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94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: verso una caratteristica generale - Alcuni aspetti della metrica, regole 1

generali e di riferimento. Le epoche generali. Prof. Johannes Nebel FSO.

06/04/2001 – Introduzione agli Inni Latini, 1a. Lezione, Prof. Johannes Nebel FSO.

INTRODUZIONE AGLI INNI LATINI

0. Introduzione
0.1.Verso una caratteristica generale
Ci troviamo nel campo vastissimo degli inni cristiani della tradizione latina. La liturgia romana
di oggi contiene quasi tre inni, di cui la maggior parte si trova nella Liturgia Horarum. L’edizione
tipica del Messale Romano contiene soltanto due inni, cioè un inno processionale della Domenica
della Palme (Gloria, lauda et onor sit…: è un inno dedicato al Figlio di David, cioè a Cristo Re) e
l’inno che si richiama al tema della Carità (Ubi caritas est deus ibi est: del Giovedì Santo. E’
ricordato anche come Ubi caritas et amor. Fu composto da Rufino di Aquileia).
A questi due inni però si possono aggiungere le sequenze che tuttavia non sono stampate nel
Messale latino: si tratta della sequenza di Pasqua (Victime pascali) e quella di Pentecoste (Veni
Sancte Spiritus). Ambedue sono obbligatorie. Invece, come sequenze facoltative si trova quella di
Corpus Christi lauda Sion salvatorem e quella dedicata ai dolori di Maria Santissima del 15
settembre (Stabat Mater dolorosa del XIII secolo). Per quanto riguarda un’altra sequenza (la
quinta), già presente nel Messale precedente, cioè quella per il suffragio dei defunti (il Dies Irae),
non si trova una direttiva esplicita nel Messale attuale, almeno nell’edizione tipica. Di questa
sequenza si può dire poco o niente.
Per quanto riguarda gli Inni, ci troviamo intorno al numero di 300, attualmente praticati nella
Liturgia Romana: ciò ci dà l’occasione di affrontare questo tema relativo alla loro introduzione.
Dunque, gli inni latini appartengono ad una tradizione che ha il suo inizio con Sant’Ambrogio di
Milano. Fino ad oggi la tradizione degli inni latini non è terminata perché anche nei nostri tempi
vengono composti nuovi inni che vengono accolti poi nella Liturgia attuale. Il periodo più
importante per la tradizione degli Inni latini non è tanto l’Antichità cristiana, né il tempo moderno,
ma il periodo intermedio, cioè il Medioevo. Per una comprensione storica degli inni non è
sufficiente l’esposizione e la conoscenza dei singoli inni, bensì è necessaria una presentazione
organica di tutta la storia degli Inni.
Dunque, è importante individuare un filo rosso che rappresenta il percorso di tutta la storia: tale
obiettivo è l’elemento principale di questo corso. La storia degli Inni, d’altra parte, viene scritta e
formata dai medesimi testi latini di questi inni, per cui ci sarà la conoscenza dei diversi autori, oltre,
ad un buon numero di testi originali. Tuttavia di questo stesso corso non si è ancora in grado di
formulare un quadro generale ed organico, dal momento che è la prima volta che questo corso viene
svolto sotto queste specificità sopra indicate.
Di questi inni latini, si osserveranno le diverse traduzioni, anche se non ci si può accontentare
della semplice traduzione, poiché ci troviamo dinanzi a dei testi di poesia latina, che si possono
apprezzare soltanto nella Lingua originaria. Per questa ragione, il metodo che si seguirà in questo
corso sarà un po’ complesso.
Presentando gli aspetti principali della grande Tradizione degli Inni latini, si darà preferenza a
quelli che sono in uso nella Liturgia attuale, anche se non è possibile usare gli inni attualmente
usati, perché alcuni stadi di sviluppo dell’innologia, sono determinati proprio da inni che non sono
più in uso, o sono marginalmente presenti.
C’è da dire che la Liturgia attuale dà preferenza agli Inni di natura poetica ma non rimata, dando
spazio alla metrica ed escludendo la poesia rimata e ritmica. La poesia delle sequenze, che è di
grandissimo valore nell’innologia, tuttavia, si mostra molto ridotta non solo nella Liturgia attuale,
ma anche in quella tridentina. Tra le grandi tappe dello sviluppo storico, ci sono anche dei fenomeni
intermediari che non sono presenti più nella Liturgia, ma sono altrettanto importanti per la
comprensione di questo percorso che faremo. D’altra parte, l’intenzione secondaria di questo corso
è quella di presentare qualche esempio di una tradizione molto ricca. In questo si può contribuire
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alla costituzione di un’immagine ancora più completa della tradizione innologica, che è così ricca,
tanto che – alla fine del XIX secolo – il Gesuita tedesco Guido Maria Treves ha tentato di
pubblicare tutti o quasi, quelli conosciuti, nell’insieme di 50 volumi: si tratta degli Analecta
Hymnica. Questi volumi contengono un tesoro di 17.000 testi, ma questa Collezione non è ancora
completa e non corrisponde in pieno alle diverse esigenze scientifiche per una pubblicazione di
un’edizione critica. Tuttavia, ciò non sminuisce il suo valore, perché fino ad oggi è la Collezione di
Inni più che grande.
Certamente non è possibile considerare ogni singolo aspetto della Tradizione, ma è necessario
limitarsi, nel senso che non si tratteranno testi provenienti dalle tradizioni mozarabica, irlandese,
scandinava, che interessano le aree europee piuttosto marginali. Si lascerà da parte anche la
tradizione ambrosiana, posteriore a Sant’Ambrogio.
Il centro dell’interesse del nostro studio è la Liturgia romana. In effetti, la sistemazione storica
può apparire più semplice ed immediata attraverso autori conosciuti, per cui si lascerà da parte il
vasto campo di inni, dei quali non si conosce l’autore. Si arriverà, dunque, a parlare di inni più
importanti, anche se rimane difficile la distinzione tra gli inni liturgici e quelli di carattere profano.
Questi limiti della innologia medioevale non sono chiari: ci sono inni con una determinata
funzione liturgica, composti proprio per i libri liturgici, ma ci sono anche delle preghiere private che
furono composte in forma poetica. Alcune di esse sono entrate più tardi nella Liturgia. Un esempio
concreto è il Stabat Mater che, all’inizio della sua composizione, è stata una preghiera privata e non
una sequenza propriamente detta.

L’inno latino è una creazione che si può difficilmente definire, a causa delle sue forme. Nella
storia si mostrano molti cambiamenti sia nella forma poetica che nei contenuti. Si osserva sempre
un certa sintesi tra osservanza delle forme delle poetiche tradizionali e la libertà concreta del poeta.
L’inno è stato pensato soprattutto come canto religioso che serve soprattutto per le esigenze
concrete di un’assemblea liturgica, per cui riflette, nella propria natura, i sentimenti, i gusti, i
pensieri, le gioie e le sfide di una cultura. Quindi, gli inni sono da ritenersi testimoni di una storia,
che richiama ad alcune caratteristiche generali della tradizione innologica, per la quale,
naturalmente, si può partire dai seguenti punti:
a) ispirazione biblica;
b) allusioni biografiche e leggendarie;
c) menzione di eventi storici/luoghi/personaggi ecc.;
d) suppliche motivate dalla storia.

In merito al primo punto, i contenuti biblici vengono spesso interpretati in maniera


tipologica o simbolica. Un esempio concreto è il seguente Inno:
“Sumens illud ‘Ave’ “L’Ave del messo celeste
Gabrielis ore reca, l’annunzio di Dio
funda nos in pace, muta la sorte di Eva,
mutans Evae nomen.” dona al mondo la pace” (Liturgia delle ore).
Le prime due righe sono prese dal Vangelo di Luca. Nella terza riga segue una supplica
spiritualmente fortificata da quello che si legge nella quarta riga (mutans Evae nomen). C’è qui il
gioco con le parole “Ave” ed “Eva”: l’angelo ha salutato Maria con l’Ave che – letterariamente – è
il contrario di “Eva”, ma non si tratta di un semplice gioco con le lettere, dal momento che c’è in
atto una tipologia teologica. In effetti, la Madre di Dio è la seconda Eva, cioè Colei che cambia il
senso della storia, iniziata male, a causa del peccato di Eva. Come Cristo è ritenuto il secondo
Adamo, così Maria è ritenuta la seconda Eva.
Molti inni, in base al secondo punto, soprattutto quelli dedicati ai Santi contengono parecchie
allusioni biografiche anche di un contenuto leggendario. Un esempio concreto lo abbiamo con il
seguente inno, dedicato ai tre Re Magi:
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“A Thoma baptismate “Rinati nel battesimo [ricevuto] da[ll’ Apostolo]


Spiritu renati Toma, diventano grati assistenti del popolo [di
Adiutores dogmate Dio] nella dottrina.”
Plebi fiunt grati.”
Ci troviamo, qui, dinanzi ad una tradizione leggendaria, che non si trova nel Vangelo, ma si tratta
di un contenuto leggendario che ha un rapporto stretto con la tradizione innologica.
Certamente, però, non ci sono soltanto elementi leggendari, ma ci sono elementi storici (terzo
punto), come lascia intuire la seguente sequenza, dedicata alla Corona di Spine:
“Sertum, quod Byzantium “La corona che Bizanzio
Miserat Venetiae, aveva donata a Venezia,
Post argenti pretium ha ricevuto, dopo un prezzo d’argento,
Recipit rex Franciae.” il re della Francia.”

Nel Medioevo, tale sequenza veniva normalmente cantata: essa è di profondo contenuto
teologico ed indica un certo percorso storico che questa Corona di spine ha compiuto da Bisanzio
alla Francia.
Non mancavano neppure delle intenzioni concrete, come il quarto punto lascia intendere,
secondo questa supplica sotto riportata che fa riferimento all’offerta dei martiri Stefano e Lorenzo,
in favore dell’unità della Chiesa. Non manca qui il riferimento a questo forte desiderio di unità tra la
Chiesa Orientale e quella Occidentale, che richiama al Concilio di Firenze:
“Stephane et o Laurenti, “O Stefano, o Lorenzo,
Procuretis congaudenti gradite con gioia
Graecae et Romanae genti al popolo di Grecia e di Roma
Omni etiam viventi e ad ogni essere vivente
Unitatis vinculum.” il vincolo dell’unità.”

C’è anche da dire che negli Inni latini non mancano le reminiscenze della cultura classica antica,
ad esempio, quando si parla di Maria con delle immagini pagane (v. le allegorie, i simbolismi, le
rappresentazioni con animali e pietre). Ciò riguarda soprattutto gli Inni del tardo Medioevo, nei
quali sono presenti le allusioni o addirittura le citazioni, di inni precedenti. Molti inni dipendono
letteralmente da altri inni. Un esempio concreto è il Pange Lingua gloriosi corporis mysterium di
San Venanzio che riprende dal famoso Tantum ergo sacramentum, composto probabilmente da San
Tommaso d’Aquino.

0.2. Alcuni aspetti fondamentali della metrica


Prima di iniziare con il percorso storico, è bene fare una piccola introduzione negli aspetti più
importanti della metrica, tanto da essere resi capaci di un’analisi più puntuale della struttura poetica
formale di ogni inno. Il primo passo da compiere è il spiegare le due maniere fondamentali di
ottenere un ritmo nella lingua. La prima si chiama metrica, mentre la seconda prende il nome di
ritmica. In riferimento al principio metrico, nelle lingue moderne si è abituati ad accentuare una
parola mediante l’accento naturale. Nell’antichità classica, soprattutto in quella greca e latina, si
rispettavano non soltanto gli accenti naturali, ma anche le sillabe. Non importa soltanto che una
sillaba sia accentuata, ma soprattutto se sia lunga o corta. Allora, quando una sillaba latina è lunga,
ci sono tre regole:
1) la lunghezza più fondamentale di una sillaba latina è quella naturale (deriva dalla natura
stessa e propria della singola parola: es., amicus;
2) c’è anche una lunghezza di posizione ( riguarda le parole con vocale breve le quali sono
seguite da due o più consonanti come il termine “clemĕnter”. Dopo la vocale “e” seguono le
consonanti “n” e “t”).
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3) Nella regola della lunghezza di posizione, c’è però un’eccezione: se nella combinazione di
una muta con una liquida si ha la coppia tra “b” [o “p”], “d” [o “t”]; “g” [o “c”], come
prima componente, e la “l” [o “r”], come seconda componente, si ha la regola di una
combinazione di una muta con liquida che comporta una vocale breve o lunga).

Passiamo adesso al principio ritmico che è molto più semplice: esso semplicemente non rispetta
quello metrico, nel senso che se in quest’ultimo una sillaba corta non può essere accentuata, invece,
in quello ritmico è più importante. A tale riguardo, qui sotto, è riportato un esempio, in merito alla
differenza tra il principio metrico e quello ritmico:
Adoro te devote latens Deitas Barnabae clarum colimus tropaeum,
quae sub his figuris vere latitas, quo micat celsus merita corona,
tibi se cor meum totum subicit, multa pro Christi vehementer usque
quia te contemplans totum deficit. passus honore.

Il primo è stato composto, probabilmente, da San Tommaso d’Aquino: è un inno ritmico, dove
tutte le vocali accentuate naturalmente sono state sottolineate. Il secondo inno, dedicato a Barnaba,
è metrico: non rispetta l’accento naturale della parola, ma è osservata la lunghezza di posizione,
cioè la quantità delle sillabe (lunghezza di quantità). Ma, il mettere l’accento sulle vocali lunghe,
anche se non c’è, è un fatto estetico? E’ uno tra i problemi principali dal momento che ogni autore,
non ha sempre rispettato la metrica (v. il canto gregoriano).
Sia nella maniera ritmica che in quella metrica si possono creare diversi piedi, composti da un
certo numero di sillabe, secondo questo piccolo schema di riferimento:
+ piedi: trocaico, (due sillabe: la 1a è accentata);
+ piedi: giambico (due sillabe; la 2a è accentata);
+ piedi: dattilo o dattilico (tre sillabe: la 1a porta l’accento, mentre le altre due no);
+ piedi: anapesto (tre sillabe di cui l’ultima è accentata);
+ piedi: spondeo (le due sillabe corte possono essere sostituite da una lunga, ma non accentata)
esso sostituisce il dattilo o l’anapesto;
Come per le sillabe si compongono i piedi, così per i piedi si compongono i metri: ma qual è la
differenza tra il piede e la sillaba. Un piede può essere formato da due o più sillabe. Ciò, però,
dipende dalla natura del piede. Ecco uno schema sintetico:
+ metri: 2 piedi 1 metro: trocheo, giambo, anapesto; 1 piede 1 metro: dattilo.
Il tipo di versetto non si determina dal numero dei piedi, ma dal numero dei metri. Così si parla
di monometro, dimetro, trimetro, tetrametro, pentametro, esametro (v. il dimetro giambico, il
dimetro trocaico). Ad es., due trochei fanno un metro, due giambi fanno un metro, due anapesti
fanno un metro, mentre un dattilo fa un metro. Se l’ultimo piede di un versetto è incompleto, il
versetto si chiama catalettico; se è completo si chiama acatalettico: questa regola si riferisce ai piedi
in quanto questi ultimi possono essere tre piedi ed uno incompleto. Essa non si riferisce al metro.
Per quanto riguarda l’esametro, esso è composto da sei piedi dattilici, di cui l’ultimo è uno spondeo;
invece il pentametro è composto da sei piedi, ma il terzo ed il sesto sono tronchi. Il pentametro non
si usa mai da solo, ma si trova sempre con l’esametro (pentametro/esametro). La loro combinazione
dà luogo al distico: esso si differenzia dallo stico.
Naturalmente viene spontanea la domanda: lo stico è uno a se stante? Un esametro può stare da
solo? Si, ma non costituisce lo stico. In effetti, i distici sono composti da questi versetti pentametrici
ed esametrici, ma non tutti gli inni latini sono composti da distici. Per rendere più chiaro il concetto,
si può riportare il seguente esempio:
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1° 2° 3° 4° 5° 6°
Salve festa dies toto venerabilis qevo ESAMETRO.
ˉ ˉ ˉ ˘ ˘ ˉˉ ˉ ˉ ˘ ˘ ˉ ˘ ˘ ˉ ˉ Si tratta di un distico.
qua deus infernum vicit et astra tenet. PENTAMETRO.
ˉ ˘˘ ˉ ˉ ˉ ˘ ˘ ˉ ˘ ˘ ˉ
1° 2° 3° 4° 5°
Da questo esempio si nota la differenza tra un versetto catalettico e un versetto acatalettico, dal
momento che il termine tenet indica un piede tronco, rispetto ad un piede intero. Infernum è uno
spondeo. Si tratta dell’inizio di un poema pasquale composto da Venanzio Fortunato.

Andando avanti, non c’è solo l’esametro, ma per il nostro studio è anche importante il dimetro
giambico che è composto da due metri (quattro piedi giambici). Un esempio concreto è Aetérne
rérum cónditór. Il trimetro trocaico è composto da due metri (quattro piedi trocaici). Un esempio è
il famoso tantum ergo sacramentum. Quest’ultimo è ritmico, non metrico.

Individuati i più importanti tipi di versetti, si può adesso presentare questo schema che si
sviluppa secondo questi punti:
a) la strofa ambrosiana (è la più antica nell’ambito degli inni latini: è composta da 4 versetti,
talvolta ritmici. Il tipo è trimetro giambico);
b) la strofa saffica (risale dall’Antichità cristiana, anche se è posteriore a Sant’Ambrogio: è
composta da 4 versetti preferibilmente metrici ma anche, in forma rara, si trovano in forma
ritmica. Le prime tre righe hanno 11 sillabe con quattro piedi: i primi due sono spondei, il
terzo è un dattili ed il quarto è un spondeo o un trocheo. L’ultimo versetto è più corto e si
chiama adoneus. L’esempio sotto riportato è un inno di Paolo Diacono dedicato a San
Giovanni Battista);
c) la strofa della sequenza regolare (è nata nel XII secolo: ogni strofa è composta da tre
versetti rimati. A causa della rima, nel terzo versetto due strofe sono legate insieme. I versetti
sono, senza eccezione, ritmici, mentre la metrica non esiste più. Il metro è sempre il trimetro
trocaico, ma nel terzo versetto è catalettico. v. esempio sottostante).
Di essi sono riportati qui sotto degli esempi concreti:
+ la strofa ambrosiana:
Aetérne rérum cónditór
noctém diémque quí regís
et témporúm das témporá
ut állevés fastidiúm.

+ la strofa saffica:
Ut queánt laxís resonáre fibris
míra géstorúm famuli tuórum
sólve pólluti labií reátum,
sáncte Ioánnes.

+ la strofa della sequenza regolare:


Stábat máter dólorósa
iúxta crúcem lácrimósa
dúm pendébat filiús.
Cúius ánimám geméntem
cóntristàtam ét fervéntem
pértransívit gládiús.
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0.3. Le epoche generali1.


Ecco un schema sintetico, secondo i seguenti punti:
* la prima epoca: predominio dell’hymnus.
* la seconda epoca: predominio della sequenza.
* la terza epoca: predominio della poesia popolare e soggettiva.

Tale suddivisione è stata fatta per una orientazione metodologica. Circa la prima epoca, essa è
caratterizzata dal predominio dell’hymnus, cioè dell’inno in senso più stretto: si tratta di una poesia
scritta ed usata per la Liturgia. Essa è organizzata in strofe, di cui i versetti, in un primo momento,
erano soltanto metrici e successivamente sono divenuti ritmici. Quest’epoca comprende l’Antichità
tardiva, della quale i nomi più importanti sono Ambrogio, Prudenzio, Sedulio. Quest’epoca
comprende anche il primo Medioevo, cioè la Gallia pre-carolingia, dove Venanzio Fortunato è uno
dei primi autori.
La seconda epoca è caratterizzata da un predominio della sequenza con tutte le sue diverse forme
poetiche, ad essa vicine. La prima forma della sequenza si chiama sequenza irregolare: fiorì
soprattutto nella tradizione di San Gallo, nell’XI secolo e poi nel rinnovamento monastico all’inizio
del secondo millennio (v. il monastero di Cluny).
Nel XII e nel XIII secolo ci sarà anche la diffusione della sequenza regolare, promossa
soprattutto dai Padri agostiniani e dalle scuole cattedrali.
Una terza epoca si situa nel tardo Medioevo ed è caratterizzata dal predominio del canto
popolare e non liturgico. Comincia con lo sviluppo della pietà popolare del XIII secolo (v. gli
Ordini Mendicanti: Francescani e Domenicani) e raggiungerà il suo culmine nel XIV secolo (v. la
pietà privata). Nel XV secolo la tradizione innologica medioevale subì una decadenza sino all’inizio
del Rinascimento e dell’Umanesimo.

1. La prima epoca: Il predominio del “hymnus”


1.1. Sant’Ambrogio
Introduzione
La storia degli Inni latini inizia proprio con Sant’Ambrogio. Nasce, quindi, la domanda: c’è
qualche traccia della loro presenza, prima di questo periodo? E’ forse un fatto un po’ sorprendente
che l’inno ambrosiano è una novità storica, tanto da non conoscere tracce precedenti. La poesia
greca degli inni dei primi secoli, iniziando dal NT è di carattere totalmente diverso, eccettuati
pochissimi esempi (es., il Gloria in excelsis Deo). La tradizione innologica, dunque, inizia proprio
con Sant’Ambrogio che è da ritenere la figura chiave di più di un millennio di tradizione poetica,
malgrado la grande diversità di composizione.
Ambrogio stesso dice nei suoi inni:
«Si dice che il popolo è ingannato dai canti dei miei inni e davvero io non lo nego.
Un grande carme è quello di cui non c’è nulla di più potente. Che cosa, infatti, è più
potente della confessione della Trinità che viene celebrata ogni giorno? Tutti mirano
gareggiando a confessare la fede e sanno il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Tutti
sono diventati quindi maestri, che sono potuti diventare discepoli»2. (Senno contra
Auxentium, n.34).

1
Il Docente ha distribuito uno specchietto generale nel quale sono riportati i titoli di trecento inni latini, per i quali sono
indicati il luogo, la natura metrica o ritmica, l’autore ed il tempo di composizione. Essi sono disposti in ordine
alfabetico.
2
Il testo latino corrispondente è il seguente: «Hymnorum quoque meorum carminibus deceptum populum ferunt, plane
nec hoc abnuo. Grande carmen istud est, quo nihil potentius. Quid enim potentius quam confessio trinitatis, quae
quotidie totius populi ore celebratur? Certatim omnes student fidem fateri, patrem et filium et spiritum sanctum norunt
versibus praedicare. Facti sunt igitur omnes magistri, qui vix poterant esse discipuli»
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In altre parole, Ambrogio sottolinea il forte entusiasmo del popolo verso la tradizione innologica:
l’inno è una cosa popolare, è fatta per il popolo ed è pensato per l’Assemblea liturgica. L’occasione
di scrivere questi inni era una necessità della Chiesa di Milano che si sentiva offesa dagli Ariani, i
quali usavano il canto per avere dei nuovi adepti, mentre i Cattolici mancavano della tradizione del
canto vera e propria. La normale pratica seguita dalla Chiesa ufficiale non era sufficiente per attirare
le persone. Dunque, c’era una necessità liturgica peculiare al momento storico, tanto che gli inni di
Ambrogio, composti verso il 386, avevano una funzione pastorale precisa. Fortificavano il senso
comunitario dell’Assemblea Cattolica radunata per mezzo della fede ortodossa, contro gli Ariani
stessi. Così si poteva proteggere il proprio gregge, anche se non mancava il pericolo di usare inni
ispirati dagli eretici.
Ambrogio creò una nuova poesia liturgica, della quale una parte corrispondeva alle diverse
esigenze del suo popolo ed aveva un’enorme importanza psicologica, mentre dall’altra era destinata
ad avere un’importanza esemplare per tutta la nascente Liturgia Occidentale. Gli inni ambrosiani
sono il frutto del genio di un romano, non di nascita, ma di cultura, che era poeticamente dotato, dal
momento che aveva ricevuto un’educazione classica. Egli seppe mettere in sintesi il suo senso
pratico con la propria mente mistica. C’è, dunque, una prassi pastorale, ma ricca di elementi mistici.
Perciò, gli inni ambrosiani irradiano una dignità equilibrata: tutte le dimensioni e gli aspetti in loro
presenti hanno la loro misura ed una certa moderazione, tanto da formare un grande equilibrio delle
diverse parti. Così si trova l’espressione di gioia e di entusiasmo, accanto all’esattezza teologica e la
sensibilità acuta accanto alla forma poetica.
L’esposizione dei temi viene fatta con poche parole: la lingua e la sintassi sono molto semplici;
essi sono creati per il popolo. Di questa caratteristica ne accenna la Sacrosanctum Concilium, che
parla di nobile semplicità.
Tra gli inni che si attribuiscono a Sant’Ambrogio si può ricordare: l’Inno 9 (Aeterna Christi
munera), che è dedicato ai martiri, il 13 (Aeterne rerum conditor), che è un inno mattutino, il 76
(Deus, creator omnium), che è un inno vespertino, il 115 (Hic est dies verus Dei), che è un inno
pasquale, il 124 (Iam surgit hora tertia), che è un inno per l’Ora Terza, il 256 (Splendor paternae
gloriae), che è un inno nuovamente mattutino, il 282 (Veni, redemptor gentium), che è un inno
natalizio. Ci sono poi tre inni, sempre attribuiti ad Ambrogio, che sono presenti nella Liturgia
attuale; essi sono: Amor Christi nobilis (è dedicato a San Giovanni Apostolo), un inno dedicato a
Protasio e Gervasio ed un inno dedicato ai martiri Vittorio, Nabore e Felice (è un inno di interesse
più locale). Un altro inno, del quale non è certa la paternità ambrosiana, è quello dedicato a
Sant’Agnese (Agnes beatae virginis). Ci sono, poi, altri sei inni sempre attribuiti a Sant’Ambrogio,
ma la loro paternità è sempre più posta in dubbio.
Leggendo soltanto gli stessi inni, si nota subito che hanno un medesimo ritmo: essi sono
composti della strofa ambrosiana, precedentemente accennata. Ogni inno contiene otto strofe (due
volte quattro), ma manca ancora la rima e la strofa conclusiva stereotipata che è dedicata alla lode
trinitaria. La prassi di questi inni è antifonaria, nel senso che si caratterizza dal canto alternato dal
popolo, diviso in due cori o gruppi.
Gli studiosi hanno anche diverse ipotesi in merito alle melodie originarie di questi inni, ma
questo argomento è destinato a rimanere sempre molto incerto.
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Gli inni ambrosiani. Temi cosmici. Aurelio Prudenzio ed i suoi inni. 8
Prof. Johannes Nebel FSO.

03/05/2001 – Introduzione agli Inni Latini, 2a. Lezione, Prof. Johannes Nebel FSO.

Ambrogio compose i suoi inni (circa 10) per motivi antiariani: prevalgono i temi cosmico
naturali, interpretati in senso tipologico. L’ordine delle cose è sano e utile all’uomo, ma deve
corrispondere a quello soprannaturale (es., transfert tipico ambrosiano). Ad esempio, si possono
scorgere i seguenti temi, secondo gli inni qui sotto riportati:
* tema del sole
Splendor patemae gloriae O Splendore della gloria del Padre,
de luce lucern proferens, che porti fuori la luce dalla Luce,
lux lucis et fons luminis, o Luce della Luce e fonte della luce,
dies diem illuminans, o giorno che illumini il giorno,

verusque sol, illabere o vero Sole, entri,


micans nitore perpeti... tu che sei splendente di eterno splendore.

Aurora cursus provehit, L’aurora del corso [del sole] si manifesta,


aurora totus prodeat, nell’aurora apparisca [Cristo] interamente,
in Patre totus Filius nel Padre del tutto Figlio,
et totus in Verbo Pater. e del tutto Padre nel Verbo.

* il motivo dell’ordine delle cose:


Deus creator omnium, O Dio, creatore di tutto
polique rector, e governatore del cielo, che vesti
vestiens diem decoro lumine, il giorno con luce bella
noctem soporis gratia. e la notte con la grazia del sonno.

Dormire mentem ne sinas, Non permettere che la mente dorme,


dormire culpa noverit, [ma] la colpa sappia dormire,
castis fides refrigerans la fede rinfreschi i [cuori] casti [= sinceri]
somni vaporem temperet. e moderi il calore del sonno.

1.2.1. L’inno “Aeterne rerum conditor”


“Il canto del gallo è dolce nella notte. Non è solo dolce, ma anche utile. Infatti, come buon
coinqui-lino, risveglia chi dorme, avvisa chi ha fretta, consola chi viaggia, proclamando
chiaramente il declino della notte. Al suo canto il ladro lascia l’agguato ed il sole, risvegliato, sorge
ed illumina il cielo. Al suo canto il trepido navigante abbandona la mestizia ed ogni tempesta,
suscitata dai venti vespertini, si placa. Al canto del gallo, il devoto si alza per pregare e riprende
anche il dovere della lettura (dei testi sacri)” [SANT’AMBROGIO, Hex. V 24,88; cit. da DI MEGLIO
S., Inni Antichi, p. 29 (testo latino CSEL 32,I, p. 201)].

Aeterne rerum conditor, O creatore eterno delle cose,


Noctem diemque qui regis che governi la notte e il giorno
Et temporum das tempora e doni i tempi ai tempi
Ut alleves fastidium, per togliere il fastidio,

Praeco diei iam sonat, l’Araldo del giorno già grida,


Noctis profundae pervigil, il custode nella notte profonda:
Nocturna lux viantibus, Distaccando esso la notte dalla notte,
A nocte noctem segregans. nasce una luce notturna per i viaggianti.

Hoc excitatus lucifer Tramite il suo grido è svegliato il lucifero, il cielo


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Prof. Johannes Nebel FSO.

Solvit polurn caligine, si libera dalle tenebre;


Hoc omnis erronurn chorus con il suo grido la folla dei demoni
Vias nocendi deserit. lascia le vie dannose.

Hoc nauta vires colligit Con il suo grido il marinaio riprende la forza, i
Pontique mitescunt freta, flutti [del mare] si calmano davanti al ponte, con
Hoc ipse petra ecclesiae il suo grido la pietra della Chiesa si libera dalla
Canente culpam diluit. [lett.: scioglie la] colpa.

Surgamus ergo strenue, Alziamoci allora con zelo,


Gallus iacentes excitat, il gallo scova i giacenti,
Et somnolentos increpat, e rimprovera i sonnolenti;
Gallus negantes arguit. il gallo accusa i rinneganti.

Gallo canente spes redit, Con il grido del gallo ritorna la speranza,
Aegris salus refunditur, Mucro latronis conditur, ai malati viene ridonata la salute,
si nasconde il pugnale del ladro, chi è caduto, riprende la fiducia.
Lapsis fides revertitur.
O Gesù, guarda ai caduti
Iesu, labentes respice e correggici con il tuo sguardo;
Et nos videndo corrige, se guardi, cadono i peccati
Si respicis, lapsus cadunt, e nelle lacrime si scioglie la colpa.
Fletuque culpa solvitur.
Tu, Luce, illumini i sensi
Tu lux refulge sensibus e scaccia il sonno della mente;
Mentisque somnurn discute, la nostra voce canti per primo te,
Te nostra vox primum sonet, e ti dedichiamo il nostro culto.
Et vota solvamus tibi.

Da questo inno è stato ricavato il tema del “gallicinio” (canto del gallo), consacrato dal Vangelo.
Si potrebbero identificare e sottolineare alcune triadi: mattino cosmico / mattino di Pasqua /
mattino di quelli che cantano; la seconda triade è: notte cosmica /notte di Cristo / notte dei
peccatori che cantano; la terza è: sorgere del sole / grido (o canto) del gallo / sguardo di Gesù a
Pietro e ai cantori; la quarta triade è: placamento della tempesta / perdono di Pietro / tranquillità
dei credenti.

Per quanto l’inno nel suo contenuto, si possono rilevare le seguenti note:
a) La prima riga Aeterne rerum conditor è Cristo che riceve dal Padre il “fiat”;
b) nella quarta riga della prima strofa ut alleves fastidium si richiama all’ordine delle cose per il
nostro benessere;
c) il soggetto della seconda strofa è il gallo: lo si nota dalla presenza di termini sinonimi, come
“araldo del giorno” e “custode della notte”. C’è da dire, comunque, che un’altra
espressione “notturna lux”, che non compare come sinonimo, indica il canto del gallo che
separa le vigilie notturne ed inaugura il sorgere della luce;
d) nella terza strofa c’è un aspetto retorico che sviluppa delle anafore costruite direttamente da
degli ablativi assoluti, i quali segnano quattro diversi livelli: livello divino, livello dello
spirito, livello dell’uomo e livello del cuore dell’uomo. La conversione dell’uomo è lo scopo
dei quattro livelli. L’espressione “lucifer” (la stella mattutina) richiama ad un’antica
credenza persiana, secondo la quale il gallo è autorizzato da Dio a scacciare i demoni. In tale
ambito non è trascurabile un influsso caldeo in epoca tardo romana, in merito al tema del
governo degli astri, che testimonia la ricerca dei culti misterici. C’è da precisare, però, che il
discorso del gallo riguarda la terza e quarta riga della terza strofa, mentre il discorso degli
astri è contenuto nelle prime due righe della medesima strofa;
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Gli inni ambrosiani. Temi cosmici. Aurelio Prudenzio ed i suoi inni. 10
Prof. Johannes Nebel FSO.

e) dopo la quarta strofa, esattamente a metà dell’inno, il registro si trasferisce a quelli che
stanno cantando;
f) nella settima strofa merita particolare attenzione le espressioni latini “respice / videndo /
respicis” che si richiamano allo sguardo di Gesù a Pietro (Lc 22,61) che fa da pendant al
canto del gallo;
g) Nell’ultima strofa “et vota solvamus tibi” indica che il fine e la fine dell’Inno è l’azione
liturgica tramite la conversione del cuore.

1.2. Aurelius Prudentius Clemens


1.2.1 Introduzione
* “Ormai alla fine della mia vita, l’anima peccatrice della follia si spogli. Con la voce almeno, se
non può con le opere, innalzi a Dio la sua lode. Giorno e notte senza cessare con inni canterò il
Signore; combatterò le eresie e spiegherò la fede cattolica; distruggerò i templi dei pagani e
darò morte, o Roma, ai tuoi idoli; dedicherò i miei poemi ai martiri ed esalterò gli Apostoli.”

Figura di Prudenzio: laico della Spagna, avvocato e amministratore, fu al servizio


dell’Imperatore. Dopo una profonda crisi si dedicò alla poesia religiosa. Fu il più importante
innografo dell’antichità latina. Le opere sono le seguenti:
1) Cathemerimon – contiene 12 inni, 6 per vari momenti della giornata e 6 per altri scopi;
2) Aphoteosis – (Divinizzazione) è un poema apologetico-dogmatico di1085 esametri;
3) Hamartigenia – (origine del male) è un poema di 966 esametri contro l’eresia di Marcione;
4) Psychomachia – parla della lotta spirituale dell’uomo contro il male;
5) Contra Symmachum – è costituita in due libri scritti contro Simmaco che cercò di restaurare
il paganesimo;
6) Peristephanon – è un’opera in 14 inni dedicati ai martiri;
7) Dittochaeon – è un insieme di poesie sui personaggi e scene bibliche.

Per il nostro studio sono importanti la prima e la sesta opera, da cui sono stati presi i testi per la
liturgia. Inoltre, sono stati creati centoni prudenziani per la Liturgia nel IX secolo. Prudenzio
scrisse i suoi inni, non come opere liturgiche, ma per scopi letterari, in cui si vedono le tracce dei
classici, superando così, dopo il tempo delle persecuzioni, il distacco tra la cultura classica ed il
cristianesimo.
Prudenzio usò la strofa ambrosiana, ma anche molti metri classici: fu il padre delle poesie
saffiche nell’innologia latina. Fu influente sui poeti posteriori.

Adesso passiamo allo studio del seguente inno:


1.2.2. L’inno “Nox et tenebrae et nubila”

Prudentius, Liturgia horarum, Liturgia horarum, Traduzione italiana


Liber Cathemerinon per an., fer. IV hebd per an..,fer. V, hebd [Aurelio Prudenzio
N0 2: Hymnus matutinus I+III, I+III,, Clemente Inni della
ad laudes, matutinas ad laudes matutinas giornata, traduzione di E
Rossi, Bologna 1970].
1. Nox et tenebrae et nubila, Nox et tenebrae et nubila, O notte e tenebre e nubi,
confusa mundi et turbida, confusa mundi et turbida, confusi aspetti del mondo,
lux intrat, albescit polus, Christus lux intrat, albescit polus, si fu luce, albeggia il polo,
venit, discedite! Christus venit, discedite! fuggite: Cristo è già qui.

2. Caligo terrae scinditur Caligo terrae scinditur Lacera il dardo del sole
percussa solis spiculo percussa solis spiculo il velo sopra la terra,
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Gli inni ambrosiani. Temi cosmici. Aurelio Prudenzio ed i suoi inni. 11
Prof. Johannes Nebel FSO.

rebusque iam color redit vultu rebusque iam color redit s’affaccia l’astro fulgente,
nitentis sideris. vultu nitentis sideris. torna alle cose il colore.

3. Sic nostra mox obscuritas Sic nostra mox obscuritas Così sulla nostra notte,
fraudisque pectus conscium fraudisque pectus conscium sul cuore nostro pentito, verrà
ruptis retectum nubibus ruptis retectum nubibus l’aurora del regno
regnante pallescet Deo. regnante pallescet Deo. di Dio, squarciate le nubi.

4. Tunc non licebit claudere Chiuderli più non potremo


quodquisque fuscum cogitat, nel petto, i neri pensieri
sed mane clarescent novo tutti svelati, i segreti
secreta mentis prodita. del cuore, al nuovo mattino!

5. Fur ante lucem squalido Il ladro, finché è ancor notte,


impune peccat tempore, può rubare impunemente;
sed lux dolis contraria torna la luce del giorno,
latere furtum non sinit. ecco che il furto è scoperto.

6. Versuta fraus et callida L’astuta frode nel buio


amat tenebris obtegi, della notte si nasconde;
aptamque noctem turpibus ama la notte l’adultero,
adulter occultus fovet. ai turni amori propizia.

7. Sol ecce surgit igneus, Sol ecce surgit igneus; Ecco, col sole di fiamma
piget pudescit paenitet piget pudescit paenitet il pentimento, il rimorso.
nec teste quisquam lumine nec teste quisquam lumine Chi può peccare alle luce
peccare constanter potest. peccare constanter potest. del giorno senza vergogna?

8. Quis mane sumptis nequiter Fanno arrossire al mattino


non erubescit poculis, le troppe coppe versate;
cum fit libido temperans è sobria l’intemperanza;
castumque nugator sapit? la voluttà si fu casta?

9. Nunc nunc severum vivitur, Si vive con serietà;


nuncnemo teniptat ludicrum, bando agli scherzi; severo
inepta nunc omnes sua il volto, gravi si fanno
vultu colorant serio. anche le cose da poco.

10. Haec hora cunctis utilis, È l’ora buona per ogni


qua quisque quod studet gerat, lavoro, in mare, nel fòro
miles togatus navita nei campi; per l’artigiano,
opifex arator institor. per il soldato e il mercante.

11. Illum forensis gloria, La gloria del fòro attira


hunc triste raptat classicum, l’uno, la tromba di guerra
mercator hinc ac rusticus l’altro; mercante e villano
avara suspirant lucra. sognano avari guadagni.

12. At nos lucelli/ ac faenoris Noi, d’eloquenza digiuni,


fandique prorsus nescii d’usura e lucro, né forti
nec arte fortes bellica nell’arte bellica, o Cristo,
te, Christe, solum novimus. Te, Christe, solum novimus, Te, solo Te, conosciamo.

13. Te mente pura et simplici, te mente pura et simplici, Sappiamo solo invocarti
te voce, te cantu pio con puro e semplice cuore,
rogare curvato genu rogare curvato genu con gli inni, con la preghiera,
flendo et canendo discimus. flendo et canendo discimus. con pianti e canti, in ginocchio.

14. His nos lucramur qaestibus, Sono questi i nostri guadagni,


hac arte tantum vivìmus, l’industria di che viviamo,
haec inchoamus munera, a quest’opera attendiamo
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Gli inni ambrosiani. Temi cosmici. Aurelio Prudenzio ed i suoi inni. 12
Prof. Johannes Nebel FSO.

cum sol resurgens emicat . al primo raggio del sole.

15. Intende nostris sensibus Intende nostris sensibus Scruta nell’anima nostra,
vitamque totam dispice; vitamque totam dispice, l’intera vita riguarda;
sunt multa fucis inlita sunt multa fiìcis inlita di quante scorie e sozzure
quae luce purgentur tua. quae luce purgentur tua. dovrà purgarci il tuo fuoco!

16. Durare nos tales iube Fa’ che ci serbiamo quali


quales remotis sordibus tu ci facesti una volta,
nitere pridem iusseras quando uscimmo dal Giordano
Iordane tinctos flumine. senza macchia di peccato.

17. Quodcumque nox mundi Quel che da allora la notte


dehinc infucit atris nubibus, buia del mondo nascose,
tu, rex, Eoi sidens illumina, o re, col sereno
vultu sereno inlumina, volto dell’astro d’oriente,

18. tu, sancte, qui taetram picem o tu che la nera pece


candore tinguis lacteo fai d’un candore di latte,
ebenoque crystallum facis che l’ebano muti in cristallo,
delicta tergens livida, ogni sozzura cancelli’

19. Sub nocte Iacob caerula, Nella cupa azzurra notte,


luctator audax angeli, sudando fino al mattino,
eo usque dum lux surgeret Giacobbe lottò con l’angelo
sudavit inpar proelium. in disuguale battaglia.

20. Sed cum iubar claresceret, ma come il giorno schiarì,


lapsante claudus poplite vacillando sui ginocchi,
fumurque victus debile la coscia fiacca, era vinto,
culpae vigorem perdidit senza forza di peccare,

21. Nutabat inguen saucium, l’inguine stesso fèrito,


quae corpons pars vilior la parte di noi più vile,
longeque sub cordis loco diram tanto al di sotto del cuore,
fovet libidinem. che l’acre brama fomenta.

22. Hae nos docent imagines Questo c’insegna che l’uomo,


hominem tenebris obsitum, anche se avvolto nel buio
si forte non cedat Deo, tenta resistere a Dio,
vires rebelles perdere. deve alla fine piegarsi.

23. Erit tamen beatior, Ma più fèlice se il corpo,


intemperans rnembrum cui incline sempre a peccare,
luctando claudum et tabidum l’aurora trovi sfinito
dies oborta invenent. dalla lunga penitenza.

24. Tandem facessat caecitas, Tandem facessat caecitas, Guarisca la cecità


quae nosmet in praeceps diu quae nosmet in praeceps diu che a lungo fuori di strada,
lapsos sinistris gressibus lapsos sinistris gressibus con passi falsi e cadute,
errore traxit devio errore traxit devio. ci trasse verso l’abisso.

25. Haec lux serenum conferat Haec lux serenum conferat La luce porti il sereno,
purosque nos praestet sibi; purosque nos praestet sibi; ci faccia puri; non più
nihil loquamur subdolum, nihil loquamur subdolum inganno nelle parole,
volvamus obscurum nihil. volvamus obscurum nihil. oscurità nei pensieri.

26. Sic tota decurrat dies, Sic tota decurrat dies, L’intero giorno trascorra
ne lingua mendax, ne manus ne lingua mendax, ne manus senza peccato di lingua,
oculive peccent lubrici, oculive peccent lubrici, d’occhi, di mano, non macchi
ne noxa corpus inquinet. ne noxa corpus inquinet. il corpo peccato alcuno.
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Gli inni ambrosiani. Temi cosmici. Aurelio Prudenzio ed i suoi inni. 13
Prof. Johannes Nebel FSO.

27. Speculator adstat desuper, Speculator adstat desuper, qui Uno ci guarda dall’alto,
qui nos diebus omnibus nos diebus omnibus actusque ci segue ogni ora, ogni giorno,
actusque nostros prospict nostros prospict in tutte le nostre azioni,
a luce prima in vesperum. a luce prima in vesperum. dalla prima alba alla sera.

28. Hic testis, Inc est arbiter, Lui testimone ed arbitro,


hic intuetur, quidquid est occhio che vede ogni cosa,
humana quod mens concipit; che legge in ogni pensiero,
hunc nemo fallit iudicem. giudice che non s’inganna.

29. Sit, Christe, rex piissime, Deo Patri sit gloria


tibi Patrique gloria eiusque soli Filio
cum Spiritu Paraclito cum Spiritu Paraclito
in sempiterna saecula. in sempitema saecula.
Amen. Amen.

La struttura dell’inno è la seguente:


- strofe 1 e 2: Introduzione. In merito alla strofa 1, i fenomeni cosmici del mattino sono
descritti a tinte forti. Subito si passa all’oggetto Cristo ed il poeta stesso si fa araldo di Cristo;
- strofe 27 e 28: Conclusione. Queste prime 4 strofe fanno da cornice a tutto l’inno;
- strofa 3 segna il passaggio dalla notte cosmica a quella personale;
- le strofe 4, 5 e 6 indicano i peccati della notte;
- la strofa 7 indica o segna il passaggio. La prima riga sembra un’espressione di origine
spagnola che gli umanisti hanno cambiato con “lux aurea”;
- le strofe 8, 9, 10 e 11 indicano le attività del giorno;
- la strofa 12 segna nuovamente il passaggio. In essa si notano le forti espressioni del
convertito;
- le strofe da 13 a 18 sviluppano la preghiera a Cristo sul tema della purificazione della
coscienza;
- la strofa 16 è centrale, perché richiama il Battesimo;
- le strofe 15 e 17 si richiamano come pure le strofe 14 e 18;
- dalla strofa 19 alla 23 viene sviluppato il tema della lotta di Giacobbe con Dio (esteriore =
strofa 20; interiore = strofa 21);
- le strofe 24, 25 e 26 esprimono i desideri riguardo alla luce di Cristo;
- le due strofe conclusive al n° 29 non appartengono a Prudenzio, ma sono centonizzazioni
dell’epoca carolingia.

Nota: è importante vedere, nel contesto di questo, l’uso della Liturgia delle Ore. L’inno del
Mercoledì evidenzia il tema della coscienza, mentre l’inno del Giovedì sottolinea diverse singole
virtù.
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Gli inni ambrosiani. Temi cosmici. Aurelio Prudenzio ed i suoi inni. 14
Prof. Johannes Nebel FSO.
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Sedulio, Ennodio e Venantio Fortunato – Dati storici generali per gli inni 15
dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

10/05/2001 – Introduzione agli Inni liturgici latini, 3a. Lezione, Prof. Johannes Nebel FSO.

In riferimento a questa lezione è utile consultare le pagine da 7 a 13 delle fotocopie del


Professore, dove sono riportati i testi citati in classe, durante la lezione stessa.

C’è, sempre nell’ambito dell’Antichità tardiva, da vedere un altro grande autore: si tratta di
Sedulio. Egli è ritenuto il più importante poeta del V secolo: è di origine italiana, ma non ci sono
dati certi sulla sua vita. Si sa soltanto che visse nella prima metà del V secolo, tanto che veniva
citato già dalla generazione successiva. Secondo Isidoro di Siviglia, Sedulio era presbitero.
Probabilmente aveva ricoperto l’incarico di cantore nell’ambito della Liturgia. La sua opera più
importante è il Carmen Paschale: è un’armonia, in forma poetica, dei quattro Vangeli, divisa in
quattro parti e preceduta da un libro di eventi veterotestamentari scelti. E’ un’opera assai complessa
che sarebbe stata dedicata ad un certo Macedonio, presbitero: probabilmente questo Macedonius ha
spinto Sedulio a fare di questa sua opera poetica una nuova versione in prosa, perché ci furono tante
critiche a motivo dello stile poetico. Sedulio soffrì molto, a causa di questo suo poema.
Quello che per noi è importante è l’appendice alla prima versione poetica di questo Carmen; essa
comprende due inni: il primo è composto da 55 versetti e trascorre tutta la Storia della Salvezza, da
Adamo fino a Cristo, mentre il secondo inno (a motivo del primo che fu quasi dimenticato) divenne
famoso, tanto da essere presente nella Liturgia attuale, mediante due gruppi di strofe prese dall’inno
stesso che, in forma di sezione, formano due inni natalizi brevi. Alla fine si trova anche una strofa
dossologica che non è presente nell’inno di Sedulio, per cui nelle fotocopie dove è riportata la
tabella generale i numeri 2 (a solis ortu cardine) e 117 (Hostis Herodes impie) indicano questi due
inni di Sedulio. Dalla pagina 7 alla pagina 9 sono riportati i testi rispettivi dell’Inno abecedario della
Vita di Cristo, dell’Inno del tempo di Natale (2 a colonna), usato per le lodi e di alcuni frammenti
dell’Inno del tempo di Natale, usato per i Vespri (3a colonna). Nella 4a colonna è riportata la
traduzione italiana di F. Corsaro: Sedulio poeta, Catania 1956, pp. 128-129.
Il primo inno (1a colonna) inizia con le parole “A solis ortus cardine”. Tale inno si dice
abecedario perché ogni strofa inizia con una lettera dell’alfabeto latino che viene portato avanti sino
alla fine del medesimo alfabeto. Terminato l’alfabeto, finisce il poema. Si tratta di un principio di
composizione dell’Inno stesso. Inoltre, c’è anche da dire che la letteratura degli Inni latini contiene,
di questi abecedari, un numero notevole tanto da non poter essere contati, partendo dall’epoca
carolingia. L’inno di Sedulio è il più antico. Passando alla lettura si può notare: in questo inno c’è il
racconto di tutta la vita di Cristo, dal momento dell’incarnazione fino alla vita pubblica e alla
passione, morte e risurrezione di Cristo.
Passando alle caratteristiche fondamentali dell’Inno, in riferimento alla forma artistica, si ritrova
la prosa ambrosiana: ad esempio l’ultima strofa, “Zelum draconis invidi, Et eos leonis pessimi.
Calcavit unicus Dei Seseque caelis reddidit”, è il modello di questa prosa. In riferimento a quello
che dice uno studioso del secolo scorso, su questo inno, l’inno di Sedulio ci permette di cogliere la
fase di trapasso fra la concezione metrica quantitativa e quella tonica, quindi ritmica (v. la
differenza tra il principio metrico e quello ritmico). Il poema è scritto secondo la prosodia (quindi
metrica), con una generale correttezza nel rispetto della quantità delle sillabe. Allora, questo poema
può essere valutato come poesia quantitativa (metrica). D’altra parte, il poeta impiega di preferenza
parole, in cui l’accento cade sulla sillaba lunga, la quale diventa naturalmente una tesi dentro il
giambo. In tal modo un verso così concepito soddisfa anche alle esigenze della poesia tonica e
ritmica. In conclusione, l’accento che coincide con le tesi ritmiche, le rime di varia natura (rime
piene, assonanzate, mono rime alternate, ecc.), sono gli elementi necessari del futuro svolgimento
poetico.
C’è da dire che è già stato spiegato nel principio metrico, che l’accento naturale della parola non
deve sempre coincidere con quello che viene accentuato nel poema. Se Sedulio fa una sintesi, egli
soddisfa sia il principio metrico, sia quello ritmico. Il Corsaro, da cui è stata presa la traduzione
italiana, paragona questo inno con il Magnum opus di Sedulio, cioè il Carmen Paschale,
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Sedulio, Ennodio e Venantio Fortunato – Dati storici generali per gli inni 16
dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

affermando: “Mentre nel Paschale Carmen era palese nel poeta l’intendimento di colorire oltre
misura il racconto evangelico, qui Sedulio – cioè nel nostro Inno – spinto da ragioni contingenti o
probabilmente da mutate condizioni estetiche, ha voluto infondere al suo Inno un calore più
raccolto, un’armonia più intima, una dolcezza improntata a schiettezza, immediatezza e semplicità.
In complesso l’Inno rivela il meglio delle qualità di Sedulio e, pur non raggiungendo l’eccellenza di
qualche episodio del Paschale Carmen, quanto a resa d’insieme lo supera, anche in virtù della sua
brevità…”.
In merito alla struttura si possono rilevare i seguenti elementi o caratteristiche:
a) la prima parte dell’Inno è dedicata al mistero dell’Incarnazione (1-11) – la lunghezza di
questa parte, in rapporto alle strofe che seguono, potrebbe essere condizionata dal tempo
giacché nel V secolo ci furono animate discussioni teologiche sulla natura divina ed umana di
Cristo. D’altra parte, si deve, però, constatare che questo Inno non sviluppa molto queste
tematiche e non sviluppa una grande teologia sulle due nature di Cristo. Di queste 11 strofe,
la prima è quasi un titolo: essa costituisce l’introduzione dell’Inno. La seconda strofa spiega
il motivo dell’Incarnazione, cioè la redenzione con la quale non andasse perduto ciò che Dio
aveva creato. Le strofe dalla terza, sino alla quinta, sviluppano e spiegano la dimensione
mariana, nel senso che Gesù avviene per mezzo del seno di Maria. Le strofe sei e sette
parlano degli eventi di Betlemme (gli angeli ed i pastori), fino al punto che questo Inno è
presente nella Liturgia Horarum nel tempo prima dell’Epifania. Le strofe dall’ottava sino
alla decima, parlano di Erode e dei Magi. La strofa dei Magi è contornata dalla crudeltà di
Erode, mentre la strofa nove parla soltanto dei Magi al seguito della Stella che li guida alla
grotta di Betlemme. A seguito di tutto ciò, l’inno termina, con la strofa 11, sviluppando il
tema del Battesimo del Signore;
b) la seconda parte è dedicata alla vita pubblica di Gesù (12-18) – E’ interessante notare che
si parla soltanto dei miracoli di Gesù e non dei detti di Cristo. Come nella prima parte, la
strofa 12 forma, quasi, una specie di titolo che spiega il motivo dei miracoli. A tale riguardo
sono significative le parole: “Coi miracoli attestò di avere per Padre Dio, sanando i corpi
infermi e risuscitando i cadaveri”. Poi inizia la serie di sei miracoli, nel senso che ogni strofa
(sono sei) spiega un miracolo diverso. Ad esempio la strofa 13 parla del miracolo di Cana: a
tale riguardo c’è un elemento interessante costituito dall’espressione latina “Novum genus
potentiae” che tradotto dal Corsaro assume il seguente significato: “Inusitato genere di
potenza”. Ciò vuol dire che si riferisce al fatto che il miracolo di Cana è il primo di Gesù
secondo il Vangelo di Giovanni; oppure si potrebbe addurre al testo di Mc 1,27: «Vista la
guarigione di un indemoniato, tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a
vicenda: “Che è mai questo”, una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino
agli spiriti immondi che gli obbediscono”». Ciò si riferisce non solo alla dottrina, ma anche
al miracolo, tanto che si può pensare che Sedulio sia stato influenzato dal testo di Marco.
Questa strofa è l’ultima del secondo Inno, presente nell’attuale Liturgia Horarum, cioè l’Inno
vespertino per i giorni dopo l’Epifania. In questo secondo Inno è stata fatta una scelta nel
senso che all’evento dei Magi e di Erode è stato congiunto il Battesimo di Cristo ed il
miracolo di Cana, come lo esige la Liturgia attuale di questo tempo. Con questa scelta, però,
la struttura dell’Inno seduliano viene trascurata perché, tra la strofa del Battesimo del Signore
(strofa 11) e quella del miracolo di Cana (strofa 13) si trova una strofa introduttiva che è
dedicata ai miracoli. L’inno conserva, comunque, un’unità teologica e liturgica, anche se si
nota una certa brevità dell’Inno medesimo. Ogni tematica ha la sua strofa. La strofa 14 ha
come contenuto la fede del Centurione che sarà causa di guarigione del servo ammalato. La
strofa 15 parla di Pietro che cammina sulle acque del Lago di Genesaret verso Gesù, mentre
nella strofa 16 si parla del ritorno di Lazzaro alla vita. La strofa 17 si trova del miracolo
della donna che soffriva di emorragia. Si tratta di un evento raccolto dal Lc 8, ma che non è
presente nel Vangelo di Giovanni, come il miracolo precedente di Lazzaro, ma ciò lascia
presumere che il miracolo raccolto dalla strofa 17 sia precedente a quello di Lazzaro, dal
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Sedulio, Ennodio e Venantio Fortunato – Dati storici generali per gli inni 17
dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

punto di vita cronologico. Nell’inno ciò non appare chiaro. Nella strofa 18 c’è la descrizione
del miracolo del paralitico, rilevato dal testo di Gv 5. Anche in questo caso non c’è un ordine
cronologico perché nella strofa 16 si trova il contesto di Gv 11. I motivi dell’ordine che
l’autore ha dato sono legati alla struttura abecedaria degli inni;
c) la terza parte tratta della passione e della risurrezione di Cristo (19-23) – la strofa 19
comprende il tradimento di Gesù da parte di Giuda Iscariota. Nella strofa 20 si parla della
crocifissione di Gesù, mentre nella strofa 21 si parla della tomba vuota; nella strofa 22 si
trova l’esortazione alla lode a Dio, a motivo del trionfo pasquale. Infine, nella strofa 23 si
trova il trionfo di Cristo e la sua ascensione al Cielo.

Avendo, così, un’idea della struttura dell’Inno, è interessante che si trovino particolarmente nella
seconda metà delle strofe delle espressioni molto concise e precise, formulate in maniera eccellente
ed accompagnate con un contenuto profondo. Così molte strofe riescono ad esprimere un significato
pieno con la loro seconda metà, tanto che si possono fare alcuni esempi:
1) la strofa 2 così recita: «Ut carnem liberans non perderet, quod condidit». In italiano non c’è
un ritmo; ciò dimostra la coincisione della lingua latina;
2) la strofa 6 così recita: «Parvoque lacte pastus est, per quem nec ales esurit». Anche in
questo caso si nota un’armonia nell’opposizione di due concetti che esprimono, in due righe,
una certa polarità: «e si nutrì di un po’ di latte, colui per il quale neppure un uccello soffre la
fame»;
3) la strofa 8 così recita: «Non eripit mortalia, qui regna dat caelestia». C’è qui una risposta a
coloro che sono nell’errore. Infatti, nella traduzione italiana, si ha il seguente significato:
«Non può strappare regni mortali colui che dispensa i regni celesti». Anche qui si nota in una
singola frase una certa polarità;
4) la strofa 9 così recita: «Lumen requirunt lumen». In italiano suona così: «lume con il lume
riconoscono». Si tratta della frase più breve che esprime una certa polarità che indica che i
Magi cercano la vera luce: c’è un senso esteriore, accompagnato, però da un profondo senso
spirituale. La polarità consiste nel fatto che la luce non ha origine dall’uomo ma da Dio. La
Luce è Cristo;
5) la strofa 11 così recita: «Peccata qui mundi tulit nos abluendo sustulit». Nella traduzione
italiana ha il seguente significato: «del mondo e ci sollevò, immergendoci nelle sue linfe». Il
significato sta nel fatto che Gesù ha preso i peccati su di sé per immergerci nelle sue linfe
vitali. Ci si trova dinanzi ad un contenuto teologico molto preciso e profondo che rispecchia,
ancora una volta, la sobrietà del testo;
6) la strofa 14 così recita: «Credentis ardor plurimus Extinxit ignes frebium». Il significato è
determinato, in questo caso, dal sottolineare la fede del Centurione (l’ardore pieno del
credente estinse le fiamme della febbre). Ciò si riferisce alla parola di Gesù che si rivolge alla
gente dicendo: «In verità non ho trovato in Israele una fede più grande. Va e sia fatto
secondo la tua fede». In sostanza quello che la natura negava, è stato concesso mediante la
fede in Cristo;
7) la strofa 15 rafforza già il concetto presente nella strofa 14: «Natura quam negaverat, fides
paravit semitam». In questi due stichi si nota ancora di più la polarità tra la natura ed il frutto
della fede, che se da una parte esprime un concetto astratto, dall’altro spiega ed evidenzia il
valore e la dinamica del miracolo;
8) la strofa 19 si riferisce al tradimento di Giuda: «Pacem ferabat osculo, quam non habebat
pectore». Giuda è chiamato carnefice perché, molto probabilmente si è tolto la vita, ma il
senso più profondo lo si coglie quando l’autore dice che Giuda «recava con un bacio la pace
che non aveva nel cuore»;
9) la strofa 22 esprime un’altra polarità: «Christi triumpho tartarum, qui nos redemit venditus».
C’è, qui, un concetto di vendita reciproca, nel senso che Cristo è stato venduto, ma allo
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Sedulio, Ennodio e Venantio Fortunato – Dati storici generali per gli inni 18
dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

stesso tempo ci ha riscattati. Si tratta di concisione di concetto che, secondo questo esempio è
molto conciso il concetto appena espresso;

Un ultimo aspetto da considerare di questo inno, riguarda le molte assonanze che si trovano a
livello delle prime tracce della rima. Anche in questo caso si possono fare degli esempi:
1) nella strofa 1 si trova: «limitem… principem», oppure «cardine…virgine». In essa si trova la
prima traccia della rima;
2) nella strofa 4 si trova: «virum… filium»;
3) nella strofa 5 si trova: «puerpera… praedixerat», oppure «gestiens… senserat»;
4) nella strofa 6 si trova: «pertulit… abhorruit», oppure «est… esurit». Ci troviamo in un
esempio pieno di assonanza;

DATI STORICI GENERALI PER GLI INNI NELL’ANTICHITÀ TARDIVA.


Passiamo adesso ad un altro argomento, cioè ai dati storici generali degli Inni nell’Antichità
tardiva. Sebbene siano già stati visti alcuni esempi splendidi di inni latini, non bisogna dimenticare
che si trattava ancora di un nuovo genere. La Chiesa ufficiale, ancora, non lo accettò pienamente. E’
interessante notare che non solo alcuni Concili, ma anche la Chiesa stessa fosse così riservata e
sospettosa verso gli inni latini, almeno sino al secondo millennio. Nondimeno gli anni ambrosiani e
quelli che seguono questo modello, si divulgavano piano, piano in tutto l’Occidente e venivano
accolti nei primi centri monastici.
Nacquero così nuovi inni composti nello Spirito di Sant’Ambrogio. Un esempio concreto è
l’inno citato nella tabella fotocopiata: il n° 123 Iam lucis orto sidere. Si tratta di un Inno per Annum
del Tempo per Annum, del Salterio della II e IV Settimana nelle Lodi di Giovedì (v. p. 1 delle
fotocopie). Un altro esempio è l’inno n° 262 (Te lucis ante terminum), impiegato per la Compieta,
oppure il n° 3 (Ad cenam Agni providi) del Tempo Pasquale. Di questi tre inni citati non si conosce
l’autore e gli ultimi due sono tonici e non più metrici.
Anche la tendenza verso l’assonanza e la rima si può vedere in questi inni. La divulgazione di
questi inni la si deve in modo particolare a San Benedetto e alla sua Regola, nonché alla vita
monastica, tanto che nella Regola è prescritta l’usanza di questi inni ambrosiani per la Vigilia e la
Mattutina, come pure per le ore piccole della giornata, che iniziano con un inno. Però, c’è un
problema nell’interpretazione della Regola: esplicitamente il Te decet laus e il canto antico Te Deus
Laudamus, malgrado si trovano fuori dalla tradizione iniziata da Sant’Ambrogio, vengono
menzionati. In merito agli inni ambrosiani, la Regola di San Benedetto parla solo di
“Ambrosianus”. Poiché la Lingua latina non conosce l’uso dell’articolo, prima di un sostantivo, non
è chiaro se sia da sottintendere l’articolo, tanto da dire il “ambrosiano”: in questo caso la Regola si
riferirebbe soltanto di un solo e certo inno ambrosiano, ma ciò comporterebbe il fatto che la Regola
stessa conosca solo un inno della tradizione ambrosiana. Se, invece, si sottintende un articolo
indefinito, allora si potrebbe intendere il canto di un inno ambrosiano, cioè uno tra gli inni
ambrosiani, conosciuti dalla Regola. In questo modo, molti inni ambrosiani sarebbero da includere
nell’uso secondo la Regola.
Un innario del tempo di San Benedetto non ci è pervenuto, ma sussiste l’ipotesi secondo cui la
Regola di San Benedetto ha come fondamento la Regola delle Vergini scritta da Cesario di Arles,
nel 534 d.C. In questa regola si trovano indicazioni molto più esatte: essa fa la menzione di quattro
inni ambrosiani e di otto inni ulteriori dei quali non si conosce l’autore. In questo modo, si può
indirettamente affermare che la Regola di San Benedetto abbia contribuito allo sviluppo e alla
divulgazione degli inni. Questo è un fatto probabile, tanto che la sua importanza è doppia: ha
assicurato agli inni un posto sicuro nella Liturgia ed ha aperto la strada per una divulgazione
internazionale, secondo la tradizione monastica nell’Occidente.
Tra gli inni menzionati tra quelli di Cesario di Arles, si trova anche quello dal titolo: Iam sexta
sensim volvitur che si trova nella fotocopia del Docente, a pagina 7 (v. colonna 1). Di questo inno,
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

alcune strofe sono presenti anche nella Liturgia attuale (v. colonna 2). La prima strofa della Liturgia
Horarum attuale, è la seconda dell’inno originario. Essa inizia così: «Venite, servi, supplices mente,
ore extollite, dignis beatum laudibus nomen Dei cum cantico». Tale inno è accennato al n° 285 della
tabella. Oggi si cantano solo quattro strofe di questo inno nell’ora sesta del Tempo Pasquale. In
questo inno, per la prima volta si vede menzionare, alla fine la Santissima Trinità, come appare
nella penultima strofa dell’inno originario e nell’ultima strofa dell’inno attuale.
Questo Inno di Cesario è molto interessante, sia per la struttura, sia per il contenuto.

Un altro importante poeta, vissuto tra il V ed il VI secolo è Magnus Felix Ennodius (+ ca. 521)
che fu autore del primo inno dedicato a Maria, “Ut verginem feam loquar”. Egli era vescovo di
Pavia: scrisse molti inni dei quali se ne conoscono solo 12. Essi furono scritti nell’anno ‘500, ma
nessuno di essi è presente nella Liturgia Horarum attuale. Uno di questi merita, però, particolare
interesse: si tratta proprio di quello dedicato a Maria; esso va visto nel contesto generale di una
crescente venerazione verso la Madonna e verso i Santi.

Un altro grande autore del tempo è San Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato: è uno tra i
poeti latini più conosciuti. Fu vescovo di Poiters. Per comprendere meglio la sua opera letteraria, è
bene dare uno sguardo alla sua biografia. Era contemporaneo di San Gregorio Magno: nacque nella
prima metà del VI secolo, vicino a Treviso, in Italia. Probabilmente si trasferì quasi subito ad
Aquileia, secondo l’invito del Patriarca Paolino di Aquileia. Tale invito fu quello di cambiare il
proprio stato di vita, sin dai primi anni. Dopo Aquileia, Fortunato si trovò a Ravenna, dove realizzò
le prime esperienze poetiche, la cui origine è l’educazione classica ricevuta, di tipo grammaticale,
retorica e forse anche giuridica. Dal poeta stessa si sa che fu guarito miracolosamente da un male in
un occhio. Il miracolo lo attribuì personalmente a San Martino di Tours: forse per questo motivo si
recò in Gallia, anche se non si conosce precisamente la data. Generalmente la data è situata tra il
563 e il 567. Può darsi che, oltre al motivo spirituale, ce ne fosse anche uno di natura politica;
quest’ultimo è, forse, il più importante. Fu un viaggio senza ritorno. Infatti, era finita la guerra
greco-gotica, il cui effetto fu il ritorno di Venezia sotto il dominio bizantino. Ciò causò nuove
difficoltà.
Recentemente si è ipotizzato che Fortunato fosse una sorte di agente di Bisanzio, tanto da
pensare che sia stato mandato in Gallia per sostenere gli interessi di Bisanzio stesso in Occidente.
Successivamente, Fortunato dalle Gallie si recò a Ravenna (dal Po fino alla Garonna e dalla
Garonna) e successivamente da Ravenna, attraversando le Alpi, si recò in Germania, in Aquitania,
sino ai Pirenei.
In lui ci fu anche un certo cammino spirituale, espressione di una certa inquietudine che rendeva
quest’uomo incapace di effettuare una concreta scelta politica e religiosa. Poiché si sa che Fortunato
nelle diverse tappe dei suoi viaggi fu accompagnato da persone più o meno importanti, forse l’intero
viaggio era stato organizzato. Finalmente dall’autunno del 567, Fortunato arrivò a Poitiers, dove si
stabilì definitivamente. Lì conobbe Santa Radegonda, figlia di Bertario, Re di Turingia e sposa di
Clotario. Essa, in giovane età, si fece costruire all’interno delle mura di Poitiers, un monastero, dove
visse in gran rispetto della popolazione. Radegonda aveva saputo conquistarsi, oltre la stima della
popolazione, quello di vescovi, di principi e Re, per non parlare dei suoi legami con l’Oriente. Tutto
ciò la rese un personaggio famoso ed interessante. Radegonda strinse un’amicizia intima con
Fortunato, a tal punto che dovette difendere tale amicizia dalle maldicenze e dimostrarne la natura
esclusivamente spirituale. Lo stesso San Venanzio Fortunato, parlò di questo attraverso la sua
attività poetica.
Naturalmente bisogna pensare che Fortunato fu influenzato da Santa Radegonda, per il suo
futuro presbiterato a Poitiers. Intorno al 576 Fortunato pubblicò la prima raccolta dei suoi versi
poetici, ma nel 587 morì Santa Radegonda. Forse per distrarsi dal grande dolore per una perdita così
grande, Fortunato decise di trasferirsi presso il vescovo Gregorio di Tours, a Metz. Qualche tempo
dopo, tra il 594 ed il 600, avvenne la sua ordinazione episcopale e divenne vescovo di Poitiers, dove
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

prestò la sua attività pastorale per oltre dieci anni. Fortunato morì e fu sepolto nella sua Basilica “in
grande onore” come disse di lui San Paolo Diacono. Le prime tracce esplicite della sua venerazione
si trovano non prima del IX secolo. Egli svolse un’intensa attività letteraria con la predominanza del
carattere poetico. Infatti, scrisse almeno 242 poesie che successivamente furono raccolte in 11
volumi. La maggior parte di esse sono di carattere secolare, mentre quelle di carattere propriamente
religioso sono di grandissima importanza per la storia degli inni latini. I Carmi di Fortunato
meritano la classificazione di poesia di circostanza, dal momento che ci fu l’influenza dei diversi
avvenimenti della sua vita personale. Infatti, si trovano le descrizioni di luoghi sacri e di altri edifici
visitati, nonché le epigrafi, le epistole indirizzate a persone più o meno importanti.
Poeta di Corte e di monastero, Fortunato seppe compiere il passaggio tra il sentimento religioso
alle galanterie di sentimenti religiosi. All’inquietudine esteriore della sua vita corrispose una
vivacità interiore.
Nella lettera indirizzata a Gregorio di Tours, che lo aveva invitato a pubblicare i suoi poemi,
Fortunato contrappose i geni del passato alla propria incapacità poetica. Era consapevole del
carattere innovativo di molti versi della sua poesia. Fortunato era un poeta della libertà e
dell’innovazione. Egli fu il promotore del passaggio tra Antichità e Medioevo, tanto da essere
ritenuto quasi il primo autore medioevale. Tra le sue poesie spirituali, almeno otto meritano un certo
interesse. Di queste si può ricordare un poema pasquale di 55 distici elegiaci (esametri e pentametri
alternati). Una parte di questo poema entrò nel canto processionale della Liturgia.
Nell’ottavo libro si trova un lungo poema dedicato alla Verginità (De verginitate), composto da
400 versetti. Questo poema spiega l’amore mistico di una monaca verso Cristo. Invece, nel secondo
libro ci sono sei poemi dedicati all’onore della Croce. Il contesto storico parte dal fatto che Santa
Radegonda aveva chiesto all’Imperatore Giustino di inviarle una reliquia della Croce di Gesù.
L’Imperatore rispose favorevolmente, tanto che Fortunato, in relazione a tale evento, compose i sei
Carmi sull’onore della Croce. Tra questi sei Carmi il secondo ed il sesto meritano il nostro interesse.
Circa il secondo, si tratta del Pange Lingua gloriosi (v. Analecta Hymnica, L, 71), riportato nelle
fotocopie del Docente alle pagine da 11 a 12. Nella Liturgia attuale tale inno è diviso in due parti (v.
208 e 94 della tabella iniziale). In merito al sesto inno, si tratta del Vexilla regis prodeunt (v. p. 13
delle fotocopie) che è presente nella Liturgia attuale.
E’ probabile che Fortunato abbia composto anche le melodie (sono probabilmente autentiche).
Tramite queste due poesie Fortunato divenne il Padre di tantissime poesie medioevali, dedicate alla
Santa Croce. In questi due inni vi è un tesoro immenso di motivi, di immagini e espressioni che
ispirarono i poeti posteriori, almeno per un mezzo millennio.

Riferendosi alla prima poesia, citata, si possono raccogliere i seguenti elementi: il Pange, lingua,
gloriosi proelium certaminis è uno degli inni latini più famosi che influenzò il Pange Lingua
gloriosi Corporis mysterium di San Tommaso d’Aquino. Mentre quest’ultimo è ritmico e rimato,
quello di San Fortunato è composto in ragione delle quantità metriche, senza la rima. Il metro ed il
tetrametro trocaico catallettico sono le caratteristiche dell’Inno di Fortunato. A questi dati della
stilistica formale si possono aggiungere alcuni assindeta (da assyndeton), cioè una numerazione di
alcuni elementi, senza la copula “et”. Un esempio concreto è la strofa 5: Et pedes manusque, crura.
Un altro esempio, ancora è la strofa 7: Hic acetum, fel, arundo, sputa clavis, lancea (ci sono sei
elementi senza la “et”). In merito alla struttura, nella prima strofa c’è un’introduzione, in cui si parla
alla lingua dell’uomo: è la lingua che sente il discorso. E’ la lingua di coloro che sono invitati a
cantare. Essendo questa strofa introduttiva, c’è un primo riassunto della tematica, per cui un
secondo sommario più sviluppato si trova nelle strofe 2 e 3. L’aumento di queste due strofe, rispetto
alla prima, consiste della menzione del contesto della Storia della Salvezza che pone il parallelo tra
Adamo e Cristo, a cui corrisponde l’albero del Paradiso e l’albero della Croce.
Al centro dell’Inno si trovano le strofe dalla quarta alla settima: in queste strofe l’opera
salvifica di Cristo viene raccontata. Si tratta di una certa Teologia narrativa che inizia con la strofa
4, dove si parla dell’Incarnazione di Cristo, si sviluppa con la nascita a Betlemme (strofa 5), con la
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

Passione che Cristo subì volontariamente (strofa 6) ed, infine, con la morte di Cristo in Croce
(strofa 7). Così l’autore arriva al centro della sua tematica, cioè all’albero della Croce, secondo le
ultime tre strofe dell’Inno.
In questo modo si ha una certa cornice tra la prima strofa, e le ultime tre strofe, dove c’è un
indirizzo verso la croce. Le caratteristiche grammaticali e linguistiche sono contrassegnate dalla
presenza dei vocativi sia nella prima strofa, sia nelle ultime tre.
In merito ad alcuni aspetti particolari di questo Inno, ci sono alcune fonti che sono molto simili a
tal punto che il nostro autore potrebbe essere stato influenzato da esse. Partendo dalla prima strofa,
come si può notare dalle fotocopie del Docente alla pagina 11, la prima fonte sarebbe tratta da un
inno composto da Ilario di Poitiers (che visse circa 150 anni prima rispetto a Venanzio Fortunato),
dove si parla del canto delle gloriose lotte della carne di Adamo e del corpo fragile dell’uomo che
furono rese perfette dall’Adamo celeste. Il parallelo all’inno di Fortunato consiste soprattutto alla
presenza delle parole gloriosa e proelia, ma anche nel parallelo tra il primo ed il secondo Adamo.
Come l’inno di Ilario, anche due inni di Prudenzio sono scritti nello stesso metro di quello di
Fortunato, tanto che la prima strofa è molto simile alla corrispondente strofa di Prudenzio (v.
Prudentius, Cathemerinon 9, p. 11 delle fotocopie) che così si esprime: «O mente sciogli la voce
sonora, sciogli la lingua mobile, parla del trofeo della Passione, parla della Croce trionfale, canta
del vessillo che risplende sulle fonti con esso marcate».
Andando avanti, la strofa 8 di Fortunato potrebbe essere influenzata da un Inno di Prudenzio,
dedicato ai martiri: «e dolce per i giusti di essere bruciati e dolce di soffrire il ferro».
Infine, si può addurre al testo della Lettera ai Galati 4,4 che offre l’esempio per la probabile
composizione della quarta strofa: «Quando venne la pienezza del tempo Dio mando suo Figlio
nato da donna». Inoltre, si potrebbe parlare del racconto dell’Arca di Noè che allora salvò gli eletti
dal Diluvio Universale. A questo argomento corrisponde l’espressione latina nauta mundo naufrago
dell’ultima strofa dell’inno, anche se non c’è una dipendenza letteraria.
Passando alle diverse caratteristiche dell’inno, un primo elemento lo si può cogliere nella
tendenza di trasferire una realtà personale ad una realtà materiale: un esempio concreto è il pange
lingua, nel senso che la lingua deve ascoltare. Più importante è la presenza della tipologia tra il
primo ed il secondo Adamo che trova il suo sviluppo nella tipologia tra l’albero del Paradiso e
l’albero della Croce. A ciò corrisponde la venerazione del Crocifisso, a cui Fortunato indirizza i
fedeli; questa venerazione viene trasferita alla sublime sensibilità con l’inno parla del legno della
Croce. Quindi trasferisce le cose dalla persona alla materia. Un esempio concreto è la strofa 8 dove
si trova l’espressione: «Croce fedele, fra tutti albero nobile, nessuna selva ha l’uguale per foglia,
fiore e frutto tu che sostieni soave ferro, soave legno, soave peso». Tutto ciò sarebbe da attribuire a
Cristo, ma per motivi stilistici, di natura anche retorica, viene trasferito al legno.
Un’altra cosa da far presente è che, avendo già menzionato l’amore di Fortunato per il
parallelismo tra Adamo e Cristo, tra l’albero del Paradiso e quello della Croce, c’è da aggiungere le
sofferenze di Cristo. Raccontando la nascita di Gesù, l’autore sottolinea la sofferenza, secondo la
strofa 5: «una stretta fascia cinge i piedi, le mani, le gambe». Così si ha l’impressione di scorgere il
servo sofferente descritto da Isaia.
Nell’Inno ci sono anche delle polarità, espresse con una certa acutezza: ad esempio la strofa 3
dove si trova l’espressione, «Et medelam ferret inde, hostis unde laeserat» (e portasse rimedio col
legno con cui il nemico ci aveva perduti). Anche nella strofa 4 si trova una polarità: «natus orbis
conditor, Atque ventre virginali carne factus prodiit» (Figlio, creatore del mondo, che fattosi carne,
uscì dal seno di una Vergine). Un’altra polarità si trova nella strofa 7: «Mite corpus perforatur,
sanguis, unda profluit, Terra, pontus, astra, mundus quo lavantur flumine» (trapassa il corpo mite,
acqua e sangue sgorgano. La terra, il mare, gli astri, il mondo sono lavati da quel fiotto). Tutto è
racchiuso in un unico concetto mentale, come dimostra anche la strofa 1.
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

17/05/2001 – Introduzione agli Inni liturgici latini, 4a. Lezione, Prof. Johannes Nebel FSO.

VENANZIO FORTUNATO
L’INNO Pange lingua gloriosi
(Per questa lezione vedere le fotocopie del Docente da p. 11 a p.12).
Il contenuto di questo inno si richiama ad alcuni aspetti particolari come la tendenza di trasferire
una realtà personale ad una realtà materiale. Si nota la passione di Fortunato nel comporre questo
Inno, con lo scopo di fare un parallelo tra due realtà: Adamo e Cristo / albero del Paradiso /albero
della Croce / le sofferenze di Cristo nato a Betlemme e le sofferenze della Croce.
Oltre a questi paralleli ci sono delle polarità o contrasti contenutistici, come ad esempio:
a) gloriosi / proelium certaminis;
b) la croce e il trofeo;
c) il Redentore che è stato immolato e poi ha vinto;
Si tratta di espressioni che si possono definire polarità perché attraverso di esse viene a
dispiegarsi tutta la storia della Salvezza. Un aspetto molto importante per lo sviluppo della poesia
medioevale è la plasticità nella descrizione della realtà. A tale riguardo si possono fare alcuni
esempi:
- nella strofa 2 si trova l’espressione latina: Quando pomi noxialis / morte morsu corruit.
Traducendola sta ad indicare che il frutto del paradiso diventa una mela. Tale espressione
plastica non si trova nella Sacra Scrittura. C’è in essa l’atto materiale del mangiare la mela;
- nella strofa 3 si trova l’espressione latina: Multiformis perditoris / arte ut artem falleret. In
sostanza, il diavolo è un multi corruttore, la cui arte deve essere ingannata con un arte
superiore. Si tratta, dunque, di un’espressione molto forte che sottolinea l’intensità della
lotta;
- nella strofa 4 si trova l’espressione latina: Missus est ab arce Patris. Si tratta del cielo che è
presentato come una rocca del Padre, tanto che in base a questa espressione, tutta la storia
della Salvezza può essere dipinta. C’è anche qui un senso di plasticità delle immagini;
- nella strofa 5 si trova l’espressione latina: Membra pannis involuta / virgo mater adligat, et
pedes manusque, crura / stricta pingit fascia. L’evento di Betlemme raggiunge la massima
concretezza: le membra di Gesù Bambino sono avvolte in fasce. Questa caratteristica non la
si trova negli inni di Sant’Ambrogio;
- nella strofa 6 si trova l’espressione latina: Lustra sex qui iam peracta / tempus implens
corporis. Per Fortunato diventa importante l’età di Gesù Cristo: tale espressione indica la
plasticità determinata dai “trentanni” di Gesù;
- nella strofa 7 si trova l’espressione latina: Hic acetum, fel, arundo / sputa, clavi, lancea. Non
si può dipingere la passione di Cristo in modo più concreto. Qui si trova una delle radici per
la venerazione della passione di Cristo, che ha influenzato anche tanti inni posteriori, tanto
che il Pange lingua di Fortunato lo si può considerare la fonte di altri inni che verranno
composti più tardi.

Da questi esempi si può comprendere il motivo della fama che questo inno ha goduto e gode
tutt’ora, ma c’è da dire anche che il Pange Lingua di Fortunato risulta essere molto prezioso per
l’espressione di una sublime sensibilità. Anche in questo caso si possono fare alcuni esempi:
- nella strofa 2 l’espressione latina, De parentis protoplasti / fraude factor condolens,
sottolinea la misericordia di Dio verso l’uomo che viene intensificata, attraverso la
descrizione del dolore. Il Padre sente un dolore per l’umanità. C’è una fase poetica molto
evidente, nel senso che il condolens indica la sensibilità del poeta verso la Storia della
Salvezza, sottolineando il dramma che si consuma tra Dio e l’uomo;
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

- sempre nella strofa 2 si trova un’altra espressione: Ipse lignum tunc notavit, / damna ligni ut
solveret. La condanna del legno che stabilisce l’unione tra il concetto immateriale della
maledizione ed il legno, e non con il peccato o con il demonio. Quindi, questa sensibilità fa si
che la materialità del legno esprima una realtà spirituale. Si passa, allora, da una realtà
teoretica ad una realtà concreta, accompagnata da una sua materialità;
- nella strofa 5 si trova un’altra espressione, Vagit infans inter arta / conditus praesaepia, che
descrive la mangiatoia, dove Gesù nasce, come un qualcosa di stretto e di scomodo, mentre il
bambino piange. Anche qui si nota una grande sensibilità del poeta verso una situazione
concreta che materializza i vagiti del bambino;
- nella strofa 6 si trovano le espressioni, Se volente, natus ad hoc, passioni deditus, /Agnus in
crucis levatur / immolandus stipite, che sottolineano il fatto che Gesù ha subito la Croce
volontariamente. Quel se volente indica che l’autore dell’inno si mostra sensibile a quella
volontà di Cristo di fare in tutto il disegno del Padre;
- nella strofa 7 l’espressione, mite corpus perforatur, sottolinea la mansuetudine del corpo di
Gesù che viene perforato. Anche in questo caso una realtà materiale ha la funzione di
indicare il livello spirituale. La compassione di Fortunato con Gesù crocifisso si riferisce al
corpo mansueto. Ciò sta ad indicare anche una certa compartecipazione a questa
compassione che il poeta intende trasmettere ai lettori;
- nella strofa 8 l’espressione, dulce lignum dulce clavo / dulce pondus sustinens, mette in
rilievo questo concetto: poiché l’amore misericordioso di Gesù Salvatore è dolce, Fortunato
chiama il suo corpo “dolce peso”. La realtà spirituale si trasferisce a quella materiale.
Tramite il corpo di Cristo anche il legno e persino i chiodi diventano dolci. Tutto è inserito
nel contesto della redenzione;
- l’intera strofa 9 nelle sue espressioni, flecte ramos, arbor alta, / tensa laxa viscera / Et rigor
lentescat ille, quem dedit nativitas, / ut superni membra regis / mite tendas stipite, dimostra
come Fortunato non esiti a chiamare il legno della Croce come il legno che diventa più
flessibile per il Salvatore. Dunque, il discorso è indirizzato al legno, come all’inizio era
indirizzato alla lingua. Il legno, finora, rappresentante le realtà salvifiche, oppure prima delle
realtà malefiche, diventa il rappresentante della realtà umana e della nostra devozione a
Cristo sofferente. Dunque, dalle realtà oggettive, come l’albero del Paradiso e l’albero della
Croce, si passa al legno che si piega e si rende flessibile, rappresentando la compassione
dell’uomo.

In questo modo la cornice dell’inno intero, di cui si è già prima parlato, che si trova nella prima
strofa (la lingua umana a cui si rivolge la parola), nelle ultime tre strofe, nelle quali il legno della
Croce a cui si indirizza il discorso, si mostra ancora più ricca dal punto di vista spirituale. Infatti,
nelle strofe 8 e 10, il legno indica la preziosità del peso salvifico con molto riguardo. Ciò
corrisponde, in un certo qual senso, al cantare il glorioso trionfo, di cui Fortunato da un accenno
importante nella strofa 1. Nella strofa che sta frammezzo a questa cornice, cioè la strofa 9, il legno
rappresenta la compassione che l’uomo deve avere quando medita Gesù Crocifisso. Nel centro, tra
le strofe 8 e 10, si trova una segreta chiamata alla nostra conversione, dal cuore duro al cuore
pietoso. Il Pange, cioè il cantare il trionfo della Croce, implica, dunque, la conversione del nostro
cuore per essere veramente degno. Quindi, si può cantare il trionfo della croce se si imita la croce
nella sua flessibilità (piega i tuoi rami).

VEXILLA REGIS PRODEUNT


Nell’analisi di questo Inno di Fortunato (v. pagine 12 e 13 delle fotocopie), si può dire che in
esso si trova diverse tracce di rime, secondo lo stile delle prose ambrosiane. In questo Inno, il poeta
guarda come pio spettatore la processione con la reliquia della Croce e si accorge come la reliquia si
avvicina passo a passo. Così, si può già comprendere la prima riga della prima strofa, cioè Vexilla
Regis prodeunt, il vessillo del Re (la reliquia della croce). La Croce si avvicina: in ciò consiste il
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significato originario. Allora, in un certo qual senso, si può comprendere tutto l’Inno intero che alla
fine arriva all’esclamazione: salve altare, salve vittima (strofa 8).
Nell’Inno si vedono, dunque, le prime tracce della tematica di Cristo Re, mediante le strofe 1, 4 e
5. Non si parla del legno della Croce, ma dell’albero, che costituisce la differenza tra il Pange
Lingua ed il Vexilla Regis. Solo nella strofa 4, all’ultima riga, l’autore parla del legno: regnavit a
ligno Deus (cfr. Sal 96,10, in LXX della Vetus latina). Dio regna dal legno: questo versetto molto
prezioso non si trova nell’attuale Liturgia, ma non si conosce il motivo. Questo Inno è molto simile
al Pange Lingua, sia dal punto di vista strutturale, sia dal punto di vista del contenuto, secondo le
caratteristiche che sono già state menzionate.

GLI INNI CAROLINGI.


(v. le pagina 13 delle fotocopie)Venantio Fortunato, va ritenuto il più importante poeta gallicano,
malgrado la sua origine italiana. Andando avanti nella storia, andiamo incontro proprio agli inni
carolingi che furono scritti ben 200 anni dopo. Questo fatto pone il quesito se ci siano stati, in
questo arco di intervallo relativamente lungo, dei fenomeni intermedi di passaggio. A tale riguardo
dobbiamo accontentarci con un piccolo accenno ad un poeta, forse il più importante, che sta fra
Venantio Fortunato e l’epoca Carolingia. Si tratta, infatti, di San Beda il Venerabile. Ci troviamo in
Inghilterra: in tale sede si parlerà del passaggio tra la soglia dell’Antichità, il Medioevo e l’epoca
carolingia.
Probabilmente di Beda il Venerabile ci sono pervenuti 16 inni: di questi, tre si trovano nella
Liturgia attuale, cioè il n° 5 (Adesto Christe cordibus: questo inno lo si canta il Venerdì del Tempo
Ordinario, nell’Ufficio delle Letture), il n° 118 (Hymnum canentes martyrum: è l’inno dedicato ai
Santi Innocenti) ed il 216 (Praecessor almus gratiae: è l’inno del martirio di San Giovanni il
Battista). Tutti questi tre inni sono scritti secondo la caratteristica della strofa ambrosiana e
rispettano le quantità metriche. Inoltre, San Beda scrisse un inno dedicato a Sant’Agnese che non si
trova nella Liturgia attuale, però, un paragone tra l’inno di Sant’Agnese di Beda e l’inno di
Sant’Agnese di Ambrogio, è ritenuto interessante da parte degli innologi (esperti nel campo
dell’innologia).

In merito, all’epoca carolingia, si può dire che in essa ci fu un naturale interesse per gli inni, dal
momento che il rinascimento carolingio era interessato all’adattamento per la Liturgia Romana.
Roma, però, era ancora molto riservata sull’uso liturgico degli inni. L’interesse degli scrittori
carolingi, che si può certamente constatare, è causato dall’influsso dell’Inghilterra, della Spagna e
dell’Italia Settentrionale, nonché dei diversi ambienti monastici. In tutti questi ambienti ci fu una
rifioritura degli inni, così che il rinascimento carolingio comportò anche un rinnovamento
nell’educazione della cultura classica. Dunque, gli autori di quest’epoca ebbero molta stima delle
forme e della metrica classica (v. l’esametro, il distico, il tristico, il giambico, il trocaico, la strofa
saffica, il rispetto delle quantità metriche). Tuttavia, la poesia ritmica fece grandi progressi proprio
in questa epoca: il ritmus, allora, lo si può vedere come un’invenzione dell’epoca carolingia. Un
esempio classico è l’Abecedarius.
In riferimento a questi primi dati, passiamo adesso ad alcuni autori (v. le pagine 14 e 15 delle
fotocopie), come ad esempio, Paolo Diacono, che scrisse l’inno Ut queant laxis. Egli fu un monaco
di Montecassino che insegnò per cinque anni e studiò alla Corte di Carlo Magno. Morì nell’anno il
799, un anno prima dell’incoronazione imperiale di Carlo Magno. A Paolo Diacono si attribuiscono
alcuni inni, tra i quali quello già menzionato, che è dedicato a San Giovanni Battista; tale inno si
trova per intero anche nella Liturgia attuale, però, per la sua lunghezza è diviso in tre parti (v. i nn°
23, 192 e 279). Questo inno viene ritenuto il più importante della generazione carolingia: esso
divenne famoso perché, alcuni secoli dopo, la scuola di Guido d’Arezzo usava la melodia di questo
inno per spiegare i nomi delle nuove note musicali. La caratteristica principale consiste
nell’individuare una scala di toni presente in questo inno, mediante la quale comporre una certa
melodia. Si creò, dunque, la scrittura musicale.
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

Questo inno ha 13 strofe, delle quali l’ultima contiene una dossologia trinitaria. Da questo
momento in poi, la maggioranza degli inni finirà con una lode trinitaria. Questo spiega il perché non
ci sia alcun inno nella liturgia attuale, che non abbia la strofa dossologica finale. Ciò costituisce un
passo importante nella storia dell’evoluzione degli inni e della loro tradizione.
A prescindere da questa strofa, l’inno contiene 12 strofe, che si possono distribuire molto bene
alle tre ore maggiori del Breviario, aggiungendo sempre l’ultima strofa: così si possono cantare le
prime 4 strofe nei Vespri, le strofe da 5 a 8 nell’Ufficio delle Letture e le strofe da 9 a 12 nelle Lodi.
In effetti, si ha un inno diviso in tre (4 strofe + strofa dossologica finale).
Passando all’inno stesso, esso è stato composto nella strofa saffica: il latino è metrico, perché le
quantità metriche sono rispettate.
In questo Inno, come mostra la seconda colonna, è ricco di riferimenti biblici. Si può dire che
tutta la testimonianza biblica del Giovanni il Battista è entrata nell’Inno. Inoltre, si può vedere un
riferimento alla cultura classica: si tratta dell’espressione Nuntius celso veniens Olympo, della
strofa 2, che intende il cielo. Nella Liturgia attuale, questo nome è stato sostituito con i termini
“cielo supremo”. Ciò dimostra che, nell’epoca carolingia diversi termini o concetti pagani sono
stati pienamente cristianizzati.
Oltre a ciò, ci sono diverse parole provenienti dalla lingua greca, come ad esempio:
1) organum nella strofa 2;
2) talamus nella strofa 4;
3) lymphis nella strofa 8.
Passando alla struttura dell’inno, sovente la prima strofa è introduttiva, mentre l’ultima è
conclusiva. Esse formano una cornice perché fanno menzione di quelli che cantano l’inno e che
sono peccatori. Nella prima strofa si chiede il perdono per essere in grado di cantare le meraviglie di
Giovanni il Battista. Nell’ultima strofa si chiede il perdono per raggiungere ed unirsi ai Santi nel
cielo, nella loro lode trinitaria. In questo modo si ha un parallelo fra la prima e l’ultima strofa, nel
cui frammezzo viene a svilupparsi l’inno vero e proprio; al suo interno, le strofe 2 e 4 sono dedicate
alla concezione e alla nascita del Giovanni Battista. Le strofe 5 e 6 sono dedicate all’opera di
Giovanni come profeta nel deserto (la vita del Santo). Le strofe 7 e 8 parlano del rapporto di
Giovanni il Battista con Cristo (v. l’evento del battesimo di Cristo nel Giordano). La strofa 9 parla
del martirio sotto Erode. Così, la strofa 10 presenta una certa lode conclusiva. Terminata in questo
modo la descrizione della vita del Battista, proprio la sua lode nella strofa 10, conduce il cantore a
supplicare a San Giovanni il Battista per la sua conversione: ciò rappresenta il culmine dell’inno,
per il quale la finalità è che Dio possa trovare dentro di noi un posto degno.
Come è già stato detto, la cornice dell’inno è caratterizzata dal senso di pentimento, da parte di
coloro che cantano. Non si tratta, comunque, di un inno penitenziale. C’è, però, da dire che questo
sentimento è molto forte, tanto che si pone in armonia con il rapporto che San Giovanni il Battista
aveva con il popolo, secondo anche la stessa testimonianza biblica. Infatti, egli predicava la
conversione e la penitenza. L’espressione latina, Solve polluti labii reatum, esplicita la richiesta di
“sciogliere la colpa del labbro macchiato”. Anche alla strofa 11, l’espressione latina Nunc potens
nostri meritis opimis / pectoris duros lampides repelle, / asperum planans iter et reflexos / dirige
calles, secondo la traduzione letterale chiede di “togliere le dure pietre dai nostri cuori”. Ciò si
ricollega all’ultima strofa, la n° 13 nell’espressione: supplices ac nos veniam precamur, / parce
redemptis, che sottolinea il “chiedere supplici la remissione dei peccati” e il chiedere di “avere
pietà di noi peccatori”. In queste espressioni si nota il carattere penitenziale vero e proprio. Ciò
rimanda, naturalmente, alla cornice che risuona anche all’interno dell’Inno. Ad esempio, nella
strofa 5: Antra deserti teneris sub annis / civium turmas fugiens petisti, / ne levi saltem maculare
vitam / famine posses. C’è qui la sottolineatura del luogo che Giovanni abitava, per salvaguardare la
sua purezza: egli sin da giovane andò nel deserto e visse da solo. Qui si pone l’accento sulla
conversione. Anche nella strofa 9, l’espressione nesciens labem nivei pudoris, indica che Giovanni
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

è stato preservato dalla caduta ed ha conservato la sua purezza bianca come la neve, cioè il suo
pudore.
La liberazione dal peccato si esprime due volte nell’Inno con la parola “repellere”, cioè il
respingere il peccato, come indica la strofa 11 (respingere le pietre dure dal nostro cuore) e la
strofa 12 (respingere le immondizie del peccato: pulsa livione). Ambedue le espressioni, che si
trovano nelle due strofe citate, furono ristabilite dalla Riforma Liturgica nell’attuale Liturgia, dal
momento che dopo il Concilio di Trento erano state tolte ed evitate per un lungo periodo. Infatti, al
posto della parola repelle veniva usato il termine revelle (strappare), mentre, al posto
dell’espressione pulsa livione, fu usata dall’espressione culpe sine labe (senza la caduta nella
colpa). E’ un’espressione, quest’ultima, molto più sfumata e teoretica.
Nella strofa 12 i peccati vengono visti nel contesto della redenzione e secondo l’espressione
latina: rite dignetur veniens sacratos / ponere gressus. Potrebbe trattarsi di un’espressione ispirata
dal Salmo 84,14 (nella versione della Vulgata). Si aggiunge qui il termine “sacratos”, il che
significa che i nostri peccati vengono posti in rapporto con la Santità di Dio, che vuole entrare nel
cuore dell’uomo. E’ interessante notare anche che nella dossologia finale, si senta ancora la
motivazione del pentimento. La lode trinitaria, infatti, la si attribuisce soltanto ai Santi in cielo,
mentre noi, qui sulla terra, possiamo soltanto supplicare e chiedere umilmente il perdono. Ciò
costituisce la particolarità di questo inno.
Andando avanti, ci sono altre particolarità da notare:
- nella strofa 3 il poeta attribuisce la guarigione di Zaccaria a Giovanni Battista: ciò va un po’
oltre la testimonianza evangelica, per cui si nota una certa libertà del poeta stesso;
- nella strofa 4 è particolarmente bella e significativa perché si sviluppa un paragone tra il
seno di Elisabetta e quello di Maria. Il seno di Elisabetta, infatti, è chiamato obstruso positus
cubili, cioè “giaciglio nascosto”, mentre il seno di Maria viene definito il talamus, cioè la
stanza nuziale, delle Nozze tra Dio e l’uomo;
- nella strofa 5 il poeta aggiunge alla testimonianza biblica che Giovanni andasse nel deserto
già da giovane. Si tratta di una leggenda che facilmente entra in questi inni e che si trova
anche negli scritti di San Giovanni Crisostomo;
- nelle strofe 6 e 7 si trovano degli esempi di una plasticità descrittiva: la strofa 6 descrive il
vestito ed il cibo di Giovanni; la strofa 7, contiene l’espressione tu quidem mundi scelus
auferentem / indice prodis, che è molto forte, perché sottolinea la plasticità dell’indice che
indica Colui che toglie i peccati. Tale descrizione non si trova nella Sacra Scrittura;
- nella strofa 8 si nota un linguaggio breve ed efficace: chi ha il merito di immergere
nell’acqua Colui che lava il peccato del mondo? E’ Giovanni. In pochissime parole si
esprimono due lavaggi: l’uno esterno praticato da Giovanni e l’altro interno praticato dal
Signore;
- nella strofa 9 si nota una certa solennità: parla della felicità di Giovanni, definito il “santo di
gran pregio”. C’è un solo vocativo, senza predicato. Si tratta della strofa che parla in
maniera propria del martirio. La causa del martirio si esprime nella seconda riga, in base
all’espressione latina nesciens labem nivei pudoris, dal momento che Giovanni non ha
conosciuto la caduta del pudore, bianco come la neve. Con ciò si intende la purezza del
matrimonio contro la quale Erode ed Erodiade hanno peccato. In questo senso, è interessante
controllare i riferimenti biblici, indicati nella 14 delle fotocopie. In questa strofa si nota
anche una certa polarità determinata dal fatto che in una sola espressione vengono dette due
realtà contrapposte. C’è anche un momento intercessorio, dove viene a prepararsi la supplica;
- nella strofa 10 si può osservare una parafrasi artistica dei numeri: il riferimento biblico è la
fine della parabola del seminatore. I numeri dell’espressione di Mt 13,23 – “ora il cento”,
“ora il sessanta”, “ora il trenta” – si ritrovano, proprio in questa strofa, anche se in ordine
inverso. La corona dei primi è adornata con il 30 dei frutti (serta ter denis: 3 volte 10),
mentre la corona dei secondi è adornata con il 60 dei frutti (serta ter duplicata: 6 volte 10); la
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dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

corona di Giovanni Battista è, invece, adornata con il 100 dei frutti (trina centeno cumulata
fructu). Si tratta di tre corone, ciascuna con il 100 dei frutti. Si tratta di una lode enfatica che
si ricollega poi al termine “sacer” che, tra l’altro, è usato al posto di “sancte”, per una
questione puramente metrica. Ciò avviene per creare le giuste quantità metriche;
- in ultima analisi, è importante notare il rapporto tra la strofa 10 e la strofa 11: la decima
strofa contiene l’esaltazione enfatica di Giovanni Battista, mentre l’undicesima contiene una
supplica a San Giovanni per la remissione dei peccati. Prima si lodano e si esaltano i meriti
del Santo per avere, poi, una maggiore fiducia nella sua intercessione. Tutto l’inno va visto in
questa prospettiva: la colpa delle nostre labbra è l’impedimento più grave per cantare la lode
di Dio e di San Giovanni Battista. La lode del Battista arriva, però, mediante il percorso di
nove strofe sino al culmine della strofa 10. C’è, dunque, una certa progressione il cui
fondamento rimane questa fiducia nella potente intercessione di San Giovanni Battista.

Visto così, l’inno mostra un grande dinamismo, il cui spazio e la distanza tra l’uomo peccatore è
il Dio Santo. San Giovanni è visto come una specie di intermediatore tra queste due realtà. Si vede
qui, come questo santo sia un’immagine del Redentore. La persona santa, in questa prospettiva, si
caratterizza nella vita di chi partecipa alla missione redentrice di Cristo, che veniva dal cielo per
compiere la sua opera e poi ritornare alla Patria Celeste. Allora, santo vuol dire partecipare alla
missione di Cristo. In quest’ultima analisi, l’inno dimostra un’immagine cristologica dell’uomo
santo. Il movimento parte dal celso veniens Olympo, cioè dall’alto (strofa 2) per percorrere la vita
terrena ed arrivare, infine, alla gloria celeste (strofa 9). Si tratta del dinamismo mediatore. Tramite
il loro canto, i cantori vogliono partecipare a questa grande onda di discesa e salita per ottenere
anche loro la propria salvezza. Come mostra l’ultima strofa, la distanza tra i due livelli, quello santo
del cielo e quello peccatore della terra, viene non annullata, ma rappacificata ed armonizzata.
Mentre i Santi intonano la lode trinitaria, noi – che siamo peccatori – chiediamo la remissione dei
peccati. Ciò lo si nota ancora nell’ultima strofa, le cui parole parce redemptis ci richiamano al
contesto dell’inno.
Visto così, l’inno è testimone di una dottrina esatta e profonda del rapporto tra Dio e l’uomo: è
un rapporto che apre lo spazio che ci dà la libertà di pregare. Questo spazio si chiama il sacro.

UBI CARITAS EST VERA.


Si tratta di un altro inno, dove c’è un ritmus carolingio (v. pagine 15 e 16 delle fotocopie). Anche
in questo caso si riscontra un livello culturale alto, dal momento che la poesia ritmica non è
decadenza. Di questo inno, ben tre strofe si trovano nella Liturgia attuale del Giovedì Santo, per i
riti offertoriali (v. Messale Romano – Editio typica). Si tratta del canto Congregavit nos in unum
Christi amor di Caritas est vera.
Nel corso del tempo gli studiosi hanno fatto svariate ipotesi in merito all’origine di questo inno e
alla storia del canto in esso contenuto. Una delle più significative è la teoria di Bischoff e Schäfer,
che vede l’inno nel contesto innologico. Il Bischoff scoprì un buon numero di inni e canti risalenti
all’epoca carolingia, il cui tema è la carità cristiana. Essi furono radunati sotto un unico gruppo con
il titolo di “canti della Carità cristiana”. Nondimeno questo studioso si rese conto che si trattava di
un genere uniforme. Alcuni di questi canti, infatti, sono inni veri e propri, mentre altri sono canti
bachici, di un contenuto spirituale o sereno ed allegro. Però, il contesto originario, secondo il
Bischoff, sarebbe la cosiddetta caritas monastica, cioè la carità benedettina: si tratta di una
celebrazione che si faceva in molte solennità e nelle veglie e poi anche nelle memorie di confratelli
o di abati defunti. In queste occasioni si dava ai monaci un cibo più abbondante. Il significato di
questa caritas era, però, spirituale, dal momento che si voleva invitare i fratelli monaci ad una carità
più viva. Dal X secolo in poi, questa “Caritas” non comprendeva più un’intera cena addizionale, ma
soltanto un po’ di vino, che veniva dato ai monaci nel refettorio, o alla sera, dopo il lavaggio dei
piedi (mandatum), che si faceva ogni settimana, secondo la tradizione monastica. In effetti, tutti i
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Sedulio, Ennodio e Venantio Fortunato – Dati storici generali per gli inni 28
dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.

canti sulla carità, scoperti dal Bischoff si situano tra il IX ed il X secolo. In epoche successive questi
inni scomparvero, con l’eccezione dell’inno Ubi caritas est vera che entrò nella tradizione liturgica
ufficiale. Per il benedettino Schäfer, il contesto monastico di questo canto è sicuro, perché nell’inno
si trovano due espressioni che sono ispirate dalla Regola di San Benedetto: nella prima strofa si
trova, infatti, l’espressione Timeamus et amemus deum vivum et ex corde diligamus nos sincero. A
ciò corrisponde la frase del cap. 72 della Regola (amor deum timeant… v. p. 16 in fondo). Anche
nella strofa 8 si legge: Tota ergo mente deum diligamus / Et illius nihil amori preponamus. Essa
corrisponde la famosa massima della Regola di San Benedetto, al cap. IV: Nihil amori Christi
praeponere. Una frase corrispondente la si ha anche nel cap. 72 della Regola: Christo omnino nihil
praeponant. Sia per il Bischoff che per il Schäfer, la strofa 12a, con la parola “Dominorum”
intende Carlo Magno con i suoi figli, per cui si può ipotizzare la datazione dell’Inno, verso l’VIII
secolo.

___________Note Personali di
Studio_________________________________________________
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: Sedulio, Ennodio e Venantio Fortunato – Dati storici generali per gli inni 29
dell’antichità tardiva. Prof. Johannes Nebel FSO.
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: L’epoca tardiva degli inni. La sequenza irregolare e la sequenza 30
regolare. Il Dies irae attribuito al Celano. Prof. Johannes Nebel FSO.

24/05/2001 – Introduzione agli Inni liturgici latini, 5a. Lezione, Prof. Johannes Nebel FSO.

LA SECONDA EPOCA DEGLI INNI LATINI: IL PREDOMINIO DELLE SEQUENZE.


LA SEQUENZA ED IL TROPO
(v. le pagine 17-21 delle fotocopie)
Si è aggiunto un nuovo testo: si tratta del tropo. La melodia dava lo spazio, per cui con la poesia
ha dato luogo a nuove melodie. Si hanno delle aggiunte al testo ufficiale, che evidenzia il carattere
drammatico, come si può notare nell’inno di Tutilo (v. p. 17): Tropo della natività. La prima strofa
parla del mistero celebrato, cioè il Figlio generato dal Padre e concepito nel seno verginale di
Maria. La seconda strofa pone una domanda a cui si risponde nella terza strofa.
Molto vicino a questi tropi sono le sequenze, per le quali, però, non possiamo indicare i criteri
che separano queste dai tropi. Si può dire, allora, che la sequenza è nata dal tropus del giubilo
dell’Alleluia. Le melodie sviluppate dell’alleluia avevano un grande melisma sviluppato sopra
l’ultima sillaba, cioè la “a”. Questo melisma si chiama “jubilus” (giubilo). Applicando il tropo ad
un nuovo testo si ottiene un canto sillabico aggiunto all’Alleluia. Questo lo si fece per primo nel
monastero di Jumièges in Francia. Nel Monastero di San Gallo, che rappresentava il centro culturale
di quest’epoca, non mancò la difficoltà di enumerare le lunghe melodie nel trasmettere le lunghe
melodie senza una sufficiente scrittura musicale. Arrivato un monaco da Jumièges, a San Gallo, con
il suo libro corale, che conteneva questi tropi nelle melodie dell’Alleluia, ebbe la grande ispirazione
di creare nuovi testi, in modo tale che alcuni toni venissero cantati in due versetti diversi. Si ottenne,
così, un nuovo genere letterario, cioè la sequenza. Questo monaco morì verso il 112. Tra l’altro, si
contano circa una quarantina di sequenze che vengono attribuite proprio a questo monaco di nome
Notker Balbulus. Secondo uno studioso, di nome Tausendjährige, molto conosciuto nel campo delle
sequenze di Notker, ci sarebbero soltanto 14 sequenze che erano state scritte prima di Nokter: tutte
queste sequenze pre-notkeriane, andrebbero ritenute premature, dal momento che si tratta di
composizioni di passaggio che non hanno ancora raggiunto la piena maturità della sequenza
secondo lo stile classico.
Una delle sequenze di Notker, riguarda il giorno di Pentecoste (Sequentia in Die Festo
Pentecostes, v. pp. 17 e 18): in questa sequenza non si sente più il ritmo presente negli Inni, visti in
precedenza. Questo tipo di poesia, dunque, manca di ogni metrica. Infatti, si tratta di una cosa
totalmente nuova: non si tratta di un testo prosaico. In Francia la prosa era chiamata tale, forse
perché non rispettava alcun carattere metrico. Il motivo, forse, per il quale si ritenga questo testo
poesia è duplice: da una parte, la scelta delle parole crea un linguaggio denso, sostanziale e ricco.
Ad esempio, ci sono dei contrasti e dei parallelismi alle strofe 4 e 5, composti dalle parole
illustrator e purga tenebras, che indica lo Spirito illuminante che ci purifica dalle tenebre. La stessa
cosa la si può notare alle strofe 6 e 7, secondo le espressioni Amator / sancte sensatorum e
Infunde /…/ sensibus. Anche alle strofe 8 e 9 si trovano i termini purificator e purifica che creano
nuovamente un parallelismo che ha delle tracce anche nelle strofe 12 e 13, secondo le parole
prophetas e Apostolos. Ciò dimostra che le parole sono scelte e pensate.
Un secondo motivo, forse più importante, è che per ogni riga, la parte sinistra e quella destra,
contengono lo stesso numero di sillabe con l’eccezione della strofa 1 e della strofa 24 (esse stanno
da sole). Un esempio concreto lo si può trarre nella prima riga della strofa 2 e la prima riga della
strofa 3: sia a sinistra, sia a destra si trovano cinque sillabe. Questa particolarità la si può spiegare
solo con la musica, perché si ha la stessa melodia sia a sinistra, sia a destra. Da qui, si nota il
principio dal quale si origina la sequenza. In sostanza, Notker ha sottoposto a una sola parte della
melodia due testi differenti. Così si poteva cantare una parte della melodia per primo, affinché si
potesse imitarla dopo con un altro testo. Anche se questa maniera ha le sue origini nel rapporto
maestro – cantori, nell’imparare una melodia, le sequenze di Notker probabilmente venivano
cantate a due cori, di cui il primo era composto da monaci adulti, mentre il secondo era composto da
ragazzi.
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: L’epoca tardiva degli inni. La sequenza irregolare e la sequenza 31
regolare. Il Dies irae attribuito al Celano. Prof. Johannes Nebel FSO.

Ci troviamo, dunque, davanti al genere letterario maturo che, anche nelle sue melodie, si
dimostra indipendente dal tropo del Jubilus dell’Alleluia. Così, si crearono nuove melodie.
Il canto alternante si faceva strofa per strofa e non riga per riga. In questo modo si venne a creare
la sequenza irregolare, la cui caratteristica è quella di accoppiare le strofe a due a due da una sola
melodia. Quest’ultima cambia con la coppia di strofe. Ciò rappresenta il primo stadio di sviluppo
delle sequenze, a cui segue una fase di passaggio (2° stadio).
In queste sequenze di passaggio, da situare soprattutto tra il X e l’XI secolo, quello che era
rimasto prosaico nelle sequenze irregolari, si arricchì più o meno con tentativi di assonanza, di rima
e di metrica. In altre parole, veniva aggiunto un certo spirito metrico, che comportò la novità nel
campo delle sequenze irregolari. Così, passo dopo passo, la sequenza si avvicinò all’Hymnus. Un
esempio chiaro lo si può avere dalla Sequenza di Pasqua (n° 290, nella tabella all’inizio e a p. 18
delle fotocopie: Victimae Paschali Laudes, composta da Vito di Borgogna che fu cappellano alla
Corte dell’Imperatore Corrado II. Tale autore morì dopo il 1048). In questa sequenza la strofa 6 fu
soppressa da S. Pio V nella riforma del Concilio di Trento perché si presumeva che ponesse in
dubbio la fede nel suo contesto essenziale. C’è da dire anche che non si trova ancora una metrica
regolare, determinata dal fatto che la strofa 1 è staccata da tutte le altre strofe. Questa sequenza, è
ancora molto vicina alla sequenza irregolare, sullo stile di quelle di Notker.
Un altro elemento da considerare è che nella sequenza Victimae paschali Laudes, manca la strofa
conclusiva. In merito alla rima, una traccia significativa la si trova nelle strofe 4, 5, 6 e 7. Inoltre,
nella prima parte della sequenza (prima metà) non c’è rima, ma ci sono soltanto alcune tracce di
assonanza. Nella seconda metà si trova la rima in senso pieno: non è un caso, ma è un fatto voluto.
Questa differenza, infatti, corrisponde alla differenza del contenuto, dal momento che la prima parte
è di carattere teologico (strofe da 1 a 3), accompagnata da dei contrasti come, ad esempio:
a) agnus e oves / innocens e peccatores (strofa 2);
b) mors e vita / mortus e vivus (strofa 3).
Il contenuto, pur facendo riferimento alla risurrezione di Cristo, si focalizza nella morte
sacrificale del Signore. Questo lo si nota soprattutto nelle prime strofe.
La seconda parte si situa nel carattere del dramma, sottolineato dalla domanda: Che hai visto
Maria sulla via? La risposta è la conferma della risurrezione di Cristo, da parte della Maddalena.
Tutto questo viene seguito da una conclusione (strofe 6 e 7) per i partecipanti alla celebrazione.
Secondo Baumstark, ciò corrisponde ad un tipo formale del canto cultuale nell’Antichità cristiana
che contiene i seguenti elementi: domanda da parte dell’Assemblea, la risposta di un personaggio
biblico e la conclusione, mediante la confessione e la professione della fede da parte
dell’Assemblea celebrativa.
Il tema centrale, invece, della seconda metà di questa sequenza, non è più la morte sacrificale di
Cristo, ma è la testimonianza della risurrezione di Cristo Signore che è Re. Si passa, in un certo
senso, dalla morte alla vita e dalle forme non rimate a quelle rimate.

LA SEQUENZA REGOLARE
Essa introduce progressivamente al discorso della rima. Nella sequenza regolare, il cui culmine è
da situare nel XII secolo, tutte le strofe hanno la stessa forma sia nella metrica, sia nella rima (v. p.
19 delle fotocopie). Tutto è stereotipato. Si arrivò, dunque, ad una nuova forma classica, anche in
senso formale, che non è meno importante della forma ambrosiana. Nella forma regolare la
sequenza si avvicina al massimo all’Hymnus. Rimase, però, una differenza che collegò la sequenza
regolare all’origine delle sequenze, cioè quelle regolari, nel senso che le strofe vanno sempre a due
a due. Ciò sarà l’elemento distintore tra la sequenza e l’inno.
Di queste sequenze va vista la grande continuità nelle diverse forme della sequenza. Un esempio
concreto è la sequenza di Adamo di San Vittore che porta il titolo di In festo Pentecostes Sequentia.
Questo autore è da ritenere il più grande poeta delle sequenze regolari. A lui si attribuiscono più o
meno una cinquantina di sequenze, di contenuto bello e profondo e di una forma artistica eccellente
94108 – Introduzione agli Inni Liturgici: L’epoca tardiva degli inni. La sequenza irregolare e la sequenza 32
regolare. Il Dies irae attribuito al Celano. Prof. Johannes Nebel FSO.

e perfetta. Della sua vita si sa ben poco: si sa solo che era un eremita agostiniano del monastero di
San Vittore, vicino a Parigi. Egli era immerso in una corrente che aveva raggiunto un certo culmine
teologico, spirituale e culturale. Egli fu contemporaneo di Ugo e di Riccardo di San Vittore, due
famosissimi teologi scolastici. La sua epoca rappresentò un momento di grande sviluppo musicale,
quando Parigi era il centro della cultura europea. Adamo di San Vittore morì verso il 1192: dei suoi
testi, la Liturgia di Trento non conobbe alcun testo. Anche nella Liturgia attuale ci sono solo due
testi in forma molto abbreviata. Malgrado ci fu un movimento della Riforma Liturgica verso alcuni
ristabilimenti positivi, non si è proceduto ad un recupero sostanziale delle opere di Adamo di San
Vittore, come pure di Notker. Comunque, i due testi presenti nell’attuale Liturgia, probabilmente,
sono il n° 244 (Salve dies, dierum gloriam) che è impiegato come un inno domenicale, nell’Ufficio
delle letture. Una volta esso veniva usato come sequenza di Pasqua, che nella sua forma originaria
aveva 12 strofe, ridotte, poi, a quattro. Il secondo è il n° 160 (Lux iucunda, lux insignis), che – ad
un tempo – veniva impiegato come sequenza di Pentecoste. La riforma conciliare non si è limitata a
troncare il testo, ma ha annullato le coppia di strofe, con la conseguenza di un testo molto diverso
dall’originale.

Ritornando alla sequenza regolare di Adamo di San Vittore, si nota una metrica ritmica,
completamente tonica, dove non c’è più il rispetto della quantità metrica. Si tratta del dimetro
trocaico (4 piedi trocaici), acatalletico, ad eccezione dell’ultima riga di ogni strofa. Nel centro di
ogni riga viene rispettata una cesura che si situa esattamente dopo il secondo trocheo. La sua
caratteristica consiste nel fatto che con essa termina la parola. In tal senso abbiamo alcuni esempi:
a) Lux iucunda,(cesura) lux insignis / qua de throno (cesura) missus ignis (strofa 1);
b) Corda replet,(cesura) linguas ditat / ad concordes (cesura) nos invitat (strofa 2);
c) Christus misit, (cesura) quem promisit / pignus sponsae,(cesura) quam revisit (strofa 3);

Si nota, dunque, il seguente schema strutturale: AABCCB. Alla fine della sequenza si accumula
la bellezza, aggiungendo una riga nelle strofe da 15 a 18, con la conseguenza di un accumulo di
righe che indicano un certo culmine che la sequenza intende raggiungere.
La sequenza mostra anche un’altra variante nelle strofe 4, 5, 6 e 8: esse sono, per intere,
catalettiche. Subito dopo segue nuovamente l’acatalettico, che dimostra la profondità di questo
autore e la sua sensibilità verso l’arte. In questa sequenza c’è il gioco dei pensieri, che comporta
anche una certa leggerezza, accompagnata dal senso di gioia che caratterizza chi si sente figlio di
Dio. Tutte le sequenze di Adamo di San Vittore sono caratterizzate da questa gioia per la redenzione
dell’uomo. Questa sequenza è ricca di riferimenti biblico-teologici.

L’EPOCA TARDIVA
Si tratta della terza epoca degli inni latini. Essa inizia nel XIII secolo e finisce con l’inizio
dell’epoca moderna, cioè nel XV secolo. In quest’epoca tardiva iniziarono i generi letterari finora in
uso. Ancora molti inni venivano composti, come ad esempio, quelli eucaristici, che di solito si
attribuiscono a San Tommaso. Tra questi si possono ricordare il n° 152 (Lauda, Sion, Salvatorem),
il n° 287 (Verbum supernum prodiens), il n° 207 (Pange lingua Gloriosi corporis), il n° 242 (Sacris
sollemniis iuncta sint gaudia) e il n° 190 (Adoro te, devote: nel Breviario attuale sono presenti solo
le ultime tre strofe). Infine, in quest’epoca si trovano anche due sequenze che sono poi entrate nella
Liturgia attuale: si tratta delle sequenze Stabat Mater dolorosa e Dies irae, Dies illa. Della prima si
può notare che essa è divisa in tre parti: n° 93, n° 257 e n° 295. Forse questa sequenza è stata
composta da Jacopone da Todi. Per quanto riguarda la seconda, viene attribuita al francescano
Tommaso da Celano, anch’essa divisa in tre parti: n° 84, n° 209 e n° 230.
Quello che distingue quest’epoca da quella precedente, viene determinato da due fattori:
1) l’influsso dell’aristotelismo nella teologia e l’influsso degli Ordini mendicanti, france-
scano e domenicano;
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regolare. Il Dies irae attribuito al Celano. Prof. Johannes Nebel FSO.

2) il sorgere di una spiritualità più soggettiva che si esprime nell’arte.


Essi hanno fatto nascere un nuovo senso per il concreto e per l’umanità di Cristo. La dimensione
della croce, l’evento della nascita di Cristo, la pia pratica del rosario, la tradizione dei presepi (es. il
presepio di Greccio, il presepe vivente) rientrano nell’ordine della meditazione e della spiritualità,
che come è già stato accennato, è più soggettiva, nel senso che emerge una sensibilità verso le realtà
esterne, pur rimanendo ancora dentro la cornice del cosmo medioevale, che formava una certa unità.
Di questi fattori si possono vedere le conseguenze anche negli inni, anche se questi cambiamenti
non comportavano necessariamente una decadenza. Si può perfino constatare il contrario, tanto che
nel XIII secolo ci furono inni che raggiunsero il livello più alto di tutti gli inni latini. Ci troviamo
ancora nel culmine dell’innologia latina.
Un esempio molto bello e significativo è rappresentato dalla sequenza Dies irae, Dies illa (v. pp.
20 e 21 delle fotocopie): è una delle più belle e più profonde tra le poesie del tardo Medioevo. A tale
riguardo tutti gli studiosi sono di parere unanime.
Guardando al contenuto, molto poco sicura è l’attribuzione al francescano Tommaso da Celano,
uno dei primi 12 compagni di San Francesco. Il poema che si ha davanti ai nostri occhi è uno dei
più famosi, tanto che non sono mancate le traduzioni in diverse lingue, in forma poetica, il che
mostra sicuramente che i poeti spirituali sono rimasti affascinati da questa sequenza. Al riguardo,
però, c’è da dire che anche la migliore traduzione non è in grado di raggiungere l’intensità che si
trova nelle parole latine di questo inno. Anche la musica del Dies irae è da considerarsi tra le più
impressionanti ed affascinanti nel campo del canto gregoriano.
Originariamente, questo poema non era una sequenza: ciò lo si può notare sia nella forma
letteraria, sia nel contenuto stesso. Per quanto riguarda la forma letteraria, esso non rispecchia le
caratteristiche della sequenza regolare, perché manca il legame da una strofa all’altra, facendo
venire meno la caratteristica coppia di strofe. Dunque, ogni strofa può star da sola. Inoltre, la rima è
monotona: essa collega ciascuno dei tre versetti di ogni strofa. Il testo ha in comune con la sequenza
regolare, soltanto il metro, il dimetro trocaico, di cui manca la fine catalletica, alla conclusione di
ogni strofa. Dunque, tutto il poema è acatalletico, senza eccezione. Anche questo elemento è da
considerarsi differenza sostanziale rispetto alla sequenza regolare.
In merito al contenuto, si nota particolare caratteristica se si guarda alla strofa 7: Quid sum
miser tunc dicturus, / quem patronum rogaturus, / cum vix iustus sit securus. L’autore parla nella
prima persona singolare, per cui, per la prima volta, entra il soggetto individuale nella formulazione
stessa della preghiera. Quindi, questo fatto nella liturgia costituisce una grande novità. Si tratta di
una preghiera non tanto liturgica che, però, esprime il senso profondo di una pietà personale. Infatti,
il Dies irae, all’origine, era un poema destinato all’uso privato, al pio lettore per la propria pietà
personale. Ciò vale anche per il Stabat Mater.
Già nel XIII secolo, il Dies irae, veniva inserito come sequenza per la Messa dei defunti, con
l’aggiunta tardiva della strofa 18 (Lacrimosa dies illa, / quae resurget ex favilla. / Iudicandus homo
reus, / huic ergo parce, Deus. / Pie Iesu Domine, / dona eis requiem). Questa strofa, come si può
vedere, non è originale, perché si nota un diverso ritmo, rispetto a prima.
Il poema, oltre che nel Messale francescano del XIII, apparve anche in altri Messali del XIV e
XV secolo, sempre come sequenza. Normalmente si poteva avere una sequenza in una messa dei
defunti? No, perché non c’era l’Alleluia. Ciò costituisce il problema principale. Ora, il Dies Irae, è
diventato sequenza pur non avendo come punto primario il riferimento liturgico. Si tratta di una
sequenza senza l’alleluia.
Nella Riforma tridentina, il Dies irae venne prescritto come sequenza obbligatoria in ogni messa
per i defunti. Nella Riforma post-conciliare la questione è rimasta aperta. Obbligatorie sono soltanto
le sequenze di Pasqua e di Pentecoste. Delle altre si trova un riferimento nella Institutio Generalis
del Messale Romano (IGMR), nel quale sono indicate come facoltative. La stessa riforma del
Vaticano II ha, comunque, voluto recuperare il valore autentico del Dies irae, come poema
dell’ultimo giudizio, tanto che lo ha indicato come Inno facoltativo delle ferie dell’ultima settimana
dell’Anno Liturgico. L’inno è stato diviso in tre parti, ognuna delle quali termina con una nuova
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regolare. Il Dies irae attribuito al Celano. Prof. Johannes Nebel FSO.

strofa, cioè la n° 19, come le fotocopie del Docente indicano (O tu, Deus maiestatis, / alme candor
Trinitatis, / nos coniunge cum beatis. Amen).
Poiché il sentimento soggettivo è molto presente in questo Inno, ci troviamo dinanzi ad una
testimonianza chiara della mentalità generale del periodo tardivo degli Inni Latini. Il sentimento
soggettivo, però, non diminuì la ricchezza spirituale e teologica, ma – al contrario – si pose al loro
servizio.
In merito al contenuto, fino alla strofa 17, il poema è diviso, chiaramente in tre parti:
1) le strofe 1-6 parlano dell’ultimo giudizio;
2) le strofe 7-12 ricordano il mistero di Cristo nella sua vita terrena;
3) le strofe 13-17 sottolineano la misericordia di Cristo, in forma di supplica.
In merito alla prima parte, la struttura interna è sempre asimmetrica: al centro si trovano le
strofe 3 e 4 che portano la tematica della tromba e della risurrezione dei morti. Queste strofe sono
contornate dalle strofe 2 e 5, con la tematica del giudizio, che continua con la strofa 6, che
mantiene, però, un certo legame con la prima strofa, quando parla del senso di totalità (nihil
incultum remanebit (6) / solvet saeculum in favilla). Come mostra la seconda colonna, ogni passo è
ricco di riferimenti biblici, a dimostrazione che ogni parte del poema è ispirata direttamente dalla
Sacra Scrittura. Nella strofa 1, Davide appare come simbolo di tutti i profeti dell’AT, mentre la
Sibilla rappresenta, nell’insieme, tutti i profeti pagani. Proprio a partire dal XIII secolo furono creati
dei paralleli tra i profeti e le sibille. Nella strofa 3, la tromba segnala la potenza divina
nell’effettuare il miracolo che si attua nella strofa 4, nel senso che la morte stupisce perché vede la
sua fine, ma anche la natura, le cui leggi vengono oltrepassate.
Con una esattezza concisa, il poeta esprime la verità teologica della risurrezione della carne.

In merito alla seconda parte, inizia con una domanda da parte dell’orante: Cosa misero dirò, /
quale santo pregherò, se anche il giusto trepidò? Il resto della seconda parte risponde alla domanda,
anche se in forma di supplica. Dunque, nella strofa 8 si parla di Gesù come giudice, ma c’è
un’invocazione alla misericordia: Re di eccelsa maestà. / tu che salvi per bontà, di me pure abbi
pietà. Qui si trova una tra le affermazioni centrali di tutto il poema, perché si nota la polarità tra il
giudizio di Dio e la sua misericordia. Tutto si concentra e si sintetizza nella stessa persona: Gesù
Cristo. Dunque, Colui che giudica è anche colui che salva per bontà. In solo tre righe si esprime il
massimo del concetto cristiano di Dio che lascia intravedere una certa spiritualità.
Ora, in base a questa identità tra il Dio giusto ed il Dio misericordioso, l’inno può passare alla
meditazione dell’opera salvifica di Gesù misericordioso nell’opera terrena (strofa 9). Nella strofa
10 si nota un ulteriore sviluppo del concetto espresso dalla n° 9: Gesù è visto come il Buon Pastore
che va alla ricerca della pecorella smarrita. In questo modo l’autore chiede a Dio di non rendere
vana la sua opera di salvezza. Il ricordo dell’opera salvifica di Cristo dà al supplicante il
fondamento della fiducia nella Misericordia di Dio.
Nella strofa 11 si trova l’eco delle prime strofe del poema: all’inizio l’accento è posto su Gesù
giusto giudice, ma poi l’autore ritorna al discorso della Misericordia, sempre sotto forma di supplica
che, con la sua drammaticità, arriva a un secondo punto angolare: si tratta della tematica della
conversione. Il fatto stesso che il supplicante chieda il dono della conversione prima del giudizio,
implica proprio la conversione, ma quale tipo di conversione si tratta? Nella strofa 12 si nota lo
stato di coscienza dell’orante come peccatore, la cui parola chiave si trova nella strofa 11 (ante,
cioè prima del giudizio si implora la misericordia di Dio). Nella strofa 12 è centrale la parola rubet,
per cui l’autore indica la contrizione ed il pentimento, mossi dall’amore. Ciò si deve distinguere
dall’attrizione che è il pentimento determinato dalla paura. Dunque, con la contrizione entra anche
l’amore di Dio nella mente del supplicante.

In merito alla terza parte, essa porta il movimento spirituale di questo poema al suo
compimento. Proprio nella sua prima strofa, la n° 13, l’argomento, dell’ultima strofa della seconda
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regolare. Il Dies irae attribuito al Celano. Prof. Johannes Nebel FSO.

parte, viene ripreso, riecheggiando alcuni episodi, dove i personaggi biblici della peccatrice e del
buon ladrone, danno grande motivo di speranza. Della prima figura, si legge nel Vangelo di Luca
che i suoi peccati vengono tolti perché ha molto amato. Si tratta di una speranza mossa dall’amore,
come sottolinea la figura del Buon Ladrone.
Di grandissimo valore è la strofa 14: c’è una richiesta di salvezza, attraverso la quale l’orante
riconosce, ancora una volta, la sua povertà personale. Nello stesso tempo trova la forza di accostarsi
di più alla Misericordia di Dio, piuttosto che fermarsi a guardare il suo stato indegno. Si tratta del
terzo punto angolare della spiritualità del poema.
Il supplicante lascia dietro di sé la sua povertà, che non può cambiare, per gettarsi totalmente
nella Misericordia di Dio. Le strofe 15 e 16 risuonano, come eco, il giudizio della prima parte del
poema. Nondimeno, la situazione è cambiata: la cornice che caratterizza queste due strofe è proprio
la suddetta strofa 14, insieme alla n° 17, che sembrano fornire la chiave definitiva per
l’interpretazione di questo magnifico poema: con la parola cinis (cenere) si ha il legame con la
strofa 1 nelle parole solvet saeclum in favilla. La cenere va ritenuto come un simbolo che definisce,
nell’ultima strofa, il cuore pentito come la cenere. In ultima analisi, la cenere, nella mens del Dies
irae, non è altro che il simbolo dell’umile pentimento degli uomini, al cui centro sta l’amore di Dio.
Ciò non significa la riduzione delle ultime realtà cosmiche ad un solo atteggiamento esistenziale,
ma vuole affermare semplicemente quello che si dice in ogni epoca cristiana: il cuore dell’uomo è il
luogo centrale della lotta tra la luce e le tenebre. Questo è il messaggio del Dies irae. Il linguaggio
del poema è duro, ma la sensibilità spirituale è molto alta e la teologia appare esatta ed equilibrata.

____________Note Personali di
Studio________________________________________________

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