attraversare al si-
curo il fiume Hudson fino ad approdare a Brooklyn - sede
di una differente e più benevola diocesi - dove Reinhold e il
suo ministero furono benvenuti. I problemi di Reinhold era-
no tuttavia ben lontani dall'essere risolti. Egli successiva-
mente proseguì la sua strada fino a Sunnyside, nello stato di
Washington, sulla costa orientale degli Stati Uniti, dove eb-
be altri conflitti con i vertici diocesani e morì in pensione
nella diocesi di Pittsburgh, in Pennsylvania. Malgrado le sue
battaglie, rimase una voce profetica nel movimento liturgico
e lasciò un inestimabile contributo al rinnovamento. La sua
rinomata rubrica «Timely Tracts» apparve sulle pagine di
1 2 5
dava affermandosi altrove in Europa e negli Stati Uniti. Co-
me le loro colleghe in Germania, anche in Belgio le donne
giocarono un ruolo significativo, centrato intorno all'abba-
zia di Wépion^ che fu fondata negli anni Venti per introdur-
re la 'donna moderna' al rinnovamento liturgico. Il mona-
stero divenne ben presto una 'Mecca' liturgica, non solo per
le donne belghe, ma anche per donne provenienti da Ger-
mania e Francia. Contributi regolari di donne si possono
trovare in periodici come Bibel und Liturgie, Liturgische
Zeitschrift, Liturgisches Leben e Orate Fratres. Negli Stati
Uniti, Justine Ward e Georgia Stevens fondarono nel 1916
la Pius X School of Liturgical Music, mentre altre donne co-
me Adé Bethune, Dorothy Day, Catherine De Hueck, Sara
Benedicta O'Neil, Mary Perkins Ryan e Nina Polcyn Moore
fornivano dei contributi estremamente significativi. Nel suo
libro Women s Ways of Worship. Gender Analysis and Litur-
gical History [La via femminile al culto. Analisi di genere e
storia della liturgia], Berger sostiene che, poiché gli storici
della liturgia e del suo rinnovamento erano in gran parte
maschi, l'importante contributo delle donne a quest'impre-
sa veniva ignorato o semplicemente tralasciato. Fortunata-
mente, la situazione è cambiata in quanto studiosi più gio-
vani sono più consapevoli e capaci di apprezzare quest'im-
portante tessera del mosaico che era stata trascurata.
In Austria furono gli agostiniani, più che i benedettini, a
guidare la rinascita liturgica, centrata sul monastero agosti-
niano di Klosterneuburg, presso Vienna. La figura chiave in
quel movimento fu il canonico agostiniano Pius Parsch (t
1945), che usò la sua vicina parrocchia, S. Gertrude, come
una sorta di laboratorio per la sperimentazione liturgica.
Parsch aveva come scopo quello di combinare l'aspetto ac-
cademico con l'aspetto pastorale, in un comune fine di rin-
novamento biblico e liturgico. Questo egli fece mediante
1 2 7
nelle diocesi di Haarlem (1912) e Utrecht (1914). Questi
gruppi furono di valido aiuto nella fondazione della Federa-
zione liturgica nazionale olandese, avvenuta nel 1915.
L'Inghilterra ebbe la sua parte di pionieri liturgici, tanto
anglicani quanto cattolici. A. Gabriel Hebert, un anglicano
e membro della Society of the Sacred Mission, pubblicò nel
1935 un importante libro: Liturgy and Society [Liturgia e so-
cietà], sulla relazione tra liturgia e vita quotidiana, con spe-
ciale attenzione a ciò che ora chiamiamo 'giustizia sociale'.
In quegli anni pre-ecumenici, Hebert attribuiva la propria
consapevolezza liturgica ai suoi legami con i benedettini cat-
tolici di Maria Laach, il monastero renano. Un altro signifi-
cativo contributo venne dal benedettino anglicano dell'ab-
bazia di Nashdom, Gregory Dix (t 1951), con la sua fonda-
mentale opera The Shape of the Liturgy [La forma della li-
turgia]3 in cui esaminava la paradigmaticità del quadruplice
gesto che avviene nell'eucaristia - prendere, benedire, spez-
zare e dare -, a imitazione delle azioni di Gesù nell'ultima
cena. L'opera di Dix dimostrò la stretta relazione che esiste
fra culto giudaico e liturgia cristiana. Anche se alcune delle
sue conclusioni sono state messe in discussione nella ricerca
più recente, il testo fu fondamentale per la ricerca liturgica
negli anni seguenti e rimane un classico della liturgia anco-
ra oggi, nonostante i limiti dell'opera. Nel 1995, celebrando
il cinquantesimo anniversario della pubblicazione di Dix,
l'ammiraglia ecumenica e accademia liturgica internaziona-
le Societas liturgica scelse come tema del suo incontro bien-
nale, tenuto a Dublino: «The Future Shape of the Liturgy»
[La forma futura della liturgia]. In quel congresso assem-
bleare, che durava una settimana, la teoria di Dix fu rivisita-
3 G. Dix, The Shape of the Liturgy (1945), Seabury Press, New York
1982.
1 2 9
tutt'oggi, a circa cinquantanni dai suoi inizi. L'Institut supé-
rieur de liturgie fu fondato nel 1956. Pierre-Marie Gy, do-
menicano, è stata una delle pietre angolari di quelle istitu-
zioni e, negli ultimi cinquantanni, ha dato un enorme con-
tributo liturgico a livello internazionale.
In generale, paesi cattolici come Italia, Malta, Portogallo
e Spagna non riuscirono a registrare lo stesso livello di rin-
novamento liturgico. Nell'Italia settentrionale il monastero
benedettino di Finalpia, in provincia di Savona, inaugurò
nel 1914 l'importante periodico Rivista liturgica, che conti-
nua ad essere pubblicata ancora oggi. Si deve anche fare
menzione di due pionieri liturgici italiani, entrambi bene-
dettini: Emanuele Caronti e Ildebrando Schuster. Il testo di
Caronti sulla spiritualità liturgica, La pietà liturgica (1920),
fu ampiamente acclamato, come lo fu il suo Messale festivo
per i fedeli (1921), che aiutò migliaia di cattolici italiani ad
apprezzare di più la liturgia eucaristica e la sua ricchezza,
mediante una migliore comprensione dei testi liturgici. Nel
1960, subito dopo che papa Giovanni XXIII indisse la con-
vocazione del concilio Vaticano II, i benedettini presero di
nuovo la guida del rinnovamento liturgico fondando il Pon-
tificio istituto liturgico di S. Anselmo, a Roma, con la bene-
dizione dello stesso papa-.
Il monastero benedettino catalano di Montserrat, vicino a
1 3 1
per tradurre e pubblicare importanti libri europei sul rinno-
vamento liturgico e renderli disponibili alla generalità del
pubblico nel mondo anglofono; fondò anche un periodico
mensile, Orate Fratres (successivamente: Worship), che ser-
visse come strumento primario di comunicazione del mes-
saggio di rinnovamento liturgico. I suoi primi collaboratori
furono lo studioso gesuita Gerald Ellard (t 1963) di Saint
Marys, nel Kansas, e mons. Martin Hellriegel (t 1981), di
origine tedesca, parroco della comunità della S. Croce, a St.
Louis, nel Missouri.
La formazione liturgica statunitense a livello pastorale
crebbe a passi da gigante e, per questo fenomeno, niente fu
più importante della Benedictine Liturgical Conference
(successivamente: The Liturgical Conference) e delle an-
nuali settimane liturgiche che essa sponsorizzava. La prima
'settimana' fu tenuta a Chicago nel 1940 e attirò oltre 1260
partecipanti. L'acme, comunque, fu raggiunto anni dopo,
con quattordicimila partecipanti alla settimana di Phila-
delphia nel 1963 e con ventimila a St. Louis per la riunione
annuale nel 1964. L'istruzione liturgica trovò la sua strada
anche in incontri di associazioni cattoliche, associazioni in-
fermieristiche e altre sedi di formazione per adulti. Il retto-
re del seminario di Chicago, Reynold Hillenbrand, fin dal
1941 iniziò una scuola estiva in studi liturgici a Mundelein,
nell'Illinois, riuscendo ad attrarre, come corpo docente, al-
cuni dei nomi più conosciuti nel campo. Sei anni più tardi,
nell'estate del 1947, Michael Mathis (t 1960), prete della S.
Croce, lanciò il primo corso di laurea statunitense in liturgia
all'Università di Notre Dame, assicurandosi un'imponente
fila di studiosi di liturgia dall'Europa e dal Nord America.
Successivamente, nel 1965, l'Università di Notre Dame isti-
tuì un corso di studi superiori in liturgia e la Catholic Uni-
versity of America seguì nel 1970. Sia nei programmi acca-
1 3 3
di Austria, Francia e Germania chiesero la restaurazione
della veglia pasquale, spostandola dalla mattina del sabato
santo al suo momento proprio, la sera del sabato santo. Con
loro sorpresa il permesso fu concesso prima in via speri-
mentale e poi divenne normativo per tutta la chiesa con la
revisione dei riti della settimana santa nel 1955, revisione
promulgata per la domenica delle palme del 1956. Nel 1953
e nel 1957 la santa Sede concesse alla chiesa universale il
permesso rispettivamente per la messa vespertina e per un
più breve digiuno eucaristico.
Prendendo spunto da questi esempi possiamo osservare
diverse cose. In primo luogo, è stato il movimento stesso che
ha mobilitato e istruito le chiese locali a comprendere l'im-
portanza di tali cambiamenti per il rinnovamento del culto
cristiano. In secondo luogo, questo movimento di gente co-
mune realmente effettuò un cambiamento a livello di lea-
dership ecclesiale, al punto che i vescovi stessi richiesero
esenzioni e modificazioni per aiutare meglio ciò che il Vati-
cano II avrebbe chiamato una «piena e attiva partecipazio-
ne liturgica». In terzo luogo - e cosa più sorprendente di
tutte - queste concessioni furono date del tutto liberalmen-
te dalla santa Sede (sebbene su base sperimentale, almeno la
maggior parte delle volte) e alle singole diocesi che le ri-
chiedevano. Ciò che verifichiamo nel fatto che si acconsen-
te a tali richieste è una notevole fiducia nei vescovi diocesa-
ni e la convinzione circa la loro capacità di discernere e giu-
dicare ciò che era meglio per il loro popolo. In altre parole,
vediamo qui, attraverso la lente della liturgia, una straordi-
naria lezione sulla collegialità e sulla relazione tra chiesa lo-
cale e chiesa universale.
Esperimenti liturgici e ulteriori concessioni continuarono
durante gli anni Cinquanta, insieme con un riconoscimento
e una mobilitazione più internazionali, com'è evidenziato
1 3 5
zioni per una più grande partecipazione assembleare, per
settimane liturgiche annuali e per celebrazioni comunitarie
degli uffici del mattino e della sera. I luterani statunitensi
lanciarono i loto cambiamenti liturgici negli anni Cinquan-
ta quando rivolsero gli altari all'assemblea e propugnarono
un maggior coinvolgimento dei laici nell'azione liturgica.
Sviluppi simili possono essere notati nelle chiese riformate.
Progressi ancora più grandi nel rinnovamento liturgico ecu-
menico sarebbero stati testimoniati con l'avvento del Vati-
cano II.
1 3 7
fu ancora più grande quando tentò di parlarla. A quanto si
dice, durante il concilio il problema diventò così spinoso
che, quando Spellmann si alzava per parlare ai suoi colleghi
vescovi, un addetto veniva avvicinato a un altro microfono
per tradurre il cardinale dal latino al... latino. Il ghiaccio fu
rotto quando Pottantaquattrenne patriarca melchita di An-
tiochia, Maximos IV, si rivolse all'assemblea conciliare in
francese. Maximos sostenne che avrebbe avuto poco senso
che lui parlasse in latino, poiché quella non era la lingua del-
l'Oriente. Molti vescovi se ne sentirono sollevati. Forte so-
stenitore della liturgia in lingua vernacola, il patriarca di An-
tiochia argomentò dicendo che una chiesa viva non avrebbe
dovuto continuare a utilizzare una lingua morta nella sua
preghiera collettiva.
La sorpresa più grande si ebbe quando il papa stesso si ri-
volse al concilio in lingua vernacola durante una messa so-
lenne nella basilica vaticana il 4 novembre 1962, festa di san
Carlo Borromeo. Il presidente era nient'altri che il card.
Giovanni Battista Montini, successore di Borromeo come
arcivescovo di Milano, che sarebbe presto diventato papa
Paolo VI. Nella stessa occasione si ricordava anche il quar-
to anniversario dell'intronizzazione di Giovanni XXIII a ve-
scovo di Roma. Montini celebrò nel rito ambrosiano di Mi-
lano, piuttosto che in rito romano (e fu una delle poche vol-
te in cui il rito ambrosiano fu celebrato in S. Pietro). Quan-
do per il papa venne il momento di parlare, egli cominciò in
latino, lodandolo come «la lingua in cui i prelati della chie-
sa universale comunicano con il centro del cattolicesimo»,
ma poi continuò a parlare in italiano per il resto del suo di-
scorso, poiché così era compreso meglio dai presenti. Con-
cluse: «E perfettamente naturale che nuovi tempi e nuove
circostanze suggeriscano differenti forme e metodi per tra-
smettere esternamente l'unica e medesima dottrina, e per
1 3 9
La costituzione sulla liturgia è un documento accurata-
mente formulalo e deve essere letto di conseguenza. Mentre
accorda un più!ampio uso della lingua vernacola, per esem-
pio, continua al sostenere il latino come lingua ufficiale del-
la chiesa e, dunque, del suo culto. Così, nonostante gli equi-
voci popolari, la chiesa cattolica al concilio non abolì com-
pletamente il latino. In effetti, le traduzioni post-conciliari
dei testi liturgici (preghiere, letture e benedizioni) partono
dal testo latino originale (chiamato editio typica, 'edizione ti-
pica') e da lì il testo è accuratamente tradotto in lingua ver-
nacola. Inoltre, il documento riflette un bilanciamento di
tradizione e progresso. Per dirla differentemente, riflette le
opinioni contrastanti degli estensori della costituzione - al-
cuni più tradizionalisti, altri più progressisti - e tenta di tro-
vare una mediazione che fosse soddisfacente per ambedue i
fronti. Il documento ha una portata pastorale e, insieme,
giuridica; promulgato dal papa stesso, riflette una combina-
zione di principi generali e di concrete riforme liturgiche. E
anche abbastanza radicale, se comparato con ciò che lo pre-
cedeva, nel richiedere «piena e attiva partecipazione liturgi-
ca» di tutta la chiesa (SC 14) e lo è per l'apertura espressa
nei confronti dell'adattamento culturale della liturgia, spe-
cialmente in aree di missione, come strumento di evangeliz-
zazione CSC 37-40).
Concretamente, la costituzione liturgica insisteva sul ri-
pristino della predicazione liturgica, almeno nelle domeni-
che e nei giorni di festa. Doveva essere restaurata anche la
cosiddetta preghiera dei fedeli, in cui uno o più rappresen-
tanti dell'assemblea pregano per le varie necessità della chie-
sa e della società civile più ampia. Il fedele doveva ricevere
la comunione durante le messe alle quali assisteva e, secon-
do le circostanze, questo poteva includere l'offerta del cali-
ce ai laici, in base alle norme locali e con il permesso del ve-
1 4 1
vescovi e cardinali e da oltre duecento specialisti nel campo
della liturgia. (Verso la fine di quell'anno, e precisamente il
26 settembre 1964, fu emanata l'Istruzione per l'esatta appli-
cazione della costituzione sulla sacra liturgia, destinata a en-
trare in vigore il 7 marzo 1965. Al Consilium fu affidato il
compito di effettuare una revisione di tutti i libri liturgici se-
condo le direttive del concilio recentemente stabilite, e di
istruire ovunque vescovi e diocesi sulla liturgia rinnovata e
specialmente su cosa significasse la sua esigenza di una «pie-
na e attiva partecipazione liturgica». Il lavoro della commis-
sione si protrasse per cinque anni; nel 1969 essa fu rimpiaz-
zata dalla Congregazione per il culto divino (successivamen-
te denominata Congregazione per il culto divino e la disci-
plina dei sacramenti).
Seguirono i libri liturgici appena riformati. Nel 1970 fu-
rono pubblicati il Messale Romano e il Lezionario, seguiti
dalla Liturgia delle ore nel 1971 e dal Rito dell'iniziazione
cristiana degli adulti nei 1972. Questi testi, pubblicati prima
in latino in editio typica, furono poi tradotti in edizioni in
lingua vernacola da quelle conferenze episcopali e inviati a
Roma per l'approvazione ufficiale (recognitio). Nel mondo
anglofono il compito della traduzione liturgica fu svolto dal-
l'International Commission on English in the Liturgy, fon-
data nel 1969*. In breve, la liturgia cattolica non sarebbe
mai più stata la stessa. Il sacerdote ora era rivolto all'assem-
1 4 3
Dal punto di vista spaziale, i cambiamenti furono ugual-
mente drastici, Il metodista James White, storico della litur-
gia, scrive:
E probabile ohe gli anni Sessanta abbiano visto nelle chiese cat-
toliche tanto iconoclasmo quanto ne vide la riforma in alcune
regioni protestanti. Migliaia di statue furono corrose dalla pol-
vere o finirono al mercato delle pulci. Gli altari secondari furo-
no indiscriminatamente abbandonati. Tanto i corrimano per la
comunione quanto i confessionali scomparvero. Le stazioni
della via crucis e ogni tipo di immagine devozionale sparirono
[...]; ciò che emergeva negli anni Settanta era un severo 'stile
semplice' cattolico. Le nuove costruzioni rendevano del tutto
evidente che la comunità si riunisce per la liturgia, non per le
devozioni. I poli devozionali - tabernacoli, stazioni, effigi - era-
no stati relegati alle cappelle laterali6.
1 4 5
ve celebrazioni liturgiche. Questi testi furono compilati nel
volume Prayers We Have in Common, pubblicato nel 1970 e
poi riveduto nel 1972 e nel 1975. L'ICET comprendeva una
rappresentanza di cattolici, anglicani e protestanti di dieci
paesi anglofoni e funzionava in un modo simile al suo corri-
spondente cattolico, riCEL, la già citata International Com-
mission on English in the Liturgy, fondata nello stesso anno.
Occorre dire che molto di questa collaborazione ecumenica,
appena ritrovata, fu dovuto all'iniziativa e alla generosità di
anglicani e protestanti, i quali si adattarono al ciclo trienna-
le del Lezionario Romano (1969 e 1980), che comprendeva
due letture, un vangelo e un salmo responsoriale per ogni
domenica nell'arco di tre cicli annuali.
Nel 1973 dal liturgista gesuita John Gallen fu fondata la
North American Academy of Liturgy, per aiutare ulterior-
mente la ricerca liturgica ecumenica in Canada e negli Stati
Uniti. Più recentemente, sono stati ammessi anche studiosi
di liturgia giudaica, che hanno aggiunto il contributo della
propria ricchezza. Nel 1978 fu costituita la Consultation on
Common Texts (CCT) per valutare cosa fosse diventato il le-
zionario 'ecumenico' triennale, per portare i differenti lezio-
nari delle chiese a una più grande armonia reciproca. Alcune
chiese protestanti lamentavano che le letture cattoliche fos-
sero troppo brevi e necessitassero di un'ulteriore elaborazio-
ne. Anche se era comprensibile che i cattolici proclamassero
letture più brevi, essendo seguite da una liturgia eucaristica
nella sua completezza, questo non avviene nella maggioran-
za delle chiese protestanti, in cui la liturgia della Parola co-
stituisce la totalità dell'azione e dove, conseguentemente, so-
no preferibili letture più lunghe. Nel 1983 la CCT pubblicò
il Common Lectionary come risposta alle preoccupazioni
ecumeniche circa il Lezionario Romano e un Revised Com-
mon Lectionary è stato pubblicato più di recente nel 1992.
1 4 7
accoglienza d^ parte dei rappresentanti ufficiali della chiesa
cattolica. A tutt'oggi, il Vaticano deve ancora approvare l'u-
so del Revised Common Lectionary per l'uso cattolico.
Conclusione
Introduzione
1 4 9
Geertz è utile, poiché mostra l'importanza delle tradizioni
ereditate, vale a dire dei modi e dei metodi di comunicazio-
ne, delle abitudini e dei costumi che apprendiamo non solo
in ordine alla sopravvivenza fisica, ma anche a vantaggio
delle verità e dei valori che ci guidano lungo la strada e ci
aiutano a trovare il nostro posto nella società e nel più am-
pio universo. Naturalmente, l'approccio di Geertz è solo un
modo di comprendere o spiegare l'argomento. Altri antro-
pologi hanno accostato il concetto differentemente. L'utile
libro di Michael Paul Gallagher, Clashing Symbols2, esamina
un certo numero di differenti scuole di pensiero.
Tentando di offrire una sintesi dei vari approcci all'argo-
mento, Gallagher presenta tre differenti tendenze nella de-
finizione di 'cultura'. La prima descrizione, «neutrale», in-
cluderebbe una certa unione o integrazione di vari elementi
nella storia e nella realtà di una società secolare. La seconda
tendenza, che egli chiama «idealista», pone i valori indivi-
duali nel più ampio contesto della comunità. La terza ten-
denza, che viene chiamata «politica o morale», esercita
un'influenza sulle decisioni e sulle azioni e, dunque, è un
potere continuo (a volte inconsapevole) esercitato sulle abi-
tudini umane e sul comportamento3.
Prima del XX secolo, quando si faceva riferimento alla
cultura normalmente si pensava ai grandi maestri come El
Greco o Rubens, Michelangelo o Bernini, o alle musiche
composte da Bach, Beethoven o Mozart, o agli scritti di
Shakespeare. Così, si parlava della gente 'colta' usando spes-
1 5 0 I Liturgia ereligiositàpopolare
so la parola come sinonimo di 'persone istruite' e in opposi-
zione a gente 'incolta' - quella incapace di apprezzare la bel-
lezza dell'arte e dell'architettura, la filosofia classica, la let-
teratura e la musica. Esprimendo quest'idea più ampiamen-
te nei termini delle arti liberali, Bernard Lonergan definiva
il 'modello classico' di cultura come opposto a ciò che era
considerato barbarie. Quelli che erano ritenuti 'colti' erano
i giusti e i virtuosi, gli idealisti che comunicavano buoni va-
lori alla famiglia, quelli che muovevano alla ricerca di verità
universali e si dedicavano al bene e al giusto4. Naturalmen-
te, implicita in tale visione era la convinzione che c'è una so-
la cultura alla quale gli esseri umani sono iniziati: la cultura
umanistica e letteraria, della musica classica e della poesia,
dell'arte e dell'architettura. Gli individui più privilegiati (i
raffinati) sono sufficientemente fortunati per essere intro-
dotti in quella cultura, mentre i meno fortunati (i primitivi)
restano a guardare dall'esterno.
Con l'avvento delle scienze sociali nel XX secolo e, spe-
cialmente, grazie all'antropologia culturale, siamo arrivati a
comprendere che la realtà culturale è di gran lunga più com-
plessa di quanto si era creduto. Piuttosto che un modello
uniculturale, riconosciamo ora la molteplicità delle culture,
ognuna con le sue caratteristiche uniche e i suoi riti d'ini-
ziazione, e con i propri mezzi atti a includere o escludere
membri dai suoi riti e dalle sue tradizioni. Ciò che, di fatto,
emergeva dalla ricerca fatta nelle scienze sociali era un mo-
dello più empirico di cultura, che in realtà chiama in que-
stione l'approccio e i dati che precedentemente erano stati
proposti nel modello classico. Una pletora di informazioni è
1 5 1
stata prodotta sul nostro modo di comprendere un compor-
tamento umano e una società. Simboli culturali e sistemi ri-
tuali sono stati esaminati, tradizioni culturali e costumi sono
stati esplorati, compresi i tabù culturali, tutti fatti che han-
no portato a una più ricca e più complessa definizione di
cultura nelle sue molteplici forme.
Considerando il rapporto liturgia-cultura, è bene tenere
in mente questa distinzione tra il modello classico descritto
da Lonergan e il modello più empirico proposto dagli an-
tropologi culturali. Di fatto, la definizione di Lonergan può
essere usata per spiegare l'incapacità della chiesa di incarna-
re o inculturare il vangelo in culture particolari nel corso
della sua lunga storia, precisamente perché l'unico modello
culturale valido presentato era quello classico dell'Europa
occidentale. Un buon esempio di quest'incapacità viene dal-
la controversia sui riti cinesi, che si protrasse per almeno
centocinquant'anni, dall'inizio del XVII secolo fino al 1742.
Il conflitto tra i missionari gesuiti e le autorità civili ed ec-
clesiastiche poteva essere definito in termini sociologici co-
me un conflitto su quale modello culturale fosse valido: il
modello classico o quello empirico? Il missionario italiano
Matteo Ricci e i suoi colleghi gesuiti si dedicarono a inco-
raggiare e a sostenere elementi positivi nella cultura cinese,
come un'importante strategia nel processo di evangelizza-
zione: rendere il vangelo cristiano più credibile e accessibile
per i cinesi. L'approccio dei missionari non gesuiti, sostenu-
ti dalle autorità civili e da quelle della chiesa, consistette nel-
l'impiegare il modello classico, in larga parte bianco, euro-
peo-occidentale, come il solo approccio valido5.
Anche in tempi più recenti, la liturgia pre-conciliare del-
1 5 2 I Liturgia ereligiositàpopolare
la chiesa cattolica rifletteva in larga misura il modello classi-
co descritto da Lonergan. Essere cattolico significava cele-
brare messa in un particolare (identico) modo, usando lo
stesso linguaggio culturale - il latino - e seguendo lo stesso
stile culturale, anche se quella liturgia era costruita e pensa-
ta solo per Fuso in Roma. Per converso, un'interpretazione
sociologica della liturgia post-conciliare riflette un approc-
cio più empirico alla cultura nel suo rapporto con la liturgia.
E suggerirei che alcuni dei problemi correlati alla cultura
che si sono verificati, e che di fatto esistono ancora, tra mis-
sionari e autorità ufficiali della chiesa, potrebbero essere
spiegati - almeno a livello sociologico - come un conflitto
tra due divergenti visioni del mondo: una visione classica,
che promuove una liturgia cattolica omogenea con poche o
nessuna variazione da un luogo all'altro, e un approccio più
empirico al culto liturgico. Quest'ultima visione prende in
considerazione i valori, le tradizioni e i simboli all'interno di
ogni cultura, li valuta mediante un accurato processo di di-
scernimento e li ammette all'interno della liturgia se gli ele-
menti culturali particolari sono giudicati accettabili.
1 5 3
in netto contrasto con i miti babilonesi delle origini, in lar-
ga misura negativi (conflitto e caos).
Al centro <$i questa quadruplice struttura, l'incarnazione
costituisce il fondamento per eccellenza di ogni discussione
sull'argomento dell'inculturazione. Nel documento del
1995 dal titolo Ecclesia in Africa - frutto del sinodo africano
- papa Giovanni Paolo II parlava dell'incarnazione della Pa-
rola come di un mistero che si dispiega nella storia umana,
in circostanze spaziali e temporali chiaramente definite e in
mezzo a un popolo con la sua cultura particolare (n. 60). Fe-
deli al linguaggio di quel documento sinodale, possiamo
parlare, dunque, delle culture particolari come di «linguag-
gi potenziali per la Parola» implicanti un mutuo scambio6.
In altri termini, se le diverse civiltà hanno bisogno di Cristo
per sperimentare la pienezza della propria esistenza cultura-
le, in un certo senso è pure vero che Cristo ha bisogno del-
la cultura per contestualizzare il dono dell'incarnazione in
epoche e luoghi specificamente storici.
L'antropologo Aylward Shorter offre un'utile definizione
del termine nel suo testo classico Toward a Theology of In-
culturation [Verso una teologia dell'inculturazione]: egli de-
scrive l'inculturazione come «un rapporto creativo e dina-
mico tra il messaggio cristiano e una dinamica delle cultu-
re»7. Shorter, poi, evidenzia tre importanti verità circa il no-
stro soggetto. In primo luogo, l'inculturazione è un'opera in
divenire, che interessa ogni cultura e regione in cui il vange-
lo è stato predicato. In secondo luogo, il cristianesimo può
esistere solo in un'appropriata forma ed espressione cultu-
1 5 4 I Liturgia ereligiositàpopolare
rale. In terzo luogo, reciprocità e dialogo devono necessa-
riamente essere al centro della relazione tra fede e cultura.
Tale dialogo assume un ruolo ancora più incisivo quando
esploriamo la terza dimensione teologica dell'inculturazio-
ne, ovvero la redenzione e, in particolare, la natura recipro-
ca delPevangelizzazione. In accordo con la definizione di
Shorter, Michael Paul Gallagher parla dell' evangelizzazione
come di un processo a due facce, un processo di mutua con-
versione e reciproco accrescimento. E così perché anche gli
orizzonti di fede da parte dell'evangelizzatore, uomo e don-
na che sia, sono messi in discussione e arricchiti dal contat-
to con la cultura alla quale è inviato8. Questa dimensione re-
ciproca dell'evangelizzazione è criticamente importante per
la nostra discussione sulla relazione operativa tra liturgia e
cultura e, in effetti, è valida per tutte le forme di ministero
cristiano. Nel processo d'inculturazione c'è poco spazio per
'esperti' o 'specialisti': nessun missionario, nessun ministro
del vangelo, nessuno che presieda la preghiera liturgica è
dotato del talento di 'avere tutte le risposte'. Al contrario, la
promozione di questa relazione tra liturgia e cultura assomi-
glia molto a quella di un pellegrinaggio in cui i pellegrini
camminano insieme lungo la strada, ricchi e poveri, più e
meno istruiti, e insieme imparano l'uno dall'altro, mentre
seguono lo stesso percorso.
Reciprocità e dialogo implicano mutua correzione e am-
monizione, come veniva ricordato nel sinodo africano. In
quell'incontro, i vescovi d'Africa sostennero che l'incultura-
zione (sia del vangelo stesso, sia del culto cristiano) necessa-
riamente tenta di promuovere una 'trasformazione' della
cultura che segua la logica della redenzione. In altri termini,
155
ogni cultura |ha bisogno di essere trasformata dal contatto
con i valori djel vangelo (nn. 59.61). Qui, il testo non si limi-
ta ad accentrare gli aspetti positivi di particolari culture, ma
invita anche |a una certa purificazione di valori inumani in
quelle stesse jculture. Questo è importante, poiché l'incapa-
cità di valutajre criticamente e analizzare dati culturali po-
trebbe potenzialmente portare a una sorta di 'romanticismo
culturale'.
La quarta dimensione teologica - la pentecoste, dicevamo
- suppone il pluralismo della diversità culturale. L'evento di
pentecoste offre i fondamenti per la chiesa missionaria, sim-
bolicamente espressa mediante differenti linguaggi cultura-
li. Le culture che erano state confuse e frammentate a Babe-
le sono trasformate in una nuova armonia sotto la guida del-
lo Spirito santo. Se si fa riferimento a pentecoste, arriviamo
a riconoscere un certo numero di verità. In primo luogo, lo
Spirito era già presente in quella cultura ancora prima che
fosse evangelizzata; in secondo luogo, è precisamente l'in-
culturazione che sostiene e promuove l'unità nella diversità;
in terzo luogo, la chiesa offre un dono a una particolare cul-
tura in un particolare tempo e ne riceve in cambio un dono.
In breve, per arrivare a un cristianesimo che sia veramen-
te inculturato, saranno essenziali una solida antropologia e
una teologia cristocentrica. Gesù, che venne ad abbattere le
barriere tra razze e popoli, offrendo una visione liberante
del mondo, invita le chiese del nostro tempo ad affrontare la
stessa sfida: vedere l'orizzonte delle culture - ciascuna con
le sue tradizioni e i suoi costumi unici - come un dono, piut-
tosto che come una minaccia. Concretamente, questo signi-
fica che la chiesa avrà bisogno di essere aperta al dialogo con
il mondo in cui abita e anche con le molte e diverse culture
di quel mondo in cui il vangelo di Gesù Cristo è stato in-
carnato. Sia che parliamo dell'inculturazione della teologia
1 5 6 I Liturgia ereligiositàpopolare
o degli stessi riti liturgici, la sfida dell'inculturazione può es-
sere meglio compresa e razionalizzata se la si intende come
una necessità evangelica, piuttosto che come un opzione.
Alla fine, forse è più facile impegnarsi nel processo d'in-
culturazione che articolare una semplice definizione di ciò
che il termine effettivamente significhi, com'è mostrato dalle
varie definizioni e interpretazioni menzionate. Diversamente
dal termine cultura, 'inculturazione' è relativamente nuovo
nei documenti della chiesa cattolica. In realtà, non appare
neppure una volta in alcuno dei documenti del Vaticano II.
Come vedremo, il concilio parla dell'importanza della cultu-
ra e anche della necessità di adattare il vangelo e la liturgia
della chiesa a culture particolari (SC 37-40), ma il termine
scelto è 'adattamento' piuttosto che 'inculturazione'.
Il termine 'inculturazione' fu introdotto nel 1962 grazie a
un articolo pubblicato dal gesuita Joseph Masson, che all'e-
poca era professore alla Pontificia Università Gregoriana di
Roma9. In quell'articolo, Masson sollecitava un riconosci-
mento del pluralismo culturale presènte nella chiesa cattoli-
ca che avrebbe reso possibile una diffusione ottimale del
messaggio evangelico in differenti contesti culturali. Undici
anni più tardi, nel 1973, il professore e missionario prote-
stante George Barney parlava di elementi cristiani che arri-
vano a essere 'inculturati', in un libro intitolato The Gospel
and Frontier Peoples [Il vangelo e i popoli di confine]10. Iro-
nicamente, anche se Barney intendeva mettere i suoi colle-
ghi in guardia contro l'inculturazione, che correva il rischio
157
di far perdere gli elementi essenziali del messaggio evangeli-
co, ciò nonostante introdusse questo nuovo e utile termine
per* il mondo ijnglese - un termine che è rimasto in voga fi-
no al presente!1.
Chiaramente il termine 'inculturazione' è preferibile ad
'adattamento', poiché ai ministri della chiesa si richiede
molto più di un superficiale adattamento del vangelo o dei
riti liturgici ai gruppi particolari. Piuttosto, il messaggio del
vangelo (e il culto cristiano che ne costituisce il cuore) ne-
cessita di un più profondo discernimento, per cui i semi che
sono stati piantati in particolari culture abbiano la possibi-
lità di crescere fino alla piena maturità. L'inculturazione ha
inizio organicamente dall'interno della cultura e si muove
verso l'esterno, diversamente da un più superficiale o ester-
no adattamento, che solo gradualmente trova la sua strada
in un gruppo culturale. Conseguentemente, il processo d'in-
culturazione è intrinsecamente ricco e complesso, in quanto
incarna il dialogo tra fede e cultura in modi dinamici. Così,
possiamo concordare con George Barney quando sostiene
che i missionari devono effettivamente proteggere gli aspet-
ti essenziali del cristianesimo senza compromettere le loro
credenze o le loro tradizioni. Dall'altra parte, è ugualmente
importante che quei ministri permettano il processo di fer-
mentazione e fertilizzazione del vangelo in ogni cultura par-
ticolare, poiché tale processo è tanto necessario per la sua
efficace propagazione. Ciò che si dice qui sulla teologia e
sulla strategia missionaria cristiana si applica, naturalmente,
anche all'inculturazione della liturgia cristiana.
Nel 1975, esattamente due anni dopo l'articolo di Barney,
il termine 'inculturazione' fu usato nelle discussioni alla
1 5 8 I Liturgia ereligiositàpopolare
XXXII Congregazione generale della Compagnia di Gesù,
tenuta a Roma, e apparve in un documento intitolato: «Il la-
voro di inculturazione della fede e la promozione della vita
cristiana». E probabile che il termine fosse scelto come equi-
valente latino per il termine sociologico 'acculturazione', che
descrive il processo di socializzazione in una particolare cul-
tura. Diversamente dall'antropologico 'acculturazione', il
nuovo termine 'inculturazione' rapidamente arrivò ad essere
utilizzato teologicamente e liturgicamente. Seguendo la pista
indicata da quella Congregazione generale, il superiore ge-
nerale dei gesuiti, Pedro Arrupe, scrisse nel 1978 un'impor-
tante lettera sull'argomento, che promosse ulteriormente
l'inculturazione nei circoli missionologici. I gesuiti, natural-
mente, sono fondamentalmente un ordine missionario e
quando la lettera di Arrupe fu diffusa nel mondo in cui i ge-
suiti lavoravano, i suoi contenuti furono condivisi e discussi
con colleghi nel ministero, portando a un'ulteriore diffusio-
ne dell'argomento in contesti sia liturgici sia teologici.
L'anno seguente, nel 1979, papa Giovanni Paolo II usò il
termine nel suo discorso alla Pontificia commissione biblica;
questa era la prima volta in cui 'inculturazione' appariva in
un documento pontificio. Il papa diceva: «Anche se può es-
sere un neologismo, il termine inculturazione riflette molto
bene uno dei componenti del mistero dell'incarnazione»12.
Giovanni Paolo II sviluppava ulteriormente la sua afferma-
zione nel documento Catechesi tradendae (n. 53), che tratta
della relazione tra catechesi e cultura e che fu promulgato
nello stesso anno. Sempre nel 1979, Crispino Valenziano,
professore di antropologia culturale al Pontificio istituto li-
159
turgico di Roma, parlò della relazione tra religione popola-
re e liturgia (argomento che sarà da noi esplorato nel pros-
simo capitolo) e propose l'inculturazione come il miglior
metodo per favorire la reciprocità tra le due realtà.
Il documento finale del sinodo straordinario dei vescovi
tenuto nel 1985 offrì il suo utile contributo:
1 6 0 I Liturgia ereligiositàpopolare
tura, il messaggio del vangelo rimane sempre contro-cultu-
rale. Lo stesso dicasi per il culto cristiano: anch'esso rimane
contro-culturale. E così perché esso necessariamente funge
da voce profetica nella cultura, sfidando lo status quo e le va-
rie forme d'ingiustizia che continuano a piagarci oggi nel
mondo post-moderno.
Mentre la riflessione sull'argomento continua, alcuni stu-
diosi credono che il termine 'inculturazione' non faccia ab-
bastanza strada o non catturi pienamente la profonda tra-
sformazione che il dialogo tra fede e cultura rende possibi-
le. Il Consiglio mondiale delle chiese (WCC), per esempio,
preferisce il termine 'contestualizzazione' quando presenta
questo concetto nei propri documenti. Nel frattempo, quel-
li che temono si verifichi troppa inculturazione offrono le
loro alternative. Il card. Joseph Ratzinger, per esempio, ha
usato il termine 'inter-culturazione' nei suoi scritti e nelle
sue conferenze. Egli sostiene che la chiesa stessa è una cul-
tura con la sua lingua particolare (il latino), i suoi costumi e
le sue tradizioni. Quindi, quando la chiesa o il vangelo in-
contra una particolare cultura è, in realtà, una cultura che ne
incontra un'altra. La teoria ratzingeriana sembrerebbe con-
traddire altre teorie presentate precedentemente, e anche
una teologia dell'incarnazione in cui il vangelo (e il culto cri-
stiano) assume la carne e il sangue di un popolo particolare,
che vive in un tempo e in un luogo particolari.
Gli stessi principi che si applicano al processo dinamico
di inculturazione teologica sono validi nella comprensione
del rapporto tra liturgia e cultura. In altre parole, l'incultu-
razione liturgica implica un profondo dialogo tra la cultura
particolare in questione e i riti, i simboli e i testi della litur-
gia della chiesa. Quando la fusione dei due elementi è com-
piuta con successo, l'assemblea liturgica riconosce la liturgia
come propria: così avviene perché i riti inculturati comuni-
1 6 1
cano la verità e le convinzioni di quel particolare gruppo
senza compromettere niente della tradizione di fede. In que-
sti contesti, aitte e paramenti, musica e gesti, insieme con il
linguaggio simbolico di coloro che celebrano, contribuisco-
no armoniosamente alla liturgia, saldamente fondata nella
vita e nella missione di quella particolare comunità. In que-
sti contesti riecheggiano dal IV secolo le parole di sant'Ago-
stino: «E il vostro mistero che voi celebrate».
La semplice presenza di quattro vangeli, piuttosto che
uno solo, suggerisce già qualcosa circa la necessità di conte-
stualizzare il messaggio. La comunità di Matteo era radical-
mente differente da quella di Luca e quella di Giovanni era
differente da quella di Marco. Gli Atti degli apostoli (cap.
17) notano un certo cambiamento nell'atteggiamento di
Paolo verso gli Ateniesi: egli, da un'opinione piuttosto nega-
tiva riguardo alle loro pratiche religiose, passa a un più gran-
de riconoscimento dei valori religiosi insiti in quei costumi.
Inoltre, il fatto che le Scritture cristiane appaiano in greco
dimostra una chiara e strategica decisione, da parte dei pri-
mi cristiani: quella di propagare il messaggio oltre i confini
del giudaismo, «a tutte le nazioni». Dagli inizi del cristiane-
simo, gli apostoli e i primi discepoli di Gesù si confrontaro-
no con tensioni culturali sulla circoncisione e l'alleanza, sul
ruolo delle donne, sui tabù alimentari, sul sacerdozio, che
era legato al tempio, al sacrificio, alla sinagoga, al sabato e al-
l'agnello pasquale. La posizione di Gesù, confermata dall'at-
tività missionaria registrata negli Atti, getta luce sulle più an-
tiche convinzioni circa la fede cristiana nel suo rapporto con
la cultura. Vale a dire: vediamo fin dall'inizio un marcato ac-
comodamento culturale, il che significa non un cieco o su-
perficiale assenso a tutte le pratiche culturali del tempo, ma
un desiderio di applicare e adattare il messaggio al gruppo
particolare. Questo voleva dire diversità e cambiamento nel
1 6 2 I Liturgia ereligiositàpopolare
modo in cui il messaggio veniva predicato e nel modo in cui
il culto liturgico veniva svolto a seconda del contesto.
Siamo consapevoli dell'enorme quantità di prestiti cultu-
rali che ebbero luogo quando il culto cristiano prese forma,
nei primi tempi. Parole ebraiche e aramaiche trovarono ra-
pidamente la loro strada nel vocabolario liturgico della chie-
sa con termini come osanna, alleluia, maranatha, amen e co-
sì via. La maggior parte di noi pone scarsa attenzione alle
origini di queste parole quando le nostre labbra le procla-
mano quotidianamente, ma la verità è che non sono origi-
nariamente cristiane: esse furono prese in prestito dal giu-
daismo. E ci sono altri esempi, come l'antica pratica delle
preghiere del mattino e della sera - di lodi e vespri, come fi-
nirono per essere chiamati. I cristiani semplicemente prese-
ro in prestito questa pratica dagli ebrei, i quali tradizional-
mente pregavano ogni giorno al sorgere e al tramonto del
sole. La lettura pubblica della sacra Scrittura nell'assemblea
liturgica seguita da una riflessione (monizione) sulle letture
è ancora un'altra antica pratica giudaica, che i cristiani adot-
tarono per i propri fini. Lo stesso banchetto eucaristico tro-
va le sue origini nei banchetti rituali giudaici, e l'uso cristia-
no di ungere i malati con olio santo - fedeli al comanda-
mento ricordato nella Lettera di Giacomo (5,14s.) - era un
comportamento comune per i credenti giudei nel loro pren-
dersi cura dei membri della comunità che erano malati.
Nel mondo greco-romano del II e III secolo sono presen-
ti ulteriori esempi di scambio culturale. Da una parte, rima-
neva il desiderio di distinguere il cristianesimo dalle altre re-
ligioni, mentre, dall'altra parte, continuavano a verificarsi dei
prestiti da una religione all'altra. La volontà di distinzione si
può vedere considerando i luoghi per la liturgia e l'interpre-
tazione del 'sacrificio'. Mentre le religioni misteriche greche
usavano il tempio come locus per il culto, i cristiani conti-
1 6 3
nuavano a incontrarsi nelle loro case. E mentre i culti miste-
rici, come quello di Mitra, comprendevano sacrifici animali
quale parte centrale del rituale, i cristiani si riunivano per ce-
lebrare il sacrificio incruento di lode e rendimento di grazie.
E interessante notare come, in questo periodo, ci fu anche ri-
luttanza da parte dei cristiani a far uso di altari, dal momen-
to che gli altari erano tanto chiaramente associati a pratiche
pagane. Come abbiamo visto nel secondo capitolo, il rito ro-
mano emerse a partire dal genio culturale della Roma del V
secolo, che si segnalava per la sua brevità e sobrietà. Così,
quando i cristiani romani si riunivano insieme per celebrare,
in quell'epoca storica, lo facevano in un modo inculturato. I
loro testi liturgici e il loro stile cultuale erano tipici di ciò che
avrebbero potuto conoscere nel coevo cerimoniale romano
di corte, così come nello stile letterario profano.
In un importante articolo sull'inculturazione liturgica in
Oriente, Robert Taft menziona alcuni esempi provenienti da
quelle chiese. In particolare, cita gli sforzi missionari degli
apostoli degli Slavi, Cirillo (t 869) e Metodio (t 885)14. Quei
missionari compresero il significato di una liturgia in lingua
vernacola come importante strumento nella loro strategia di
evangelizzazione e, di conseguenza, tradussero i necessari li-
bri liturgici e i testi biblici in paleoslavo. Il compito era tut-
tavia più facile a dirsi che a farsi, poiché alcuni energici op-
positori tra il clero tedesco sostennero che essere cattolico
significava pregare in latino; costoro, dunque, accusarono
Cirillo e Metodio di manomettere i principi fondamentali
della fede cattolica. Cento anni prima, un altro gruppo del
1 6 4 I Liturgia ereligiositàpopolare
clero tedesco (detto dei 'trilinguisti') era stato condannato al
sinodo di Francoforte per aver sostenuto che Dio poteva es-
sere adorato solo nelle tre lingue scritte sulla croce (ebraico,
latino e greco). Continuavano in ogni caso ad esistere alcu-
ni loro discendenti, e furono proprio quelli che fecero del
loro meglio per ostacolare gli sforzi di Cirillo e Metodio per
un'inculturazione liturgica tra i popoli slavi. La storia, tutta-
via, ebbe un lieto fine. Diversamente dalla controversia sui
riti cinesi che sarebbe arrivata ottocento anni più tardi,
quelli che si opponevano ad accomodamenti culturali per-
sero la battaglia e la fede cristiana fece presa nelle regioni
slave con la propria liturgia inculturata.
1 6 5
una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le do-
ti di animo dfelle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che
nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a super-
stizioni o ad (errori, essa lo prende in considerazione con bene-
volenza e, se; è possibile, lo conserva inalterato, anzi a volte lo
ammette nella stessa liturgia, purché possa armonizzarsi con gli
aspetti del vero e autentico spirito liturgico (n. 37).
1 6 6 I Liturgia ereligiositàpopolare
tutti il mistero della salvezza e la vita portata da Dio, deve cer-
care di inserirsi in tutti questi raggruppamenti con lo stesso mo-
vimento con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si
legò a determinate condizioni sociali e culturali degli uomini in
mezzo ai quali visse (n. 10).
1 6 7
zione liturgica minaccia l'unità del rito romano e, di fatto, la
nostra stessa identità di cattolici. Ironicamente, i critici di
questa intensificata relazione tra liturgia e cultura si dovreb-
bero trovare iri contrasto con il papa Giovanni Paolo II, che
ha fatto sull'argomento affermazioni più positive di tutti i
suoi predecessori messi insieme.
1 6 8 I Liturgia ereligiositàpopolare
borazione tra differenti culture locali15. Vorrei suggerire che
quanto la dichiarazione di Nairobi afferma circa la liturgia
potrebbe e dovrebbe essere applicato più in generale al van-
gelo e alla chiesa stessa. Di fatto, la credibilità e il futuro del-
la chiesa dipenderà dalla sua capacità di essere trans-cultu-
rale, contestuale, contro-culturale e dalla sua capacità di su-
perare le differenze tra le culture e in mezzo ad esse (inter-
secando la cultura).
Queste dimensioni culturali del culto cristiano sono im-
portanti quando consideriamo il cambiamento di aspetto
delle chiese avvenuto in questo nuovo millennio. All'inizio
del XX secolo, l'80% di tutti i cristiani era costituito da
bianchi e viveva nell'emisfero settentrionale. Dall'anno
2020, l'80% di tutti i cristiani sarà gente di colore che vive
nell'emisfero meridionale. Negli Stati Uniti, la rivista Time
ha previsto che nell'anno 2056 il tipico cittadino statuniten-
se «proverrà da Africa, Asia, dal mondo ispanico, dalle iso-
le del Pacifico e dalla penisola arabica, precisamente da qua-
si tutti i luoghi immaginabili con l'eccezione dell'Europa»16.
Così, quando guardiamo al futuro, la propagazione del mes-
saggio cristiano dipenderà in larga misura dalla capacità dei
ministri della chiesa di comunicare in una maniera incultu-
rata. Liturgicamente parlando, nel 1988 l'approvazione va-
ticana del "rito zairese (congolese)" - ovvero il Messale Ro-
mano per le diocesi dello Zaire - fu un passo importante ver-
so la contestualizzazione del messaggio cristiano in Congo.
Tuttavia, rimane ancora da fare molto di più.
1 6 9
Alcuni anni or sono, il teologo vietnamita Peter Phan sol-
levò alcune interessanti domande sul rapporto tra liturgia e
cultura17. Egli jprendeva in considerazione l'importanza del-
l'inculturazionje nel contesto del suo nativo Vietnam e offri-
va un esempi^ della comunità Co Ho, nella regione mon-
tuosa di Dalat al Sud. La comunità appartiene alla tribù
Mon-Khmer della regione ed è tradizionalmente una società
matriarcale, in cui il capo-tribù è sempre una donna. Al mo-
mento dell'impegno matrimoniale, per esempio, è la donna
che fa la proposta all'uomo, e quando nella famiglia nasco-
no dei bambini, questi prendono il cognome della madre
piuttosto che quello del padre. Anche il termine Khmer
Mèkhlòt, che significa 'capo della famiglia', viene riferito al-
la madre.
La situazione diventa piuttosto complicata quando si pas-
si considerare la vita liturgica della comunità. Phan si riferi-
sce a un certo numero di anomalie imposte alla comunità
quando si riunisce. Per esempio, per guidare la liturgia
dev'essere impiegato un forestiero, dal momento che nessun
maschio nella comunità è preparato a svolgere questo ruolo
direttivo per un certo numero di ragioni. La ragione prima-
ria, naturalmente, è che dovrebbe essere celibe - un concet-
to estraneo a questa comunità tribale. Si possono immagi-
nare ulteriori problemi di comprensione in questa società
matriarcale, dove a guida del culto è posta non una donna
ma un uomo - l'antitesi del modo in cui questa comunità
funziona ad ogni altro livello di tipo sociale. Inoltre, questo
strano sacerdote si veste con un abbigliamento bizzarro per
17P. PHAN, HOW Much Uniformity Can We Stand? How Much Unity
Do We Need? Church and Worship in the New Millennium, in Worship
72 (1998) 194-196.
1 7 0 I Liturgia ereligiositàpopolare
celebrare questi rituali liturgici - un abbigliamento che non
ha senso nel contesto di quella cultura. Phan nota che i riti
e i gesti stessi appaiono ugualmente strani. Le genuflessioni
non esistono in quella cultura, per esempio; quei vietnamiti
sono abituati a inchinarsi o a fare altri gesti corporei. I testi
liturgici pure sono estranei, e per la loro struttura letteraria
e per la loro cadenza. Di conseguenza, non riescono a cat-
turare il genio culturale, letterario della gente Co Ho.
Lesempio vietnamita portato da Phan potrebbe, natural-
mente, essere applicato anche a molte altre culture, partico-
larmente in quelle regioni e in quei paesi in cui il cristiane-
simo è poco conosciuto. L'India, per esempio, sarebbe dav-
vero un interessante caso da studiare su questo argomento,
con centinaia di gruppi culturali che vivono nello stesso pae-
se. Ognuno di questi gruppi opera con il proprio linguaggio
e le proprie tradizioni e gode di una libera e facile comuni-
cazione (almeno in alcune aree) tra cristiani e indù e mem-
bri di altre religioni. Alcuni liturgisti e teologi indiani, com-
presi parecchi vescovi, hanno recentemente sollevato la que-
stione relativa alla possibilità o meno di includere la lettura
delle scritture sacre indù durante l'eucaristia cattolica. Il lo-
ro intento non è tanto quello di promuovere una certa amal-
gamazione liturgica tra differenti religioni, quanto piuttosto
quello di riconoscere che quelle scritture non cristiane sono
considerate testi sacri da tutti gli Indiani - indù e cristiani
senza differenze. Di per sé, i vescovi e i teologi sostengono
che i testi meritano di essere venerati anche nel culto cri-
stiano. I funzionari vaticani sono ben consapevoli di queste
tensioni e proposte, e hanno risposto con un severo rimpro-
vero quando la domanda è stata presentata, in quanto te-
mono un'inappropriata mistura di pratiche religiose (che si
chiama sincretismo), che potrebbe causare per il cattolicesi-
mo la perdita della propria singolare eredità.
1 7 1
Un altro aspetto del problema indiano riguarda la rice-
zione della sanj:a comunione. Qualche anno fa ero presente
a un incontro, j a Roma, nel quale un eminente teologo in-
diano sollevò là questione in merito alla possibilità di offri-
re l'eucaristia a indù o musulmani quando sono presenti a
una messa cattolica, come gesto di ospitalità sacra - tanto
importante nella cultura indiana. Come si poteva immagina-
re, questa proposta produsse alcune fortissime reazioni da
parte di altri partecipanti, poiché i cattolici credono che
l'eucaristia è il corpo e il sangue di Cristo e che solo cattoli-
ci battezzati possano riceverla. Mentre alcuni nella sala sa-
rebbero stati aperti a un'ulteriore discussione sull'argomen-
to dell'intercomunione con anglicani e luterani, l'idea di da-
re la comunione a non cristiani era semplicemente troppo!
In altre parti del mondo, vescovi e direttori di uffici liturgi-
ci diocesani hanno chiesto informazioni circa la sostituzione
del pane e del vino con elementi alternativi, vuoi perché vi-
no e pane sono indisponibili (o mai usati nella vita domesti-
ca), vuoi perché sono troppo costosi.
Questi casi sono, probabilmente, estremi, ma indicano la
complessità della questione quando la chiesa si sforza di
rendere credibile la sua liturgia, in quanto propriamente in-
culturata e contestualizzata, ma senza compromettere la sua
dottrina e le sue credenze. Nondimeno, considerate queste
precauzioni, c'è molto spazio per una genuina inculturazio-
ne della liturgia cristiana e dobbiamo farne lo scopo da per-
seguire. Come abbiamo visto, la storia del culto cristiano è
una storia di cambiamento e il celebrare deve continuamen-
te adattarsi alle culture in evoluzione, se vuole effettivamen-
te rispondere ai segni dei tempi ed esprimere autenticamen-
te le necessità e i desideri delle comunità particolari che si
riuniscono per lodare e rendere culto a Dio. Se il messaggio
del vangelo continuerà ad essere contestualizzato o incultu-
1 7 2 I Liturgia ereligiositàpopolare
rato quando è espresso dalla liturgia e dalla teologia, allora
abbiamo ogni ragione per credere che la chiesa continuerà a
prosperare. Qualsiasi tentativo di chiudere le porte e ripor-
tare gli orologi indietro a una rigida uniformità liturgica tri-
dentina produrrebbe certissimamente, al contrario, dei ri-
sultati disastrosi.
Conclusione
1 7 3
È sempre la chiesa, e non i singoli, a decidere quali elemen-
ti culturali siatio accettabili e, perciò, degni di essere am-
messi nel culto cristiano. 9) Le tradizioni liturgiche non so-
no inventate secondo il capriccio di un liturgista o di un re-
sponsabile della formazione religiosa, ma si sviluppano ed
evolvono nel cbrso del tempo; spetterà alla storia dire se de-
terminati elementi sono capaci di sopravvivere, in larga di-
pendenza dal fatto che siano o meno fondati sul genio litur-
gico di una particolare popolazione in un tempo particola-
re. 10) L'inculturazione è un processo continuo che non
ha mai fine; non riuscire a inculturare può equivalere alla
morte18.
In questo capitolo abbiamo visto, dalla prospettiva storica
e da quella teologica, che, se la liturgia deve essere una voce
profetica per la nostra chiesa e per la più ampia società u-
mana, essa dovrà necessariamente essere incarnata e incultu-
rata, contestualizzata e capace di rivolgersi ai problemi vitali
della gente. Come sempre, abbiamo bisogno di essere equi-
librati nelle nostre riflessioni, fondando solidamente la no-
stra inculturazione della liturgia nella tradizione della chiesa,
come ci ricorda Robert Taft. Ma è precisamente la nostra de-
dizione a promuovere il rapporto tra liturgia e cultura che
renderà i cristiani capaci di essere interlocutori più com-
petenti in ciò che Karl Rahner chiamava la 'chiesa mondiale'.
Uno dei principali versanti dell'inculturazione della liturgia
implica vari aspetti di religiosità popolare come elementi che
attestano una identità culturale. Il nostro prossimo capitolo
prenderà in esame l'importante relazione tra le devozioni po-
polari e il culto e i modi in cui l'inculturazione della liturgia
fornisce la necessaria struttura per tale religiosità.
1 7 4 I Liturgia ereligiositàpopolare
5.
Liturgia e religiosità popolare
Introduzione
1 7 5
già»1. Il liturgista italiano sostiene che dobbiamo essere at-
tenti a non interpretare 'religiosità' in termini troppo sog-
gettivi, quasi a suggerire che Va bene tutto'. La religiosità è
una genuina, concreta espressione di autentica religione, an-
che quando a volte sembra mancare di solide fondamenta
dottrinali o ecclesiologiche. Ma non è qualcosa d'inventato
nelle menti dei professionisti, come è il caso di alcune forme
di religione new age.
Il termine 'popolare' non intende suggerire qualcosa che
è preferito dal popolo (per esempio si può definire popola-
re un film oppure un ristorante), ma piuttosto il riferimento
è al popolo stesso: qualcosa che è fatto dal popolo o che è
del popolo. In realtà, ci sono alcuni eventi liturgici come il
mercoledì delle ceneri o la domenica delle palme che sono
abbastanza 'popolari' - molte persone sono presenti - ben-
ché siano riti ufficiali della chiesa e non espressioni di reli-
gione popolare. Per converso, ci sono alcune espressioni di
religiosità popolare che sono, di fatto, niente affatto 'popo-
lari', benché rientrino in questa categoria poiché rappresen-
tano forme di pietà che sono non ufficiali e poste in essere
dal popolo2.
Questo fenomeno - la religione popolare - non era im-
mediatamente presente alle menti dei riformatori liturgici
del concilio Vaticano II. In effetti, c'è una scarsissima infor-
mazione disponibile sull'argomento prima degli anni Ses-
santa. Molte forme di religiosità popolare esistevano prima
del concilio naturalmente (rosario, novene, processioni), ma
non furono mai percepite come costitutive di un'area unifi-
Fondamenti storici
Ili
polare in varie forme ben oltre i confini del cristianesimo.
L'annuale pellegrinaggio musulmano, hajj> alla Mecca offre
un esempio; il irituale domestico confuciano del culto degli
antenati ne ofìjre un altro. In realtà, abbondano gli esempi
che si possono trarre da giudaismo, induismo, shintoismo,
tenrikyö e da njiolte altre religioni.
A Roma, i cristiani visitavano le tombe dei martiri fin dal
II secolo, specjalmente la domenica pomeriggio, quando la
famiglia facevaj una tranquilla passeggiata lungo l'antica via
Appia, per visitare le catacombe e offrire una preghiera. Fin
dall'inizio, era caratteristica una forte sensazione d'interces-
sione: l'essere parte della comunione dei santi. Non era un
culto degli antenati, ma una sensazione di essere collegati e
connessi con i propri predecessori cristiani, credendo che i
morti avessero ora la possibilità di intercedere da un'altra
sponda per i cristiani ancora vivi. Questo si può dedurre da
graffiti antichi rinvenuti sui muri delle catacombe, con bre-
vi intercessioni: «Pietro, prega per Vittorio», per esempio.
Con la pace di Costantino, che legalizzò il cristianesimo
all'inizio del IV secolo, centri religiosi come Roma e Geru-
salemme divennero luoghi di pellegrinaggio. I pellegrini
provenivano da grandi distanze; quei viaggi erano general-
mente fatti a caro prezzo e non senza correre rischi intrinse-
ci. La vita lungo la strada era pericolosa, poiché i banditi se-
guivano i viaggiatori aspettando il momento opportuno per
impadronirsi dei loro beni e, forse, per infliggere ferite fisi-
che o addirittura la morte. I pellegrini, che erano consape-
voli di tali rischi, spesso lasciavano le loro ultime volontà e
facevano testamento per i membri della famiglia prima del-
la partenza e cercavano la benedizione del vescovo prima di
organizzare il viaggio. A causa delle distanze, quelli che par-
tivano in pellegrinaggio sarebbero stati lontani da casa per
parecchi anni. Dovendo rinunciare a tre anni di salario,
1 7 9
Fino a tempi abbastanza recenti, alcuni studiosi di litur-
gia presentavamo le origini della religiosità popolare nel pe-
riodo medievale come una risposta laica all'aumento della
clericalizzaziorle della liturgia. Anche se questo quadro del-
la pietà laica mjedievale è generalmente accurato (tranne po-
che eccezioni),! i suoi fondamenti sono molto più antichi e
includono esenjipi di una pietà che, in realtà, non era in con-
flitto, in alcun modo significativo, con la partecipazione li-
turgica dei laici. In altre parole, quelle due realtà non erano
mutuamente esclusive. Il problema della pratica medievale
era precisamente che il precedente equilibrio tra la vita de-
vozionale extra-liturgica della chiesa e la sua fondamentale
vita liturgica era andato perduto. La conseguenza fu che de-
vozioni come l'adorazione eucaristica e le processioni del
Corpus Domini giunsero ad essere considerate più impor-
tanti della stessa messa. L'origine della processione del Cor-
pus Domini presenta un'utile illustrazione di questo punto.
Nel 1236 un prete tedesco in pellegrinaggio a Roma pregò
per ottenere la grazia necessaria a credere nella dottrina del-
la transustanziazione - il pane e il vino cessano di essere pa-
ne e vino al momento della consacrazione per diventare car-
ne e sangue di Cristo. Mentre celebrava la messa a Bolsena,
vicino a Orvieto, l'ostia manifestamente grondò sangue sul-
la tovaglia dell'altare. In seguito a questo evento, la festa del
Corpus Domini (Corpo e sangue di Cristo), originariamen-
te istituita a Liegi, fu estesa come festa universale per tutta
la chiesa nel 1314 da papa Clemente V. Come conseguenza,
fiorirono le processioni eucaristiche4. Ci furono anche alcu-
ni esempi estremi di devozione eucaristica, stando ai quali
alcuni fedeli riferirono numerosi miracoli associati all'euca-
1 8 1
pegnavano nella disciplina fisica dell'auto-flagellazione, per
mortificazioni personale e in espiazione dei loro peccati.
Nella Spagna jneridionale (e in regioni sotto l'influenza spa-
gnola, come Napoli e la Sicilia) il momento culminante del-
l'anno era la Settimana santa, quando le confraternite (her-
mandades) si impegnavano in colorite processioni peniten-
ziali accompagnate da musica, richiamando alcuni aspetti
particolari della passione, morte e risurrezione di Cristo (o
delle vicende della Vergine Maria addolorata). In ogni pro-
cessione, in cui i partecipanti indossavano costumi di festa,
c'era un baldacchino fatto di metalli preziosi, adornato con
gioielli, su cui era collocata l'appropriata rappresentazione
di Cristo o della Vergine, circondata da candele e incenso.
Dato il suo peso, l'effigie era trasportata da forse venti o
trenta uomini che offrivano questo sforzo fisico in espiazio-
ne dei loro peccati. Oggi, quelle processioni della settimana
santa si possono ancora vedere, specialmente in Andalusia.
In Germania e altrove la rappresentazione medievale del mi-
stero svolgeva un'altra importante funzione devozionale.
Questi esempi positivi di pietà religiosa nel Medioevo e
nel Rinascimento costituiscono in un certo modo un bilan-
ciamento per una scena altrimenti problematica di vita de-
vozionale, in un periodo in cui si era eclissata l'importanza
di una corretta partecipazione al culto cristiano - una scena
della quale i riformatori protestanti furono più che informa-
ti. Il concilio di Trento fece la sua parte nel contestare abu-
si dove esistevano, ma la spaccatura tra la vita liturgica del-
la chiesa e le pratiche devozionali popolari rimase fino al
concilio Vaticano II.
1 8 3
sa a prepararsi per le celebrazioni liturgiche e conducono, di
fatto, i credenti alla liturgia. Quelle stesse devozioni sgorga-
no dalla liturgia, ma il loro ruolo rimane sempre ancillare ri-
spetto alla litiirgia stessa. In secondo luogo subentra una no-
ta di cautela: queste devozioni devono essere accuratamen-
te poste in atto, in modo da non creare una struttura paral-
lela rispetto alla chiesa o all'insegnamento ufficiale della
chiesa.
Alcuni esempi possono essere utili qui. Parecchi anni fa
ero fuori per il weekend con alcuni amici gesuiti in una sta-
zione balneare a sud di Roma. Quando ci preparammo per
celebrare insieme l'eucaristia di domenica, la donna che
conduceva la pensione con suo marito ci chiese se lei e la sua
famiglia potevano unirsi a noi: «E una specie di novità per
noi, poiché noi non andiamo a messa molto spesso, ma sia-
mo soliti visitare un certo numero di santuari». Erano per-
sone stupende e devotissime, che a un certo punto avevano
stabilito che visitare una cappella o un santuario per recita-
re una preghiera o accendere una candela votiva fosse in
qualche modo equivalente ad andare a messa con il resto
della comunità ecclesiale la domenica mattina. Successiva-
mente, ho incontrato altri che hanno descritto in termini si-
mili la loro religiosità. Un secondo esempio viene dai Balca-
ni e dal popolare santuario mariano di Medjugorje. Alcuni
devoti cattolici saranno sorpresi di sapere che mai rappre-
sentanti ufficiali della chiesa hanno dichiarato legittime
quelle presunte apparizioni, né hanno approvato l'uso di re-
carsi a Medjugorje come santuario e luogo di pellegrinaggio.
E ci sono altri resoconti di 'Madonne piangenti', sparse per
il mondo, che sembrano presentarsi con sempre maggiore
frequenza. Il Vaticano prende costantemente le distanze da
queste presunte apparizioni, anche quando centinaia e mi-
gliaia di fedeli si affollano in quei luoghi. Questo è precisa-
1 8 5
ghiera in aggiunta a quelle più ufficiali. La stessa costituzio-
ne Sacrosanctum concilium lo afferma al n. 12, quando di-
chiara che «la vita spirituale non si esaurisce nella parteci-
pazione alla sjola sacra liturgia».
Secondo, i liturgisti non erano sempre molto attenti e sen-
sibili alla pastorale nel loro approccio su come meglio at-
tuare le riforme, e furono i catechisti - provvisti di una men-
talità più pastorale (specialmente quelli provenienti dall'A-
merica latina) - che, alla fine, convinsero i liturgisti che le
espressioni di religione popolare svolgevano una funzione
che la liturgia ufficiale non sempre era capace di compiere.
Le devozioni popolari avevano modo di toccare il cuore, di
muovere il fedele a una conversione o una compassione più
grandi. Inoltre, aiutavano nel compito di evangelizzazione e
producevano un'intimità e un calore umano spesso assenti
da celebrazioni liturgiche che riuscivano troppo fredde e
formali, con un Dio che sembrava troppo distante. Questo
restava vero anche dopo il Vaticano II, con la liturgia rifor-
mata in lingua vernacola.
Liturgisti e teologi esplorarono la relazione tra liturgia e
religione popolare negli anni seguenti. Salvatore Marsili, per
esempio, un benedettino italiano che fu uno dei principali
periti di liturgia al concilio Vaticano II, descriveva la liturgia
come una cosa fatta dalla chiesa, mentre le devozioni popo-
lari sono culto reso nella chiesa. Data questa distinzione,
tuttavia, Marsili aggiungeva che ogni forma di preghiera in
cui la comunità cristiana si impegna in quanto costituita da
membri della chiesa, che hanno il desiderio di celebrare il
mistero di Cristo in unità con i vescovi e i pastori, contiene
gli elementi liturgici essenziali e può essere considerata li-
turgia', quantunque in un senso più generale6. Domenico
1 8 7
Nel 1975 iu proprio il tema della cultura che costituì il
nucleo dell'enciclica Evangelii nuntiandi di Paolo VI. In
quel documento il papa affrontava l'argomento della pietà
popolare nei (termini contestuali di cultura popolare, par-
landone com£ della «religione del popolo». Inoltre egli sol-
lecitava una riscoperta della religiosità popolare e della sua
importanza come strumento di evangelizzazione. La cultura
popolare dev'essere evangelizzata, sosteneva il pontefice (n.
20), ed è la religione popolare che può aiutare grandemente
questi sforzi.
Al livello di conferenze episcopali, la più grande tratta-
zione della questione venne dall'America latina, in due ses-
sioni plenarie che videro radunati in assemblea tutti i vesco-
vi: la seconda Conferenza generale dell'episcopato latino-
americano (CELAM), tenuta a Medellin nel 1968, e la terza
conferenza, tenuta a Puebla nel 1979. Il sesto documento
della conferenza di Medellin trattava di religione popolare e
offriva una prudente valutazione di alcune delle sue prati-
che. Si notava una tensione circa eventi religiosi come bat-
tesimi o prime comunioni che sembravano essere, in realtà,
eventi sociali più che religiosi. Inoltre, venivano messe in
dubbio pratiche rituali come devozioni, processioni e pelle-
grinaggi centrati sui sacramenti, che venivano descritti come
'cerimonialismo', capace di compromettere «l'integrità del
cristianesimo». Positivamente, tuttavia, i vescovi a Medellin
riconoscevano anche la religione popolare come una buona
primavera di genuino cristianesimo9.
Possiamo osservare una marcata differenza quando la
stessa assemblea di vescovi fu riconvocata a Puebla undici
10 Ibid., 23.
11 Ibid., 23-25.
1 8 9
ricorre al folklore, al mito e alle tradizioni culturali. Fa affi-
damento sul linguaggio locale piuttosto che su di un più ele-
vato linguaggio liturgico; è semplice, diversamente dalla re-
ligione ufficiale che è più complessa12. Come vedremo, que-
ste distinzionj, ovviamente, si applicano più alla situazione
latino-americana che alle espressioni europee tradizionali di
religiosità. Nondimeno, offrono un colpo d'occhio su alcu-
ne importanti tensioni tra i due ambiti, che hanno implica-
zioni sia per il culto ufficiale sia per le devozioni popolari.
Il contributo latino-americano
12 Ibid., 33.
1 9 1
È interessante osservare come le devozioni popolari
quando emer$ero in America latina dopo il concilio Vatica-
no II offrirono, in realtà, un quadro molto divrso da questo.
A differenza dell'individualismo religioso così caratteristico
della religioni popolare europea, la controparte latino-ame-
ricana era infinitamente più comunitaria nell'azione, mo-
strava stretti lfegami con la terra e suoi abitanti, contribuen-
do in definitiva a una nuova comprensione dell'eucaristia
stessa come strumento di liberazione. La nuova ondata di
immigranti negli Stati Uniti - messicani, filippini, cubani,
salvadoregni e di innumerevoli altre nazionalità - ha porta-
to con sé un'espressione unica di religiosità, significativa-
mente differente da quella arrivata con gli immigranti euro-
pei nei primi anni del XX secolo. Naturalmente, questi nuo-
vi arrivati professano la fede nello stesso Cristo come capo
della stessa chiesa, venerano la stessa Vergine Maria, prega-
no gli stessi santi, ma l'espressione culturale è radicalmente
differente.
Diversamente da forme di pietà religiosa che lasciavano i
credenti nel loro isolamento individualistico, ad aspettare
passivamente e acriticamente una vita migliore, questa nuo-
va forma di religione popolare scuote i suoi partecipanti ac-
compagnandoli verso una «piena e attiva partecipazione» e
verso un'azione profetica. In quanto celebranti di questi pii
esercizi, si dedicano come strumenti di Dio a servire il com-
pimento del regno di Dio su questa terra. In altre parole, la
religiosità popolare com'è espressa in America latina e dai
latino-americani che ora risiedono a Londra, Birmingham,
Parigi o New York, rende i suoi praticanti capaci di cercare
il tipo di cambiamento sociale e strutturale che renderebbe
migliori le loro vite umane. Si può scorgere qui un forte le-
game tra la spiritualità e la difficile situazione dei poveri e di
quanti sono oppressi nella vita quotidiana - uno stridente
1 9 3
rafforza, rinsalda in un modo unico coloro che vi prendono
parte, offrendo loro un'esperienza trasformante che non è
sempre possibile vedere realizzata nelle strutture più forma-
lizzate e ufficijali della chiesa.
1 9 5
re e della sofferenza di quella comunità. I simboli qui sono
ricchissimi. Vite innocenti erano state perdute a causa di
una violenza insensata, ma la morte non era l'ultima parola.
Quest'espressione messicana di religione popolare rafforzò
e liberò i residenti di Chenalhó, mettendoli in grado di tro-
vare la speranza in mezzo a una grande tragedia13.
Più recentemente, i terribili avvenimenti dell'11 settem-
bre 2001 resero la città stessa di New York un santuario ur-
bano all'esterno dell'Episcopal Saint Paul's Chapel, in Low-
er Manhattan, quando foto, messaggi, fiori, cimeli dei mor-
ti e candele coprirono il recinto intorno alla proprietà. Ca-
serme di vigili del fuoco e stazioni di polizia ospitarono i
propri santuari per i colleghi caduti. Questi luoghi - come
lo stesso sito di Ground Zero - divennero luoghi di pellegri-
naggio e mete di visita, dove individui e famiglie andavano a
pregare e a ricordare. Naturalmente, ci furono anche nume-
rose eucaristie e altri servizi liturgici, che portarono conso-
lazione ai superstiti che si sforzavano di trovare un senso a
quella tragedia, ma furono largamente le espressioni non li-
turgiche di preghiera spontanea e di devozione a catturare i
cuori di migliaia di persone.
E precisamente in momenti di tragedia e di perdita, di
violenza e oppressione, che la fede serve come un'àncora e
pregare insieme - sia nel culto comunitario sia in devozioni
non liturgiche - sta al centro di tutto. Recentemente, alcuni
ricercatori hanno cominciato a studiare più in dettaglio il
ruolo che rituale e liturgia giocano in contesti di violenza e
tragedia, e la risposta che essi offrono nel mezzo dell'op-
pressione. Nel suo libro Torture and Eucharist. Theology, Po-
1 9 7
tenti dai troni e ha innalzato gli umili» (Le 1,52). Storica-
mente, gruppi etnici oppressi come latini e afro-americani
non avevano niai diritto di modellare il proprio futuro, ma
restavano «oggetti nelle storie degli altri». I praticanti della
religione popolare riconoscono la propria identità come
'soggetti' dei lóro destini e sono, di fatto, liberati e rafforza-
ti per unirsi e assumere la responsabilità delle loro vite. Im-
plicitamente o\ esplicitamente, questi individui sanno che
Gesù era povero come lo sono loro, e che Maria conobbe
dolore e sofferenza nella sua vita proprio come essi vedono
nelle loro. Conseguentemente, verificano un intimo e diret-
to legame con il sacro usando un linguaggio concreto che è
intimo e tenero, diversamente dai temi astratti o dalle im-
magini distanti presenti nelle strutture liturgiche formali.
Il potere di benedire
1 9 9
santi gli alti e i bassi, le gioie e le fatiche della famiglia, me-
diando una presenza immanente di Dio che normalmente
non si trova nel culto ufficiale della chiesa. A queir altarino,
le donne intercedono per i vivi e per i morti.
Nel suo Hiìpanic Devotional Piety. Tracing the Biblical
Roots [La pietà devozionale ispanica. Rintracciare le radici
bibliche], Gilbert Romero descrive la cucina come 'spazio
sacro' nella casa ispanica, che diventa in tal modo il luogo
centrale di potere domestico intorno al focolare. Poiché l'o-
spitalità è un simbolo primario di santità e poiché la cucina
è il locus primario dell'ospitalità nella casa ispanica, la cuci-
na diventa l'ambiente privilegiato della presenza divina
quando è abitata condividendovi un pasto. I visitatori sono
prima ricevuti in cucina, dove si offre loro da mangiare e da
bere, e solo dopo sono invitati, se è il caso, in salotto o in
un'altra stanza dell'abitazione15.
Offrendo preghiere ai santi, Dio è raggiunto informal-
mente, pur evitando o ignorando la mediazione ufficiale me-
diante un sacerdote o mediante il culto ufficiale della chie-
sa. Ci si aspetta molto da Dio e dai santi, com'è il caso in
ogni relazione umana. Così, quando il favore richiesto non è
concesso non è raro trovare che una particolare statua è gi-
rata con la faccia verso il muro, come espressione di mal-
contento per la risposta divina o da parte del santo. Coloro
che praticano questi rituali domestici trovano che la liturgia
raramente offra le stesse opportunità di un tale linguaggio
sincero e diretto, così questi 'sacerdoti' domestici diventano
i propri agenti pastorali e mediatori del sacro in casa, anche
quando continuano ad essere impegnati nei rituali formaliz-
Conclusione
2 0 1
strutture più formali del nostro culto ufficiale? Per dirla dif-
ferentemente: lioi che rappresentiamo l'istituzione possiamo
trovare un mo<jlo d'includere i poveri e gli emarginati nelle
nostre assemblje liturgiche, così che possano sentirsi mag-
giormente a ca^a? In realtà, la religiosità popolare ci sfida a
ripensare le nostre opinioni tradizionali su vita e religione in
un mondo post-moderno e serve come correttivo a ogni ten-
denza a escludere membra del corpo di Cristo quando que-
sto si riunisce per il culto pubblico. I nuovi arrivati sono
profondamente rispettosi della tradizione della chiesa. Os-
servano le pratiche tradizionali di battezzare i loro bambini
e di seppellire i loro morti. Ma per loro la reale esperienza di
Dio - la 'chiesa' reale - si realizza altrove, si verifica in even-
ti domestici come la levantada, o in processioni e pellegri-
naggi, e quando pregano presso altari e santuari domestici.
Sia Evangelii nuntiandi sia il documento di Puebla pon-
gono direttamente l'argomento della religione popolare nel
contesto della cultura, ricordando alla chiesa che precisa-
mente nella cultura collochiamo il punto di partenza per la
teologia e per la liturgia. Questo lo si vede chiaramente nel-
le devozioni popolari, ma è ugualmente vero per la liturgia.
Ogni celebrazione liturgica deve essere contestualizzata e
inculturata se dev'essere una realtà viva. Vivere è cambiare
e adattarsi agli ambienti e alle circostanze. Non riuscire a
cambiare significa morire. Nel capitolo successivo esplore-
remo la relazione tra culto cristiano e vita nel più ampio
contesto della società umana.
Introduzione
1A.G. HEBERT, Liturgy and Society. The Function of the Church in the
Modern World, Faber and Faber Ltd, London 1935, 160.
2 0 3
munità umana^ fin dalla fondazione del cristianesimo. Gesù
venne a predicare il regno di Dio, un regno di giustizia e di
pace, e la liturgia doveva incarnare quella visione del regno
di Dio in termici molto profondi. Noi parliamo di 'già' e 'non
ancora5 come rjiodo per articolare quell'assaggio di cielo che
sperimentiamo! nella celebrazione anche mentre attendiamo
il compimento della visione celeste. Così, quando ci riunia-
mo insieme nell'assemblea cristiana, noi realizziamo questa
visione celeste mediante la nostra interazione simbolica, le
nostre parole e i nostri gesti, attraverso il modo in cui reci-
procamente ci trattiamo nell'assemblea, e il modo in cui stia-
mo uniti nella solidarietà con coloro che soffrono nel mon-
do. Questi valori cristiani sono incarnati nei nostri rituali.
Detto con parole ancora più semplici: il modo in cui rendia-
mo culto è intimamente connesso al modo in cui viviamo.
Teologicamente quest'incarnazione dei valori cristiani nei
rituali della chiesa è stata spiegata con l'assioma lex orandiy
lex credendo «La legge del culto liturgico stabilisca la legge
della fede». In altre parole, la chiesa esprime ciò che crede
nel celebrare e mediante il celebrare, anche prima che quel-
le credenze siano studiate o analizzate. Prima che Prospero
d'Aquitania (t 463) coniasse l'assioma, nel V secolo esso era
già in vigore nel culto cristiano. Lo si vede nel IV secolo,
quando candidati adulti venivano preparati per essere inizia-
ti alla chiesa mediante battesimo, confermazione (cresima)
ed eucaristia: solo dopo aver terminato la loro iniziazione, in
tutta la sua ricchezza simbolica, il vescovo spiegava ai neo-
battezzati ciò che, in realtà, era accaduto loro. Questo non
tanto per suggerire che essi non erano stati catechizzati pri-
ma del loro battesimo e istruiti nel comportamento etico del-
la comunità cristiana - al contrario, molti erano impegnati in
un catecumenato di diversi anni. Ma la spiegazione piena di
ciò che significasse essere immersi nella vasca battesimale,
2 0 4 I Liturgia efuturodelcristianesimo
unti con l'olio e nutriti alla mensa di Cristo arrivava succes-
sivamente, in un periodo chiamato 'mistagogia'. Stiamo par-
lando della liturgia che incarna ciò che la chiesa crede e in-
segna - ovvero come comprendiamo Dio e là missione di
Cristo nello Spirito. Ma quest'incarnazione include il fatto
che il regno di Dio, un regno di giustizia e di pace, è vicino a
noi e invita la chiesa a un impegno più intenzionale, orienta-
to a stringere più forti legami tra culto e società umana. Re-
centemente, alcuni studiosi di liturgia hanno aggiunto lex
agendi o lex vivendi all'assioma menzionato precedentemen-
te, concentrandosi su ciò che è necessario fare quando la
chiesa realizza il suo celebrare nella vita quotidiana.
In effetti, il nostro culto comunitario è un grande inse-
gnamento; è là che impariamo come essere in relazione con
Dio e gli uni con gli altri - sia localmente, sia universalmen-
te. Apprendiamo le richieste che sono legate alla nostra par-
tecipazione alla liturgia e la vocazione a diventare il corpo di
Cristo in e per il mondo. Diversamente dalle comunità pa-
gane e dalle loro celebrazioni rituali, che ponevano grande
enfasi sullo status sociale e sulle distinzioni tra le differenti
classi, età e sessi, le prime comunità cristiane, nel comples-
so, ignoravano tali divisioni. Donne, bambini e schiavi era-
no tutti benvenuti quando partecipavano alla stessa celebra-
zione, a meno che ne fossero stati esclusi a causa di qualche
peccato pubblico o per penitenza. Papa Callisto (+ 222) di-
fese il diritto degli ex-schiavi a occupare le più alte cariche
della chiesa e la libertà per le donne di sposare schiavi. Le
testimonianze suggeriscono che le prime comunità cristiane
avevano di gran lunga più successo delle loro controparti
pagane nel produrre e conservare una sana integrazione tra
la vita sociale e comune della chiesa e la sua liturgia. Come
con altre aree di prestito culturale, le feste pagane dei mor-
ti furono reinterpretate come pasti memoriali (feste di refri-
205
gerium) per ricordare i morti e i martiri cristiani: e, coeren-
temente con il normale modo di procedere della chiesa, i
poveri erano invitati a questi banchetti2.
E in questo contesto che possiamo comprendere la furia
di Paolo per lai divisione tra ricchi e poveri che era sorta nel-
la comunità dii Corinto, anche quando apparentemente pro-
fessavano l'appartenenza allo stesso gruppo. A quanto pare,
i membri più ! benestanti di quella chiesa escludevano dal
banchetto comune coloro che provenivano da una classe so-
cio-economica più bassa (o forse offrivano loro un menu di
livello inferiore) e li includevano solo per l'eucaristia che se-
guiva. L'apostolo si scaglia direttamente contro l'ipocrisia
del loro celebrare:
Non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svol-
gono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire
che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi,
e in parte lo credo. E necessario infatti che avvengano divisioni
tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in
mezzo a voi. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non
è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quan-
do partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno
ha fame, l'altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per
mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa
di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lo-
darvi? In questo non vi lodo! (2 Cor 11,17-22).
2 0 6 I Liturgia efuturodelcristianesimo
Prendersi cura dei membri meno fortunati della comu-
nità era tanto importante quanto la stessa partecipazione li-
turgica, anzi era da essa inseparabile. Questo significava che
i cristiani malati o perseguitati, o semplicemente quelli che
avevano esaurito le loro finanze per qualunque ragione, po-
tevano contare sul fatto che non sarebbero mai andati via af-
famati, né sarebbero rimasti senza tetto. I cristiani ai quali
capitava di viaggiare avevano garantita la stessa sorta di trat-
tamento, anche se non avevano mai incontrato prima i loro
ospiti. In maniera significativa, era la stessa persona che pre-
siedeva la celebrazione della chiesa ad avere pure l'incarico
di sovrintendere alla distribuzione delle risorse materiali
della comunità per i bisognosi. Diaconi e diaconesse svolge-
vano un ruolo importante in questo ministero di portata so-
ciale. Gli stessi termini che la chiesa adottava per fini litur-
gici rendono conto di questa realtà sociale. Termini come
leiturghta, diakonta, o f f erre, oblatio, euloghìa in origine era-
no usati per particolari aspetti sociali, e solo successivamen-
te furono utilizzati anche per finalità cultuali. Questa era an-
che la ragione per cui i primi cristiani trovavano impossibi-
le concepire il proprio sacrificio come separato dal sacrificio
di Gesù Cristo: era un solo e medesimo mistero. Il culto pa-
gano, per contrasto, non riusciva a manifestare una simile
profondità di impegno sociale. Questo spiega, almeno in
parte, perché alcuni pagani trovavano il cristianesimo un'at-
traente alternativa al percorso spirituale che stavano se-
guendo. Tutto il concetto di penitenza pubblica si sviluppò
precisamente come risposta comunitaria alla graduale rottu-
ra tra vita etica e culto etico in concomitanza con le perse-
cuzioni della chiesa e la crescita del numero degli adepti3.
3 Ibid., 41.
2 0 7
Le omelie del IV secolo di Agostino erano dure special-
mente nel criticare quelli che vivevano una marcata divisio-
ne tra i loro comportamenti nel culto pubblico e la loro con-
dotta fuori della chiesa. Per Agostino, condurre una doppia
vita di questo jtipo era da considerare una bestemmia. La re-
lazione tra liturgia e società crebbe specialmente dopo la li-
berazione del Icristianesimo, ad opera della pace di Costan-
tino (313), e la cristianizzazione dell'impero romano. Affer-
mando questa realtà, il liturgista gesuita austriaco Hans
Bernhard Meyer osservava: «E impossibile sottovalutare il
ruolo della liturgia in questo processo, particolarmente
quando si ricorda che non fu prima del Medioevo che ap-
parvero scuole cristiane a tutti i livelli». Basta menzionare
solo la legge del 321, che decretò che la domenica fosse un
giorno di riposo per tutto l'impero, in cui nessuno avrebbe
lavorato. Il culto cristiano, inoltre, fornì significato e conte-
sto a importanti eventi nella società ed ebbe influenza su
tutti i segmenti di vita - sacra e profana. Il sistema della li-
turgia stazionale (dal V all'VIII secolo) in città come Roma,
Costantinopoli e Gerusalemme rende una straordinaria te-
stimonianza di questa fusione tra sacro e profano, poiché
quelle città venivano a essere trasformate in spazi sacri nei
giorni delle feste cristiane. Naturalmente, la libertà dal lavo-
ro per molti in quei giorni facilitava una maggiore parteci-
pazione quando la comunità urbana si univa al suo vescovo,
sia nelle processioni per strada che nell'eucaristia4.
Gradualmente i vescovi furono equiparati alle autorità
dell'impero e, di fatto, divennero essi stessi autorità politi-
che. Logicamente, la chiesa e i suoi riti liturgici conquista-
rono potere nella società e il tipo di distinzioni sociali che
era stato rifiutato nella chiesa primitiva trovò accoglienza
4 Ibid., 43.
2 0 8 I Liturgia efuturodelcristianesimo
nelle nuove strutture di primato episcopale. Ai vescovi fu-
rono conferiti il rango e i privilegi dei funzionari politici se-
colari e l'antico invito alla semplicità evangelica e al servizio,
insieme con il rigetto del potere e del prestigio, come era
stato visto nell'esempio di Gesù, sembravano sempre più di-
stanti. Com'è chiaro dalla leadership di Carlo Magno nel-
l'VIII secolo, le questioni liturgiche erano questioni politi-
che, come lo erano altri fattori nel governo dell'impero. Co-
sì, mentre la chiesa e la sua liturgia diventavano sempre me-
no contro-culturali nel Medioevo, la passione per la giusti-
zia e il culto etico diminuiva; il suo richiamo non sarebbe
stato riascoltato fino alla riforma protestante. Questo lo di-
ciamo non per suggerire che la preoccupazione per i poveri
non fosse un interesse della chiesa nel periodo medievale: si
è già fatto riferimento alla presenza di gilde e associazioni,
confraternite e congregazioni laicali che si dedicavano alla
cura dei poveri, dei malati e dei moribondi. Il punto qui è
che il legame tra culto e giustizia, tra liturgia e vita quoti-
diana, era andato perduto con un cerimoniale imperiale che
era diventato proprietà esclusiva del clero.
Con l'avvento della riforma protestante l'antico invito a
un culto integrale venne di nuovo alla luce. Immerso nella
tradizione agostiniana, Martin Lutero fu energico nell'invi-
tare la chiesa del XVI secolo a una riscoperta delle istanze
sociali della liturgia e del suo intimo legame con il resto del-
la vita. In più di un'occasione nella sua predicazione egli ri-
marcava che era di gran lunga più facile incontrare Cristo
nell'edificio della chiesa (o più specificamente nel taberna-
colo) di quanto non lo fosse riconoscere la sua presenza in
villaggi e città quando Gesù stesso alzava grida chiedendo
cibo e riparo. I sermoni natalizi di Lutero erano forti a que-
sto riguardo, poiché egli esortava i suoi ascoltatori a nutrire
e vestire il Cristo bambino che aspettava il loro soccorso nel-
2 0 9
le strade. Ma il legame del celebrare con la difficile situazio-
ne della società umana filtrava anche in altre parti dei suoi
scritti. Scrivendo del santissimo sacramento, fu particolar-
mente eloquente sull'intrinseca natura di questa relazione:
I
Qui il vostre)) cuore deve aprirsi all'amore e imparare che que-
sto è un sacramento di amore. Poiché vi vengono dati amore e
sostegno, vo^ dovete, a vostra volta, restituire amore e sostegno
a Cristo nei ^uoi poveri. Voi dovete sentire con dispiacere tutto
il disonore arrecato a Cristo nella sua santa Parola, tutta la mi-
seria della cristianità, tutta l'ingiusta sofferenza degli innocenti,
di cui il mondo è pieno dovunque fino a traboccare. Voi dove-
te combattere, lavorare, pregare e - se non potete fare di più -
avere sincera compassione5.
2 1 0 I Liturgia efuturodelcristianesimo
mazione morale, capace di farci vivere effettivamente in ma-
niera differente a causa della nostra partecipazione liturgica.
Questo è l'ideale, naturalmente, ma il compito è più facile a
dirsi che a farsi.
Nel corso degli anni, alcuni hanno usato questa dicoto-
mia tra liturgia e vita come pretesto per assentarsi dall'as-
semblea domenicale. Un gesuita piuttosto pittoresco rac-
conta quanto avvenne durante un volo intrapreso per recar-
si a un incontro, quando aveva l'incarico di provinciale.
Viaggiava indossando il colletto clericale, il che sollecitò il
suo vicino a iniziare una conversazione. «Lei è un sacerdote
cattolico?». «A dire il vero, lo sono», rispose il gesuita. Il
giovane ricevette la risposta che voleva e proseguì dando
sfogo al suo malcontento per la religione organizzata: «Io
non vado mai in chiesa. Non credo nella chiesa, perché è
piena di ipocriti: vanno a messa ogni domenica e poi duran-
te la settimana vivono proprio all'opposto». Sorprendendo
molto il suo vicino, il gesuita rispose: «Lei ha perfettamente
ragione! La chiesa è assolutamente piena di ipocriti. Di fat-
to, lei è seduto accanto ad uno di loro su questo aereo. Io ho
bisogno di essere là ogni domenica in modo da poter incon-
trare gli altri ipocriti perché tutti noi diciamo sempre una
cosa e ne facciamo un'altra. Sembra che non ci vada mai be-
ne, per quanto ci sforziamo!». Questa fu la fine della con-
versazione. La sfida, naturalmente, rimane vivere differente-
mente a causa della liturgia che noi celebriamo, per essere
guidati dall'omelia e anche dalla stessa azione rituale a com-
piere opere di giustizia - per diventare corpo di Cristo in
questo mondo, come sant'Agostino d'Ippona e, successiva-
mente, Martin Lutero avrebbero voluto che noi facessimo.
O, con le parole del profeta Michea, «praticare la giustizia,
amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi
6,8). Questi sono i desideri che il culto cristiano dovrebbe
2 1 1
stimolare nei suoi praticanti, ma tutti sappiamo troppo be-
ne che non si^mo sempre disposti alla più interiore trasfor-
mazione a cui (la liturgia ci chiama.
2 1 2 I Liturgia efuturodelcristianesimo
lezza sociale per la sua missione liturgica. Il suo discepolo
Virgil Michel era pervaso di questo stesso spirito quando
studiò con Beauduin a Roma, e considerò quel tema centra-
le quando fondò il movimento liturgico negli Stati Uniti
(1925). Egli scriveva:
2 1 3
In Inghilterra, questa visione sociale della liturgia fu pro-
mossa dal Pajrish Communion Movement e dal Parish and
People Movelment e da parecchie significative opere scritte
da anglicani j e pubblicate negli anni Trenta. L'opera di
Arthur Gabriel Hebert (citata in precedenza) fu originaria-
mente pubblicata nel 1935 e fu fondamentale nel promuo-
vere il legamé tra liturgia e giustizia sociale nella chiesa d'In-
ghilterra. Nel 1937 Evelyn Underhill (t 1941), una laica an-
glicana, diedé il proprio contributo quando scrisse Worship.
L'opera di Hebert in particolare scoprì il potere simbolico
della liturgia nel contestare lo status quo nella società uma-
na e nell'incarnare un ordine sociale più giusto e inclusivo.
Questo culto liturgico si teneva profeticamente lontano dal
normale modo di fare affari nella vita quotidiana. Hebert
era stato influenzato dai forti principi sociali del Parish
Communion Movement. Così, affrontando il ruolo della
chiesa nel mondo moderno (un tema importante che sareb-
be stato trattato successivamente dai cattolici al concilio Va-
ticano II), egli poneva l'argomento sociale nel contesto del-
la liturgia. Infatti era precisamente nella vita liturgica della
chiesa che le dimensioni personali di fede erano integrate.
La spiritualità collettiva della chiesa serviva in tal modo co-
me catalizzatore per la rigenerazione della società umana7.
Come altri membri del Parish Communion Movement,
Hebert e Underhill furono, di fatto, in anticipo sul loro tem-
po nel sostenere la dimensione sociale del culto liturgico e
nel promuovere un culto domenicale che sfociasse nel servi-
zio degli altri. In qualche modo, i fautori di un culto che fos-
se attento al sociale furono voci che gridavano nel deserto:
indipendentemente dalle denominazioni, il rituale cristiano
2 1 4 I Liturgia efuturodelcristianesimo
in quel periodo rimaneva in quell"altro' mondo, poiché i
credenti erano guidati dalla mondanità della vita quotidiana
alla santa beatitudine. Le vetrate istoriate servivano come ef-
ficaci strumenti per chiudere fuori il mondo per tutto il tem-
po che gli adoratori restavano all'interno del perimetro del-
la chiesa. E ogni domenica mattina, per un'ora più o meno,
coloro che partecipavano alla liturgia potevano fuggire dal-
le loro preoccupazioni e responsabilità e adorare Dio in
tranquillità e pace. Questo è evidenziato in numerose lette-
re al direttore' che furono pubblicate sulle pagine di Orate
Fratres e di altre riviste cattoliche del tempo, che mostrava-
no il desiderio di conservare lo status quo, con commenti del
tipo: «Dio benedica i sacerdoti che dicono messa rapida-
mente!». In realtà, molti continuavano a considerare la ce-
lebrazione della messa domenicale come un'esperienza indi-
vidualistica ed erano abbastanza contenti che le cose restas-
sero in quel modo. Da parte loro, A.G. Hebert ed E. Un-
derhill consideravano il loro culto e il loro mondo in termi-
ni decisamente diversi; coerentemente con la teologia del
corpo mistico, Underhill poneva l'adoratore individuale in
relazione al corpo più grande:
1989, 84.
2 1 5
Negli Statj Uniti, l'Associateci Parishes Movement della
chiesa episcopale (fondato nel 1947), quando promosse il
rinnovamento liturgico espresse interessi simili per un culto
orientato allsj giustizia, collegato alla difficile situazione del-
la società umjana. Negli USA il movimento liturgico episco-
pale e quellol cattolico diedero significativa attenzione al te-
ma 'liturgia <t società' negli scritti e lo reso uno degli argo-
menti principali, nei loro convegni annuali. Articoli come
quello di Virgil Michel, «Liturgy as the Basis of Social Re-
generation» [La liturgia come base di una rigenerazione so-
ciale] (1935), erano abbastanza comuni sia negli Stati Uniti
sia in Inghilterra. Quando Evelyn Underhill pubblicò Wor-
ship nel 1937, era ancora la natura collettiva o sociale dei ri-
ti cristiani ad essere fondamentale per la sua tesi sul ruolo
della liturgia nella vita quotidiana.
Più recentemente, John Egan (t 2001) e Robert Hovda (t
1992) hanno invitato la chiesa degli Stati Uniti a un esame
della propria coscienza in quest'ambito. Nei molti anni del
loro ministero, entrambi furono instancabili avvocati di un
culto socialmente orientato, che potesse simboleggiare e do-
mandare l'ulteriore incarnazione della giustizia di Dio.
Guardando al passato, quanto alla collaborazione tra attivi-
sti sociali statunitensi e pionieri liturgici, Egan osservava:
2 1 6 I Liturgia efuturodelcristianesimo
nei beni materiali, «frutti della terra e del lavoro dell'uomo»,
sacramenti di quel nuovo ordine che chiamiamo la giustizia del
regno di Dio9.
Ciò che i migliori attivisti sociali ci hanno insegnato era ciò che
i migliori liturgisti pastorali praticavano: l'oggetto primario del
nostro interesse deve essere Xintera persona, la persona consi-
derata non meramente come una vittima statistica d'ingiustizia
sistematica, o anche semplicemente come un soggetto dei sa-
cramenti della chiesa, ma come persona nella sua intera esi-
stenza, con una storia personale e un mondo di relazioni pro-
prie10.
2 1 7
ship: «Individualists are Incapable of Worship» [Gli indi-
vidualisti soiio incapaci di celebrare]. Nel 1991 Hovda scri-
veva:
2 1 8 I Liturgia efuturodelcristianesimo
Nuove sfide per un culto orientato al sociale
nel XXI secolo
2 1 9
porata (ne tratteremo nel prossimo capitolo). Poiché i din-
torni urbani; continuano a cambiare, molte grandi diocesi,
centrate intorno a città come San Francisco, Toronto, Pari-
gi, Londra ej Roma, riferiscono una più impegnata parteci-
pazione sia jiella prima periferia delle città sia negli stessi
quartieri e sobborghi periferici, mentre un numero crescen-
te di parrocchie al centro delle città sembra essere mori-
bondo. Tentativi di promuovere la comunità o di creare una
parvenza di identità collettiva non sono privi di sfide, dal
momento che gli ampi spazi cultuali costruiti per parecchie
centinaia (o anche più) di convenuti ospitano ora solo un
piccolo gruppo di partecipanti che sono sparsi nella navata.
Come sempre, ci sono vivaci eccezioni urbane, ma in gene-
rale il problema del rimpicciolimento delle assemblee citta-
dine peggiora invece di migliorare. E non ci sono all'oriz-
zonte segni che la situazione possa migliorare nel futuro.
Questo fatto ha serie implicazioni per l'edificazione della
comunità locale e del suo celebrare. La chiusura di chiese
urbane in anni recenti mostra questo problema più acuta-
mente. In molti casi, almeno nel Nord America, quelle chie-
se erano state costruite da immigranti che si stabilivano in
quel quartiere e che avevano forti legami familiari con quel-
le costruzioni sacre. Quelle stesse chiese spesso si ergevano
come simboli di identità etnica e tenevano unita la famiglia
nei momenti buoni e in quelli cattivi. Ma poiché le vecchie
generazioni cattoliche sono morte, e non sono state rim-
piazzate, e poiché la scarsità del clero è una realtà sempre
crescente, non è stato possibile mantenere quelle parrocchie
come attive assemblee cultuali. Nel frattempo, nelle perife-
rie, sono state regolarmente costruite nuove chiese per far
fronte alla crescita della popolazione.
Anche dove le assemblee sono fiorenti e assidue - sia nel-
le città sia nelle periferie - c'è un fenomeno emergente che è
2 2 0 I Liturgia efuturodelcristianesimo
senza precedenti nella nostra storia. In un libro di alcuni an-
ni fa, The Corrosion of Character. The Personal Consequences
of Work in the New Capitalism [La corrosione del carattere.
Le conseguenze sulla persona del lavoro nel nuovo capitali-
smo] (1998), il sociologo Richard Sennett scriveva su di un
problema che sta erodendo la famiglia e i vincoli sociali, con
importanti implicazioni per la vita parrocchiale e la liturgia.
Parlava di una crisi dell'impegno dovuta in larga parte a un
fenomeno che egli chiamava 1'«a breve termine» - un effet-
to secondario del neo-capitalismo. In questo contesto, l'in-
stabilità è presentata come normale. Poiché i giovani profes-
sionisti sono costretti a sradicare e spostare le loro famiglie
per mantenere un impiego remunerativo, auto-identità, si-
curezza personale e forti vincoli comunitari sono minacciati.
Il tradizionale senso del quartiere in cui la famiglia era co-
nosciuta cede il passo a situazioni di vita più transitorie, in
cui l'individuo o la famiglia può o meno essere conosciuta
dai vicini. Questi spostamenti connessi al lavoro possono si-
gnificare forse il dover frequentare tre o quattro differenti
scuole per i bambini nell'arco di un periodo di otto anni.
Questo comporta ovvie conseguenze nel fare amicizie e nel
conservare relazioni. Inoltre, può esserci una sensazione sog-
giacente per cui non vale la pena che uno o la sua famiglia
investa nei vicini o nel quartiere, nel sistema scolastico o nel-
la parrocchia, dal momento che nel giro di otto mesi o di due
anni quella famiglia sarà sradicata ancora una volta. Così, un
relativo (per quanto amichevole) anonimato, piuttosto che la
familiarità, diventa la norma, con potenziali sentimenti d'i-
solamento o alienazione. Le implicazioni per l'impegno in
parrocchia e per il celebrare sono molteplici.
Sennett fa risalire questo nuovo problema culturale all'a-
scetismo protestante del XVII secolo, seguito nel XVIII se-
colo dalla pratica del capitalismo che enfatizzò la routine co-
2 2 1
me normativ^, l'attitudine a risparmiare piuttosto che a
spendere e lajfobia del piacere. Il neo-capitalismo presenta
il cambiamento e uno stile di vita itinerante come normati-
vi. Naturalme|nte, il cambiamento non è per niente un feno-
meno nuovo. IIn effetti, in conseguenza delle guerre e delle
carestie, delU recessione economica e così via, il cambia-
mento diveniva anche in passato oggetto di attesa. La diffe-
renza è che oifa il cambiamento non è considerato tanto ine-
vitabile quanto uno scopo - il cambiamento per il cambia-
mento. Oggi, le aziende e il mondo del business ridefinisco-
no continuamente le loro strutture, anche quando i loro si-
stemi funzionano bene. Nei quartieri periferici gli abitanti
demoliscono case che sono in perfette condizioni per dise-
gnarne e costruirne di nuove. Inoltre, il numero di fusioni
bancarie in anni recenti è stato straordinario. Un numero
crescente di società è stato coinvolto in un processo di ridi-
mensionamento, poiché si tenta di dare più servizi con per-
sonale di minore esperienza e, dunque, con una spesa infe-
riore. In altre parole, il personale anziano - quello con più
capacità ed esperienza - è mandato in pensione in modo che
si possa assumere personale più giovane a un costo più bas-
so. Ancora più drasticamente, i progressi tecnologici trova-
no nuovi e creativi modi di sostituire gli esseri umani nei lo-
ro lavori con una frequenza allarmante. Sempre più spesso
operatori telefonici, esattori di pedaggi ai caselli autostrada-
li, personale aeroportuale del check-in e impiegati di banca
sono sostituiti da macchine. A parte ciò che questo significa
economicamente per un grande numero di individui che fi-
niscono per restare disoccupati, ha conseguenze anche per
l'interazione umana e per la comunità. Chiunque abbia mai
provato a raggiungere un ufficio o una persona, special-
mente per un'emergenza, e abbia dovuto navigare attraver-
so gli estesi menu con voci pre-registrate o selezionando op-
2 2 2 I Liturgia efuturodelcristianesimo
zioni numeriche solo per essere connesso a uno strumento
risponditore, comprende benissimo questo problema.
Se analizziamo questa nuova realtà sociologica possiamo
osservare due culture conflittuali in disaccordo l'una con
l'altra: una cultura stabile e fedele sostanziata di comunione,
di interdipendenza e di una visione condivisa; e la cultura
dell'instabilità normativa, della superficialità e dell'indipen-
denza. Le sfide per un più intenzionale impegno liturgico
sono molteplici. Benché il neo-capitalismo possa comporta-
re un desiderio di comunità, questo desiderio è spesso im-
pedito da una mancanza di fiducia, dalla paura degli estra-
nei e da una tenace fiducia in se stessi che disdegna la di-
pendenza da altri. Il culto cristiano, per converso, è precisa-
mente centrato sulla fiducia (sia in Dio sia nella comunità),
sull'accoglienza degli 'estranei' in modo che diventino 'fa-
miliari', sul dono di noi stessi e sulla rinuncia alle preferen-
ze personali nell'interesse della comunità. Questo non è per
suggerire che i membri dell'assemblea liturgica sono omo-
geneizzati al punto da perdere la loro libertà e la loro diver-
sità. Piuttosto, come Evelyn Underhill ci ricorda,, lo scopo
del celebrare cristiano è precisamente quello di attrarre gli
individui nella comunità a lode e gloria di Dio, così che agia-
mo liturgicamente come un unico corpo, mettendo in se-
condo piano tutte quelle cose che puzzano d'individualismo
e che impallidiscono se comparate al regno di Dio.
In concreto, questo significa che il culto attento al socia-
le lascia poco spazio per preoccupazioni del tipo «che ci
guadagno?» o «quale interesse ne ricavo?», tanto tipiche
della società dei consumi. Queste tendenze consumistiche
enfatizzano la quantità sulla qualità, seducendoci ad accon-
tentarci del minimo comune denominatore quando si tratta
di liturgia. La nostra cultura del XXI secolo, per esempio,
valorizza una gestione efficientista del tempo e si sforza di
2 2 3
assolvere i campiti nel più breve tempo possibile. Il culto
cristiano ha a che fare con il tempo di Dio e non è control-
lato dall'orologio. Ma noi siamo tutti prodotti del milieu
culturale. Ironicamente, quando il culto cristiano nel giorno
del Signore è celebrato in uno stile minimalista, 'senza fron-
zoli', in effetti cade nelle mani di una cultura consumistica
contro la quale, normalmente, dovrebbe scegliere di stare.
In se stessa h liturgia non ha alcunché di pratico. In effetti,
potremmo dire che è 'inutile' tanto quanto la cultura è inte-
ressata, poiché non produce un prodotto commerciabile, né
risultati tangibili immediati. Di per sé, la piena utilizzazione
dei nostri sMboli liturgici e della diversità dei ministeri li-
turgici si pone come una testimonianza radicale e profetica
della giustizia di Dio e di ciò che desideriamo nel mondo di
Dio. Per dirlo differentemente, potremmo parlare di arte li-
turgica e di simboli liturgici come questioni di giustizia per
il fatto che sono lontani da ciò che il mondo apprezza, of-
frendoci una visione privilegiata del regno di Dio su questa
terra.
Nella loro lettera pastorale del 1986, Economic Justice For
AIL Catholic Social Teaching and the U.S. Economy [Giusti-
zia economica per tutti. L'insegnamento sociale della chiesa
cattolica e l'economia statunitense], i vescovi cattolici degli
Stati Uniti si concentrarono sull'importanza di recuperare la
visione del regno di Dio attraverso un culto sociale impe-
gnato che conduce al miglioramento della società umana.
Essi scrivevano nel n. 329:
2 2 4 I Liturgia efuturodelcristianesimo
ne e a ogni parte dell'esistenza, compreso il lavoro, il tempo li-
bero, il denaro, il potere economico e politico e il loro uso, e a
tutte quelle politiche pratiche che portano alla giustizia o la im-
pediscono. Perciò, quando i cristiani si riuniscono in preghiera,
s'impegnano a portare l'amore di Dio in tutte queste aree di vi-
for All. Catholic Social Teaching and the U.S. Economy, in Origins 16
(1986) 409-455 [Lettera pastorale dell'episcopato statunitense: Washing-
ton, 27 novembre 1986].
2 2 5
cialmente quelle che trovavano difficile credere o afferma-
vano le proprie identità religiose fuori della chiesa. In altre
parole, si sfojrzò di rendere l'esperienza religiosa cristiana
credibile per Iii mondo moderno, capace di cogliere i pro-
blemi sociali |n tutta la loro complessità.
Le riflessioni di Rahner sul culto cristiano manifestano le
stesse preoccupazioni che troviamo presenti in altre aree
della sua indagine teologica. Parlando di liturgia del mondo,
egli cerca di venire in aiuto a quelli che sono sospettosi nei
confronti di rituali organizzati e sono pronti a definirli anti-
quati o irrilevanti per le preoccupazioni ordinarie della vita
quotidiana. Così tenta di colmare il distacco tra il rituale
della vita quotidiana - gli incontri con la grazia divina in cir-
costanze ordinarie - e il rituale del culto cristiano. Rahner
non nega quelle esperienze di grazia nella vita normale, ma
suggerisce che la liturgia ci offre la sede appropriata per ce-
lebrare e ricordare tutti quegli incontri con la grazia di Dio
che hanno avuto luogo nel nostro passato e che, in effetti, si
verificano anche nelle nostre vite presenti13. Per Rahner, la
liturgia della chiesa esprime riccamente e dinamicamente la
liturgia del mondo: essa celebra la santità nella vita e nella
società secolari e proclama il nostro mondo pieno di grazia
e benedizione, anche di fronte all'ingiustizia e alla sofferen-
za. Commentando l'insistenza di Rahner sull'importanza del
culto comunitario, Michael Skelley scrive: «Non è l'unico
modo in cui la nostra comunione con Dio può essere espli-
citamente espressa. Ma senza la liturgia della chiesa non sa-
remmo capaci di afferrare pienamente l'altezza e la profon-
dità, la lunghezza e la larghezza della liturgia del mondo»14.
2 2 6 I Liturgia efuturodelcristianesimo
La teologia liturgica di Rahner, con la sua intrinsica sa-
cramentalità della vita quotidiana, si presta a considerare il
culto in dialogo con il mondo. In altre parole, invece di es-
sere qualcosa di irrilevante o superfluo, l'autentico celebra-
re cristiano porta alla solidarietà con il resto della famiglia
umana, inclusi quelli che seguono un itinerario spirituale
differente dal nostro, o non sono per nulla credenti. In tali
contesti, la liturgia della vita quotidiana trova un posto nel-
la liturgia della chiesa, e le speranze e i sogni, le lotte e la sof-
ferenza del mondo diventano nostri. Qui è implicita la rela-
zione tra culto ed ecologia, e implicito il rispetto per l'am-
biente come dono fatto da Dio a noi, che comporta certe re-
sponsabilità, il prendersene cura coltivandolo come servi
della creazione di Dio. In effetti, nell'assemblea liturgica il
corpo mistico di Cristo riunito insieme è invitato a usare i
beni della terra a vantaggio dell'intera famiglia umana, e non
solo per pochi privilegiati.
Come esperienza contestualizzata, questa visione del re-
gno di Dio di giustizia e solidarietà è innanzitutto e princi-
palmente sperimentata localmente. Lo si vede in maniera
particolarmente intensa nel contesto eucaristico. Nell'as-
semblea liturgica, gente proveniente da molti differenti per-
corsi di vita dimora insieme in armonia. «Frutti della terra e
del lavoro dell'uomo» sono offerti per il bene della comu-
nità e c'è abbastanza da mangiare e da bere, sicché tutti ne
hanno a sufficienza e nessuno se ne va via affamato. Emo-
zioni umane di speranza e paura sono espresse nelle pre-
ghiere e nell'azione rituale con una fondamentale speranza
come Leitmotif. Questo celebrare offre guarigione e rico-
struzione per quelli che sono turbati o bisognosi. In quelle
esperienze liturgiche, gli stessi fedeli sono trasformati in un
solo corpo, pieno di senso e scopo. Il teologo luterano Gor-
don Lathrop lo enuncia così: «La liturgia è un evento socia-
2 2 7
le e il suo ord& propone la visione di una società ordinata in
un più ampiojmondo ordinato»15.
Perciò, quando la chiesa locale si riunisce, la tradizione
cristiana inseina che l'intera chiesa mondiale è presente in
tutta la sua pienezza. Questa pienezza include la presenza
dell'intera comunione dei santi e di tutti quelli che ci hanno
preceduto nejla fede. Quest'universalità è ciò che rende la
chiesa 'cattolica'. Così, partecipando alla visione del regno
di Dio e prendendo sul serio il suo culto, l'assemblea litur-
gica necessariamente guarderà oltre se stessa e oltre i confi-
ni di un luogo particolare. Con Gesù Cristo al centro della
nostra esperienza liturgica, saranno necessarie anche nuove
interpretazioni del 'centro' della società umana. Se imitiamo
il ministero terreno di Gesù, allora quelli che erano più vi-
cini a Gesù diventano il centro del nostro celebrare. Questo
significa che per il culto cristiano, paradossalmente, è la pe-
riferia - i margini - che diventa il centro, il luogo di pelle-
grinaggio, poiché là più acutamente s'incontra la croce di
Cristo. In altre parole, sono i poveri e i deboli, i maltrattati
e gli offesi, gli scoraggiati e gli inutili che diventano icone nel
culto cristiano, poiché è là che l'opzione preferenziale di
Gesù e la nostra missione sono scoperte più profondamen-
te. Per dirlo con parole diverse, mentre riconosciamo la san-
tità nei santi doni collocati davanti a noi sulla mensa dell'al-
tare e nella santa assemblea convocata da Dio, il culto cri-
stiano abbraccia anche la santità di Dio rivelata al margine
della società umana. Questo è ovviamente abbastanza signi-
ficativo se esaminiamo la relazione fra la liturgia e la più am-
pia comunità umana, e conferisce un'urgenza ancora più
2 2 8 I Liturgia efuturodelcristianesimo
grande alle esigenze di giustizia che il culto cristiano mani-
festa16. Reynold Hillenbrand chiarì ampiamente questo pun-
to in un discorso intitolato «The Spirit of Sacrifice in Chri-
stian Society» [Lo spirito di sacrificio nella società cristia-
na], pronunciato più di sessantanni fa, nel corso di una set-
timana liturgica tenuta negli Stati Uniti nel 1943:
16 Ibid., 208s.
17 R. HILLENBRAND, The Spirit of Sacrifice in Christian Society. State-
ment of Principle, in Proceedings of the 1943 Liturgical Week, The Litur-
gical Conference, Ferdinand/IN 1944, 106.
2 2 9
cialmente nell'Africa meridionale e nel Corno d'Africa18.
Mentre questi statistiche hanno significative implicazioni
per il culto cristiano sul continente africano, necessariamen-
te hanno un ijnpatto anche sulla liturgia dell'intera chiesa
mondiale. In effetti, la sofferenza dell'Africa deve influenza-
re il nostro celebrare, perché quando un membro del corpo
soffre tutto il dorpo soffre. Questa solidarietà fu espressa be-
nissimo alcuni! anni fa quando il tema di un sermone dome-
nicale fu affisso sulla bacheca della chiesa all'esterno dell'e-
dificio: «Il corpo di Cristo ha l ' A I D S » .
Come possono i cristiani nell'Europa occidentale o in
Nord America unirsi in solidarietà con questa sofferenza
che si verifica migliaia di chilometri lontano dal luogo in cui
la comunità è riunita insieme per la preghiera? Il teologo li-
turgico metodista Don Saliers parla di preghiera intercesso-
ria come un «ricordare il mondo a Dio». Infatti, davvero,
nominare le malattie sociali del nostro tempo e chiedere la
misericordia di Dio è una componente essenziale del culto
cristiano e della nostra responsabilità, sia individuale che
comunitaria. Saliers ne parla come di una «fondamentale
vocazione della chiesa» e dell'azione liturgica di preghiera di
intercessione come di una «scuola di compassione»19. Com-
passione alla lettera significa 'soffrire con', così il nostro in-
tercedere liturgicamente a favore di quelli che patiscono of-
fre un modo tangibile per essere solidali con loro. Come
coeredi nella stessa famiglia umana siamo intimamente lega-
ti, anche se viviamo così lontano l'uno dall'altro e non ci sia-
2 3 0 I Liturgia efuturodelcristianesimo
mo mai incontrati. Diversamente dalla nostra cultura con-
temporanea, che troverebbe una tale connessione quanto
meno assurda, la visione del mondo di Dio professata nel
modo cristiano di celebrare presuppone questa specie di
compassione. Saliers è pronto a osservare che questo com-
patire non è un pio esercizio compassionevole verso i meno
fortunati, ma piuttosto implica l'impegnarsi dinamicamente
nel mistero pasquale di morte e risurrezione con Cristo. Noi
possiamo non essere capaci di fare molto per una devastan-
te alluvione in India, o per la violenza senza fine in Palesti-
na e Israele, ma almeno possiamo unirci con quelli che sof-
frono, innalzando preghiere di lamento e di intercessione.
Se non altro, possiamo «avere sincera simpatia», come ri-
marcava Martin Lutero.
Mentre alcune comunità non saranno capaci di fare nien-
te di più che intercedere sia nella preghiera personale sia nel
culto comunitario, altre comunità saranno capaci di offrire
segni più tangibili di solidarietà cristiana con un aiuto mate-
riale. So di alcune parrocchie anglicane, per esempio, che
ora sono gemellate con parrocchie sorelle in Africa. Ogni
domenica, la parrocchia africana e le sue necessità sono no-
minate nell'intercessione della preghiera dei fedeli. I leader
insieme ad alcuni membri di quella comunità hanno visitato
la parrocchia africana gemella in diverse occasioni, portan-
do denaro, libri e indumenti. Recentemente, una parrocchia
sudafricana gemellata con la chiesa episcopaliana di St.
Luke in the Fields, nella città di New York, ha ricambiato
inviando una sua delegazione per una visita di una settima-
na a St. Luke. I visitatori africani sono stati ospitati nelle ca-
se dei membri della comunità. In questi scambi culturali e
religiosi, il corpo di Cristo viene rafforzato. Entrambe le co-
munità ricevono molto in cambio quando l'intimo legame
2 3 1
tra liturgia e sjocietà è vissuto in piena comunione. Quando
sudafricani e nordamericani celebrano insieme, per esem-
pio, lo fanno n quanto membra a pieno titolo e uguali del-
lo stesso corp o di Cristo, imparando gli uni le vite e le tra-
dizioni degli altri. Questa era la visione dei riformatori litur-
gici dell'ultimo secolo, ma rimane la nostra sfida oggi, quan-
do Tinclinazicjme culturale per l'individualismo continua a
dominare in molta parte dell'Europa occidentale, del Nord
America e dell'Oceania.
Alla fin finé, non c'è garanzia che il culto cristiano incar-
nerà e manifesterà il tipo di onestà, compassione e umana
solidarietà che il vangelo di Gesù domanda. Dev'essere frut-
to di uno sformo intenzionale se deve accadere; non accadrà
automaticamente come effetto secondario del rituale. In
realtà, c'è un'abbondanza di esempi nella storia a dimostra-
re esattamente l'opposto. Questi esempi puntano l'indice
contro la liturgia come sistema chiuso, che talvolta raziona-
lizza o difende la violenza e l'ingiustizia, oppure forse espri-
me un grado simbolico d'interesse mentre fa del suo meglio
per non 'agitare le acque'. E, sfortunatamente, non sarebbe
troppo difficile trovare anche degli esempi contemporanei.
Quando questi sistemi rituali possono esistere, perpetuano
una visione del mondo che non è reale e non riescono a in-
tercettare la realtà e i problemi della vita umana così come li
conosciamo.
Il nostro approccio culturale alla morte offre un interes-
sante esempio, Fin dai nostri primi anni di vita, siamo intro-
dotti a una cultura costruita sul benessere e sul sentirsi be-
ne, evitando ad ogni costo la sofferenza umana e negando
ferite e dolore dove esistono. Ci sono farmaci e vitamine per
conservare bene la fonte della giovinezza nell'età anziana,
procedure per rimuovere le rughe e le linee sui nostri volti
2 3 2 I Liturgia efuturodelcristianesimo
per apparire più giovani, modi per restaurare la capigliatura
a quelli che l'hanno persa e tinture per colorare i capelli di
quelli che sono abbastanza fortunati da averli! L'elenco po-
trebbe continuare, naturalmente. In altre parole, fin quasi
dalla nostra nascita ci viene insegnato come negoziare le
molte durezze della vita, e le abilità sviluppate per sfuggire
e negare ci vengono in soccorso lungo il cammino. Anche il
nostro parlare della morte è meno che diretto quando ci
sforziamo di trovare i modi di riconoscerla. Senza neppure
che ce ne rendiamo conto, la nostra cultura c'insegna a dire
che un amico o una persona cara «se ne è andata» piuttosto
che «è morta». Suona meno aspro, forse, e ci aiuta ad evita-
re di accettare troppo rapidamente l'irrevocabilità che tutti
noi dobbiamo, alla fine, affrontare. Recentemente, alcuni
studiosi di liturgia hanno riconsiderato la pratica della se-
poltura cristiana in questa luce.
Il rito delle esequie riformato al concilio Vaticano II cor-
rettamente offriva un'utile reinterp.retazione del rito finale
di passaggio, sia da una prospettiva teologica sia da quella
rituale. Ben presto, molti pastori passarono dai paramenti
neri a quelli bianchi. E la messa funebre nelle chiese cattoli-
che giunse spesso a essere chiamata 'messa di risurrezione' -
un approccio molto più speranzoso di quello che si trova nel
Dies irae («Giorno d'ira, giorno di lutto...»), così tipico del
rituale precedente al Vaticano II. Tuttavia, grazie alla ricer-
ca psicologica e sociologica, che ci hanno aiutato a com-
prendere l'importanza dell'afflizione e del fare il lutto come
componenti essenziali nel processo di guarigione, alcuni li-
turgisti stanno ora domandandosi se i nostri riti cristiani di
sepoltura offrano spazio sufficiente al lamento e al lutto. Co-
me per il resto della cultura post-moderna, è possibile che
nella chiesa siamo stati sottilmente (o non sottilmente) se-
dotti da ciò che Ernest Becker chiamava «il rifiuto della
2 3 3
morte»? In uni libro che si intitola esattamente così, Becker
sostiene che laj persona umana rifiuta di riconoscere la pro-
pria mortalità k conseguentemente negozia la vita20.
Le nostre piratiche funerarie, così come sono svolte nei
paesi più sviluppati dell'Occidente, sembrerebbero indicare
una risposta affermativa alla domanda che è stata posta. Nel
mondo anglosàssone molti hanno familiarità con quella che
è stata chiamala Veglia funebre irlandese', che usualmente si
faceva in casa. Le persone piangevano per il defunto, ma an-
che ridevano condividendo ricordi e storielle divertenti, ap-
partenenti al passato di quella persona, che accompagnava-
no mangiando e bevendo. Queste veglie, che spesso si pro-
traevano nella notte, servivano a molti come un'esperienza
catartica, che aiutava il processo di guarigione della famiglia
del defunto. Nella società moderna, comunque, la veglia fu-
nebre è stata trasferita presso l'impresa di pompe funebri e
viene organizzata da professionisti che fanno del loro meglio
per preparare il corpo del defunto, quasi per suggerire che
la persona sia ancora viva. In questi casi non è raro, quando
le persone si avvicinano, sentire il commento: «Sembra co-
me se dormisse» o «Com'è bella». O, come ho sentito re-
centemente quando un confratello gesuita italiano ha visita-
to la tomba, da poco sistemata, del beato papa Giovanni
XXIII, i cui resti sono ora visibili: «Non è mai stato me-
glio!». Non è raro (i funerali monastici sono un'eccezione)
che gli organizzatori del funerale non calino il corpo del de-
funto nella terra se non quando tutte le persone abbiano la-
sciato il cimitero - un ulteriore tentativo di negare la dura
realtà della morte e la perdita di una persona cara.
20 E. BECKER, The Denial of Death, The Free Press, New York 1997
[trad, it., Il rifiuto della morte, Edizioni Paoline, Roma 1 9 8 2 ] .
2 3 4 I Liturgia efuturodelcristianesimo
L'onestà è un elemento cruciale per l'integrità del culto
cristiano e per l'efficace promozione di una più stretta rela-
zione tra i rituali cristiani e la realtà della vita umana in tut-
te le sue forme. Questo comprende l'intera gamma di emo-
zioni umane, presenti in tutti noi in ogni determinato mo-
mento. Poiché quelle emozioni sono manifestate nella gioia
o nel lamento, nella speranza o nel timore, anch'esse devo-
no essere offerte a Dio e diventano fonte di redenzione. I
tentativi di reprimere quelle emozioni, allora, o di negare la
realtà delle nostre vite o la vita del nostro mondo quando
siamo davanti a Dio per celebrare, significano un'accetta-
zione di quei valori culturali che si pongono in acuto con-
trasto con le esigenze etiche imposteci dal nostro battesimo.
In tali situazioni, Gordon Lathrop scrive:
2 3 5
Conclusione
I
I
Lungi dal mantenere lo status quo, il culto cristiano ci in-
segna a vivere differentemente come conseguenza della no-
stra partecipazjone alla liturgia, così che diventiamo stru-
menti al servizip del regno di Dio accogliendo i poveri e gli
stranieri. Una cbsa è impararlo durante una lezione in un'au-
la, tutt'altra co$a è la sua rappresentazione simbolica, cioè
metterlo in pratica nell'assemblea liturgica, consentendo che
quella celebrazione sfoci nella vita quotidiana. In altre paro-
le, questioni concernenti l'etica cristiana e la forma della vi-
ta morale non possono essere afferrate adeguatamente fuori
dal culto cristiano. La lode e il rendimento di grazie comu-
nitari, l'intercessione e la memoria, costituiscono un tutto
organico e ci offrono una visione del mondo di Dio. E il mo-
do in cui rendiamo culto a Dio è inseparabilmente legato al
modo in cui viviamo. Enfatizzando il ruolo fondamentale
dello Spirito santo in questo processo di trasformazione, al-
cuni liturgisti hanno propugnato un'imposizione delle mani
sull'assemblea liturgica così come avviene sui doni del pane
e del vino. Suggeriscono questa aggiunta manuale come un
importante mezzo per legare l'assemblea ai doni eucaristici
che condivide, e per simboleggiare il suo essere investita del-
la missione cristiana al servizio degli altri mediante la parte-
cipazione sacramentale al banchetto rituale.
Questo essere investiti o ricevere un incarico spinge dalla
liturgia al servizio degli altri nel regno di Dio. Ho intitolato
un mio libro sul movimento liturgico cattolico negli Stati
Uniti, The Unread Vision [La visione non letta] (1998),
prendendo in prestito un'espressione da Ash Wednesday
[Mercoledì delle ceneri] di Th.S. Eliot: «Redimi la visione
non letta nel sogno più alto». Ho scelto questo titolo per
2 3 6 I Liturgia efuturodelcristianesimo
suggerire che la visione socialmente orientata di culto, che
caratterizzava i primi pionieri liturgici, è stata ampiamente
'non letta' e ha bisogno di essere 'riscattata'. O, dove questa
visione è diventata operativa, potremmo dire che è andata
perduta e ha bisogno di essere ritrovata. In ogni caso, ab-
biamo davanti a noi il compito di forgiare legami sempre più
grandi tra liturgia e società - una società con la sua soffe-
renza e i suoi bisogni intrinseci. Non è senza significato che
la radice latina per missione e per messa sia la stessa: 'invia-
re' o 'essere inviato'. Così, il tradizionale congedo alla fine
dell'eucaristia cattolica: «La messa è finita, andate in pace»
significa, in effetti: «Andate, voi siete inviati». Alcune chie-
se hanno ulteriormente esplicitato questo congedo, come
nel tradizionale comando anglicano: «Andate nel mondo in
pace». Comunque si formuli il congedo, la sfida è chiara: an-
dare ed essere inviati, vivendo come il corpo e il sangue di
Cristo nella vita quotidiana e riconoscendo la vita risorta di
Dio nella sacramentalità del mondo.
Grazie al concilio Vaticano II e al concomitante rinnova-
mento delle altre chiese, abbiamo fatto un lungo cammino
dalla liturgia intesa semplicemente come rubriche o come
qualcosa che rimane ai margini della società umana. Ma c'è
ancora l'impressione in alcuni circoli che coloro i quali sono
impegnati nel campo della liturgia siano solo preoccupati
dell'estetica, di usare elaborati paramenti e di spendere il
denaro della chiesa per esteriorità artistiche. In più di un'oc-
casione ho sentito dire: «Non sono interessato alla liturgia.
Lo sono alla giustizia sociale». La distinzione implicata, na-
turalmente, suggerisce che quelli che sono impegnati per la
giustizia sociale non sono interessati a un culto liturgico più
elaborato e complesso, ma preferirebbero qualcosa di più
informale - forse un'eucaristia celebrata nel soggiorno di
una casa, senza paramenti o musica, e con un uso minimo di
2 3 7
simboli liturgici nella celebrazione. La verità è che la giusti-
zia sociale ha bisogno della liturgia e la liturgia ha bisogno
della giustizi; sociale. O potremmo dire che i sostenitori
della giustizia hanno bisogno dei liturgisti e i liturgisti han-
no bisogno dei sostenitori della giustizia. La liturgia più bel-
la celebrata n ìi mondo, svolta con paramenti e cerimoniale
eleganti, mus ca splendida e piena partecipazione, ma che
non riesce a manifestare o incarnare la passione per la giu-
stizia che il Vangelo esige è tanto anemica e incompleta
quanto una liturgia disordinata sul tavolino del salotto. Il le-
game tra liturgia e società umana è un solo e medesimo mi-
stero, come sant'Agostino ci ricorderebbe. E l'impegno a in-
tegrare queste due realtà non è negoziabile.
Il culto liturgico e le opere di giustizia non hanno bisogno
di competere per conquistarsi la nostra attenzione. In effet-
ti, il loro mutuo successo dipende dalla loro interrelazione.
Quest'integrazione è stata espressa molto eloquentemente,
nel gennaio 2003, all'annuale convegno della North Ameri-
can Academy of Liturgy. Quando ci riunimmo a Indianapo-
lis, nell'Indiana, ci fu detto che l'ultimo presidente emerito
dell'accademia, Gabe Huck, non poteva essere presente.
Era in Iraq con un gruppo più grande che aveva intrapreso
il viaggio per mostrarsi solidale con il popolo iracheno, por-
tando una testimonianza a favore della pace mentre il pro-
prio paese, gli Stati Uniti, si preparava alla guerra. Le azioni
parlano più forte delle parole e le azioni di Huck non la-
sciarono alcuna ambiguità circa la sua concezione, social-
mente orientata, del culto cristiano: il fatto che un presiden-
te emerito della più prestigiosa accademia di liturgia nel
mondo anglofono andasse in Iraq in un momento così criti-
co lo dimostra ampiamente. Ma i nostri gesti liturgici e il
modo in cui utilizziamo i nostri simboli pure comunicano
molto circa la relazione tra liturgia e società e la nostra vi-
2 3 8 I Liturgia efuturodelcristianesimo
sione del regno di Dio. Solo nel culto cristiano i poveri pos-
sono diventare ricchi e i ricchi non sono più ricchi dei più
poveri tra i poveri. Così, il battesimo cristiano diventa il
grande principio di uguaglianza. E anche se non allevia la
sofferenza umana o i sistemi economici di casta che separa-
no i ricchi dai poveri, non lascia spazio per un trattamento
preferenziale nell'assemblea liturgica: lì non c'è spazio per
posti di 'prima classe', non ci sono trattamenti speciali per i
più famosi. E piuttosto l'ordine sociale stabilito da Gesù
Cristo che diventa operativo, poiché è Cristo stesso che sta
al centro della liturgia.
Quando consideriamo la sacramentalità del mondo che è
ripresentato a Dio nel culto cristiano e quando ci impegnia-
mo di nuovo, sempre più intenzionalmente, a portare il cor-
po di Cristo nella routine della vita quotidiana, probabil-
mente le parole di Percy Dearmer (t 1936), prete anglicano
e pioniere liturgico, riassumono al meglio la sfida che è po-
sta di fronte a noi:
2 3 9
8.
La liturgia
e il futuro del cristianesimo
Introduzione
in PECKLERS (ed.), The Future of Liturgy in the Postmodern World, cit., 55-
86, qui 56.
2 Ibid., 51.
2 4 1
di contrasti si vede anche nei film post-moderni. Lo spetta-
tore può sper mentare come unità proprio ciò che era una
non-unità nel tempo e nello spazio. Quest'unità non riflette
la realtà, naturalmente, ma è montata in modo tale da crea-
re l'immagine preferita, grazie a significativi progressi nella
tecnologia informatica. In questi contesti, Phan afferma:
«Non è possibile dire il reale a partire dal fantastico, lo sto-
rico a partire dalla finzione»3. Quando si considera il mon-
do della realtà virtuale nel world wide web, la linea di de-
marcazione tra oggetto e soggetto, realtà e finzione, ne ri-
sulta ulteriormente sfocata.
Il mondo del post-modernismo potrebbe essere caratte-
rizzato - almeno secondo alcuni studiosi - come pessimisti-
co, olistico, comunitarista e pluralistico. Il pessimismo di-
venta un marchio caratteristico di quest'epoca, in quanto
sottolinea la fragilità umana e nega l'enfasi dell'Illuminismo
sul 'progresso ineluttabile'. L'olismo è incluso in questa de-
scrizione, per il suo rigetto della razionalità e la scelta delle
emozioni e dell'intuizione. Il comunitarismo serve come un
correttivo dell'individualismo così tipico della modernità e
propugna una ricerca della verità su base comunitaria. Il
pluralismo articola la diversità delle tradizioni culturali e la
corrispondente necessità di differenti verità rappresentative
delle comunità. Così, non c'è una sola verità, non c'è una
realtà oggettiva, non c'è un modo di negoziare la vita nel
mondo reale. Piuttosto, il mondo è un complesso sistema
simbolico che fa affidamento più su di un'interpretazione
soggettiva che su di una verità assoluta e dimostrabile. L'u-
niverso, quindi, non può mai essere oggettivamente e piena-
mente descritto dalla scienza. Lo conferma Peter Phan
3 Ibid., 58.
4 Ibid., 59s.
2 4 3
ci sia oppure Ao necessità di tali sostituzioni, perché la tran-
sitorietà è buona in e per se stessa. Così, ciò che è descritto
in termini di arte, letteratura e teatro pure può essere trova-
to in quelle altre reti di relazioni umane e nella vita quoti-
diana. Tutti questi fattori culturali pesano abbastanza signi-
ficativamente sul culto cristiano, e non necessariamente per
il meglio. Abbiamo visto come, storicamente, fosse impossi-
bile per la chiesa rendere culto a Dio fuori o lontano dal suo
contesto culturale, e la chiesa post-moderna non è un'ecce-
zione, siccome la cultura contemporanea attraversa la sua
metamorfosi.
Benché senza collegarsi direttamente ai problemi della
partecipazione della chiesa in quanto condizionati dagli ef-
fetti del post-modernismo, un vescovo cattolico recente-
mente ha lanciato un serio attacco alla cultura e al modo in
cui essa gradualmente sta erodendo proprio il cuore e i dog-
mi del cristianesimo nella sua nativa Italia. Alessandro Mag-
giolini, vescovo di Como, ha pubblicato un libro intitolato
La fine della nostra cristianità, in cui lamenta il cattivo stato
della situazione nella chiesa italiana. Egli osserva un com-
plessivo malessere riguardo la pratica della fede, evidenzia-
to da un brusco declino delle presenze in chiesa e messo in
luce da una generale noia e apatia da parte dei giovani ri-
guardo alla liturgia in generale (partecipazione o animazio-
ne musicale). Il vescovo non scorge soluzioni facili a questi
crescenti problemi. In effetti, è così preoccupato del futuro
che predice l'estinzione definitiva del cristianesimo in quel-
la regione - almeno del cristianesimo vissuto e praticato con
attiva partecipazione alla vita parrocchiale e al celebrare.
I timori di mons. Maggiolini meritano attenzione. Io vivo
nel centro storico di Roma, che è pieno di belle chiese. Que-
gli edifici sono ricchi di storia e sono stati importanti centri
di fede nel corso dei secoli. Ma oggi molte di quelle chiese
2 4 5
testo. Naturalmente, è vero che la cultura post-moderna
continua a influenzare donne e uomini, compresi molti cat-
tolici, spingendoli alla ricerca di propri percorsi spirituali e,
di conseguenza, a confezionarseli su misura, andando o me-
no in chiesa ]a domenica in base alle loro inclinazioni e sta-
bilendo i prcjpri sistemi personalizzati di regole con cui vi-
vere. Ma c'è jina parte ancora più fondamentale del proble-
ma alla qual^ il vescovo non riesce a volgere la dovuta at-
tenzione. I
Non è possibile che una parte del problema coinvolga
quelli di noi che sono preti e vescovi e, talvolta, la nostra in-
capacità di comunicare il messaggio del vangelo credibil-
mente ed efficacemente? In altre parole, è in tutto e per tut-
to colpa dei giovani se si annoiano fino alle lacrime la do-
menica mattina quando devono sopportare un modo di ce-
lebrare che non riesce a intercettare le gioie e le lotte, le spe-
ranze e le paure delle loro vite? Alcuni miei amici italiani mi
dicono che sono assenti dalla messa domenicale perché là
non si sentono a casa; non c'è relazione. La predica si tra-
scina senza fine - si lamentano - spesso letta da un testo
scritto ed evidentemente senza abilità comunicativa umana.
In alcuni casi, il tono è negativo, mentre in altri il predica-
tore appare annoiato ed egli stesso senza vita: dà poca testi-
monianza di entusiasmo, o quanto meno di una remota pas-
sione, per quella Parola che sta proclamando. In tali situa-
zioni, non c'è alcuna buona novella nella buona novella. Co-
sì, queste persone trovano altrove la buona novella: fuori
della chiesa. La crisi attuale nella presenza in chiesa e nella
partecipazione liturgica è, in realtà, molto complessa e rap-
presenterà una sfida sempre più grande per i ministri e i pa-
stori del futuro.
2 4 7
e di maturità;spirituale che ci si aspetta dagli anziani della
chiesa - i 'presbiteri', appunto. Questo si può fare e, in
realtà, è stato [fatto con discreto successo se chi presiede è di
fronte all'assepblea. In definitiva, l'intera assemblea liturgi-
ca - presidente e membri laici insieme - dovrà resistere alle
pressioni culturali nell'intrattenere l'assemblea. Il liturgista
luterano Franjk Senn enuncia il principio in questo modo:
2 4 9
ca ha messo in evidenza la questione con un'urgenza sempre
più grande, p(oiché un numero crescente di comunità catto-
liche sta venendo privata dell'eucaristia.
In definitiva, la chiesa cattolica dovrà stabilire esattamen-
te quale priorità dà alla santa eucaristia. Può suonare irrive-
rente, ma è d a intendersi come una questione molto seria.
Poiché la cadenza di clero diventa una realtà sempre più
grande (anche in certe regioni d'Italia), la celebrazione del-
la messa viene sostituita da riti di comunione guidati da lai-
ci. Queste liturgie somigliano molto da vicino alla struttura
eucaristica, con il rito d'introduzione e la liturgia della Pa-
rola (compresa una breve omelia), una preghiera di rendi-
mento di grazie (che comporta una vaga somiglianza con il
prefazio della preghiera eucaristica), la preghiera del Signo-
re, un invito alla comunione («Ecco l'Agnello di Dio...»), la
distribuzione della comunione dal tabernacolo, la preghiera
conclusiva e il congedo. Ma la struttura appare tanto simile
che le distinzioni tra messa e riti di comunione possono fa-
cilmente essere sfocate. Faccio un esempio: agli inizi degli
anni Novanta, Kathleen Hughes, attuale provinciale statuni-
tense delle religiose del Sacro Cuore, fece uno studio sulle
celebrazioni in assenza di un prete nella domenica cattolica
in Canada e negli Stati Uniti. Come parte del suo studio rac-
colse numerose interviste con guide diocesane e pastorali in
entrambi i paesi e presentò i suoi risultati a Dublino, in Ir-
landa, al convegno del 1995 della Societas liturgica interna-
zionale. Su uno dei questionari restituiti, un'anziana donna
aveva scritto: «Mi piace più la messa della suora che quella
del padre...». Evidentemente, per quella parrocchiana era-
no tutte quante messe, non essendo lei capace di decifrare la
differenza!
Neppure per quelli che possono apprezzare la differenza,
i riti di comunione sono un sostituto inferiore della celebra-
2 5 1
eucaristica fìti quando rimarrà disponibile un numero suffi-
ciente di chierici maschi celibi. E quando non saranno più
disponibili, allora potranno essere svolti i riti di comunione
da guide laicie. Questa è certamente un'opzione e, in effet-
ti, è correntemente funzionante come modus operandi in
sempre più numerose regioni del mondo cattolico.
Se, all'opposto, la chiesa cattolica vorrà seriamente riaf-
fermare la centralità dell'eucaristia come il vero cuore e la
linfa vitale dèlia sua esistenza, allora ci sarà bisogno di af-
frontare alcune scelte serie. La più immediata e la più ovvia
è l'ordinazione di uomini sposati: è l'opzione più urgente,
poiché questo è l'uso delle chiese orientali ed è dogmatica-
mente del tutto accettabile. L'altra questione che continua a
presentarsi è l'ordinazione delle donne. C'è ovviamente più
difficoltà con questa questione a causa della tradizione bi-
millenaria della chiesa. Paradossalmente, le stesse consuetu-
dini delle chiese orientali che codificano un clero sposato
inibiscono l'ordinazione di donne. Ma la chiesa deve affron-
tare il fatto che questo è letto sempre più come una discri-
minazione delle donne e contribuisce significativamente a
quella che è interpretata come un egemonia maschilista nel-
la chiesa. La chiesa non ha ancora trovato un modo di risol-
vere questa questione davvero complicata. Lo diciamo non
nello spirito di uno slogan ideologico progressista sbandie-
rato, ma piuttosto a partire dalla grande preoccupazione per
il futuro della nostra chiesa eucaristica. Non riuscire ad af-
frontare adeguatamente queste questioni veramente difficili
avrà come conseguenza una chiesa futura che non sarà più
eucaristica. E questo esito sarebbe davvero assai deplorevo-
le. Non c'è bisogno di dire che l'abbassamento degli stan-
dard nei seminari unicamente per perpetuare un sacerdozio
solo maschile ad ogni costo produrrà conseguenze disastro-
se. In questi anni post-conciliari, altre chiese cristiane han-
2 5 3
Quale modello i presidenti e gli altri ministri liturgici - di
fatto, l'intera jassemblea - dovrebbero utilizzare nel discer-
nere i parametri di ospitalità nel culto cristiano? Anche se
Gesù non ci ha lasciato esattamente un progetto per l'ospi-
talità liturgica) nel XXI secolo, l'esempio dato durante il suo
ministero terijeno ci offre più di un indizio su come le per-
sone debbano essere trattate.
Duemila artni dopo, noi professiamo la stessa fede cristia-
na, proclamiamo lo stesso vangelo quando partecipiamo al
santo banchetto di Cristo - donne e uomini chiamati all'a-
micizia con Dio e al servizio degli altri, proprio come lo era-
no i primi discepoli. Ma le realtà demografiche e sociologi-
che sono radicalmente differenti e siamo costretti ad affron-
tare nuove situazione che sarebbero state inimmaginabili
anche solo quaranta o cinquanta anni fa. In effetti, è lo stes-
so corpo di Cristo riunito insieme in assemblea liturgica, ma
i nomi e le facce sono cambiati e così la realtà vissuta da
quanti compongono quell'assemblea. Nelle comunità catto-
liche questa realtà propone nuove sfide per il ministero pa-
storale e l'ospitalità liturgica. Per esempio, oggi ci sono sem-
pre più cattolici divorziati e risposati che siedono nei banchi
la domenica mattina, insieme con gay e lesbiche e molte al-
tre persone che si trovano ai margini dell'insegnamento uf-
ficiale della chiesa. Questi individui sono tutti là, la dome-
nica mattina, per l'eucaristia comunitaria e molti vivono vi-
te generose di servizio per le loro parrocchie e nella più am-
pia comunità secolare.
Questo potrebbe suggerire che 'va bene tutto'. Ma se le
nostre statistiche attuali sono una spia, nei prossimi cento
anni ci saranno sempre meno cattolici con i requisiti per ri-
cevere l'eucaristia. Così, il mandato di Gesù: «Prendete e
mangiate; prendete e bevetene tutti», potrà tecnicamente es-
sere corrisposto solo da pochi selezionati. O, come loro ac-
Ecumenismo
2 5 5
e prega fianc(j> a fianco con l'arcivescovo di Canterbury e un
patriarca ortodosso davanti alla porta santa della basilica di
S. Paolo fuor le mura - lo stesso luogo in cui Paolo VI ave-
va consegnato l'anello a Michael Ramsey. Dopo che ebbero
aperto insieme la porta santa, seguì una liturgia ecumenica
della Parola cthe inaugurò la settimana di preghiera per l'u-
nità dei cristiani. Abbiamo bisogno di molte più esperienze
simili di celebrazioni comuni, se la nostra testimonianza cri-
stiana collettiva deve essere credibile in un nuovo secolo e in
un nuovo millennio. Ciò che ci unisce è infinitamente più di
ciò che ci divide, ma troppo spesso nel passato - e anche nel
presente - abbiamo messo a fuoco negativamente le nostre
divisioni, ignorando il terreno comune che condividiamo e
il progresso ecumenico che è stato fatto. E giunto il tempo
di andare avanti, e dobbiamo farlo insieme, come Cristo
vorrebbe che noi facessimo.
2 5 7
La sfida dell'islam e il dialogo interreligioso
I
I terribili eventi dell'I 1 settembre 2001 hanno aperto vec-
chie ferite di rivalità religiosa e provocato nuove ondate di
discriminazione e oppressione. Nonostante la ricchezza e la
varietà dell'islam - che è tanto ricco e diverso quanto lo so-
no il cristianesimo o il giudaismo - molti cristiani occiden-
tali continualo ad associare l'islam al terrorismo o a gruppi
come Hamas o Al Quaida. Nel frattempo, gli estremisti mu-
sulmani etichettano tutti i cristiani come 'male' e sono di-
sposti a distruggerli. Molti genitori musulmani vogliono per
i loro figli le stesse cose buone che vogliono i genitori cri-
stiani: portano i loro bambini alla moschea le mattine del ve-
nerdì; a casa insegnano la fede ai loro bambini con il loro
esempio. Eppure rimane una grande divisione tra queste
due religioni principali, specialmente quando ci riuniamo
per celebrare la liturgia. Nella maggior parte delle assem-
blee cristiane non è normale pregare in qualche modo per i
musulmani la domenica mattina. E così anche durante il
tempo santo del ramadan, quando i musulmani si impegna-
no in un intenso periodo di preghiera e digiuno, non diver-
samente dalle pratiche di auto-abnegazione che molti cri-
stiani praticano durante la quaresima. Il futuro del culto cri-
stiano avrà bisogno di essere aperto a un ulteriore dialogo
con i nostri vicini musulmani e a preghiere per loro, se il no-
stro celebrare deve rimanere contestualizzato e in contatto
con il mondo reale. Molto semplicemente, l'islam è in cre-
scita e il numero dei cristiani continua a diminuire. Consi-
deriamo le statistiche. Nel 1980 i musulmani costituivano
circa il 18% della popolazione mondiale; si prevede che
questo numero raggiungerà il 30% nel 2025 e che continui
a crescere. Per converso, il numero dei cristiani continua a
2 5 9
so ritualmenté quella sera era parte di un più ampio dialogo
vissuto quoticfianamente in quella città capitale.
Simili svilubpi si possono trovare altrove. L'anno scorso
ho partecipato al secondo dialogo tenrikyö-cristiano, tenuto
in Giappone .all'Università di Tenri (vicino Kyoto). Questa
religione giapponese conta tre milioni di aderenti in tutto il
mondo ed è stata fondata solo nel 1838, sicché è insieme
nuova e relativamente piccola, se comparata alle maggiori
religioni mondiali. Ma il suo impegno per il dialogo è im-
menso e la ricerca di legami nella nostra comune enfasi sul-
la liturgia è stàta al centro del nostro dialogo, sia nel nostro
primo incontrò a Roma sia nel secondo a Tenri. Come il cri-
stianesimo, il tenrikyö osserva il ritmo quotidiano della pre-
ghiera del mattino e della sera. Inoltre, nel servizio mensile
tenuto nei centri tenrikyö in tutto il mondo dodici salmi so-
no cantati dall'assemblea liturgica accompagnati da movi-
menti e gesti compiuti da tutti i partecipanti. Il tenrikyö ha
rituali che somigliano al battesimo, alla confermazione e al-
l'unzione dei malati dei cristiani. Le nostre religioni, natu-
ralmente, sono in effetti assai differenti, ma i cristiani occi-
dentali hanno molto da imparare dal culto tenrikyö, special-
mente riguardo alla serietà con cui i loro rituali sono cele-
brati, all'attenzione ai simboli - ai gesti e ai movimenti - e
all'enfasi sul silenzio che, durante la celebrazione, evoca il
trascendente.
In effetti, abbiamo molto da imparare l'uno dall'altro. Ma
questo dialogo avrà bisogno che la nostra volontà sia aperta
a una varietà di critiche che altre fedi possono proporre alle
nostre esperienze di culto in uno spirito di mutua ammoni-
zione. Gordon Lathrop scrive:
Conclusione
2 6 1
re da chi guida le nostre liturgie - presidenti e predicatori -
cioè da coloro he indicano la verità e celebrano ritualmen-
te quella verità Scrivendo sulla predicazione liturgica, Ti-
mothy Radcliff già maestro dell'Ordine dei Predicatori (i
domenicani), h a da dire questo:
2 6 3
Conclusione
264 I Conclusione
ni, metodisti e battisti, cattolici e ortodossi russi - tutti noi
insieme. Le questioni qui sono abbastanza complesse, come
si ha modo di vedere nei vari dialoghi ecumenici che attual-
mente hanno luogo. Quanto meno, comunque, proprio
mentre aspettiamo una piena comunione almeno con alcu-
ne delle altre chiese, abbiamo bisogno di essere attivi insie-
me nelle aree di preghiera comune non eucaristica e di pro-
gresso sociale, molto più di quanto non accada attualmente.
Non è sufficiente trovarsi insieme annualmente durante la
settimana di preghiera per l'unità dei cristiani o per una ce-
lebrazione ecumenica alla vigilia del giorno del ringrazia-
mento (in Canada o negli Stati Uniti). Fortunatamente, in
alcuni luoghi, associazioni clericali ecumeniche sono forti e
c'è anche una sessione settimanale di preparazione omileti-
ca condivisa per la domenica successiva. Ora che tutti pro-
clamiamo le stesse letture della Scrittura la domenica matti-
na, questo compito è molto più facile. Ma abbiamo bisogno
di considerarci l'un l'altro come uniti insieme nel corpo di
Cristo, sia nella preghiera sia nel servizio degli altri.
La dimensione sociale dell'appartenenza al corpo di Cri-
sto richiederà una speciale attenzione e un impegno inten-
zionale. Prevale l'individualismo e questo legame che condi-
vidiamo con gli altri non è sempre percepito tanto facilmen-
te. Se prendiamo sul serio il mandato di Cristo e il nostro ce-
lebrare, allora dobbiamo riconoscere il nostro legame con i
senzatetto che dormono nelle stazioni ferroviarie o gli an-
ziani curvi che si trascinano con un bastone al supermerca-
to. E noi siamo connessi con il popolo iracheno, e con gli
ebrei in Hebron, e anche con i musulmani fondamentalisti
in Pakistan. Questa non è un'opzione quando lasciamo l'as-
semblea la domenica mattina. E un imperativo evangelico.
In secondo luogo, avremo bisogno di recuperare il senso
di timore e di meraviglia, in modo che l'intera gamma delle
2 6 5
nostre emozioni possa scaturire quando adoriamo il Dio
uno e trino. Al centro di questo recupero c'è il nostro siste-
ma simbolico H rendere culto a Dio in modo tale che i nostri
simboli comunichino con noi come si propongono di fare.
Questo significa che abbiamo bisogno di prestare attenzio-
ne al silenzio in un mondo che è pieno di parole e di com-
menti senza file. Una buona comunicazione simbolica si
spiega da sé, pjer sua stessa natura, e non ha bisogno di ul-
teriori spiegazióni. Aspergere abbondantemente l'assemblea
con acqua battesimale all'eucaristia domenicale non necessi-
ta di una spiegazione previa sul perché l'acqua è importan-
te nella vita quotidiana. Quando si onora l'intera assemblea
con incenso fragrante e con un profondo inchino, essa sa
che viene riverita in quanto è il corpo di Cristo. Quando chi
è chiamato a guidare la celebrazione insiste per introdurre o
spiegare ogni aspetto del rituale prima che sia compiuto, ti-
more e meraviglia fuggono puntualmente via.
In terzo luogo, sarà necessario che la formazione liturgica
sia una priorità per clero e laici, molto più di quanto non lo
sia al presente. Questo è necessario specialmente nelle par-
rocchie cattoliche. Naturalmente ci sono diocesi, parrocchie
e seminari dove è già una priorità e i risultati sono palpabi-
li, ma in troppi luoghi è vero il contrario. Vorrei aggiungere
che i cattolici hanno molto da imparare dagli anglicani e da
altri cristiani sulla partecipazione dell'assemblea. Troppi
cattolici limitano la loro comprensione dell'eucaristia dome-
nicale a un obbligo. In altre parole, vanno a messa ogni do-
menica perché viene loro richiesto. Se questo è il principio
operante per la partecipazione liturgica allora non dovrem-
mo sorprenderci che troppi cattolici ancora lasciano il can-
to al coro, leggono il bollettino parrocchiale durante l'ome-
lia ed escono dalla chiesa dopo la comunione prima della
preghiera finale e del canto conclusivo.
266 I Conclusione
Lo scorso autunno ho assistito a un incontro di football
americano durante il mio anno sabbatico a Boston. I tifosi
intorno a me erano sfrenati, pieni di entusiasmo, urlavano e
gridavano a sostegno della loro squadra quando veniva se-
gnato un touchdown dopo l'altro. Durante il secondo tempo
della partita i miei vicini diventarono ancora più entusiasti e
cominciarono a girare su se stessi, a saltare su e giù ai loro
posti mentre cantavano i loro slogan. Io cominciai a ridere
mentre mi guardavo intorno e mi domandavo: «Perché le
folle la domenica mattina non possono essere entusiaste al-
meno un terzo di quanto lo è questa?». C'erano padri e fi-
gli, fratelli e amici, per nulla a disagio con il loro saltare e
partecipare pienamente ai loro cori da stadio. La differenza,
naturalmente, è che cantare e urlare alle partite di football è
socialmente accettabile, mentre c'è un sospetto soggiacente
tra gli uomini cattolici, mi sembra, per cui i veri uomini non
cantano in chiesa - o almeno non cantano a voce alta. E cer-
tamente non cantano tutti i versi dell'inno! Alcuni hanno
suggerito che il post-concilio è diventato eccessivamente
femminilizzato, come si evidenzia in alcune musiche liturgi-
che o in certi gesti come il tenersi per mano durante la pre-
ghiera del Signore, che fa sentire gli uomini 'fuori del cer-
chio'. Questa critica merita ulteriore studio. Nondimeno,
dovunque il malessere abbia origine, là può sembrare che ci
sia un certo pregiudizio maschile contro una «piena e attiva
partecipazione liturgica». Con tale resistenza culturale e con
la presenza alla celebrazione liturgica domenicale basata
esclusivamente su di un obbligo, non è difficile comprende-
re perché quegli stessi individui troverebbero incomprensi-
bile la responsabilità sociale del culto. Quaranta anni dopo
il Vaticano II, rimane una tremenda quantità di lavoro da fa-
re nell'area della catechesi liturgica.
In quarto luogo, l'area dell'inculturazione liturgica sarà di
2 6 7
capitale importanza man mano che il nostro nuovo secolo si
svolge. E già di grande significato in India e in molti paesi
africani, ma sarà necessaria una più grande attenzione nel
resto del mondo. L'inculturazione sarà specialmente crucia-
le poiché la dimensione multiculturale delle parrocchie a
Londra e Birmingham, Dublino, New York, Vancouver e
Melbourne diventa una realtà sempre più grande. Le previ-
sioni sul futuro! demografico sono particolarmente impres-
sionanti negli Stati Uniti. Nathan Mitchell scrive: «Dall'an-
no 2080 la proporzione di bianchi crollerà dal 74 al 50% del
totale; il resto della popolazione statunitense sarà per il 23 %
latino-americana; per il 15% nera e per il 12% asiatica»1.
Chiaramente, il nostro futuro liturgico sarà multirazziale e
multietnico. Proprio come la liturgia romana del V secolo ri-
fletteva il contesto culturale e la vita di coloro che la cele-
bravano, così anche il culto cristiano del XXI secolo deve,
ugualmente, essere contestualizzato. Naturalmente, l'impor-
tanza del dialogo con altre tradizioni religiose è implicito in
questa struttura multiculturale. Nel suo discorso chiave pro-
nunciato in Giappone, al citato dialogo tenrikyó-cristiano,
l'arcivescovo Michael Fitzgerald, presidente del Pontificio
consiglio per il dialogo interreligioso, notava la sorprenden-
te diversità religiosa che sta cambiando la faccia della vita
urbana nel mondo:
268 I Conclusione
Così il nostro lavoro è finito per noi. La sfida può sem-
brare scoraggiante, ma è ben degna dei nostri sforzi. E in
gioco la credibilità del culto cristiano - e il suo futuro - co-
sì come la nostra credibilità e il nostro futuro.
2 6 9
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11 50 Libri liturgici
11,17-22 206
11,23 50 Book
11,23-25 49 of Common Prayer 29, 70,
12,12ss. 26 93-95,
147
Efesini Breviario Romano 99
5,26 50 Caeremoniale
Episcoporum 100
1 Timoteo Collection of Psalms
4,14 51 and Hymns 111
5,22 51 Common Lectionary 146
6,16 41 Common Worship 147
Communion Service 94
2 Timoteo Lezionario Romano 142,
1,6 51 146
Liturgia delle ore 142
Ebrei 23 Lutheran Book
6,20 37 of Worship 147
7,25 37 Martirologio Romano 100
8,1 24 Messale Ambrosiano 142
8,2 37 Messale Romano 61, 65,
99,133,
Giacomo 142
5,14s. 163 Messale Romano per le
5,14-16 51 diocesi dello Zaire 169
Ordo Rom an us I 70
Apocalisse Pontificale Romano 100
4,8 41 Prayers We Have
in Common 146
Rito del battesimo
Testi delle origini cristiane dei bambini 142
Rito dell'iniziazione
Costituzioni apostoliche 51, 61 cristiana degli adulti 142
Didachè 51s. Rituale Romano 101,
Didascalia apostolorum 61s. 133,
Tradizione apostolica 60s., 66 166
2 8 1
Indice analitico
e dei nomi
2 8 3
Cabié, Robert * Cattaneo, Enrico 51, 59, 61,
82s. 80, 113, 130, 180
calendario liti irgico 68, 71, cattedra di S. Pietro 69
100, 141 vedi anche S. Pietro in Vati-
vedi anche a ino liturgico cano (basilica di - )
Callisto (papa) 205 cattedrale 92, 263
Caloen, Gérarc Ivan 118 Cavanaugh, William T. 196s.
Calvino, Giova nni 36, 90, 92s., cena del Signore 49, 206
90s. I vedi anche eucaristia; ultima
Camden Societjy 111 cena
Candelaria, Michael R 188-190 ceneri
Canisio, Pietro 88 imposizione delle - l i s .
Canone romano 65, 94, 100 mercoledì delle - 176
Canterbury Tales 179 Centre national de pastorale li-
canto turgique 129
- degli inni 10s., 13, 72, Centro liturgico pastorale di
110s. Barcellona 131
- liturgico (religioso, gre- cerimonia/rito/ rituale
goriano) 14,82, 110, 115, - di iniziazione 16s., 53-55,
119, 129, 131, 143,266 65-67, 151
Canto gregoriano (CD dei mo- vedi anche iniziazione cri-
naci benedettini di Silos) 14 stiana
capitalismo 213, 221 - di investitura 15
neo-capitalismo 221-223,243 cerimoniale imperiale/di corte
Carlo Magno 76, 78s., 209 65, 70, 106, 164, 209
Caronti, Emanuele 130 cerimonialismo 188
Messale festivo per i fedeli Chaucer, Geoffrey 179
130 chiesa/e
Pietà liturgica (La - ) 130 - apostolica 111
Casel, Odo 120s., 125 - come corpo di Cristo
catacombe 57, 178 22s., 26-29, 33-35, 112s.,
catecumenato 53, 61, 65-67, 212-218, 230, 264s.
141,204 - locale e universale 32,
Catella, Alceste 130 134, 228s.
Caterina da Siena 88 - d'Inghilterra
Catholic Worker Movement vedi anglicano/i
124,213 - domestica 58
2 8 5
vedi anche S aera congrega- - apostolico 93
zione dei riti - niceno 76, 249
Congregazione per la dottrina cresima
della fede 12 ,247 vedi confermazione
Congrès national des oeuvres Crichton, James D. 129
catholiques 118 cristianesimo
congressi - e culti misterici 53s., 121,
- eucaristici 118, 122 163s.
- liturgici 118, 128, 135 - e religioni non-cristiane
Terzo congresso liturgico 106s., 152,258-261,268
tedesco'(1964) 13 influenze giudaiche 24, 47-
Primo congresso liturgico 49, 52, 162s.
olandese (1911) 127 legalizzazione del - 58, 62,
consacrazione 178, 208
vedi preghiera eucaristica periodo apostolico 47-62,
Consiglio mondiale delle chie- 204-206
se 161 Cristo
Consultation on Common vedi Gesù Cristo
Texts 146 culto comunitario, preghiera
controversia collettiva 33s., 204s.
- quartodecimana 52 - e individualismo 13, 22s.,
- sui riti cinesi 106s., 152, 44s., 192,215,217s.
165 culto degli antenati 69, 106s.,
Cooke, Bernard 79 178
Corporazione dei rosticcieri 17 cultura 149-153
Corpus Domini 83, 106, 122, vedi anche inculturazione
180 curia romana 81, 99, 137
Costantino (imperatore) 63
pace di - 58, 178, 208 Damaso I (papa) 56, 69
vedi anche Milano (editto di - ) Day, Dorothy 124, 126, 213
Costantinopoli 64, 71, 208 De Zan, Renato 43s.
costituzione liturgica Dearmer, Percy 239
vedi sopra Sacrosanctum Decenzio di Gubbio 73 s.
concilium dedicazione del tempio 48
Cranmer, Thomas 85, 92-96 devotio moderna 86
credo (simbolo, professione di diaconi/diaconesse 51, 59s.,
fede) 76, 145, 264 62, 72s., 81,207
2 8 7
adorazione eucaristica ed giorni di -/festivi 35, 71-73,
elevazione dell'ostia 82- 100, 105, 110, 133, 140
85, 104-106, 180s. liturgia stazionale come -
vedi anche benedizione mobile 71
(eucaristica) Filippo (diacono) 50
- domenicale vedi domenica Fischer, Balthasar 127
miracoli euc aristici 84, 180 Fischer, Ian 196
nel protestantesimo 11, 88- Fitzgerald, Michael 268
93, Ills., 209s. francescani 81, 83, 107
partecipazio le dei laici 6, Francia 17, 80, 108, 113, 123,
67s., 79-$2, 89, 95, 98, 126, 129, 133s., 268
119, 140si Francis, Mark R. 169, 199
presenza (reale) di Cristo Francoforte (sinodo di - ) 165
11, 27, 70, 91, 103, 106, frequenza in chiesa
118, 143 recente declino della - 244-
racconto dell'istituzione del- 246, 254-256
l ' - 40, 49s., 93 tendenze demografiche e so-
vedi anche messa/e ciali 169, 254s., 268
evangelizzazione 33, 53, 63, funerali/esequie 79, 181, 233s.,
255
106, 140, 152, 164, 186, 188
- monastici 234
come processo fatto di reci-
funzioni vespertine (Evensong)
procità 155
6, 35
farisei 48 Gallagher, Michael Paul 150,
Federazione liturgica olandese 154s.
128 Gallen, John 146
Federazione luterana mondiale Garcia, Samuel Ruiz 195
168 Gbaya (popolo dell'Africa oc-
Fenwick, John R.K. 112 cidentale) 261
fermentum 73 s. Geertz, Clifford 149s.
festa/festività 14 Gennep, Arnold van 14
- delle capanne 48 Germania 93, 105, 110, 112s.,
- di refrigerium 205s. 120s., 124-126, 134, 182
- di tutti i santi 69 Gerusalemme 47, 57, 64s., 71,
- pagane cristianizzate 68s., 178s., 208, 259
205s. concilio di - 52
2 8 9
iconoclasmo U4 - e cristianesimo 258-261
Ignazio di Antiochia 51 hajj 22
impero romano 208s. ramadan 14, 258
imposizione Italia 84, 96, 130, 177, 193,
- delle ceneri l i s . 244s., 250
- delle mani 27, 48, 236
incarnazione 153s., 159, 161, Jones, Cheslyn 16, 62, 92, 94,
167, 204s., 216 97
incenso 11, 14, 72, 75, 106, Jungmann, Josef Andreas 98,
143, 182, 24p, 266 127
inculturazione 56s., 65, 131,
153-165, 17Ìs. Kassiepe, Max Adolf 124
- al concilio Vaticano II Kiesgen, Agape 125
165-168 Kilmartin, Edward 40
- in contesti multi-culturali Klosterneuburg 126
168-173 > Kurth, Godfried 118
India 133, 171s., 231, 268 Kyrie eleison 77
iniziazione cristiana 15, 53s.,
61, 109, 141s.,204 La Maison-Dieu (rivista) 129
vedi anche cerimonia d'ini- LaCugna, Catherine 38
ziazione Laterano
Innocenzo I (papa) 69, 73s. basilica del -
Innocenzo III (papa) 81 vedi S. Giovanni in Late-
Innocenzo X (papa) 107 rano
Institut supérieur de liturgie 130 palazzo del - 72, 80
intercessione Lathrop, Gordon 169, 227-
vedi preghiere di supplica/ 229, 235,260s.
intercessione latino e lingue vernacole 11,
International Commission on 16, 19, 42, 56, 98, 100, 105,
English in the Liturgy 142, 107,110,113,115,122,129,
164 135-138, 140, 142, 153, 161,
International Consultation on 164s., 186
English Texts 145 nella riforma protestante 90-
Iraq 31, 238 92, 94s., I l i
Irlanda del Nord 30, 197, 250 lavanda
islam (musulmani) 30s., 172, - dei piedi 54s.
258, 265, 268 - delle mani 70
2 9 1
matrimonio 15,1109, 199, 255 Meyer, Hans Bernhard 206-
impegno matrimoniale 170 208
Matteo (evangelista) 162 Michel, Virgil 131, 212s., 216
Maximos IV (patriarca) 138 Michler, Martino 131
Medellin Milano 55, 75s., 103, 138
vedi Conferenza episcopale editto di - 58, 62
(latino-ami *ricana) Minamiki, Gorge 107, 152
Medio Oriente 31 miracolo/i
Medjugorje 184 vedi eucaristia (miracoli eu-
Meister Eckhart) 86 caristici)
messa/e 9-11, 49, 84-86, 89s., missionari 102s., 106s., 152s.,
97-100, 104,1106, 108, 110, 158, 164
118, 140s., 180, 183, 215, chiesa missionaria 53, 156,
237,250 166
ascoltare - 102, 105 mistero 41s.
- come sacrificio 83, 89s., vedi anche cristianesimo (e
95, 97, 100 culti misterici); pasqua
- concelebrata 141 (mistero pasquale)
- di Strasburgo 92 Mitchell, Nathan 268
- dialogata 120, 122s. Mitra (divinità persiana) 53s.,
- funebre 195, 233 164
- per i defunti 85 s. Möhler, Johann Adam 112
- privata 74, 81s., 90, 100, Mohlberg, Cunibert 121
141 monache e movimento liturgi-
- simultanee 108, 141 co 125
- tridentina 247 Mont César 115, 118
- vespertina 133s. Montserrat 13 Os.
- votive 74, 79 morte 67, 178, 196
vedi anche eucaristia atteggiamenti di fronte alla -
Messale 65, 77, 81, 98s., 115 232-234
vedi sopra Messale Romano - e risurrezione 31, 37, 39,
Messico 194s. 182,231
Metodio (evangelizzatore degli Moser, Karl 123
Slavi) 164s., 167 movimento liturgico 10-12, 26,
metodisti 111, 265 117-148
Metz, Johann Baptist 39 Austria 126s., 134
Metzger, Fritz 123 Belgio 118, 120, 125s., 133
2 9 3
parole ebraiche Usate nel culto Pérez-Rodriguez, Arturo L.
cristiano 163 199
parrocchia/e 74 108, 110 Perret, Auguste 123
gemellaggi tra - 231 Phan, Peter 170s., 240-243
- caratterizzate etnicamen- Pierce Beaver, R. 157
te 191 Pinsk, Johannes 123
- di periferia| 245 Pio IV (papa) 98
- urbane 2l^s., 244s. Pio V (papa) 81, 99
Parsch, Pius 126) Pio VI (papa) 110
partecipazione j e i laici 6, 82- Pio X (papa) 119
84, 95, 105s., 108, 113s., Pio XII (papa) 26, 113, 135s.
118, 133, 135s., 250-252, Pipino il breve 78s.
256s. Pistoia (sinodo di - ) 6, 108-
- al calice 13,83,98, 140 111, 139
- alla comunione 82 Pontificale 81
pasqua 37, 48, 52, 64, 66s., 79, Pontificia commissione biblica
100, 141 43,159
agnello pasquale 162 post-modernismo 240-246,248
mistero pasquale 39, 153, Power, David N. 206
231 Pranzo di Babette (II-) 20s.
- ebraica 14, 48 predicazione 42, 45, 52, 61, 95,
veglia pasquale 66, 73, 109, 100, 102, 110s., 140, 209,
121, 134 246, 249, 262
Patterson, John 135 - non liturgica, laica 83,
Pecklers, Keith F. 169, 219, 181
241,262 vedi anche sermone/i
pellegrinaggio 15, 22s., 33, 75, preghiera (ufficio) della sera
155, 178s., 188, 202, 262s. 35, 72, 94s., 136, 141, 163,
- alle tombe dei martiri 74 260
vedi anche islam ( h a j j ) vespri 35, 115, 163
penitenza/e 107, 179, 205 vedi anche funzioni vesperti-
- pubblica 207 ne; liturgia delle ore; lodi
sacramento della - 27, 103 preghiera eucaristica 38-41,59,
pentecoste 48, 79, 153 61, 65, 70, 76, 82, 84, 94,
fondamento dell'incultura- 109, 147, 250
zione 153, 156 consacrazione (durante la - )
- ebraica 48 40s., 70, 84, 93, 180
2 9 5
Romero, Gilbert 200 S. Maria ad Martyres (basilica
rosario 11, 83, 1 76s., 191 di - ) 69
Rouen (concilio di - ) 82 Sanctus 41, 105
rubriche 9s., 97, 100, 107,143, santi 41, 69, 100, 181, 192,200
237 comunione dei - 178, 228
Rynne, Xavier 1 ^9 culto dei - 33, 83, 89, 108,
181, 191, 199s.
sabato 48, 52, IC >2 reliquie dei - 72, 108
- santo 109, 134 Sartore, Domenico 130, 175s.,
Sacra congrega zione dei riti 186s.
99s., 135 Savonarola, Girolamo 88
vedi anche Congregazione Schillebeeckx, Edward 38
per il culto divino Schmidt, Herman 206
sacramentalità del mondo/del- Schmidt-Lauber, Hans-Chris-
la quotidianità 216, 227, toph 127
237,239 Schott, Anselm 115
Sacramentario 81 Schuster, Ildebrando 130
sacramento/i 26s., 109, 121, Schwartz, Diobald 92
141,217,251 Schwartz, Rudolf 122
- in Lutero 89s. scienze sociali 16, 18s., 15 ls.
vedi anche alle singole voci Scrittura, sacre Scritture
(battesimo, confermazio- vedi Bibbia
ne, eucaristia ecc.) Searle, Mark 16
sacramentum 54 semiotica 5, 15, 18
sacro Cuore 108 Senn, Frank 74, 85s., 91, 93,
Sailer, Johann Michael 112s. 95s., 111,248
Saliers, Don E. 23Os. Sennett, Richard 221
salmi 31, 47, 72, 83,260 Sergio I (papa siriano) 77
salvezza 37, 52, 167 sermone/i 11, 110s., 191, 193,
calice della - 70 230
storia della - 38 - natalizi di Lutero 209s.
S. Giovanni in Laterano (basili- servizi di comunione
ca di - ) 63, 76 vedi comunione (riti di - )
S. Paolo fuori le mura (basilica Settanta (LXX) 24
di - ) 256 settimana di preghiera per l'u-
S. Pietro in Vaticano (basilica nità dei cristiani 256, 265
di - ) 35, 102, 138 settimana santa 71,120,134,182
2 9 7
ufficio divino (ppus Dei) 25, vespri
101, 141, I vedi preghiera (ufficio) della
ultima cena 49, ^1, 128 sera
Underhill, Evelyh 214-216,223 Vietnam 143, 170s.
unzione/i (l'ungere) 27, 54, vita e liturgia 29-33, 148, 203-
198 I 208, 209-212, 214s., 226-
relativamente ai malati 15, 228, 236s.
163 vedi anche comunità; preoccu-
pazioni sociali/politiche
Valenziano, Crispino 159 Vittore (papa) 56
vangelo 155-158, 160-162, 232
Vaticano I (concilio - ) 113 Wagner, Johannes 127
Vaticano II (concilio - ) 11, Wépion 126
18s., 27s., 32-34, 136-145, Wesley, Charles 111
165-168, 247s, Wesley, John 111
culto, cultura, inculturazio- Wessenberg, Ignaz Heinrich
ne 149, 157s. von 110
- e religione popolare 183- White, James F. 102, 104, 123,
186 144
Veni, creator Spiritus 38 wicca 261
vescovo/i 18, 28, 51s., 56, 60- Wintersig, Athanasius 125
64, 66, 71-76, 78, 96-98, Wolter, Maurus e Placidus 115
100s., 108, 110, 117, 133- Worship (rivista) 10s., 132, 170,
135, 137-139, 142, 148, 217s., 268
171s., 178s., 183, 186, 188s., Wright, Frank Lloyd 240
201, 204, 208s., 246, 256,
263 Yarnold, Edward J. 62
sinodo dei - 160
- di Roma (papa/i) 69,72s., Zwingli, Ulrich 90-92, 97
138 Canone della messa (Il -) 90
Introduzione 5
1. Liturgia e rito 9
Introduzione 9
Il potere trasformante del simbolo e del rito 12
Una definizione di liturgia 24
La liturgia come incontro con Dio 36
Conclusione 44
2 9 9
4. Una liturgici che cambia 117
Il movimento liturgico nel XX secolo 117
Le riforme liturgiche del concilio Vaticano II 136
La cooperazione ecumenica post-conciliare 145
Conclusione 148
149
149
nei contesti teologici e culturali 153
Il concilio Vaticano II e l'inculturazione liturgica 165
L'inculturazione liturgica nei contesti ecumenici
e multiculturali del nuovo millennio 168
Conclusione 173
Conclusione 264
Bibliografia 271
Indice dei passi biblici, delle fonti e dei documenti .... 279
3 0 1
Giornale di teologia
BIBLIOTECA DI AGGIORNAMENTO TEOLOGICO
91 R. Gibellini (ed.), La nuova frontiera 106 R. Niebuhr, Una teologia per la prassi.
della teologia in America Latina Autobiografìa intellettuale
Seconda edizione aumentata
107 G. Bianchi (ed.), Dio in pubblico. Il
92 K. Fiissel - J. B. Metz - J. Moltmann e dibattito su fede e politica in Italia
altri, Ancora sulla 'teologia politi-ca':
il dibattito continua 108 H. Gollwitzer, La rivoluzione capitali-
sta
93 I. Fetscher - M. Machovec (edd.),
Marxisti di fronte a Gesù 109 R. Gibellini (ed.), Teologia nera
Seconda edizione
110 F. Schleiermacher, Lo studio della teo-
94 D. Antiseri, Dal non-senso all'invoca- logia
zione. L'itinerario speculativo di Paul Seconda edizione
M. van Buren
111 H. Häring - K. J. Kuschel (edd.), Hans
Kiing. Itinerario e opera
95 W. Schmithals, L'apocalittica. In-tro-
duzione e interpretazione
112 J. B. Cobb J r . - D. R. Griffin, Teologia
Seconda edizione
del processo. Una esposizione intro-
duttiva
96 R. Ruether, Per una teologia della li-
berazione della donna, del corpo, del- 113 P. Ricoeur - E. Jiingel, Dire Dio. Per
la natura un'ermeneutica del linguaggio religioso
Seconda edizione Quarta edizione
102 B. Lonergan, Ragione e fede di fron-te 119 Autori Vari, Gli dèi in cucina. Ven-
a Dio t'anni di filosofìa in Francia
Seconda edizione
120 G. Alberigo (ed.), Verso la chiesa del
terzo millennio
103 G. Palo (ed.), L'aborto nella discussio-
ne teologica cattolica
121 A. von Harnack, L'essenza del cri-stia-
nesimo
104 J.-P. Jossua e altri, Il manifesto della li- Terza edizione
bertà cristiana
122 R. Gibellini, Teologia e ragione. Itine-
105 C. Failla, Introduzione a Marx rario e opera di Wolfhart Pannenberg
Giornale di teologia
BIBLIOTECA DI AGGIORNAMENTO TEOLOGICO
168 M. Baldini, Il linguaggio dei mistici 183 J. Schmitz, Filosofìa della religione
Seconda edizione aumentata Seconda edizione
!
Giornale di teologia
BIBLIOTECA DI AGGI ORNAMENTO TEOLOGICO
184 F.-X. Kaufmann - J . S . Metz, Capacità 201 N. Lohfink, L'alleanza mai revocata.
di futuro. Moviment di. a nel c Riflessioni esegetiche per il dialogo
stianesimo tra cristiani ed ebrei
185 B. Bujo, Teologia afr cana nel suo con- 202 R. Mancini, Comunicazione come ecu-
testo sociale mene. Il significato antropologico e
teologico dell'etica comunicativa
186 J. Sudbrack, La nuo> a religiosità - una
sfida per i cristiani 203 P. Eicher (ed.), La controversia sui
chierici. La sfida di Eugen Drewer-
187 H. Zirker, Critica de Ila religione
199 K. Barth, Iniziare dall'inizio. Antolo- 218 J.B. Lötz, Dall'essere al sacro. Il pen-
gia di testi siero metafìsico dopo Heidegger
200 J. Moltmann, Che cos'è oggi la teolo- 219 N. Mette - H. Steinkamp, Scienze so-
gia? ciali e teologia pratica
Giornale di teologia
BIBLIOTECA DI AGGIORNAMENTO TEOLOGICO
222 J. Splett, La dottrina della Trinità in 238 P. Gibert, Breve storia dell'esegesi
Hegel biblica
223 O. Cullmann, L'origine della festa del 239 G. Moretto, La stella dei filosofi
Natale
Terza edizione 240 E. Moltmann-Wendel, Il mio corpo
sono io. Nuove vie verso la corporeità
224 O. Cullmann, Le vie dell'unità cristia-
na 241 I. Sanna, Fede, scienza e fine del mon-
do. Come sperare oggi
225 A. Cislaghi, Interruzione e corrispon-
denza. Il pensiero teologico di 242 B.-J. Hilberath, Pneumatologia
Eberhard Jüngel
243 J.M. Hopkins, Verso una cristologia
226 R. Gibellini (ed.), Percorsi di teologia femminista. Gesù di Nazareth, le don-
africana ne europee e la crisi cristologica
227 W.G. Jeanrond, L'ermeneutica teolo- 244 F X. D'Sa, Dio, l'Uno e Trino e l'U-
gica. Sviluppo e significato no-Tutto
228 J.-P. Wils - D. Mieth (edd.), Concetti 245 K.-J. Kuschel, La controversia su
fondamentali dell'etica cristiana Abramo
232 J. Moltmann, Chi è Cristo per noi og- 250 A. Ganoczy, Teologia della natura
gi?
251 F.J. Stendebach, Introduzione all'An-
233 E. Chiavacci, Invito alla teologia mo- tico Testamento
rale
Quarta edizione 252 G. Moretto, La dimensione religiosa
in Gadamer
234 E. Schillebeeckx - C. Halkes, Maria:
ieri, oggi, domani 253 W. Jens - K.-J. Kuschel, Dialogo con
Hans Kiing. Con la lezione di conge-
235 G. Scherer, Il problema della morte do di Hans Kiing
nella filosofìa
Seconda edizione 254 J. Moltmann, La fonte della vita. Lo
Spirito Santo e la teologia della vita
236 H. Waldenfels, H fenomeno del cri-
stianesimo. Una religione mondiale 255 M. Kehl, Dove va la Chiesa? Una dia-
nel mondo delle religioni gnosi del nostro tempo
Giornale di teologia
BIBLIOTECA DI AGGIORNAMENTO TEOLOGICO
257 P. Tillich, L'irrilevanza e la rilevanza 274 R. Wind - C.L. Nessan, Chi sei tu, o Cri-
del messaggio cristiano per l'umanità sto? Un libro ecumenico di lettura sulla
oggi Cristologia di Dietrich Bonhoeffer
258 J. Moltmann (ed.), Biografìa e teolo- 275 W. Pannenberg, Storia e problemi del-
gia. Itinerari di teologi la teologia evangelica contemporanea
in Germania. Da Schleiermacher fino
259 Johann-Adam-Möh^er-Institut (ed.), a Barth e Tillich
Le Chiese cristiane bel Duemila
276 A. Maffeis (ed.), Dossier sulla giustifi-
260 G. Gutiérrez, Densità del presente cazione. La dichiarazione congiunta
cattolico-luterana, commento e dibat-
tito teologico
261 R. Panikkar, L'esperienza di Dio
Seconda edizione |
277 H. Häring, Il male nel mondo. Poten-
za o impotenza di Dio?
262 E.A. Johnson, Colei che è. Il mistero
di Dio nel discorso! teologico femmi- 278 G.W.F. Hegel, Vita di Gesù
nista
279 M. Kehl, E cosa viene dopo la fìne?
263 T. Sundermeier, Comprendere lo stra- Sulla fine del mondo e sul compimen-
niero. Una ermeneutica interculturale to finale, sulla reincarnazione e sulla
risurrezione
264 K.C. Felmy, La teologia ortodossa
contemporanea. Una introduzione
280 H. Verweyen, La teologia nel segno
265 Ph. Rouillard, Storia della penitenza della ragione debole
dalle origini ai nostri giorni
Seconda edizione 281 J. Audinet, Il tempo del meticciato
266 G. Greshake, La fede nel Dio trinita- 282 J. Arnould, Dio, la scimmia e il big
rio. Una chiave per comprendere bang
Terza edizione
283 J. Dupuis, Il cristianesimo e le religio-
267 A. Benz, Il futuro dell'universo. Caso, ni. Dallo scontro all'incontro
caos, Dio? Seconda edizione
268 Ch. Perrot, Gesù 284 Ch. Duquoc, «Credo la Chiesa». Pre-
Seconda edizione carietà istituzionale e Regno di Dio
269 C. Zuccaro, La vita umana nella rifles- 285 H J . Pottmeyer, Il ruolo del Papato nel
sione etica terzo millennio
Seconda edizione
286 F.-X. Kaufmann, Quale futuro per il
270 J. Arnould, La teologia dopo Darwin. Cristianesimo?
Elementi per una teologia della crea-
zione in una prospettiva evoluzionista 287 C. Zuccaro, Il morire umano. Un invi-
to alla teologia morale
271 B. Forte, Dove va il Cristianesimo? 288 C. Geffré, Credere e interpretare. La
Seconda edizione svolta ermeneutica della teologia
272 J.R. Quinn, Per una riforma del Papa- 289 B. McGinn, I dottori della chiesa.
to. L'impegnativo appello all'unità dei Trentatré uomini e donne che hanno
cristiani dato forma al cristianesimo
Giornale di teologia
BIBLIOTECA DI AGGIORNAMENTO TEOLOGICO
290 Ch. Duquoc, Cristianesimo, memoria 310 J.M. Robinson, I detti di Gesù. Il
per il futuro «Proto-Vangelo» dei Detti Q, in italia-
no
291 R. Pesch, I fondamenti biblici del pri-
mato
311 J. Ratzinger, La fraternità cristiana
292 M. de Franca Miranda, Inculturazione
312 J. Ratzinger - H. Maier, Democrazia
della fede. Un approccio teologico
nella Chiesa
293 L. Sowie Cahill, Sesso, genere e etica
cristiana 313 E. Johnson, Vera nostra sorella. Una
teologia di Maria nella comunione dei
294 D. Mieth, La dittatura dei geni. La bio- santi
tecnica tra fattibilità e dignità umana
314 T.R. Peters - C. Urban, La provoca-
295 X. Tilliette, I filosofi leggono la Bibbia zione del discorso su Dio
296 M. Henry, Parole del Cristo
315 PF. Knitter, Introduzione alle teologie
297 C. Zuccaro, Bioetica e valori nel post- delle religioni
moderno. Il dialogo con la cultura li-
berale 316 W. Kasper, Vie dell'unità. Prospettive
per l'ecumenismo
298 Ch. Duquoc, L'unico Cristo. La sinfo-
nia differita 317 E. Bethge, Leggere Bonhoeffer
299 H. Kiing, Perché un'etica mondiale? 318 K. J. Kuschel, «L'ebreo, il cristiano, e
Religione ed etica in tempi di globa-
il musulmano s'incontrano»?
lizzazione
«Nathan il saggio» di Lessing
300 V. Fabella - R.S. Sugirtharajah (edd.),
Dizionario delle teologie del Terzo 319 D. Mieth, Scuola di etica
Mondo
320 K. Müller, Ai confini del sapere. In-
301 A. Raffelt - H. Verweyen, Leggere troduzione alla filosofìa per teologhe
Karl Rahner e teologi
302 Ch. Duquoc, La teologia in esilio. La
321 K. Löning - E. Zenger, In principio
sfida della sua sopravvivenza nella
cultura contemporanea Dio creò. Teologie bibliche della crea-
zione
303 A.T. Khoury, Vivere in pace con i mu-
sulmani. Potenziali di pace dell'Islam 322 M. Amaladoss - R. Gibellini (edd.),
Teologia in Asia
304 G. O'Collins, Incarnazione
305 W. Kasper, Sacramento dell'unità. 323 Benedetto XVI, Dove era Dio? Il di-
Eucaristia e Chiesa scorso di Auschwitz
306 J. Moltmann, Nella fine - l'inizio. Una 324 C. Dotolo, Un cristianesimo possibile.
piccola teologia della speranza
Tra postmodernità e ricerca religiosa
307 B. Kollmann, Storie di miracoli nel
Nuovo Testamento 325 W. Kasper, Servitori della gioia. Esi-
stenza sacerdotale - Servizio sacerdo-
308 H. Küng, La donna nel cristianesimo tale
309 R. Miggelbrink, L'ira di Dio. Il signifi- 326 K.F. Pecklers, Liturgia. La dimensione
cato di una provocante tradizione bi- storica e teologica del culto cristiano e
blica le sfide del domani
sullo stesse argomento presso l'Editrice Queriniana
ADOLF ADAM
CORSO DI LITURGIA
Grandi opere
quinta edizione • pagine 424 • ISBN 978-88-399-0078-4
ADOLF ADAM
L'ANNO LITURGICO
COME ITINERARIO DI FEDE
Spiritualità 45
pagine 304 • ISBN 978-88-399-1345-6
CENTRO NAZIONALE
DI PASTORALE LITURGICA - PARIGI
EXSULTET
Enciclopedia pratica della liturgia
Grandi opere
pagine 504 • ISBN 978-88-399-0107-1