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94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ.

25/10/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 1a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

INTRODUZIONE GENERALE.
Si svilupperà, in questo corso, una visione generale della storia della liturgia dall’epoca del
Nuovo Testamento fino al Vaticano II. Secondo appropriate chiavi di lettura, il corso analizza in
ogni epoca i fattori responsabili dello sviluppo del culto cristiano e indica le loro conseguenze
nelle epoche seguenti. Infine, verrà messo in rilievo l’influsso della cultura sullo sviluppo delle
diverse forme liturgiche.
Per una questione pratica il Docente ha dato a ciascun studente due fotocopie fronte/retro,
dove per ogni lezione è indicato l’argomento con le relative letture da farsi per la preparazione
dell’esame.
Altresì si possono suggerire alcuni testi importanti:
1) Scientia Liturgica in cinque volumi, che sono fondamentali per gli studi liturgici.
2) Storia della Liturgia attraverso le epoche culturali, Ed. CLV.
3) Il culto cristiano in Occidente, Enrico Cattaneo, Ed. CLV.
4) Storia della Liturgia, Ed. San Paolo.
5) Liturgia Eucaristica, Vincenzo Raffa, Ed. CLV.
6) C'è un testo solo in inglese, dove si parla della Messa Stazionale: la città è vista come
spazio celebrativo. La messa stazionale sono le processioni che partivano contemporaneamente
da luoghi diversi per arrivare a celebrare la messa principale (v. il concetto di stazione - statio).
La statio risale intorno al IV secolo e si protrae almeno fino al VIII secolo.
Quando il papa celebrava la statio in un giorno di festa, in città, venivano celebrate le messe
alla sera: vi era la fractio panis, nel senso che i diaconi prendevano la parte dell'ostia del Papa e
la portavano nelle altre Chiese. Ciò stava ad indicare l'unità della Chiesa. Ciò era molto
importate per la celebrazione della Messa stazionale. Nei conventi la Messa aveva le stesse
modalità di quella papale, mentre le messe "private" ricevevano il titolo di "intitulus": anche in
questo caso avveniva la fractio panis.
Secondo il parere del Professore, è bene acquistare e consultare Cattaneo, sopra accennato,
ma è bene avere anche i cinque manuali di Scienza Liturgica (per questo corso il Primo Volume).
Vedere lo schema del professore.

 L'epoca del Nuovo Testamento.


Prima di iniziare l'argomento di oggi, il professore ha fatto una breve panoramica degli
argomenti che affronterà nell'arco di tutto il Semestre, indicati già dal calendario sopra
accennato. E’ molto difficile dire con precisione dove troviamo l’inizio del culto cristiano nel NT.
Gesù stesso non fu sacerdote nel senso stretto, nel senso che non offriva sacrifici nel Tempio, ma
fu piuttosto fedele alla Sinagoga. Si nota come la storia del popolo di Israele sia lunga e
travagliata che raggiunge uno stadio importante proprio con l’esilio in Babilonia, intorno al VI
secolo a.C. In questo periodo si nota come, a poco a poco, la Sinagoga diventava sempre di più
centro della Comunità ebraica. Ciò fa comprendere quanto sia difficile vedere un legame tra il
Giudaismo e la figura di Gesù. Anche la tradizione ebraica, in riferimento al sabato, quando
invita a celebrarlo e a ricordarlo, c’è il richiamo al sabato come giorno in cui il Signore riposa
dalla creazione: per gli Ebrei è un giorno sacro nel quale non è ammesso alcun tipo di lavoro
manuale. E’, dunque, un giorno di preghiera e di celebrazione, cioè di festa. La Lettera Enciclica
di Giovanni Paolo II, Dies Domini, richiamandosi all’importanza della Domenica, come giorno
del Signore, ci fa avvicinare al concetto sopra esposto, pur con le dovute differenze, tra il modo
di pensare del cristiano e quello di pensare dell’Ebreo, per il quale il Sabato è molto di più che
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ricordarlo semplicemente. E’ un riportare nel presente il passato: non è un fatto intellettuale, ma


è molto più profonda, che tocca il cuore, come sede dei sentimenti. Dunque, il sabato del settimo
giorno diventa la celebrazione della creazione del mondo. Per esempio, quando Gesù istituisce
l’Eucaristia, dicendo “Mangiate il mio corpo… Bevete il mio Sangue”, a livello intellettuale può
dire poca cosa, mentre, richiamandoci al contesto e all’ambiente in cui Gesù l’ha detto,
acquisisce un significato molto più profondo. Nella stessa mentalità ebraica quelle parole di Gesù
vogliono dire: prendete tutto quello che sono, prendete il mio passato, prendete le mie
sofferenze, il mio calvario e la mia gloria. Quindi, quando nel NT si parla della mentalità ebraica,
si nota già una differenza con la nuova mentalità che Gesù intende inculcare ai suoi discepoli.
Anche a livello liturgico si noteranno delle differenze.
Circa l’origine del sabato, alcuni studiosi dicono che era legato ad un giorno sfortunato che
corrisponderebbe all’inizio del periodo dell’esilio in Babilonia, un giorno in cui gli dei devono
essere rispettati e venerati. Altri studiosi, invece, seguono la linea della Genesi, in merito al
settimo giorno, come compimento della creazione. Con l’esilio in Babilonia, il sabato acquisisce
un significato spirituale più forte perché gli Ebrei sperimentano per la prima volta il senso
universale della presenza di Dio nella storia dell’uomo, tanto da non legarlo più al contesto della
terra promessa. Si arriverà così ad una maturità più profonda, con la quale arrivare ad
interiorizzare la Legge. L’idea del Sabato è presente nel cuore di ciascun Ebreo, nell’arco di tutta
la settimana, tanto che sarà il punto di riferimento principale dell’agire di ogni Ebreo che lavora
in funzione del sabato stesso, come giorno sacro del Signore: ad esempio al Sabato erano
riservati alcuni cibi, per cui l’Ebreo, potendo acquistare le vivande solo al Giovedì (era l’unico
giorno di mercato), preparava già per il sabato.
Con Gesù si introdurrà una grossa spaccatura tra il mondo giudaico e quello cristiano dal
momento che egli ribalta l’idea del sabato: non è più l’uomo per il sabato, ma è il sabato per
l’uomo. Con questa nuova posizione, il Maestro non intende sopprimere il valore originario del
sabato, ma desidera mettere in luce l’ipocrisia degli Ebrei che erano finiti per vedere l’obbligo di
“osservare il sabato” più da un punto di vista legalistico e ritualistico, svuotandolo del suo più
autentico significato. Un esempio concreto è la guarigione del paralitico nel giorno di sabato.
Certamente Cristo si propone ed è la luce della storia umana e del cammino dell'uomo
nell'orizzonte della Sacra Liturgia. E' interessante vedere come la Chiesa, a partire dai primi
secoli, ha fatto un certo cammino confrontandosi con il mondo pagano che ha lasciato al
cristianesimo alcuni suoi riflessi. In tal senso è interessante notare il rapporto esistente tra il
mondo pagano, il mondo ebraico e quello cristiano.
In effetti, a livello scientifico non si può dare piena soddisfazione alle domande che sorgono,
perché non ci sono documentazioni tali da fornire dettagli precisi di queste epoche antiche.
La Chiesa ha visto il passaggio dalla lingua greca a quella latina, registrando un cambiamento
culturale molto forte: non è da meno il cambiamento politico causato dalla svolta costantiniana
che reso possibile il passaggio della religione cristiana da "religio illicita" a "religio licita".
E' importante anche il discorso dell'iniziazione cristiana vista con lo sguardo dei Padri della
Chiesa: in questo ambito non è assente il concetto di "inculturazione".
E' interessante anche vedere la differenza tra i diritti (es. v. il diritto romano e quello
gallicano), come pure la differenza tra le liturgie Occidentali (ad es. la liturgia romana e quella
Gallicana; le preghiere di benedizione).
Ci sarà una lezione dedicata (6.12.2000) all'epoca medioevale, quando si registrerà il
ripristino delle forme classiche. In questo corso si vedranno altre problematiche, come ad
esempio l'allegorismo.
Non verrà meno l'argomento legato alla riforma tridentina, tenendo conto che il Concilio di
Trento fu un vento di straordinaria portata per la Chiesa che sentiva la profonda esigenza di
rinnovarsi teologicamente, spiritualmente e liturgicamente. Certamente l'epoca della Riforma fu
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una delle epoche più travagliate della Chiesa, ma fu l'occasione migliore per portare la Chiesa a
riscoprire la sua identità ed il valore della sua missione universale.
Il corso toccherà anche l'epoca dell'illuminismo, quello della restaurazione dell'800 (v. il
reazionismo liturgico), sino al movimento liturgico classico promosso dal Concilio Vaticano II.

___________Note Personali di Studio_____________________________________________

08/11/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 2a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

Può essere molto difficile parlare e di distinguere le diverse forme di culto cristiano
nell'ambiente giudaico. E’ una tematica piuttosto particolare e difficile che va alla radice del culto
stesso, nel quale non sono estranei l'influsso ellenistico ed ebraico; si tratta di un culto che si
sviluppa dalla radice ebraica e in certe forme anche dall’influsso ellenistico, ma non
sopravalutiamo questo ultimo aspetto perché le radici ebraiche restano fondamentali. Nella
lingua di oggi la parola culto è più ampia. Il culto antico come quello di oggi svolse un ruolo
pubblico, come prima istituzione, intesa come un’espressione che si annuncia nel terreno della
teologia; esso diventa espressione viva della funzione sacerdotale di Cristo. Si tratta di un culto
reso a Dio dalla Chiesa: quelli che partecipano a questo culto sono i fedeli, cioè coloro che sono
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chiamati nella Chiesa; si tratta del popolo eletto (è un’espressione presa dalla letteratura biblica).
Questo culto si rende evidente per mezzo di segni sensibili e tramite riti istituiti nel vecchio
culto. Questa definizione un po’ complessa la si può trovare nel volume La Chiesa in preghiera,
di Martimort, Vol. I (Principi della Liturgia). Una tale definizione è il frutto di una evoluzione del
culto che in origine non aveva questa complessità, perché la liturgia primitiva era diversa dalla
nostra. Come ogni cosa viva questa istituzione è cresciuta come un albero che inizia la sua vita
proprio dal seme. Le fonti di cui ci serviremo partiranno dagli scritti neotestamentari, non
escludendo però quelli dell’Antico Testamento.
Oltre a questo fatto abbiamo altri caratteri che riguardano il culto: in primo luogo c’è un
carattere liturgico e canonico che si esprime, nei primi secoli attraverso canoni conciliari ed altri
scritti che spesso vengono messi sotto il nome degli Apostoli, anche se non sono tutti di origine
apostolica, come ad es., la Didaché o dottrina dei dodici Apostoli. Abbiamo anche una didascalia
degli Apostoli che è molto simile alla Didaché: si tratta di u insegnamento degli Apostoli che
risale alla prima metà del III secolo, la cui origine è sicuramente siriana.
E' importante vedere anche lo sviluppo del culto cristiano nella tradizione ebraica, dove Gesù
è cresciuto e ha dato se stesso, sino all'effusione del sangue sulla croce. La sua Risurrezione
garantisce il valore e l'efficacia del culto cristiano. Gesù è sommo Sacerdote a causa della croce:
egli offrirà il sacrificio una volta sola. Egli è legato alla Sinagoga 1, non è in contrapposizione ad
essa, ma la sua azione comporta la novità del Vangelo. Già gli Ebrei cantavano i Salmi e
curavano la liturgia dei riti. A tale riguardo non tutti gli studiosi sono d’accordo: per alcuni gli
Ebrei non cantavano i Salmi nella Sinagoga. I testi più recenti parlano della celebrazione dei
Salmi in comune, ma ci sono testimonianze per le quali c'è solo un cantore e non il coro a
cantare il Salmo.
Circa il sabato, esso è un giorno prezioso: tutta la settimana era il tempo di preparazione per
il sabato (v. Dies Domini di Giovanni Paolo II). E' importante apprezzare il valore ed il senso del
sabato come giorno sacro e di festa. Gli Ebrei del I secolo ci insegnano che il giorno sacro va
vissuto e celebrato pienamente. Anche per noi cristiani la settimana dovrebbe essere un tempo di
preparazione per celebrare pienamente il giorno del Signore, cioè la sua risurrezione. In
sostanza, tutto andava verso la celebrazione del Sabato. Da qui si riscopre il senso ricchissimo
del “Giorno del Signore”. Così il tempo di Cristo va vissuto come un tempo di preparazione per
i cristiani sia di ieri, sia di oggi.
Se la Sinagoga è luogo di preghiera e di culto, e subentra al Tempio nel periodo post-esilico,
essa costituisce il centro della vita della società ebraica. I riti di sacrificio avranno il carattere del
valore spirituale (v. l'interiorizzazione della Legge) così che la Sinagoga diventa luogo di ascolto
e di insegnamento. Così è importante vedere Gesù nel contesto della Sinagoga: sarà colui che
predicherà, insegnerà e svolgerà il suo ministero di Sommo Sacerdotale. La Sinagoga sarà
importante per lo sviluppo della Chiesa dei primi secoli: il suo tempo d'oro sarà proprio il primo
secolo, quando ci saranno i grandi maestri ebraici. In quel tempo non esisteva ancora la liturgia
del venerdì: vi era solo l'usanza di accendere le candele il venerdì sera, e la cena sacra era

1
Il culto giudaico era essenzialmente legato al tempio di Gerusalemme; era il solo culto della liturgia ufficiale.
Solo con l'esilio di Babilonia sorsero le sinagoghe come dei luoghi di preghiera, ma non furono mai luoghi di
culto per l’offerta dei sacrifici perché ciò avveniva solo nel tempio. Il culto sinagogale comportava delle letture,
dei canti e un’istruzione. Queste tre parti verranno tramandate tali e quali nel mondo cristiano e costituiranno la
prima parte della messa, quella che noi chiamiamo Liturgia della Parola; invece, per la parte sacrificale non c'è
più alcun legame tra il culto giudaico e quello cristiano, perché il sacrificio cristiano è un sacrificio incruento e
non consiste nell’uccidere degli animali in onore di Dio; quest'ultimo, tra l’altro, è anche esso legato ad un luogo
ed ad un tempo determinato. Però queste coordinate spazio-temporali avevano ed hanno nei referti cristiani
primitivi un’importanza molto diversa non solo dal rito ebraico, ma anche dal nostro culto odierno. E’ una
considerazione importante che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi perché si tratta del nucleo del culto
antico che rimane sostanzialmente diverso dal culto odierno .
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presieduta dal capo famiglia. Tutto si svolgeva nell’ambiente familiare. Questo giustifica
l’assenza di una liturgia del venerdì sera. Dopo la cena i giudeo-cristiani andavano alla Sinagoga
per l’ascolto della Parola di Dio e vivere la Torah.
Dunque, i giudeo-cristiani del tempo rimasero fedeli al culto del tempio (es., gli Apostoli che
ogni giorno salivano al tempio per le ore di preghiera: la nona, per il pomeriggio); generalmente i
sacrifici erano legati all'ultima ora del giorno (sono i sacrifici della sera). I giudeo cristiani
rimasero fedeli a ciò finché esistesse il tempio, ma quando, nel 70 d.C. il tempio di Gerusalemme
fu distrutto, ad opera del futuro imperatore Tito, cessò anche il culto giudaico. Da quel
momento l’attività religiosa degli Ebrei si riversò nelle sinagoghe, anche se il culto giudaico
divenne puramente un culto di preghiera.
In tal senso una testimonianza ci viene proprio dagli Atti degli Apostoli che parla dei cristiani
che si riunivano nelle loro case per pregare e per spezzare il pane (fractio panis è uno dei termini
più antichi per designare l'Eucaristia). Questa situazione un po’ complessa dei primi cristiani di
Gerusalemme comportava due orientamenti, cioè la fedeltà alle osservanze giudaiche, da una
parte, e, dall'altra, l'osservanza delle tradizioni propriamente cristiane, ma solo nell’ambito delle
loro case. Questa situazione, come si è già detto durò fino alla distruzione del tempio di
Gerusalemme, nel 70. Ci fu qualche sopravvivenza per una cinquantina di anni fino all’arrivo di
Bar Kof Bak, il quale negli anni 132-135 fu domato dall’imperatore Adriano. E’ un momento
anche di transizione dove non mancheranno i diversi nazionalismi che sfoceranno nel sangue. Nel
135 la velleità di indipendenza ebraica fu distrutta completamente e l'entità politica della
religione venne meno. Infatti Adriano costruirà un tempio pagano, al posto di quello ebraico,
così da cancellare la tradizione giudaica.
I cristiani, già prima della distruzione del tempio, si erano in gran parte allontanati da
Gerusalemme e gli stessi si sparpagliarono oltre il Giordano, da Pella fino ad Antiochia ed altre
città fuori dalla Palestina. A Gerusalemme la dinastia dei vescovi giudeo-cristiani finì e al suo
posto subentrò quella di vescovi provenienti dall'ellenismo greco. Ciò cambierà enormemente la
struttura della prima comunità cristiana primitiva, il che influì evidentemente anche sulla struttura
liturgica. Ciò ci permetterà di studiare e di comprendere i nuovi aspetti del culto cristiano nel
quale si possono notare due caratteristiche:
a) all’eccellenza del culto ebraico che si celebrava con il sacrificio cruento degli animali, il
culto cristiano è spirituale nella sua espressione ed è sobrio anche nella forma. Dio è
spirito in verità e spirito (un esempio concreto è la samaritana);
b) il culto cristiano non è legato a nessun luogo.
Queste caratteristiche le possiamo già notare nel dialogo di Gesù con la Samaritana al pozzo
di Giacobbe (Gv 4, 23-24), dove si trova l’espressione: Dio è Spirito e i suoi veri adoratori lo
adorano in spirito e verità. E’ un culto nuovo che non è legato a nessun luogo. La samaritana
obiettava a Gesù: Voi Giudei dite che si deve adorare Dio nel tempio di Gerusalemme. I nostri
Padri con i Samaritani adorano Dio sul monte vicino alla Samaria...Qui si notano dei luoghi di
culto determinati, ma Gesù risponde: Verrà il tempo in cui i veri adoratori lo adoreranno in
spirito e verità. Con questo vuol dire che essi non saranno più legati al tempio di Gerusalemme,
né al tempio di Samaria.
Dunque, Gesù nel dialogo della samaritana caratterizza questo nuovo aspetto e lo presenta
come un messaggio escatologico (verrà un tempo in cui...) che creerà nei cristiani l'attesa del
ritorno immediato del Signore (1Cor 11,26). Si tratta di una delle caratteristiche della nuova
fede.
Questo culto è anche un culto passeggero e transitorio, non destinato a durare per sempre,
poiché è limitato dal giorno del Signore e a causa della condizione peregrina dell’uomo (Eb 13,
14): tale culto indica la transitorietà dell'uomo che quaggiù non ha dimora permanente, ma è alla
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ricerca della città futura. Inoltre questi cristiani hanno considerato Cristo come presente in
mezzo a loro, poiché là dove due o tre erano riuniti nel suo nome era presente (Mt 18,20).
Cristo è anche considerato come il solo mediatore tra Dio e gli uomini, perché da Lui ricevono la
missione da compiere: andate e battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo
(Mt 28, 19). Da Gesù ricevono la regola del culto, cioè della loro condotta: fate questo in
memoria di me (1Cor 11,25). Si tratta, dunque, di un culto spirituale legato alla persona di
Gesù, in un certo modo sempre vivo nella Chiesa che diventa il nuovo centro di culto: è
l'ambiente nel quale si realizza la presenza divina; è il nuovo tempio spirituale nel quale sgorga
l'acqua viva e nel quale è istituito il pane della vita (Gv 2, 21 e Gv 6). Dunque, l'assemblea
cristiana è il nuovo luogo del culto cristiano, anzi, nella misura in cui il cristiano fa parte della
comunità, anche lui diventa tempio di Dio per lo spirito che abita in lui. Lo spirito lo consacra al
servizio di Dio e lo chiama al dovere della santità personale (1Cor 3, 15-17 e 2Cor 6, 14 sino
2Cor 7,21). Si creano così le condizioni della nuova fede cristiana, così da vedere la prima
comunità cristiana di Gerusalemme secondo At 2, 42, dove si distingue l’espressione: Erano
assidui all’insegnamento degli Apostoli, che indica la comunione fraterna e la frazione del pane
(At 2, 46).
In un altro passo degli Atti degli Apostoli viene precisato un luogo dove gli Apostoli si
riunivano abitualmente, dopo l'ascensione: si tratta della sala alta, dove Gesù aveva istituito
l'Eucaristia prima della sua morte (At 1, 13). Così si viene a creare un legame più o meno
sentimentale con l’eucaristia che celebravano. Un altro luogo lo vediamo comparire nel racconto
degli Atti 12,12, che riguarda la liberazione di Pietro che si reca successivamente nella casa di
Maria, madre di Giovanni, soprannominato Marco, dove era riunita un’assemblea abbastanza
numerosa che pregava.
Un altro esempio lo abbiamo da At 20,8: Paolo, quando ritorna dalla Macedonia per ritornare
a Gerusalemme, si trovò a Tròade, nella regione del Bosforo, dove si reca nella sala alta, nel bel
mezzo di una riunione che si era prolungata tutta la notte, e dove compirà il miracolo
risuscitando un ragazzo di nome Èutico trovato morto, dopo essere precipitato dal terzo piano
della casa.
Questo fa comprendere, allora che il culto cristiano si celebrava in una casa qualunque, un
ambiente profano dove ci poteva essere un spazio sufficiente per accogliere una comunità
abbastanza ristretta. Da questa testimonianza si può vedere che quel tempo non esisteva un
luogo specifico di culto. Ancora nell’anno 200 Clemente Alessandrino giustifica questa
situazione con delle considerazioni teologiche:
«Il culto di Dio non poteva essere legato a un luogo, poiché Dio stesso, come
spirito non era legato ad un luogo. Il culto cristiano e spirituale poteva essere
celebrato dal vescovo. Non è buono e giusto che noi limitiamo l’inafferrabile ad
un luogo e che vogliamo rinchiudere quello che contiene tutto in santuari fatti da
mano d’uomo» (cfr. Clemente Alessandrino Stromata 7, 5).
Da queste parole scaturisce uno dei temi più importanti della polemica antigiudaica: i pagani
adorano le divinità in santuari costruiti da mani d’uomo, mentre i cristiani non adorano tali
manufatti. Nello stesso modo Dio non può essere legato ad un edificio fatto da mano d’uomo:
«Come, del resto - continua Clemente - potrebbe essere santa un’opera di
architetti, di muratori e di artigiani, se invece il concetto di santità è compreso in
un doppio senso, in primo luogo di Dio stesso e l’opera fatta per la sua gloria.
Come allora potremo non considerare in primo luogo, come santuario di Dio, la
Chiesa che una santa coscienza ci rivela creata in suo onore. Questa Chiesa ha un
valore molto più grande senza essere prodotto...ne decorata da mani artigiane e
che la volontà di Dio che rivela è il suo tempio. E intendo, infatti, quando parlo di
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Chiesa non il luogo, ma la comunità dei credenti. Questa è il miglior tempio che
possa accogliere la grandezza e la maestà di Dio» (cfr. Clemente Alessandrino
Stromata 7, 5).
Dunque, quando Clemente parla di Chiesa lo dice in senso sociologico e non geografico, cioè
un luogo specificato nell'ambito della funzione pubblica. Si tratta dell’assemblea dei fedeli, non in
senso topografico. E’ vero che Clemente inizia a conoscere anche questo nuovo senso, cioè un
luogo specifico per la funzione liturgica, ma rimane fedele all’antica tradizione secondo la quale
è la comunità il vero centro di culto cristiano.
Per quanto riguarda il fondamento liturgico, c’è un forte legame al senso sacrificale, ma
rimane difficile vedere il rapporto tra il Tempio e la Sinagoga: anche se si vede nel tempio il
luogo del sacrificio, mentre nella Sinagoga si vede il luogo della Parola, tale distinzione rimane
difficile. Nell'ambiente ellenistico, dunque, si notano delle differenze che saranno gli ostacoli
principali per l'osservanza della Legge e dei riti. Dopo la cena sacra, gli Ebrei andavano alla
Sinagoga come centro di istruzione, dove si leggevano i cinque libri della Torah. In quell'epoca
non c'era ancora un lezionario fisso. Più tardi ci sarà una liturgia più formale (v. Kiddush).
Dopo la distruzione del tempio, nell'anno 70, si legge che ci sono cinque azioni senza la
partecipazione di cinque maschi: la recita dello Shemal, la Tefillah (o preghiera delle 18
benedizioni), la benedizione sacerdotale di Aronne (esiste anche nel nostro Messale Romano), la
Lettura della Torah e la lettura dai Profeti. E' molto probabile che l'assemblea liturgica cantasse
tutta la preghiera della Shemall, mentre la preghiera della Tefillah sarebbe stata recitata o cantata
da un solo cantore. Ci troveremmo in un periodo forse d’improvvisazione, ma rimane difficile
stabilirlo. In effetti, in quell’epoca era importante la capacità personale del celebrante per la
recita delle 18 preghiere di benedizione: ciò lascia intravedere il legame che ci poteva essere tra
la Shemall e la Tefillah. Certamente, ci può essere un legame tra queste azioni, in modo
particolare con la preghiera della benedizione o della "berakà", che costituirà il prototipo della
preghiera eucaristica della Chiesa.
E' interessante notare come alcuni studiosi abbiano visto in queste cinque azioni una sola
realtà liturgica nell'ambiente ebraico. Ciò acquisirà un carattere più laico rispetto all'ambiente del
tempio. E’ importante notare che nella Sinagoga non c’è una liturgia fissa, ma piuttosto è
presente una varietà di liturgie: ciò aiuta a vedere meglio il contesto dove Gesù ha operato.
Gesù fu fedele al culto e al tempio: egli comportò il senso sacrificale del culto non solo in
senso verticale, ma anche in senso orizzontale. Gesù valorizza il senso sacrificale del culto nella
prospettiva della carità. Egli agisce come Dio, ma è presente tra gli uomini come uomo. Il culto
cristiano nasce dallo spirito che Gesù infonderà nei discepoli. Come Dio era presente nel tempio,
cosi Gesù era presente in mezzo alla gente, dove svolgerà il suo ministero. Nella prassi liturgica
non mancheranno i problemi legati all'ellenismo.
Come abbiamo già visto, gli Atti degli Apostoli danno numerose testimonianze di vita
cristiana, quando già i cristiani venivano perseguitati. La Sinagoga, per i Giudeo-Cristiani, è un
luogo legato allo spirito, dove si prega e si medita: esso è un ambiente familiare che lascerà il
posto ad un nuovo edificio spirituale, le domus e, successivamente le Chiese (non prima del III
secolo)2. In essi si noterà già presente la tradizione di pregare e vegliare di notte (v. Paolo e Sila:
2
E del resto, quando consideriamo la storia della Chiesa primitiva, sappiamo che nelle città, dove si erano
costituite delle comunità cristiane, come a Gerusalemme, a Corinto, a Efeso, a Colossi e a Roma, i fratelli si
riunivano in una casa. Paolo chiamava questa comunità delle Chiese, cioè delle case dove i cristiani si riunivano.
Questa situazione fu quella dei cristiani durante i primi secoli della loro esistenza, ma la situazione cambiò
proprio nel III secolo: ci sarà una casa del luogo, generalmente di un privato, che sarà luogo abituale della
celebrazione del culto cristiano. Così si conosceva verso l’anno 201-202 ad Edessa della Siria una casa che in
quell’anno fu distrutta dall’inondazione. Il che vuol dire che la casa esisteva prima dell’inizio del III secolo, cioè
già dalla fine del II secolo. Anche Tertulliano parla di Ecclesia, di Domus Dei in senso di edificio, nel De
Idolatria 7, nell’Ad Uxorem, Libro duo, cap. 8, e nell’Adversus. Valentinianum 3. Con Clemente Alessandrino
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At 16,25). Essi pregheranno insieme a tutta la comunità. Anche per quanto riguarda il
Battesimo, gli studiosi pensavano che il fondamento del Battesimo si trovasse a Qumran, ma
come si può dimostrarlo? E’ un quesito che non è stato risolto in base a questa ipotesi. In effetti,
la cosa più evidente riguarda la teoria della purificazione rituale nel giudaismo o del simbolismo
profetico, dove il popolo viene purificato in vista della venuta del Messia.
Ci sono, dunque, diverse teorie circa il fondamento del Battesimo: ad esempio, i Sinottici
richiamano al Battesimo di Gesù nel Giordano, mentre Giovanni non parla del battesimo di
Gesù, ma di Gesù che battezza i suoi discepoli. Ciò rimanda al tema della preparazione dei
candidati al battesimo, che prevede un tempo di istruzione e che anticipa il tempo del
catecumenato. L'acqua sarà il simbolo dell'iniziazione alla vita cristiana.
Circa l'Eucaristia è interessante la struttura del rito proprio nei primi anni del cristianesimo.
Sarà ancora una realtà embrionale. E' importante richiamarci anche all'architettura, in vista di una
progressiva diffusione del cristianesimo. Infatti, già alla fine del primo secolo abbiamo 20.000
cristiani, mentre nel III secolo circa, ci saranno già 7.000.000 di cristiani che dimostreranno una
forte diffusione della Chiesa nell’Impero Romano: in tal senso si può dire che i primi cristiani
usavano, come luoghi di preghiera e di culto, le case dei ricchi, divenute, poi, domus ecclesiae.
Questo si verificava sia al tempo delle persecuzioni, sia al tempo di Costantino, quando ci sarà,
poi, una svolta sul piano politico, religioso e sociale.
Un altro argomento molto forte è il senso della comunione tra i Cristiani: San Paolo nella
1Cor 10, ammonisce severamente coloro che non si preparano degnamente alla celebrazione
della Cena del Signore (v. la questione degli Idolottiti): chi aveva di più doveva dare a chi non
aveva, in modo che tutti avessero il necessario per una vita decorosa. Poiché le domus ecclesiae
non erano molto grandi, non tutti riuscivano ad entrarvi e molti rimanevano fuori, con la
conseguenza pratica che non tutti beneficiavano dei beni messi in comune. Non c’era solo la
celebrazione eucaristica, ma vie era anche il pasto: il più delle volte molti rimanevano senza cibo,
a vantaggio di pochi. Tale aspetto ci richiama all’elemento architettonico del culto cristiano per il
quale è notevole che i più antichi testimoni letterari provengano dall’Oriente in cui, del resto,
conserviamo anche le rovine di una di queste domus ecclesiae: si tratta di Dura Europos che era
una casa siriana comune, il cui ingresso non si trovava nella facciata principale, ma era posto
lateralmente. La casa si trovava a ridosso delle mura della città. La forma era
approssimativamente quadrata, dove al centro si trovava un cortile, attorno al quale si sono
conservati gli ambienti del piano terreno. La casa fu adattata al culto cristiano come attesta
un’iscrizione del 232. Essa fu distrutta con tutta la città, nel 260, durante la guerra dei Romani
contro i Parti. In questa guerra, condotta in persona dall’imperatore Valeriano, lo stesso
imperatore fu fatto prigioniero e fu ucciso. Dura Europos si trovava proprio sul fronte della
guerra che si sviluppava sulle sponde del fiume. Negli anni novanta è stato localizzata l’esatta
posizione della casa, che si trovava sopra una roccia, a picco sulla sponda del fiume. Era,
dunque, posta, insieme a tutta la città in una posizione fortificata e di difesa. La città, in origine
era un campo militare di forma quadrata, con al centro il foro, il pretorio, mentre il lato
occidentale vi era anche una sinagoga. Dopo la distruzione della città la sabbia del deserto ha

abbiamo la testimonianza secondo cui inizia a introdursi l’uso delle case che regolarmente venivano usate per la
celebrazione. Questo fa capire che egli conosce già l’espressione Chiesa nel senso di edificio, che lui non ama, e
nel senso di comunità che lui preferisce. Anche a Roma Ippolito, nello stesso giro di tempo, nei primissimi anni
del III secolo, parla di case di culto che erano oggetto di attacchi da parte degli Ebrei e dei pagani, mentre i fedeli
erano riuniti per la preghiera (cfr. Ippolito, Commentario al profeta Daniele, libro I , cap. 32). Anche Origene
conosce delle Domus Ecclesiae, nelle quali si faccia preghiera e nelle quali i presbiteri riempiono il loro ministero
in cui l’altare è consacrato dal sangue prezioso di Cristo (cfr. Omelia in Esodo, Libro II, v. 2 e Libro XII, v. 2;
Omelia in Levitico, Libro IX, v. 9). Anche Cipriano adopera la parola Ecclesia in senso monumentale: è
probabile che nelle sue opere la parola dominicum non designi l’edificio di culto, ma la riunione cultuale.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 9

ricoperto progressivamente le rovine. Le prime scoperte furono fatte dopo la prima guerra
mondiale. Gli affreschi della casa cristiana furono trasportati dagli Americani nel museo di New
York, mentre i resti degli affreschi della Sinagoga si possono vedere nel Museo di Damasco.
Ora, è interessante notare come questa casa si disponga nei vari ambienti costituitivi, secondo
questo disegno:

Come si può notare essa è di forma approssimativamente quadrata, dove si trova al centro un
cortile. La sala di preghiera è distinta da quella dove viene celebrata la cena, che fa
pensare ad un’analoga distinzione anche nel cenacolo di Sion. Nella parte destra
abbiamo una sala dove è collocato una specie di ciborio, il cui interno era pitturato in
blu con delle stelle. In fondo ad esso troviamo una cavità, sulla quale sono state fatte diverse
ipotesi: la prima sostiene che si sarebbe trattato di una tomba, mentre la seconda sostiene si tratti
di una vasca battesimale; questa seconda ipotesi è più conforme alla decorazione parietale di
questo piccolo ambiente che, tra l’altro è simile a quella delle catacombe romane. Su tali pareti
sono raffigurate tre donne con dei vasi in mano che simboleggerebbero le tre donne che
andavano al sepolcro di Gesù, alla mattina di Pasqua. Viene raffigurato anche un sarcofago,
dietro il quale si trovano queste tre donne, che dovrebbe raffigurare la tomba di Gesù. In un altro
ambiente viene raffigurata, a quanto pare, la risurrezione di Gesù, mediante la figura di un uomo
che porta sulla spalla un teschio. Si trova anche la figura di una nave sulla quale sta ritto un
personaggio, mentre sull’acqua un altro che cammina. Si tratterebbe di Pietro salvato dal
naufragio sul lago di Tiberiade. Su altre pareti troviamo altre pitture, sempre di natura biblica,
come Adamo ed Eva, Davide e Golia. Ci sono anche altri affreschi di più difficile interpretazione:
in queste scene rappresentate c’è un contesto di guarigione e di riflessione, che si adattano
abbastanza bene al tema del battesimo. Allora, questo fatto rinforzerebbe la seconda ipotesi,
secondo la quale quella cavità interna corrisponde al fonte battesimale.
Ora se in questa casa vi era il battistero, la sala dove esso è collocato potrebbe essere anche la
sala della riunione. Alcuni pensavano di trovarvi l’altare fisso, ma di esso non ci sono tracce ed,
inoltre, sarebbe stato un primo esempio di altare fisso, nell’ambito della prima metà del III
secolo. E’ molto più probabile, invece, che si possa trattare di un altare mobile, che si possa
trasportare facilmente. Esso veniva usato solo per la celebrazione liturgica. Allora questo fa
pensare che la bretella situata nella parte destra del disegno, in alto, potrebbe essere il luogo
dove sedeva il celebrante. La sala stessa probabilmente, durante le riunioni, non avrebbe potuto
ospitare un numero superiore alle cento persone.
Comunque la scoperta di questa casa a Dura Europos, ha potuto facilitare le ricerche degli
studiosi del culto cristiano antico, anche se, purtroppo, non rimangono tracce significative di
altre Domus ecclesiae situate un po’ dappertutto, ma particolarmente a Roma. Tra queste alcune
si troverebbero proprio sotto San Martino ai monti, sotto San Giovanni di Paolo a Celio, a S.
Clemente, a Santa Susanna. Questa teoria non è, però, suffragata da prove certe, come risulta,
nell’analisi dei resti di San Martino ai monti, dalle disposizioni poco convenienti dei resti per una
sala di culto. A San Giovanni di Paolo al Celio i resti raffigurano una sala di una casa comune,
con delle decorazioni cristiane. Sembra si tratti di una sala da pranzo, dove in una delle pareti, in
modo decentrato, sarebbe posta una figura aggiunta alla decorazione primitiva, tanto che si
pensa risalga al IV secolo. Per quanto riguarda San Clemente, gli studi e le verifiche precedenti,
dagli anni ’80 sino ad oggi avrebbero permesso una migliore conoscenza dell’edificio. La zona
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sarebbe stata distrutta nel ’64, all’incendio di Roma ed i resti della casa sarebbero da situarsi
dopo l’incendio di Roma. Però questo ambiente consisteva in un grande edificio quadrangolare,
con all’interno un cortile. Sul lato meridionale si notano degli ambienti contigui che si affacciano
sul cortile. Essi erano molto lunghi (circa 6-7 metri di lunghezza). Questo edificio del primo
secolo rimane tale e quale fino alla fine del II secolo, per poi subire altre trasformazioni nei secoli
successivi. Tale edificio, tra l’altro, avrebbe un primo piano che dà accesso ad una casa di civile
abitazione, almeno nella parte orientale. Della casa, però, rimane ben poco. Nella seconda metà
del IV secolo, questo è sicuro, questo ambiente quadrangolare è stato trasformato in chiesa, al
quale, sul lato corto, è stata aggiunta una grande abside di 10 metri di apertura. Questa sarebbe
una chiesa cristiana risalente non prima del IV-V secolo.
Pochi anni orsono è stato ritrovato recentemente il battistero, allo stesso livello della basilica,
del VI secolo circa. Sarebbe stato ricavato anche un ambiente dove il papa vestiva i paramenti
per la celebrazione liturgica delle stazioni che era una celebrazione che si spostava a turno nei
diversi luoghi di culto cristiano. Nell’atrio si preparavano i ministri ed i chierici. Questo
cerimoniale lo conosciamo attraverso l’Ordo Romanus Primus.
Dunque della Domus ecclesiae sappiamo ben poco. In merito a i resti di Santa Susanna, negli
anni immediatamente anteriori all’ultima guerra si fecero dei lavori che distrussero una parte di
un edificio antico. In questo caso, dai resti venuti alla luce si tratterebbe della Domus duo
trecinas, costruita vicino alle terme di Diocleziano. Tali resti si trovano sotto l’attuale chiesa, i
quali hanno messo in luce delle pitture nelle pareti di questa casa distrutta. Dal Liber pontificalis
si sa che la basilica è stata costruita intorno all’VIII secolo e non prima. Questo può far pensare
che questa Domus sia stata la Domus ecclesiae rimasta in funzione con degli adattamenti, fino al
VII secolo, ma rimane purtroppo un’ipotesi.
In conclusione, fino ad ora non si è trovata una Domus ecclesiae che ci permettesse di avere
dati più certi, circa il luogo di culto nei primi secoli, quindi dobbiamo rassegnarci a sapere ben
poco. Siamo documentati un po’ meglio sulle Domus ecclesiae a partire dal IV secolo. Per
rimanere nel III secolo, dopo la persecuzione di Traiano (257-259), le chiese furono confiscate.
L’imperatore Valeriano restituì le chiese ed i cimiteri ai cristiani; il suo editto è conservato, grazie
al quale abbiamo un’attestazione sicura, dopo il 250, circa l’esistenza di edifici di culto a Roma
in quell’epoca. Allora, questi edifici sarebbero esistiti anche in un periodo anteriore alla loro
confisca decisa dalla persecuzione. Quindi la sola Domus ecclesiae conosciuta e sussistente
sarebbe quella di Dura Europos, sicuramente attestata. Altre Domus si troverebbero a Edessa, a
Roma, in Africa, e ad Alessandria.
Tutto questo dimostra che i cristiani, nell’epoca, accordavano un valore simbolico non
all’edificio, ma all’assemblea liturgica, cioè la Ecclesia, cioè l’assemblea convocata per il culto
del Signore. Ci sono voluti tre secoli perché i cristiani avessero dei luoghi specifici per la
celebrazione del loro culto, mentre all’origine si servivano delle loro civili abitazioni.
Un altro quesito non meno importante è quello di carattere cronologico: su questo problema
l’atteggiamento cristiano è stato diverso da quello relativo al luogo di culto. Infatti, sin dalle
origini i cristiani si riunivano in giorni determinati: in base all’esempio di Cristo hanno osservato
per la celebrazione del culto i ritmi del tempo, ma cosa vuol dire? Si tratta di una successione dei
giorni riuniti per settimana, con il ritorno annuale di certi avvenimenti. Questa divisione del
tempo è frutto di un’esperienza umana molto lunga: la prima di queste esperienze fu il succedersi
del giorno e della notte. Per sperimentare la successione dei mesi e degli anni ci volle
un’osservazione più attenta per osservare che ogni anno le costellazioni nel cielo, per es., si
ritrovavano nella stessa posizione dopo un anno. Dunque, è su queste osservazioni che si basano
i ritmi cronologici del culto cristiano ed, inoltre, per l’uomo antico era naturale l’interpretazione
religiosa ai fatti della natura. In modo particolare gli Ebrei hanno intravisto in questi ritmi l’opera
creatrice di Dio. Questi ritmi furono l’oggetto di celebrazioni cultuali settimanali, mensili ed
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annuali. Il cristianesimo accoglie ciò che nelle religioni anteriori si è potuto sperimentare
nell’ambito cronologico.
I cristiani, dunque, vivono l'esperienza di appartenenza a Cristo: si è membri vivi che
partecipano del mistero salvifico. L'arte diventerà una testimonianza sia storica, sia teologica
della Chiesa dei primi secoli, sotto il profilo del culto cristiano. Con la pace di Costantino
nasceranno i primi edifici pubblici (v. le basiliche, e le Chiese).
Un'altra dimensione importante è la domenica ed il suo legame con il sabato ebraico. La
domenica sarà l'ottavo giorno. I cristiani non pensavano di celebrare il ritorno annuale
dell’avvenimento prima della fine del I e dell’inizio del II secolo. Essa sarà chiamata dai Padri
della Chiesa "giorno del Sole". Uno studioso, un certo Rordoff, ha composto uno studio
sistematico dal titolo: La Domenica. La festa più antica della Chiesa è proprio la Domenica
perché si celebra la risurrezione del Signore. Ma cosa si può dire di più?
Di fatto la settimana cristiana riproduce la settimana ebraica dei 7 giorni, con una differenza,
cioè che il punto di riferimento di questa settimana differisce tra i cristiani e gli Ebrei. Per questi
ultimi il punto di riferimento era il sabato, poiché nella Genesi abbiamo un primo tentativo di
spiegare il ritmo della settimana e di dargli un fondamento teologico. Si sa che il primo racconto
della creazione è fatto secondo i sei giorni della settimana e che il settimo giorno - dice la Genesi
- il Signore cessò da ogni suo lavoro e si ripose. Evidentemente questo racconto è fatto per
giustificare, a posteriori, l’esistenza della settimana e per imporre, in qualche modo, l’obbligo del
riposo del sabato. Questo racconto è abbastanza chiaro. Ora, questo ritmo settimanale,
osservato dagli Ebrei, ha dato fastidio ai Romani che erano abituati a ritmi diversi. Infatti, nei
poeti pagani troviamo delle battute abbastanza forti e ripetute, nei riguardi dell’uso ebraico della
settimana (cfr. Giovenale, Sesta Satira, 157-160, la satira 14, v. 96-97, Ovidio, Seneca, nelle
lettere a Licinio... Tutti questi autori cercano di ridicolizzare gli Ebrei, anche se sono costretti,
per motivi di affari, a seguire questo ritmo).
Per i cristiani il giorno di riferimento non è più il sabato, ma è la domenica. Però questa
domenica non viene subito chiamata tale (Dies Dominica): talvolta, lo vediamo ancora nel II
secolo, viene chiamata “dies solis”. Dunque, la domenica sostituisce il sabato ebraico, il che
suppone uno spostamento dei giorni di penitenza settimanale (i cristiani facevano penitenza il
mercoledì ed il venerdì, mentre gli ebrei celebravano i digiuni il martedì ed il giovedì). Perché è
avvenuto questo spostamento? Perché la domenica è il giorno della risurrezione del Signore.
Questo giorno è espressamente nominato nei racconti della risurrezione nei quattro Vangeli: è il
primo della settimana, che è ancora riferito alla settimana ebraica, poiché nella settimana ebraica
il primo giorno della settimana è proprio la domenica, secondo il racconto genesiaco. Allora il
sabato risulta essere l’ultimo giorno, mentre per i cristiani il rapporto è inverso perché il giorno
di riferimento è il primo giorno della settimana, perché questa risurrezione del Signore
costituisce un rovesciamento dei concetti antichi e fissa in questo giorno la partenza di un’era
nuova. La domenica è l’inizio del mondo nuovo che Cristo è venuto a portare. Se confrontiamo
questo concetto di “primo giorno” con le nostre usanze attuali constatiamo una specie di ritorno
all’uso ebraico, perché si parla di Week-end (fine settimana) che ingloba anche la domenica.
Questo non è più un concetto cristiano.
La domenica è diventato giorno di culto cristiano perché vi si celebrava Cristo risorto:
secondo tutti i racconti sinottici e di Giovanni è dato questo riferimento, cioè il primo giorno
della settimana. I passi biblici, relativi alla risurrezione di Cristo sono: Mc 16; Mt 28; Lc 24,1 e
Gv 20,1. C’è da dire che c’è una concordanza assoluta dei Vangeli su questo argomento, perché
indicano la domenica - quale giorno della risurrezione di Cristo - come primo giorno della
settimana. Questa concordanza significa che, sin dalle origini, i cristiani celebravano questo
giorno come giorno della risurrezione. Ora, secondo gli stessi Vangeli, Cristo risorto apparve ai
discepoli di mattina, mentre di sera Cristo ha condiviso il pane con i discepoli di Emmaus (Lc
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24,35). Proprio questo incontro avvenne la sera del medesimo giorno della risurrezione e poi lo
stesso giorno Gesù apparve a Gerusalemme agli Undici, secondo Gv 20,26-27 e lì mangiò con
loro. Dunque la celebrazione domenicale fu messa, fin dall’inizio, in rapporto con la Passione di
Cristo: ciò lo vediamo bene con il racconto dell’apparizione di Gesù all’Apostolo Tommaso, otto
giorni dopo (Gv 20,26-27), quando Gesù mostrò le piaghe della passione al discepolo incredulo.
Dunque, la celebrazione domenicale fu messa in rapporto alla risurrezione di Gesù, attraverso
la quale richiamò la passione, poiché la risurrezione non soppresse le stigmate della passione.
Quindi la celebrazione domenicale è ricordo ebdomadario della morte e risurrezione di Cristo.
Questa è la prima significazione della celebrazione domenicale, alla quale ne segue una seconda
perché i cristiani non celebrano questo momento da soli, ma comunitariamente. Tutta la
comunità si riunisce per celebrare questo ricordo. Ecco che abbiamo due aspetti, cioè l’oggetto
ed il modo: il primo e la passione e la risurrezione del Signore, mentre il secondo è la riunione
collettiva di tutti quelli che credono nel Cristo Risorto, che diventa un’esplicita manifestazione di
fede.
Più tardi, in seguito, Paolo inserirà e collegherà alla riunione domenicale la colletta in favore
della Chiesa di Gerusalemme: lo vediamo nella 1Cor 16,2. Poi, un’altra testimonianza data a
Paolo a Troade, quando sta per tornare a Gerusalemme (At 20,6-12), l’abbiamo quando spezza
il pane con i cristiani del luogo il primo giorno della settimana. Dunque, il costume di celebrare
Cristo risorto il primo giorno della settimana è già ben stabilito. E’ un costume generale, diffuso
nelle sue comunità dall’Apostolo Paolo, il quale a sua volta lo ricevette dalla Chiesa di
Gerusalemme o dai cristiani di Antiochia che erano venuti a Gerusalemme. Quindi, il primo
giorno della settimana era diventato per i cristiani il giorno della riunione eucaristica e della
carità fraterna, poiché alla frazione del pane era collegata la colletta per i poveri di
Gerusalemme.
Dunque, il primo nome della domenica, il più antico, è il primo giorno della settimana, in
riferimento al computo ebraico. Verso la fine del I secolo si vedrà per la prima volta il termine di
“dominica”: infatti, vediamo nell’Apocalisse 1,9-10 il passo dove dice: «Io Giovanni, vostro
fratello e compagno nella prova, trovandomi sull’Isola di Patmos, caddi in estasi il giorno del
Signore». Poco dopo si moltiplicheranno le testimonianze in favore di questa nuova
denominazione: infatti, una prima testimonianza è quella della Didaché cap. 14, v. 1. In questo
passo leggiamo una formula che può sembrare pleonastica. Dice infatti: «Il giorno domenicale
della domenica del Signore, radunatevi per la frazione del pane e per l’eucaristia». Questa prima
testimonianza della Didaché la possiamo, grosso modo, datare all’anno 100, forse leggermente
dopo. L’Apocalisse dà una testimonianza di poco anteriore, poiché si data l’Apocalisse nei ultimi
anni del I secolo. E’ bene notare l’ubicazione di queste due testimonianze: se la prima,
l’Apocalisse, è stata scritta nei pressi di Patmos, in Asia Minore, la seconda, la Didaché, è stata
scritta in Siria, ma non nella Siria, dove si parlava il siriaco, ma nella Siria Occidentale, dove si
parlava greco, poiché la Didaché si trova in greco, probabilmente nella regione di Antiochia.
Dunque, rimane interessante vedere che in questi due punti distinti della geografia, quasi allo
stesso momento, appare il termine nuovo di “Dies Dominica” (Giorno del Signore). Ora, è senza
dubbio lo stesso giorno che Plinio il Giovane cita, quando riferisce dell’Imperatore Traiano, nel
momento in cui lo stesso Plinio, governatore della Bitinia (Provincia romana che comprende le
città di Nicea, Nicomedia e Calcedonia), conduce i processi contro i cristiani. La Bitinia, al
tempo di Plinio, era già popolata da un grande numero di cristiani, tanto che, secondo la lettera
di Plinio, i templi pagani venivano disertati, perché i cristiani convertiti dal paganesimo non vi
andavano più e non compravano più la carne usata per la celebrazione dei sacrifici pagani.
Questo fu un altro motivo di inquietudine per il popolo. Ritornando a Plinio, è vero che non
parla di domenica, ma dice semplicemente che ad un preciso giorno i cristiani si riunivano e
cantavano un inno a Dio e a Cristo. La sua lettera a Traiano può essere data intorno agli anni che
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vanno dal 112 al 113. In un tempo di 10 anni posteriori alla Didaché notiamo lo stesso uso
osservato in Bitinia. Dunque, questo fa comprendere che l’Asia Minore è stata interessata ad un
numero alto di conversioni dal paganesimo.
Segue adesso la testimonianza di Ignazio di Antiochia, che avverte i cristiani di Magnesia che
il giorno di culto cristiano non è più il sabato, ma «il giorno del Signore in cui è sorta la nostra
vita tramite lui e tramite la sua morte e che mediante questo mistero noi abbiamo ricevuto la fede
per essere trovati discepoli di Gesù Cristo» (Ignazio, Lettera ai magnesiani, cap. 9, v.2). Quindi è
abbastanza significativo che le prime testimonianze, del nuovo giorno di culto cristiano, da una
parte, attestino l’esistenza della frazione del pane - nella Didaché e negli Atti - mentre, dall’altra,
questa celebrazione è specifica ai cristiani. Inoltre, la più antica testimonianza è dalla Didaché
che proviene proprio dalla città - Antiochia - nella quale i fedeli di Gesù per la prima volta
furono chiamati cristiani. Sembra, dunque, essere stata la città di Antiochia il punto di partenza
di questo nuovo nome della domenica. Se si cerca di valutare correttamente le due
denominazioni - “primo giorno della settimana” e “dies dominica” - possiamo pensare
rispettivamente, con una certa probabilità, che l’uso del primo giorno della domenica sia di
origine giudeo-cristiana (gerosolimitana) mentre il secondo sia di origine pagano-cristiana e
antiochena. Questa ipotesi non è molto lontana dalla realtà.
Ora, la prima descrizione del culto domenicale la dobbiamo a Giustino il filosofo, verso la
metà del II secolo; egli nel cap. 67, vv. 3-8 della prima Apologia dice:
«Nel giorno che si chiama giorno del sole si tiene una riunione di tutti quelli
che abitano in uno stesso luogo, sia nelle città che nelle campagne. Vi si leggono
le memorie degli Apostoli e gli scritti dei profeti per quanto lo concede il tempo.
Poi quando il lettore ha finito il presidente dell’assemblea prende la parola per
indirizzarci degli avvertimenti ed esortarci all’imitazione di questi bei esempi o
insegnamenti. Poi ci alziamo tutti insieme e preghiamo ad alta voce, e come stato
detto più sopra, quando abbiamo finita la nostra preghiera, viene portato del pane
come del vino e dell’acqua. Il presidente fa salire verso il cielo delle preghiere e
dei rendimenti di grazie, per quanto possibile. E il popolo esprime la sua adesione
con l’acclamazione “amen”. Poi ha luogo la distribuzione e la divisione, ognuno
ricevendo una parte di Eucaristia. Se ne invia anche agli assenti per il tramite dei
diaconi. Quelli che lo possono e che vogliono dare qualcosa, danno liberamente
ognuno quello che vuole ed il raccolto è deposto ai piedi del presidente. E’ lui che
fa distribuire dei soccorsi agli orfani e alle vedove, a quelli che sono nel bisogno,
perché malati o per qualche altro motivo, cosicché ai prigionieri e agli ospiti
stranieri. Insomma, è quello che soccorre tutti quelli che sono nel bisogno. E’ il
giorno del sole, che noi ci riuniamo tutti insieme perché questo giorno è il primo in
cui Dio, trasformando la tenebra e la materia creò il mondo, giorno in cui Gesù
Cristo nostro Signore è stato risuscitato dai morti, era stato crocifisso, il giorno
prima di saturno e l’indomani di questo giorno, cioè il giorno del sole è apparso
ai suoi apostoli e ai suoi discepoli ed insegnò loro quello che abbiamo esposto»3.
3
Giustino nella sua prima apologia, ci offre due descrizioni dell'Eucaristia: la prima è l'eucaristia legata al
Battesimo; la seconda parte dal fatto che Giustino difende i cristiani dalle accuse mosse contro di loro, scrivendo
all'Imperatore Antonino. Giustino desidera attenuare la pressione persecutoria dei pagani sui cristiani,
dimostrando l'infondatezza delle accuse. Egli dà una descrizione del culto cristiano e parla della domenica (vv. i
capp. 65-67 e 61). Giustino non usa mai il vocabolo “vescovo”, ma usa l’espressione “presidente” che svolge il
servizio ai bisognosi ed assicura il servizio e la celebrazione eucaristica. Egli non è solo presidente
dell’Eucaristia, ma è anche colui che presiede alla carità. L'apologia di Giustino è importante anche per quanto
riguarda l'iniziazione cristiana. Ci dà la prima descrizione battesimale di un rito già fissato ed anticipa il tempo
del catecumenato. Infatti, si parla dell'acqua come rigenerazione e remissione dei peccati, ma anche come pulizia
dal peccato. Lo sviluppo della Veglia Pasquale, come tempo di attesa di coloro che attendono di essere battezzati
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 14

Giustino descrive una riunione localizzata nel tempo e nel luogo, cioè a Roma, dove si trova
in quel momento e quando scrive la sua apologia agli imperatori, intorno all’anno 150. Negli atti
del suo martirio, d’altra parte, risulta che nella stessa città di Roma vi erano parecchie riunioni
liturgiche del tipo di quelle descritte da Giustino, la cui descrizione è molto verosimile. Tale
descrizione sembra essere abbastanza rappresentativa dell’uso, del tempo e del luogo, cioè un
uso di una Chiesa ellenizzata, a dimostrazione che al tempo era diffusa la lingua greca tra il ceto
medio. Questa riunione è fissata alla domenica e commemora due cose: il primo giorno del
mondo (la creazione) ed il giorno della risurrezione. Si nota qui un primo sviluppo tematico nel
significato della domenica: alla risurrezione del Signore è stata aggiunta la commemorazione
dell’opera creatrice di Dio, come del resto avveniva anche nelle riunioni sabbatiche che
commemoravano anche l’opera salvifica di Dio durante l’esodo.
Un’altra caratteristica riguarda una mancata fissazione del testo relativo alle preghiere dei
fedeli e del presidente: la preghiera è lasciata alla libera aspirazione di ognuno ed in modo
particolare alla libera aspirazione del presidente (il vescovo o il presbitero) dell’assemblea
liturgica. Inoltre, il medesimo presidente, non è designato da un termine tecnico (filologicamente
ed in senso etimologico, presidente significa “stare davanti” o “quello che presiede” ), perché
non è un termine che designa una funzione, ma è un termine che designa un atto. Ora, questo
presidente, non solo fa la preghiera a nome di tutti, ma pronuncia l’omelia e distribuisce i
soccorsi. E’ quello che potremo dire un capo di comunità; tale espressione non deve essere
troppo formalizzata come se si trattasse necessariamente di una funzione fissa. In rigore di
termini, il presidente lo potrebbe svolgere un cristiano oggi ed un cristiano domani. E’ colui,
dunque, che presiede attualmente. Noi ci troviamo all’origine di questa tradizione che va accolta
nel suo divenire, anche se rimane difficile da compiersi perché siamo costretti a capovolgere le
nostre idee ed il nostro modo di pensare.
Gli elementi sui quali è fatta la preghiera sono chiaramente indicati, cioè il pane, il vino,
l’acqua. Lì per capire dobbiamo riferirci ai costumi e agli usi del tempo: pane e vino erano gli
elementi normali di un pasto, ma perché l’acqua? Perché gli antichi non bevevano il vino senza
l’acqua. Il vino antico era molto più forte del nostro (raggiungeva anche i 18 gradi), per cui era
necessaria l’aggiunta dell’acqua che per di più non era fredda, ma tiepida.
Ora, è Giustino a darci queste indicazioni: questo vino e questo pane sono eucaristiati, cioè su
di loro è stata pronunciata la preghiera di ringraziamento. Questi elementi eucaristiati non sono
più il pane ed il vino, ma la carne e sangue di Cristo tramite un «discorso di preghiera che viene
da Cristo». Quindi la formula eucaristica ha origine dal Signore, probabilmente quella derivante
dai racconti dell’istituzione dell’Eucaristia nei Vangeli. Quindi questo pane e vino sono diventati
corpo e sangue di Cristo nella maniera in cui il Logos di Dio è diventato carne in Gesù Cristo. Si
tratta, allora, di una specie di incarnazione rinnovata. Perciò tale pane e tale vino «nutrono
nostro sangue e nostra carne tramite un cambiamento» (I Apologia 66,2 metabolé o
cambiamento). Non si parla di transustanzia-zione, ma di questo cambiamento che malgrado
appaia povero nell’ambito della teologia odierna, è abbastanza chiaro. Inoltre questa eucaristia è
il «memoriale della sofferenza e della risurrezione di Cristo» (Giustino, Dialogo con Trifone
41,1). E’ un dialogo più meno fittizio che Giustino avrebbe avuto con un Ebreo chiamato
Trifone. E’ possibile che questo dialogo sia effettivamente avvenuto tra Giustino e gli Ebrei,
durante i suoi viaggi.
Questa passione e la risurrezione del Signore, Giustino le colloca tra le prodezze del Signore,
simili a quelle che il Signore nel passato ha compiuto al tempo di Mosè. L’Eucaristia non è

per essere salvati, ha già le sue premesse nella testimonianza di Giustino nella sua prima Apologia. La veglia
pasquale si svilupperà secondo i bisogni del tempo. Giustino ci parla del battesimo come illuminazione di chi lo
riceve.
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soltanto una delle prodezze del Signore, ma è il compimento di tutti i prodigi compiuti nel
passato. Il ricordo di queste magnalia dei viene di nuovo riattualizzato. Quindi l’Eucaristia
rende nuovamente attuali la passione e la risurrezione del Signore, perciò conviene celebrarla nel
giorno ebdomadario in cui si verificarono per la prima volta questi avvenimenti. Nella Apologia e
nel Dialogo a Trifone possiamo trovare un primo schizzo di una teologia dell’Eucaristia. Non
solo Giustino è testimone dell’uso, come si osservava al suo tempo, cioè alla seconda metà del II
secolo, ma è ancora uno dei primi (non il primo in assoluto se si tiene in conto le lettere di
Ignazio, dove c’è un altro tentativo di interpretazione teologica). Siamo in un epoca in cui sta
prendendo corpo la liturgia primitiva della Chiesa; siamo in un tempo in cui questi riti fanno
riferimento al gesto di Cristo dell’ultima Cena, ma nello stesso tempo acquisiscono una
consistenza molto più complessa del medesimo gesto di Cristo, in primo luogo (lo notiamo bene
già nella testimonianza di Giustino) perché nella riunione cristiana confluiscono due usi diversi:
a) il sistema delle letture, dei canti e della liturgia occupa la prima parte della
celebrazione che è derivata dall’uso sinagogale;
b) un uso propriamente cristiano che consiste nella frazione del pane in ricordo
del gesto del Signore, durante l’ultima cena, mediante una preghiera di
ringraziamento. Si tratta di uno sviluppo del rendimento di grazie, accompagnato da una
preghiera di ringraziamento che dà il nome a tutto il rito eucaristico.

Un'altra testimonianza parte dalla Traditio Apostolica (o pseudo Ippolito). Anch'essa parla
dell'iniziazione cristiana che prevedeva il catecumenato per tre anni. E' un testo molto importante
perché mette in luce le diverse tappe del candidato, fino al Battesimo. Chi voleva farsi cristiano
doveva profondamente essere motivato e doveva dare prova del suo impegno. Era importante la
vita morale, sulla quale si doveva stabilire se quella persona poteva o no entrare nel
catecumenato. Nel IV secolo, ci sarà già un contesto diverso, perché già non ci saranno più i tre
anni di preparazione, ma il periodo sarà molto più breve. Prima del Battesimo, il candidato deve
osservare il digiuno nella preghiera. Ciò anticiperà, in un certo senso, il tempo di Quaresima che
allora non era ancora fissato. Successivamente diventerà un tempo forte dell’Anno Liturgico.
Circa il Battesimo, il giorno ideale sarà, appunto la Domenica e ancora di più il giorno di Pasqua
del Signore: in tale circostanza assume il suo significato più profondo, perché sottolinea il
passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla redenzione e remissione del peccato. La formula
battesimale prevede anche il credo secondo la formula trinitaria che diveniva anche una prova
per vedere se il candidato era pronto ad assumersi il suo nuovo impegno e la sua nuova vita di
cristiano. Un altro elemento importante è la cresima non disgiunta dal Battesimo nella
celebrazione del rito: forma con il Battesimo una sola realtà, tanto che all’origine veniva
amministrata subito dopo il Battesimo e veniva seguita dalla comunione.

15/11/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 3a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 16

BREVE SINTESI DELLA LEZIONE PRECEDENTE.


E' stato visto lo sviluppo liturgico ed è stata vista la prima struttura relativa alla Domenica
(come giorno forte della Settimana) per quanto riguarda la celebrazione eucaristica, in base alla
testimonianza di Giustino nella sua prima apologia. Giustino intende dimostrare la profonda fede
dei cristiani e cerca di far notare l'infondatezza delle accuse contro i cristiani stessi.
Giustino aveva parlato del Battesimo come l'inizio di una nuova vita: il neo battezzato viene
introdotto nella comunità per celebrare insieme ai nuovi fratelli l'Eucaristia. Egli non scrive per i
liturgisti, ma per l’Imperatore Romano, al fine di convincerlo dell’innocenza dei cristiani.
Parla del neo battezzato come l'"illuminato". Tale termine ha origine greca ed è presente,
come abbiamo già visto, dalle religioni misteriche. A questo momento tutta la Comunità vi
partecipa. Il bacio tra i catecumeni non è ancora un bacio secondo la comunione perfetta: il
battezzato, invece, riceve il bacio e può scambiare la pace con gli altri membri della comunità.
Giustino parla anche della figura del Presidente, al quale viene data la coppa del vino, l'acqua
ed il pane: è il momento dell'offertorio, dove il presidente recita la preghiera o le preghiere del
ringraziamento che determinano con l'acclamazione del popolo. Subito dopo i diaconi
distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane e lo portano anche agli assenti.
Questo cibo è veramente corpo e sangue di Cristo: è l'eucaristia celebrata nella fede che
insegna la reale presenza di Cristo nelle specie eucaristiche. C'è qui un senso teologico molto
profondo che si ricollega direttamente con il giorno detto "del Sole": è il momento in cui tutti si
radunano per leggere le memorie degli Apostoli, gli scritti profetici, per un tempo limitato. Alla
fine delle letture, il Presidente dà delle ammonizioni e degli insegnamenti, seguiti, poi, dalla
preghiera dei fedeli. Dopo tale preghiera vengono offerti il pane ed il vino: a tale proposito è
interessante il fatto secondo cui Giustino giunge l'acqua (v. la lez. di Lettura liturgica dei Padri).
Il presidente, poi, secondo la propria capacità, innalza la preghiera e recita la prece eucaristica. Il
giorno del Sole ha a che fare con l'Eucaristia per il semplice fatto che è il primo giorno in cui il
Signore trasforma in luce le tenebre: allo stesso modo, grazie al sacrificio di Cristo, le tenebre
del peccato vengono trasformate nella luce di Cristo glorioso e risorto. Cristo fu crocifisso la
vigilia di Saturno, ed il giorno dopo di Saturno sarà il giorno del Sole, quando Cristo risorgerà.
Tutto questo avviene in un clima di profonda comunione tra i membri della Comunità.
A motivo di quello che è stato detto è significativa la testimonianza che Giustino scrive nel
cap. 61 della sua Prima Apologia, dove dice:
«Tutti quelli che si lasciano convincere e che credono alla verità dei nostri insegnamenti e
della nostra dottrina e che dichiarano di poter conformarvi la loro vita, a questi noi
insegniamo a pregare e a chiedere a Dio nel digiuno la remissione dei peccati, dei loro
peccati passati, e anche noi stessi preghiamo e digiuniamo assieme a loro. Poi sono condotti
a noi in luogo dove c’è acqua e li sono rigenerati secondo il modo di rigenerazione che
abbiamo conosciuto noi stessi. Infatti è a nome di Dio Padre e sovrano dell’universo del
Nostro Salvatore Gesù Cristo e dello Spirito Santo che loro prendono nell’acqua il bagno di
purificazione... perché Cristo ha detto: “Se non siete rigenerati non entrerete nel regno dei
cieli”. Questo bagno è chiamato illuminazione perché quelli che capiscono queste cose
hanno la loro mente illuminata...».
Facendo una sintesi si può dire:
1) Si nota, in primo luogo, il posto preciso di questi estratti: con il cap. 60 dell’apologia si conclude
la prima parte della apologia, che contrappone e oppone alle accuse pagane la dottrina cristiana ed
in modo particolare la dottrina della salvezza. E’ dunque un periodo indeterminato di insegnamento
che viene dato a tutti, in modo indistinto, perché tra questi uditori ci sono quelli che accettano
l’insegnamento cristiano e si propongono di conformarvi la loro vita. Poi ce ne sono altri che pur
avendo ascoltato non sono stati toccati profondamente dall’insegnamento stesso necessario per la
loro conversione. Dunque, abbiamo un primo periodo preparatorio, di cui non si sa la durata:
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 17

quando questo periodo è arrivato al termine si pone per gli uditori il problema di sapere quale
seguito bisogna dare all’insegnamento stesso, cioè se convertirsi alla nuova fede oppure no.
Arrivati a questo punto Giustino dice "quelli che si sono lasciati convincere": così si ha un
processo intellettuale di conversione, anche se non manca quello morale (cioè coloro che si
propongono di conformare la loro vita all’insegnamento). Bisogna, dunque, notare questo doppio
piano dell’adesione: a quanti hanno deciso questa conversione viene insegnata la preghiera insieme
ad alcune pratiche di condotta cristiana come il digiuno.
2) Dunque, circa la preparazione battesimale, possiamo distinguere due grossi periodi: c'è un periodo
indeterminato che riguarda la preparazione generale che si dà ai fedeli e ai non credenti durante
ogni riunione non eucaristica, cioè la prima parte della messa, quella costituita dalle letture, dalle
preghiere, dai canti e dalle esortazioni (liturgia della parola). Bisogna perciò essere consapevoli
che questa prima parte della liturgia è aperta a tutti senza alcuna distinzione. Evidentemente tra gli
uditori non credenti c'è anche una certa scelta che indica un bisogno di perfezione anche se non
arriva sempre ad esprimersi in una decisione definitiva.
3) A partire da un certo momento la preparazione viene riservata a quelli che si sono convertiti, cioè a
coloro che si vogliono conformare la loro vita all’insegnamento teorico ricevuto. Questa
conversione avviene per la remissione dei peccati, per cui non si tratta soltanto di una conversione
intellettuale, ma anche di una scelta religiosa che stabilisce finalmente un nuovo tipo di rapporto
con Dio.
4) Il secondo periodo si richiama alla preghiera e al digiuno rivestendo un carattere comunitario: la
comunità prega e digiuna con i futuri battezzandi. La sequenza delle diverse tappe è
semplicemente indicata con un "poi" che non indica una cronologia precisa, ma indica il modo in
cui si seguono gli atti. Effettivamente poi i battezzandi vengono condotti ad un luogo dove c'è
l'acqua: si tratta di una indicazione topografica molto indeterminata. Non c'è un luogo preciso
dove avviene amministrato il battesimo, se in una casa con bagno, oppure presso le fontane. A
Roma, ad esempio, numerose erano le case con bagni interni molto grossi, delle vere e proprie
terme capaci di ospitare tutte le persone della casa. Anche sul rito preciso della rigenerazione non
ci sono molti elementi chiari, anche se abbiamo due indicazioni più precise: “Sono rigenerati
nello stesso modo in cui noi lo fummo” sono parole di Giustino che riguardano il bagno
accompagnato con una formula. Tali indicazioni dimostrano che si tratta di un'immersione vera e
propria nell'acqua che assume un significato particolare con la formula (non esplicita) che dice
semplicemente che il battezzando è rigenerato nel nome di Dio Padre, del Salvatore Gesù Cristo e
dello Spirito Santo. Dunque si tratta di una formula trinitaria, poiché vengono enumerate le tre
Persone della Trinità. Il pronunciare della formula è concomitante con il bagno: tutto avviene
contemporaneamente. Segue la giustificazione scritturale dove Cristo stesso dice che “Se non siete
rigenerati non entrerete nel regno dei cieli”. Con questa parola Giustino riattacca il bagno
purificatore alla volontà di Cristo.
5) L’ultimo passo della prima apologia dà uno dei nomi del battesimo: il nome comune è “bagno”,
però il t. “photismon” è riferito alla illuminazione non materiale: nel battesimo c'è dunque
un'illuminazione interiore, intellettuale e spirituale, perché questo bagno è chiamato illuminazione
e i battezzati capiscono l'insegnamento di Cristo. Lo spirito viene inondato dalla luce: il battesimo
ha per effetto quello di far capire l’insegnamento previo e davanti a questa conclusione di
Giustino, siamo, in realtà, in presenza di un'abitudine delle comunità primitive. L'insegnamento
previo non consiste nella spiegazione del battesimo, ma consiste in tutto quello che è necessario
per arrivare al battesimo stesso, del quale si ha una conoscenza esistenziale. Si vive questa
conoscenza e si ha l'esperienza del modo di diventare cristiani. Quello che rimaneva
nell’insegnamento previo era piuttosto allusivo alla realtà cristiana che bisognava vivere. Anche
qui notiamo una costante, cioè l’insegnamento previo è spirituale, spesso dato in modo tipologico,
e con dei riferimenti alla Bibbia. Dunque, il neofita riesce a comprendere il senso di quello che gli
viene insegnato perché lo inizia a vivere sin dai primi istanti, sino ad una completa progressione
spirituale. E' una conoscenza sperimentale vera e propria. E' il caso anche dell’eucaristia di cui
Giustino parlerà nei capitoli successivi.
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Concludendo il discorso sulla prima Apologia di Giustino, si può dire che la sua testimonianza
riguarda la comunità di Roma, dove Giustino visse, quando scrisse la sua Prima Apologia. Si può
dunque dire che in Giustino, rispetto alla Didaché, è ancora più accentuato il carattere
comunitario nell’ambito della preparazione battesimale: tale carattere è da notarsi quando i fedeli
pregano e digiunano assieme ai candidati al battesimo. Ciò vuol dire che la comunità si sente
responsabile nell'ammissione dei nuovi membri, in quanto intende aiutarli, offrendogli una
comunità di vita, dove non solo si condivide uno stesso stile di vita, ma si vive la mutua carità.
Un ultima osservazione, che possiamo forse ricavare dall’apologia di Giustino, sta nel fatto che
questa preparazione ultima al battesimo riveste una certa riservatezza, affinché i neofiti
comprendano sperimentalmente il significato dell'insegnamento previo. In questo modo di fare
c'è un primo accenno alla disciplina dell'arcano, come prassi costante nei secc. III, IV e V,
secondo la quale ai non battezzati era vietato comunicare le formule della preghiera ed i riti del
culto cristiano. Quindi, la cerimonia battesimale veniva descritta in termini molto generali e
vaghi, per cui non bisognava comunicare ai neofiti il testo della preghiera del Padre Nostro e a
fortiori il contenuto dei riti stessi. Rimaneva, dunque, fondamentale l’esperienza personale di
ciascun neofita, prima di ricevere il battesimo.

Ritornando allo Pseudo-Ippolito, circa la Traditio Apostolica, si può dire che contiene altre
affermazioni importanti: ad es., il catecumenato che prevedeva l'inserimento del neofita alla
scuola di Dio (v. n. 15 della Traditio Apostolica), cioè nell'ascolto della Parola di Dio. Ciò
comportava una trasformazione radicale della vita del candidato, come ad esempio, abbandonare
lavori in aperto contrasto con la morale cristiana. A tale riguardo lo Pseudo-Ippolito dedica ben
otto capitoli all’Iniziazione Cristiana4: in modo particolare il capitolo 16 parla dei mestieri e delle
professioni incompatibili con la fede cristiana5.
Sempre, per quanto riguarda i mestieri, più interessante è la questione dei magistrati. Come
tali, essi intervenivano per forza in certi sacrifici offerti a nome della città. Per la comunità
cristiana non dovevano parteciparvi o addirittura dovevano cessare tale ufficio, ma non sempre
4
Giustino dà questo ordine di struttura: 15 Dei nuovi venuti alla fede (o venuti di recente) - 16 I mestieri e le
professioni, (perché esistono professioni incompatibili con il cristiana) - 17 La durata dell’istruzione (o catechesi)
- 18 Della preghiera di quelli che ricevono l’istruzione - 19 Dell’imposizione delle mani sui catecumeni - 20 Di
quelli che stanno per ricevere il santo battesimo - 21 (il più importante) della consegna del santo battesimo,
(l’atto battesimale) - 27 I catecumeni non devono mangiare con i fedeli. questi otto capitoli possono raggrupparsi
sotto tre rubriche più importanti: in primo luogo è contemplato il catecumenato come preparazione più lontana al
battesimo; in secondo luogo si parla della preparazione immediata al battesimo; in terzo luogo l’amministrazione
del battesimo con i suoi riti di complemento.
5
Si farà un inchiesta sui mestieri e le professione di quelli che sono stati presentati per l’istruzione se qualcuno è
proprietario di un bordello cesserà o sarà rinviato se qualcuno è pittore o scultore insegnerà loro a non fabbricare
idoli. Cesserà o sarà rinviato. Se qualcuno è attore o dà rappresentazioni teatrali cesserà o sarà rinviato, quello
che da insegnamento ai bambini è meglio che cessi se non ha un altro mestiere gli sarà permesso d’insegnare (il
tono e più sfumato). Lo stesso per il cocchiere che partecipa alle gare, o a quello che partecipa ai giochi, il
gladiatore o il loro allenatore, o il bestiario (che prende parte alla caccia alle belve nell’arena), cesseranno o
saranno rinviati. Il sacerdote o il guardiano di idoli, cesseranno o saranno rinviati. Il soldato subalterno non
ucciderà nessuno, se ne riceve l’ordine, non lo eseguirà e non presterà il giuramento, se rifiuta sarà rinviato.
Quello che ha il potere del gladio o il magistrato che porta la porpora cesseranno o saranno rinviati. il
catecumeno o il fedele che vorranno diventare soldati saranno rinviati perché hanno disprezzato Dio. La
prostituta, l’omosessuale, il giovane che si presta alla sessualità e chiunque fa della cose di cui non si può
neppure parlare saranno rinviati per che impuri, neppure si ammetterà il mago all’esame l’incantatore,
l’interprete di sogni, il ciarlatano, il falsario (generalmente si tagliava il bordo delle monete per recuperare il
metallo prezioso), il fabbricante di amuleti. Le esclusioni indicano le professioni contrarie alla morale o alla fede.
Ci sono anche le professioni legate all’idolatria: si tratta dei fabbricanti di idoli ma anche certe altre professioni,
come quelle legate al culto dei templi anche se si trattava di un servitore subalterno impiegato in un tempio e non
di un sacerdote pagano.
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risultava facile per chi aveva deciso di farsi cristiano, quando ancora era in carica. Il caso di chi
rivestiva la porpora designava i più alti funzionari dello Stato, dai proconsoli sino all'Imperatore:
ciò prevedeva la loro esclusione dalla comunità cristiana, a meno che non decidevano di
rinunciare al loro stato.
Quelli che avevano il potere del gladio, come il magistrato che può condannare a morte o
assolvere, si rendevano colpevoli della morte di un uomo: per essere cristiani dovevano
abbandonare tale professione. Lo stesso si può dire per il soldato che doveva rifiutarsi di
uccidere in guerra, anche era scontato il fatto che lui stesso veniva ucciso da chi gli aveva dato
l’ordine di uccidere.
Infine, anche nel caso dei giochi del circo, proprio perché legati all’idolatria e generalmente
iniziavano con una cerimonia religiosa, in forma solenne, chi vi partecipava non poteva essere
cristiano. Erano portate le statue o altri simulacri degli dei e all’inizio si offriva un sacrificio.
Pure i combattimenti dei gladiatori che finivano sempre con la morte di qualcuno erano
considerati la sostituzione dei primitivi sacrifici umani e dal quel punto di vista evidentemente
erano vietati ad un cristiano. Dunque, la rosa dei mestieri esclusi dal catecumenato era
abbastanza ampia, ma sottolineava il fatto che era abbastanza difficile per un uomo dell'antichità
diventare cristiano. Non si può fare, però, una statistica delle professioni dalle quali un cristiano
era escluso e per qual motivo i cristiani erano considerati come gente asociale non integrabile
nella società romana. Conosciamo molti cristiani cittadini romani come Paolo. Già dalla fine del I
secolo il Cristianesimo era già penetrato nelle classi più alte se Falvius Clemens cugino di
Domiziano era cristiano.
Per quanto riguarda il catecumenato, per accedere all’istruzione lontana che precede il
battesimo non ci sono condizioni; l’accesso è libero ed aperto a ogni tipo di uomini, pagani
Ebrei, convertiti. La sola cosa che si chiede ai nuovi venuti è il motivo della loro venuta. Allora
viene fatta un’inchiesta di complemento quando sono richieste informazioni presso quelli che
conoscono i candidati a questo istruzione affinché possano confermare o meno quali sono le
intenzione dei nuovi venuti. Questa inchiesta, se si può chiamare così, riguarda la sincerità, dal
passo fatto dai nuovi venuti affidata ai cosidetti doctores (nella versione latina l’originale greco
che probabilmente designa i didascali). Al nuovo candidato vengono chieste le informazioni sul
suo stato civile, i dati anagrafici sullo stato sociale, sulla professione, sul matrimonio e sulla
prole (se hanno figli o no), per avere una immagine un po’ più precisa della loro personalità. In
particolare viene chiesto se sono schiavi o liberi: ciò era importante per la loro ammissione
definitiva, perché si doveva chiedere al loro padrone se era o no consenziente: in caso contrario
potevano sorgere delle difficoltà. Generalmente le domande e le risposte relative erano
abbastanza rare perché i padroni erano abbastanza liberali e non si preoccupavano più di tanto
circa la situazione spirituale dei loro sudditi.
Se l’inchiesta risultava negativa, il candidato veniva rinviato, se invece era positiva, gli veniva
insegnato come ben servire il padrone, nonché come condursi bene al matrimonio o al celibato.
In particolare s’indagava su certe condizioni spirituali o psicofisiche dei candidati, i così detti
posseduti o energumeni: essi non erano ammessi al catecumenato prima di essere guariti perché
potevano porre dei problemi nel seno di un assemblea per mosse incontrollate, dunque dovevano
essere prima guariti poi potevano essere ammessi. Quest’inchiesta, come si è già visto, poneva
particolare attenzione soprattutto sui mestieri e le professioni perché alcune di esse erano
considerate incompatibili con la professione cristiana sia perché contrari alla fede o alla morale
cristiana.
Ma quale era la durata normale del catecumenato? Normalmente si parla di tre anni ma
poteva essere abbreviata per i catecumeni più zelanti. Nel cap. 17 si dice: "I catecumeni
ascolteranno la parola durante 3 anni ma se qualcuno e zelante e si applica bene all suo
dovere, non si giudicherà la durata ma sarà solo giudicata la condotta". Quindi era abbreviata
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o prolungata se non soddisfaceva alle condizione si prolungava la prova se invece si mostrava


attento poteva essere abbreviata.
Di questa preparazione catecumenale la catechesi era l’istruzione principale, ma non era la
sola. Vi si aggiungevano altri tipi di preparazione, in particolare vi erano delle preghiera proprie
del catecumenato, delle quali era previsto lo svolgimento e l'organizzazione. Anche la
disposizione dell’aula nella quale si riunivano i catecumeni era prevista una separazione tra i
sessi: da una parte vi erano gli uomini, mentre dall’altra vi erano le donne. Dopo la preghiera i
catecumeni ricevevano un’imposizione delle mani dunque erano sottomessi a certi esorcismi il
cui scopo era quello di purificare l’anima del candidato dalla presenza diabolica, perché per
l’uomo antico e il cristiano in modo particolare ognuno aveva il suo demonio personale.
Il periodo di tre anni è tassativo. Allora, vengono ammessi alla preparazione immediata e
intensiva quelli che hanno superato questo prova. Si tratta di una scelta. effettivamente a Roma
quando sarà usata la lingua latina verranno chiamati electi. In Africa e nel resto dell'Occidente
latino si parlava di competentes. Si tratta di due termini per la stessa categoria di cristiano salvo
che erano visti da due punti di vista diversi: il t. “electi” esprime il punto di vista della gerarchia
che decide chi può essere o meno ammesso alla preparazione finale, mentre il t. “competentes”
sottolinea più la preparazione del catecumeno che chiede il battesimo. Questi electi o
competentes sono sottoposti a una nuova prova: si tratta di un esame che verterà sull’onestà
della loro vita e sul loro comportamento specificamente cristiano, cioè se hanno regolarmente
pregato, digiunato, sono stati assidui all’istruzione (si prendeva nota di chi era presente chi no,
bastava una buona memoria per saperlo). Uno che non era abbastanza assiduo a questi esercizi,
non aveva possibilità di accedere a questo preparazione ultima. Un altro test di preparazione
cristiana era l’elemosina, nel senso che diventava importante la verifica del suo comportamento
verso gli altri, soprattutto verso i poveri. Sulla garanzia di chi li seguiva e li istruiva, se questa
seconda prova veniva superata, essi venivano ammessi alla preparazione immediata al battesimo,
della quale non si comprende la sua durata, anche se si pensa l’arco di una settimana, situato
generalmente durante la Settimana Santa. In questa fase la Traditio Apostolica, parlando
dell’azione di chi battezzerà i catecumeni afferma:
«Quando si avvicina il giorno del battesimo Il sabato il vescovo riunirà in uno stesso
luogo quelli che devono ricevere il battesimo comanderà loro di pregare, inginocchiarsi e
imponendo loro le mani il vescovo esorcismo ogni spirito straniero di lasciarli e di non più
tornare in essi. Quando avrà cessato l’esorcismo soffierà sul loro viso. Dunque c’è una
descrizione del rito Dopo averli segnato sulla fronte, gli orecchi e le narici li farà rialzare e
passeranno tutta la notte a vegliare riceveranno letture e istruzioni e quelli che devono essere
battezzati non porteranno seco altra cosa eccetto quello che è previsto per l’eucarestia
perché è conveniente che quello che è diventato degno del battesimo offra anche lui
l’oblazione, (partecipi all’offertorio)».
Ciò vuol dire che questa vigilia ultima del sabato precede la notte del battesimo e, quindi,
come sembra, si tratta di una settimana di preparazione con esercizi, istruzioni e preghiere
quotidiane. I tre ultimi giorni sono segnati da esorcismi particolari e anche da altri atti specifici.
Il giovedì i battezzandi dovevano fare un bagno perché era stato vietato loro di andare alle
terme, sia ai bagni sia pubblici che a quelli privati. E' uno degli atti di penitenza considerato
come tale. Se è consigliato loro di lavarsi il giovedì è perché dovevano essere puliti il sabato,
quando dovevano ricevere il battesimo. Il Venerdì è un giorno di digiuno fino alla sera del sabato
il digiuno ed è prolungato durante anche tutta la notte.
La medesima azione dell'inginocchiarsi indica anche un atto penitenziale, perché la preghiera
in ginocchio è un atto di penitenza, mentre l’atteggiamento normale per i fedeli è in piedi con le
mani alzate allo stesso modo di come prega il sacerdote durante la messa. La consistenza
dell’esorcismo è precisata con insufflazioni, signazioni, sulla fronte, sulle orecchie e sulle narici.
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Segue poi la vigilia notturna nella quale le letture erano abbastanza lunghe. Ogni lettura, tra
l’altro, doveva esse seguita da un'omelia, ma erano previsti anche dei tempi di silenzio per
permettere all’uditore di penetrarsi del contenuto del testo della lettura.- Il termine della lettura è
segnato dal canto del gallo nel cap 21: "Quando canta il gallo". Evidentemente in questo fatto
c’è forse un ricordo del gallo che ha cantato nella notte del tradimento di Pietro ma non è
esplicitato. Più semplicemente può essere un fatto corrente, il gallo canta alla fine della notte.
Questo documento, la Traditio Apostolica, lo si vede bene nel cap 21 che è un documento
composito. Già Botte ammetteva che il cap 21 poteva aver avuto un esistenza indipendente del
rituale battesimale ma non si è fatto delle domande sul carattere composito di questo stesso
capitolo. Ciò è spiegabile dal fatto che il compilatore di questa opera, la Traditio Apostolica, ha
messo insieme dei documenti di origine diversa che lui non ha cercato di unificare e coordinare.
Effettivamente il ministro normale di questa vigilia battesimale è il vescovo che interviene da
solo oppure viene assistito da un presbitero e dai diaconi in riferimento al rito da compiere.
Un altro problema è sapere a quale comunità Ippolito romano s’indirizzava nella sua Traditio
Apostolica. Alcuni sono propensi a dire che si tratta della Chiesa romana ma anche lì non si può
essere così sicuri che all’interno di questa Chiesa romana non ci siano stati dei gruppi
giustapposti soprattutto in una città cosmopolita come Roma in cui diverse comunità etniche
hanno conservato una certa identità (v. il gruppo degli egiziani, quello dei siriani, dei Giudeo-
cristiani). La stessa situazione probabilmente si è verificata anche nella Chiesa cristiana
soprattutto nelle grandi città d’Oriente e d’Occidente dove ci furono gruppi cristiani di origine
diversa. Questo problema va visto per non sbagliarsi sull’interpretazione del testo.
Circa il rituale finale del battesimo, "In primo luogo si pregherà sull’acqua al momento in
cui canta il gallo". Si tratta dunque di una preghiera di benedizione dell’acqua (già in
Tertulliano), sia che si tratti di acqua di fontana, sia che si tratti di acqua che viene dall’alto
(piovana). Ambedue possono essere utilizzate e addirittura si parla di acqua conservata in
cisterna. In mancanza di queste condizioni, si prenderà l’acqua che si trova, come, ad esempio,
presso una fontana pubblica. Questo regolamento ricorda la Didaché, anche se non si parla più
di acqua viva ma di acqua di cisterna. Ciò dimostra che ci troviamo in un ambiente urbano.

Anche nella Traditio ci sono elementi comuni a quelli presenti della prima apologia di
Giustino (v. nn. 17. 20.): ad esempio, il bacio, l'ammissione alla comunità ed il tempo di
preparazione al Battesimo. Questo periodo anticiperà il periodo di Quaresima e segna il futuro
della Chiesa nella sua vita concreta. Arrivando alla Settimana Santa, i catecumeni si riuniscono il
venerdì con il vescovo: tutta la notte rimangono in veglia. Al canto del gallo, si prega sull'acqua:
si tratta della benedizione dell'acqua, sia di quella che scorre, sia quella che non scorre (v. lez. di
Lettura liturgica dei Padri). Qui si entra nell'ambito dei simboli liturgici. E' interessante notare
che prima vengono battezzati i bambini e poi gli adulti che dovevano lasciare ogni cosa
personale (gioielli, bracciali, monili, ecc.) come segno di abbandono nelle mani di Dio e come
segno di povertà per entrare nel fonte battesimale ed essere rinnovati e rigenerati nella vita
nuova. Ciò era il segno anche di lasciare la vita passata per entrare nella nuova vita, dove
accogliere i doni di Dio. In questo modo, le cose materiali non sono più di ostacolo al cammino
verso il Regno. Infatti, era previsto che nessuno potesse scendere nell’acqua con gli oggetti
personali addosso: la persona doveva essere completamente nuda e spoglia di ogni cosa. Il
vescovo successivamente rende grazie sull’olio e lo metterà in un vaso: seguirà così la
benedizione dell'olio. Poi, il diacono scende nell’acqua con il battezzando ed impone la mano sul
capo e fa pronunciare allo stesso il Credo. Il vescovo poi unge il capo del neo battezzato che
esce dall’acqua, si riveste per accingersi a fare ingresso ufficiale nella Comunità cristiana, dove –
finalmente – potrà dare e ricevere il saluto del bacio fraterno.
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A questo punto i diaconi presentano le offerte al vescovo perché diventino il corpo ed il


sangue di Cristo. Qui diventa importante il linguaggio simbolico che esprime la realtà che sta
sotto le specie eucaristiche.
Inoltre, è importante notare che, nella Traditio Apostolica, per i neo battezzati ci sono tre
calici: il calice dell'acqua, il calice di latte mescolato con miele e il calice del vino. Essi
simboleggiano la terra promessa: già nella tradizione antico-romana, si dava il latte ai neonati per
liberarli dagli spiriti maligni. Anche qui, si nota un certo scambio tra la cultura pagana e quella
cristiana, perché quest’ultima assumerà la tradizione del latte, anche se può avere un significato
legato al contesto della Sacra Scrittura, dove Dio promette agli Israeliti la terra promessa. Nella
Traditio è importante la Cresima che conclude il rito del Battesimo. Ciò dimostra l’esistenza di
una struttura fissa, sotto la quale può intravedersi una certa teologia, anche se per alcuni
studiosi, la Cresima non aveva ancora un contesto teologico preciso. Questo spiega che la
Cresima era profondamente legata al Battesimo ed assumeva la sua forza nel significato del
passaggio dalla morte alla vita, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo. In questo senso, si ribadisce
la struttura originaria dell’Iniziazione Cristiana, così disposta: Battesimo, Cresima, Eucaristia.
Nei riti orientali, tale struttura è ancora conservata, perché dopo il Battesimo, segue la Cresima.
In tal senso, l’Oriente conserva ancora quell’unità sacramentale che era presente nella Chiesa dei
primi secoli, quando ancora la Liturgia stava vivendo un momento “embrionale” ed i singoli
momenti dell’anno liturgico non erano ancora distinti.

I RITI MISTERICI.
Dal punto di vista simbolico e nel linguaggio si notano degli elementi in comune tra il
Cristianesimo ed il mondo pagano, in modo particolare per quanto riguarda l’Iniziazione
Cristiana. Ad esempio, nel IV secolo prima di Cristo vi era già l'immagine di un giovane nudo
che veniva battezzato da una idea, come simbolo dell'iniziazione al rito misterico del mondo
pagano. A tale riguardo ci sono altri esempi che possono indicare forse un certo legame tra i riti
misterici e quelli cristiani. Nel mondo pagano, tra l’altro, il bagno indicava l’iniziazione ai misteri
minori o maggiori. Si trattava di riti di purificazione che prevedevano anche il digiuno di un
giorno. Questo fatto contribuisce ancora di più all'idea secondo cui ci può essere stato un
scambio reale tra la cultura pagana e quella cristiana.
Un altro elemento significativo, può riguardare il rito delle esequie nel mondo greco-romano:
i riti funebri furono importanti per un futuro retroterra liturgico che verrà assunto anche dal
Cristianesimo. Si creavano a quel tempo dei circoli funerari che avevano la funzione di assicurare
al defunto il suo ingresso nella Vita Eterna. Anche lo stesso San Paolo, aveva adottato un
medesimo modello, tanto che nella comunità cristiana si sarebbero creati dei circoli sociali per
sostenere i più poveri nelle spese per i funerali dei loro cari. Non c’era soltanto un’assicurazione
spirituale, ma vi era anche un sostegno concreto, mentre i più ricchi, soprattutto nel mondo
pagano, avevano la facoltà di costruire delle tombe con delle iscrizioni funerarie: in esse veniva
descritta l’attività del defunto.
Segue poi un pasto memoriale, ricordando il defunto. Ciò avveniva nel Cimitero. Questo
dimostra come nel mondo greco-romano, fosse viva la tradizione dei defunti: nell’anniversario
della morte ci si riuniva nel Cimitero e si faceva questo pasto comune, accompagnato dalle
preghiere. Tale tradizione verrà assunta – in parte – dal Cristianesimo (v. ad es., il 2 Novembre,
giorno dei morti).
Circa i termini dei riti misterici, era già presente il t. “risurrezione” che veniva spesso usato
dai pagani. Un altro termine è la “rinascita”, accompagnato da altre espressioni come “diventare
figlio di Dio”, “illuminazione”, “redenzione”, “immortalità”, anche se tali termini non avevano lo
stesso significato rispetto al contesto della fede cristiana. In questo senso, si nota come possa
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 23

esserci stato un certo influsso pagano dei riti misterici, nei confronti della nuova fede cristiana e
sul suo futuro culto, anche se non conoscono in modo precisi gli elementi che lo spiegano.
Inoltre, i riti pagani venivano presentanti come l’uso metaforico della luce. Altri elementi in
comune tra i riti misterici e quelli cristiani, riguardano le catechesi, il battesimo (era prevista, per
es., la nudità del candidato), il digiuno, l'unzione con l'olio, l'immersione nell'acqua, il pasto di
iniziazione (dove era presente la bevanda di miele e di latte, già presente in alcuni riti greco-
romani), la prima comunione, che avveniva mediante un cibo sacrificale (considerato sacro anche
dai pagani).
Quando nel IV secolo d.C. ci fu un cambiamento dei riti misterici, anche l’Iniziazione
cristiana subì un cambiamento sul piano rituale, secondo cinque punti:
1) la disciplina arcana (o di segretezza) – oltre ad indicare una distinzione tra i redenti e i
non redenti, c’è l’indicazione di particolare segreti che potevano essere conosciuti dai
salvati;
2) la mistagogia – dove si spiega l’evento della salvezza. E’ un aprire gli occhi dei candidati
al contesto della salvezza e del mistero di Cristo morto e risorto;
3) l'uso del simbolo per rafforzare il momento forte del battesimo del candidato – è il
modo per spiegare questi elementi che caratterizzano il battesimo e per creare
un’atmosfera raccolta ed intensa nella quale il candidato si accinge a ricevere il battesimo;
4) l’atto di contemplazione dell’acqua – è il simbolo attraverso il quale si enuclea la nuova
rinascita e l’ingresso alla nuova vita;
5) condividere l'esperienza della passione del Signore – è il momento forte che richiede
una spoliazione di se stessi che non indica solo il distacco dalla vita passata, ma anche il
Cristo nudo sulla Croce.
Questi elementi sono legati – in un certo qual modo – anche ai riti misterici pagani, anche se il
contesto era notevolmente diverso.

LA LINGUA LITURGICA ED IL PASSAGGIO DAL GRECO AL LATINO.


Al di fuori della Palestina e la Siria, la Koinè greca era la lingua maggiormente parlata dalla
parte orientale dell’Impero Romano e da una parte dell’Occidente romano. La koinè era una
lingua popolare, che si distingueva dalla lingua greca classica e letteraria. Nell’ambito liturgico,
la Koinè era presente in conseguenza della lingua greca, che a quel tempo era largamente diffusa.
Quando la comunità di Roma fu fondata nell'anno 64, la popolazione della città nella sua
maggioranza era formata da persone che parlavano il greco. La situazione si spiega dal carattere
cosmopolita di Roma che ospitava un gran numero di orientali in quell’epoca. La Chiesa
Romana contava, nei primi due secoli, 10 vescovi di lingua greca su 14 vescovi. I Romani stessi
parlavano come una lingua più colta, mentre il latino era usato soprattutto a livello
amministrativo. Questo fa comprendere che la liturgia veniva celebrata nella lingua greca. Il
processo di latinizzazione ha avuto inizio nell’Africa Settentrionale: dai suoi massimi esponenti,
come Tertulliano, Cipriano ed Agostino, ci sono arrivati termini liturgicicome “sacramentum”,
“ordo”, “plebs”, “institutio”, ecc. La prima traduzione della Bibbia per l’uso liturgico appare
nell'Africa, intorno all’anno 250. Il primo tentativo di introdurre il latino a Roma, è avvenuto
sotto il Pontificato di Vittore I, nel 253: durante questo periodo, la liturgia della Chiesa romana
era bilingue. Tale situazione rimase tale almeno fino al IV secolo.
Dopo l’anno 250, quando la “pars orientalis Imperii” diventò una realtà più stabile,
l’immigrazione degli orientali verso Roma iniziò a diminuire, così che venne meno l’influsso del
greco a favore del latino, ma nonostante ciò, il greco sarà ancora presente soprattutto per le
preghiere eucaristiche, anche se le letture bibliche erano già in latino. Con il pontificato di
Damaso I (morto nel 384), ci fu una traduzione definitiva dei testi liturgici dal greco al latino
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(Vogel pensa che la lingua latina fosse indipendente dal contesto della lingua greca, tanto che il
culmine è intravedibile con le composizioni del Papa Leone Magno, morto nel 461). Questo
cambiamento dal greco al latino seguiva anche una logica di natura pastorale.

UNO SGUARDO SOCIOLOGICO DEL IV SECOLO.


Al tempo di Costantino, intorno al 613, la popolazione della città di Roma che in altri tempi
era giunta a circa 1.000.000 di abitanti, contava circa 800.000 di persone. Roma a quel tempo
aveva ben otto biblioteche, 12 ponti, 11 Fori, 10 Basiliche, 11 terme pubbliche, 15 grandi
fontane, 290 magazzini. Al tempo di Gregorio Magno Roma sarà una città povera, tanto che la
popolazione era scesa sino a 90.000 abitanti. E’ un fatto interessante che ci dice qualcosa sulla
realtà sociale del tempo.
Nel IV secolo, per la prima volta la Chiesa può esprimersi liberamente nella fede, perché non
sarà più oggetto di persecuzioni: ciò darà l’avvio a nuovi luoghi di culto. Per la prima volta la
Chiesa può costruire questi edifici dove officiare il culto pubblico: si tratta delle future Chiese e
delle Basiliche. Prima di Costantino, come si è già visto, i luoghi di culto erano le abitazioni
private, soprattutto di famiglie nobili che mettevano a disposizione la loro casa per celebrarvi
l’eucaristia. Era un modo per andare incontro alle famiglie più povere. Nel IV secolo, finalmente,
la Chiesa sarà pubblica: la costruzione delle nuove basiliche sarà un fenomeno graduale e le
stesse “domus ecclesiae” costituiranno la base pubblica delle nuove chiese.

___________Note Personali di Studio_____________________________________________


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22/11/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 4a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

Nel IV secolo si nota un certo sviluppo dell'architettura liturgica6 che esprime la presenza
della Chiesa pubblica e non più domestica, che rende culto a Dio. Si crea cosi uno spazio
pubblico per raccogliere la Chiesa orante. E' uno spazio anche per promuovere una liturgia
pubblica che farà parte poi della Tradizione della Comunità cristiana. E' uno spazio secolare dove
il culto arriva ad esprimere la sua dimensione spirituale, liturgico-teologica e storica. Il IV
secolo è anche il periodo dello sviluppo dei cimiteri, come luoghi di commemorazione dei
defunti. Le Basiliche sono il luogo delle memorie dei martiri e di coloro che sono vissuti nella
fede.
In questo modo c'è una corrispondenza tra lo sviluppo liturgico architettonico e la Chiesa che
cresce nella sua dimensione reale del culto da rendere a Dio.
Dopo la pace di Costantino i vescovi ricevono i diversi simboli come la mitra, l'anello, ecc.,
che esprimono un certo potere che essi avranno, grazie al nuovo stato sociale determinato dalla
politica di Costantino. Ciò è riscontrabile anche dall'arte. Questo fenomeno troverà il suo
sviluppo tra il IV secolo e l'VIII secolo. La religione cristiana diventa religione di stato: sin
dall'inizio l'imperatore ha cercato di coinvolgere nella vita pubblica i vescovi (v. Patrologia del IV
secolo). Ai vescovi ha dato poi l'incarico di giudici, concedendo a loro un posto rilevante nella
società. Questi simboli avevano la funzione anche di esprimere non solo il potere temporale
ricevuto dall'imperatore, ma anche il potere spirituale. Il simbolo delle insegne episcopali troverà
un suo sviluppo nei secoli successivi, sotto il profilo spirituale. Non bisogna., comunque
trascurare il III secolo, come momento storico in cui si nota già una certa concorrenza tra le
diverse sedi episcopali7, a prescindere dalle questioni dottrinali. In questo ambito interviene tutta
6
V. le Basiliche, i Cimiteri ed altri monumenti: una delle prime basiliche è quella di S. Giovanni in Laterano.
7
A tale riguardo occorre far presente che quando, al tempo di Costantino, appena dopo la fondazione di
Costantinopoli, come nuovo centro dell’Impero Romano, si creerà un certo antagonismo tra le diverse sedi
episcopali: quando Costantino definì Costantinopoli la nuova Roma, in effetti trasferì lì tutto l’apparato
dell’Impero. Questo farà si che Roma non abbia tutte quelle entrate che aveva prima della fondazione della
“Nuova Roma”. Ma c’è di più: Antiochia è l’antagonista di Costantinopoli, per cui se il primato di Pietro è da
tutti riconosciuto - essendo un primato di carità - il problema è se tale primato finisce con Pietro, oppure lo
continuano i successori di Pietro. Nel rapporto tra la prima e la seconda Roma si fa avanti Antiochia che sostiene
Pietro come il fondatore della sua comunità e come il primo vescovo per cui sarà il vescovo di Antiochia ad avere
la successione di Pietro. Costantino non vuole mantenere quello che potrebbe essere una successione al primato di
carattere religioso, ma ne fa un problema di carattere politico. I successori di Pietro sono i vescovi di Roma
perché Roma è la capitale dell’Impero, ma se la capitale dell’Impero dovrà essere Costantinopoli, ecco che il
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 26

la Patrologia del III secolo, quando si hanno già i primi segni di privilegio. Sant’Agostino e S.
Martino di Tours, come altri vescovi, non ammettevano un onore eccessivo da tributare ai
vescovi stessi: la preoccupazione principale fu quella di preservare il vescovo da un influsso
troppo politico, il cui rischio potrebbe essere quello di far perdere all'episcopo la sua immagine
di pastore della Chiesa. Per comprendere tutto questo è importante fare un cenno al quadro
storico, politico e culturale del IV secolo che segna il passaggio dalle persecuzioni al
riconoscimento della religione cristiana, prima come religio implicita (311) e poi come religione
di stato (313): si passa da Diocleziano a Costantino; quasi tutti gli imperatori del IV sec. sono
cristiani o ariani, ad eccezione di Giuliano (361-363). Questo fatto, che comporta un mutamento
cosi radicale, fa si che i cristiani da perseguitati diventano persecutori. Ciò obbliga i massimi
rappresentanti della Chiesa a pensare e a proporre ai cristiani quale sia il loro ruolo nella storia
nel nuovo rapporto che si è venuto ad instaurare tra Chiesa e Impero. Ciò era impensabile nel
III secolo, quando il cristianesimo non era riconosciuto come religione. Nel IV secolo si delinea
il soggetto di una teologia politica, cioè la riflessione delle prerogative proprie dei due poteri, la
loro distinzione e la loro assunzione, quello ecclesiale (religioso-spirituale) e quello civile
(politico-sociale ed economico). E' il momento di pensare il rapporto Chiesa Impero: alcuni
Padri, come Ambrogio e Teodosio imperatore daranno un grosso apporto a questa nuova fase.
Ora, nel contesto del IV secolo, invece, si esalta quel potere imperiale che diventerà cristiano
ed avrà la legittimità di governare il popolo (l’Ambrosiaster, per es., dirà che bisognerà pagare
le tasse, perché esse sono il potere politico voluto da Dio). Ma Basilio dirà che ogni potestà
viene da Dio se rispetta il disegno di Dio. Altrimenti non ci sarà obbedienza alle istituzioni: in
questo modo ci saranno nuove distinzioni per le quali non ogni potere politico, né religioso è da
Dio, perché è tale nella misura in cui rispetta Dio stesso. In questo ambito, allora vedremo le
diverse posizioni dei Padri. In questo modo vedremo le varie posizioni per studiare la nascita di
nuove comunità cristiane che muteranno il quadro ecclesiale di quel tempo. C'è anche, però, una
fase di decadenza di Roma, per una serie di circostanze, che avrà il suo culmine nel V sec. Ma se
cade Roma, cade il cristianesimo? Tra i Padri ci sono diverse posizioni, come ad es., Orosio e
Agostino: il primo dice che candendo Roma si distrugge il cristianesimo, mentre il secondo dirà
che la decadenza di Roma ad opera dei barbari comporta un nuovo momento nella storia per cui
vuol dire che il cristianesimo andrà ai Vandali e ad altri nuovi popoli. Orosio farà, in questo
senso, tutta una teologia dell’eresia basata sull’unità dell’Impero Romano (tutto ciò che è fuori
dall’Impero Romano è eretico), mentre Agostino sosterrà il contrario.
Lo stesso Costantino si presenta come il primo punto di riferimento di una politica imperiale
che tiene in considerazione il cristianesimo. All'elemento di debolezza del potere politico-
religioso del paganesimo egli contrappone il concetto di figliolanza di Dio e della successione.
Cosa intendeva Costantino con il conio di questa medaglia? Egli, però, non esplicita ma ila
pretesa di presentarsi come Figlio di Dio nel senso di Gesù Cristo, ma si limita ad assumere dal
cristianesimo una serie di idee che gli permettono di sostituire la tretarchia con la monarchia,
nella quale vuole mostrare il monoteismo cristiano. In questo modo Costantino assume tutti i

vescovo di Costantinopoli, legato al potere politico, diventa il nuovo successore di Pietro. Ma allora perché Roma
continua ad essere la sede dei vescovi, successori di Pietro? Su questo punto si interessò la bellissima figura di
Paolo VI che vide nel martirio cristiano dei primi secoli la garanzia di cittadinanza e di guida della comunità. Il
martirio di Pietro a Roma è quello che ha stabilito il principio religioso della successione dei vescovi di Roma
come responsabili della carità universale. L'aver fondato Costantinopoli, come nuova Roma, è certamente un
voler dirottare in Oriente tutto quello che di romano c'era nell'ambito religioso. Infine, proprio questo quadro
storico denuncerà un’eccessiva prassi imperiale a svantaggio del vescovo come successore degli Apostoli, perché
come si nota già nel III secolo, con la figura di Paolo di Samosata, si noterà come nella sua Sede episcopale, si
trovi la sala dell’udienza, nella quale viene collocato il trono, al pari delle massime autorità politiche del tempo.
Ciò susciterà le ire di diversi vescovi orientali e creerà nella Chiesa una certa tensione (v. EUSEBIO, Hist. Eccl. 7,
39.9).
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poteri dell’Impero ed attua un regime politico di monarchia assoluta. Egli concederà ai vescovi il
cursus publicus (trasporto gratuito). C'è nell'intelligenza di Costantino un arma a doppio taglio.
Questo cursus publicus permette ai vescovi di riunirsi. Perché dopo Costantino abbiamo i
concili? Perché dopo Costantino ci possono essere tanti sinodi? Questo nuovo fatto è certamente
un vantaggio per i cristiani, perché questo cursus publicus permetteva ai cristiani la possibilità di
spostarsi facilmente da un luogo all’altro. Questo permette, ad esempio, alle comunità di vedere
i loro vescovi, come pure permette ai vescovi stessi di scambiarsi le idee. Ma c'è un punto
oscuro: tale cursus doveva essere sempre richiesto all’imperatore, in modo che potesse
controllare tutti gli spostamenti di tutti i vescovi. Inoltre, concederà l'immunità ecclesiastica dal
servizio militare, cioè l’esonero, che prima veniva concessa soltanto ai sacerdoti pagani:
insomma riconosce quindi alla Chiesa un interesse di primo piano. In questo Costantino mantiene
il concetto pagano. C’è da dire che il paganesimo non è ateo e non manca di un profondo senso
religioso, che viene offerto anche nell’idolatria ad un’infinità di realtà.
Costantino da il conferimento di valore civile alle sentenze emesse dai vescovi: si tratta della
Episcopali Audentia. Al riguardo vi sono degli studi molto belli, tra i quali possiamo ricordare
quelli di Vismara (cfr. Vismara, La giurisdizione civile dei vescovi; Cimma, L’episcopalis
Audentia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano). Su questo argomento
rimane importante verificare nel Cod. teodosiano, al Libro XVI, pto. 44, il valore della
Episcopalis Audentiae. Ma qual'è il problema reale offerto da questa nuova concessione? Quali
sono le sue conseguenze immediate? Il dare a un vescovo un'autorità civile e giuridica non vuol
dire di risolvere solo cause religiose, ma significa farne un arbitro tra i cristiani e l'Impero. Cosa
significa? Da una parte vuol dire che l'Impero non trova funzionari giudiziari per le zone più
estreme dell’Impero, ma, dall’altra parte la figura di vescovo acquista anche una valenza politica
perché è visto come un funzionario pubblico alle dipendenze dell'Imperatore. Quando Costantino
concede la Episcopalis Audentia dà ai vescovi il potere di risolvere le controversie tra i cittadini
cristiani. Qui non si tratta soltanto di problemi religiosi, ma anche di problemi economici. Il
vescovo viene percepito come un ufficiale pubblico alle dipendenze dell’imperatore perché il
diritto da rispettare e da applicare è quello romano. Quando il vescovo esercita la Episcopalis
Audentia deve applicare il diritto romano, non l’Evangelo. In questo senso Costantino esercita
un controllo su tutti i vescovi (cfr. Codice Teodosiano, Libro I, cap. XXVII, dove viene
decretata la Episcopalis Audentia). E', dunque, riconosciuta al vescovo un'autorità morale tale da
poter esercitare la giustizia, ma al contempo stesso, viene controllato il criterio di giustizia dei
vescovi stessi, visto che soltanto il diritto romano deve essere applicato. Costantino disciplina i
provvedimenti sulle eresie e sugli scismi (cfr. l’editto contro i donatisti e quello contro gli ariani):
il vantaggio riguarda il contrastare efficacemente l’eresia, mentre lo svantaggio è che la Chiesa si
ritrova alla mercé del potere politico, perché l’intervento dei sovrani o degli imperatori, di fatto,
sono sempre rivolti a favore della parte forte. Ad esempio, quando Costantino interverrà nella
controversia donatista, metterà al bando il donatismo stesso a favore della Chiesa. La Pax
Ceciliani costituisce la parte più forte. Anche per quanto riguarda l’arianesimo Costantino sarà il
grande fautore della condanna dell’arianesimo stesso, ma quando si accorge che tutto l’Oriente
non accetta la definizione del Concilio di Nicea, relativa alla controversia cristologica
dell’homoousios, guarda caso egli si farà battezzare proprio da un vescovo ariano. Questi sono i
punti concreti che lasciano perplessi gli studiosi. Certamente Costantino non si era mai
interessato della questione religioso-dogmatica della fede cristiana, anche se è stato un grande
imperatore politico del IV secolo, ma egli non vuole che tra i cristiani ci siano controversie
perché vuole a tutti costi salvaguardare l’unità dell’Impero.
Quindi c'è una politica imperiale unificante e segue un progetto unitario per garantire la
prosecuzione della romanità. In tal senso Ossio di Cordova eserciterà su Costantino un grande
influsso e le ripercussioni della teologia politica di Costantino le avremo palesi proprio all’inizio
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del IV secolo, che lo stesso Orosio metterà in luce perché traccia una teologia politica in cui
l’Impero Romano è un riflesso dell’unità divina nella trinità. Ogni persona che vuole stare fuori
dell'Impero è reo di eresia. Per l'imperatore tutto ciò che sta fuori della monarchia romana è una
eresia politica. Certo, l’idea della moralità diffusa da Costantino appariva irresistibile a quel
tempo, dopo un lungo periodo di sofferenza da parte dei cristiani. Dava una certa sicurezza il
poter dire che l'Impero combatteva le eresie, ma l’imperatore non stava dalla parte della dottrina,
ma dalla parte del più forte. L'idea della romanità è così forte, nella seconda metà del IV secolo
che alcuni Padri, come Girolamo, quando assistono alle invasioni dei Barbari, soprattutto di
fronte al sacco di Roma del 410, vedono nella decadenza dell'Impero una caduta del regno di
Cristo. Non è dello stesso parere Agostino. Questo fa capire che l’unificazione dell’Impero è
avvenuta attraverso anche la centralizzazione del potere politico, militare ed economico: si tratta
della centralizzazione dell’amministrazione statale. Qui avviene, tra l’altro, un altro grande
progresso clamoroso che solo nel 1240 troverà una soluzione: per rendere forte l’Impero
Romano cristiano Costantino decide di inaugurare, nel 330, a Costantinopoli la nuova Roma. Si
tratta della fondazione di Costantinopoli la cui dedicazione si presenta come la “Nuova Roma”.
Nelle cerimonie di inaugurazione c'è una mescolanza tra i riti pagani e quelli cristiani, perché
l’imperatore vuole proprio tutti, nessuno escluso. Al momento della fondazione non si vede
subito tutta la portata dell’evento, ma Costantino sa dove vuole arrivare perché i suoi successori
metteranno in atto i suoi intenti. Costantino muore nel 337. Quando nel 381 si svolge il II
Concilio ecumenico di Costantinopoli, nel III canone è stabilito che a Costantinopoli sono dovuti
tutti i privilegi concessi alla città di Roma, come “Nuova Roma”. Il concetto si ritroverà ancora
in maniera più forte nel Concilio di Calcedonia del 451. Il canone 28 di quest’ultimo concilio
afferma che Costantinopoli ha gli stessi privilegi di Roma perché è la nuova Roma. Detto così
chiaro, il papa non approvò questo canone 28 di Calcedonia, perché percepì l’idea, nonché il
pericolo di trasferire il valore della successione di Pietro da fatto religioso a fatto politico.
Perché il vescovo di Roma ha un primato di carità su tutti i vescovi? Per Costantino è tale perché
Roma è la capitale dell’Impero. Allora se io creo una nuova Roma, Costantinopoli, è chiaro che
quando la prima Roma decade il vescovo di Costantinopoli avrà la successione di Pietro. I
vescovi vengono inseriti in tutto questo progetto.
In questo contesto storico, politico e religioso, avviene lo sviluppo di una teologia che
comporterà una certa direzione anche nell’ambito liturgico-pastorale che influirà sulla figura del
vescovo8. Nell’atmosfera creata dalla pace e dalla benevolenza dell’Impero, nei luoghi costruiti
con magnificenza, la celebrazione dei misteri di Cristo nelle assemblee della comunità ecclesiale
si sviluppa verso forme che determinano poi la nostra liturgia attraverso i secoli dell’epoca
classica dei Padri e del Medioevo, fino a Trento e ai nostri giorni. Come si è già visto
brevemente, la genesi di questi fattori ha avuto inizio già nel III secolo, ma i germi allora
spuntati si svilupperanno con ritmo assai accelerato. Su questo orizzonte, in effetti, tra l’anno
312 ed il 337 la Chiesa ha visto un certo sviluppo dei simboli episcopali che, con il tempo,
acquisiranno sempre di più un significato di natura spirituale e pastorale, giacché si sentirà di più

8
La stessa importanza della Sede vescovile rimane un esempio pratico di questo sviluppo: la cattedra, è vista
come sede del magistrato, ma anche come simbolo della dignità “divina” e del trionfo non solo di Cristo sulla
morte, ma anche vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Questa simbologia era già presente nella cultura
ellenistica, nell’AT e nell’Apocalisse. L’imperatore concede alla cattedra dei vescovi il diritto di avere forme
analoghe a quelle dei dignitari civili; conferisce privilegi e distintivi propri dei gradi superiori della corte: l’uso
del pallio, dei sandali, della dalmatica (da portare sotto la pianeta). D’altra parte, l’espressione della stessa
dignità imperiale si sviluppa e si trasforma a contatto con l’Oriente. Molte forme della corte imperiale,
istituzionalizzate già da secoli, vengono col tempo conferite ai vescovi o anche assunte spontaneamente da essi,
specialmente da quelli delle grandi sedi, finendo così col perdere i loro connotati “religiosi”, acristiani o
addirittura anticristiani, per esempio certe forme di saluto come il bacio e la genuflessione (proskinesis).
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l’esigenza di vedere il vescovo come il pastore delle anime9. Sin dall’inizio i vescovi sono
coinvolti nella vita quotidiana dell’Impero, anche se non è ancora ben chiaro chi poteva o no
usare il pastorale come simbolo di potere, ma nello stesso tempo non si sa di preciso a quale uso
era destinato il pastorale stesso: quasi sicuramente, all'inizio il pastorale aveva un uso pratico,
ma solo più tardi arriverà ad assumere un altro significato: il pastorale dei pastori che guidano il
gregge delle pecore, richiama a Cristo come il buon pastore.
Nel V secolo il pastorale sarà ancora più simboleggiato: infatti, ci saranno i primi pastorali
curvi, come segno del vescovo che accoglie le “pecore” che si trovano fuori dalla Chiesa di Dio,
mentre la parte diritta indica la guida dei più deboli. La parte finale e più bassa del pastorale
indica, invece, l’attenzione e la premura pastorale del vescovo verso chi è pigro nella vita
spirituale e comunitaria, in modo da stimolarlo a ritornare ad una fede più viva e motivata. La
Mitra farà, invece, la sua prima comparsa non prima del VIII-IX secolo: non è la Mitra di oggi,
perché era più semplice: anch'essa all'inizio aveva una funzione pratica perché fungeva da
berretto che doveva riparare il vescovo dal freddo. La tiara, invece, apparirà intorno al IX
secolo. Solo a partire dal X secolo la Mitra sarà prevista per tutti i vescovi ed assumerà il
significato di un potere ed un'autorità riservata al vescovo.
Circa l'uso dell'anello, all'inizio era usato da tutti i cristiani: esso fungeva da sigillo per i
documenti ufficiali. Tale anello riportava il nome del successore oppure un simbolo della famiglia
di appartenenza. Le stesse lettere venivano sigillate con l'anello medesimo. All’inizio, l’anello
sarà usato da tutti i cristiani, ma già a partire dall’anno 283, secondo la testimonianza di un certo
Caius di Roma (283-296), l’anello sarà usato solo dal vescovo. Sant’Agostino, a tale riguardo,
dice che lui ha sigillato una lettera al vescovo Vittorino con il suo anello episcopale. Anche i Re
di Francia, nell’epoca carolingia, erano soliti accettare i documenti o le lettere dei vescovi solo
quando venivano sigillati con il proprio anello.
Solo a partire dal VII secolo, secondo la tradizione, ogni vescovo avrà l'anello come simbolo
di matrimonio con la Chiesa Locale (Particolare). L'anello veniva dato durante l'ordinazione
episcopale. Questo aspetto è da ritenersi fondamentale per quanto riguarda la storia delle insegne
episcopali. Ciò comportava il fatto che il vescovo non poteva trasferirsi in una sede più
prestigiosa. Tale tema è stato ripreso recentemente dal Card. Ratzinger, per sottolineare
l’importanza ed il significato dell’episcopato e per salvaguardare sempre di più l’unità tra il
Vescovo e la Chiesa locale.
La croce episcopale, all'inizio fu un ornamento privato e non pubblico, ma successivamente,
dopo il IV secolo avrà una dimensione pubblica. All'inizio essa veniva posta sotto i vestiti e ciò
richiama alla Tradizione più antica. La croce episcopale o pettorale, troverà un significato più
spirituale e perderà la sua caratteristica di ornamento, poiché ci sarà una crescita dell’episcopato
dei simboli, che sottolineerà l’importanza della liturgia stazionale. Ci sarà anche lo sviluppo della
festa di Pasqua che si distinguerà meglio, rispetto ai secoli precedenti.
C'è anche da dire che ci fu una crescita della liturgia, in modo particolare quella stazionale: la
stessa festa di Pasqua conoscerà un grande sviluppo proprio nel IV secolo. Lo stesso si può dire
per la festa di Pentecoste che favorì, tra l'altro uno sviluppo dell'iniziazione cristiana. Per quanto
riguarda la celebrazione della Pasqua, in merito all'iniziazione cristiana, il Giovedì Santo veniva
riservato ai penitenti, cioè coloro che dovevano essere riconciliati con la Chiesa, mentre il
Sabato Santo veniva riservato per i catecumeni che erano in procinto di ricevere il Battesimo.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda il Battesimo del Signore: la sua festa nella Chiesa
Occidentale fu introdotta nel IV secolo circa. Il suo significato sarà visto più tardi come
manifestazione del Signore e non più, in modo stretto, come battesimo del Signore. Insieme al
9
Quel che è importante notare è che, mentre la società subisce profonde trasformazioni, le suddette insegne
episcopali rimangono immutate, si istituzionalizzano, vengono stilizzate. In questo modo diventano segni di una
cultura ormai non più civile e profana, ma puramente simbolica e sacra.
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Natale e alla Pasqua, sarà considerato una tra le feste liturgiche più importanti, nel contesto
dell’Anno Liturgico. Ciò darà origine alla festa dell’Epifania.
Per quanto riguarda il Natale la prima testimonianza risale al 336, quando iniziò ad esserci la
tradizione universale che comporterà la festa del 25 Dicembre. I primi cristiani volevano seguire
questa tradizione prendendo spunto dal "Natale Solis invicti”10. Si sa con sicurezza che con
l’introduzione del Natale faceva parte dell’intento della Chiesa romana di contrapporsi alla
celebrazione delle festività di origine pagana. In Oriente ci sarà la festa della manifestazione o
epifania: il 6 gennaio sarà considerata dall’Oriente come la festa più importante, rispetto a quella
del 25 Dicembre e ciò costituirà una tra le differenze principali tra l’Oriente e l’Occidente.
L’importanza del Natale, nelle Chiese orientali iniziò ad acquisire una maggiore importanza a
partire dalla Chiesa di Siria e, dal V secolo in poi, il Natale diverrà festa fissa. Invece,
Gerusalemme fino al 549 circa non conobbe ancora il passaggio tra il 6 gennaio ed il 25
dicembre, ma solo dopo. Nella Chiesa Armena il Natale si celebra, ancora oggi, il 6 gennaio.
Il tempo forte di Avvento arriverà più tardi nel VI secolo: nel Gelasiano, ad esempio, sono
presenti delle preghiere per cinque domeniche, prima del Natale, compresi i mercoledì ed i
venerdì delle medesime settimane. All'inizio si noterà una certa enfasi sulla preparazione per
l'ultima venuta di Cristo e del suo Regno. C’è una dimensione escatologica che indica una
preparazione per la festa della venuta di Cristo in mezzo a noi: tale senso, all’inizio, non sarà
molto presente, ma caratterizzerà sempre di più il periodo dell’Avvento, nel contesto dell’Anno
Liturgico.
Ancora oggi, rimane una certa enfasi ma non è molto marcata, come in passato: lo si nota
soprattutto nella prima domenica e nella seconda domenica di Avvento, nelle quali sono presenti
rispettivamente dure temi: 1) l’ultima venuta di Cristo alla fine dei tempi, 2) preparazione al
Regno di Dio che viene. Dunque, come è già stato detto, il tema principale nella prima domenica
e nella seconda Domenica di Avvento è l'evento escatologico, che si differenzia dalla terza e dalla
quarta domenica perché in queste ultime è più evidente la tematica della venuta di Cristo, in
mezzo agli uomini. A questo fatto è legata anche la futura festa della nascita di Giovanni Battista
il 24 giugno: essa si affermerà a partire dalla seconda metà del IV secolo, quando le Chiese
occidentali inizieranno a celebrare la nascita del precursore di Cristo nel giorno del solstizio
d’estate11.

Circa il contatto con la cultura greco-romana, c'è una prassi abbastanza diffusa circa l'uso di
forme eucologiche, non prive dello stile retorico del mondo classico, né dell'influsso ellenistico:
lo si nota soprattutto nel linguaggio dei riti. Vi è anche l’uso di termini come attributi alla
divinità: ad esempio, i termini “incomprensibilità”, “infinità” ed “ineffabilità” che esprimono lo
stile greco. Malgrado ciò, il canone romano esprimerà delle caratteristiche romane pure, pur non
essendo privo degli influssi greci: lo si nota da un linguaggio sobrio, semplice e giuridico. Ad
esempio, si trovano in esso diverse espressioni come “ostia Santa”, “Ostia pura” e “Pane
immacolato”.
Inoltre c’è da dire che la Chiesa, in questo periodo, iniziò ad assimilare alcuni termini del
culto pagano che potevano armonizzarsi con il culto cristiano, come, ad esempio, l’Iniziazione
cristiana, l’illuminazione, la mistagogia. In questa stessa linea si verifica anche lo scambio tra la
festa pagana e quella cristiana, come ad esempio il Natale, di cui si è detto sopra.

10
Nel calendario giuliano il solstizio invernale cadeva in questo giorno era festeggiato con i Saturnalia e a partire
dal 274, anche con il mitraico Natale solis invicti. L’osservanza della festa di Natale, probabilmente nacque a
Roma, mentre nell’Oriente assunse una maggiore importanza la festa dell’Epifania, insieme alla
commemorazione della festa del Signore.
11
E’ probabile che la data del 24 giugno fosse stata scelta per bilanciare i festeggiamenti dei due solstizi: quello
invernale e quello estivo.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 31

Lo sviluppo della cultura cristiana, religiosa e politica, nonché sociale, rispetto a quella
pagana, farà notare come la Chiesa, all'inizio, fosse separata dal paganesimo, e come - al tempo
di Costantino - la Chiesa divenga quasi un tutto uno con la realtà sociale e politica dell'Impero
Romano12. Ci sarà una certa crescita di una cultura greco-classica: il periodo costantiniano sarà il
momento anche dell'inculturazione e del passaggio da una situazione di persecuzione ad una
situazione di inserimento nella vita sociale dell'Impero e di privilegio. La liturgia cristiana diverrà
liturgia dell’Impero, che assumerà una certa solennità sia nel suo linguaggio artistico, sia nel suo
linguaggio eucologico. Un dato molto importante è che il IV secolo è forse il secolo più bello,
dove si vedrà lo sviluppo della Corte Imperiale, ma soprattutto il secolo delle prime storie
ecclesiastiche: tale affermazione può essere suffragata dal fatto secondo cui un popolo che non
ha storia, come quello cristiano, è un non popolo. Quindi bisognerà dare ai cristiani una storia
propria. Ecco che allora si inventa un nuovo modo di fare storia della Chiesa. Proprio per questa
ragione che nel IV sec., abbiamo le prime storie ecclesiastiche, che sono precedute dal tentativo
di inserire la realtà cristiana all’interno della storia dell’umanità. Ecco che si inizia a dare
cittadinanza ai fatti cristiani.
Inserire la nascita di Cristo sotto Augusto, significa portare il cristianesimo nella storia. Così
piano, piano si cerca di dare al cristianesimo una storia vera e propria. In questo senso possiamo
accennare alla storia ecclesiastica di S. Eusebio, ma qual’è il suo merito? E' vero che egli
riprende in auge le tradizioni pagane, ma per fare la storia dei cristiani che, come vinti, saranno i
nuovi protagonisti. Per S. Eusebio i grandi saranno proprio i martiri, i bambini, le donne e gli
uomini di quel tempo. In questo senso è un moderno che sa cogliere tutte le coordinate politiche
sociali e politiche. Il grande genio di Girolamo ha dato al cristianesimo il contributo alla
conoscenza dell'antichità e dei personaggi più illustri, che hanno dato lustro alla storia. Così si
delinea un modo nuovo di fare la storia: se prima erano le guerre, le battaglie, le conquiste a
determinare la storia, adesso la storia la fanno i vinti. I Vinti, cioè i martiri fanno la storia. In
questo senso vedremo, allora, l’agiografia, la storiografia e la cronografia, perché nasceranno,
con l'opera di Girolamo, nasceranno i modelli di santità da proporre alla comunità cristiana. Un
altro aspetto culturale è legato alla poesia: con lentezza nasce nel IV secolo la poesia cristiana,
segnata dal faticoso tentativo di liberarsi dai pregiudizi tematici e formali che screditano la
poesia pagana agli occhi dei cristiani. La poesia pagana cantava la mitologia, gli amori incestuosi
e tutto ciò che ai cristiani stessi appariva come peccato. Certo non si poteva fare la poesia senza
la passione: bisognava provare che fosse una passione vera perché fosse poesia e non
un’invenzione strutturata. Un esempio, in tal senso è proprio Sant'Agostino. E' bene mettere in
12
In questo senso, è importante notare come i Padri della Chiesa vedono l’Impero e la Chiesa stessa: questa
tematica è complementare al quadro sopra esposto. I Padri si sono posti il problema avendo come riferimento
sempre la Sacra Scrittura e sottolineando che ogni potestà viene da Dio, riprendendo da Paolo nel contesto di Rm
13, 1-7. Ci si richiama, dunque, al pensiero di Paolo per chiarire i rapporti sociali tra i cristiani e l'Impero, ma
sorge una domanda: come venire da Dio un potere che ci perseguita? Era una riflessione che i cristiani stessi si
erano posti nel II-III secolo. Ora, nel contesto del IV secolo, invece, si esalta quel potere imperiale che diventerà
cristiano ed avrà la legittimità di governare il popolo (l’Ambrosiaster, per es., dirà che bisognerà pagare le tasse,
perché esse sono il potere politico voluto da Dio). Ma Basilio dirà che ogni potestà viene da Dio se rispetta il
disegno di Dio. Altrimenti non ci sarà obbedienza alle istituzioni: in questo modo ci saranno nuove distinzioni
per le quali non ogni potere politico, né religioso è da Dio, perché è tale nella misura in cui rispetta Dio stesso. In
questo ambito, allora vedremo le diverse posizioni dei Padri. In questo modo vedremo le varie posizioni per
studiare la nascita di nuove comunità cristiane che muteranno il quadro ecclesiale di quel tempo. C'è anche, però,
una fase di decadenza di Roma, per una serie di circostanze, che avrà il suo culmine nel V sec. Ma se cade Roma,
cade il cristianesimo? Tra i Padri ci sono diverse posizioni, come ad es., Orosio e Agostino: il primo dice che
candendo Roma si distrugge il cristianesimo, mentre il secondo dirà che la decadenza di Roma ad opera dei
barbari comporta un nuovo momento nella storia per cui vuol dire che il cristianesimo andrà ai Vandali e ad altri
nuovi popoli. Orosio farà, in questo senso, tutta una teologia dell’eresia basata sull’unità dell’Impero Romano
(tutto ciò che è fuori dall’Impero Romano è eretico), mentre Agostino sosterrà il contrario.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 32

poesia la Scrittura, poiché si parlerà del trionfo di Cristo e del martire. Tutto questo contribuirà
in larga misura allo sviluppo di una cultura classica, ma con connotati diversi da quelli del mondo
ellenistico. Un esempio concreto è il Pantheon che da tempio pagano diverrà luogo di culto dei
martiri. Si tratta di prendere idee, concetti ed elementi pagani, ripensarli e tradurli secondo la
visione cristiana. Infine, non è trascurabile l’ambito teologico, come aspetto peculiare della
nuova cultura classica che avrà un grande peso nello sviluppo della tradizione liturgica. In questo
senso, nel IV secolo nascerà quel discorso su Dio che non si esaurisce nelle espressioni
scritturistiche, ma che tenta l’approfondimento utilizzando categorie e terminologie filosofiche.
La riflessione sul mistero di Dio Trinità, sulla natura di Cristo (Cristo, Uomo-Dio) e dello Spirito
Santo, sarà suscitata dall'arianesimo, dall'apollinarismo, dai macedoniani o pneumatologi. Per la
Chiesa diventa un passo importante e decisivo, per una professione di fede autentica. Sarà
certamente più facile discutere e vedere come proporre la fede soprattutto nel momento delle
persecuzioni, nelle quali sarà essenziale la tematica di Gesù Cristo come Signore, come il Kyrios
della storia, che costituirà la vera prova del fuoco. Conoscere intimamente Dio vuol dire mutare
la propria esistenza. Bisognerà insegnare ai catecumeni che conoscere Dio Padre, Figlio e Spirito
Santo comporta mutare la propria vita. Questa visione giustifica, in gran parte il fenomeno
dell’inculturazione che avviene nell’Impero, non più pagano, ma cristiano.

SVILUPPO DELLA LITUGIA TRA IL IV SECOLO E L'VIII SECOLO. (LITURGIA ROMANA).


In questo ambito, si parla soprattutto della romanità della liturgia. Tra l’anno 609, sino al 613,
sotto Bonifacio IV, un esempio significativo sarà il passaggio del Pantheon da tempio pagano a
tempio cristiano, quando diverrà chiesa con il titolo di Santa Maria ad martyres. Dieci anni dopo,
tra l'anno 625 ed il 628 il vecchio palazzo dell’ex foro romano, verrà trasformato in chiesa di S.
Adriano. Più tardi sorgeranno anche questi centri di diaconia: ciò corrisponde alla liturgia
stazionale perché tali centri costituiscono le diverse tappe della processione che doveva
condurre alla Basilica dove il Papa celebrava la S. Messa. Dopo l'anno 684 Roma diverrà anche
una città di pellegrinaggio: le stesse Basiliche furono pensate come luoghi per accogliere i
pellegrini, così che nel VII-VIII secolo Roma diventerà città Santa. Malgrado il forte aumento
dei pellegrinaggi Roma, verso l'VIII secolo arriverà solo a 35.000 abitanti. San Pietro inizierà a
diventare principale luogo di culto e punto centrale di riferimento. San Giovanni in Laterano
come principale centro di culto cristiano cederà il posto a San Pietro, dove si trova – secondo la
tradizione – il corpo dell’Apostolo Pietro.
La liturgia romana è da considerarsi pura perché prima ancora che entrassero nell’Impero
nuovi elementi franco-germanici, ebbe già un suo sviluppo, secondo gli aspetti visti in
precedenza. Certamente con l’aspetto dell’inculturazione, la liturgia perderà a poco a poco la sua
caratteristica di purezza ed subirà sempre più gli influssi esterni sia dall’Oriente, sia
dall’Occidente.
La Liturgia avrà anche una radice classica, grazie all’opera dei Papi, specialmente a partire da
Damaso che morì intorno al 384, Innocenzo III (417), Leone Magno (461), Gelasio (496),
Vigilio (555), Gregorio Magno (604).
Andando verso argomenti più specifici, nella liturgia romana ci sono stati tre tipi di messe: la
Messa Papale, la Messa stazionale e la Messa nei Santuari o nella Chiesa designata nel giorno di
festa o di digiuno o di commemorazione. Si tratta di una liturgia celebrata dal vescovo o dal suo
delegato: essa è vista come unica celebrazione liturgica della Chiesa locale che affermerà sempre
di più l’esigenza di non moltiplicare le Messe, ma di favorire sempre di più una Messa principale
(v. il Concilio di Pistoia). Tutto questo dice che ci sono aspetti molto importanti come la
presenza del vescovo, la liturgia mobile (celebrare in diversi luoghi), la scelta del luogo che
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 33

dipende dalla festa, dal digiuno o dalla commemorazione dei defunti o dei martiri, la liturgia
stazionale urbana - come celebrazione liturgica del giorno. La fonte della liturgia stazionale non
fu strettamente una fonte della liturgia liturgica, ma piuttosto la fonte del calendario romano
dell’anno 354, dove si troveranno le informazioni sulle dati pasquali, sui martiri di Roma, sul
calendario civile, insieme ad altre informazioni della Città.
Tutto questo comporterà un certo fermento e favorirà lo sviluppo del concetto di “Ostia
papale” come simbolo di unità tra la Chiesa locale e quella Universale. Esso si espliciterà nel
gesto del presbitero che metterà un piccolo pezzo dell’ostia papale nel luogo, dove verrà
conservato il Santissimo, della Chiesa titolare. Si tratta della Messa in titolus, perché il t.
“titolus” indica – all’origine – una casa data alla comunità primitiva cristiana per essere un luogo
di culto cristiano e per accogliere la comunità dei credenti. A tale proposito vi erano nove titoli,
prima del IV secolo, in via ufficiale, per l’uso liturgico. Essi sono: Santi Giovanni e Paolo, San
Clemente, S. Anastasia, S. Martino ai Monti, San Crisogono, Santa Sabina, Santa Susanna, San
Sisto, San Prudenziana. Inoltre, tre titoli esistevano prima della pace di Costantino, quali San
Callisto, Santa Cecilia e San Marcello. Ogni titolo si trovava in una zona più abitata e mai veniva
costituito in zone poco abitate e o frequentate della città.
Dopo la pace di Costantino e dopo la costruzione delle grandi basiliche i titoli continuarono
ad essere usati come luoghi di culto: ad es., Santa Sabina fu edificata intorno al IV secolo (422-
432) per il Papa Celestino I, sapendo che prima di essa vi era un titolus, cioè una domus ecclesia.
La nuova Basilica di Santa Sabina fu ricostruita sulle rovine della Chiesa antica, saccheggiata da
Alarico, durante il sacco di Roma. In essa vi sono due navate laterali ed una centrale dove è
ubicato l’abisde: la presenza della schola cantorum e di due amboni costituisce la testimonianza
migliore della prassi liturgica dopo il tempo di Costantino. Alla fine del IV ci saranno almeno 20
titoli a Roma: al tempo di Leone Magno, tra il 440 ed il 461, ci saranno cinque titoli in più (San
Marcello Santi Apostoli, Sant’Eusebio, San Pietro in Vincoli, San Vitale). La costruzione delle
Basiliche sarà fedele alla tradizione secondo cui i titoli devono essere presenti nelle zone più
popolate della città.

29/11/2000 Storia della liturgia secondo le epoche culturali, 6a. Lezione,


Prof. Keitk Pecklers sj.

La liturgia stazionale è quella cosiddetta “papale”. E’ importante dire che a Roma tra il IV e
il V secolo c’è una certa crescita del Cristianesimo e allo stesso tempo si assiste ad una fusione
tra la Chiesa e gli altri culti che pure continuavano ad esistere.
La pace di Costantino non eliminò gli altri culti, ma diede semplicemente spazio e dignità al
Cristianesimo.
Si verifica allora come un fenomeno di reciproca integrazione e questo riflette una realtà
sociale di stretta coabitazione tra cristiani e pagani (è frequente il caso dei matrimoni misti).
Tutto ciò contribuisce ad una certa “confusione” nella prassi cultuale cristiana. Molti cristiani
neo-convertiti volevano continuare a seguire alcuni usi pagani. Un esempio è la pratica
battesimale: con l’aumento del numero dei battesimi anche la prassi subisce un cambiamento,
abbiamo infatti visto come nel III secolo l’iniziazione cristiana prevede una preparazione molto
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 34

rigida, poi dopo la pace costantiniana, quando la Comunità si allarga e si elabora una teologia sul
peccato originale (S. Agostino), si comincia ad amministrare il battesimo ai fanciulli.
Questa situazione di liceità della religione cristiana, in qualche modo la “normalizza” e si
perde così quell’aspetto di intensa preparazione che l’aveva connotata nei secoli precedenti.
Tornando alla liturgia stazionale parliamo ora di quell’altra forma, la liturgia “parrocchiale”
o “in titulus”. La messa principale restava sempre quella episcopale, ma con il tempo si
moltiplicano liturgie in tempi e luoghi diversi da quella episcopale.
Con i secoli la liturgia episcopale perde il suo carattere di centralità e di conseguenza anche
l’Eucarestia perde il suo carattere di sacramento comunitario per assumere un aspetto di
spiritualità privata e personale. Con il sinodo di Pistoia (1786-1787) si cercherà di ritornare ad
una liturgia unica e principale. Ma dopo il IV e il V secolo dopo la liturgia papale e stazionale, si
perde il senso della liturgia principale e comune.
Nel VI secolo i titoli hanno ricevuto i nomi dei santi, e non più quelli del titolare. Queste
case-chiese ricevono i nomi dei santi.
Nascono ad esempio le messe votive, espressione di una religiosità di gruppi più ristretti e
particolari; fino ad arrivare alle “messe private”, senza il popolo ( qui la discussione è ancora
aperta e la sua origine non è ancora ben studiata ). La messa “votiva” è conseguente ad un
“votum” di un gruppo ristretto di persone che si riunisce per celebrare l’Eucarestia, la messa
“privata” è successiva e comincia nei monasteri, nel periodo dell’alto medioevo, quando i monaci
ordinati presbiteri tornati nei monasteri dopo una missione (ad es. S. Bonifacio), celebrano
ciascuno la sua messa. Tutto questo è una fase successiva che vedremo in seguito, ma è
importante conoscere questo sviluppo della messa privata, che è un fattore importante della
spiritualità sacerdotale.
La liturgia romana prende origine dalla liturgia “stazionale”, una forma in uso anche a
Costantinopoli e a Gerusalemme, e segue un itinerario particolare di inculturazione nello spazio
urbano (vedi il pellegrinaggio di Egeria). Come Gerusalemme allora anche Roma diventa una
città “sacra”, in cui tutto lo spazio diventa liturgico. Parlando allora della romanità della liturgia
bisogna tenere conto di aspetti formali e aspetti teologici della liturgia. Intendendo per formale
l’aspetto più rituale, cioè la struttura della liturgia romana, e il complesso dei testi liturgici.
L’aspetto teologico invece fa riferimento al contenuto o all’aspetto più dottrinale che sviluppa il
rito stesso.
L’aspetto rituale lo troviamo negli “Ordines Romani”. Nell’ “Ordo Romanus I” troviamo un
esempio di una liturgia romana classica con le sue caratteristiche di sobrietà e semplicità, si noti
ad esempio dai nn° dal 29 al 50 ci sono i riti di ingresso: solo il vescovo si reca all’altare, alla
dossologia solo l’arcidiacono si reca all’altare per l’elevazione, mancano poi le rubriche di
genuflessione, di incensazione di segni di croce, che invece ritroveremo nella liturgia franco-
germanica.
Nella liturgia romana emerge un senso molto “pratico”, rispetto ad un gusto più “teatrale”
della cultura franco-germanica. Ad esempio anche nella preparazione dell’altare e dei doni. Il
“lavabo” del vescovo è un fatto pratico, non ogni atto liturgico nasce da un fatto teologico ma
da un fatto pratico, non così è per il “fermentum” che invece è un segno importante di
comunione, fin dall’origine.
Quando poi il latino diventa la lingua ufficiale della liturgia e possiamo citare gli interventi di
personalità come Leone Magno, Gelasio, Gregorio Magno, ma non solo il latino nel suo aspetto
retorico, ma anche nei suoi modelli culturali e linguistici influivano sulla liturgia. E’ stato sempre
importante il lavoro della traduzione dei testi in maniera comprensibile per i fedeli. Nelle collette
del Messale Romano si vede che non si tratta di una semplice traduzione dal greco, ma di un
adattamento culturale che segue sempre il genio romano, pur mantenendo lo stesso valore
semiotico. I romani dell’epoca potevano entrare nel senso della preghiera perché comprensibili a
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 35

tutti. Nel mondo franco-germanico troviamo un “genio” diverso e così anche preghiere diverse,
più lunghe e poetiche. Gli elementi teologici si mostrano con più evidenza nel culto eucaristico, e
il genio romano si distingue sempre qui per una certa sobrietà. Ad esempio, sempre nell’Ordo
Romano I (al numero 48) non troviamo segni esteriori di adorazione eucaristica, (tranne che nel
rito di ingresso), l’incenso non viene usato nel sacramento e, nel linguaggio eucologico non
troviamo riferimenti diretti alla dottrina della presenza reale. Si parla allora di “cibus et potus”,
“pane del cielo”, “i doni di Dio per il popolo di Dio” (S. Agostino). Questo non significa che
c’era una fede diversa, ma è una diversità di linguaggio, la formula ambrosiana “Corpus Christi”,
non si trova nei testi liturgici romani di questo periodo e nella Tradizione Apostolica (21) si parla
di “Panis Coelestis in Christo Iesu” , un senso del Corpo di Cristo come pane del cielo. E’ un
linguaggio poetico e quindi meno diretto nel campo dottrinale.
La centralità del vescovo nella comunità romana è un’altra caratteristica peculiare, si vede
soprattutto nella liturgia stazionale, ma poi anche quando il vescovo era assente, c’era un suo
delegato, come un punto di riferimento. I presbiteri diventano delegati del vescovo.
Riassumendo in questo periodo (IV-VIII secolo) la Chiesa di Roma sviluppò una sua liturgia
secondo l’indole propria della cultura romana. La liturgia romana classica fu elaborata da papi
romani di cui abbiamo visto già gli esempi. Questa liturgia ha quindi un proprio ambito e un
proprio confine, è l’ambito tipicamente romano.
La liturgia romana diventa poi un modello per altre liturgie soprattutto di altre chiese locali.
Si capisce che in altri ambiti vi erano liturgie diverse, ma nondimeno, quella di Roma divenne
una liturgia modello per le altre chiese locali. Si verificò un processo di adattamento e di una
certa inculturazione. Questo processo era anche conseguente ad una complessiva
“romanizzazione” della società antica.
La liturgia risponde sempre ai bisogni di un popolo particolare in un’epoca ben determinata,
ma questo lo vedremo meglio in seguito parlando più in esteso dell’inculturazione.
Il movimento liturgico del secolo scorso non fu un lavoro di archeologia culturale romantica,
di un semplice ritorno al passato, ma rispondeva ad un’esigenza precisa del tempo, quando cioè
la liturgia romana riprese la sua forma classica, dopo però aver già subito diversi processi di
inculturazione nel mondo franco-germanico (VIII secolo). Il modello di inculturazione deve
cominciare sempre dalla forma classica che è il fondamento. Tornare alla sorgente e al
fondamento aiuta per l’inculturazione che non è mai semplice creatività, e per noi il fondamento
resta sempre la liturgia romana classica. Per ogni forma di inculturazione poi bisogna sempre
tener presente che il legame tra cultura e liturgia è fondamentale.
Ho già accennato all’iniziazione cristiana nel IV secolo (350-450), che prende una sua forma
grazie soprattutto alla predicazione di grandi Padri come S. Basilio, S. Gregorio di Nazianzo,
San Gregorio di Nissa, S. Giovanni Crisostomo, S. Teodoro di Mopsuestia, S. Ambrogio, S.
Agostino, S. Leone Magno e altri. Quest’epoca fu l’età d’oro per l’iniziazione cristiana attorno
alla quale ruotava tutta la vita liturgica cristiana. Soprattutto con la cristianizzazione dell’Impero
e la “conversione” di Costantino c’è un ampia diffusione del cristianesimo. Da religione pubblica
diventa religione di stato e i vescovi vengono investiti di magistrature imperiali. Il vescovo
riveste così un ruolo pubblico e sociale importante.
C’è poi il ritorno dei grandi penitenti, e si crea un catecumenato apposito; abbiamo poi già
parlato del battesimo dei bambini e fu S. Agostino e la sua dottrina sul peccato originale ad
aprire la strada a questa pratica battesimale molto allargata.
Vediamo in questa fase come allora il periodo della Quaresima, che era un tempo
essenzialmente legato al catecumenato, si diversifica secondo durate e luoghi diversi, perché con
la crescita del numero dei battezzati si creano anche forme diverse di catecumenato e si instaura
in generale una certa flessibilità pastorale ed elasticità nella disciplina ecclesiastica.
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Si arriva così al periodo della fine della pratica del catecumenato, nel pieno di una società
cristiana non c’è quasi più bisogno di questo tipo di preparazione.
Dopo questa fase si passa al secondo periodo dello sviluppo liturgico (590-1073) che va da
Gregorio Magno a Gregorio VII, dove assistiamo ad una evoluzione dalla liturgia romana ad una
liturgia romano-germanica.
In questo periodo nascono i sacramentali con le rubriche per il clero e possiamo distinguere
diversi passaggi:

a) sistematizzazione della liturgia romana e del pontificale;


b) esportazione di questo modello liturgico nell’ambito franco-germanico, grazie
ai pellegrinaggi e alla dinastia carolingia (a partire dal 754 con re Pipino);
c) complessiva romanizzazione delle liturgie occidentali non-romane;
d) mescolanza di usi liturgici romani ed occidentali;
e) progressiva occidentalizzazione della liturgia romana;
f) ritorno a Roma di una liturgia così modificata (fine del secolo X);
g) adozione permanente di questa liturgia a Roma, in un periodo di decadenza
per la città;

Questo processo di evoluzione e amalgama liturgico inizia nel VII secolo e dall’VIII al X
secolo dobbiamo pensare ad un lungo periodo di transizione.
Nella fase b) vediamo nascere un desiderio di introdurre elementi romani nella liturgia, a
causa della grande devozione verso S. Pietro e le tombe degli apostoli, è il desiderio di avere
elementi “romani” e quindi “apostolici” anche nelle altre liturgie, soprattutto in quella gallicana.
Nel mondo franco assistiamo ad un vivace dibattito tra i vescovi e gli abati a causa di queste
riforme liturgiche. Dobbiamo pensare che il mondo franco-germanico vive di una grande
diversità liturgica, quasi ogni diocesi ha il suo modo di celebrare, si forma quindi nella Chiesa un
partito “unificatore” che vuole ispirarsi a Roma, e un altro che invece vuole restare alle diverse
tradizioni locali. L’idea di fondo dei “riformatori” era quella di mettere un po’ di ordine nella
celebrazione della liturgia. Si deve poi pensare che la liturgia gallicana ad esempio, era una
liturgia molto più ricca di segni (c’era tra le altre cose l’incensazione del popolo).
Comunque nell’VIII secolo si comincia ad imitare la prassi stazionale romana, e si comincia
ad affermare la liturgia conventuale (che porterà poi alla prassi della messa privata).
I modelli liturgici romani arrivano in Occidente con i rispettivi libri liturgici. In generale
vediamo che si passa ad un senso sacramentale-strumentale della liturgia (soprattutto con
Sant’Ambrogio); si abbandona il linguaggio simbolico (“doni santi”, “pane celeste”) e si passa ad
un linguaggio più concreto e dottrinale (il “corpo di Cristo”).
Con S. Bonifacio (680-754), evangelizzatore della Germania settentrionale, vediamo anche
come la liturgia romana diventa uno strumento di centralizzazione politica. L’Impero Romano-
Germanico di Pipino cerca una sua liturgia e la cerca a Roma. Sarà poi il successore Carlo
Magno ad imporre il modello romano a tutto l’Impero (772-795) e chiede al papa Adriano di
inviargli un sacramentale romano puro.
Sul sacramentale adrianeo ci fu poi un successivo lavoro di redazione e adattamento ad opera
di Alcuino. Neunheuser parla di 4 fasi:
1) libro misto di Pipino;
2) sacramentale Adrianeo (puro);
3) “supplementum” di Benedetto (Anianense);
4) Gregoriano + “supplementum”.
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_________________Note Personali di Studio_______________________________________

06/12/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 6a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

In questa lezione è importante sottolineare alcuni aspetti relativi alla politica di Carlo Magno,
che fu considerato strumento di Dio. Questo fa notare l’esistenza di determinati contrasti tra i
vescovi di Roma e Carlo Magno che voleva detenere un certo potere politico ed usare la liturgia
come strumento di questo potere. Inoltre, egli voleva mantenere un certo rapporto con i suoi
vescovi senza, però, avere un contatto con quelli di Roma. Egli usò la liturgia come strumento di
influsso per la sua egemonia in tutto l’Impero. Egli non sapeva scrivere, ma aveva degli
assistenti, come Alcuino. I vescovi stessi divennero servi dell’Impero e non servi di Dio. La
libertà liturgica, accentuandosi nel secolo VII con l’intento pratico di favorire nelle singole
regioni un culto rispondente nelle forme alle esigenze della civiltà locale, germinò in misura
troppo grande, così da non assicurare neppure ad una provincia ecclesiastica l’unità liturgica.
Secondo il Cattaneo, senza dare alla parola un contenuto ribelle, ma soltanto descrittivo, si
giunse nella prima metà del VII secolo all’anarchia liturgica.
Questa ed una progressiva disgregazione della disciplina ecclesiastica – ne è prova la mancata
convocazione dei sinodi nella gran parte delle Chiese – che provocò una certa decadenza dei
rapporti con Roma e suscitò apprensione. Questo quadro spiega anche l’azione di Carlo Magno
che aveva vissuto il problema dell’unità tra il suo Impero e la Chiesa.
E’ il periodo anche della Liturgia Gallicana, ricca di elementi poetici, ma è anche il momento
della centralizzazione. In questo ambito è importante ricordare la città di Metz dal momento che
la liturgia stazionale era stata limitata: ci fu, in questo senso un tentativo di imitare la liturgia
romana. Parlando della messa privata, una cosa interessante da far notare è che questa è stata
mantenuta fino al VIII – IX secolo. Vi era la messa solitaria, cioè senza il popolo: solo a partire
dal IX sec., sorse l’esigenza di affiancare degli assistenti attorno al presbitero celebrante, mentre
prima – verso l’VIII, fino al IX secolo. Era molto presente la messa solitaria propriamente detta.
Questa sarà l’epoca storica in cui saranno registrati alcuni cambiamenti, tanto che il servo
assumerà un ruolo specifico che prima non c’era.
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Sempre per quanto riguarda la Liturgia ed il suo sviluppo, ci fu una forte migrazione di Libri
Liturgici, nel mondo franco-germanico, per aiutare Pipino e Carlo Magno nella loro azione.
Questo permise uno scambio tra i due stili liturgici, tra Nord e Sud. Questo fa notare che con la
riforma del Concilio Vaticano II, la preghiera eucaristica diventa sempre più privata. È il periodo
anche in cui si diffuse il cosiddetto Sacramentario Gelasiano del sec. VIII, sulla cui primitiva
redazione sono state formulate diverse ipotesi. Nuove prospettive, però, sono state avanzate
sull’origine di questo Sacramentario che con probabilità si diffonde contemporaneamente in varie
parti d’Europa come esigenza comune sollecitata da situazioni simili nei diversi paesi. Già con
Pipino ci fu la necessità di informare di tutto il re, in quanto la rinascita liturgica era stata
promossa a sostegno degli ordinamenti morali del clero e dei fedeli, che portò la Corte franca a
guardare il fatto liturgico come fonte capace anche di disciplina civile.
Essi riguardano soprattutto il canto. Ma la preoccupazione viva ed attuale era per
l’ufficiatura, essendo questa il sostegno e in un certo modo la garanzia di ordine della vita
comune. Questo dimostra anche che la prima preoccupazione di Carlo Magno fu di continuare
l’azione liturgica del Padre Pipino. Lo disse espressamente più volte. E’ doveroso quindi
ammettere – come riferisce il Cattaneo – in lui uguale intento che era molto legato alla vita
canonica del clero. E’ notevole però in Carlo Magno il riferimento che egli fa all’efficacia – per
l’azione liturgica – della venuta in Gallia del Papa Stefano e poi alle esortazioni ricevute da Papa
Adriano affinché le Chiese della Gallia, che avevano ricusato di fare propria la tradizione della
Sede Apostolica per l’ufficiatura divina, assumessero anche l’Ordo Romano.
Da questi elementi, dove è evidente l’attaccamento di Carlo Magno alla Chiesa di Roma, si
può notare che in Pipino e in Carlo Magno vi erano dei motivi religiosi e politici che guidarono
la loro azione: essi vedevano nell’unità con la Cattedra di Pietro non solo la forza del nuovo
Impero, ma anche la garanzia della salvezza. Essi contribuiranno anche in larga misura allo
sviluppo della Pietà popolare, soprattutto nel periodo di Quaresima e nella Settimana Santa,
quando Carlo Magno procurò che i suoi primi incontri con il Papa (nel 774, 781, 787)
avvenissero sempre nella Settimana Santa, in modo da assistere alla grande liturgia pasquale
officiata dal Pontefice. Ben avviata l’unità liturgica con Roma per l’ufficiatura, Carlo Magno
attese a tutto ciò che riguardava la Messa. Nel 781 in Italia aveva incontrato il monaco
benedettino Alcuino, uomo di ingegno, vasta cultura, spirito fervido. Il re lo portò a corte e lo
fece suo consigliere fidato per tutta l’opera religiosa, tanto da affidargli anche la riforma della
Messa.
Oltre a questo fatti ci fu anche la diffusione della processione, nella domenica delle Palme, in
Spagna, intorno al V secolo, forse per l’influsso esercitato da Egeria, una pellegrina spagnola
della Galizia che era stata a Gerusalemme, dove aveva assistito a diverse processioni. Questa
nuova tradizione si sviluppò in quasi tutta l’Europa, mentre a Roma, la processione entrerà più
tardi e precisamente nel XII secolo. Questi avvenimenti comportarono sicuramente un certo
scambio culturale e religioso fra le diverse parti dell’Europa, che comporterà uno sviluppo
graduale della tradizione liturgica, quando l’Eucaristia diverrà sempre più “clericalizzata” e
sempre più distante dal popolo. Quest’ultimo aspetto sta probabilmente all’origine di altre
pratiche religiose e liturgiche, come ad esempio l’esposizione e l’adorazione del Santissimo, la
recita del Santo Rosario. Ci sarà anche lo sviluppo della Settimana Santa, che andrà di pari passo
con lo sviluppo eucaristico e con lo sviluppo di una certa teologia nella linea della presenza reale
di Cristo nelle specie eucaristiche.
E’ importante ricordare anche di Amalario di Metz che cercò, con la liturgia stazionale, di
imitare la prassi romana: egli voleva rinnovare il canto gregoriano 13 e si diede allo studio dei
13
Spesso nella legislazione carolingia si fa parola della «cantilena romana», ossia del canto liturgico. E’ difficile
oggi – come riferisce il Cattaneo – fare il punto storico di tale argomento per il secolo IX, proprio perché in
questi ultimi anni si è studiato l’argomento, ma non si è potuto ancora aggiungere ad una vera conclusione. La
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 39

testi. Egli voleva legare ciascun momento della Messa con i vari momenti della vita di Cristo,
costituendo così una catechesi che fosse utile alla gente dal punto di vista spirituale. In questo
modo voleva evidenziare la ricchezza della Messa nelle sue diverse parti. La sua dottrina, però,
fu criticata e condannata fortemente. Egli cercò di dare un’interpretazione della vita di Gesù con
i diversi momenti della liturgia, anche se questo tentativo non era privo di fraintendimenti che
andassero oltre lo scopo principale dell’Eucaristia.
Il quadro fino ad ora sviluppato fa notare la presenza di elementi germanici nella liturgia
romana: la stessa Commissione preparatoria del Concilio Vaticano II, tenendo conto di ciò, ha
cercato di eliminare quelle parti della Messa che erano state introdotte mediante l’influsso
franco-germanico (ad. es., la Colletta alternativa). Tutto questo riguarda l’eliminazione dei
cosiddetti doppioni, come ad es., l’inserimento delle preghiere private 14, secondo il Messale di
Pio V. Ciò fa comprendere che, quando la Liturgia è stata ripensata, è sorta la necessità di
togliere delle preghiere per la loro inutilità, tranne alcune che ancora oggi sono state conservate
nel Messale odierno.
Concludendo questa parte, questa epoca costituisce un esempio quasi unico di adattamento di
della forma classica della liturgia romana al genio culturale e religioso del popolo, nel senso che
qui si può parlare veramente di una liturgia romana-franco-germanica, perché si vede una liturgia
non più puramente romana, a motivo dello scambio dei diversi libri liturgici. La necessità di un
ritorno ad una liturgia puramente romana diventa, quindi, improbabile a motivo di questi influssi
tra tradizioni diverse.
Alcuni elementi franco germanici, tra l’altro, non sono mai stati considerati congeniali alla
stessa tradizione romana, ma non può essere trascurato il discorso relativo all’inculturazione e ai
singoli elementi culturali. Ciò richiede anche un certo discernimento perché si promuova una
liturgia come ago di equilibrio tra la nostra tradizione romana e l’aspetto dell’inculturazione.

Ritornando al discorso storico, dopo la morte di Carlo Magno si nota un Impero diviso tra
Oriente ed Occidente15: nell’Oriente ci fu l’influsso degli Ottone (919-1106) che porrà in luce il
reale rapporto tra i vescovi e quelli che detenevano il potere politico. Secondo la linea di Ottone,
ci fu il tentativo di restaurare la tradizione imperiale, tanto che lo stesso Ottone si considerava
tradizione musicale romana ha due distinte testimonianze: la prima corrisponde al canto comunemente chiamato
gregoriano, testimoniato da codici musicali non di Roma dal secolo IX, di Roma dal secolo XIII; la seconda è
suffragata da alcuni manoscritti di Roma e dintorni dei secoli XI-XIII, chiamata da alcuni «vecchio romano». Per
alcuni il canto gregoriano nacque in età franca, allorché, conosciute le melodie romane attraverso i maestri della
scuola papale, vennero adattate al gusto gallicano, e così, in seguito, tornarono a Roma e si diffusero per tutta
l’Europa. Così stando le cose, a Metz sarebbero state portate le melodie della liturgia papale e non sarebbero state
toccate. Né può essere citata l’esperienza fatta da Amalario per la quale s’accorse che gli antifonari metensi erano
diversi da quelli romani recitati a Corbie, perché la differenza non era musicale, ma soltanto nel numero e
nell’uso diverso dei testi delle antifone e dei responsori.
14
Notevole è l’affermarsi definitivo durante il sec. IX, in tutta la liturgia occidentale, dell’individualismo
liturgico-devozionale. Ossia si accentua la volontà di una liturgia tutta per un determinato scopo, di natura
particolare. Entrano così nel rito offertoriale le «apologie sacerdotalis», con le quali il sacerdote prega per
diminuire la sua indegnità di ministro e per raccomandare in modo particolarissimo l’offerente. Ciò poteva essere
richiesto da un fedele, ma spesso era la riconoscenza di un ecclesiastico o della comunità monastica o canonicale
al benefattore, che le nuove condizioni economiche facevano apparire quanto mai provvidenziale. L’accennato
individualismo darà origine, con successiva lenta evoluzione di formule e di cerimonie, alle preghiere di inizio
della messa ed a quelle che preparano la comunione. Essendo tale la condizione ecclesiastica, qual era la
partecipazione dei fedeli alla liturgia? Per le ragioni dette non poté essere grande, nonostante lo sforzo carolingio
per ridonare al popolo una qualche cultura, mediante le scuole. Ma forse la ragione negativa più vera fu il
distacco del clero dal popolo che comportò, anche la clericalizzazione della liturgia.
15
Il dissolversi dell’Impero carolingio ebbe ripercussioni economiche tali da mutare fortemente le fonti
tradizionali di sussistenza. S’instaura così il feudalesimo. Questa nuova situazione economica spiega in gran
parte il moltiplicarsi dei legati per suffragio o per impetrazione in favore dei benefattori, con particolari
ripercussioni nell’ufficiatura che si accresce di psalmi familiares e di preci.
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come il nuovo Costantino. La Chiesa romana, in questo periodo, conobbe una grande crisi, dal
momento che nel Papato del X secolo, si erano verificati dei grossi conflitti tra le famiglie più
nobili, le quali si erano contese a lungo la nomina dei Pontefici. Ci sarà anche una certa crisi
spirituale.
Nei secoli successivi, grazie all’azione di alcuni Papi di tradizione germanica, si noterà una
liturgia franco-germanica che verrà sempre più introdotta a Roma. Con Papa Gregorio VII, ci fu
il tentativo di ripristinare le forme classiche della liturgia romana che segnerà un momento di
speranza per la Chiesa, riguardo alla rinascita della liturgia. Quando si va nel periodo, compreso
tra il X sec. ed il XII, ci troviamo dinanzi a due linee: da una parte c’è una liturgia con influssi
germanici, insieme ad una Chiesa romana in decadenza, mentre dall’altra ci sono degli accenni
importanti per una ripresa della tradizione liturgica. A metà del X secolo, la liturgia romana
ritornò con forza, in Italia, soprattutto a Roma, così da apparire diversa da come era. Nell’anno
950 ci fu un pontificale romano-germanico, fatto a Metz, che fu modello di altri pontificali. Ciò
comportò una certa invasione di Libri Liturgici provenienti dal Nord.
L’Impero di Carlo Magno divenne sempre più debole e conobbe anche una crisi nel rapporto
con la Chiesa che doveva anche affrontare la minaccia turca, oltre alla crisi del papato. Nell’anno
962 Ottone I è arrivato a Roma da nord per la sua incoronazione come imperatore, nelle mani di
Papa Giovanni XII, un Pontefice che viveva una vita immorale, tanto che morì a 28 anni
sorpreso a letto con una donna. Ciò contribuì ad allargare la crisi della Chiesa. Questo stesso
Papa fu deposto nel 963 da un Sinodo Romano e subito dopo fu scelto e nominato un laico:
Leone VIII (963-964), che ricevette gli ordini minori in un solo giorno. Fu poi consacrato
vescovo dai vescovi di Albano, di Ostia e di Porto, quando ancora Giovanni XII era ancora vivo
e si trovava a Tivoli: da lì iniziò ad osteggiare Leone X, ma per la presenza di Ottone
quest’ultimo godeva di una speciale protezione. Quando Ottone, con il suo esercito, lasciò
Roma, verso la metà di gennaio del 964, Giovanni XII ritornò a Roma con il suo esercito e
riprese in mano il Papato, scomunicando Leone X, a causa della sua ordinazione invalida. Anche
coloro che erano stati ordinati da Leone X, furono dichiarati invalidi. Morto Giovanni il 14 del
964, Leone X non ritornò al Pontificato, ma i Romani vollero nominare un nuovo Papa. Si
trattava del Cardinale Diacono Benedetto. Ottone, però, rifiutò la nomina di Benedetto per
favorire il ritorno di Leone X al pontificato: i romani, malgrado la presenza di Leone X, elessero
ed incoronarono Benedetto come Papa. Con l’arrivo di Ottone con il suo esercito a Roma, fu
nuovamente riposto al soglio pontificio Leone X che successivamente in San Giovanni in
Laterano indisse un sinodo, con Ottone presente, e scomunicò Benedetto. Dopo aver restituito
le sue insegne papali ed episcopali al Papa Leone X, il quale – in modo molto teatrale – ruppe il
Pastorale in testa di Benedetto stesso. Questo fatto costituisce, tra l’altro, forse la prima
testimonianza relativa alla presenza e all’uso del pastorale da parte dei vescovi. Con Gregorio
VII ci sarà una vera conversione sia ecclesiale che liturgica.
Parlando più degli aspetti positivi di quest’epoca storica, è importante rilevare il contributo
dei monaci verso una riforma della Liturgia (v. Cluny che fu fondato in Francia nel 909 nella
zona della Burgandia, da Guglielmo il Pio) 16. Le consuetudini di Oddone nelle loro diverse
redazioni (927-942; 1000-1030; 1043) mostrano uno sviluppo della liturgia monastica, anche
con usi diversi da quelli di tradizione romana. La vita liturgica era molto intensa e impegnativa
per gran parte della giornata.
16
Il primo abate Bruno, dall’anno 927 sino al 942, diede un livello altissimo di osservanza monastica. L’influsso
monastico, però, raggiunse il suo apice con Sant’Oddone, grazie al quale, sotto l’influsso di Cluny molti
monasteri furono riformati (v. Montecassino e Subbiaco). I successori Odilone ed Ugo diedero un contributo
monastico e liturgico: nell’anno 1000 Odilone si trovò a Ravenna per incontrare S. Romualdo, fondatore dei
Camaldolesi, che seguì la linea di Cluny. Al tempo di Guéranger, nell’Ottocento e nel Novecento, sarà evidente la
linea di riforma liturgica, ma già 1000 anni prima si nota nella realtà di Cluny una medesima linea di riforma
monastica e liturgica.
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L’influsso di Cluny nella liturgia occidentale deve essere stato intenso non tanto come apporto
di cose nuove, bensì per l’autorevole consenso dato ad alcune forme devozionali (ad es., il culto
della Croce, la moltiplicazione delle messe, la celebrazione privata di esse nelle cappelle costruite
a tale scopo, ecc.). Invece, la lunghissima liturgia salmodica non attirò molte simpatie perché
appariva come manifestazione propria di monaci occupati in misura primaria dalla preghiera.
Giovò, d’altra parte, in un’età di facili composizioni, a riconsiderare il Salterio come la fonte
migliore per scrivere i testi delle preci più varie. Poiché Cluny, così legata alla sede apostolica,
ammetteva di seguire usanze liturgiche non romane, si consolidò il principio di una qualche
libertà liturgica, molto consono a quelli che ispiravano la civiltà comunale.
Notevole fu anche l’influsso dell’architettura cluniacense che voleva la basilica immagine della
Gerusalemme celeste ed evocava, mediante l’armonia di grandezza e semplicità il tempio della
liturgia eterna.
Dopo Cluny ci fu una forte crescita della tradizione monastica, nonché gli stessi Libri
Liturgici conobbero la loro primavera: grazie all’opera dei monaci la liturgia riprese vita e ci fu la
diffusione di questi testi. Nell’anno 998 Gregorio V concesse alcuni privilegi in occasione del
nuovo abate, in cambio di avere nuovi libri liturgici scritti dai monaci stessi.
Questo influsso monastico durò anche tutto il X ed il XII secolo, ma c’è da dire che non tutti
erano d’accordo con la riforma operata da Cluny, come Brunone della Certosa (1084),
Romualdo con Calmadoli (1012) Bernardo con i Cistercensi (1153) e Norberto con i
Premonstratensi (1134). Loro avevano mosso qualche critica da presentare: anzitutto cercarono
di abbreviare la liturgia più breve per ritornare ad una certa semplicità delle prime origini. Circa
la messa, coloro che non erano d’accordo con Cluny, si prevedeva la sua celebrazione non in
tutti i giorni, facendogli assumere un carattere feriale. Per i Certosini è tipica la tendenza alla
semplicità e alla povertà nelle cerimonie, la fuga dal chiasso, dall’agitazione e dalla confusione.
La messa si celebra con rito semplicissimo, con una o due candele, mentre la comunione è sotto
le due specie. Inoltre, ogni giorno si celebra l’ufficio per i defunti (verso il 1127).
I Premonstratensi conoscevano e praticavano una liturgia centralizzata per tutto l’Ordine;
sostanzialmente romana, non fu però adattata secondo l’uso gallicano e secondo quello dei
monasteri, dei canonici, di Cluny. Si prevedeva anche la celebrazione della Messa due volte al
giorno. La stessa messa maggiore talvolta era votiva.
I Cistercensi posero come principio fondamentale della loro riforma17 l’intento di tornare
all’equilibrio della “Regula Benedicti”, contro la messa “plumbea” della liturgia di Cluny che
manteneva un carattere fortemente monastico. In questo contesto è interessante che la messa
semplice, senza musica, era quasi considerata privata, giacché dalle stesse rubriche non era
prevista la messa senza il canto e la musica. La messa resa più semplice e dal carattere feriale era
considerata come “messa solitaria”. Quindi c’è una linea diversa che si distingue da quella
Cluny: la sua tendenza era quella di creare una messa più semplice. E’ la linea soprattutto dei
Premonstratensi.
Il fattore più importante che intervenne per assicurare la crescita della nuova liturgia romana
fu il potere politico dell’Impero Romano-Germanico, soprattutto con Ottone I che influì molto
sulle vicende del Papato, spinto di promuovere con ogni mezzo il rito romano. Anche Enrico II

17
La Liturgia dei Cistercensi è sostanzialmente una forma romano-gallicana che prevedeva la comunione sotto le
due specie, soltanto entro la messa e una sola volta la mese (così nel 1134). Secondo il Liber usuum, però, quattro
volte all’anno (di modo che, malgrado tutto, la comunione è resa possibile ogni domenica). I monaci conversi,
invece, si comunicavano sette volte all'’nno. Ogni giorno era prevista una messa della B.V.M. ed una dei defunti,
l’ufficio della Madonna e quello dei defunti si dicevano ogni giorno o quasi. L’ufficio della Madonna, conosciuto
già in varie comunità, e imposto da Urbano II nel 1095 anche al clero secolare, venne adottato dai Cistercensi
molto più tardi, forse già verso il 1237 o più sicuramente verso il 1373-1374. Infine, l’altare era previsto solo per
la preghiera eucaristica, per sottolineare la sua centralità.
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nel 1014 influì nello sviluppo della Liturgia, grazie all’introduzione del Credo cantato durante la
messa della sua incoronazione. Prima di Enrico II questa novità era già in uso solo in Oriente.
Ci sarà, dunque, una certa unità liturgica verso l’anno 1000, mentre ci sarà una certa
centralizzazione liturgica promossa dagli Imperatori del tempo, ma non mancherà il
rinnovamento del papato: di esso dobbiamo considerare l’eccezionale cammino che conduce dai
Papi del sec. IX-X, fino a Leone IX (1049-1054) 18, Gregorio VII (1073-1085)19 e poi Innocenzo
III (1198-1216). C’è da dire che da Gregorio VII sino al Concilio di Trento ci sarà una terza fase
di rinnovamento a partire dall’XI secolo. Addirittura il Papato perse il potere liturgico, che
riacquisterà gradualmente nell’arco dei secoli successivi. Ritornando, però, al quadro generale,
questo progresso nel campo liturgico fu dovuto in gran parte al contributo monastico,
soprattutto di Cluny, cui resta per molti aspetti connesso. Nel X sec. la vita liturgica a Roma era
piuttosto degenerata, ma venne salvata dall’opera liturgica dei monasteri franco-germanici, che
intanto era stata trasferita dagli imperatori a Roma. Sotto i grandi Papi della riforma, Gregorio
VII e Innocenzo III, la liturgia tornò di nuovo a fiorire20.
Con Gregorio VII fu ristabilito l’ordine antico per la recitazione del salterio (Ufficio, Lodi
mattutine), contro il nuovo che faceva bastare per ogni giorno tre salmi e tre lezioni. La riforma
del Salterio postulò quella delle lezioni, perché i tre gruppi di salmi esigevano altrettanti gruppi
di lezioni. Fu ristabilito anche l’ordine antico anche per le tempora di Quaresima e di Pentecoste,
riunendo così il digiuno alla celebrazione liturgica. Si ritornò anche all’uso primitivo per la notte
18
Papa Leone IX nel 1049 fu nominato dall’Imperatore Enrico III: si distinse per la sua rettitudine e la sua
onestà. Egli si rese conto della situazione in cui versava il Papato. Egli scelse il nome di Leone perché voleva
assumere lo spirito di S. Leone Magno e voleva riformare la Chiesa e tirarla fuori dalla crisi spirituale, morale e
liturgica, nella quale si trovava. Egli mise in ordine la Curia Romana, convocando i Sinodi per affrontare i
problemi del clero romano e questioni di natura economica. Inoltre, pieno di saggezza, scelse validi collaboratori,
come il futuro Papa Gregorio VII ed il monaco Ugo, abate di Cluny, che morì nel 1109. Leone IX insisteva sul
fatto che sia gli abati, sia i vescovi e sia i futuri Pontefici dovevano essere scelti e nominati dal popolo e dal clero
romano. Egli cercò di ristabilire il potere papale nel mondo, ma negli ultimi anni della sua vita vide la
separazione definitiva tra Oriente ed Occidente, intorno al 1054. Tale separazione fu accentuata dal fanatico
Michele Cerulario che chiuse le Chiese latine a Costantinopoli nell’anno 1053, accusando l’Occidente di eresia, a
motivo della pratica del pane non lievitato durante la celebrazione eucaristica. Ciò crebbe il conflitto tra Oriente
ed Occidente.
19
Nacque in Toscana nell’anno 1020 e venne a Roma, dove studiò all’Aventino. Dopo il suo impegno di
cappellano di Gregorio VI, che fu mandato in esilio a Colonia, entrò nel monastero di Cluny (alcuni sostengono
che sia entrato in un monastero della riforma di Cluny, ma non a Cluny). Fu poi chiamato da Papa Leone IX che
lo ordinò suddiacono e lo nominò come economo e priore del monastero di S. Paolo a Roma. Successivamente
fece delle ambascerie in Francia ed in Germania, sempre per conto del Papa e poi continuò come assistente, sotto
i pontificati di Niccolò II e Alessandro II. Quando morì Alessandro II, egli fu acclamato Papa dal popolo e dal
clero romano nel 1073: egli scelse il nome di Gregorio in onore di Gregorio Magno del quale assunse le
medesime linee di riforma. Gregorio VII iniziò la tradizione del pallio per i metropoliti perché voleva sottolineare
il forte legame che ci doveva essere tra il Papa ed i vescovi. Egli introdusse anche la visita ad limina e proclamò
l’importanza del Papato rivitalizzando la tradizione petrina. La Riforma gregoriana, volendo di riformare il clero
romano, cercò di ristabilire le antiche usanze romane. Tale riforma fu indirizzata soprattutto contro due abusi del
tempo: la simonia e l’accumulo di privilegi ecclesiastici e di posti di rilievo, mediante mezzi economici. Contro
tali abusi fu imposta la vita comune sul modello dei monaci. Fu anche affermata l’autorità del Romano Pontefice:
il papa doveva essere il punto di riferimento di tutta la Chiesa, nonché il segno evidente dell’unità ecclesiale.
Gregorio VII voleva combattere anche il rilassamento dei costumi e voleva cancellarne le cause.
20
In base al Pontificale Romano-Germanico del X secolo, i liturgisti romani del XII secolo hanno formato il
Pontificale Romano del XII nel quale sono stati tolti elementi ritenuti meno pratici come, per esempio, l’Ordo per
l’incoronazione dei re, la spiegazione del credo, ecc. Erano compresi anche quegli elementi che erano ritenuti
poco congeniali con la liturgia romana. Un altro aspetto importante di questa riforma riguardava i formulari e le
prassi rituali, come ad esempio, le celebrazioni stazionali che dovevano essere semplificate. Il ripristino delle
forme classiche riuscì solo in parte, perché i libri liturgici franco-germanici erano già entrati in modo decisivo
nella liturgia romana. Dunque, la Riforma Gregoriana non ha potuto eliminare neppure alcuni elementi estranei
al rito romano, come ad esempio le preghiere private del sacerdote, le preghiere della vestizione con i paramenti
sacri.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 43

di Pasqua. Queste riforme furono in chiara armonia con l’ascesi della Chiesa primitiva, alla quale
apertamente si affermava dover ritornare tutta la disciplina ecclesiastica. Gregorio VII stabilì
anche l’obbligo per i vescovi di seguire la tradizione della Santa Sede, obbedendo a tutte le
prescrizioni liturgiche romane, così da costituire un legame più stretto tra il Papato ed i vescovi e
promuovere una nuova unità della Chiesa, superando gli scandali dovuti alle separazioni evidenti
tra la Chiesa di Roma e le altre Chiese, come quella di Spagna, quella di Milano (di rito
ambrosiano), che rivendicavano una certa indipendenza liturgica. Volendo ripristinare delle forme
classiche del rito romano, Gregorio reintrodusse nell’uso la Regola d’oro dei Padri (Regula
Sanctorum Patrum o Definitatio Antiquorum Patrum). Già Pio V invocava la Pristina
Sanctorum Patrum Norma per la promulgazione del Messale Tridentino del 1570 (così anche
Paolo VI per il nuovo Messale del 1970: De Regula Sanctorum Patrum imitatio antiquorum
Patrum). Gregorio VII, si interessò anche della formazione e della disciplina dei fedeli che erano
giunti ad una partecipazione passiva all’azione liturgica. In questo senso si nota che
l’incomprensione della liturgia da parte dei fedeli, avvenne soprattutto per difetto d’istruzione
causata anche dalla non curanza e dalla poca preparazione dei sacerdoti.
La Riforma nel suo complesso riuscì nel suo intento e ciò comportò anche una grande
variazione tra i testi liturgici, secondo la brevità ed il contenuto delle preci eucaristiche. In
questo periodo non ci saranno ancora testi fissi, a motivo di fattori redazionali delle preghiere
stesse che all’inizio seguivano una tradizione orale e non scritta. La loro ufficialità all’inizio non
era prevista perché non si poneva alcuna differenza tra la preghiera privata e quella pubblica.
Questo è anche il periodo delle apologie sacerdotales, di cui è già stato detto qualcosa prima:
esse sono legate anche ad una certa devozionalità sacerdotale. Non bisogna trascurare l’aspetto
legato alle rubriche che, grazie ai monaci, a partire dall’XI secolo, ne furono composte in buon
numero. Non bisogna dimenticare, a tale riguardo, le diverse figure di monaci come, ad esempio,
Bernardo. Questo è anche il periodo in cui nacque una certa preoccupazione per la liturgia dei
doni eucaristici.
I nuovi monasteri saranno espressione viva di una nuova architettura e di una liturgia che si
manifesterà anche nell’arte. Con Gregorio VII si giungerà al fondamento della liturgia romana: la
sua riforma liturgica è stata bloccata per una mancanza di idee e concetti.

13/12/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 7a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

LA LITURGIA DELLA CURIA ROMANA E L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO: CODIFICAZIONE


LITURGICA – FATTORI DI DECADENZA.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 44

In questa lezione vedremo la diffusione della Liturgia romana medioevale e andiamo verso la
Liturgia della Curia Romana e verso l’autunno del Medioevo.
In merito alla diffusione della liturgia romana nel Medioevo, intervengono diversi fattori, tra i
quali la dipendenza dei vescovi alla Santa Sede, che aumenterà il suo influsso verso le Diocesi
fuori Roma. Un secondo fattore che si può rilevare è la primazia di Roma nel campo liturgico
che si noterà soprattutto dopo il Concilio Lateranense I del 1123, dal quale sono stati varati
alcuni decreti liturgici ad alcune Chiese in Occidente per favorire un’ulteriore diffusione della
Liturgia Romana all’estero. Un terzo fattore, molto importante fu l’esilio dei Papi, a partire dopo
il pontificato di Gregorio VII sino ad Innocenzo III (1160-1216): in questo periodo i Papi furono
spesso vittime della politica romana. Un esempio concreto sono Urbano II, Pasquale II, Callisto
II, Innocenzo II, che sono andati in esilio non solo in Italia (Montecassino, Benevento, Viterbo,
Verona), ma anche in Francia (Avignone, Provenza, ecc.). In questi luoghi i Papi consacrarono
delle Chiese, ordinarono dei nuovi vescovi e celebrarono diverse solennità, sempre secondo il
rito romano. In questo modo aumentò l’influsso romano all’estero, in modo particolare in
Francia, cosicché la Liturgia Medioevale diverrà la base del Pontificale di Guglielmo Durando 21,
vescovo di Mende del XIII secolo. La liturgia descritta in questo libro mostra con chiarezza
quali erano le idee direttive e la mentalità di fondo, in base alle quali si formò la società cristiana
medioevale: comunità dei fedeli ordinata gerarchicamente, capace di garantire la salvezza di tutti
i suoi membri in quanto riuniti attorno al vescovo, il quale ha il potere di istituire il clero e di
santificare i laici e perfino di consacrare lo stesso imperatore, i re ed i cavalieri. Tutto ciò poteva
avvenire in determinati tempi e luoghi sacri. Si tratta in definitiva della liturgia pubblica celebrata
dalla cristianità intera nelle cattedrali, nei monasteri e nelle chiese parrocchiali dei secoli XIII e
XIV.
Ritornando al contesto storico, dalla Liturgia Romana si formò quella dell’Alto Medioevo,
secondo la presenza di diversi testi liturgici. A tale riguardo non bisogna dimenticare il progetto
gregoriano, secondo il quale si voleva ristabilire la tradizione degli Antichi Padri del IV secolo.
Ciò costituiva un ritorno alla Liturgia classica, pura e di forma romana. Malgrado non fosse
facile distinguere gli elementi romani da quelli germanici, il tentativo di Gregorio VII ebbe
successo solo in parte. Questa liturgia medioevale riformata, secondo lo spirito della Liturgia
classica, si diffuse ben presto nei diversi Paesi dell’Europa, ma subì anche dei nuovi adattamenti
liturgici.
In merito della Liturgia della Curia romana e l’autunno del Medioevo, si nota al passaggio da
una messa pubblica ad una messa privata, facendo venire meno il senso comunitario. Ci sarà,
dunque, un senso personale della messa, nella quale si percepisce l’azione personale di Cristo per
ogni uomo che sente il bisogno di essere salvato ed aiutato.
Nell’anno 1000, non ci sarà più il calice dei laici, perché non sarà più necessario. Addirittura
non ci sarà neppure questo senso simbolico di mangiare il Corpo di Cristo e di bere il sangue di
Cristo. Prima dell’anno 1100 c’era anche un forte senso dell’altare, come simbolo di Cristo,
mentre nell’anno 1100 iniziò la tradizione delle candele sull’altare. E’ il momento in cui non ci
sarà ancora la Croce sull’altare: essa farà la sua prima comparsa intorno al 1200. Nello stesso
periodo, si noterà un declino della processione delle offerte. Tra l’anno 700 al 1000, ci sarà un
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Guglielmo Durando, dopo aver vissuto a Roma ed essere stato fatto vescovo di Mende in Francia nel 1285,
redasse un Pontificale per uso privato e per uso dei vescovi che avessero voluto adottarlo. Egli realizzò per il suo
tempo ciò che fece Benedetto d’Aniane nell’VIII secolo, cioè adattò un libro romano (il PRG di Magonza,
romanizzato di nuovo secondo il genio di Roma) rendendolo di uso pratico per i vescovi residenti fuori Roma,
aggiungendo nuovi riti meglio rispondenti al genio della sua cultura e conferendo al tutto un ordinamento più
logico. Il suo Pontificale si rivela così meno legato alla Chiesa locale romana e più universale. Le vicende di
questo libro costituiscono perciò un’espressione classica di quelle che hanno caratterizzato la liturgia “romana”,
divenuta la liturgia della Chiesa romano-cattolica fino ai nostri giorni.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 45

cambiamento significativo per quanto riguarda i diversi gesti liturgici: un esempio concreto è il
passaggio dall’inchino alla genuflessione. Questa nuova prassi ebbe origine proprio dalla Corte
Imperiale. Tutti questi fatti preparano il terreno ad una nuova Liturgia.
Già nell’XI, ma soprattutto nel XII secolo, si registrerà un allontanamento del Pontificato
dalla vita e dal contesto pastorale della Chiesa: ciò creerà una nuova crisi spirituale, ma
comporterà l’immagine del Papato sotto il carattere della Corte Imperiale. Si tratta di un
cambiamento anche della stessa Curia Romana, che cambierà anche il linguaggio. Il rischio più
grosso fu quello di far perdere ai Papi, come ai vescovi la loro immagine di Pastori della Chiesa.
Ciò creerà una distanza ancora più grande tra la Chiesa e la gente. Un altro elemento importante,
non solo dal punto di vista architettonico, ma anche da quello spirituale è la cappella privata del
Papa, dove celebrava l’Eucaristia e recitava l’Ufficio delle Ore. Per quanto riguarda la
celebrazione dell’Eucaristia, essa diventò la celebrazione del Papa anche fuori dalla Corte
papale: si tratta della Liturgia stazionale papale che assumerà un carattere sempre più privato.
Così viene a formarsi una Liturgia ad uso della Curia Romana che funzionava come un corpo
amministrativo itinerante. Per rispondere alla situazione particolare della Curia Romana erano
necessari i testi liturgici facilmente trasportabili: così furono composti il Messale, il Pontificale, il
Breviario e l’Ordinarium Officii. Se con Leone IX (1049-1054) ed i suoi successori, intorno al
secolo XI e successivamente, la preoccupazione principale fu quella di riformare la Chiesa e con
la riforma gregoriana ci fu un’attenzione particolare alla ricostruzione della disciplina
ecclesiastica e religiosa, usando la liturgia come fattore di convergenza, con Innocenzo III, uno
dei più grandi papi che morì nell’anno 1216, ci fu un’azione liturgica provvidente che
comporterà non solo la revisione della liturgia romana, ma anche degli stessi libri liturgici. Con
Onorio III, che morì nell’anno 1227, successore di Innocenzo III, fu portata avanti quest’opera
di revisione e di riordinamento. Si risolverà il problema del trasporto dei testi liturgici mediante il
Messale che comprende diversi libri liturgici. Parlando di Onorio III è importante ricordare il
Concilio Lateranense IV del 1215, dove si vide l’obbligo per tutti i sacerdoti di studiare la
teologia per una migliore preparazione spirituale e pastorale, nonché la cura della preghiera con
la recita del Breviario, la cura della Chiesa, la confessione annuale per tutti e la comunione
pasquale. Sempre in merito al Concilio Lateranense IV, c’è da notare che a quel tempo vi erano
nuove e diverse correnti spirituali, i vari tipi di collegi canonicali che costituivano forze positive
per la Chiesa. Nelle menti migliori si fece strada un’idea: quella della necessità di fare il punto
della situazione, mediante tutto il ripensamento di tutto il passato e la formulazione di una
dottrina chiara ed aderente alla nuova età. Tale necessità era già apparsa viva durante l’età
gregoriana e si era risposto ad essa con le prime collezioni canoniche, preludio dell’opera di
Graziano.
La novità della confessione annuale e della comunione annuale obbligatorie, si può dire che
per la Chiesa costituiva una novità che sottolineava l’esigenza della Chiesa di migliorare la
propria cura pastorale. Un’altra novità era costituita dall’uso della parola “transustanziazione”
che comparve per la prima volta proprio nel Concilio Lateranense IV del 1215.
Certamente Innocenzo III preparò il terreno per una liturgia più organizzata, mentre Onorio
III lavorò di più nel campo della liturgia eucaristica nella Cappella papale, lasciando prevedere la
costituzione di nuove rubriche. Il Messale della Curia Romana, fu portato a compimento nel
1223 e fu il segno dell’adattamento della messa papale ad uno stile più sobrio e semplice. Per
quanto riguarda il Breviario22, tale testo aveva, come novità particolare, le letture bibliche del
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L’evoluzione dell’ufficiatura papale nel secolo XIII è descritta dal cronista Salimbene (morto nel 1287) in
questi termini: «Egli corresse in meglio l’ufficio ecclesiastico, lo ordinò, vi aggiunse del suo, tolse dell’altrui».
Dallo studio dell’Abate si può comprendere che le innovazioni principali furono la determinazione giorno per
giorno delle letture bibliche, l’introduzione delle letture agiografiche e degli inni, la recita dei salmi penitenziali
e delle litanie ristrette alla Quaresima. Non sembra pertanto che per questa riforma Innocenzo III sia stato
guidato da idee forti, ma solo volle andare incontro alle nuove situazioni della vita ecclesiastica.
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giorno, precedute da un’introduzione, il cui scopo era quello di indicare il modo in cui bisognava
pregare. Era prevista anche la recita degli inni e dei salmi durante la Quaresima.
Per quanto riguarda il Pontificale, quello che si era formato dall’età di Gregorio VII a tutto il
secolo XII, come reazione romana al citato influsso tedesco, ebbe ordinamento e modifiche per
volontà di Innocenzo III, forse anche prima del Concilio. Merita, quindi, il titolo di Pontificale
ad usum consuetudinem et usum Romanae Curiae. Con questo fatto ci si propose non tanto un
arricchimento di cerimonie e di formule, quanto di assicurare una consacrazione religiosa di
ognuna delle manifestazioni della vita civile, come nei riti secondari delle ordinazioni sacre, al
fine di una loro presentazione più significativa. I compilatori di Innocenzo III iniziarono soltanto
tale opera che risulterà molto più chiara nella seconda edizione di tale recensione, compiuta una
cinquantina d’anni dopo, e in due capitoli che riflettono la mentalità religiosa e politica di quel
secolo, ossia la consacrazione e l’incoronazione del Papa, nonché l’incoronazione
dell’Imperatore e l’Ufficio per gli ultimi tre giorni della Settimana Santa. L’intenzione di
Innocenzo III, ed in qualche modo anche quella di Onorio, non fu quella di unificare le liturgie
delle Basiliche romane, né tanto meno quelle delle Chiese locali in Occidente, ma piuttosto di
codificare e di semplificare l’uso della Curia Romana, spesso itinerante. Ci fu, quindi, un’opera
di riforma simile a quella di Cluny.
Per quanto riguarda, invece, il Missale Curiae, esso fu computo dai chierici di Cappella per
adattare questo libro alla nuova situazione di una liturgia papale non celebrata in Roma, ma
fuori, anche all’estero. Senza dubbio essi abbreviarono e modificarono, ma tale opera è
studiabile soltanto attraverso due manoscritti della fine del secolo, probabilmente testimoni di
altri ritocchi per rendere il messale di uso sempre più universale, dopo che era stato adottato dai
Francescani nel 1223. L’Ordo del Card. G.G. Stefaneschi ( 1341) ci assicura che il «Missale
Curiae» ebbe altre modifiche durante il soggiorno dei Papi ad Avignone.
Circa la diffusione della liturgia della curia romana, durante il secolo XI la messa principale
prevedeva la presenza di un’assemblea, quando già la messa privata era già conosciuta. Invece,
all’inizio del XII secolo le cose iniziarono a cambiare a motivo di un nuovo ordinamento dei libri
liturgici. Il presidente dell’Assemblea inizierà a svolgere anche altre funzioni liturgiche alle quali
erano preposte altre figure liturgiche come, ad esempio, il Lettore, il Cantore. Nello stesso
periodo ci fu anche un cambiamento relativo delle canoniche in favore delle residenze
indipendenti.
Nel XIII secolo arrivò il Messale cosiddetto “Plenario”, che sostituì il Sacramentario, che
conterrà molte preghiere private, dette anche apologie del sacerdote, che non prevedevano la
presenza del popolo. Ci furono esempi anche di altri libri liturgici che miravano alla soluzione
pratica di alcune esigenze di natura logistica e contingente. Un esempio era il messale detto degli
itineranti, perché serviva ai missionari che andavano in missione.
Il programma monastico fu più adatto alla nuova realtà religiosa che si stava affacciando e
che ben presto influì nello sviluppo della Liturgia della Chiesa. Tali Ordini mendicanti, tra l’altro,
erano sorti per un’effettiva riforma della Chiesa, per cui il respiro religioso risultava diverso da
quello del monastero, dove si prediligeva di più il canto nella preghiera (es., l’Ufficio divino
cantato secondo lo stile di Cluny). Erano diverse anche le esigenze dei frati che conducendo una
vita itinerante, non potevano avere il tempo materiale di recitare tutto l’Ufficio o di cantarlo. Ad
Assisi, il vescovo diede ai Canonici libri liturgici speciali con l’Ufficio divino semplificato
secondo il giorno. Tale accorciamento dell’ufficiatura era stato voluto inizialmente dagli
ecclesiastici della stessa cappella e Curia papale per la raggiunta insofferenza alle lunghe ore di
coro, ma tale insofferenza era diventata comune.
Per questo il nuovo ordinamento dell’ufficiatura fatto proprio dai Francescani nel 1224,
dall’uso e dall’esempio dei frati minori venne largamente propagato, malgrado essi a lungo
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fossero autorizzati da bolle papali a partecipare all’ufficiatura della collegiata presso la quale si
trovavano per l’esercizio della predicazione.
Come scrive Salimbene, la riforma dell’ufficiatura voluta da Innocenzo III non accontentò,
perché non seppe affrontare decisamente il problema. Fra l’altro, non risultava facile l’accordo
fra messa e ufficio dello stesso giorno. Toccò ad un Francescano risolvere il problema, fra il
giugno del 1243 e il 1244, con la redazione dell’Ordinario del breviario e del messale.
Da tutto questo si notò un influsso della Liturgia della Curia Romana verso altre Chiese
locali. Un esempio concreto fu proprio Assisi da dove, probabilmente, ci fu una maggiore
diffusione del Messale “Plenum”, come testo della Curia Romana.
Con la regola del 1230, i libri della Curia Romana divennero obbligatori per tutti i
Francescani: l’Ordinario relativo al Messale “Plenum” fu imposto nel 1249 dal ministro generale
Giovanni da Parma a tutti i Minori e dal Papa Niccolò III (1277-1286) a tutte le chiese di Roma,
facilitando, così, la sua divulgazione dappertutto, particolarmente durante il periodo avignonese.
Non di meno si tratta di un nuovo processo di inculturazione, anche se i nuovi libri liturgici
risultarono quasi inutili nei luoghi più poveri o meno educati, giacché era troppo grande la
differenza – non solo a livello sociale, ma anche a livello di linguaggio – tra gli ambienti poveri e
quelli della Curia Romana o della Corte papale.
Il primo ministro dell’Ordine dei Minori, fu l’inglese Aimone di Faversham che morì nel 1244:
egli seguì alcuni adattamenti sia nel Messale che nell’Ufficio e nel Calendario Liturgico. In primo
luogo concesse l’indultus planetas del 1242, cioè una descrizione della celebrazione della messa,
comprese le rubriche (1243-1244). L’influsso di questi libri riformati e riveduti, crebbe in tutta
l’Europa, anche se con delle varianti secondo il luogo. Ciò dimostra che a quel tempo non c’era
un testo unico, ma una variante di testi, secondo le necessità del luogo.
Per quanto riguarda la Liturgia papale o della Curia Romana, anziché la liturgia stazionale,
diventa l’editio tipica per la celebrazione liturgica in Europa. Così si può dire che lo sviluppo
liturgico Occidentale ha fatto in modo che la vecchia liturgia romana, soprattutto quella papale e
stazionale, potesse essere importata tra i Franchi, sino ad ottenere una liturgia franco-germanica,
dove sono presenti più elementi, non solo romani. Il ruolo francescano fu notevole sia per
quanto riguarda la liturgia romana, sia per quanto riguarda la devozione all’umanità di Cristo.
Sarà anche il periodo in cui verrà a svilupparsi la “dulia” (culto dei Santi) e la “iper-dulia” (culto
della Vergine Maria).
Ci fu, grazie all’apporto dei Francescani, l’aumento delle feste, anche se non ci sarà ancora un
calendario liturgico ben definito.
Ritornando al Pontificale di Guglielmo Durando, si può dire che esso di differenzia
sostanzialmente dal Pontificale della Curia Romana che fu importato dai Papi ad Avignone tra il
1605 ed il 1609. Quello di Durando fu un Pontificale pensato per la Chiesa locale, mentre quello
della Curia Romana, diventò il libro liturgico ufficiale della Corte papale. Verso la fine del XIII
secolo, il Pontificale della Curia Romana incontrò quello di Durando. Dopo un certo scambio
degli elementi, il Pontificale prese il sopravvento e divenne il Pontificale ufficiale, grazie alla sua
organicità strutturale e di contenuto. Malgrado il desiderio di Durando a che questo suo testo
rimanesse al livello locale, il Pontificale divenne il Libro Liturgico di tutta la Chiesa, per quanto
riguarda soprattutto le celebrazioni del vescovo: esso diverrà anche l’editio tipica per altri libri
liturgici, come ad esempio, l’editio princeps di Burcardo e del Piccolomini. Esso sarà la base del
Pontificale tridentino.
In merito al passaggio dal Sacramentario al Messale ed al passaggio dalla messa pubblica a
quella privata, si può dire che nel XIII secolo si videro pochi sacramentari. Se il Missale
“plenum” fu, soprattutto all’inizio, un libro di matrice monastica, diventò ben presto un libro
liturgico universale. Esso sarà usato soprattutto nella messa privata la quale esisteva già da prima
del XIII secolo. La stessa messa privata comportò, però, non solo una diminuzione delle messe
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pubbliche che, in base alla riforma di Cluny, avevano assunto una certa solennità, ma anche una
diminuzione di partecipazione dei fedeli laici alle diverse funzioni liturgiche. Questo
cambiamento ebbe anche un riflesso sociologico che giocò un ruolo non trascurabile nella
formazione spirituale dei sacerdoti. Un altro dato – un po’ negativo – fu l’allontanamento
progressivo dall’attività pastorale, con il pericolo di trascurare lo stesso Popolo di Dio.
Ci sarà, però, sempre di più il bisogno di evangelizzare nuovi popoli, che non hanno ancora
conosciuto la fede in Cristo: in effetti si nota una certa spinta missionaria che spiega la presenza
massiccia degli Ordini mendicanti che condurranno prevalentemente una vita itinerante. Tutto
questo fa comprendere l’esigenza della messa privata che aveva il compito di aiutare il sacerdote
a vivere più profondamente la sua spiritualità ed il suo rapporto con il Signore.
Vogel, in un suo libro, che parla dei Libri Liturgici, ci dà alcune ragioni dello sviluppo delle
messe private e della loro diffusione: alcuni studiosi seguono, invece, altre opinioni diverse da
Vogel il quale parla soprattutto del desiderio di replica della liturgia nelle grandi Basiliche
romane, mediante un numero alto di messe e di liturgie, intorno alla liturgia papale. In altre
parole, si prevede una liturgia che simbolicamente rappresenti la messa stazionale papale,
giacché quest’ultima non era più praticata dai Pontefici. Volendo imitare la prassi antica romana,
la messa privata avrebbe preso il posto della messa cosiddetta “in titolus”: Vogel, secondo il suo
parere, vede nella messa privata un tentativo di imitazione della prassi stazionale, come legame
tra la messa di ogni sacerdote e le messe di altri sacerdoti.
Certamente l’inizio della messa quotidiana nelle Cattedrali e nei monasteri, comporta un
duplice aspetto: da una parte può essere visto come la conseguenza pratica dell’evangelizzazione
delle popolazioni, mentre dall’altra si può notare l’inizio della tradizione delle offerte nelle
Messe. Un altro aspetto, di cui parla Vogel è proprio il legame stretto tra l’offerta compiuta e la
grazia (opus bonum) per la persona. In altre parole, si tratta di una grazia applicata ad un’anima
bisognosa, quale frutto della messa celebrata. Per questo motivo prende il nome di “opus
bonum”. L’unico rischio che poteva esserci e che, ancora attualmente è presente nella Chiesa, è
quello di pensare a questo genere di applicazioni come ad una sorta di ricetta, nel senso che più
messe vengono applicate, maggiore è il beneficio ottenuto. Questo modo di pensare comporta
anche il grave pericolo della superstizione che può allontanare i fedeli dalla fede cristiana.
Poiché l’Eucaristia è soprattutto, in questo periodo storico, una cosa solo da vedere, tanto da
creare una certa passività nella partecipazione, c’è il rischio di ridurre la celebrazione eucaristica
ad una manifestazione teatrale, tanto che l’Eucaristia stessa perde il suo significato più autentico.
Il senso dell’opus bonum arrivò all’esasperazione tanto che nei fedeli era forte la convinzione
secondo la quale a più messe si partecipava più grazie si ottenevano. A tale riguardo ci sono
delle testimonianze popolari del XII secolo, che rimarcano una certa mancanza dell’azione
catechetica, da parte della Chiesa, sul tema dell’Eucaristia e della sua celebrazione. Tale fatto
comporterà sempre di più una fede superficiale, non pienamente vissuta. Il senso di avere più
messe era guidato dalla convinzione di una remissione di un numero più alto di peccati.
Secondo Vogel, ci fu anche una devozione alla Madonna sempre più forte ed una devozione
per i defunti sempre più pronunciata, tanto che si prevedeva una messa quotidiana dedicata alla
Madre di Dio ed una dedicata ai defunti. Lo stesso si può dire delle Cappelle votive, a motivo
delle quali crebbe sempre più il senso economico delle messe: ciò richiedeva anche una
disponibilità alta di sacerdoti che celebrassero le messe richieste, per ognuna delle quali si
prevedeva una congrua.
Lo studioso più conosciuto è Nusbaum, insieme a Häussling: essi approfondirono gli studi per
quanto riguarda la messa privata, anche se su questo argomento non ci sono tuttora studi
completi. Sia Vogel, sia Nusbaum, parlano della messa privata come messa solitaria, dove il prete
assume tutti i ministeri esercitati da altri ministri, ma ciò comporterà sempre di più, a partire dal
XII e XIII secolo, una clericalizzazione della messa, a motivo di un cambiamento psicologico,
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liturgico e religioso, che si distanzia dalla Chiesa primitiva o delle origini. Tutto questo fa parte
di una cultura diversa da quella della Chiesa, all’inizio della sua missione.
Häussling, invece, sempre per quanto riguarda la messa privata, dice che la parola “privata”
non significa “solitaria”, ma piuttosto “una cosa meno completa”, nel senso di una messa meno
solenne e con un numero inferiore di ministri. In riferimento a ciò, egli richiama l’attenzione alle
diverse categorie di messa: già nel IV secolo c’era la messa papale e stazionale, mentre dopo ci
fu una messa in titolus, seguita dalla messa dei gruppi privati. Secondo Häussling la messa
privata sarebbe da identificare con la terza categoria sopra citata, perché lui cita alcuni esempi
che sono presi dal contesto della Cappella papale, nella quale è prevista la messa privata,
accompagnata da canti adeguati ad essa. Anche qui, per questo studioso, non si poteva
prevedere la messa privata, in assenza di persone e di assistenti alla messa stessa. Circa l’origine
di questa messa privata si potrebbe pensare alla messa votiva e al culto dei martiri che ha
un’origine già dal periodo patristico.
In riferimento all’autunno del Medioevo, esso riguarda, in modo esplicito, i secoli XIV e XV:
è l’epoca che precede di poco il periodo più contrastato della Chiesa, cioè la Riforma protestante
(1517) e la Controriforma Cattolica, nonché il Concilio di Trento (1545-1563). Si tratta di un
tempo in cui la Chiesa rifiorirà non solo nell’ambito liturgico, ma anche in quello teologico e
spirituale, nonché pastorale, giacché questo nuovo cammino viene inquadrato nell’ordine
soprannaturale (v. l’attività intensa dei predicatori, lo sviluppo della pietà religiosa e della
devozione verso la Madonna e dei Santi). Sarà quest’epoca una premessa importante ad un altro
periodo importantissimo che è il Rinascimento, il quale segnerà un nuovo sviluppo culturale,
artistico ed architettonico e segnerà anche la nascita di una nuova concezione dell’uomo nel
contesto religioso e culturale. A tale riguardo non si possono dimenticare i principali
rappresentanti, come ad esempio, Giotto ( 1637), Dante Alighieri ( 1621), Filippo Brunelleschi
( 1446) ed altri ancora. L’arte religiosa e l’architettura, nonché l’invenzione della stampa
(1445), segnarono un passo importante verso l’epoca moderna: tutto questo diede la sua forza
nella vita liturgica della Chiesa che conobbe l’editio princeps del Messale Romano (1474), a
Milano, e l’editio princeps del Pontificale, stampato a Roma nel 1485. Ciò nonostante Newman
parla di grossa facciata dietro la quale si nasconde un grande vuoto, mentre Cattaneo parla di
ombre e di luce del XIV e XV. Ma perché si parla di autunno del Medioevo? Perché, da una
parte, le espressioni esteriori manifestavano un ambiente cristiano e religioso, mentre dall’altra la
vita era vissuta in modo quasi distante dalla fede ed in modo sofferto, a motivo delle grandi
pestilenze e delle diverse guerre (ad es., la guerra dei cento anni, 1337-1453), nonché i conflitti
politici ed il crollo di Costantinopoli (1453) che caratterizzarono questo periodo storico.
Nel campo liturgico ci fu una decadenza soprattutto in questo periodo che spingerà gli stessi
protestanti a fare la riforma, con a capo Lutero: essa divenne sempre più clericale, anche se già
nel IX secolo si notava già la presenza di una mentalità esclusivamente clericale. Ciò favorì
anche un certo devozionismo, accanto alla pietà popolare legata ad alcune pratiche religiose,
come la recita del Santo Rosario. Un altro elemento importante della liturgia, è proprio la
dottrina della transustanziazione indirizzata nel XII secolo, contro Berengario che creò nuovi
orientamenti nella pietà liturgica. Questo è il periodo in cui ci sarà, a livello liturgico, l’inizio del
gesto di elevazione dell’Ostia e del Calice, durante la celebrazione eucaristica, legata forse a quel
modo di sentire la messa, come la soluzione ai propri problemi personali, come pure
l’esposizione del Santissimo Sacramento per soddisfare un certo tipo di devozione.

______Note Personali di Studio__________________________________________________


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20/12/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 8a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

Dopo l’invenzione della stampa (Gutenberg, verso il 1445), dopo la conquista di Granada e la
scoperta dell’America nel 1492, sembra iniziare una nuova era, un secolo d’oro: il Rinascimento
con tutte le glorie del Quattrocento e del Cinquecento. Emersero figure di Papi come Alessandro
VI, Giulio II e Leone X, ma in mezzo a tutto questo, ecco la riforma di Martin Lutero e degli
altri Riformatori, come ad esempio, Zwingli e Calvino. Ci fu anche un segnale molto negativo
contrassegnato dal Sacco di Roma (1527) e dalle prime guerre di religione che distrussero
definitivamente l’unità dell’Occidente cristiano: Carlo V, Enrico VIII (“defensor fidei”) e
Tommaso Moro, decapitato nel 1535, furono tra i personaggi si spicco di questa epoca. Un altro
fatto importante è contrassegnato da alcuni Concili di questo periodo: il Concilio Lateranense ed
il Concilio di Trento (1545-1563). Certamente, la chiusura del Concilio ecumenico Lateranense
V (16 marzo 1517) avrebbe dovuto segnare l’inizio della Riforma cattolica ed invece coincise
con l’inizio della Riforma luterana. Sin dall'inizio del XVI secolo era già presente il desiderio di
una riforma della Chiesa e della Società del tempo: c'era bisogno di un grande rinnovamento
spirituale e di un nuovo umanesimo cristiano. Questo è il periodo in cui si svilupperà una sorta di
anticlericalismo, a motivo di situazioni della Chiesa poco edificanti. In alcune zone la gente
viveva una grande povertà, a fronte di sacerdoti che vivevano bene e sfoggiavano un certo
benessere. La crisi, dunque, non toccava soltanto la questione liturgica, ma anche la sfera
morale, spirituale e pastorale. In questa nuova svolta storica la Società di allora si era allontanato
molto dalla religione: a motivo degli interessi culturali venne trascurata la sfera religiosa ed
ecclesiastica, mentre ci fu un orientamento maggiore verso gli orizzonti filosofici.
Si creò così una nuova situazione storica, dove si noterà un certo declino ecclesiale, mentre la
liturgia divenne sempre più distante dal popolo. La gente, come si è già detto, vedeva nella
messa l'occasione per ottenere una determinata grazia. Lutero e la riforma protestante sono da
vedersi come un tipo di risposta alle esigenze del tempo e alle carenze pastorali.
Dal punto di vista liturgico, tenendo conto dell’immagine della vita liturgica durante
“l’autunno del Medioevo”, si deve dire che non erano mancate le richieste di una “reformatio
Ecclesiae in capite et in membris”. Era un fatto universalmente diffuso attraverso tutto il
Quattrocento. Lo stesso Niccolò Cusano, che nei sinodi del 1453 e del 1455 chiedeva, in ambito
liturgico, la correzione dei Messali secondo un esemplare tipico, è un esempio concreto. Nel
Quattrocento però, queste voci furono soffocate dalle tendenze eccessivamente mondane del
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Rinascimento. A questo punto si creò una situazione molto tesa all’interno della Chiesa che non
riusciva a decollare con una riforma vera e propria. Lutero, come tanti altri, attendeva ad un
profondo cambiamento, perché egli voleva recuperare il senso di Ecclesia e di fede. Egli voleva
ritornare alla prassi liturgica antica, istituendo, per esempio, la comunione con le mani, secondo
quello che la tradizione antica della Chiesa praticava come consuetudine. Voleva mantenere
anche un senso vivo di penitenza. Per lui la domenica doveva acquisire una valenza cristologica.
Però in Lutero non è visibile un piano logico di soppressione della liturgia cattolica, malgrado
fosse a lui possibile in conseguenza della nuova base teologica. In lui si notò piuttosto una
reazione progressiva al culto cattolico, sempre priva di serenità con palesi incertezze, pronta a
indulgere a compromessi nel timore di una reazione popolare.
Lutero (1483-1546) già negli studi pubblicati durante gli anni 1513-1517 e nelle lettere scritte
in uguale periodo, aveva fortemente criticato l’eccessivo ricorso alle indulgenze, l’invadenza del
culto dei Santi a danno di quello che principalmente celebrava i misteri cristiani, l’interesse
calcolato dei pellegrinaggi, il contenuto soltanto naturalistico di parecchie devozioni, rasenti la
superstizione, la preoccupazione costante e precipua di dare al culto, in generale, sfarzo e
pompa. Per quest’ultimo fatto era stato irritato particolarmente dai modi con i quali in Europa si
procacciavano soldi per la costruzione sontuosa di S. Pietro in Vaticano, tanto da essere spinto a
redigere le famose 95 tesi, tra le quali quelle contro le indulgenze.
Mentre poi era in lotta con Roma, nel 1519, fece la cosiddetta scoperta evangelica del
Vangelo mediante il nuovo concetto di giustizia di Dio, per il quale era cancellata dalla teologia
l’ira di Dio che punisce, e proclama la sola misericordia che, perdonando, presenta giusti i
peccatori. Comprendere la natura e l’evoluzione di Lutero nel loro intimo è facile e difficile nello
stesso tempo, nel senso che se, da una parte si trovano sulla sua persona una grande quantità di
fonti, dall’altra, si ha dinanzi una personalità complessa, di temperamento violento sino
all’eccesso, un volitivo passionale, che durante l’intero corso della sua vita ha lavorato in modo
vulcanico. Dopo una lunga preparazione, per molti aspetti inconscia, ma molto intensa, segue la
cristalizzazione interna. La sua dottrina la si può comprendere attraverso la dottrina di
Sant’Agostino. Uno dei passi della Scrittura che risultano centrali nel pensiero di Lutero è
proprio la Lettera ai Romani, in modo particolare Rm 1,17, dove l’espressione «La giustizia di
Dio è annunciata nel Vangelo», per il fatto di averlo sconvolto, lo porterà a concludere che solo
«il giusto vive di fede», sino ad enucleare uno dei tre principi della sua dottrina: la «sola fide». In
Rm 1,17 egli lesse sempre la sua tormentata visione della giustizia punitiva di Dio, per cui la
nuova soluzione da lui riscoperta (la giustificazione salvifica attraverso la fede, ossia per grazia)
fu presentata in senso unilaterale. Forse è per questa ragione che la Chiesa la considerò eretica,
altrimenti, il concetto di per sé non è nuovo, né lo si può vedere al di fuori della dottrina stessa
della Chiesa che non ammetterà il processo della giustificazione legato alla sola fede, senza la
considerazione delle opere buone, senza le quali – come dice San Giacomo – la fede stessa è
morta.
In Lutero ci sarà anche un’idea nuova di Chiesa, secondo gli altri due principi: sola Scriptura
e solo baptismo. Essi sono accompagnati dalla casualità assoluta di Dio: se Dio opera ogni cosa
e la volontà non opera nulla, e se le opere non servono alla salvezza, allora è non è necessario
alcun sacerdozio particolare, né altre istituzioni. Esse sono tutte manifestazioni dell’anti Cristo,
ma ciò non porterà Lutero a concludere che dunque non ci debbano essere sacramenti, nel senso
di distinguerli sostanzialmente da altre rappresentazioni e proclamazioni di fede. Arrivò così non
tanto a negare la presenza reale di Cristo, ma in modo simbolico, negando la transustanziazione.
Questo lo portò a negare la messa nel suo carattere di sacrificio; quest’ultimo era visto da lui
come un abuso illecito. Arrivò a negare anche gli altri sacramenti della Cresima, dell’Ordine, del
Matrimonio e dell’estrema unzione, riconoscendo come tali solo il Battesimo, la Cena e la
Penitenza, secondo una sua particolare interpretazione.
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La minaccia della scomunica non arrestò il cammino di Lutero. Nel 1522 pubblicava il De
abroganda Missa privata Sententia, tradotto e pubblicato poi in tedesco con il titolo Dell’abuso
della Messa, dove dichiarava tale atto liturgico una vergognosa idolatria e che pertanto riduceva
a una cena con la comunione sotto le due specie per tutti i fedeli. Egli stesso compose nel 1523
la Formula Missae et Communionis, in latino e in tedesco.
Lutero, per quanto riguarda la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo sotto le specie del
pane e del vino, dà un assunto materiale, ma non secondo il concetto di transustanziazione, tanto
che dopo la messa la stessa presenza di Cristo non ha più ragion d’essere. A tale riguardo può
chiarire questo concetto il Concilio di Trento che nella 13 a Sessione, del 1551, a canoni 1-11,
dove parla dell’augusto sacramento dell’Eucaristia. In modo particolare, ai canoni 1, 2 e 4 dice:
«Can. 1 – Se qualcuno negherà che nel Santissimo sacramento dell’Eucaristia
è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro
Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero, ma
dirà che esso vi è solo come in un simbolo o una figura, o solo con la sua
potenza: sia anatema.
Can. 2 – Se qualcuno dirà che nel Santissimo sacramento dell’Eucaristia con
il corpo e il sangue di Nostro Signore Gesù Cristo rimane la sostanza del pane e
del vino e negherà quella meravigliosa e singolare conversione di tutta la
sostanza del pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue, mentre
rimangono solamente le specie del pane e del vino, conversione che la Chiesa
cattolica con termine appropriatissimo chiama transustanziazione: sia anatema
Can. 4 – Se qualcuno dirà che, una volta terminata la consacrazione, nel
mirabile sacramento dell’Eucaristia non vi sono il corpo ed il sangue del Signore
Nostro Gesù Cristo, ma che vi sono solo durante l’uso, mentre lo si riceve, ma né
prima, né dopo; e che nelle ostie o particole consacrate, che si conservano o
avanzano dopo la comunione, non rimane il vero corpo del Signore: sia
anatema».
In realtà, soprattutto gli ultimi due canoni si riferiscono alla dottrina di Lutero che, non solo
negava la transustanziazione, per cui si può parlare soltanto di una presenza virtuale di Cristo
nelle specie eucaristiche, ma negava la presenza di Cristo nelle specie eucaristiche dopo la messa.
Un altro aspetto della dottrina di Lutero 23, sempre sull’Eucaristia, è quello sociale
strettamente legato al tema della carità: in lui era forte il senso della diaconia e della carità
fraterna. Se è vero che, da una parte, Lutero svuotò il concetto cattolico di sacramento come
oggettivo opus operatum, dall’altra, la fede del battezzato è la forza che dà essere al sacramento,
ma nella celebrazione dell’Eucaristia, per esempio la presenza del Signore è per lui talmente una
realtà, che anche chi è in peccato mortale – quindi secondo la concezione di Lutero il non
credente – mangia e beve il corpo e il sangue del Signore. In questo punto Lutero spezza la sua
23
Lutero voleva tornare alla prassi antica della Chiesa e voleva includere la piena partecipazione dei fedeli. In
questo senso si può notare una certa somiglianza tra la struttura della messa luterana con quella sancita dal
Concilio Vaticano II, secondo il qual doveva diventare centrale anche il ruolo dei fedeli e non soltanto del clero.
In altre parole si può notare come in Lutero era forte il senso comunitario della messa: è tutto il Popolo di Dio che
partecipa alla celebrazione sia della Parola che dell’Eucaristia. In questa direttiva si arriva, dunque, ad una
reinterpretazione della liturgia che Lutero stesso la voleva in tedesco e non in latino, proprio per favorire la
partecipazione dei fedeli. Da qui si può notare la dimensione comunitaria e sociale della messa, anche se Lutero
ridusse la prece eucaristica in una preghiera di ringraziamento. Dunque, la differenza principale tra la messa
cattolica e quella luterana consisterebbe non tanto nella struttura liturgica, quanto nella preghiera eucaristica.
Infine, nella messa luterana, vi erano i canti popolari e la predica veniva fatta tutti i giorni. Invece, la differenza
tra la messa luterana e quella di Calvino o di Zwingli, era ancora più forte, per elementi dottrinali rilevanti (ad
es., la presenza non reale, ma solo simbolica, secondo il pensiero di Zwingli). Attualmente, ritornando al
confronto tra la liturgia luterana e quella cattolica, grazie al movimento e alla riforma liturgica, i luterani hanno
ripristinato la preghiera eucaristica avvicinandosi ancora di più alla tradizione cattolica.
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posizione “soggettivistica” a favore di una concezione oggettiva, sacramentale, anche perché


nella celebrazione dell’Eucaristia mette in forte rilievo l’elemento comunitario. Dunque il
fondamento dell’Eucaristia in Lutero fu soprattutto il "prendete e mangiate", "prendete e
bevete". Per Lutero il Vangelo fondamentalmente rimaneva una proclamazione della Grazia di
Dio, della remissione dei peccati e del mistero pasquale. La Cena del Signore rimane una
testimonianza della promessa di Gesù sul suo corpo e sul suo sangue. Senza questo elemento per
Lutero, la messa perde il suo fondamento e diventa il contrario di tutto ciò che Cristo ha voluto
e pensato. Allora, quando la messa non è più una risposta alla grazia di Dio, diventa un impegno
o un lavoro da sbrigare: si tratta della principale obiezione che Lutero mosse contro i cattolici.
La messa, per Lutero, doveva essere una risposta di Lode e di Ringraziamento a Dio, ma non
perché il Signore avesse bisogno del sacrificio della messa.
I Seguaci di Lutero, purtroppo, accentuarono le conseguenze della dottrina di Lutero e in
parecchi luoghi le chiese furono spogliate dell’altare, di ogni suppellettile, del tabernacolo, delle
croci, delle immagini, fino ad essere ridotte a delle aule dove avveniva soltanto la proclamazione
della Parola di Dio in tedesco. Lutero stesso non gradì questo cambiamento repentino, tuttavia
sanzionò molto presto l’abolizione della messa privata, della confessione privata, dei digiuni, e –
nella celebrazione della cena, pur conservando l’apparato esterno di paramenti e di cerimonie,
eliminò il canone perché includeva l’idea della rinnovazione meritoria del sacrificio della croce.
In pratica vennero aboliti l’«offertorio» e la «prece eucaristica» fuorché le parole consacratorie.
Lutero tollerò a lungo in parecchi luoghi la cerimonia dell’elevazione, nel timore di urtare la
vecchia devozione popolare di volere «vedere» l’Eucaristia.
Ulrich Zwingli24, invece, assunse una posizione ancora più radicale tanto che i sacramenti non
sono più necessari, ma basta solo la fede, anche se il ruolo dello Spirito Santo assume un ruolo
centrale nella vita dell'uomo. I sacramenti non comunicano la grazia25, ma essa è data solo da
Cristo per mezzo dello Spirito Santo. Per Zwingli la grazia è data gratuitamente solo mediante la
fede. Per quanto riguarda l’Eucaristia Zwingli prende ad esempio Gv 6, per separare la carne
dallo Spirito: Cristo è presente nell’Eucaristia, non in modo corporale, ma solo con lo Spirito
Santo e solo quando la Comunità mangia spiritualmente solo per fede. I sacramenti danno una
testimonianza alla fede ed uniscono la comunità: essi sono un atto di ringraziamento e di
anamnesi per la morte salvifica di Cristo, ma essi non danno la grazia. Quindi, per Zwingli il pane
ed il vino sono simboli, ed i sacramenti sono segni di promessa e non strumenti di grazia.
Addirittura Zwingli non accetta il termine “sacramento” giacché lo ritiene un’espressione troppo
impegnativa: il sacramentum risulterebbe per lui un simbolo troppo secolare, perché si tratta di
un simbolo messo sull’altare dai soldati, prima della guerra. Zwingli dà più enfasi alla messa
vista come ringraziamento gioioso e memoriale della morte salvifica di Cristo sulla croce,
rispetto al senso stesso di messa come sacrificio: per lui il corpo di Cristo si trova non nel pane,
ma nella Chiesa. L’importanza dell’Eucaristia non è il mangiare e di bere il corpo ed il sangue di
Cristo, ma piuttosto la formazione della Comunità dei credenti, che diventa pian piano corpo e
sangue di Cristo.

24
In Zwingli confluirono elementi di umanesimo e di luteranesimo. Tuttavia nella Riforma egli batté una strada
propria. Il razionalismo e lo spiritualismo, latenti nell’umanesimo, impressero la loro impronta caratteristica alla
sua dottrina e alla sua chiesa: egli, infatti, prevedeva un puro culto della parola divina, il rifiuto e la distruzione
delle immagini dei santi e la trasformazione di «Questo è il mio corpo» in «questo significa il mio corpo» nella
celebrazione della Cena.
25
Malgrado questa svalutazione sacramentale fece riscontro in Zwingli un fattore positivo non trascurabile. Il
tardo Medioevo, nella sua concezione sottilmente moralistica, aveva pensato i sacramenti prevalentemente come
dono per il singolo o come frutto per lui. Zwuingli è da annoverarsi, con Calvino fra coloro che riscoprirono il
carattere essenzialmente comunitario dei sacramenti, in particolare dell’Eucaristia, anche se in tono minore
rispetto a Lutero.
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Con Calvino26 si è avuta una dottrina sull'Eucaristia nelle Chiese riformate. Egli cercò una via
media tra la teologia di Lutero e Zwingli. Egli nacque nel 1509 e morì nel 1564. Calvino nutriva
un grande rispetto per Lutero e della sua dottrina, ma gradualmente sviluppò una teologia
completamente diversa da quella luterana, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra la
presenza reale di Cristo e le specie del pane e del vino. Calvino fu un grande teologo e la sua
dottrina fondamentalmente è molto spirituale. Il suo problema principale, però, era costituito
dalla transustanziazione. Egli si rifece soprattutto alla teologia patristica, in modo particolare a
quella di Agostino e di Ambrogio. Un punto fondamentale del suo pensiero fu l’affermazione
dell’assoluta sovranità di Dio: la salvezza da Lui operata è indipendente da ogni atto umano 27. I
sacramenti per lui non sono causa di grazia, perché diversamente Dio stesso diventerebbe
schiavo dell’uomo. Arrivò, dunque, a dire che la messa era l’idolatria suprema: inoltre, per
Calvino, la dottrina della transustanziazione avrebbe sottomesso la grazia di Dio nell’ambito dei
sacramenti, mentre il sacrificio della messa avrebbe preso il posto del ruolo salvifico di Cristo
sulla croce, come causa vera della nostra salvezza. Per Calvino, il punto fondamentale
nell’Eucaristia fu l'unione con Cristo, che corrispose a questa sovranità di Dio, mentre i
sacramenti furono doni divini, che dovevano far parte della Chiesa, ma che avevano la loro
origine da Dio. La stessa unione con Cristo voleva dire l’incorporazione alla Chiesa28 come
corpo di Cristo, quindi l’Eucaristia non poteva essere fatta individualmente, giacché era sempre
un atto della Chiesa, dei credenti.
Questa fu la ragione principale per cui Calvino non ammise mai la pratica della messa privata.
Nella dottrina di Calvino, fu anche centrale il ruolo dello Spirito Santo, mediante il quale il
credente poteva vivere la realtà dell’Eucaristia: egli affermò la presenza reale di Cristo, ma
26
Egli nacque nella Francia Settentrionale nel 1509, studiò dapprima filosofia e teologia e si dedicò poi in
particolare agli studi giuridici. Non è chiaro come egli giungesse alla sua dottrina riformata, ma è probabile che
già nel periodo universitario fosse venuto a contatto con Lutero e la sua dottrina. Calvino era una personalità
geniale e versatile. Il calvinismo da lui presentato contiene influssi luterani, ma è da ritenersi una creazione
completamente personale. Calvino fu un uomo di rigido pensiero e di rigorosa disciplina. La struttura psichico-
mentale di Calvino è diversa da quella di Lutero: si tratta di una mente fredda e sistematica. Le notevoli
differenze fra la dottrina di Calvino e quella di Lutero traggono origine, per il contenuto, da una diversa idea di
Dio: Calvino volle soprattutto la gloria di Dio, ed essa soltanto, non predicò mai il Dio dell’amore, bensì il Dio
che esige. Anche nella cristologia Lutero e Calvino sembrano rappresentare due diverse concezioni di fondo.
Mentre la professione di Lutero verso Gesù, come Dio-uomo in un’unica persona, fu sempre ortodossa, Calvino
mostrò nella sua dottrina influssi nestoriani. Le differenze in Calvino sono riconducibili, da un punto di vita
formale, ad una maggiore coerenza e ad una più pura unità di idee di fondo.
27
La sua dottrina sulla predestinazione venne ulteriormente elaborata sino alla predeterminazione divina
arbitrariamente anche per l’inferno. Qui Calvino rese unilaterali ed assolute alcune espressioni della Bibbia ed
esagerò forzatamente la capacità di comprensione umana nell’ambito di una paradossale formulazione cristiana
del mistero. Tutto il sistema di Calvino fu, però, sostenuto da una profonda e singolare coscienza ecclesiastica
28
Tutto il sistema di Calvino fu, però, sostenuto da una profonda e singolare coscienza ecclesiastica: solo la
Chiesa poteva distribuire gli uffici, primo fra tutti quello del predicatore. Calvino era profondamente convinto
della sua vocazione, anche se non era mai stato ordinato, perché il suo sostegno principale era la fede.
Diversamente da Lutero, nel quale tutto converge alla salvezza personale, Calvino diede alla sua comunità un
mandato universale, le inculcò l’originario impulso missionario di espandersi dappertutto. Tutto questo comportò
anche l’eliminazione di tutto ciò che era umano nel processo salvifico, tanto da penetrare anche nel culto. Per
Calvino era soprattutto centrale il puro servizio della Parola di Dio che includeva anche la celebrazione della
Cena. E’ un fatto degno di nota se si pensa alla comunione così poco frequente nel tardo Medioevo. Il suo valore
aumenta anche per il fatto che Calvino una presenza esclusivamente spirituale del Signore nel sacramento, anche
se in modo incoerente. Infatti, non sono poche le sue asserzioni che riconoscono la presenza sostanziale del
Signore nel pane e nel vino durante l’azione sacra, benché Calvino interpreti solo spiritualmente la presenza
sacramentale del Signore. In altre parole, colui che riceve i sacramenti con fede , in modo particolare
l’Eucaristia, è innalzato alla presenza di Cristo, che gli dona in modo celeste. Il mezzo decisivo, ancora più che
in Lutero, è la parola dotata di dignità e di potenza. Il sacramento diviene verbum visibile, una parola sublimata.
Ogni «parola» di Dio è più che «parola», più di un esprimere e di un istruire, è un operare in noi. Questo operare
si compie in noi in maniera più profonda nella celebrazione dei sacramenti.
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sottolineò il modo di tale presenza. E’ lo Spirito Santo che crea e fa vivere la presenza dello
Spirito Santo.
A queste questioni di grande portata, ci fu il Concilio di Trento che ebbe una lunga e
travagliata storia. Tale Concilio non è da vedersi solo come risposta alla Riforma Protestante e
alla dottrina dei suoi principali esponenti, ma è da vedersi anche come il tentativo di affrontare i
problemi più gravi della Chiesa del XVI secolo che giunse ad una profonda crisi spirituale,
pastorale e teologica.

________Note Personali di Studio________________________________________________

10/01/2001 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 9a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

DALL’EPOCA TRIDENTINA ALL’EPOCA DEL BAROCCO.


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Il Seicento fu il secolo dell’esperienza e della sperimentazione delle riforme stabilite dal


Concilio di Trento. Certamente Lutero fu tra i riformatori protestanti più vicini all’area cattolica,
rispetto a Zwingli e a Calvino: egli aveva posto anche dei problemi di carattere pastorale nella
che Riforma intendeva risolvere: ad esempio, il tentativo di avvicinare il popolo alla celebrazione
della Messa, attraverso il canto volgare. Egli sentiva, da una parte l’esigenza, di conservare la
tradizione cattolica, mentre, dall’altra, aveva assunto una posizione distante dalla Chiesa
ufficiale. Egli voleva celebrare la domenica come il giorno del Signore, perché si era reso conto
che la crisi spirituale della Chiesa stessa era stata determinata dalla perdita del senso delle
principali feste liturgiche, ma soprattutto la perdita del senso della domenica come giorno del
Signore. Egli stesso volle salvaguardare l’Eucaristia, stabilendo la comunione settimanale e non
annuale, come aveva stabilito, per esempio, Calvino.
Nel 1523 aveva promosso la riforma battesimale e successivamente aggiunse, nel 1527, il
battesimo per immersione. Sempre nel 1523 stabilì che la Cresima non fosse più considerata
come Sacramento, ma come semplice rito di passaggio. Nel 1529 stabilì il nuovo rito del
matrimonio, togliendo ad esso il carattere sacramentale e considerandolo come un momento
spirituale molto forte, equiparato – in un certo qual senso – alla vita monastica.
Lutero, inoltre, non pensava che il vescovo fosse più necessario per l’ordinazione di un
pastore: si prevedeva per l’ordinazione la recita del Padre Nostro durante l’imposizione delle
mani. Non era prevista, in questo caso, alcuna preghiera di ordinazione. Per quanto riguarda
l’unzione degli infermi, Lutero gli tolse il carattere sacramentale, prevedendo, così che gli unici
sacramenti validi erano il Battesimo e l’Eucaristia. Questo avvenne in forza del principio della
sua dottrina: una sola fede, un solo Battesimo ed una sola Scrittura. Alcuni, a motivo di ciò,
alcuni studiosi hanno pensato erroneamente a Lutero come un riformatore contro l’unzione. In
effetti, non è così, perché Lutero stesso raccomandava sempre ai suoi pastori di avvicinare, il più
possibile, i parrocchiani all’uso dell’unzione che consisteva nel porre un po’ di olio sul capo e nel
chiedere nella preghiera la guarigione della persona.
Nel 1526 si nota la presenza delle preghiere in forma volgare in tutte le chiese luterane:
Lutero stesso diffuse anche uno schema di preghiera comune (v. le Lodi e i Vespri) in tutte le
Parrocchie. Per Lutero l’omelia occupò un posto molto importante: essa doveva essere presente
in tutti i riti. Egli, come è già stato detto, credeva nella presenza reale di Cristo sotto le specie
eucaristiche, ma non al di fuori della Messa.
In conclusione, la sua riforma apparve tra le più conservatrici: nei riguardi di essa agirono due
forze perché vi sono stati degli uomini i quali pensavano che il movimento sfociato nella riforma
protestante era sbagliato nel suo principio, ma vi sono stati anche degli studiosi che pensavano
che tale movimento doveva essere ripreso ed approfondito quanto più essa aveva potuto
concorrere a farlo deviare.
Le due forze si chiamarono riforma cattolica, ossia la riflessione su di sé attuata dalla Chiesa
in ordine all’ideale di vita cattolica raggiungibile mediante un rinnovamento interno. Si tratta
della controriforma, ossia l’autoaffermazione della Chiesa nella lotta contro il protestantesimo.
Tra l’altro, uno dei grossi problemi della Chiesa, al tempo di Lutero, fu la mancanza dell’unità
della Liturgia della Chiesa Cattolica, insieme alla mancanza di preparazione dei preti sul piano
teologico, pastorale, spirituale e morale.
Certamente la Riforma di Lutero continuò di più nei paesi più vicini al protestantesimo,
mentre in quelli, dove era forte l’influenza di Roma, ci fu la Controriforma che doveva
rivitalizzare i diversi strati della Chiesa e promuovere una nuova vita spirituale ed una vita di
pietà. In questo senso ci fu un rinnovamento sacramentario e catechistico, mentre la condanna
della concezione protestante del sacerdozio universale dei fedeli, estendo il suo influsso al di là
dell’ambito dogmatico e controversistico, aumentò il distacco tra il clero ed il popolo. Allo
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stesso tempo ci fu una diffidenza sempre più forte verso al diffusione della Scrittura in lingua
volgare, che privò il laicato di un necessario nutrimento spirituale.
Certamente il Concilio di Trento svolse un ruolo molto importante: il punto principale, per
quanto riguarda la Liturgia, fu quello di riordinare la Liturgia nei suoi riti e di renderla più vicina
ai fedeli. Il Concilio di Trento, però, non riuscì completamente a riunire le Chiese dell’Occidente,
né a restituire alla Liturgia la sua unità originaria, ma diede grande impulso al Cattolicesimo e ad
una sua nuova diffusione, soprattutto nei territori protestanti. Non mancò neppure un processo
di centralizzazione. Il Concilio Tridentino non riuscì, rispetto a quello che si era proposto, ad
affrontare tutti gli argomenti, ma si sa che il suo intento era soprattutto pastorale, perché voleva
che la Chiesa recuperasse in pieno la sua indole originaria. Questo Concilio ebbe una storia lunga
e tormentata. L’obiettivo principale era quello di far recuperare ai fedeli il senso di Dio e
l’importanza del rapporto sacramentale: aiutare la gente a pregare meglio poteva comportare la
riscoperta della bellezza di un rapporto fecondo con Dio. Ciò stava alla base per un autentico
rinnovamento spirituale dei cristiani. Certamente, a livello liturgico, c’era anche l’obiettivo di
rendere significativi i momenti più forti dell’Anno Liturgico, mediante delle catechesi in lingua
volgare per riavvicinare la gente alla fede.
Le discussioni teologiche provocate della riforma protestante diedero origine a movimenti
spirituali, nei quali è sempre presente, sia pure in modi diversi, la volontà individuale di ottenere
una propria unione con Dio. Nel 1563 ci fu il tentativo di avvicinare i fedeli alla Chiesa, in un
Liceo a Praga mediante l’offerta del calice agli studenti. Fu un tentativo sperimentale, insieme ad
altri che caratterizzarono questo periodo.
Del Concilio di Trento, se da una parte aveva lo scopo di centralizzare la Liturgia, dall’altra
era molto forte l’interesse pastorale. Poiché il Concilio non portò a termine questi intenti, trasferì
al Sommo Pontefice l’incarico di portare a compimento questi obiettivi, tanto che nel 1588 il
Papa Sisto V istituì la Congregazione dei riti per prevedere il cambiamento necessario delle
diverse usanze liturgiche. In meno di 50 anni i riti liturgici furono rivisti.
Parlando in genere della riforma tridentina si possono notare tre caratteristiche:
1) la centralizzazione della Liturgia, il cui compito era quello di salvaguardare l’unità della
Chiesa sotto ogni aspetto. Ciò diventava importante soprattutto per dare una risposta
molto forte alla Riforma protestante e per garantire, in futuro, la riforma vera e propria
della Chiesa;
2) la riforma delle rubriche, il cui compito era quello di mantenere una certa uniformità in
tutta la Chiesa. Le rubriche, che ad un tempo, erano indicative, ben presto divennero
norme obbligatorie con conseguenze anche morali. Esse avevano il compito di aiutare i
sacerdoti a celebrare nel modo migliore l’Eucaristia. Con esse, però, non mancò il
pericolo di creare una mentalità minimalistica (cioè fare solo quello che la rubrica dice di
fare) e di far perdere il senso autentico della celebrazione liturgica e del rapporto con Dio
attraverso la preghiera. Un altro pericolo fu quello di creare un eccessivo timore di
compiere degli errori;
3) la considerazione pastorale della riforma tridentina, il cui ruolo fu quello di
dimostrare ai Protestanti il valore autentico, nonché la forza, della tradizione del culto
romano. Ma il progetto di una riforma classica non fu possibile per due motivi: a)
rimaneva difficile individuare le norme originarie; b) si sentiva il dovere di evitare la
mentalità archeologica e di correre troppo in avanti, senza prima aver preparato il popolo.

Ciò determinò un cambiamento liturgico molto significativo, ma occorreva pensarlo bene


perché toccava il cuore della Chiesa, a livello pastorale. Per questa ragione, ci fu una certa
contrarietà di immettere la lingua volgare nella Liturgia: per il Concilio di Trento non era ancora
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giunto il momento per introdurre questa importante novità. Di fatto questo cambiamento si
verificherà ben 400 anni dopo con il Concilio Vaticano II.
Anche con il Sinodo di Pistoia del 1786 vennero posti importanti interrogativi sulla riforma
liturgica, quando nella Chiesa vi era il grosso problema del giansenismo. Tra l’altro questo
sinodo aveva anticipato molte cose, senza che ci fosse stata una preparazione del popolo di Dio
ad importanti e significativi cambiamenti. Per tale ragione, il vescovo di Pistoia fu deposto.

ALCUNI CRITERI DELLA RIFORMA TRIDENTINA


Ci fu, innanzitutto una riduzione del Santorale, a vantaggio dei martiri romani. In effetti, il
problema fu quello di avere troppi Santi sul Calendario Romano, già a partire dal XVI secolo.
Quindi, un senso dei tempi forti, veniva a mancare sempre di più. Questo era un altro importante
aspetto pastorale. Nel 1568, quando Pio V pubblicò il Calendario Romano, vi erano in più già
300 Santi nel Calendario: essi erano stati aggiunti nel periodo tra l’800 ed il 1568. La Riforma
Tridentina lasciò circa 200 giorni liberi nel Calendario per rispetto ai tempi forti dell’Anno
Liturgico, come ad es., la Quaresima.
Un altro aspetto riguardava la Lettura della Sacra Scrittura e la recita settimanale del Salterio.
In questo modo si formarono i cosiddetti giorni “feriali”.
Un terzo aspetto riguardava la Liturgia come azione ecclesiale, malgrado la presenza delle
Messe private, che aveva creato una certa disaffezione dei fedeli verso la Chiesa. Nel 1568, per
raggiungere l’obiettivo di promuovere la Liturgia come azione ecclesiale, il Papa promulgò il
nuovo Breviario, come strumento per la preghiera della Chiesa.
Un quarto aspetto riguardava l’utilizzazione dei rituali già esistenti: nel 1596 Clemente VIII
promulgò il nuovo Pontificale Romano. Nella forma del sec. precedente, era stato promulgato da
Innocenzo VIII. Nel 1600 venne promulgato anche il Caeremoniale Episcoporum, con elementi
presi dagli Ordines romani dell’VIII secolo. Nel 1614, Carlo V promulgò il Rituale Romano,
utilizzando i rituali precedenti. Ad esempio, per il Battesimo si prese dal Liber sacerdotalis di
Castellani (1532), ma non mancarono i riferimenti al Sacramentario Gelasiano.
Un quinto aspetto riguardava la formazione di nuovi sacerdoti, attraverso la novità
importante dei seminari, nonché una nuova concezione liturgica, attraverso le rubriche, come
norme obbligatorie da seguire per una corretta celebrazione liturgica. Ciò comportava, dunque,
una formazione liturgica almeno a livello rubricale.
Il sesto punto, riguardava la promulgazione del Messale Romano, da parte di Pio V, nel 1570:
sostanzialmente era simile all’editio princeps del 1474, ma in esso furono aggiunte le rubriche
dell’Ordo Missae del 1502 e del Cerimoniale Pontificio di Burcardo. Nella Bolla di
promulgazione del 1570, il Papa intendeva dire che il Messale rappresentava ed esprimeva la
dottrina cattolica sul sacrificio della Messa, anche sul ministero sacerdotale e sulla presenza reale
di Cristo. In sostanza doveva essere uno strumento per far vivere una certa unità liturgica in
tutta la Chiesa Universale, per cui il Pontefice proibì qualsiasi cambiamento sia dei testi liturgici,
sia dei riti liturgici, per mantenere una certa unità liturgica.
Clemente VIII seguì la linea del suo predecessore, Pio V, e nella sua Lettera Apostolica si
dichiarò a favore dell’unità di tutta la Chiesa. Questa doveva essere la risposta forte alle accuse
poste dai Protestanti.
Nel seguire queste tappe, si può vedere come la Liturgia fosse stata liberata da quello stato
caotico nel quale si trovava, a motivo del quale si era creata una grossa crisi spirituale della
Chiesa.
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L’ARCHITETTURA NEL ‘600.


Uno tra i punti di riferimento riguarda l’azione dei Gesuiti, a motivo del loro progetto
missionario (v. la Chiesa del Gesù). Quando essi andarono a predicare in diverse parti del mondo
e quando vollero costruire delle Chiese, dovettero chiedere il permesso al loro Padre Generale e
alla Santa Sede: a questi missionari, però, veniva inviata una copia di progetti di Chiese già
esistenti per far mantenere un medesimo stile architettonico. Uno degli elementi nuovi, come
frutto di una nuova concezione liturgica, fu proprio la mancanza delle barriere architettoniche
che dividevano il presbiterio dalla Navata. Questa separazione rimase, invece, viva nelle Chiese
Orientali. Questa novità aveva lo scopo di favorire una partecipazione più attiva dei fedeli alla
Messa.
I Gesuiti, con la loro attività, vollero soprattutto seguire ed assistere i fedeli, con la catechesi,
con la predicazione e con il catechismo, il cui scopo era quello di aiutarli ad accogliere e ad
esercitare meglio i diversi ministeri all’intero della Chiesa.
Certamente l’architettura sacra rinascimentale aveva salvaguardato l’unità di un ambiente
tanto importante per una partecipazione davvero comunitaria ed organica all’azione liturgica. Lo
scopo rimaneva quello di esprimere nella Liturgia tutta l’azione della Chiesa che celebra il
mistero della salvezza e di non escludere la gente dal vedere e dall’ascoltare i diversi momenti
della celebrazione liturgica. La Parola doveva essere comunicata nel modo migliore: uno degli
elementi architettonici fu quello di far costruire dei soffitti in legno, soprattutto ad iniziativa dei
Gesuiti. Seguirono, poi, le soffittature in legno leggermente curvate, il cui scopo era quello di far
pervenire la Parola di Dio sino in fondo alla Chiesa, in modo che tutti ascoltassero. Il Card.
Farnese introdusse elementi architettonici più eleganti, escludendo queste soffittatture, ma ci fu,
però, il rischio che il primo Barocco intaccasse un poco l’unità dell’ambiente liturgico
assommando vari ambienti uniti tra loro dall’unico asse centrale. Ciò poteva comportare una
certa distrazione, a motivo della presenza di grandi altari appoggiati alle pareti, di tribune o
coretti per i cantori collocati variamente fra l’ingresso ed il presbiterio, ma – in seguito – gli assi
si moltiplicarono, perché le navate furono affiancate oppure partivano da quella centrale, tanto
da costituire a sé delle vere e proprie cappelle sontuose e ricche di cupole. In questo modo
l’unità d’ambiente scomparve.
Da questi elementi si può dedurre che la Chiesa del ‘600 e ‘700 perse la sua caratteristica di
unità, divenendo così, più un ambiente di “teatro” dove la gente non partecipava più: un
esempio concreto fu la moltiplicazione degli altari che comportava contemporaneamente la
celebrazione di molte messe. Se non ci fu un cambiamento in merito alla partecipazione della
gente alla Messa, ci fu, però, il desiderio grande di vedere e di sentire tutto, nonché il desiderio
di spazi aperti e senza barriere. Lo stesso pulpito doveva essere collocato in modo tale che tutta
l’Assemblea liturgica potesse ascoltare le prediche o le catechesi del sacerdote. Ciò previde ben
presto un unico spazio liturgico che si contrappose, in un certo qual senso, a quella mancanza di
unità d’ambiente che era tipica dell’ambiente barocco che si caratterizzò per un’esplosione
diffusa dell’estro artistico, della fantasia e della monumentalità.
Solo nelle Chiese Orientali e nelle Chiese Anglicane questa divisione tra la Navata ed i
presbiterio (nella tradizione orientale prende il nome di Santuario) – detta iconostasi – rimase in
vigore, probabilmente per una questione simbolica, giacché l’iconostasi doveva rappresentare
l’elemento di distinzione tra il Cielo (Santuario) e la Terra (Navata).
Ma perché i Gesuiti furono così presenti in questo cambiamento? Lo furono perché, oltre alla
loro azione missionaria, sottolinearono la mancanza del coro: se anche essi non avevano bisogno
di un coro, perché non pregavano in comune, in realtà in quell’epoca i frati ed i monaci
pregavano spesso. Se i Gesuiti avevano il compito di una vita apostolica molto attiva, non erano
comunque contrari all’Ufficio divino in comune. Da qui ci fu la necessità di un cambiamento
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 60

degli elementi architettonici che diedero impulso a concezioni nuove sul sacerdozio: se da una
parte si può notare la differenza tra i Gesuiti e gli altri Ordini religiosi, dall’altra si affermò
sempre di più il senso di un sacerdote in mezzo alla gente, che si premura di diffondere il
Vangelo, secondo il comando di Cristo. In questa direttiva, ci fu un forte impulso missionario,
con nuove strategie pastorali.
Sempre per quanto riguarda i nuovi elementi architettonici delle Chiese, un altro dato
importante fu la pubblicazione delle Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae del
Card. Carlo Borromeo che dichiaravano la preferenza per le chiese a forma di croce oblunga,
che da Federico Borromeo è detta «opportunissima agli usi ecclesiastici: sarà a similitudine di
una nave, che è lunga e diversamente divisa, così che i ministri della casa sacra siano ripartiti
alle proprie mansioni, come avviene nel servizio navale. Qualora queste disposizioni o per
ignoranza o per incompetenza degli architetti fossero tralasciate, ne conseguiranno molti
inconvenienti e soprattutto questo che né i sacerdoti dalla massa del popolo, né le parti più
sacre del tempio si potranno distinguere per maestà e dignità delle altre». E precisamente
questo avvenne.
San Carlo Borromeo diede ogni dettaglio per le Chiese, che non tutti condivisero: infatti, egli
voleva mettere un nuovo elemento separatorio nella navata, che dividesse gli uomini e le donne.
Fino al secolo scorso, nella tradizione ambrosiana, questo elemento era ancora presente. Uno
degli elementi caratteristici del pensiero di San Carlo, fu quello di porre sull’altare il tabernacolo:
se nel tempo medioevale le specie eucaristiche venivano conservate dentro un muro, che non
aveva ancora le sembianze di un tabernacolo, in quest’epoca si verificò lo sviluppo del
tabernacolo, come elemento liturgico, di pari passo con la crescita della devozione eucaristica.

17/01/2001 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 10a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

EPOCA DAL BAROCCO ALL’OTTOCENTO.

C’è da notare che se anche ci sono stati dei cambiamenti significativi nel campo della Liturgia,
a motivo della Riforma perpetrata dal Concilio Tridentino, la stessa Liturgia nella sua sostanza
rimane immutata sino al Concilio Vaticano II, cioè nella sua struttura e nel rito.
I cambiamenti significativi riguardano piuttosto lo stile della celebrazione, nonché gli elementi
architettonici che creano un ambiente diverso rispetto al passato (v. per es., la posizione del
Tabernacolo). In questo periodo si sentì già l’esigenza di eliminare la confusione tra il
tabernacolo, come luogo dove viene conservata la Divina Eucaristia, e la stessa celebrazione
liturgica. In effetti, ciò rimanda al problema se sia più importante la celebrazione liturgica o
l’esposizione del Santissimo: se si parte dal concetto di presenza reale, si intuisce che è più
importante la celebrazione eucaristica, poiché in essa Gesù si rende presente per rinnovare il suo
sacrificio, mentre il Santissimo esposto richiede un luogo diverso da quello della celebrazione, al
fine di evidenziare il valore della Messa, da una parte, ed il valore del rapporto personale con il
Signore, attraverso la sua reale presenza nel Tabernacolo.
94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ. 61

In riferimento allo spazio liturgico, inizia una nuova concezione di ogni spazio singolo: ad
esempio quello che riguarda il confessionale, dove viene celebrato il Sacramento del Perdono.
Già nel Medioevo ci si confessava vicino all’altare, tra il presbiterio e la Navata, dove si
radunava l’Assemblea Liturgica. Nell’epoca di Carlo Borromeo si nota già un cambiamento
strutturale: il confessionale inizia ad essere distinto fisicamente, mediante una struttura in legno;
esso sarà distinto per gli uomini e per le donne.
Altri cambiamenti, a livello architettonico, risponderanno a favore di una struttura unica e
centralizzante. Ma anche dal punto di vista musicale inizieranno ad essersi le prime grandi opere,
anche se questa quasi sin dall’inizio è stata concepita all’esterno della celebrazione eucaristica. In
questo modo verrà a mancare quell’integrazione tra la celebrazione liturgica e l’arte musicale. Se
da una parte, la musica era stata sempre a servizio della liturgia, durante il Concilio di Trento
essa aveva subito un secondo processo, almeno nella sua parte di «ars nuova». Non era il
momento di occuparsi di tale fatto, ma subito dopo il Concilio a Roma era stata istituita una
commissione presieduta dai Cardinali Borromeo e Vitelli. Essa lavorò soprattutto per abolire
molte musiche di carattere profano, per affermare quelle davvero adatte al culto liturgico, di cui
principale compositore appariva il grande Pier Luigi da Palestrina. Fu davvero una felice
investitura ecclesiastica della polifonia, ossia il tipo di musica migliore a cui si poteva pensare
allora, perché l’assenza di una partecipazione diretta all’azione liturgica dei fedeli escludeva la
possibilità di un canto popolare. La difficoltà rimaneva, dunque, la poca partecipazione del
popolo durante la celebrazione liturgica.
Questo periodo vedrà alla luce il Cantorale (1605), come libro non propriamente liturgico che
aveva come scopo quello di integrare la musica con il culto liturgico tridentino. Esso rappresentò
il tentativo di inserire alcuni Inni tedeschi nella Messa latina. Ma la musica in lingua volgare non
fu invenzione dei Protestanti, ma era già presente in alcuni luoghi.
Circa l’omelia, con il Concilio di Trento si stabilì che essa doveva essere fatta almeno nei
giorni festivi: essa, però, appariva staccata dal momento liturgico, perché il più delle volte essa
non toccava il cuore dei fedeli, né mostrava una perfetta integrazione con la celebrazione
eucaristica. Addirittura si può aggiungere che la predica, in passato, veniva fatta al di fuori della
Messa. Con il Concilio di Trento ci fu il tentativo di integrare l’omelia con l’esperienza della
liturgia della Parola. Tra il ‘600 ed il ‘700 si dovette affrontare il problema della divisione tra la
predicazione, la Parola di Dio e la Messa stessa.
La predica era prevista solo nelle feste più grandi, cioè nelle Domeniche di Avvento e di
Quaresima e nelle Solennità.
Questo periodo segnerà l’epoca del Barocco che farà concepire una liturgia ed una cultura di
festa. Tutto si svolge a livello teatrale: fu un tempo per mostrare autenticamente la fede a tutti, in
modo particolare verso i Protestanti. Ciò doveva sottolineare la presenza sacramentale di Cristo,
tanto che la festa più importante fu quella del Corpus Domini, soprattutto a livello popolare.
Questo fenomeno lo dobbiamo considerare come il tentativo di dare una risposta forte ai
Protestanti che, con la loro riforma, avevano minato profondamente alcuni aspetti centrali della
fede cristiana, come ad esempio la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia e la realtà concreta di
tutti i Sacramenti.
In effetti ci troviamo in un’epoca dei grandi personaggi, come Sesto V, Paolo V, il Cardinale
Bellarmino, e dei grandi Santi come San Vincenzo De’ Paoli, San Francesco di Sales, e tanti altri,
che contribuirono notevolmente ad un vero e proprio rinnovamento della Chiesa, a tutti i livelli.
A livello secolare ci sarà anche una grande fioritura dell’arte poetica e letteraria, nonché dello
sviluppo scientifico. La stessa architettura raggiungerà il suo massimo splendore, non priva del
carattere gioioso e sensuale. Il Barocco, comporterà un periodo di maggiore libertà, mediante il
distacco dal rubricismo sfrenato ed un recupero pieno del senso di preghiera e di celebrazione. A
motivo di ciò, si nota anche l’inizio di una riforma più sostanziale dei diversi Libri liturgici: ad
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esempio, nel 1602 Clemente VIII promulgò una nuova edizione del Breviario, mentre nel 1604
fece pubblicare una nuova edizione del Messale Romano, nel quale furono aggiunte nuove feste.
Nel 1630, ci sarà il nuovo Martirologio Romano, mentre nel 1632 Urbano VII pubblicò una
nuova edizione del Breviario, facendo inserire alcuni inni latini. Nel 1634, ancora una volta, ci
sarà la nuova edizione del Messale. Nel 1644 ci sarà una nuova pubblicazione del Messale
Romano.
Circa la partecipazione alla Liturgia, da parte del popolo ci sarà una certa distanza verso la
Messa, ma ci sarà un aumento della pratica dell’adorazione eucaristica.

Ritornando allo stile architettonico, una delle caratteristiche fu quella di concepire ambienti
unitari, dove chi assisteva alla Messa, poteva seguire passo, passo la Liturgia che si celebrava.
Non venne, però, meno il carattere aulico della Liturgia, soprattutto quella Papale. L’altare
stesso lo si può immaginare come il trono di Dio che manifesta la sua sovranità su tutta la
Chiesa.
L’epoca del Barocco fu anche il tempo dei grandi cerimonieri papali che contribuirono
all’inserimento di nuovi elementi liturgici, nonché alla concezione di Libro liturgico come
riferimento di guida per la celebrazione. Si voleva essere certi che una maggiore cura della
Liturgia facesse sperimentare a tutti i cristiani l’esperienza spirituale tra la terra ed il cielo, come
luogo definitivo del cristiano che vive la sua fede sino al momento della separazione da questo
mondo.
Certamente, la diffusione della fede attraverso l’opera missionaria, comportò una certa
fioritura dell’architettura anche all’estero: ci troviamo già dinanzi al fenomeno
dell’inculturazione. Un esempio concreto sono i Gesuiti o i Padri Vincenziani, quando si
recarono in Cina per svolgere l’opera di evangelizzazione. In quei luoghi stranieri il problema
principale fu quello di adattare profondamente la liturgia cattolica alle tradizioni del posto, pur
mantenendo in piedi gli elementi essenziali. Ancora oggi, si avverte l’importanza
dell’inculturazione, perché alla Chiesa non è mai mancata la necessità di incontrare le diverse
culture per diffondere in modo più efficace il messaggio di Cristo.
In effetti, l’inculturazione indica l’azione missionaria di coloro che si recano in terra di
missione, dove diventa importante l’applicazione del Vangelo all’ingegno del popolo. Però,
questo processo non ebbe esito felice, tanto da pensare di aver perso importanti occasioni per
evangelizzare coloro che vivono una cultura ed una convinzione religiosa diversa dalla nostra.
C’è anche da dire che “inculturazione” non significa necessariamente accettare in pieno i
contenuti culturali di quel popolo, ma vuol dire il discernimento di tutti quegli elementi che
possono favorire la diffusione del Vangelo.

IL PERIODO DELL’ILLUMINISMO.

E’ un’epoca nella quale l’Illuminismo cattolico ha contribuito allo sviluppo del movimento
liturgico e al rinnovamento stesso della Liturgia, anche se, dall’altra parte, si contrappose
l’illuminismo vero e proprio che, basando il suo criterio di verità sulla ragione come principio di
conoscenza e di ricerca, comporterà il grosso problema dell’ateismo materiale e l’allontanamento
di grandi masse di persone dalla Chiesa. Però, c’è da dire anche che l’Illuminismo favorì una
sorta di purificazione della religione cristiana da quelle consuetudini negative del clero e del
popolo cristiano in genere: esso fu una provocazione ulteriore ad un serio rinnovamento della
vita spirituale della Chiesa e ad un distacco sempre più forte dai beni materiali.
L’Illuminismo comportò anche un certo cambiamento filosofico: si tratta della sovranità della
ragione umana ed una certa esaltazione delle capacità umane, tanto da insinuare il dubbio della
indispensabilità della grazia divina.
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Accanto all’Illuminismo, detto anche ateistico, a motivo della sua abiura contro una sorta di
fideismo, non è mancato l’Illuminismo “cattolico” che, pur non negando il valore del
cristianesimo, proclamava la ragione come l’unica via della Verità, attaccando fortemente i
privilegi della gerarchia cattolica e criticando aspramente il dogmi non ritenuti razionali. Da ciò
si può comprendere che quest’epoca la si può ricordare anche come epoca del razionalismo,
secondo il quale non si poteva ammettere alcuna cosa al di fuori degli schemi della ragione.
Dall’altro lato, però, abbiamo il giansenismo nei suoi diversi rami, francese, olandese, italiano:
esso fu un movimento, sin dall’inizio, di indole dottrinale e religiosa. Esso fu contrassegnato da
un forte rigorismo e si contrappose fortemente all’Illuminismo. Per quanto riguarda il suo
sviluppo in Italia, esso ebbe come frutto principale il Sinodo di Pistoia (1786) che, dal punto di
vista liturgico, segnò un momento importante. Le caratteristiche del movimento giansenista
italiano riguardavano il senso di una Chiesa locale, contro l’idea di una Chiesa centralizzata. I
giansenisti si contrapposero ai Gesuiti e alla Curia Romana: essi, tra l’altro, rivendicarono la loro
indipendenza dall’autorità civile, per quello che riguardava tutte le riforme ecclesiastiche. Il
giansenismo promosse anche un’esaltazione dei vescovi locali, per sostenere la sua posizione
contro la Curia Romana e per concedere agli stessi vescovi poteri più ampi: questo fu anche il
periodo di Dom Guerangér. C’è anche da dire che con il giansenismo ci fu il tentativo di
ripristinare la liturgia secondo la sua forma classica e la soppressione degli elementi negativi di
superstizione.
IL SINODO DI PISTOIA.

Il Giansenismo in Italia ebbe un posto rilevante anche se non è possibile paragonarlo a quello
francese. Gli intellettuali furono attratti dal metodo biblico e storico, dalla sua indipendenza dalla
tradizione religiosa comune e da una libertà di pensare e di agire che risultò molto congeniale da
coloro che avevano già subito l’influsso dell’Illuminismo.
Si potrebbe pensare che i primi aderenti al Giansenismo lo abbiano fatto per bene informarsi
sulle riforme più necessarie da attuarsi in opposizione alla controriforma sempre dominante per
cui, ben presto, la Curia romana si accorse dell’influenza giansenista.
In questo quadro storico va inserito il Sinodo di Pistoia, che non può essere considerato un
fatto locale, malgrado le apparenze. Dopo la conquista dell’Università di Pavia, esso costituì
l’evento più importante del giansenismo italiano: esso era stato pensato come l’inizio e lo
sviluppo di una riforma che avrebbe dovuto estendersi in tutta la Toscana, mediante l’appoggio
del Duca Leopoldo.
Il vescovo De’ Ricci Scipione (1741-1809) è il personaggio principale, anche se fu manovrato
da persone molto più intelligenti di lui. Egli volle riportare la Liturgia al rigore e alla semplicità
della Chiesa antica. Questo vescovo ben presto assunse posizioni radicali e si presentò come il
grande riformatore ed il fulcro di una riforma che doveva espandersi per tutta l’Italia,
travolgendo le resistenze della Curia romana. Così facendo ben presto fu tacciato di scisma ed,
in alcuni casi, anche di eresia.
Il Sinodo convocato a Pistoia ebbe sette sessioni dal 18 al 28 settembre, con la presenza
variante sui duecentocinquanta sacerdoti. Presieduto sempre dal De’ Ricci, fu diretto per tutta la
parte teologica dal Tamburini. Una delle sessioni più importanti fu la Sessione IV che promulgò
il decreto dell’Eucaristia.
I decreti del Sinodo pistoiese furono legati profondamente all’attività riformatrice del De’
Ricci, come si può notare dalle sue pubblicazioni, raccolte diligentemente dal Matteucci. Uno dei
punti di battaglia fu quello di porre freno al nuovo culto sul Sacro Cuore propagato dai Gesuiti,
nonché dei Santi non pienamente riconosciuti, delle reliquie e delle immagini della Vergine
Maria. In sostanza ci fu il tentativo di ritornare all’Eucaristia allontanando ogni sorta di
devozione popolare.
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In secondo luogo, il sinodo pistoiese voleva promuovere la partecipazione attiva dei fedeli
alla Messa, introducendo l’uso della Lingua volgare nella Liturgia e sottolineando anche la
centralità della messa parrocchiale durante la domenica.
In terzo luogo, la comunione consacrata non poteva essere concepita al di fuori della
celebrazione eucaristica, a vantaggio degli stessi fedeli, insinuando il pericolo di pensare al
tabernacolo come un dispensorio delle ostie consacrate e facendo perdere il suo vero significato.
In quarto luogo, un altro decreto del sinodo pistoiese, riguardava la lettura completa della
Bibbia e la preparazione dei padrini e delle madrine, a livello catechetico, nonché la celebrazione
del Battesimo, anche dei bambini, nella notte di Pasqua.

Il Sinodo di Pistoia fu poi condannato ben otto anni dopo. Il ritardo non fu causato da una
disciplina ecclesiastica piuttosto provvisoria, anche sul piano dogmatico, ma da Pio VI che non
voleva aggravare ancor più le sue relazioni con l’Imperatore Giuseppe II e Leopoldo II, proprio
quando, alla pubblicazione degli atti e dei decreti alla fine del 1788, per la reazione popolare in
tutti i territori di dominio e di influenza austriaca alle pesanti riforme, si potevano nutrire
speranze di giungere a soluzioni soddisfacenti, soprattutto dopo la morte di Giuseppe II e
l’ascesa al trono di Leopoldo II.

Uno dei punti fermi di questo Sinodo fu la centralità dell’altare, tanto che in un certo senso ha
anticipato uno dei punti centrali della dottrina del Concilio Vaticano II. La condanna di questo
Sinodo, da parte di Pio VI, con la Bolla Auctorem Fidei e della Chiesa considerarono eretici i
primi 15 decreti che riguardavano la Chiesa e la gerarchia.
Il vescovo De’ Ricci subì un’umiliazione pubblica, fu abbandonato dai suoi amici e morì in
solitudine nel 1809.
A livello liturgico tra il Sinodo di Pistoia ed il Vaticano II, ha come differenza sostanziale che
nel Sinodo di Pistoia non fu prevista alcuna preparazione catechetica, né teologica: il vescovo
aveva l’idea di iniziare una cosa nuova, ma senza una preparazione liturgica e teologica. Invece,
il Concilio Vaticano II ebbe dietro a sé un’importante movimento liturgico che comportò un
cammino ed una preparazione ad ogni livello: da quello storico, a quello biblico, a quello
patristico, a quello teologico, a quello sacramentale, a quello dottrinale, a quello pastorale, a
quello liturgico e a quello catechetico.

ALCUNI FATTORI STORICI DELL’800.


Al fallimento dell’Illuminismo seguì la Rivoluzione francese che scrisse una pagina
anticristiana orribile: fu un proposito, in gran parte attuato, di distruggere ogni segno del culto
cristiano e per questo si volle mutare persino il calendario.
Seguì anche la crisi della Chiesa alla fine del ‘700, a motivo anche di un’eccessiva
frammentazione della liturgia, soprattutto in Francia, tanto che ogni Diocesi aveva i suoi libri
liturgici ed i suoi riti. Questo avvenne, malgrado il Concilio di Trento avesse imposto la
centralizzazione e l’uniformità della Liturgia stessa. Questa unità liturgica, tanto agognata, non
fu pienamente possibile in quel periodo per i diversi fattori negativi, già sopra enunciati.
A motivo di questo quadro negativo, non mancarono alcuni tentativi da parte di Prospero
Guéranger (1805-1875) che aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale nel 1827 e fu attratto
subito dalla questione dell’unità dei cattolici francesi, alla quale volle dedicare tutta la sua
attività. Punto di partenza del Guéranger fu la restaurazione dell’ordine benedettino, nel quale
egli trovava la manifestazione più viva della spiritualità tradizionale della Chiesa.
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Per attuare il suo disegno nel 1833 acquistò l’antica Abbazia di San Pietro di Solesmes,
soppressa nel 1791 e destinata alla demolizione, e vi ristabilì la vita benedettina. Egli non seguì la
linea di Giansenio, ma volle ritornare al senso della Chiesa Universale e al senso della Liturgia
Universale, mediante la dottrina del Corpo Mistico di Cristo, sia a livello pastorale, sia a livello
liturgico. Guéranger iniziò la sua opera con la pubblicazione – nel 1840 – delle Institutiones
liturgiques: l’opera si fermò al terzo volume edito nel 1851. Si tratta di un’opera di carattere più
scientifico. In un altro suo importante scritto, l’Année liturgique (1841) diede impulso ad un
vero e proprio movimento liturgico. Egli voleva promuovere tale movimento soprattutto sotto
l’aspetto gerarchico, perché per lui la “gerarchia” voleva dire la Curia Romana. Con l’Année
Liturgique egli scrisse un commentario liturgico riguardante tutto l’Anno Liturgico. Guéranger
morì prima di ultimare i 19 volumi di questo commentario. Nel movimento liturgico da lui
promosso, mancarono tuttavia due principi, oggi affermati: l’esatta possibilità di riformare
cerimonie e libri liturgici e l’altra di poter usare la lingua volgare. Con la presenza dei monaci
egli ebbe la possibilità di mostrare a livello pratico quello che voleva realizzare, tanto che il
monastero da lui rifondato divenne un punto centrale di riferimento per la Chiesa stessa.
Oltre a Guéranger si possono ricordare anche altri illustri personaggi come Sailer e di Mohler
(1838), i quali vedevano nella Liturgia il principio vitale della vita cristiana. Il concetto della
Chiesa come popolo di Dio, spinse Mohler a difendere l’uso della lingua volgare nella Liturgia.
Ciò avvenne anche in Italia con Antonio Rosmini, che morì nel 1855: anche lui insistette molto
sulla dottrina del Corpo Mistico di Cristo, con la conseguenza che ogni fedele doveva
partecipare ai sacramenti secondo la virtù del carattere sacerdotale ricevuto dal Battesimo.
Con l’inizio del movimento liturgico, Guéranger, insieme ad altri promotori, oltre a far
intendere ai vescovi della Francia come fosse giunto il momento di rinunciare agli individualismi
liturgici, ebbe il merito di sottolineare la presenza dello Spirito Santo nella celebrazione liturgica,
al popolo: non si trattava di una questione collettiva, ma ogni cristiano doveva prendere
coscienza di questa presenza particolare. Inoltre, Guéranger volle promuovere il ritorno al canto
gregoriano nel quale vide il canto ufficiale della Chiesa di Roma, e lo voleva affermare al posto
del canto popolare (v. Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente). Il punto di riferimento per il
gregoriano fu il monastero di Solesmes, dove i Benedettini si impegnarono per far rifiorire la
tradizione del canto gregoriano che non fu facile reintrodurlo nella tradizione della Chiesa.
Comunque, il problema con la diversità liturgica in Francia, fu determinato soprattutto
dall’infedeltà verso Roma.
Concludendo, alcuni studiosi ritengono che Guéranger, pur avendo avuto grossi meriti nel
campo liturgico, a motivo del fatto che non andando nel periodo patristico, dove poteva
riscoprire la teologia dei Padri in merito alla dottrina dell’Eucaristia e alle diverse testimonianze
dei Padri sui riti della Chiesa Antica, non può essere considerato il vero fondatore del movimento
liturgico in Francia. Lui si era fermato al periodo Medioevale per attuare la sua Riforma, per cui
la sua opera appare incompleta. Non ritornando alle fonti della Chiesa Primitiva, non ha potuto
conoscere a fondo la tradizione della Chiesa, sin dal suo sorgere. Malgrado ciò egli è da
considerarsi uno tra i pionieri del movimento liturgico il quale ha continuato a dare il suo seguito
sino al Concilio Vaticano II, quando la Riforma Liturgica inizierà a creare importanti premesse
per la Chiesa del terzo millennio.

Il movimento spirituale di Dom Guéranger ebbe un felicissimo trapianto in Germania con


l’apertura dell’antica Abbazia di Beuron, nel 1863 ad opera dai fratelli dom Mauro e dom
Placidus Wolter, ambedue Benedettini, già abituati alla vita del monastero di Solesmes. Essi
vollero mantenere la stessa riforma monastica e liturgica in Germania. Nei primi anni di Beuron
ci fu il desiderio di promuovere una liturgia romana, mediante anche una stretta osservanza della
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regola monastica. Nel 1862 Mauro Wolter visse alcuni mesi a Solesmes, per poi portare in
Germania la stessa tradizione.
Circa vent’anni dopo l’esperienza di Beuron, nel 1884, dom Anselm Schott, anche lui monaco
di Beuron, pubblicò il primo messale latino-tedesco che ebbe un grande successo. Undici anni
pubblicò il Libro dei Vespri, creando delle nuove prospettive.
Un altro merito di Beuron fu quello di aver dato alla luce la scuola di arte, che fu fondata da
Desiderio Lenz che cercò di integrare l’unità artistica in un singolo spazio liturgico e di creare
una certa armonia tra la Liturgia e l’Arte. Questo nuovo stile si diffuse ben presto in tutto il
mondo.
Un altro fatto importante seguì nel 1872 quando un gruppo di monaci di Beuron si era
stabilito in Belgio per restaurarvi la vita benedettina estinta dalla Rivoluzione francese. Ebbe così
origine l’Abbazia di Maredsous, dove dom Gerardo van Caloen iniziò il rinnovamento liturgico.
La stessa cosa, più o meno, avvenne in Germania, presso un altro monastero, Maria Laach, che
fu rifondato nuovamente, sempre dai monaci di Beuron. Esso divenne un importante centro di
dottrina e di riforma tedesche. Nel 1913, prima di diventare abate, Idelfonso Herwgen (+ 1946)
incontrò un gruppo di giovani laici i quali espressero il desiderio di una maggiore partecipazione
liturgica. L’anno seguente, il nuovo abate invitò lo stesso gruppo al monastero per la Settimana
Santa del 1914 dove essi celebrarono insieme la Messa dialogata per la prima volta.
Tutto questo fa comprendere l’importanza di Solesmes, quale nuovo centro liturgico, dal
quale lo stesso movimento liturgico prese tutta la sua forza.
Herwgen, con due suoi monaci, Cunilbert Mohlberg e Odo Casel (+1948), e in collaborazione
con Romano Guardini, F. R. Dolger e Anton Baumstark, aprirono la strada al movimento
liturgico tedesco. Herwegen ebbe una visione globale a livello liturgico-teologico. Nel 1918
furono pubblicate tre diverse Collane, attraverso le quali promuovere una vera e propria scienza
liturgica: si tratta di Ecclesia Orans, Liturgiegschichtliche Quellen e Liturgiegeschichtliche
Forscungen.
In questa linea, l’influsso di O. Casel fu notevole. Sotto l’influsso di Herwegen, Casel entrò
nel monastero di Maria Laach: il suo contributo più grande fu l’opera dal titolo Das chrisliche
Kultmysterium, la quale parla dei sacramenti come mistero, partendo dal credere che gli stessi
sacramenti abbiano avuto origine già nei culti misterici greci. Benché questa teoria non abbia più
credito attualmente, la sua interpretazione diede il via ad una visione ricca e positiva della Chiesa
come Corpo Mistico di Cristo, che si esprime relazionalmente e simbolicamente attraverso la
partecipazione sacramentale. La teoria di Casel fu molto discussa.
La prima messa versus populum, con una partecipazione attiva del popolo, avvenne nella
cripta del monastero di Maria Laach, il 1° agosto del 1926: vi era presente anche Burkhard
Neunheuser, quando ancora era novizio.
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24/01/2001 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali – 11a. Lezione,


Prof. Keith Pecklers sj.

MOVIMENTO LITURGICO CLASSICO E IL VATICANO II (CONCLUSIONE).

Come è già stato accennato nella Renania, Maria Laach diventò un centro di dottrina e di
riforma liturgica tedesche. Nel 1913, prima di diventare abate, I. Herwengen (+ 1946) incontrò
un gruppo di giovani laici i quali espressero il desiderio di una maggiore partecipazione liturgica.
Questo fa comprendere che fu uno dei principali sostenitori del nuovo movimento liturgico
tedesco, insieme a Cunibert Mohlberg e Odo Casel e in collaborazione con Romano Guardini (+
1968), F. R., Dolger e Anton Baumstark; quest’ultimo si può ricordare per la sua famosa opera
dal titolo Liturgia Comparata.
Si creò un centro liturgico tedesco per il quale è interessante notare un forte contributo
scientifico con minime caratteristiche di natura pastorale. Questo movimento si diffonderà anche
altrove, ma assumerà caratteristiche più pastorali e meno scientifiche. Il primo congresso sulla
liturgia nei Paesi Bassi si tenne a Breda nel 1911: esso condusse alla fondazione della Società
liturgica delle diocesi di Haarlem (1912) e di Utrech (1914) e la Federazione Liturgica olandese
nel 1915.
La relazione e la comunione che si era creata anche tra i monasteri di Maria Laach e di
Herstelle intensificò il movimento liturgico diffondendone il carattere scientifico. A tale riguardo
è importante ricordare una delle suore di Herstelle, Aemiliana Lohr (+1972) che scrisse più di
trecento articoli, componimenti e libri sulla vita liturgica della Chiesa. Essa fu famosa per aver
composto le migliori meditazioni per la domenica e le feste durante gli Anni Trenta. A Maria
Laach, l’abate Herwengen incoraggiò un suo monaco, Atanasio Wintersig (+ 1942) a scrivere
Liturgie und Frauenseele. Il libro discuteva in modo esplicito il ruolo importante delle donne nel
movimento liturgico. Tutto questo comportò anche una nuova prospettiva femminile del
movimento liturgico.
Nel movimento tedesco, anche se pochi, ci sono anche elementi di natura pastorale: un
esempio concreto riguarda il rapporto esistente tra gli architetti ed i liturgisti per lo sviluppo di
nuove chiese, nonché un rapporto tra l’arte e la Liturgia come scienza teologica. Nel 1938 i
vescovi tedeschi poterono scrivere una lettera in favore del movimento liturgico per quanto
riguarda l’arte e l’architettura nelle chiese. Un altro elemento pastorale più importante fu la
creazione di un legame più stretto tra la liturgia e la diaconia, tra la liturgia e la carità. Questo
avvenne soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali e quando Hitler era asceso al potere
(anni 30-40).
C’è da dire, poi, che un altro monaco, Maurus Volter, già Abate di Boyron fondò un
monastero benedettino in Belgio nel 1972. Questo dimostra che la linea intrapresa di Solesmes
continuò caratterizzando il medesimo movimento liturgico. Certamente, molti anni prima, nel
1872, un altro monastero benedettino belga, Maredsous (1872), acquisì fama pubblicando nel
1882 il primo messale francese-latino, Missel des fidèles di Dom Gérard van Caloen rettore della
scuola dell’abbazia.
L’anno successivo, lo stesso monaco tenne una conferenza nel Congresso Eucaristico
francese, parlando a favore della Messa più partecipata dai fedeli. In questo modo, se da una
parte la sua posizione fu ritenuta radicale, tanto che egli fu destituito dall’incarico di rettore,
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dall’altra, si crearono importanti presupposti, non solo per una vera e propria Riforma Liturgica,
che vedrà il suo pieno sviluppo con il Concilio Vaticano II, ma un’era nuova della Chiesa
secondo una nuova visione teologica.
Nel 1884 Gérard van Caloen fondò una nuova rivista in favore del rinnovamento liturgico.
Nel 1889 un altro monaco, dello stesso monastero di Maredsous, di nome Robert Kerchiove,
che morì nel 1942, fondò un altro monastero a Mont César, sempre in Belgio, dove fu evidente
una linea liturgica riformatrice, oltre a quella di Solesmes, che voleva riportare la Chiesa alla sua
fonte liturgica. Mont César divenne ben presto conosciuto per le sue riviste di carattere
scientifico e per le sue settimane liturgiche.
Il vero fondatore del movimento liturgico, fu Guéranger che diede impulso a questo
movimento liturgico, di cui c’è già un accenno nella lezione precedente. Con esso ci fu anche la
preoccupazione di riavvicinare la gente alla Chiesa grazie alla figura ed alla funzione dei
cappellani degli operai che nel 1894 fondarono una fraternità. Rispondendo all’appello di Papa
Leone XIII, intensificarono l’aspetto pastorale della riforma liturgica, non meno importante di
quello scientifico.
L’aspetto più importante di questo periodo, dal punto di vista pastorale lo si può cogliere
grazie ad un altro monaco Beauduin: si tratta di una liturgia più viva nella quale si prevede una
comunione più frequente dei fedeli, insieme ad una partecipazione più attiva alla Messa. Grazie a
lui fu riscoperta la devozione al Santissimo, sotto l’influsso della teologia del Corpo Mistico di
Cristo.
Nel 1909 Beauduin invitò alcuni studenti ad una riflessione sul movimento liturgico e nello
stesso anno, durante un Congresso nazionale di tutti questi operai cattolici, dove presentò la sua
relazione: la vera preghiera della Chiesa, il cui fondamento fu il motu proprio di Pio XII (1903)
che fu principalmente una lettera apostolica che riguardava il rinnovamento liturgico e sulla
musica sacra. Questo motu proprio divenne la Magna Charta del movimento liturgico: essa parla
del vero spirito cristiano e la liturgia come fonte indispensabile della Chiesa stessa.
Un altro personaggio che possiamo ricordare in questo periodo fu G. Kurth, un grande
studioso di Liturgia e di Storia: lui espresse il desiderio di far vivere la vita liturgica della Chiesa,
come anche lo stesso Beauduin aveva più volte espresso. Egli lavorò, tra l’altro, sui testi liturgici
originali che furono tradotti, come strumento devozionale per la gente, non solo come testo
liturgico. Inoltre, egli cercò di sviluppare una vera spiritualità liturgica, in modo tale che
ciascuno potesse portare avanti la propria esperienza personale mediante la liturgia stessa,
secondo la tradizione stessa della Chiesa. A tale riguardo fu promossa l’iniziativa di introdurre
nelle parrocchie la Liturgia delle Ore.
Fu coltivato anche l’uso del canto gregoriano, durante la S. Messa, secondo anche il desiderio
di Pio X, con lo scopo di insegnare alla gente comune il canto stesso. Fu prevista anche
l’iniziativa di promuovere gli esercizi spirituali delle persone che componevano il coro liturgico,
insieme ai diversi ministri liturgici, per creare una certa unità nella Parrocchia.
Nel 1909 Beauduin fondò una nuova rivista dal titolo: Vita Liturgica. Essa ebbe un certo
successo. Nel 1910 ne fondò ancora un’altra dal titolo: Questioni liturgiche. Nello stesso anno
organizzò anche la prima giornata liturgica, alla quale parteciparono più di 250 persone, presso
Mont César. Due anni dopo (1912) egli iniziò le settimane liturgiche, con l’aiuto di altri monaci.
Nel 1913 vennero pubblicati i primi risultati della settimana liturgica dell’anno precedente,
mentre nel 1914 pubblicò una sua opera dal titolo: La pietà della Chiesa (La piété de l’église).
Essa la si può vedere come una dichiarazione pubblica del movimento liturgico. A motivo di ciò
alcuni studiosi pensarono che il movimento liturgico non poteva identificarsi con Guéranger, ma
con Beauduin che ha avuto un grande successo grazie alla sua capacità di comunicare agli altri
un certo messaggio, in modo concreto e non astratto.
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Beauduin, tra l’altro, era convinto del fatto che per promuovere una partecipazione più
intensa dei laici alla vita liturgica della Chiesa bisognava partire dal clero che più di ogni altro
aveva bisogno di un certo rinnovamento spirituale e liturgico. Egli si preoccupò anche
dell’aspetto ecumenico della Liturgia, giacché voleva riavvicinare gli Anglicani alla fede cattolica
e realizzare, così, una nuova comunione ecclesiale.
Beauduin volle anche distinguere tra il momento della celebrazione eucaristica,
dall’adorazione eucaristica e dall’esposizione del Santissimo, fuori dalla messa. Egli fu molto
favorevole alla messa recitata.
C’è da dire che successivamente un altro monaco di Maredsous fondò nel 1817 un altro
monastero: lo scopo era quello di introdurre le donne nell’esperienza e nella vita della liturgia.
Ciò costituiva in assoluto una novità. In questo modo furono costituiti gli esercizi spirituali
anche per le donne. Questo monaco cercò di legare insieme il movimento liturgico, insieme a
quello patristico e a quello biblico, dando un volto nuovo al movimento liturgico stesso.
Inoltre, nel 1919 egli prese una parrocchia, come luogo dove verificare l’efficacia di questo
movimento liturgico e favorire una partecipazione più piena dei fedeli nella celebrazione della
Messa: fu introdotta in parrocchia anche la liturgia delle Ore.
Tutto questo si verificò in Austria, dove ci fu questo tentativo di unificare la Liturgia stessa.
In essa, dunque, il movimento liturgico si sviluppò sotto la guida del canonico agostiniano P.
Parsch (+1954). Facendo perno sul monastero di Klosterneuburg, Parsch integrò la dottrina
liturgica della Germania con gli interessi pastorali dell’Austria con lo stesso fine del
rinnovamento liturgico e biblico, favorito da due importanti pubblicazioni: Das Jahr des Heiles
(cominciata nel 1923), un commento al Messale e al Breviario per l’intero anno liturgico, e Bibel
und Liturgie (1926), che promosse la relazione fra la Bibbia e la Liturgia ed incoraggiò una
conoscenza più ampia della Scrittura fra i cattolici.
In Italia, invece, i monaci dell’abbazia di Finalpia Ligure (Savona) alimentarono l’apostolato
liturgico con la loro importante Rivista Liturgica in cui molti dei pionieri liturgici italiani
comunicarono le loro idee sulla riforma della liturgia. Fondata nel 1914, la rivista continua ad
essere pubblicata tuttora. Due eminenti figure del movimento liturgico italiano furono Emanuele
Caronti OSB e Idelfonso Schuster, OSB.
Nel 1919, Schuster scrisse il suo Liber Sacramentorum che consisteva in note storiche e
liturgiche sul Messale Romano, indirizzata principalmente al clero, mentre Caronti scrisse La
Pietà liturgica, basandosi sulla pietà ecclesiale in una solida spiritualità liturgica. Il suo grande
contributo fu tuttavia il Messale festivo per i fedeli, ampiamente apprezzato, perché esso aiutò
un gran numero di cattolici italiani ad incontrare la ricchezza del culto della Chiesa guidandoli
nella comprensione dei testi liturgici ed accrescendo l’apprezzamento della liturgia stessa.
Ma si deve puntualizzare che il movimento liturgico italiano non ebbe successo come negli
altri paesi, non per mancanza di una ricerca scientifica, ma a causa del rigido tradizionalismo
della Chiesa italiana e dell’atteggiamento dei vescovi italiani di riferire tutti i cambiamenti
liturgici al Papa e alla Curia Romana.
Il movimento liturgico cominciò a prendere forma anche in altri paesi europei con accenti
diversi e secondo il clima culturale ed ecclesiale proprio di ciascun paese. In particolare si ebbero
significativi sviluppi in Spagna (Mont Serrat), Portogallo, Svizzera, Inghilterra, Cecoslovacchia,
Ungheria e Polonia. Questa differenza si manifestò soprattutto a livello di architettura liturgica
(v. Scientia Liturgica pp. 186-187). Per quanto riguarda la Spagna alcuni monaci della
Catalogna assunsero la linea di Maria Laach: essi diedero un qualcosa di importante al
movimento liturgico spagnolo. A Barcellona venne creato un centro liturgico importante dove
l’intento era quello di unire la cultura della Catalogna con la riforma liturgica. Uno dei fondatori,
I movimenti del Brasile e degli Stati Uniti d’America furono entrambi contrassegnati di un
forte interesse pastorale, ponendo in evidenza la relazione esistente fra liturgia ed azione sociale.
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Il Movimento Liturgico non si limitò unicamente in Europa, ma si estese anche nelle Americhe.
Garbiel Heber fu uno degli esponenti principali del Movimento Liturgico in Europa, insieme a
Johannes Vagner che fondò un Centro Liturgico germanico (1946-1947), del quale fu il primo
direttore.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti d’America, nel 1925, uno studioso tedesco-americano, che
studiò al Sant’Anselmo, fu discepolo di Beauduin. Si tratta di Michael Vergel che fondò il
movimento Liturgico Americano nel Minesota.
Nel 1940 ci fu il tentativo di organizzare le Settimane Liturgiche, in modo particolare a
Chicago. Nel 1947 fu iniziato un programma estivo-liturgico, al quale parteciparono gli
esponenti più importanti.
Con Martino Michler iniziò un nuovo movimento liturgico in Brasile. Nel 1934 fu promosso il
foglio liturgico, come strumento per l’Assemblea liturgica e per promuovere la Messa dialogata.
Invece, nel 1951, l’Istituto Liturgico di Trier iniziò il suo Liturgisches Jahrbuch.

Per quanto riguarda altri avvenimenti significativi, la ricerca e la sperimentazione liturgica furono
incoraggiate da numerosi documenti papali significativi. Poiché stava dilagando la seconda
guerra mondiale, Pio XII emise l’enciclica Mystici Corporis nel 1943, che mise in rilievo la
natura della Chiesa come corpo di Cristo. Questa dottrina fondamentalmente paolina promossa
dai teologi tedeschi del XIX secolo della scuola di Tubinga e usata dai pionieri liturgici come
base teologica per il rinnovamento liturgico fu molto contrastata prima dell’enciclica, perché
alcuni credevano che minacciasse la struttura gerarchica della Chiesa. In quello stesso anno, fu
pubblicata l’enciclica Divino afflante Spiritu che permise l’uso dei moderni metodi esegetici
nello studio della Scrittura. Quattro anni dopo, nel 1947, Pio XII emanò la Mediator Dei, la
prima enciclica di argomento esclusivamente liturgico. Benché il documento mettesse in guardia
contro gli abusi liturgici e sostenesse la liturgia latina, esso ufficialmente riconobbe il movimento
liturgico ed inaugurò una serie di cambiamenti liturgici che avrebbero portato al concilio
Vaticano II.
Nel 1947, il Belgio ottenne il permesso di celebrare la Messa serale la domenica e i giorni
festivi; la diocesi di Bayonne, in Francia, ricevette l’approvazione per la recitazione del completo
salmo di introito, e fu approvata anche una edizione latino-francese del RIR. Un anno più tardi,
alla diocesi belga di Liegi fu concesso il permesso per lo stesso rituale.
I vescovi giapponesi ricevettero l’autorizzazione alla celebrazione delle Messe serali anche nel
1948 e le Messe serali quotidiane furono approvate in alcuni luoghi della Polonia. La traduzione
del Messale romano del 1570 (tranne il Canone romano) in cinese mandarino fu approvata dalla
Santa Sede nel 1949 e anche all’India fu concesso il permesso per le Messe serali e un più breve
digiuno eucaristico. Nel 1950, si approvò una forma semplificata del Breviario per l’Olanda,
mentre i vescovi austriaci, francesi e tedeschi richiesero il permesso di ripristinare la veglia
pasquale la sera del sabato Santo. Si approvò in via sperimentale questa veglia pasquale il 9
febbraio 1951 con il documento Ordo Sabbati Sancti. Nel 1953 e nel 1957, le costituzioni
apostoliche Christus Dominus e Sacram communionem rispettivamente, concessero alla Chiesa
universale l’autorizzazione alla Messa serale e un digiuno eucaristico più breve.
Nel 1955, l’enciclica di Pio XII sulla musica liturgica Musica e sacrae disciplina approvò gli
inni in lingua locale durante la Messa, ma assai più significativo fu il completo ripristino dei riti
della Settimana Santa, promulgato per la domenica delle Palme del 1956. Ciò fu considerato una
pietra miliare per i pionieri liturgici. Odo Casel non visse abbastanza a lungo per vedere i frutti
del suo lavoro, su cui si fondano gli studi sul mistero pasquale, giungere alla realizzazione. Morì
nel 1948, proprio dopo avere intonato l’Exultet durante la veglia pasquale presso il monastero
benedettino di Herstelle. I riti revisionati della Settimana Santa lasciarono ancora molto lavoro
da fare. Prima del 1955, le liturgie del Triduo pasquale erano generalmente celebrate la mattina
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con soltanto un limitato numero di fedeli presenti. Ora che quelle liturgie erano state differite alla
sera si rese necessario insegnare ai cattolici l’importanza della partecipazione a quei riti.

Nel 1951, si riunì a Maria Laach il primo congresso liturgico internazionale, seguito da
Odilienberg nel 1952 e da Lugano nel 1954. Nel 1956 il primo congresso liturgico internazionale
pastorale fu tenuto ad Assisi: questo fu un incontro storico. Presieduto dal prefetto della
Congregazione dei Riti, il cardinale Gaetano Cicognani, il congresso riunì insieme oltre 1400
partecipanti provenienti da cinque diversi continenti includendo ottanta vescovi e sei cardinali.
Fra le presentazioni furono considerati più significativi i discorsi di Josef Jungmann L’idea
pastorale nella storia della liturgia, e del cardinale Agostino Bea Il valore pastorale della pa-
rola di Dio.
Soltanto molti anni più tardi la Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II avrebbe
ripreso molti di quegli stessi argomenti trattati nel congresso di Assisi. Due questioni primarie
emersero durante il congresso: la pubblicazione di una liturgia in lingua locale e la riforma del
Breviario. Entrambi gli argomenti provocarono una vivace discussione e animarono perfino il
dibattito durante il congresso. Alla fine della riunione i partecipanti si recarono a Roma per un
incontro con Pio XII dove egli dichiarò che il movimento, portando le persone più vicino al
mistero della fede e della grazia ottenuta attraverso la partecipazione liturgica, “era un segno
della provvidenza divina e della presenza dello Spirito Santo nella Chiesa”.
Pio XII morì il 9 ottobre 1958 e fu eletto papa Giovanni XXIII. Il 25 gennaio 1959 il nuovo
papa annunciò il Concilio Vaticano Il 6 giugno 1960 fu nominata una commissione preparatoria
sulla liturgia presieduta dal Cardinale Cicognani. Un mese dopo Annibale Bugnini, CM (+ 1982)
fu nominato segretario. La commissione iniziò immediatamente i lavori, suddividendosi in
sottocommissioni e trattando i seguenti argomenti: 1) il mistero della liturgia in relazione alla
Chiesa, 2) la Messa, 3) la concelebrazione eucaristica, 4) l’ufficio divino, 5) sacramenti e
sacramentali, 6) la riforma del calendario liturgico, 7) l’uso del latino, 8) la formazione liturgica,
9) la partecipazione liturgica dei laici, 10) l’adattamento culturale e linguistico, 11) la sempli-
ficazione delle vesti liturgiche, 12) la musica liturgica, 13) l’arte liturgica. Molti membri
appartenenti al movimento liturgico furono nominati nelle varie sottocommissioni Godfrey
Diekmann OSB (abbazia di S. Giovanni, Collegeville, Minnesota, USA), Balthasar Fischer
(Trier, Germania), Joseph Gelineau, SJ (Parigi, Francia), Anton Hänggi (Friburgo, Svizzera),
Josef Jungmann SJ (Innsbruck, Austria), Frederick McManus (Washington, DC, USA), Cipriano
Vagaggini, OSB (Bologna, Italia),Johannes Wagner (Trier, Germania) apparvero nella lista dei
componenti la commissione preparatoria.
La commissione preparatoria propose gli schemata per la riforma liturgica che vennero
presentati al Concilio Vaticano II. Fra il 22 ottobre e il 13 novembre 1962, la commissione
liturgica discusse la riforma in quindici sedute. Una serie di emendamenti ritardarono il
procedimento, cosi fu solo alla fine della seconda sessione, il 4 dicembre 1963, che Paolo VI
promulgò la Sacrosanctum Concilium approvata con 2147 voti favorevoli e 4 contrari. Dopo il
Proemio, il primo capitolo della costituzione delinea i principi generali per la riforma, seguono
nel secondo capitolo le concrete direttive sull’eucaristia. Il capitolo terzo tratta gli altri
sacramenti e sacramentali, seguito dalla Liturgia delle Ore (cap. 4), l’anno liturgico (cap. 5), la
musica liturgica (cap. 6) e l’arte liturgica (cap. 7). La dottrina della Chiesa come corpo mistico
di Cristo che teologicamente abbracciava il movimento liturgico prima del concilio diede origine
ad una nuova visione della Chiesa come popolo di Dio.
Il 29 gennaio 1964, Paolo VI stabilì una nuova commissione avente lo scopo di favorire
l’applicazione delle nuove riforme liturgiche nel mondo. Chiamato Consilium ad exsequendam
Constitutionem de sacra Liturgia e presieduta dall’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo
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Lercaro, il Consilium internazionale includeva cinquanta cardinali e vescovi ed oltre duecento li-
turgisti. Annibale Bugnini, CM fungeva da segretario. Questa commissione aveva lo scopo di
rivedere i libri liturgici in conformità alle nuove direttive del concilio, di istruire tutta la Chiesa
sulla liturgia rinnovata e di invitare alla piena ed attiva partecipazione.
Il cambiamento avvenne rapidamente, non solo riguardo alla lingua locale, ma anche in molti
altri settori. Il lavoro del Consilium durò cinque anni, fino al 1969 quando fu sostituito dalla
Congregazione per il Culto Divino.
Nei quarantacinque anni antecedenti il concilio Vaticano II, molti uomini e donne all’interno
della Chiesa lavorarono instancabilmente per un rinnovamento che avrebbe richiamato clero e
laici verso una partecipazione liturgica piena ed attiva. I pionieri liturgici come Beauduin, Casel e
Michel morirono prima di vedere i risultati della propria iniziativa. Altri pionieri che promossero
altri aspetti della liturgia come l’uso della lingua locale furono felici di assistere alla realizzazione
del loro sogno. Tutti quegli sforzi furono coronati dalla promulgazione della Sacrosanctum
Concilium. Il difficile compito di perfezionamento doveva ancora avere luogo. Trentacinque anni
più tardi stiamo ancora apprendendo il significato di quelle riforme liturgiche e della re-
sponsabilità sociale implicita nel nostro «Amen» liturgico.

________Note Personali di Studio________________________________________________

N.B. Quest’ultima parte riprende fedelmente Scientia Liturgica da p. 190 a p. 194.

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