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LA MUSICA DEI PRIMI CRISTIANI: IL CANTO GREGORIANO NEI SUOI CARATTERI

MODALI E RITMICI. LA FIGURA DI ILDEGARDA DI BINGEN.

LA FORMAZIONE DEL CANTO CRISTIANO


Il Cristianesimo nasce nel protettorato romano della Palestina dalla predicazione e dagli
insegnamenti di Gesù Cristo, il quale completa e rinnova la dottrina del popolo ebraico
sull’esistenza di un solo Dio.
Le origini del canto cristiano coincidono con le origini del Cristianesimo.
Il Cristianesimo, nonostante le persecuzioni, si diffonde in tutto il bacino del Mediterraneo,
soprattutto in seguito all’annessione della Palestina all’Impero romano ad opera di Pompeo nel 63.

PRIME FONTI PER LO STUDIO DEL CANTO CRISTIANO


Per lo studio dei primi secoli della storia musicale cristiana, in assenza della notazione, che si
affermerà soltanto a partire dal IX secolo, e quindi di fonti musicali dirette, ci si avvale di fonti
indirette, quali i testi liturgici tramandati da numerosi manoscritti, e la storia della primitiva liturgia,
le cui linee principali sono tracciate negli Atti degli Apostoli.

DERIVAZIONI LITURGICO-MUSICALI DEL CULTO CRISTIANO


La primitiva liturgia cristiana è profondamente radicata nel contesto liturgico e culturale ebraico.
La liturgia dei cristiani ha in comune con quella degli ebrei una concezione sacrale della parola:
di conseguenza, la parola nella liturgia va proclamata e non è semplicemente detta o pronunciata.
A differenza della civiltà greca, che si fonda sulla vista, la civiltà ebraica – e cristiana – si fonda
sull’udito e, quindi, sul suono della parola: “Dio disse: sia la luce. E la luce fu” (Genesi, 1,3).
Per entrambe le religioni, ebraica e cristiana, la musica è, dunque, un mezzo per conferire alla
parola maggiore solennità, è essa stessa preghiera.

PRIME FORME DEL CANTO CRISTIANO


Le forme del canto cristiano dei primi secoli, direttamente derivate dalla tradizione liturgico-
musicale ebraica, sono: 1) la cantillazione; 2) la salmodia; 3) l’innodia; 4) lo iubilus.
1. La cantillazione è un’amplificazione della parola, una lettura intonata su un ristretto numero di
suoni impiegata per le letture del celebrante o d’altro ministro (lector), quali le Lamentazioni
(AT), le Epistole e i Vangeli (NT), e si è protratta nei secoli fino a raggiungere l’epoca della
tradizione scritta.
2. La salmodia, ossia il canto dei salmi (composizioni destinate al canto appartenenti all’Antico
Testamento, tradizionalmente attribuite a Davide), anch’essa giunta fino alle fonti manoscritte,
pur non avvalendosi, come la cantillazione, di una grande estensione melodica, presenta uno
schema più elaborato, che prevede:
- una formula iniziale ascendente (intonatio) atta a raggiungere il c. d. tenor, ossia la corda di
recita, nota ribattuta sulla quale viene intonata la maggior parte delle sillabe del versetto;
- talvolta un’ornamentazione discendente (flexa);
- dopo l’eventuale ornamentazione discendente, un’ornamentazione melodica (mediatio);
- una cadenza che porta alla conclusione sulla nota iniziale (terminatio).
La salmodia può essere:
- antifonica, che prevede l’alternanza di versetti da parte di due cori;
- responsoriale, che prevede l’intonazione alternata di versetti da parte del solista e del ritornello,
detto responsorio, da parte dell’assemblea;
- alleluiatica, species della salmodia responsoriale, che prevede, dopo ogni versetto intonato dal
solista, la ripetizione di un “alleluia” da parte dell’assemblea;
- direttaneo-solistica, che affida esclusivamente a un solista o a un coro l’esecuzione del salmo,
senza ritornelli.
3. L’innodia, ossia i canti liturgici di componimenti diversi dai salmi, probabilmente derivata dalla
salmodia direttaneo-solistica.
Il termine indica genericamente, nell’antichità sia pagana sia cristiana, un canto di lode alla
divinità.
A differenza della produzione greca, che presenta aspetti formali ben definiti (metrica
quantitativa e struttura strofica), la prima produzione cristiana è priva di regolari forme di
versificazione e di strofe fisse e i testi – fatta eccezione per alcuni degli inni più antichi, ossia per
i c. d. cantici, conservati nel Vangelo di Luca: Magnificat, Benedictus, Gloria e Nunc dimittis –
sono di libera invenzione poetica.
Di molti inni paleocristiani ci è pervenuto solo il testo oppure versioni melodiche più tarde, come
il Te Deum e il Gloria della messa.
Il riferimento della tradizione innodica in Oriente è il siriano sant’Efrem (303- 373), che basa i
suoi inni sul modello testuale dei salmi biblici, ma con una struttura comprendente strofe e
ritornello.
In Occidente è S. Ilario (315 – 367), vescovo di Poitiers, il primo a comporre inni, in funzione
della lotta contro l’eresia ariana, ma la complessità dei suoi versi non permette ad essi di
approdare alla liturgia; è invece S. Ambrogio (340- 397), vescovo di Milano, a dare una precisa
configurazione formale all’inno latino: si tratta di un componimento in più strofe, i cui versi,
dimetri giambici (ogni verso è formato da quattro giambi e, poiché il giambo è formato da una
sillaba breve e da una sillaba lunga, il risultato è un ottonario), secondo le regole della metrica
quantitativa classica, prestano tuttavia attenzione alla distribuzione degli accenti, cosicché si
pongono come modello del futuro verso settenario della moderna metrica accentuativa (questa
evoluzione vedrà dapprima la coincidenza tra sillabe lunghe e sillabe accentate e
successivamente l’assoluta prevalenza dell’accento tonico).
Dal punto di vista musicale, l’inno ambrosiano, in opposizione alla salmodia, inaugura nella
storia cristiana il predominio della musica sulla parola. L’intonazione musicale è formulata in
base al testo della prima strofa e la stessa musica viene ripetuta per le strofe successive.
Su questo schema formale sono composti, fino al XV secolo, molti inni, che si aggiungono ai
quattro sicuramente attribuibili a S. Ambrogio: Aeterne rerum conditor, Deus creator
omnium, Iam surgit hora tertia, Intende qui regis Israel.
Poiché le prime fonti musicali contenenti inni risalgano ai secoli XI e XII, è impossibile
ricostruire le melodie composte nei secoli precedenti. Comunque, data la destinazione popolare
di queste musiche, esse si sono verosimilmente mantenute nel tempo e potrebbero non essere
molto diverse da quelle pervenute fino a noi.
4. Lo Iubilus, a differenza delle precedenti forme, non è approdato alle fonti scritte, ma sappiamo
da S. Ambrogio e soprattutto dalle Enarrationes in Psalmos di S. Agostino che si tratta di un
lungo melisma o vocalizzo privo di testo, atto a esprimere gaudio, secondo la dottrina della c. d.
teologia negativa.

SVILUPPO DEL CANTO LITURGICO DOPO L’EDITTO DI MILANO


Dopo l’ultima persecuzione subìta sotto l’Impero romano, la c. d. “grande persecuzione”, iniziata
da Diocleziano nel 303, due sono le ragioni politiche dell’ulteriore espansione del Cristianesimo:
1. con l’editto di Milano del 313, emanato dall’imperatore Costantino, è concessa, in effetti a
cristiani e non cristiani, libertà di culto;
2. lo stesso Costantino si converte al Cristianesimo, benché presto, nonostante il Concilio di
Nicea del 325, nella sua formulazione ariana (non consustanzialità di padre e figlio).
Il Cristianesimo sarà assunto come religione ufficiale dell’Impero solo nel 380, con l’editto di
Tessalonica (detto anche di Teodosio I, benché vi parteciperanno pure Graziano e Valentiniano II),
peraltro non in vigore prima dei decreti attuativi del 390-91, che altresì ristabilirà il credo niceno,
dopo la sua sconfessione a opera della frangia ariana della Chiesa.
Già all’indomani dell’editto di Milano e alla conversione di Costantino, tuttavia, si avverte
l’esigenza di fissare i termini per l’organizzazione unitaria del rito eucaristico (la messa) e
dell’ufficio delle ore, vale a dire la scansione delle preghiere comunitarie (salmi, letture bibliche e
altri formulari) distribuite nelle varie ore della giornata (mattutino, lodi, vespri, ecc.).
Peraltro, nella seconda metà del III secolo era nato, in Egitto, il monachesimo eremitico, ossia di
anacoreti solitari, il primo dei quali è tradizionalmente considerato sant’Antonio Abate (Qumans,
251 – Deserto della Tebaide, 357).
Dal monachesimo eremitico si svilupperà il monachesimo cenobitico, ossia comunitario, con la
nascita dei primi monasteri.
L’affermazione degli ordini monastici, con la fondazione di celebri abbazie, ossia di monasteri
caratterizzati da una maggiore autonomia giuridica e amministrativa (in Occidente, le abbazie di
Montecassino nel 529 e di Bobbio nel 612), favorirà l’organizzazione della liturgia, soprattutto
quella dell’ufficio, e la coltivazione del canto sacro.
I principali monasteri sono, pertanto, anche centri importanti di istruzione musicale e di attività
artistiche in generale: nelle scholae cantorum si educano i fanciulli dotati al canto e negli scriptoria
si producono splendidi codici liturgici miniati che includono (dal IX secolo) melodie in notazione
neumatica, le cui scritture particolari variano da regione a regione e da monastero a monastero.
Infatti, l’ordinamento unitario della messa e dell’ufficio delle ore porta, a partire dal IV secolo,
alla redazione dei libri liturgici, i cui principali adottati nella tradizione romana sono: il Liber
Sacramentorum, il Lezionario, comprendente l’Epistolario e l’Evangelario, l’Antiphonarium o
Antiphonale Missarum e L’Antiphonarium Officii.
Tali testi però non riportano fino al IX- X secolo alcun tipo di notazione musicale.

DIVERSIFICAZIONE DEL CANTO CRISTIANO NELLE CHIESE D’ORIENTE E D’OCCIDENTE


La storia della liturgia e, quindi, del canto liturgico cristiano, si diversificò nelle varie aree
culturali d’Oriente e d’Occidente.
Va ricordato che, ancora in vita, Teodosio I affida la parte occidentale, meno ricca, dell’Impero
al figlio Onorio e la parte orientale al figlio Arcadio.
Di fatto, le due parti dell’Impero hanno già sviluppato culture e tradizioni differenti e – benché
sul piano strettamente giuridico nelle intenzioni di Teodosio I l’Impero resti unitario, benché il
codice promulgato dall’imperatore d’Oriente Teodosio II valga anche per la parte occidentale
dell’Impero e benché l’imperatore d’Oriente possa fare le veci dell’imperatore d’Occidente e
viceversa – la decisione di creare due diverse grandi circoscrizioni territoriali accelera il processo di
divisione, anche a causa di frequenti dissidi.
In Oriente, la creazione di circoscrizioni ecclesiastiche presiedute dai patriarchi determina
l’autonomia liturgica di tre grandi centri, Alessandria, Antiochia e Bisanzio, nei quali si sviluppano
diverse tradizioni liturgiche regionali con relativo repertorio di canti nella lingua originale: si hanno
così il rito copto in Egitto, il siriano e l’armeno in Siria, il greco-bizantino nel bacino mediterraneo
orientale e particolarmente a Bisanzio, risultato il centro più importante perché sede dell’Impero
Romano d’Oriente.
Anche nella Chiesa dell’Occidente, nonostante la maggiore ingerenza del pontefice di Roma, si
verifica una diversificazione di riti e, quindi, di canti, ma, a differenza dei cristiani orientali, che
usano varie lingue, poiché ciascun popolo adopera la propria (copto, siriano, ecc.), i cristiani
d’Occidente nella pratica del culto usano una sola lingua comune: il latino.
Si formano così i seguenti riti e relativi canti: il beneventano nell’Italia meridionale; il romano,
detto vetero-romano, a Roma; l’ambrosiano o milanese, facente capo alla diocesi di Milano e
rimasto in uso fino ai nostri giorni; l’aquileiese o patriarchino, proprio del patriarcato di Aquileia;
l’ispano-mozarabico nella Spagna dominata dai Visigoti e poi dagli Arabi; il gallicano nella Gallia
dominata dai Franchi; il celtico in Bretagna e nelle isole britanniche.

QUESTIONE DI GREGORIO MAGNO


Com’è noto, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, convenzionalmente fatta
coincidere con la deposizione dell’imperatore Romolo Augusto nel 476, inizia il Medioevo.
Nei secoli che seguono la caduta dell’Impero si assiste al venir meno delle istituzioni culturali e
delle amministrazioni romane.
A parte l’opera di alcuni teorici, tra i quali spicca il filosofo romano Severino Boezio (Roma,
475/477 – Pavia, 524/526), che, tuttavia, coltiva la musica solo sotto l’aspetto squisitamente
speculativo, fungendo da tramite fra il pensiero musicale dell’antica Grecia e il Cristianesimo, unico
baluardo della civiltà resta la Chiesa, con i suoi monasteri e le sue abbazie, dove la cultura
continuerà a essere coltivata e dove anche i canti liturgici saranno conservati e troveranno,
nonostante tutto, sviluppo ed espansione, all’interno delle scholae cantorum e degli scriptoria.
In questi secoli d’espansione e di codificazione delle liturgie occidentali, fondamentale è il ruolo
avuto dalla figura di Gregorio Magno (540-604), papa dal 590, dal cui nome deriva quello del
“canto gregoriano”.
Una leggenda consolidatasi solo alla fine del IX secolo, quasi tre secoli dopo la sua morte,
attribuisce a lui la paternità del canto liturgico.
In realtà, se è possibile documentare che il grande Papa abbia dato impulso a fondamentali
riforme nel culto romano, nessun documento diretto attesta una sua attività musicale; compila
probabilmente un Sacramentario e forse riordina anche l’Antifonario, il libro contenente i testi
letterari dei canti della messa, ma, anche ammettendone l’esistenza, questi Sacramentario e
Antifonario sarebbero comunque privi di ogni indicazione musicale, per il fatto che nessun sistema
di notazione esiste ancora a quell’epoca (notazione alfabetica a parte).
Il formarsi di questa leggenda, che vuole Gregorio autore di melodie che da lui prendono il
nome, avviene gradatamente e trova espressione nella Vita di S. Gregorio Magno redatta negli anni
872-75 da Giovanni Immonide (852 – m. prima dell’882), detto Diacono, monaco di
Montecassino, tre secoli dopo la morte del pontefice: in un momento storico decisivo, quello
dell’alleanza tra il Papato e i Carolingi (VIII - IX secolo) che conduce alla formazione del Sacro
Romano Impero e all’esigenza di unitarietà di riti e di musiche rituali.
Nella Vita di S. Gregorio Magno si narra la leggenda secondo la quale Gregorio avrebbe dettato i
suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe
scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal Pontefice, per vedere cosa facesse
durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo di una colomba (Spirito Santo), posata su una
spalla del papa, che gli cantava all'orecchio testi e melodie.

FORMAZIONE DEL REPERTORIO ROMANO-GALLICANO (DETTO GREGORIANO) IN ETÀ


CAROLINGIA

La Chiesa merovingica pratica il rito gallicano.


L’occasione di una presa di contatto diretta con la corte franca è data al Papa dalla crescente
pressione dei Longobardi sui territori della Chiesa. Stefano II si rivolge nel 753 a Pipino il Breve e
successivamente si reca in Gallia, dando luogo a un’alleanza che dà prestigio al monarca quale
salvatore della cristianità, ma contemporaneamente impone il rito di Roma nelle regioni franche,
mirando all’unificazione liturgica di tutto l’Occidente.
Incaricato dell’opera di riforma è Crodegango, vescovo di Metz.
Carlo Magno, incoronato da papa Leone III Imperatore del Sacro Romano Impero nella notte di
Natale dell’800, completa l’opera del padre Pipino il Breve, imponendo i libri romani in Gallia.
L’introduzione del nuovo rito, innestandosi in una secolare tradizione gallicana, provoca
resistenze da parte dei cantori locali, che hanno appreso a memoria (non esiste ancora alcun sistema
di notazione) e in lunghi anni di studio numerosi canti appartenenti alla propria tradizione e che si
trovano in difficoltà nell’apprendimento di un nuovo repertorio musicale: ne nascono
incomprensioni e scontri anche molto accesi.
Forse è anche a causa di queste difficoltà che si inizia, verso la metà del IX secolo, a corredare
alcuni libri liturgici di segni simili agli accenti grammaticali che, posti al di sopra delle parole del
testo, danno una parvenza di movimento melodico (notazione ecfonetica o paleo-franca): questa è la
prima forma di notazione del canto gregoriano e di tutta la musica in Occidente.
Nel complesso, il risultato scaturito dalla riforma carolingia è in realtà una sorta di
compromesso, una liturgia che fonde le componenti romana antica e gallicana.
E’ forse l’esigenza di imporre la nuova liturgia unificata che porta a conferire sacralità a questi
canti, attribuiti da Giovanni Diacono all’opera di una personalità indiscussa come quella di S.
Gregorio Magno.
Possiamo, dunque, definire “canto gregoriano” il repertorio musicale liturgico derivato dalla
fusione del canto paleoromano con il canto gallicano, che si afferma in epoca carolingia nei territori
franco-germanici.
Successivamente, grazie anche alla messa a punto della scrittura musicale neumatica, il canto
franco-romano, ufficializzato e imposto dalla Chiesa in quanto opera di S. Gregorio, si diffonde per
tutta l’Europa.
Ciò porta nel giro di pochi secoli alla soppressione di tutte le tradizioni locali dell’Occidente, ad
eccezione del rito ambrosiano, che mantiene fino ad oggi l’autonomia del suo repertorio.

IL SISTEMA MODALE
Tra l’VIII e il IX secolo tutto il repertorio gregoriano, per necessità di organizzazione e per
facilitarne l’apprendimento, è classificato in base al sistema dei modi ecclesiastici, esposti per la
prima volta dal filosofo, teologo e liturgista Flacco Alcuino (Regno di Northumbria, 735 – Tours,
804): una serie di otto scale diatoniche ascendenti composte da otto suoni.

Flacco Alcuino presenta il suo scriptorium a Carlo Magno

Flacco Alcuino

I modi ecclesiastici hanno ricevuto tre tipi di denominazioni: 1) gli ordinali greci latinizzati,
protus, deuterus, tritus, tetrardus, autentici e plagali; 2) gli ordinali latini dal primo all’ottavo; ) i
nomi “etnici”, ossia dorico e ipodorico, frigio e ipofrigio, lidio e ipolidio, misolidio e ipomisolidio.
Quest’ultima nomenclatura, derivata dai termini che denominano le scale modali greche, è però
errata, perché nessun modo medievale coincide con il modo greco avente lo stesso nome.
Il sistema modale deriva dalle scale utilizzate per il canto gregoriano, ma è utilizzato anche nelle
composizioni polifoniche (strumentali e vocali), fino all’affermazione del sistema tonale1.
I modi sono quattro autentici e quattro plagali.
I modi autentici sono riconducibili a scale diatoniche di un’ottava con partenza dalle note di re (I
modo), mi (III modo), fa (V modo), sol (VII modo).
I modi plagali nascono dalla trasposizione dei modi autentici alla quarta inferiore e partono,
dunque, dal la (I modo), dal si (IV modo) dal do (VI medo) e dal re (VIII modo).
Nel sistema modale sono del tutto assenti i concetti di tonica, dominante e sensibile2, ma si può
dire che ci sia una “gerarchia” dei suoni in relazione alle note c. d. finalis e repercussio.
La finalis (indicata con F nello schema precedente), ossia la nota con la quale termina il canto, è
sempre la nota iniziale nei modi autentici e la quarta nota nei modi plagali (partendo questi ultimi
da una quarta sotto i relativi autentici).
La repercussio (indicata con R nello schema) è la nota intorno alla quale si svolge il canto ed è
posta una quinta sopra la finalis nei modi autentici protus, tritus e tetrardus, ma una sesta sopra la
finalis nel modo autentico deuterus (per evitare la nota si, diabolus in quanto terminale di tritono);
nonché una terza sopra la finalis nei modi plagali protus e tritus e una quarta sopra la finalis nei
1
Nel sistema tonale, il sesto modo sarà, ad es., il modello della scala maggiore.
2

Il modalismo sarà introdotto nel jazz alla fine degli anni ’50 dello scorso secolo e caratterizzerà fortemente il decennio successivo. “Kind of
Blue” di Miles Davis ne è generalmente considerato il manifesto, benché anche in precedenza il sistema modale fosse stato sporadicamente adottato.
modi plagali deuterus e tetrardus.
In un canto gregoriano, la finalis e la repercussio sono generalmente eseguite un maggior
numero di volte rispetto alle altre note: di regola la repercussio è eseguita un maggior numero di
volte anche rispetto alla finalis, ma non di rado accade il contrario.

GLI ASPETTI TESTUALI DEL CANTO GREGORIANO


Il repertorio gregoriano si viene formando e sviluppando in funzione di testi distribuiti nelle
celebrazioni dei misteri di Cristo durante l’anno liturgico.
L’anno liturgico inizia l’ultima domenica di novembre con l’Avvento, ossia il periodo di attesa
del Natale o nascita di Gesù, cui seguono: il Natale il 25 dicembre; la Quaresima, periodo di
quaranta giorni, in ricordo dei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, che prepara alla
celebrazione della Pasqua (preceduta dalla Domenica di Passione e dalla Domenica delle Palme), in
cui si commemora la passione o sofferenza di Cristo nel suo cammino fino alla crocifissione e la
Sua resurrezione nel terzo giorno dopo la morte in croce; la Pentecoste, ovvero la discesa dello
Spirito Santo, cinquanta giorni dopo la Pasqua; l’Estate o tempo ordinario, ossia il periodo di mezzo
tra la Pentecoste e il nuovo Avvento, detto delle domeniche dopo Pentecoste.
La Chiesa ha aggiunto, nel tempo, varie feste dedicate alla Madonna e ai Santi che però non
interferiscono con quelle che celebrano la vita di Cristo, per cui si distingue tra ciclo temporale e
ciclo santorale.
La giornata liturgica comprende la liturgia o ufficio delle ore3, vale a dire la preghiera ufficiale
della Chiesa romana distribuita nelle varie ore del giorno, e la liturgia eucaristica o messa.
I testi dell’ufficio comprendono: 1) tutti i centocinquanta salmi, con relative antifone4
introduttive; 2) i cantici Magnificat, Benedictus, Hunc dimittis (ossia i cantici profetici, dunque non
il Gloria) e altri inni; 3) orazioni o preghiere, comprese invocazioni (preghiere sottolineate da una
particolare urgenza) e litanie (ripetute affermazioni di lode o di richiesta enunciate da un sacerdote,
un diacono o un cantore alle quali l'assemblea risponde in maniera predefinita); 4) letture tratte
prevalentemente dalla Bibbia; 5) i responsori5, ossia il responsorium prolixum, molto elaborato,

3
In seguito alle riforme del Concilio vaticano II, il mattutino, c. d. perché celebrato nelle ore notturne o all’alba, è stato ribattezzato “ufficio delle
letture” e può essere celebrato in qualsiasi ora del giorno o della notte.
4
Brevi canti, originariamente ripetuti a ogni versetto dei salmi, la cui melodia si venne ornando sempre più, fino ad essere eseguita solo dai capi
cantori; oggi precedono e/o seguono un salmo.
Oltre all'antifona salmodica, il repertorio comprende l’antifona libera, ossia ciò che è in effetti una semplice preghiera cantata, senza salmo
associato.
All'interno del repertorio hanno un particolare rilievo le quattro antifone mariane maggiori: Alma Redemptoris Mater, cantata durante i tempi di
avvento e di natale (fino alla candelora); Ave Regina Coelorum è l'antifona cantata in quaresima; Regina Coeli, cantata nella Pasqua fino a Pentecoste:
Salve Regina, cantata nel resto dell'anno.
5
Canti nello stile della salmodia responsoriale.
dopo la lettura del Mattutino, e il responsorio breve, dopo le letture brevi delle Laudi o dei Vespri.

I testi della messa si dividono nell’Ordinarium missae, i cui testi sono invariabili per ogni giorno
dell’anno, e nel Proprium missae, i cui testi cambiano in base al calendario liturgico.
Benché dal XV secolo i compositori, da Guillaume de Maschaut a Igor Stravinsky fino ad oggi,
metteranno in musica solo i testi dell’Ordinario, i brani più importanti della messa nel canto
gregoriano appartengono ancora al Proprio.

CRITERI DI DISTINZIONE DEI CANTI GREGORIANI


Tutti i canti del repertorio gregoriano classico che ci sono pervenuti a partire dal IX secolo,
attraverso la notazione neumatica, possono essere catalogati e studiati in base a differenti criteri:
1. Secondo il loro uso liturgico: canti dell’ufficio o canti della messa, questi ultimi suddivisibili in
canti di meditazione e canti destinati a momenti di azione.
2. Secondo il loro stile, ovvero in base al rapporto tra note e sillabe, per cui abbiamo lo stile
sillabico (ogni nota ha una sola sillaba da cantare), melismatico (su una sillaba si cantano molte
note) e neumatico o semisillabico (ad ogni sillaba corrispondono poche note).
Nell’ambito di un canto possono alternarsi diversi stili.
3. Secondo la loro forma e il loro modo di esecuzione:
- canti antifonali, quando si alternano due cori;
- canti responsoriali, quando si alternano un solista e il coro;
- canti diretti o direttanei, quando esegue un solista senza alternanza con il coro.
4. Secondo il tipo di testo, che può essere biblico o non biblico.
5. Secondo che i testi siano in prosa, come i Vangeli, o poetici, come i Salmi.
Seguendo il criterio dello stile, si rende necessaria una ulteriore suddivisione tra:
a) forme in cui la musica consiste in una sorta di declamazione (accentus = ad cantum);
b) forme che si avvalgono di una musica più elaborata, quindi di una vera e propria melodia
(concentus = cum cantum).
Accentus:
- i recitativi, vale a dire le formule per gli interventi del celebrante (cantillazione);
- i salmi;
- le antifone (sia salmodiche sia libere: v. nota 4 a pag. 10);
- le orazioni;
- alcuni canti con testi evangelici.
Concentus:
tutti gli altri canti, in stile sillabico, neumatico o melismatico.
I canti melismatici, data la loro difficoltà, sono affidati a un circoscritto numero di cantori
professionisti (schola cantorum, la cui preparazione dura almeno un decennio), o, a volte, a uno
solo di essi.
I brani del Proprio sono: l’Introito, il Graduale, l’Alleluja (il Tratto nei tempi penitenziali),
l’Offertorio e il Communio.
Momenti dinamici
- Introito: canto antifonale neumatico affidato alla schola, con intermezzi di versetto salmodico
solistico, che si esegue all’ingresso degli officianti.
- Offertorio: nasce come canto antifonale neumatico affidato alla schola, ma durante l’XVIII e il
IX secolo si trasforma in canto responsoriale e si fa più melismatico; muterà ancora dal XIII
secolo; accompagna la presentazione e la preparazione dei doni sull'altare.
- Communio: canto antifonale neumatico affidato alla schola, come l’Introito, che si esegue
durante la distribuzione dell’Eucaristia.
Momenti statici
- Graduale: prevalentemente melismatico, ornatissimo, di forma responsoriale, è il più antico
canto di meditazione.
- Alleluja: canto di acclamazione o jubilus, originariamente consistente in una breve frase
melodica, destinata a trasformarsi nella forma responsoriale più melismatica del repertorio
liturgico, secondo lo schema declamazione ornatissima della parola “Alleluja”, eseguita due
volte / versetto salmodico corale e così via.
- Tratto: canto fortemente melismatico affidato a un solista (forma direttanea) che sostituisce
l’Alleluja durante la Quaresima e negli altri giorni penitenziali.
In alcune solennità, all’Alleluia o al Tratto si aggiunge, a partire dal IX secolo, un ulteriore
canto, la cosiddetta Sequenza (Sequentia), poiché come tale appunto nasce (v. pag. 16).
Una delle forme liturgiche più brevi e più diffuse di tutta la cristianità occidentale è il versetto
Benedicamus Domino (Benediciamo il Signore), con la sua risposta Deo Gratias (Rendiamo grazie
a Dio), cantato al termine di ogni ora dell'ufficio, salvo il mattutino.
In talune occasioni (come nei giorni di penitenza), a partire dall'XI secolo, si adotta il
Benedicamus Domino anche al termine della messa, in luogo dell'espressione Ite missa est, che ha
identica risposta e che è divenuta un elemento dell'Ordinario; il versetto è affidato a un solista o a
un gruppo di solisti e la risposta, corale, è intonata sulla stessa melodia.
I testi dei cinque canti dell’Ordinario della messa, più recenti, invariabili durante l’intero anno
liturgico, sono in forma antifonale, tranne il Sanctus, direttaneo.

MUSICHE VOCALI E STRUMENTALI DI ISTRIONI E MIMI

Istrioni latini
Quanto alla musica profana, va ricordato che gli istrioni latini, la cui diffusione è attestata dal
secolo V in poi per tutto il mondo cristiano, portano, in tempi di decadimento, qualche parvenza di
vita letteraria e soprattutto teatrale: sono giocolieri e saltimbanchi; recitano, cantano, suonano,
danzano; divertono il pubblico nelle piazze, nelle fiere, nelle campagne; si spingono fino ai confini
della latinità, penetrando negli ambienti dei barbari e dei militi; si distinguono particolarmente i
mimi, già durante l’Impero Romano attori comici, uomini e donne (benché fino a tutto il Medioevo
la presenza femminile nelle rappresentazioni sarà ritenuta licenziosa), che recitano parti sia parlate
sia mimate, con accompagnamento di canti e musica, dal contenuto generalmente piccante legato
alla vita quotidiana, adottando una satira mordace e un linguaggio spesso osceno, senza maschera
(contrariamente ai dettami del teatro greco) e a piedi nudi.

LE INNOVAZIONI MUSICALI DEI SECOLI IX-X E LORO SVILUPPO

MUSICHE VOCALI E STRUMENTALI DEI GIULLARI


Il giullare deriva dall’istrione latino e via via ne soppianta il nome e ne eredita l'arte, che
sviluppa e arricchisce grazie al graduale rifiorire della civiltà nel Medioevo, di cui segue il
progresso nei suoi varî aspetti, specie in quelli economici e letterari. Il suo vero regno sorge, si
svolge e decade dal sec. IX al XV: con la rinascenza carolingia, la ricostituzione di chiese,
monasteri e scuole, l'incremento degli scambi e delle comunicazioni, la maggiore fusione sociale
operatasi con il consolidarsi dell'economia feudale (IX-X sec.) e poi con il formarsi dei centri
cittadini e comunali, il fervore spirituale delle crociate e le nuove esperienze dell'Oriente, il sorgere
di nuovi linguaggi e perciò di nuove espressioni; infine con la munificenza delle corti, delle
signorie, dei principati, i giullari si moltiplicheranno, accoglieranno un'infinita varietà di tipi,
rendendosi elemento indispensabile della società e facendosi tramite di cultura e di poesia.
Ma i giullari, in special modo nell’alto Medioevo, sono oggetto di riprovazione da parte degli
scrittori cristiani, che ne collegano l’attività alla sfera illecita del divertimento profano; d’altronde,
la peculiare condizione di sradicati senza fissa dimora li rende estranei al tessuto sociale.
Particolarmente avversato è l’aspetto orchestico dell’arte dei giullari, che, anche grazie alle
influenze ricevute nel corso dei loro viaggi, sviluppano una danza acrobatica individuale, con
particolarità gestuali diverse a seconda del contesto geografico, contrapposta alle danze collettive
popolari (alla carola o danza in circolo, per esempio).
Quasi tutti sapevano suonare uno strumento, spesso funzionale all’esibizione di un acrobata o di
un ballerino.
Scrive Silvana Sinisi: “… Disprezzati ed emarginati, ma di fatto tollerati e persino ricercati per
le loro prestazioni, i giullari cominciano a godere di maggiore considerazione a partire dal XIII
secolo, quando, attenuatosi l’ostracismo morale nei loro confronti, inizia un’opera di
riabilitazione. E’ in questo periodo che dalle loro fila nasce la nuova figura professionale del
buffone, che trova collocazione fissa presso le corti, guadagnandosi un trattamento economico e
uno statuto sociale. I tempi sono cambiati: alla crudezza dell’alto Medio Evo, con i suoi terrori
superstiziosi, è subentrata una stagione più incline a rivalutare i piaceri dell’esistenza e il
linguaggio della cortesia e dell’amore …”6

TROPI E SEQUENZE
Ai secoli IX e X risalgono i primi canti profani in latino classico o volgare di cui abbiamo notizia
e, come si vedrà nel prosieguo, in questi secoli nascono gli uffici drammatici.
I grandi monasteri (soprattutto le abbazie benedettine) sono centri propulsori e diffusori di
cultura e anche di creatività musicale, che trova nella liturgia il campo di azione privilegiato:
appartengono a questo periodo la prima notazione adiastematica (IX sec.) e diastematica (X sec.), le
prime sperimentazioni nel campo della polifonia, nonché la creazione e diffusione di nuovi generi
di canti inseriti sia all’interno che all’esterno della liturgia ufficiale: i tropi e le sequenze, che
costituiscono il risultato più importante scaturito da questa esigenza di novità che caratterizza
musicalmente il periodo della rinascenza carolingia.
I tropi consistono a) o in sillabe scritte appositamente su un melisma di canto gregoriano o b)
nell’aggiunta di melismi o c) nell’introduzione di nuovi brani letterari con relative nuove melodie;
come si vedrà, anche le prime forme polifoniche possono essere considerate tropature, nel senso più
ampio del termine.
Il tropo, la cui invenzione è tradizionalmente attribuita a Tutilone, monaco del monastero di S.
Gallo, nell’attuale Svizzera, nasce dall’applicazione a scopo mnemonico di parole alle note d'un
passo melismatico di canti liturgici, ma a questa pratica seguirà presto l’interpolazione di nuovi
melismi oppure, specialmente a conclusione (quasi coda) e talvolta a introduzione, di un nuovo
testo con sua propria e nuova melodia.
La sequenza altro non è che l’introduzione di testi al melisma allelujatico (e, dunque, è
sostanzialmente un tropo applicato all’Alleluja).
Il monaco di S. Gallo Nokter Balbulus, che ne è tradizionalmente ritenuto il creatore, raccoglie
sequenze da lui stesso composte nel suo Liber Hymnorum.
I testi delle sequenze sono chiamati prosae, poiché, a differenza degli inni, sono in prosa.
Caratteristica dominante della sequenza è, fin dal principio, la presenza di un numero variabile di
strofe costituite da coppie (copulae) di frasi testuali consecutive sottoposte alla medesima frase
melodica ripetuta, mentre rimane isolata di solito la prima strofa (talora anche altre sparse, ma senza
schemi precisi di collocazione), secondo il modello generale A, BB, CC, DD, ecc..
Il principio musicale di ripetizione coinvolge in progresso gli elementi testuali, conducendo

6
Silvana Sinisi, “Storia della danza occidentale”, Carocci Editore, sesta ristampa, 2014, Roma.
anch’essi alla corrispondenza tra strofe parallele, che divengono uguali per lunghezza, accento,
contenuti concettuali.
Tale processo contribuirà, con lo sviluppo dell’innodia, all’abbandono graduale della metrica
quantitativa e alla nascita della moderna metrica accentuativa e rimata, già evidente nelle sequenze
composte nell’XI secolo e in seguito perfezionata.
Le melodie, staccate sempre più dai modelli gregoriani, si orientano verso intonazioni originali e
anche i testi si emancipano dalla liturgia tradizionale.
La codificazione della sequenza nella sua forma più compiuta si deve ad Adamo da S. Vittore
(1112-1192), canonico regolare della Scuola di S. Vittore presso Parigi.
Tropi e sequenze finiranno con lo staccarsi dalle composizioni originariamente tropate,
costituendo composizioni a sé stanti.
Raggiungeranno il culmine nell’XI secolo, ma la produzione continuuerà fino all’inizio del XIV,
imponendosi come una delle maggiori espressioni della creatività medievale e delle esigenze di
rinnovamento all’interno dello stesso Clero.
Il Concilio di Trento (1545-63) abolirà tutti i tropi e tutte le sequenze, a eccezione delle sequenze
Victimae paschali laudes per la Pasqua, Veni Sancte Spiritus per la Pentecoste, Lauda Sion
Salvatorem per il Corpus Domini, Dies irae per la messa dei defunti; nel XVIII secolo sarà
recuperata anche la sequenza Stabat Mater dolorosa.
Va detto che, dal punto di vista storico, il canto gregoriano subirà un declino inarrestabile: la
tropatura e le prime forme polifoniche porteranno inevitabilmente alla disgregazione del ritmo
naturale del canto liturgico fino a giungere all’Editio Medicea del 1614, uno dei punti più bassi del
processo di decadenza sotto l’aspetto sia della melodia, ormai lontanissima dall’originale, sia della
notazione quadrata, per l’utilizzo di forme grafiche proporzionali. Questo “Graduale mediceo”,
stampato iussu Pauli V, è tristemente famoso, perché, ristampato dall’editore Pustet di Ratisbona
nel 1870 e favorito da un privilegio trentennale accordato dalla Santa Sede, servirà lungamente da
testo ufficiale di riferimento per le melodie gregoriane, diventando, negli ultimi decenni del 1800,
un concreto e serio ostacolo alla Restaurazione Gregoriana. I redattori dell’Editio Medicea,
appassionati, come sappiamo, della classicità, considereranno il latino ecclesiastico alla stregua del
latino classico, prosodicamente organizzato secondo una metrica quantitativa (alternanza di sillabe
lunghe e brevi: una sillaba lunga dura esattamente il doppio di una breve). Quindi anche al latino
del canto gregoriano sarà applicato un ritmo musicale rigorosamente rispettoso della quantità
prosodica delle sillabe. Sicuri della verità della loro teoria metrica, già i nostri esteti del
Rinascimento si sentono in dovere di correggere la melodia del canto gregoriano, quando non
rientra nei canoni enunciati.
E’ solo nel 1903, con il Motu proprio, codice sulla musica sacra promulgato da Pio X e
successivamente confermato nella Costituzione Liturgica del Concilio Vaticano II, che si assisterà a
una rinascita del genuino canto gregoriano.

LA MUSICA DI ILDEGARDA DI BINGEN COME SINTESI DEL GRANDE MISTICISMO MEDIEVALE


Ildegarda di Bingen (Hildegard von Bingen) nasce a Bermersheim, nell’Assia-Renana, nell’anno
1098, poco prima che i crociati occupano Gerusalemme.
Proclamata santa e dottoressa della Chiesa cattolica da papa Benedetto XVI, è monaca
benedettina e mistica, scrittrice, cosmologa, linguista, naturalista, filosofa, poetessa, consigliera
politica, musicista.
Fondatrice del monastero di Bingen, è non di rado in attrito con il Clero per il suo coraggioso e
spiccato anticonformismo.
Nonostante le resistenze, si oppone alla vita monastica claustrale, preferendo una predicazione
aperta verso l'esterno.
Non ha timore a uscire dal convento per conferire con vescovi e abati, nobili e principi.
E’ in contatto epistolare con il monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle.
Sfida con durissime parole l'imperatore Federico Barbarossa, rinunciando alla sua protezione,
quando questi oppone due antipapi ad Alessandro III.
Quanto all’opera di musicista, va ricordato che il canto è elemento essenziale della liturgia
benedettina.
“Il corpo in verità è il vestito dell’anima, che vive nella voce, e perciò è giusto che il corpo
attraverso la voce canti con l’anima lodi a Dio” (Epistola di Ildegarda ai prelati di Magonza).
“Produssi anche parole e musiche di inni in lode di Dio e dei santi senza che nessuno me lo
avesse insegnato e li cantai, pur non avendo mai imparato a leggere la musica né a cantare”
(frammento autobiografico, c. 1148).
In realtà, Ildegarda, che pur si definisce indocta mulier, di musica non è affatto ignorante più di
quanto non lo sia di teologia, fin dall’infanzia essendo cresciuta nell’ascolto dei canti dell’officio e
della messa.
Ildegarda compone, solo dopo i quarant’anni, brani poetico-musicali da utilizzare in convento
con le sue consorelle.
Ildegarda, Chiesa di San Rocco, Bingen am Rheim, Germania

La sua è una musica di potente e suggestiva intensità, lirica e drammatica: una sintesi
eccezionale del grande misticismo medievale (come, del resto, l’intera opera sua).
Scrive 77 composizioni in stile sia sillabico che melismatico, tra antifone, inni, responsori e
sequenze, tutti canti sacri dalla stessa Ildegarda raccolti sotto il titolo Symphonia harmoniae
caelestium revelationum (solo Pietro Abelardo ha pubblicato, una ventina di anni prima, un ciclo di
composizioni liturgiche di tali dimensioni), nonché uno dei primi drammi liturgici medievali, Ordo
Virtutum, con 82 melodie per lo più in stile sillabico, opera di alto valore estetico e teologico, in cui
è messa in scena con figure allegoriche la vittoria dell’anima sul diavolo con l’aiuto delle virtù.
Le composizioni di Ildegarda presentano un impianto monodico, arricchito a tratti da semplici,
ma efficacissimi, procedimenti polifonici, e non seguono i canoni consueti né gli sviluppi della
musica del suo tempo, tant’è che il suo stile è stato paragonato al Liber hymnorum di Notker di San
Gallo, che risale al IX secolo.
Se questa è verosimilmente la ragione per cui è generalmente trattata con sufficienza nei manuali
di storiografia musicale, pur tuttavia le sue composizioni hanno affascinato molti studiosi per la loro
forte originalità: un numero relativamente ristretto di formule melodiche ricorrenti in continue
variazioni, in antitesi con le frasi fisse, ancorché più numerose ed elaborate, assemblate
ripetutamente nelle sequenze di Adamo da San Vittore e dei suoi discepoli.

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