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anamnesis

introduzione storico-teologica alla Liturgia

a cura di Salvatore Marsili, con la collaborazione di:


M. Augé, A. J. Chupungco, R. Civil, T. Federici, Marsili, B. Neunheuser,
A. Nocent, J. Fitteli, D. Sartore, H. Scbmidt, A. Triacca, C. Valenziano

1 la Liturgia, momento nellastoria della salvezza


2 la Liturgia, panorama storicogenerale
3 la Liturgia, Eucaristia
4 la Liturgia, Sacramenti
5 Liturgia delle ore. Anno liturgico
B. Neunheuser / S. Marsili / M. Augé / R. Civil

1
la Liturgia,
momento nella storia della salvezza

marietti
II EDIZIONE 1979

Ristampa 1988

Con approvazione ecclesiastica


@ 1974 Casa Editrice Marietti S.p.A - Casale Monferrato
Sede centrale: Via Adam, 15 - Tel. (0142) 76311
15033 Casale Monferrato (AL)
ISBN 88-211-6501-9
presentazione

Il Vaticano II ha riportato in modo veramente nuovo la Liturgia alla


coscienza della Chiesa, riscoprendola come « il termine più alto (culmen)
cui tende tutta l’azione della Chiesa e insieme come la sorgente [fons) donde
a questa derivano tutte le sue energie» (SC io).
Con questa affermazione, che supera d’un colpo ogni visione tanto di or­
dine puramente esterno-rubricale, quanto di valore prevalentemente giuri-
dico-giurisdizionale, la Liturgia viene situata, insieme con Cristo e — com’è
chiaro — dipendentemente da lui (Apoc i, 8; 22, 13), come « l’alfa e l’omega,
il principio e la fine » di tutta la vita della Chiesa. Siamo infatti di fronte
a un’elevazione della Liturgia al rango di componente essenziale dell’opera
di salvezza, e precisamente sulla linea « cristologica ». Questo significa che
una conoscenza vera della Liturgia non si può avere arrestandosi alla pura
ricerca scientifica sul piano storico delle origini, delle fonti, dell’evoluzione
o dell’involuzione delle formule e dei riti, ma che al contrario è necessario,
al fine di una comprensione autentica della Liturgia in se stessa e in riferi­
mento alla sua funzione nella Chiesa, inquadrarla e approfondirla nella
sua dimensione « teologico-economica » e cioè nella « teologia del mistero
di Cristo ». La Liturgia infatti dovrà rivelarsi come il momento attuatore
della storia della salvezza, creando così il « tempo della Chiesa » ossia l’e­
stensione della salvezza nell9ambito della comunità umana, come l’Incar­
nazione era stata il momento attuatore della stessa storia di salvezza in
Cristo.

Entrare in questo discorso teologico della Liturgia — almeno a livello


iniziale e introduttorio — vuole essere il compito che si prefigge questa nostra
opera, fatta in collaborazione tra i professori del « Pontificio Istituto Litur­
gico » di S. Anseimo (Roma), fondato nel 1961 sotto gli auspici del Papa
del Vaticano II, Giovanni X X III. Dicendo « collaborazione », intendiamo
non solo indicare che l’opera nasce dal contributo di molti, ma vogliamo
soprattutto rilevare il fatto che in essa c’è la confluenza di una identica vi­
sione teologica, e che ciò avviene in modo tale da non essere né risultare
come un elemento additivo alla materia da ognuno degli autori trattata
secondo le esigenze e il metodo da essa richiesti, ma da apparire invece come
la ragione più intima e profonda della loro ricerca.
6 presentazione

Questa unità teologica è stata espressa nel titolo stesso dell’opera: « Anà-
mnesis », che in greco sta per il nostro « memoria » e « memoriale ». Anche
se questo termine è conosciuto come particolarmente espressivo dell’Euca­
ristia (Le 22,19; 1 Cor 11,24-25), non è esclusivo appannaggio di essa,
perché in realtà tutta la Liturgia, tanto nel suo aspetto globale, quanto nei
suoi momenti particolari di «sacramenti» e di «lode», altro non è che
presenza del mistero di Cristo realizzato attraverso la « memoria » di esso
oggettiva e concreta.
In verità, considerando che la Liturgia non è opera che parte dall’uomo,
ma è il mistero stesso di Cristo posto in azione tra gli uomini per mezzo di
segni cultuali, per inverare in essi la realtà salvifica, non sarebbe stato né
fuori luogo né difficile far comparire nel titolo la parola « Mistero », che
avrebbe dichiarato in maniera più immediata la linea teologica dell’opera.
Ma gli autori hanno preferito perdere questo vantaggio, non per rinnegare
— è chiaro — il collegamento intimo esistente tra « Mistero » e « Liturgia »,
ma perché intendevano, ponendo in primo piano VAnàmnesis, accentuare
subito il fatto importantissimo che la Liturgia è presenza reale del mistero
di Cristo, prima di tutto perché ne è il « memoriale ». Si otteneva così un
duplice scopo: Non s’intaccava la linea teologica che scopre nella Liturgia
la continuazione della storia della salvezza realizzata in Cristo, e, nello
stesso tempo, la si completava, sia perché si annunciava il « modo » in cui
il mistero continua, sia perché si insinuava il « soggetto » agente della cele­
brazione liturgica, e cioè la Chiesa. Ad essa infatti è stata fatta la « tradi­
zione del mistero del N T », affinché lo « annunzi in se stessa facendone la
memoria» (1 Cor 11,24-26).

A ll’alba del decimo anno di promulgazione della Costituzione liturgica,


che, nelle sue stesse prime parole Sacrosanctum concilium, legherà per tutti
i secoli avvenire la più imponente riforma liturgica della storia al Vaticano l i ,
gli autori sono felici di poter offrire questo loro lavoro:
In omaggio e in riconoscimento dei loro meriti ai grandi maestri del « mo­
vimento liturgico », come a coloro che hanno posto le prime pietre della
nuova visione teologica della Liturgia, visione che della Liturgia stessa ha
fatto un elemento di primaria e insostituibile importanza nell’azione pasto­
rale.
In utilità a tutti coloro che oggi seguendo non solo le orme dei pio­
nieri, ma soprattutto « lo Spirito Santo che è passato sulla Chiesa con il
rinnovamento liturgico» (Pio X II, AAS 48, 1956, 712), e il Concilio Vati­
cano I l che così efficacemente lo ha promosso, intendono « trovare Cristo
nei suoi misteri» (Ambrogio, ApoL proph. David 12, 58), ossia nella celebra­
zione liturgica.
Salvatore Marsili osb
abate di Finalpia

Roma, Pontificio Istituto Liturgico


Avvento 1972
abbreviazioni

AA Apostolicam actuositatem, Decreto suirapostolato dei laici (Vat. II)


AG Ad gentes, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa (Vat. II)
AAS Acta Apostolicae Sedis
ALw Archiv fiir Liturgiewissenschaft
CIS Codex luris Canonici
CSEL Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum
DACL Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de Liturgie
DS H. Denzinger-A. Schònmetzer, Enchiridion Symbolorum, definitionum el
declarationum de rebus fidei et morum, Roma 196332
EncCatt Enciclopedia Cattolica
EphLit Ephemerides liturgicae
Ge Sacramentario Gelasiano (Liber sacramentorum romanae ecclesiae,
ed. Mohlberg)
GS Gaudium et spes, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo con­
temporaneo (Vat. Il)
JLw Jahrbuch für Liturgiewissenschaft
LG Lumen gentium, Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Vat. II)
LMD La Maison-Dieu
LThK Lexikon für Theologie und Kirche, 2a ed.
MGH Monumenta Germaniae Historica
PG Patrologia Graeca, J. P. Migne
PL Patrologia Latina, J. P. Migne
PO Presbyterorum Ordinis, Decreto sul ministero e la vita sacerdotale (Vat. II)
QLP Questions liturgiques et paroissiales
SC Sacrosanctum Concilium, Costituzione sulla sacra Liturgia (Vat. II)
SRC Sacrae Rituum Congregationis decreta
ThWzNT Theologisches Wòrterbuch zum Neuen Testament
Ve Sacramentarium Veronense
ZfkTh Zeitschrift für katholische Theologie
introduzione

il movimento liturgico:
panorama storico e lineamenti teologici
(a cura di B. Neunheuser)
Per avere un’adeguata comprensione del grandioso avvenimento, che si
sintetizza nella riforma liturgica del Vaticano II, ci sembra necessario pren­
dere conoscenza di quello che si usò chiamare « movimento liturgico »,
segnalandone in un breve panorama storico i principali protagonisti e i
momenti più significativi e rilevandone insieme le linee teologiche che ne
formarono una componente essenziale.

I rilluminismo nella preistoria del movimento liturgico

Quando è cominciato il « movimento liturgico »? È una domanda che


ripetutamente è affiorata nelle discussioni degli ultimi decenni h
V i sono sempre stati dei periodi storici permeati di profondo attacca­
mento alla Liturgia, che nella loro forte carica spirituale hanno contribuito a
dare nuove forme alla Liturgia, fino al punto da condizionare intere epoche
nel loro atteggiamento liturgico. Un periodo del genere è certamente quello,
così profondamente creativo, che va dal secolo iv al vi, e corrispondente al
tempo in cui tanto in Oriente che in Occidente si creano le grandi « famiglie
liturgiche », ossia raggruppamenti settoriali conosciuti come rito alessan­
drino, antiocheno, romano, gallicano, ecc. Altro periodo liturgicamente im­
portante è, per l’Occidente, quello franco di re Pipino-Carlo Magno-Alcuino,
'seguito al secolo x-xi da quello franco-germanico, che agisce soprattutto1

1 Gir. W. Trapp, Vorgeschichte und Ursprung der liturgischen Bewegung vorwiegend in Hinsicht auf da
deutsche Sprachgebiet, Regensburg 1940; O. Rousseau, Histoire du mouvement liturgìque, Paris 1945;
ed. it. : Storia del movimento liturgico, con una lunga appendice di S. Marsili, Storia del movimento li­
turgico italiano dalle origini all'enciclica Mediator Dei, ea. Paoline 1961; F. Kolbe, Die liturgische Be­
wegung, AschafFenburg 1964; A. L. Mayer, Die geistesgeschichtliche Situation der liturgischen Emeuerung
in der GegenuJart, in ALw 4, 1, 1955, 1-51 ; ristampato in: Die Liturgie in der europàischen Geistesgeschichte,
Darmstadt 1971, 388-430; J , Wagner, s. v. Liturgische Bewegung, in L T h K 6. 19612, 1097-1099.
12 introduzione

nella zona che va da Magonza a S. Gallo. Altri momenti di riforma liturgica


si riscontrano, sebbene in maniera diversa, tanto nel movimento cistercense
al suo inizio, quanto negli sforzi che si esprimono, attraverso Aimone di
Faversham (Inghilterra), nel giovane ordine francescano, per arrivare poi
ai propositi e alle realizzazioni di riforma che s’incontrano prima e dopo il
concilio di Trento. E si potrebbe ancora continuare nell’elenco 1.
Ma ciò non ostante, il « movimento liturgico » è un fatto molto moderno,
non soltanto nel termine 12, ma anche nel contenuto. Esso, infatti, inteso come
corrente che accomuna ambienti più vasti nella ricerca di un rinnovamento
sia, prima di tutto, della propria vita spirituale dalla forza della Liturgia,
sia, in un secondo tempo, della stessa Liturgia partendo da una comprensione
più profonda del suo spirito e delle intime leggi che la reggono, è un feno­
meno storico-culturale proprio del nostro tempo 3.
Tuttavia ci si è reso conto con sempre maggiore evidenza e certezza,
che i primi impulsi e le prime realizzazioni di questo programma di rinno­
vamento liturgico esistevano già, in maniera sorprendente per chiarezza di
visione e tenacia di propositi, all’epoca delPIlluminismo. È anche vero però
che questi propositi non si sono realizzati e sono anzi così caduti nel nulla
di fatto, da potersi affermare che non c’è in realtà alcun diretto rapporto
tra le aspirazioni liturgiche dell’Uluminismo di allora e quelle del nostro
tempo. Non ultima ragione di questo deve vedersi nel fatto che l’Uluminismo
sia nelle sue tendenze manifeste, sia, in ogni caso, nelle sue correnti di fondo
s’era lasciato troppo aggravare o guidare da elementi eterodossi. E la con­
seguenza ne fu che la « restaurazione », per un connaturale rigido fatto reat­
tivo, rifiutò proprio ogni riforma liturgica e si polarizzò in un conservato­
rismo tradizionalista.
La riforma liturgica dell'Illuminismo. Noi diamo come presupposto che si
conosca il fenomeno dellTlluminismo nella sua universalità, comprendente
l’Illuminismo antimetafisico e anticristiano degli Inglesi, come Locke e
Hume; quello della filosofia tedesca che si ricollegava al Leibniz della ma­
turità e che si esprimeva per es. in J. Chr. Wolff e nel Kant degli anni gio­
vanili; quello infine degli enciclopedisti francesi, che influiscono sull’Hlu-
minismo italiano, che però si distingue per la sua opposizione al raziona­
lismo cartesiano, aU’antistoricisrno e antispiritualismo, dichiarandosi a fa­
vore di una concezione religiosa e teistica, con ricupero di valori del passato.
Non per nulla solo in Italia si avrà un tentativo come quello del Sinodo di
Pistoia, di cui appresso.
Ma accanto a questo, esisteva anche un Illuminismo cattolico, che in
sé non può « considerarsi come distruttivo e ostile alla Chiesa e tantomeno
superficiale e sciocco, come avverrebbe se non si tenesse conto di quello

1 Gfr. B. Neunheuser, Liturgie: geplante Schópfung oder Z uf attsgebilde?) in: Miscellanea liturgica
in onore del card. Lercaro, voi. II, Roma 1967, 55-83.
2 Secondo A. L. Mayer, Die Liturgie..., 388, n. 1 nei paesi di lingua tedesca « il termine “ mo­
vimento liturgico ” compare per la prima volta nell’edizione del Vesperale di A. Schott osb nel 1894.
Il termine “ Liturgia ’ * nel senso di “ riti sacri ” entra nell’uso occidentale latino al secolo xvi -xvii
e nei documenti ecclesiastici ufficiali solo nel secolo xix » ; cfr. appresso, p. 42 ; M. Righetti, Manuale
di storia liturgica, Milano 19502, 4; H. Schmidt, Introductio in Liturgiam occidentalem, Roma 1960,4553.
3 Cfr. SG 43 dicendo : « L ’attenzione che si pone al rifiorimento e alla riforma della s. Liturgia
si deve considerare come un segno della provvidenza divina sull nostro tempo e come un pas­
saggio dello Spirito Santo sulla Chiesa », riprende le parole da Pio X II incurizzate ai congres­
sisti di Assisi nel 1956 in AAS 48, 1956, 712.
13 il movimento liturgico; panorama storico e lineamenti teologici

che lo precedette e di quello che di positivo, costruttivo e di spinta in avanti


è nato da quegli sconvolgimenti, da quel pensare e sperimentare, insomma
da quello stadio di transizione, storicamente forse necessario ma, in ogni caso,
non meno storicamente condizionato » 1.
NelPambito dell5Illuminismo religioso ed in ispecie di quello cattolico
si possono distinguere quattro gruppi12:
1. Gli aderenti a uno scetticismo radicale che giungeva ad una ostilità
manifesta.
2. Chiara accentuazione di contrasto tra il cristianesimo positivo e la
cosiddetta religione naturale, ma senza giungere a una rottura.
3. Teologi di mediazione, che intendono mantenere l’edificio dogmatico
ma spiegando i dogmi su un piano di religione morale.
4. Teologi e laici « che, partendo da una conoscenza profonda e onesta
dei mali del tempo, si sforzavano di mutare la situazione. Essi propugnavano
una riforma nel pensiero teologico e nella prassi, senza tuttavia toccare il
dogma, anzi forse con le migliori intenzioni di metterne in evidenza la pu­
rezza e la chiarezza e in ogni caso sostenuti da un espresso proposito di riva­
lutare quel che è l’essenziale nella dottrina e nella vita cristiana»3.
Nell’ambito di queste categorie si devono annoverare i seguenti gruppi
o personalità o tendenze programmatiche che hanno per noi particolare
importanza: Pistoia ed il suo programma di riforma del 1786; Giuseppe II
e le riforme sostenute nel congresso di Ems (1786); L. A. Muratori (1672-
1750); i libri liturgici neogallicani dei secoli xvn e xviii; J. M. Sailer (1741-
1832). Non possiamo soffermarci sui singoli4. Tutti coloro che abbiamo
ricordato dovrebbero rientrare nel IV gruppo; un’eccezione è costituita da
Pistoia, che forse è stata troppo succube di tendenze eterodosse e dovrebbe
quindi essere assegnata piuttosto al III gruppo. Il vescovo Sailer è una figura
santa, l’unica la cui influenza si sia estesa in modo abbastanza vasto sino
al presente 6.
Il Sinodo di Pistoia rappresenta, dal punto di vista della storia della Li­
turgia, il fatto indubbiamente più interessante in seno all’Uluminismo. Manca
purtroppo ancora uno studio serio e in grado di mettere nella giusta luce
le tendenze liturgico-riformatrici del Sinodo; ma è comunque certo che una
esatta valutazione di esso non può aversi restringendosi alla lettura della
Costituzione Auctorem fidei di Pio V I (1794) 6, senza ricorrere direttamente
agli Atti e decreti del Sinodo, che sono facilmente accessibili nella colle­
zione del M ansi7.

1 A. L. Mayer, Liturgie, Aufklàrung und Klassizismus, in JLw 9, 1930, 76; Idem.. Die Liturgie
ì 94*
2 Ibidem, 78, rispettivamente 196.
3 Ibidem.
4 Per il Sinodo di Pistoia, cfr. Atti e decreti del concilio diocesano di Pistoia deWanno 1786, Fi­
renze 17882; Mansi 38, 989-1282, in particolare 1011-1086; DS 2600-2700 riprende le decisioni
o dichiarazioni del Sinodo nella interpretazione-condanna data nella bolla di Pio V I. Per il M ura­
tori cfr.: L. Brandolini, La pastorale deWEucaristia di L. A. Muratori, in EphLit 81, 1967, 333-375; 82,
1968, 81-118. Per il congresso di Ems cfr.: H. Schotten, Zur Geschichte des Emser Kongresses, in « Hi-
storisches Jahrbuch der Gòrresgesellschaft.» 35, 1914, 86-109. Per le Liturgie neo-gallicane cfr.: H.
Leclercq, in D A G L 9, 1930, 1686-1729.
6 Vedi in L T h K 9, 19642, 214-215 (R. Adamski).
6 DS 2600-2700.
7 Vedi nota 4. Cfr. anche in L T h K 8, 19632, 524 ss. (L. Wilbaert).
14 introduzione

I voti di riforma espressi in quei documenti sono oggi quasi tutti realizzati,
ad esempio la partecipazione attiva dei fedeli al sacrificio eucaristico (Mansi
1040)5 la comunione con le ostie consacrate nella stessa Messa [ibidem) 5 una
minore stima della Messa privata [ibidem) 5 unicità dell altare (Mansi 1039)?
una limitazione neiresposizione delle reliquie sull’altare (ibidem) ; significato
della preghiera liturgica (Mansi 1074 s.); la necessità di riforme del bre­
viario; la veracità e storicità delle letture; la lettura annuale di tutta la Sacra
Scrittura; la lingua nazionale accanto al latino nei libri liturgici; la sop­
pressione di molte novene e simili forme devozionali; il rilievo dato alla co­
munità parrocchiale contro ogni frazionamento (Mansi 1074-1079). Non
bisogna però dimenticare che queste riforme erano inserite in un groviglio
di concezioni dogmatiche dubbie e discutibili, per cui non hanno potuto
avere sviluppi nelle stesse loro giuste istanze centrali.

L ’istanza centrale nella riforma liturgica delPIlluminismo cattolico era


soprattutto « la tendenza alla semplificazione,... al carattere comunitario,...
alla comprensione ed edificazione » 1. « Semplificazione » stava a significare
« l’eliminazione di tutto il superfluo, di ogni fronzolo inutile » 12. Presso al­
cuni, pochi in verità, questa tendenza portava ad una semplificazione radi­
cale, die era poi una falsificazione della Liturgia eucaristica, la quale di­
ventava un semplice ricordo, « un’agape che, secondo lo spirito del suo
istitutore secondo anche le norme della ragione, doveva tendere soprattutto
a valori morali » 3. Ma la larga maggioranza, mossa da un desiderio per­
fettamente legittimo dell’essenziale, chiedeva soltanto una semplificazione
esterna. In questo senso si rileva prima di tutto « la lotta contro le esagera­
zioni a proposito di processioni, pellegrinaggi e confraternite » 4, « contro
gli abusi relativi a benedizioni ed esorcismi » 5, soprattutto nella troppo
frequenza della benedizione eucaristica. Da sottolineare in modo partico­
lare è « la lotta contro il frazionamento nella pietà che ha Cristo come og­
getto »6.
La tendenza alla semplificazione si estese in un continuo sforzo pasto­
rale di realizzare una comunità liturgica, soprattutto nella Liturgia par­
rocchiale 7. In particolare si trattava di creare tra i partecipanti alla Liturgia
un’assemblea anche spazialmente tale; di dare un’unitarietà oggettiva alla
celebrazione liturgica (ad esempio: evitando di dire il rosario durante la
Messa) ; di portare i fedeli a partecipare alla Liturgia in modo oggettivo e
soggettivo 8. L ’elemento positivo e giusto di queste aspirazioni fu però in­
faustamente messo in ombra dalla preoccupazione, tipicamente « illumi­
nistica », di comprensione e di edificazione9. Concludendo possiamo dire
con A. L. Mayer: con la sua lotta contro l’esuberanza del barocco, divenuta
col tempo puro vuoto, l’Illuminismo ha reso dei grandi servizi anche nel
campo della Liturgia. « Innanzitutto... l’Illuminismo cattolico — per la

1 A. L. Mayer, /. c., 97, rispett. 215.


2 Ibidem.
3 Ibidem, 98, rispett. 216.
4 Ibidem, 104, rispett. 222.
5 Ibidem, 105, rispett. 223
6 Ibidem, 107, rispett. 225.
7 Ibidem, 111-114, rispett. 229-232.
8 Ibidem, 114-117, rispett. 232-235.
* Ibidem, 117-122, rispett. 235-240.
il movimento liturgico: panorama storico e lineamenti teologici

prima volta dopo molto tempo — ha fatto della questione liturgica un fatto
che riguardava la Chiesa; la Liturgia divenne... un movimento liturgico po­
polare ». Essa non dovrebbe più essere soltanto un puro « atto ufficiale »,
solo che si riflettesse sulla sua origine e sulla sua natura. Ma purtroppo di
essa si vide soltanto la forma e non se ne percepì lo spirito vivo 1.
« L ’Illuminismo — per quel che di positivo c’era nella sua azione —
ha intuito e capito l’intimo senso della Liturgia; ha aperto e spianato il
cammino verso il suo santuario attraverso sterpaglie e oscurità; è arrivato
anzi fino alle soglie del santuario stesso e si è edificato nel contemplarne
la bellezza: ma non ha avuto né trovato la chiave per penetrare fino nella
parte interna di esso... » 12.
Certamente, molti sono i punti del programma liturgico dell’Illuminismo
che oggi vengono ripresi e realizzati. Ma effetti positivi nel vero senso della
parola li ha avuti soltanto quel grande spirito che in una spiritualità au­
tentica ha superato interiormente rilluminismo: J. M. Sailer, il cui influsso
sulla Liturgia pastorale dei nostri giorni è quanto mai grande 8.

Il il secolo X IX

Arriviamo ora ai veri precursori ed agli inizi del movimento liturgico


moderno. La reazione immediata airilluminismo, cioè il Romanticismo,
« non dice nulla sulla Liturgia » 4.
Ma accanto ad esso ed in conseguenza di esso si creano varie correnti.
Forze sane deH’Illuminismo, quali quelle che sono nello spirito del Sailer,
allargano il loro influsso, per es. in Germania, soprattutto con J. B. Hirscher
(1788-1865) 5 e M. A. Nickel a Magonza (1800-1869) 6. Ma indipendente­
mente da queste, sorgono altre forze, come quelle della « Tubinga cattolica »
con J. A. Mòhler (1796-1838) e F. A. Staudenmaier (1800-1856) 7, il co­
siddetto « Movimento di Oxford » in Inghilterra con Keble, Pusey e
J. H. Newman3. Un’incidenza ancor più immediata ed effettiva si deve a tutto
quel complesso che, anche sul piano religioso-ecclesiastico, si suole indicare
come « restaurazione », la quale se da una parte è — specialmente in Francia 9
— reazione necessaria contro gli errori del tempo e spesso dinamicamente
creativa, ha tuttavia il torto di aver soffocato altre e più originarie forze.

1 Ibidem, 123, rispett. 241.


2 Ibidem, 126 ss., rispett. 244 ss.
3 Gfr. Kolbe, 1. c., 16 ss., che a proposito del Sailer giustamente dice che «esso c una delle
più simpatiche figure che la Chiesa tedesca abbia prodotto... Uno che viveva tutto nel suo tempo
e nelle correnti spirituali di esso, accuratamente provando ogni cosa e tenendo, per realizzarlo,
quel che era bene». Cfr. anche la bibliografia relativa in L T h K 9, 19642, 215.
4 A. L. Mayer, Liturgie, Aufklàrung und Restauration, in JLw io, 1913, 104; Idem, Die Litur­
gie...» 273.
6 Una breve notizia al riguardo in Kolbe, /. c., 18.
8 Ibidem.
7 Ibidem, 19; più diffusamente O. Rousseau, L c., 67-91.
8 Kolbe, /. c., 20 ss.; Rousseau, l. c„, 111-126. Nell’ampia bibliografia relativa al «movimento
di Oxford » non ci risulta che finora vi siano studi che riguardino in modo specifico il rapporto
o il reciproco influsso tra il detto « movimento » e il « movimento liturgico » in atto sul con­
tinente.
9 Siamo all’epoca di personalità come J. de Maistre, Chateaubriand, Lamennais, Montalem-
bert, Lacordaire e Ozanam.
16 introduzione

A proposito degli elementi strutturali dell’epoca restaurazionista, A. L.


Mayer afferma che « essi non erano ancora tali da introdurre nell’intimo
della Liturgia... Quel che infatti interessa non sono questi stessi valori sin­
golarmente presi, ma soprattutto Patteggiamento religioso-cultuale nel suo
insieme, che proprio in quel tempo (come del resto avveniva per la cultura)
sembra aver trovato nella massa dei fedeli in misura sempre maggiore la
sua forza portante e dinamicamente orientata. Orbene, per quanto riguarda
la natura e il contenuto più intimo e profondo della Liturgia, la sua centralità
con finalità comunitaria e la sua universalità spirituale, questa massa eccle­
siale sta di fronte ad essa in una specie di solenne assenteismo, fatto di ri­
spetto o di intimo desiderio e forse anche di un certo interessamento, ma
come si sta di fronte ad una c< azione ufficiale e burocratica ” , che si crede
dotata di un suo potere e di un suo significato, ma che non può essere vista
e sentita se non da lontano. E tutto questo, non ostante l’Illuminismo e
anzi forse proprio a causa dell’Illuminismo e delle sue tendenze apparente­
mente o anche realmente troppo democratiche, che si era portati a rigettare
in blocco » 1.
Ma naturalmente questa stessa epoca, soprattutto in forza della forma
scientifica e della fecondità dello storicismo, portava nel suo seno germi
validi per il prossimo futuro 123
. « In questo terreno culturale e in questa sfera
religiosa affondano le loro radici Dom Guéranger e la sua opera. Lo stori­
cismo... fa di lui un ricercatore e un divulgatore di antiche fonti religiose,
che per la loro originarietà e la loro forza saranno un valore per il presente
e per il futuro. In lui quella interiorità e profondità teologica, che già si
trovavano in J. A. Mohler e in Deutinger, si congiungevano così con l’entu­
siasmo romantico-storico e con il pensiero razionale-storico ; ed è da qui
e attraverso questo canale che prende l’avvio quella corrente sottile ma
ininterrotta che giunge fino ai giorni nostri, fino al risveglio della Chiesa
e della sua Liturgia nelle anime » 5.

I li il rinnovamento monastico come immediato punto


di partenza del movimento liturgico

Il movimento liturgico del nostro tempo trova la sua preparazione, la


sua forza portante e i suoi primi tentativi di realizzazione negli ambienti
monastici, e soprattutto a Solesmes (Francia) con l’abate Guéranger e a
Beuron (Germania) con i due fratelli monaci Mauro e Placido Wolter.
A tutta prima si tratta di un semplice dato di fatto, anche se esso natu­
ralmente ha, per chi lo guarda in profondità, un suo senso ben preciso. Sta
infatti a indicare per se stesso un orientamento determinato, il quale pur
con i suoi limiti negativi, esprime in misura ben maggiore ricchezza e
vitalità. Dove infatti, se non in ambienti di questo tipo, il delicato ger­
moglio di una nuova mentalità liturgica avrebbe potuto trovare il suo primo
e valido riparo se non nel chiuso ambito contemplativo del monacheSimo?

1 A. L. Mayer, Liturgie, Aufklànmg..., 137, rispett. 306.


2 Ibidem, 139, rispett. 308.
3 Ibidem, 140 ss., rispett. 309 ss.
17 il movimento liturgico: panorama storico e lineamenti teologici

Il secolo xix era stato qualificato, con un termine molto appropriato


come « il secolo privo di grazia » 1, in quanto secolo del romanticismo sel­
vaggio e naturalistico, della restaurazione storicistica, della tecnica e della
macchina, del liberalismo e delPateismo. In questo tempo in cui stranamente
si intrecciano tutte le tendenze: quella della reazione contro ogni desiderio
di riforma, soprattutto se proveniva dall’Illuminismo; quella dell’entusia­
stica ammirazione per le tradizioni che ci venivano dal buon tempo antico,
come poteva essere il Medioevo e anche il Barocco; quella restaurazio-
nista che, in una stanchezza priva di ogni creatività, tende solo all’imitazione,
si assiste ad un fatto: Nella celebrazione liturgica il popolo «ancora una
volta è in una maniera più voluta che mai viene respinto al ruolo di sem­
plice spettatore... » 2, per essere lasciato a se stesso in una pietà a netto sfondo
individualista, mentre il prete, anch’egli solo con se stesso, « legge » la sua
Messa o « fa » la solenne funzione-spettacolo. C ’è da stupirsi veramente
che, sia pure in ambienti piccoli e ristretti, si arrivasse a celebrare una Li­
turgia che era viva non ostante tutte le sue limitazioni.
Un rinnovamento del monacheSimo benedettino al secolo xix non è
pensabile senza Prospero Guéranger (1805-1875), fondatore e primo abate
di Solesmes. « I meriti di dom Guéranger per quanto riguarda il risorgere
dell’antico spirito monastico sono imperituri. In un tempo infatti nel quale
gli elementi fondamentali del monacheSimo benedettino erano quasi scom­
parsi dalla memoria, egli li ha visti e proposti con una chiarezza che si po­
trebbe dire addirittura carismatica » 8. Orbene uno degli elementi, che egli
riscopriva come essenziali per una vita contemplativa, quale è quella mo­
nastica, era appunto la Liturgia e precisamente la Liturgia nella sua forma
romana.
Da spirito infuocato qual era, tutto questo il Guéranger lo ha visto, predi­
cato e spinto con vigore in avanti, naturalmente al modo connaturale al suo
tempo. Venendo dall’ambiente del Lamennais, al quale era profondamente le­
gato, egli era un nemico dichiarato di ogni forma di gallicanesimo, e, vedendo
nell’unità liturgica con Roma la premessa indispensabile per ogni vera vita
ecclesiale, combattè, spesso con una unilateralità cieca, non solo le Liturgie
cosiddette neo-gallicane, ma anche ogni piccolo residuo proveniente dalla
antica e veneranda tradizione gallicana. In una parola: Era — come si di­
ceva allora — un « ultramontano », e tale quale non si sarebbe potuto
desiderare di più dichiarato negli anni precedenti il primo concilio Vaticano
del 1870, e cioè un « ultramontano » con tutte le sue debolezze, ma anche
con tutti i suoi lati positivi, considerata la situazione storica del momento.
In questo contesto storico-spirituale egli si è reso, e sin dal primo mo­
mento, altamente benemerito della Liturgia, come si può vedere già nel
1830 nelle sue Considérations sur la liturgie catholique apparse nel Memorial
catholique Lamennais4, e nei volumi, pubblicati a cominciare dal 1840, delle
sue Institutions liturgiques, che assumono una forma a mano a mano più

*È il titolo di un breve scritto retrospettivo del Mayer (1948), citato nel suo più ampio
studio: Die Stellung der Liturgie voti der £eit der Romantik bis zur Jahrhundertwende, in A Lw 3, 1, 1954,
1 e rispett. in Die Liturgie..,, 311.
2J. A. Jungmann, Missarum sollemnia, I, 4a ed. tedesca, 209.
3 St. Hilpisch, Geschichte des benediktiniscken Mónchtums, Freiburg 1929. 369-373, in partico­
lare, 372.
4 Cfr. (P. Delatte) Dom Prosper Guéranger, I, Le Mans 1909, 54 ss.
18 introduzione

polemica e dura1. A proposito di quest’opera nessuno certo ne potrà ne­


gare i limiti e le impostazioni unilaterali; ma ciò non ostante troviamo in
essa ben delineato un autentico programma per un rinnovamento e un ri­
torno liturgico. « Se questo nostro libro, richiamando l’attenzione di coloro
che hanno la missione di vegliare sulle Chiese, contribuisse, anche pochis­
simo, a frenare degli abusi molto grandi e a preparare, in qualche modo,
un ritorno ai principi validi, in ogni secolo, in materia liturgica, sarebbe il
nostro un crimine tanto grande ? » 12. Del resto nulla più delPesoterismo gli
è alieno e infatti — egli scrive — « lo scopo principale del suo libro è
quello di iniziare i più giovani dei nostri fratelli allo studio dei misteri del
culto divino e della preghiera: due cose che devono costituire il principale
nutrimento della loro vita », e per questo — continua a dire il Guéranger
— « abbiamo pensato di pubblicare, oltre queste Institutioiis... anche un
Année liturgique, volume destinato a porre i fedeli in grado di avvantaggiarsi
degli immensi aiuti che la comprensione della Liturgia, nel susseguirsi dei
tempi dell’anno ecclesiastico, offre alla pietà cristiana » 3.
Di questa, giustamente famosa opera del Guéranger, che va appunto
sotto il nome preannunziato di « Anno liturgico », apparve il I volume
(Avvento) nel 1841, e la prefazione generale dell’opera, anche se scritta
parecchio nello stile romantico del tempo, resta ancor oggi una « magna
charta » di autentico spirito liturgico 4.

L ’opera del monastero di Solesmes ebbe importanza decisiva anche per


la fondazione monastica tedesca di Beuron, anche se i suoi fondatori, i
due fratelli Mauro e Placido Wolter, affondano le loro radici in un terreno
culturale diverso 5*. È certo però che fin dalla sua fondazione (1863) il mona­
stero di Beuron era profondamente determinato da Solesmes fl, e così ridare
a fianco della Regola, anche alla Liturgia il posto centrale « nell’ascesi del
monaco e nella vita stessa del monastero » 78, fu la ragione d’essere della grande
opera di Mauro Wolter dal titolo Elementa monastica 8 e dell’altra opera di
commento ai Salmi, in più volumi, Psallite sapienter9.
Anche a Beuron, non meno che a Solesmes, resta determinante un’asso­
luta ammirazione per il carattere classico della Liturgia romana e la vo­
lontà — al momento certo non contestabile — di mantenerla racchiusa
nei limiti del monastero, ma con l’intento che essa vi sia vissuta fino a de­
terminarne la vita. A questo proposito però Mauro Wolter, allontanandosi in

1 Ibidem, 259 ss.


2 P. Guéranger, Institutions liturgiques, I. Le Mans 1840, X II.
3 Ibidem, X X -X X I.
4 II giudizio così aspro e negativo che sul Guéranger pronunzia L. Bouyer, La vie de la Li­
turgie, Paris 1956, 26-28 è da ritenersi ingiusto e unilaterale, perché non tiene conto del molto
valido e duraturo che l’opera del Guéranger contiene, anche se l’impostazione è talvolta discutibile.
Cfr. i giudizi più sfumati di Jungmann, /. c., 210 ss.; Kolbe, 1. c., 22; e soprattutto Mayer, Die
Stellung..., 66 ss., rispett. Die Liturgie..., 376 ss. ; Rousseau, l. c., 1-43. Sul Guéranger stesso cfr.,
oltre Delatte, 0. c F. Cabrol, in DAG L 6, 1875-1879; lo studio critico di E. Sevrin, Dom Gué­
ranger et La Mennais. Essai de critique historique sur la jeunesse de Dom G., Paris 1933 (vedere anche
la recensione di A. Schnuetgen, in JLw 13, 1935, 442-444); A. Manser, in L T h K 4, 1932, 732 ss.;
A. Nocent, in L T h K 4, i9602, 1263; A. Genestout, in EncCatt 6, 1951, 1226-1227.
5 Cfr. P. Wenzel, Der Freundeskreis um A. Gùnther und die Gründung Beurons. Ein Beitrag zur Geschichte
des dt. Katholizismus im /9. Jahrhundert, Essen 1965.
0 Ibidem, cfr. inoltre, Hundert Jahre Beuron, Beuron 1963.
7 St. Hilpisch, /. c.y 383.
8 M. Wolter, Praecipua ordinis monastici dementai Bruges 1880.
9 Idem, Psallite sapienter, 5 voli., Freiburg 1871-1890.
19 il movimento liturgico: panorama storico e lineamenti teologici

qualche modo dall’indirizzo solesmense soprattutto per quel che riguardava


la sua posizione sulla questione dell’attività pastorale dei monaci, non vo­
leva che « la vita liturgica si restringesse al coro, ma penetrasse di santità
tutta la vita nel suo complesso » L
La fiorente vita di Beuron e delle sue fondazioni — dovute in parte
anche alla pressione del « Kulturkampf » sviluppatosi in Germania — che
portarono il suo monacheSimo in Belgio (Maredsous), in Cecoslovacchia
(Emaus-Praga) e in Austria (Seckau), rappresentò dappertutto, sia pur sempre
nel quadro delle possibilità di allora, una forte spinta verso una mentalità
liturgica, le cui componenti erano: la riscoperta di un’autentica celebrazione
eseguita all’onore di Dio, la grande cura per un apprezzabile canto grego­
riano e lo sforzo di dar vita ad un’arte sacra di forte espressività 12.
Ma ciò non ostante, « tutto questo — sia pure in aggiunta ad altro che
si potrebbe dire — non deve sviarci al punto di scorgere quel tempo come
l’epoca di un “ movimento liturgico Infatti tutto questo non ha lasciato
il suo segno di riconoscimento su quel tempo, ed è rimasto anzi un fatto
sporadico, teorico e, almeno al momento, inefficace » 3, anche se si comin­
ciano a individuare dei centri liturgici e se escono pubblicazioni importanti
(nel 1882 il Missel des fidèles di dom G. Van Caloen, monaco di Maredsous
e nel 1884 la I edizione del tedesco Messbuck di A. Schott, monaco di Beuron).
Anzi si vede comparire perfino la denominazione di « movimento liturgico »
nell’edizione tedesca (1894) del « Vesperale» fatta dal suddetto A. Schott.
Ma, ripetiamo, « questo non ci deve trarre in inganno. Tutto quello —
ed era molto — che allora si faceva e si progettava, si attuava e si pub­
blicava, era — e dappertutto — nulla più che preparazione del terreno
e semina, nulla più che un periodo di incubazione e di preistoria,... anche
se senza questa “ preistoria ” , che oltretutto non si mosse sempre in una
linea rigidamente ascendente, non sarebbe pensabile il “ rinnovamento litur­
gico ’ ’ posteriore » 4 .

IV la nuova idea di Chiesa

Il movimento liturgico dei nostri giorni prende il via in realtà molto


più tardi. Anton L. Mayer ha magistralmente dimostrato che il suo inizio
è caratterizzato da due coordinate: ecclesiale l’una e culturale l’altra5.
Di tali coordinate quella decisiva è data dal mutamento nell’idea di Chiesa.
« Il movimento liturgico è cominciato in una ben determinata situazione
storica, e cioè quando i cattolici, e più precisamente i laici, cominciando a

1 St. Hilpisch, L c., 382.


2 Le maggiori realizzazioni si ebbero in quella che fu chiamata « Beuroner Kunstschule »,
la cui più matura opera si trovava a Monte Cassino, e che purtroppo andò distrutta nei suoi
pezzi migliori nel bombardamento anglo-americano subito dal monastero nel febbraio del 1944.
La nostra diversa sensibilità stilistica moderna (cfr. gli apprezzamenti di Bouyer, L r., 35 ss.),
non devono farci dimenticare quanto sia stato stimolante lo sforzo artistico di Desiderius Lenz
e della sua scuola beuronese. Cfr. in proposito: Maurus Wolter zum 100. Geburtstag; Hundert Jahre
Beuron; I. Herwegen, Lumen Christi, 91-106, Miinchen 1924; e soprattutto M. Dreesbach, P.
Desiderius Lenz. Theorie und Werk> Miinchen 1956.
3 Mayer, L c., 76, rispett. 386.
4 Idem, Die geistesgeschichtliche Situation..., nota 2, 44 ss., rispett. Die Liturgie.... 431 ss.
5 Ibidem, 45, rispett. 432.
20 introduzione

sottoporre ad un esame i legami che univano la loro esistenza, concreta di


spazio e di tempo, alla Chiesa e alla gerarchia, poterono, nel far questo
esame, riconoscere e differenziare le istanze religiose, essenziali, assolute e
assolutamente vincolanti insite nell’idea di Chiesa dalle istanze culturali,
temporalmente condizionate e relative, che sono solo espressioni di un’epoca
storicamente passata ». Ancora: « Il movimento liturgico è cominciato
quando il cattolicismo e i cattolici del secolo xix, uscendo dall’atteggia­
mento di difesa della posizione giuridico-organizzatrice che avevano in seno
al tempo moderno, poterono riprendere nuovamente coscienza dell’orga­
nismo che, in senso vero e proprio, erano, e insieme deH’interiorità di esso»1.
Il Mayer, che ha appunto seguito, in numerosi e importanti studi, il mu­
tarsi dell’idea di Chiesa attraverso i tem pi12, così vede in questo contesto
l’importanza del movimento liturgico:
« Quando ormai l’idea di Chiesa del secolo xix, che era poi quella di
una Chiesa sociale, organizzatrice e pedagogica, aveva esaurito la propria
vitalità, fu appunto il movimento liturgico quello che contribuì in maniera
decisiva e profonda a creare una idea nuova della Chiesa. E questo avvenne
nel senso che agli uomini liberati dalle strutture fittizie delle passate conce­
zioni il movimento liturgico presentava non un nuovo volto della Chiesa,
ma un volto restato per troppo tempo in ombra; cercava infatti di avvici­
narli il più possibile a quello che la Chiesa era nella sua natura più profonda,
e cioè al suo essere sacramentale e alle sue celebrazioni liturgiche, mentre
insegnava loro che la Chiesa è il £<corpo mistico ” di Cristo, ossia il mistero
del Cristo che continua la sua esistenza umana. E di questa nuova comunità
ecclesiale riscoperta nei circumstantes, che sono appunto i partecipanti alla
celebrazione, punto centrale è nuovamente l’altare»3.
Questo nuovo atteggiamento interiore sarà ormai il terreno pronto a
ricevere tutto quello che — anche come frutto del lavoro di preparazione
fatto da Solesmes, da Beuron e da altre forze — avverrà, a cominciare dalle
riforme del papa S. Pio X in materia di riforme di vita eccclesiale e spe­
cialmente liturgica4, fino al progressivo estendersi di queste idee a sempre
più vasti ambienti.

V gli inizi del movimento liturgico

I primi e decisivi passi in questa nuova linea si fecero soprattutto in


Belgio, ed erano passi che, provenendo dall’ambiente monastico di Maredsous
e di Mont-César (Lovanio), ebbero la ventura di far incontrare un mo-

1 A. L. Mayer, Liturgie und Laientum. Wiederbegegnung von Kirche und Kultur in Deutschland. Fest-
schrift für K. Muth, 1927, 225; cfr. nota 2, p. 17, l. c., rispett. 432.
2 Idem, Der Wandel des Kirchenbildes in der abendlàndischen Kulturgeschichte, in « Liturgie und
Mònchtum » 17, 1955, 50-64, rispett. in Die Liturgie..., 439-453.
3 Idem, Die geistesgeschicntliche..., .1.5 ss., rispett. Die Liturgie..., 432 s.
4 Si tratta prima di tutto del celebre Motu proprio Tra le sollecitudini (1903), del decreto sulla
comunione frequente (1905) e della Costituzione apostolica Divino afflatu sul nuovo salterio del
Breviario romano (1911), che molto significativamente si chiude con le parole: « ... nemo non videt
per ea, quae a Nobis decreta sunt, primum nos fecisse gradum ad Romani Breviarii et Missalis emendationem ».
Cfr. A. Bugnini, Documenta pontificia ad instaurationem liturgicam spectantia, I, Roma 1953, 10-26;
35 - 3 8 ; 47 - 50 -
21 il movimento liturgico: panorama storico e lineamenti teologici

naco di marcata personalità, quale era dom Lambert Beauduin con un


mondo cattolico laico entusiasticamente disposto come era quello rappre­
sentato dalla nobile figura di Godefroid Kurth 12. E di questo incontro, fe­
lice momento creativo, noi conosciamo il giorno e Fora: era il 23 settembre
1909, durante il Congrès national des ceuvres catholiques. È qui infatti — caso
oltremodo raro — che « si può fissare se non proprio Finizio, certamente
però il momento fortunato nel quale il movimento liturgico cessa di essere
una corrente, per così dire, sotterranea, e all’improvviso si apre una via in
superficie, mostrandosi di colpo visibile e riconoscibile agli occhi di tutti » 3.

Si può ben dire che tutto quello che seguì (fino quasi allo scoppio della
prima guerra mondiale), altro non fu che il conseguente sviluppo di quel
fortunato inizio, che si affermava con una forte attività nel Belgio con l’in­
staurarsi delle sempre più famose « Semaines et conférences liturgiques »
promosse dai monaci di Mont-César 4 e con il sorgere delle grandi riviste
liturgiche 5.
Il movimento si estende alla Germania, dove s’incontravano, in un ana­
logo felice momento, la ricchezza della vita monastico-liturgica del bene-
dettinismo beuronese con un atteggiamento di aperta disponibilità da parte
dei laici, soprattutto dell’ambiente universitario, che si ritrovano, prima
in un piccolo gruppo, a Diisseldorf nel 1912 6, e poi nel 1913 e 1914, in vere
e proprie giornate liturgiche, durante la settimana santa nell’abbazia di
Maria Laach (Renania), e in esse incontriamo nel 1913 nomi divenuti poi
famosi, come Robert Schuman (Metz) che sarà un giorno capo del governo
in Francia; Heinrich Brüning, anch’egli in seguito cancelliere della Ger­
mania; Paul Simon, futuro preposto capitolare del duomo di Paderborn,
e Hermann Platz, che sarà poi professore all’università di Bonn 7.

1 Cfr. A. Haquin, Dom L. Beauduin et le renouveau liturgique, Gembloux 1970; L. Bouyer, Dom
L. Beauduin, un homme de l'Eglise, Paris 1964.
2 Cfr. B. Fischer, Das « Mechelner Ereignis » vom 23 Sept. igog. Ein Beitrag zur Geschichte der
liturgischen Bewegung, in « Lit. Jahrbuch » 9, 1959, 214, nota 45.
3 Ibidem, 203. Sullo stesso avvenimento cfr. Q LP 40, 1959, 195-251; Th. Bogler, Liturgische
Bewegung nach 50 Jahren, in «Liturgie und Mònchtum » 24, 1959.
4 La prima «settim ana» ebbe luogo nel 1912; le lezioni furono pubblicate ogni anno, a co­
minciare dal 1913, in volumi successivi, dal titolo: Cours et conférences des semaines liturgiques, Mont-
César, Louvain.
5 La Vie liturgique (Mont-César, Louvain) dal 1909 al 1913; con lo stesso titolo, ma come « Bol­
lettino interdiocesano » ricomparirà dal 1924 al 1939. L*5 Qwsiions liturgiques (Mont-César, Louvain)
dal 1910 al 1918, per poi trasformarsi in Questione liturgiques et paroissiales (1919-1969) e ritornare
poi a Questione liturgiques a cominciare dal 1970. Revue liturgique et bénédictine (Maredsous, Namur)
dal 1911 al 1914, che riprenderà a uscire dal 1919 al 1939 come Revue liturgique et monastique. Bui-
letin paroissial liturgique (St. André, Bruges) dal 1919 al 1945, che continuerà poi col nome di Pa-
roisse et Liturgie dal 1946... Tijdschrift voor Liturgie (Abbazia di Affligem) per la parte fiamminga del
Belgio, ininterrottamente dal 1911.
6 Cfr. B. Ebel, Ausgangspunkte und Anliegen der religiósen liturgischen Erneuerung in ihren Anfàngen,
in « Liturgie und M ònchtum» 24, 1959, 27. Quel che qui vien detto si basa sulle riflessioni di
uno dei partecipanti al convegno : H. Platz, Erste Begegnung mit Aiaria Laach. Ein Beitrag zum Beginn
der lit. Bewegung in Deutschland, in « Liturgisches Leben » 1, 1934, 276-284.
7 Brüning e Schuman sono personaggi universalmente conosciuti. R. Schuman si richia­
mava ancora nel 1959 espressamente a quegli inizi lontani in una sua lettera, cfr. in « Liturgisches
Jahrbuch» g, 1959, 194. Il rev. Simon, meno noto all’estero, amico e consigliere di Brüning, restò
sempre una delle personalità di primo piano nel cattolicesimo tedesco tra le due guerre. H. Platz,
esponente di alta sensibilità della cultura francese all’università di Bonn, si rese molto benemerito
della riconciliazione franco-tedesca. Per gli avvenimenti del 1913-1914, cfr. Ebel, l. c.
22 introduzione

VI il movimento liturgico tra affermazioni e contrasti

È appunto in questo tempo che si assiste alla prima grande « crisi »,


polarizzatasi attorno alla discussione cui aveva dato origine dom M. Fe-
stugière, con un suo interessante saggio dal titolo La liturgie catholique *, solle­
vando una violenta opposizione da parte di coloro che si volevano mante­
nere nelle antiche posizioni12 e provocando insieme la magistrale sintesi
conclusiva di dom L. Beauduin con il suo scritto su La piété de VEglise3. Lo
scoppio della prima grande guerra pose fine alla polemica; ma questa aveva
mostrato con la repentinità di un lampo come in quelle aspirazioni liturgiche
vivesse un nuovo spirito e a quali conseguenze esso poteva e doveva condurre
nel volgere del tempo4. Tutto sommato però, neppure la guerra fu in grado
di arrestare il movimento.
Mentre esso continuava a espandersi e svilupparsi in Belgio, in Germania
va assumendo proporzioni sempre più vaste facendo convergere, sempre al
momento giusto, in incontri altamente significativi, nuove correnti e nuovi
uomini.
NelFabbazia di Maria Laach, nelFintento di organizzare e di iniziare
una triplice opera, si ritrovano uniti l’abate I. Herwegen e i suoi monaci
K . Mohlberg e O. Casel, con il giovane sacerdote italo-tedesco R. Guardini
e i professori Fr. J. Dolger e A. Baumstark 5, e così già nel 1918 hanno inizio
le tre collane: Ecclesia orans, Liturgiegeschicktliche Quellen e Liturgiegeschichtliche
Forschungen 6. Nel 1921 prenderà il via, con il suo primo volume, lo Jahrbuch
fiir Liturgiewissenschajt7.
Questa stretta collaborazione di scienza e di intendimenti pastorali è
stata a lungo determinante per Fattività liturgica in Germania, e certamente
non fu un danno, anche se in un primo momento poteva apparire come una

1 M. Festugière, La Liturgie catholique. Essai de synthèse suivi de quelques déieloppements, in « Revue


de Philosophie » 1913, 692-086, e poi come libro a parte (ed. Maredsous 1913).
2 Primo protagonista della polemica: J. Navatel sj., Uapostolat lilurgique et la piété personnelle,
in « Etudes » 137, 1913, 476 ss.
3 L. Beauduin, La piété de VEglise. Principes et faits, Louvain 1914.
4 Sulla controversia una buona bibliografia in H. Schmidt sj., Introductio in Lilurgiam occiden­
talem, Romae i960, 88-90; R. Guardini, Das Objektive im Gebetsleben. Z u Festugières « Liturgie ca­
tholique», in JLw 1, 1921, 117-125; C. Vagaggini, Problemi e orientamenti di spiritualità biblica, mona­
stica e liturgica, Roma 1961, 504-512.
5 Sul primo stadio prevalentemente scientifico di questa collaborazione, cfr. K . Mohlberg,
Die Aufgaoen der liturgischen Forschung in Deutschland. Vorschlàge u. Anregungen, in « Theol. Revue »
17, 1910, 145-151. M a con la fondazione della collana «Ecclesia orans», che si presenta con il
suo primo volume di R. Guardini, Vom Geist der Liturgie, si passa direttamente all’aspetto pasto­
rale anche se caratterizzato soprattutto dalla visuale teologica.
6 La collana «Ecclesia orans», diretta dall’abate I. Herwegen, esce nel 1918 con il volume
del Guardini (v. nota precedente), che diventa come « l’araldo » di tutto il movimento liturgico
in Germania. La collana per le edizioni delle fonti: « Liturgiegeschichtliche Quellen », sotto la
direzione di K. Mohlberg-A. Riicker, uscì con il suo primo volume K . Mohlberg, Das frànkische
Sacramentarium Gelasianum nel giugno 1918; la collana parallela « Liturgiegeschichtliche Forscnungen »
esce sotto la direzione di Mohlberg-Fr. J. Dolger con il volume K. Mohlberg, Z ^ 6 und Aufgaben der
liiurgiegeschichtlichen Forschung nel giugno del 1919. Le due collane insieme si arricchirono fino al
1939 di ben 31 volumi; passate poi sotto la direzione di O. Heiming, con l’unica denominazione
di « Liturgiewissenschaftliche Quellen und Forschungen», hanno raggiunto, nel 1973, il numero
di 58 volumi.
7 Edito sotto la direzione di O. Casel, in collaborazione con A. Baumstark e R. Guardini;
quest’ultimo però si ritirò già dopo il II volume e gli subentrò come condirettore A. L. Mayer.
Nell’imponente complesso dei 15 volumi pubblicati fino al 1941 spiccano soprattutto gli studi
di Casel, che vi presenta su basi scientifiche la sua concezione del mistero cultuale, ossia della pre­
senza misterica dell’opera della salvezza nelle azioni del culto. Allo «Jahrbuch fiir Liturgie-
wissenschaft » successe sotto la direzione di più giovani confratelli di Casel (prima H. Emonds,
poi E. v. Severus), dal 1950, lo « Archiv fiir Liturgiewissenschaft », che esce con 2 volumi all’anno.
23 il movimento liturgico: panorama storico e lineamenti teologici

limitazione in vista di un'influenza a più largo raggio. Volutamente infatti


ci si era decisi a rivolgersi prima di tutto al clero e aH’ambiente colto, non
certo allo scopo di tenere gli altri lontani dalla Liturgia, ma solo perché
quelli erano immediatamente raggiungibili, non per ultimo grazie all’opera
lungimirante dei monsignori F. X. Miinch e Landmesser e della loro « As­
sociazione degli universitari cattolici » (« Katholischer Akademiker-Ver-
band ») L
Ma presto altri ambienti si aprono, soprattutto grazie al « movimento
giovanile » 12, in particolare a quello del « Quickborn », che partiva con
Guardini dalla Burg Rothenfels 3 e, in seguito, a quello della « Associazione
giovanile maschile » di Mons. W olter4. Quei primi dieci anni furono in­
dubbiamente anni di ricchissima esperienza, di movimentato sviluppo e di
grandissime speranze. Accanto alle forme solenni della Liturgia classica,
che veniva celebrata in maniera così avvincente nelle grandi comunità mo­
nastiche, facevano capolino già allora nuove forme, e tra esse specialmente
quella della cosiddetta «Messa comunitaria» (Gemeinschaflmesse), nella
quale, in pieno rispetto del diritto liturgico vigente, ma anche valorizzando al
massimo le possibilità che essa dava, si poteva realizzare una vera partecipa­
zione attiva dei fedeli, che erano, naturalmente, prima di tutto i giovani stessi5.

Certamente questa breve panoramica non esaurisce affatto la grande


quantità di lavoro, che veniva fatto dappertutto con fervore e vivacità da
eminenti teologi, da pastori d’anime aperti alle nuove prospettive e final­
mente anche da comunità parrocchiali più attive. Ma qualcuna di quelle
figure merita di essere particolarmente ricordata.
Ricordiamo così, al primo posto, Pio Parsch dei canonici regolari di
Sant’Agostino a Klosterneuburg in Austria (1884-1954) 6. Sollecitato dalle
istanze programmatiche del movimento liturgico anteriore alla prima guerra
mondiale, ma felice allo stesso tempo di potersi richiamare in modo speciale
al pensiero teologico-liturgico di Maria Laach e particolarmente a quello
di O. Casel, egli si propose di fare un apostolato dichiaratamente « litur-
gico-popolare ». E vi riuscì in modo felicissimo, arrivando ad esercitare,
attraverso una ricchissima opera letteraria, un’influenza molto vasta e pro­
fonda non solo nei paesi di lingua tedesca, ma anche in altri paesi, sia con
il suo Das Jahr des Heiles} un « Anno liturgico » di commento al messale e
al breviario, che a cominciare dal 1923 si andò ogni anno arricchendo, sia

1 Quest’associazione, che sotto la guida di Miinch e Landmesser ebbe un posto molto impor­
tante nella vita spirituale del cattolicismo tedesco tra le due guerre, offriva allo stesso tempo e l’am ­
biente e lo sfondo nel quale si poteva sviluppare a suo agio la spiritualità liturgica, che trovava
la giusta maturità propria di cattolici intellettualmente e spiritualmente più formati.
2 Cfr. in proposito il pregevole studio di F. Heinrich, Die Blinde katholischer Jugendbewegung.
Ihre Bedeutung für die liturgische und eucharistische Erneuerung, Miinchen 1968.
3 Qui si raccoglieva R. Guardini con il suo gruppo per organizzare praticamente delle ce­
lebrazioni liturgiche, soprattutto in occasione delle grandi solennità.
4 L. Wolter ha il merito sia di aver meglio attivizzato in genere le « Associazioni giovanili »,
sia soprattutto di averle interessate sul piano liturgico, creando così una punta di penetrazione
in più vasti ambienti giovanili.
5 Cfr. B. Neunheuser, Die « Krypta-Messe » in Maria Laach. Ein Beitrag zur Frùhgeschichte der
Gemeinschaftsmesse, in «Liturgie und Mònchtum » 28, 1961, 70-82. Analoga relazione, ma nello
stile del tempo, si trova in Placidus (pseudonimo), Maria Laach: eine Stàtte deutscher Geschichte und
urkirchlichen Lebens, in « Bibel u. Liturgie» 12, 1938, 364-368; in forma più sobria in Münster am
See, Bonn 1948, 231-234 (B. Neunheuser).
6 Sulla persona e opera del Parsch manca ancora un’informazione completa. Cfr. tuttavia,
al momento: L T h K 8, 19632, i n (N. W. Hòslinger); in « Lit. Jahrbuch » 4, 1954, 230-236:
F. Kolbe, Die liturgische Bewegung, 51-53.
24 introduzione

anche, dal 1926, con la sua rivista Bibel und Liturgie, per non citare altre
sue opere, delle quali molte restano ancora oggi valide. Nel 1950 egli
poteva così riassumere i grandi scopi del suo lavoro : « Riavvicinare gli strati
più semplici del popolo al culto della Chiesa, rendendo possibile soprattutto
ad essi una partecipazione attiva alla Liturgia », e — in secondo luogo —
« ridare la Bibbia in mano al popolo » 1.
Un’attività molto fattiva e — seppure non a largo raggio, almeno al
principio — molto intensa nell’ambito di comunità parrocchiali vive, fino
a estendersi poi oltre queste, fu intrapresa dai preti dell’Oratorio, prima a
Lipsia e più tardi anche a Monaco, a Francoforte e altrove. Molti di questi
oratoriani, e tra essi soprattutto Th. Gunkel, J. Gülden, H. Kahlefeld, K. Til-
mann, A. Kirchgàssner, hanno molto lavorato, anche nel campo del canto
liturgico, per dargli una forma degna e allo stesso tempo possibile per una
comunità parrocchiale. Certi libri di pastorale liturgica, come Volksliturgie
und Seelsorge, Parochia 12 e altri, di cui essi furono o gli autori o gli ispiratori,
al tempo della seconda guerra mondiale, furono per molti nutrimento e
mezzo per sostenere la propria interiore « resistenza ».
Intanto in questi stessi anni il movimento liturgico non cessa — seppur
lentamente — di estendersi sempre p iù 3. E anche se la cosa era molto
evidente prima in Belgio e poi in Germania, anche negli altri paesi non si
dormiva in questo campo. Così la Francia, alla quale riveniva il vanto di
aver dato la prima spinta al movimento, anche se non partecipò a tutta
prima su vasto piano alle iniziative del Belgio, aveva il merito di aver dato
vita a lavori scientifici di rilevante e sempre valido valore, come erano i
lavori dei monaci di Solesmes 4, le grandi pubblicazioni del tipo del Diction-
naire d’archeologie chrétienne et de liturgie56
, dei cataloghi dei manoscritti dei
libri liturgici del Leroquais89 , degli studi del Duchesne 7, del Batiffol8 ecc.
Né mancava allo stesso tempo l’impegno verso la valorizzazione sul piano
pratico degli stessi studi liturgici, come fanno fede le opere dell’abate F.
C abrold e dell’enciclopedia Liturgia di R. Aigran 10.

1 Parsch nella conferenza tenuta al congresso liturgico di Francoforte nel 1950 (cfr. J. Wagner-
D. Zaehringer, Eucharistiefeier am Sonntag, Treviri 1951, 183). Per il testo della conferenza, cfr. « JBibel
und Liturgie» 17, 1950, 329 ss.
2 Editi dal Éorgmann (edizioni Alsatia-Colmar). Di lui e di J. Rossé, il direttore responsa­
bile della Editrice « Alsatia », non sono stati purtroppo mai apprezzati abbastanza i meriti acqui­
siti nell’opera di resistenza dall’interno al deleterio spirito del momento (1940-1944); cfr.
P. Duployé, Les origines du Centre de pastorale liturgique 1943-1949, Mulhouse-Paris 1968.
3 Non è nostro compito descrivere qui dettagliamente la situazione del movimento liturgico
in tutto il mondo di allora. Un panorama buono per il tempo tra le due guerre si può avere dalle
relazioni del I Congresso universale di Liturgia, tenutosi ad Anversa nel 1930 (cfr. «Rivista Li­
turgica» 17, 1930, 209-216; 249-257; 298-300; 326-329; 356-358; ibidem 18, 1931, 107-111);
per il tempo seguente un primo sufficiente orientamento si può ricavare da Th. Bogler, Liturgische
Erneuerung in aller Welt, Maria Laach 1950.
4 Citiamo soltanto i 6 voli, di Cabro 1-Leclercq, Monumenta ecclesiae litur^icay 2 voli., Parigi 1900-
1913; Cagin, Te Deum ou Illatio?; Idem, Eucharistia; la monumentale Paleographie musicale, preziosa
premessa alle nuove edizioni critiche del Graduale romanum e àt\YAntiphonarium romanum, pubbli­
cati dai monaci di Solesmes e dichiarati edizioni « tipiche » sotto S. Pio X.
5 Pubblicato in 15 grossi volumi (1907-1953) da F. Cabrol-H. Leclercq.
6 V. Leroquais, ricercando nelle biblioteche pubbliche della Francia, ha raccolto: Les sacra-
mentaires et les missels manuscrits, 4 voli., Paris 1924; Les bréviaires manuscrits, 5 voli., Paris 1934;
Les pontificaux manuscrits, 4 voli., Paris 1937; Les psautiers manuscrits latins, 2 voli., Macon 1940-1941.
7 Dell’opera del Duchesne citiamo soltanto l’importantissimo volume delle Origines du culte
chre'tien. Etude sur la Liturgie latine avant Charlemagne, Paris 1889, (19255).
8 P. Batiffol, Lecons sur la Messey Paris 1916 (19208); tìistoire au bréviaire romainy Paris 1893
(19118).
9 Cfr., per es., il suo volume Le livre de la prióre antique, Paris 19004; La messe en OccidentyParis 1932.
10 R. Aigrain. Liturgia, encyclopédie des comíaissanees liturgiques. Paris 1931
25 il movimento liturgico panorama storico e lineamenti teologici

Di maggiore importanza, tanto sul piano teologico che su quello pasto­


rale, fu il movimento liturgico di quegli anni in Italia U E qui al primo
posto deve essere segnalata la Rivista Liturgica, che partendo, a cominciare
dal 1914, dal monastero benedettino di Finalpia (Savona), introduceva uffi­
cialmente e sosteneva, in Italia fazione del rinnovamento liturgico, verso
il quale si era già andata orientando l’attenzione di alcuni vescovi come
Marini di Norcia (poi di Amalfi) 12, Filippello di Ivrea3, Tasso di Aosta45 .
Voluta dalla tenacia e sostenuta dall’umile lavoro dell’abate BolognaniB,
la « Rivista Liturgica » ebbe la sua migliore affermazione ad opera di don
Caronti, suo primo direttore 6, e fu arricchita dagli studi di don I. Schuster
(futuro cardinale di Milano), che veniva pubblicando in essa quelli che
poi saranno i capitoli fondamentali della sua grande opera Liber sacramen­
torum 7. Tra gli altri pionieri non si possono dimenticare don Moglia di Ge­
nova, che fonderà l’opera àe\YApostolato liturgico soprattutto in vista di una
formazione liturgica dei ragazzi e degli adolescenti8; don Righetti, che
si dedica soprattutto allo studio scientifico9; don Tònolo famoso per le sue
iniziative liturgico-parrocchiali101; i salesiani don Grosso e don Vismara, che
ispirandosi prima a Solesmes e poi soprattutto al Belgio, avevano comin­
ciato un’intensa attività di rinnovamento liturgico nell’ambito del loro isti­
tuto, e che avrebbero potuto essere i veri iniziatori e portatori del movi­
mento in Italia, se una certa ristrettezza di visuali, purtroppo comune in
certi ambienti ecclesiastici responsabili specialmente in Italia, non li avesse
impediti u. Numerosissime saranno in Italia le pubblicazioni di propaganda
e le traduzioni dei libri liturgici1213.

Anche la Spagna farà sentire la sua presenza nel movimento liturgico,


sia con il lavoro scientifico sia con un’intensa attività di rinnovamento, che
farà capo soprattutto al monastero catalano di Montserratla.

1 Cfr. L. Andrianopoli, La rinascita liturgica contemporanea, Milano 1934, 27-34; S. Marsili, Storia
del movimento liturgico italiano, in O. Rousseau,. Storia del movimento liturgico, ed. Paoline, 1961, 263-
369; L. Andrianopoli, in Th. Bogler, Liturgische Erneuerung in aller [Velt, Maria Laach 1950, 73-81;
E. Cattaneo, Introduzione alla storia della Liturgia occidentale, Roma 19692, 418-431.
2 Gir. S. Marsili, /. c., 287-288.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Cfr. (dgm), D . Bonifacio AL Bolognani, in «Rivista Liturgica» 18, 1931, 131 ss.; S. Marsili,
I c.9 286.
6 E. Caronti, monaco dell’abbazia di Fraglia (Padova), poi abate a Parma, fu non solo il
primo direttore della Rivista Liturgica edita dall’abbazia di Finalpia (Savona), ma fu il maggiore
pioniere e divulgatore dell’idea liturgica in Italia. Oltre ad aver fondato e diretto per molti anni
il Bollettino liturgico, d ’intonazione più popolare della « Rivista Liturgica », pubblica La pietà litur­
gica, Torino 1920, Il sacrificio cristiano, 1922 e II messale quotidiano, Vicenza 1929.
7 I. Schuster, Liber sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul messale romano, 9 voli., Torino
1919-1928.
8 Cfr. S. Marsili, L c 297; 314; 318.
9 M. Righetti, La settimana santa, Monza 1915; Il ciclo liturgico natalizio, Monza 1916; Le ori­
gini della liturgia romana. Monza 1917; Il tempo pasquale, Monza 1919; Storia liturgica, 4 voli., M i­
lano 1944-1959.
10 Cfr. S. Marsili, /. c., 297 ; 308; 314 ecc.
11 E. M. Vismara, La partecipazione del popolo alla liturgia, Vicenza 1920. Sul Vismara, cfr. S.
Marsili, ibidem, 289; 297; St. Kuncherakatt, The Origins of thè Liturgical Renewal in thè Society of
St. Francis of Sales from its Founder till 1916, Roma 1971 (dissertazione dottorale presentata al Pon­
tificio Istituto Liturgico). Una rivalutazione postuma di don Vismara, all’interno dellTstituto sa­
lesiano, si ebbe con la pubblicazione voluta dai suoi confratelli: A. Cuva, Fons vivus. Miscellanea
liturgica in memoria di Don E. M. Vismara, Zurigo 1971.
12 S. Marsili, L c., 288; 298; 306-307; 316-320.
13 Cfr la relazione di A Olivar, più reticente del necessario, in Th. Bogler, /. c 82-90.
26 introduzione

Anche negli Stati Uniti d’America il movimento liturgico, trovato il


suo primo centro nel monastero benedettino di St. John (Collegeville), Min­
nesota h non tarderà a diffondersi e a trovare sostenitori12.
Ma non si può dire né si deve credere che tutto questo sviluppo sia av­
venuto sempre nella pace. Al contrario non mancarono all’interno della
Chiesa né discussioni né attacchi, e così si vedono vescovi che non di rado
si mostrano piuttosto scettici e riservati nei confronti del movimento litur­
gico in genere e più spesso ancora di fronte a certi suoi atteggiamenti, come
avviene, per es., a proposito delle « messe dialogate e comunitarie » 3 o
della celebrazione su « altari rivolti al popolo »; non accennava a diminuire
l’opposizione, in nome del metodo ignaziano, agli esercizi spirituali e ai ritiri
a sfondo e a tema liturgici. Ma la polemica di maggiore importanza e con
conseguenze però talvolta molto positive fu quella che si svolse, sia sul piano
della teologia che della spiritualità, intorno alla visione « misterica » della
Liturgia, come era stata proposta e difesa dal benedettino tedesco O. Casel4.
Questo discorso si svolgeva naturalmente soprattutto in Germania, dove
poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale alcuni scritti alta­
mente polemici condussero a situazioni critiche molto profonde. E ci rife­
riamo qui prima di tutto al volumetto di M. Kassiepe, Irrwege und Umwege im
Fròmmigkeitsleben dei Gegenwart5, che ebbe funzioni da fanale di orientamento;
ma poi anche all5altro libro di A. Doerner, Sentire curri Ecclesia 6, di minore
apparenza ma sostanzialmente più crudo. Ambedue questi scritti suscitarono
un allarme generale e furono sul punto di dividere in due tutto il clero, senza
distinzione di giovani e di anziani. Bisogna però dire che, tutto sommato,
l’aspro contrasto ebbe anche il suo lato buono, grazie anche alla riconosciuta
autorità di R. Guardini, che con il suo Ein Wort zur liturgischen Frage 7, scritto
in forma di lettera al vescovo di Magonza dell’epoca, con tono pacato ma
insieme da gran maestro ridimensionava tutto il problema.
E fu infatti proprio allora che, soprattutto in Germania, i vescovi comin­
ciarono a prendere in mano la direzione del movimento liturgico, stabilendo
un « gruppo liturgico » in seno alla Conferenza episcopale tedesca e creando
una « commissione liturgica » di esperti, rappresentanti dei diversi centri
liturgici operanti a Beuron, Maria Laach, Klosterneuburg e Lipsia8. Ma
1 Si deve qui ricordare prima di tutto la rivista « Orate fratres », iniziata dal benedettino Virgil
Michel di Collegeville. che con il 1951 cambia il titolo in « Worship ». Per il Michel cfr. P. B.
Marx, V. Michel and thè Liturgìcal Movement, Collegeville 1957.
2 Cfr. la relazione di H. A. Reinhold in Th. Bogler, L c., 104*114.
3 Cfr. la descrizione della visita di un cardinale a Maria Laach secondo B. Ebel in « Liturgie
und Monchtum » 24, 1959. 34 ss.
4 Cfr. Th. Filthaut, Die Kontroverse iiber die Mysterienlehre, Warendorí i. W. 1947 (ed. francese:
La ihéologie des mystères, Paris 1954). Un seguito si ha in B. Neunheuser, Mysteriengegenwart. Ein
Theologumenon inmitten des Gespràches, in ALw, 3, 1, 1953. 104-122; Idem, Ende des Gespràches um
die Mysteriengegenwart?, in ALw, 5, 2, 1938, 333*353 ; V. Warnach, Einfiihrung in die Theologie
0 . Caséis, in: O. Casel, Das christliche Opfermysterium (postumo), Graz 1968, X V I I - L V ; J. Plooij,
Die Mysterienlehre O. Caséis. Ein Beitrag zum Ókumenischen Gespiàch der Kirchen, Neustadt a. d. Aisch
1968; A. Gozicr, Dom Casel, Paris 1968. La controversia oggi è cessata e le posizioni di fondo
di Casel sono generalmente accettate, dopo che Io stesso Vaticano II le ha fatte in gualche modo
sue. Questo non toglie che la discussione sia ancora aperta soprattutto su aspetti particolari e
che se ne leggano oncora oggi delle critiche.
5 I a ed. Kevelaer 1939; 2a ed. Würzburg 1940. Cfr. in proposito Kolbe, /. c., 64-66.
6 Edito «come manoscritto» a München-Gladbach 1941. Cfr. Kolbe, Le., 69.
7 Questa « parola sul problema liturgico » si può leggere in R. Guardini, Liturgie und liturgische
Bildung, Würzburg 1966, 193-213. Resa pubblica dallo stesso vescovo destinatario, era stata ripresa
in francese già da LM D 3, 1945, 7-24.
0 Cfr. J. Wagner. Liturgische* Referat - Liturgische Kommìssion - Liturgischés Instituí, ir: « Liturgische?
Jahrbuch » 1, 1951, 8-14.
27 il movimento liturgico: panorama storico e lineamenti teologici

che anche così la situazione non si fosse del tutto normalizzata e calmata,
si rileva dallo scritto accusatore deH5arcivescovo Groeber di Friburgo (Ger­
mania), Beunruhigungen 1. E in realtà era proprio Roma, e precisamente il Papa
in persona, a volere che il movimento liturgico avesse un orientamento ben de­
terminato. Infatti nel gennaio 1943 i membri della Conferenza episcopale
tedesca ricevettero dal Nunzio pontificio la comunicazione, secondo cui
una commissione cardinalizia, allo scopo incaricata dal Papa, faceva pre­
senti le proprie preoccupazioni in vista delle novità liturgiche che si anda­
vano moltiplicando. Il testo della comunicazione suonava così: « La S. Sede,
preoccupata per certi pericoli che potrebbero incorrere la disciplina eccle­
siastica e la fede..., desidera ricevere dai vescovi notizie dettagliate sul mo­
vimento liturgico..., vuole che i vescovi accuratamente ricerchino che cosa
vi sia da promuovere in quello che il movimento liturgico ha di buono. Si
impediscano ulteriori discussioni su questi problemi, mentre la S. Sede as­
sicura di essere pronta a venire incontro ai vescovi in materia liturgica,
sempre che siano allontanati pericoli per la fede e per Punità della Chiesa... » 2.
Al documento il cardinale Bertram di Breslau rispose con un diffuso « pro­
memoria », che conteneva una decisa difesa del movimento liturgico 3.

Una prima, seppure generica, presa di posizione del Papa fu l’enciclica


Mystici corporis del 1943; e ad essa seguì una lettera del cardinale segretario
di Stato Maglione in risposta al « promemoria » del cardinale Bertram
(dicembre 1943), nella quale, pur con delle riserve, si dava atto della vali­
dità delle intenzioni del movimento liturgico4. Si ebbe infine nel 1947 la
enciclica Mediator Dei, nella quale si mescolano in uno strano modo rico­
noscimenti e rimproveri, nello sforzo molto evidente di rimuovere ogni pe­
ricolo di estremismo 5. A questo solerme documento pontificio si deve rico­
noscere il merito — pur non rispondendo a tutti i desiderata del movimento
liturgico e pur risultando oggi superato in molti punti dalla Costituzione li­
turgica del Vaticano II — di essere stato il primo riconoscimento ufficiale
dei valori del movimento liturgico a livello di Chiesa universale, diventando
così, di fatto, la « magna charta » del rinnovamento che esso intendeva por­
tare fl.
Alla promulgazione della Mediator Dei seguì in Germania un maggiore
coordinamento dei differenti centri di attività liturgica, fino ad arrivare
alla fondazione delVIstituto liturgico di T reviri7, la cui prima affermazione
fu il I Congresso liturgico tedesco tenuto a Francoforte nel 1950.12 7
6
5
4
3

1 Gir. Kolbe, /. c., 72-74; una traduzione francese in « La Pensée catholique» 5, 1948, 64-71.
2 Cfr. Kolbe, 1. r., 71 ss.
3 Ibidem, 75'79-
4 Ibidem, 80-84; v- testo originale della risposta romana in H. Schmidt, /. c.; 174-176 e in
A. Bugnini, l. c., 80 ss.
5 Cfr. in proposito B. Neunheuser, Der positive Sinn der pàpstlichen Grenzsetzung in der Enzyklica
Mediator Dei, in A. Mayer-J. Quasten-B. Neunheuser. Vom christlichen Mysterium. Düsseldorf 1951.
344-362.
6 Tipico per il « sì-ma-però » dell’Enciclica è la possibilità d’interpretazione offerta dal para­
grafo relativo all’anno liturgico. A una interpretazione massimalista in favore di Casel proposta
dall’abate B. Reetz sul « Klerusblatt » di Salisburgo si oppose, con lettera all’arcivescovo Rohracher
di quella città, il S. Officio, richiamandosi al senso letterale della Enciclica. Cfr. il testo del S.
Officio in Bugnini, L c., 167-169. B. Neunheuser, Mysteriengegenwart..., dimostra che il senso del
documento del S. Officio non è una condanna del Casel, ma solo un invito a maggiore chiari­
ficazione.
7 Cfr. Kolbe, /. c., 86 ss.; Wagner. Liturgisches Referat...-, Idem, Le mouvement liturgique en Al-
lemagne, in LM D 25, 1951, 75-82.
28 introduzione

Anche in Italia il movimento si rafforzò, riunendo le proprie file. Già


nel 1947, un mese prima dell’apparizione dell’enciclica Mediator Dei, la
Rivista Liturgica aveva gettato a Parma, in un ristretto convegno di amici,
le prime basi del Centro di azione liturgica (CAL), che nel 1949 fu presentato
a tutto l’episcopato italiano da una lettera circolare del suo presidente Ber-
nareggi, vescovo di Bergamo, e che, a cominciare dallo stesso anno, orga­
nizzò tutta una serie di Settimane liturgiche nazionali, con il dichiarato scopo
di approfondire la problematica liturgica alla luce della Mediator Dei sul
piano dottrinale e su quello pastorale h
Ma anche per altre vie che non quelle del supremo magistero papale
— e di queste non meno provvidenziali — il movimento liturgico mostrava
la sua capacità di penetrazione. Già infatti le difficoltà e le necessità della
seconda guerra mondiale, con i suoi campi di concentramento e di lavoro e
con la stessa persecuzione religiosa nazista, avevano rivelato la vitalità insita
in una Liturgia vissuta12; ma si era scoperto anche quale potere di superamento
dei confini nazionali le fosse proprio 3. In questo senso è di particolare im­
portanza il sorgere in Francia, nel 1943, del Centro di pastorale liturgica (CPL),
nel quale confluiscono uomini di spiccata personalità ed esperienza, prove­
nienti dal clero secolare e da quello regolare e animati da un fecondo dina­
mismo. Saranno essi infatti che daranno origine a iniziative preziosissime,
come la rivista La Maison-Dieu, presto assurta a fama mondiale, la collana
di studi Lex orandi, le Sessioni CPL e le Settimane nazionali di Versailles 4; il Con­
gresso liturgico di Lione (1947) fu il primo incontro, a nuovo livello e a
nuovo orientamento, tra i maggiori liturgisti di Francia e d’Europa 5.
È in nome della Liturgia che ormai spesso si troveranno unite Francia e
Germania, due nazioni troppo spesso nemiche tra loro, e dalla loro reciproca
collaborazione e comune azione nasceranno quegli incontri liturgici interna­
zionali, che acquisteranno importanza sempre maggiore a cominciare dal
1951: Maria Laach, Lovanio, St. Odilienberg, Lugano, Montserrat, fino
ad arrivare nel 1956 al grande I Congresso liturgico-pastorale di Assisi.
Anche questo congresso non poteva certo ignorare il passato lontano e
recente; ma sotto molti punti di vista esso fu veramente qualcosa di molto
nuovo. La folta rappresentanza della gerarchia, che dimostrava così quanto
grande fosse il suo interesse alla causa liturgica; la grandissima partecipa­
zione di vaste zone di interessati da tutte le parti del mondo; efinalmente

1 Cfr. Andrianopoli, in Th. Bogler, L i\. 77-81; S. M arsili, /. c., 339 ss.
2 Cfr. una relazione di vita vissuta in quei tempi: Rapports concernant les actiuités liturgique
Allemagne au cours de la guerre, in « Paroisse et Liturgie» 28, 1946, 261-269.
3 Questo « superamento di confini » è da intendersi non solo per quel che riguarda l’am­
bito direttamente cultuale (come, per es., quando accadeva che soldati tedeschi, non ostante le
proibizioni del regime nazista, celebravano l’Eucaristia con un prete polacco), ma come fatto
generale e di principio. Così avveniva, per es., che le linee di attuazione liturgica stabilite concor­
demente dai Vescovi della «Grande Germania», questi si impegnassero a osservarle anche in
seguito tanto in Germania che in Austria, quale che fosse stata la fine della guerra. Lo stesso « su­
peramento di confini » si riscontrava, per es., quando accadeva che preti francesi, che facevano
parte della resistenza, non rifuggissero dal prendere contatto, mentre ancora la guerra durava, con
i centri liturgici tedeschi: un esempio lampante in proposito fu quello del direttore delle « edizioni
Alsatia » di Colmar, J. Rosse e di altri alsaziani, che proprio sfruttando i vantaggi di abitare in
un territorio bilingue diventarono i mediatori dell’azione liturgica da un paese all’altro. Cfr.
Duployé, cit. nota 2, p. 22 (v. recensione in A Lw 11, 1969, 243 ss.).
4 La Maison-Dieu, fondata nel 1945, esce in fascicoli trimestrali; la Lex orandi, iniziata un
anno prima, si arricchisce continuamente di nuovi volumi.
5 La / settimana di Versailles sul tema: « I l giorno del Signore» fu tenuta nel 1948.
29 il movimento liturgico: panorama storico e lineamenti teologici

il fatto che il congresso fosse coronato dall’udienza di Papa Pio X II a Roma 1)


mentre mostravano la gratitudine per le grandi innovazioni e riforme litur­
giche degli ultimi anni (ripristino della «veglia pasquale» nel 1952 e la
conseguente riforma di tutta la Liturgia della settimana santa nel 1955),
mettevano in luce anche la ormai imprescindibile necessità di ulteriori
passi nello stesso senso. Si preparava infatti proprio ad Assisi, aprendole
la via, la grande riforma liturgica del Vaticano I I a.
Una tappa su questa strada, benché in senso certamente minore, nono­
stante rimportanza rivoluzionaria che sembrava assumere sul momento12 3,
fu il nuovo Codex rubricarum pubblicato nel i960.

V II il movimento liturgico entra nel Vaticano II

In un arco di tempo, che comprende all’incirca 50 anni, si era portato


avanti un grande lavoro, sia sul piano pratico delle realizzazioni e delle
possibilità, sia sul piano della riflessione teologica a proposito della natura
e del significato della Liturgia. Tutti coloro che s’interessavano di Liturgia
avevano, in tutte le direzioni, stretto legami tra loro in un succedersi di setti­
mane, di incontri e di congressi.
Questo stato di cose fece sì che il lavoro della Commissione liturgica
preparatoria, raccolta in vista del concilio Vaticano II, fosse così avanzato,
che lo schema relativo alla riforma della Liturgia non solo fu il primo ad
essere discusso in Concilio, ma poté presto trovare, a seguito delle discussioni
conciliari, la forma di una Costituzione liturgica, conosciuta dalle parole ini­
ziali come Sacrosanctum concilium (SC). Questa, rispecchiando molto bene
le idee fondamentali di una riforma in materia di Liturgia, quali erano state
viste dai Padri conciliari secondo la prospettiva che al Concilio era stata
proposta da Papa Giovanni X X III, era in grado di esprimere in maniera
quasi perfetta sia la dimensione teologica della Liturgia, sia le attuazioni
pratiche in vista della sua riforma.
Approvata e promulgata da Papa Paolo V I il 4 dicembre 1963, la Sa­
crosanctum concilium4, può essere così considerata — almeno al momento —
l’ultima pietra di quell’edificio alla cui costruzione il movimento liturgico
si era dedicato, durante 50-60 anni (a cominciare cioè dal Motu proprio

1 Per l’allocuzione di Pio X II, abbondante nella lode ma carica anche di riserve molto cri­
tiche, cfr. A A S 48, 1956, 711-725; Bugnini, L c., II, 45-58; LM D 47-48, 1956, 327.
2 Per il testo delle relazioni del congresso di Assisi cfr. LM D 47-48, 1956; una giusta valu­
tazione del congresso in Kolbe, L c.y 107-111, che ne mette in luce tanto l’importanza quanto le
debolezze e i limiti, ma ci parla soprattutto dell’entusiasmo dei partecipanti, di intendenti co­
raggiosi di uomini come il card. Lercaro e i vescovi van Bekkum (per la liturgia nei paesi di
missione) e Spiilbeck (per le Chiese poste al di là della « cortina di ferro ») ; senza tuttavia omet­
tere gli attacchi, fatti di accuse e di sospetti, che la reazione, a congresso finito, cominciò a far
sentire.
3 Per una valutazione del nuovo Codex rubricarum nei confronti del già annunziato programma
di riforma liturgica da attuarsi nell’ormai prossimo Concilio, cfr. H. Schmidt, La costituzione sulla
S. Liturgia. Testo, genesi, commento, documentazione, Roma 1966, 103-107.
4 Dei molti commenti ricevuti dalla SC, citiamo: LM D 77, 1964; Eph.Lit 78, 1964, 226-
419; E. J. Lengeling, Die Konstitution des 2. Vai. Konzils über die hi. Liturgie nella collana « Leben-
diger Gottesdienst » 5-6, Münster i. W. 1964; G. Barauna, La s. Liturgia rinnovata dal concilio,
Torino 1964; F. Antonelli-R. Falsini, Costituzione conciliare sulla S. Liturgia, Milano 1964; M. Ni-
colau, Constitución litúrgica del Vat. II. Testo y comentario teológico-pastoraly Madrid.
30 introduzione

di Pio X del novembre 1903 e dal congresso di Malines nel 1909), avendone
compreso l’importanza spirituale per molti aspetti veramente straordinaria.
Così quelli che una volta erano piani audacissimi si vedono realizzati
sotto la suprema autorità della Chiesa; propositi e mete che già la Riforma
protestante s’era prefisso, che l’Illuminismo aveva inseguito e che il movi­
mento liturgico aveva lentamente e con grande moderazione preparato,
sono oggi, per decreto della Chiesa, del Papa e del Concilio, realtà
di valore decisivo per tutta la Chiesa. E non è questione, in prima linea,
di fermarsi a considerare quelle che potremmo definire riforme spettacolari,
come la comunione sotto le due specie, la concelebrazione e Pammissione
nell’uso liturgico della lingua nazionale. Ma si tratta soprattutto di una
visione più profonda e di un’idea più completa di quello che la Liturgia
è e di come essa, in conformità a questa migliore conoscenza che se ne ha,
debba trovare la forma che più le si addice nel nostro mondo di oggi.
Ed è proprio in questi due aspetti che si rivela concretamente, nell’am­
bito del problema liturgico, il nuovo mondo nel quale il Concilio si muove:
la Chiesa deve con sempre nuova vitalità adeguare la propria immutabile
natura e missione a quelle che sono le esigenze del presente.
Dell’attuazione di questo magnifico programma fu incaricato il Consilium
ad exsequendam constitutionem de s. Liturgia, che, istituito già nel 1964, e posto
sotto la saggia direzione del card. G. Lercaro e del segretario A. Bugnini, rac­
colse nel suo seno da 30 a 40 tra cardinali e vescovi, come rappresentanti
di tutte le parti del mondo, e ad essi davano la loro opera di esperti quasi
200 studiosi di Liturgia, scelti ugualmente a livello internazionale. E ciò
che questo organismo, assolutamente nuovo nell’ambito della Curia romana
e della Chiesa, ha compiuto con un lavoro intenso, pieno sempre di respon­
sabilità e spesso difficile e non privo di sacrifici e di fatiche, e talvolta anche
turbato da sbagli e da sconfitte, è stata un’opera veramente grandiosa.
Quando a cinque anni di distanza, nel 1969, fu eretta la nuova Congregatio
pro cultu divino, i lavori di attuazione della riforma liturgica affidati al Con­
silium erano sostanzialmente compiuti. E così, in un rapido susseguirsi, ap­
parvero i nuovi libri liturgici, nei quali si esprime e si condensa la nuova
Liturgia della Chiesa latina, secondo quello che era il mandato e lo spirito
del Vaticano IL
Questa riforma liturgica, che vicino al nome del concilio Vaticano II,
porta quello di Papa Paolo VI, ha raggiunto il suo punto culminante e
più splendido, con la promulgazione del nuovo Missale romanum (3 aprile
1969, e cioè a quattro secoli dalla pubblicazione del messale tridentino,
fatta da S. Pio V) e della nuova Liturgia Horarum (1 novembre 1970), che sosti­
tuisce il breviario tridentino, pubblicato ugualmente da S. Pio V nel 1568 1.

1 Sia per le date del progressivo svilupparsi e attuarsi della riforma liturgica, quanto per
avere un primo sguardo almeno orientativo e informativo del grande lavoro che xn questo campo
è stato compiuto dal Consilium della Liturgia, cfr. la rivista «N otitiae», a questo preciso scopo
di documentazione fondata già nel 1964.
parte prima

la Liturgia, momento storico della salvezza


(a cura di S. Marsili)
capitolo primo

« Liturgia »

Bibliografia

O, Casel, AeiToupYÉa-À/wrtttj'j in «Oriens christ. » 1932, 289-302; Ph. Op


penheim, Marne und Inhalt der Liturgie bei den Alten, in « Theol. Quartalschr. »
Í932, 35-53; R. von Frentz, Der Weg des Wories « Liturgie » in der Geschichte, in
EphLit 1941, 74; Strathmann-R. Meyer, AeiToupyéco in ThWzNT 4, 221-238;
A. Romeo, Il termine XetToupyioc nella grecità biblica, in « Miscellanea Mohlberg »,
voi. II, Roma 1949, 467-519; S. Daniel, Recherches sur le vocabulaire du culte dans
la Reptante, Paris 1966, 56-117; St. Lyonnet, La nature du culte dans le NT\ in Jossua-
Gongar, La Liturgie après Vatican II (Unam sanctam, 66), Paris 1967, 357-384.

1. Nome e sua etimologia. Il termine «Liturgia», che oggi è usato esclu­


sivamente in senso cultuale, ha una sua preistoria, che è legata alla sua eti­
mologia nella lingua greca classica, cui appartiene.
« Liturgia » (greco : XYjiToupyía-XvjToupYÍa-XeiToupYta-XiToupYta) è parola
composta dalla radice Xìqlt (da Xy)ó<;-Xaó<; = popolo), che significa generi­
camente « pubblico - appartenente al popolo » e epyov (¿pyo^opai, = agire,
operare) nel senso di « azione - opera ». 11 termine così composto significa
direttamente : « opera-azione-impresa per il popolo » ; ma mette anche in
rilievo — sia pure come significato secondario — il valore « pubblico »
dell’azione, per cui la parola può tradursi anche con « azione-opera-impresa
pubblica ». Di qui l’uso del verbo XeiToupYstv in senso di « sostenere pubblici
incarichi» nella città (Stato).

2. Nell’i o del termine « Liturgia », noi assistiamo ad una sensibile


evoluzione di significato, evoluzione che coincide sempre — dall’antichità
ad oggi — con quei momenti storici, nei quali la parola acquista, per una ra­
gione o per l’altra, un suo risalto particolare. Conseguentemente, anche se
nostro scopo è quello di ricercare l’uso e il significato della parola sul piano
del culto cristiano attuale, non possiamo evitare di segnalare — sia pure in
forma sommaria — questa evoluzione, che, come si è detto, si identifica con
determinati momenti storici.
34 parte I - capitolo I

I « Liturgia » nell’uso civile

Nel greco classico « Liturgia » sta originariamente a significare un « ser­


vizio pubblico » ossia « in favore del popolo », da parte di determinate
persone che, o liberamente e volta per volta, se ne assumono Pimpegno, o
che a questo genere di « servizio » si sentono come obbligate dalla propria
particolare posizione sociale e soprattutto economica. Queste « Liturgie »
sono una caratteristica delle « democrazie » elleniche, dove s’incontrano
come obbligo imposto alle classi sociali superiori e — nell’ambito della classe
— a determinate persone o famiglie dotate di un particolare censo, oppure
compaiono come prestazioni libere e liberali, che taluni si assumono spinti
dal loro speciale amore per la patria o forse mossi dal desiderio di gloria
e dall’ambizione.
Si distinguevano due tipi di « Liturgie » : quelle « cicliche », attribuite
per « turno » a determinate famiglie e destinate o a tutta la città o al
proprio 8r\[io<; e si concretizzavano quasi sempre nell’approntamento di
giuochi e di feste; e quelle «straordinarie», provocate cioè da situazioni par­
ticolarmente gravi in cui veniva a trovarsi la città, e di solito avevano in
vista l’armamento-equipaggiamento, per tutta la durata del conflitto, di
un reparto militare o di una nave da guerra. Aristotele (Politica 5, 8) giu­
stamente osserva che le « Liturgie cicliche », mentre mettevano in evidenza
la magnificenza del donatore, molto spesso erano causa di un inutile e disper­
sivo depauperamento delle ricchezze di una famiglia.

Nell'epoca ellenistica il termine « Liturgia » sta ad indicare il « servizio


obbligatorio del lavoro », cui dovevano sottostare determinate comunità o
categorie di persone, sia in cambio di particolari diritti e vantaggi riconosciuti
loro dallo Stato, sia in pena di eventuali rivolte contro l’autorità dello Stato.
II sistema si sviluppò soprattutto in Egitto, all’epoca dei Tolomei (secolo n
a. C.), ma poi rimase in vigore anche all’epoca imperiale rom ana1.
M a oltre il suo originario senso tecnico, il termine « Liturgia » acquisisce
molto presto anche il significato più largo di servizio in genere, sia oneroso
(per es. di servo verso il padrone), sia amichevole e volontario (il piacere
che si fa a qualcuno). Qui, come si vede, si sbiadisce, fino a perdersi, il ca­
rattere « pubblico », che pure è componente essenziale della parola « Li­
turgia ».

Il « Liturgia » nell’uso religioso-cultuale

All’epoca ellenistica il termine « Liturgia » compare però anche nel­


l’uso religioso-cultuale, benché con minor frequenza che nell’uso politico­
civile, e sta ad indicare in genere il « servizio » che si deve rendere agli dèi
da persone a ciò deputate. È da notare che il termine ricorre di preferenza

' Fr. Oertel, Die Liturgie, Sludien zur ptolomàischen und kaiserlichen Verwaltung Aegyptens, 1917;
Fr. Preisigke., IVorterburh aer griechischen Papyruskunden. voi. II. Berlin 1927, s. v. Leitourgia.
35 « Liturgia »

nelle notizie — soprattutto iscrizioni — relative alla cosiddetta « religione


dei misteri » 1.
Questo uso cultuale potrebbe forse essere ricollegato airoriginario signi­
ficato tecnico di « azione pubblica », proprio del termine « Liturgia » e
starebbe quindi a rilevare il valore « pubblico » del rito religioso. Ma bi­
sogna osservare che: a) prima di tutto i testi relativi non suggeriscono mai
— almeno in linea principale — una tale preoccupazione « pubblica » o
« ufficiale » ; al contrario sia il verbo XstToupysiv che il sostantivo XstToupyia
hanno il significato comune di « servizio comandato » in una determinata
cerimonia o riguardo ad una certa divinità nel suo tempio; b) secondaria­
mente, lo stesso apparire del termine, con più marcata frequenza, nel culto
« misterico » — che era culto di « gruppi » e non « ufficiale » dello Stato
— starebbe ad indicare che « Liturgia » viene usato sul piano cultuale piut­
tosto nel senso comune di « servizio oneroso-volontario », che aveva assunto
nell’uso volgare. D ’altra parte lo stesso affermarsi della parola nell’ambito
cultuale e soprattutto il fatto del suo uso in posizione assoluta (il solo so­
stantivo accompagnato dall’articolo determinato, o il verbo senza comple­
mento oggetto) suggeriscono abbastanza chiaramente che il termine va
acquistando un nuovo senso tecnico. Perduto — come già nell’uso volgare —
ogni riferimento al « pubblico » (primo senso tecnico), e conservando in­
vece l’altra componente di « servizio dovuto-oneroso », « Liturgia » indi­
cherà sempre di più e — finalmente — in maniera esclusiva il « servizio
di culto che si deve a Dio ».
E sarà appunto in questo nuovo senso tecnico che « Liturgia » comparirà
nella traduzione greca dell’A T e che poi si affermerà nel Cristianesimo.

I li « Liturgia » nella Sacra Scrittura

i NeWAntico Testamento

Il termine « Liturgia » (nelle sue diverse forme : XeLToupyia-XetToupYctv-


X£tTOÙpYiqpa-XeiToupY7]aipLo<;-XsiToupYLxói;-X£{.ToupYÓ<;), ricorre frequentemente
(circa 170 volte) nella Scrittura dell’A T, naturalmente nella sua versione
greca (LXX), e serve a tradurre sia il verbo sheret sia il verbo cabhàd e il
sostantivo omonimo cabhodàh12*. Ambedue i termini in ebraico sono legati
all’idea di « servizio » reso a qualcuno; ma mentre sheret esprime più i senti­
menti che sono alla base del « servizio », — e sono sentimenti di « dedi­
zione affettuosa e incondizionata » da parte del « servo-famulus » (fami­
liare) e di « fiducia » da parte del « padrone-signore » — cabhàd è soprattutto
sinonimo di « servizio oneroso », spesso proprio dello « schiavo » (schia­
vitù), e in genere «lavoro»; non per nulla da questa radicale deriva la
parola 4ebhed = schiavo-servo.
I due termini nella Scrittura ebraica vengono indifferentemente usati

1 Per molte di queste iscrizioni cfr. ThW zN T 4, 224 ss.


2 Benché sporadicamente, « L itu rgia» appare anche come traduzione di altri termini ebraici:
chahàriy tzabhàh, shemàsh, melachàh, palechàn.
36 parte I - capitolo I

per indicare sia il « servizio » in senso profano, sia il « servizio religioso »,


ma è evidente che i L X X nella versione greca dell’A T fecero una scelta
voluta e cosciente tra le molte parole con cui potevano tradurre i due ter­
mini ebraici. Così mentre traducono con grande varietà di termini — e
quasi sempre con molta proprietà d’interpretazione — sia sherèt che ‘abhodàh,
quando si riferiscono al campo profano, ogni volta che i due termini ebraici
sono riferiti al culto prestato a Jahve dai sacerdoti e dai leviti nel suo tempio
(tabernacolo), sono costantemente tradotti col verbo e col sostantivo greci
XstToupYstv-AsiToupyta. Quando invece — sempre sul piano del culto di Jahve
— i medesimi termini ebraici (e questo vale specialmente per cabhodàh) stanno
ad indicare il culto reso a Jahve dal popolo, sono stati tradotti dai L X X con i
termini XaTpsúsiv-XocTpsía; SouXeóciv-SouXsia, ma mai con XetToupYsw-XsiToupYÌoc.
Nell’intenzione quindi dei L X X la parola « Liturgia » acquistava il va­
lore di termine tecnico per indicare il « culto levitico » in quanto tale, ossia
una forma cultuale determinata da un proprio cerimoniale fissato nei libri
della Legge e riservata a una particolare categoria di persone 1.
Stante il fatto certo di una scelta linguistica operata dai L X X , scelta
che ha loro permesso di rivestire la parola « Liturgia » di tutto lo splendore
che emanava da un culto le cui norme erano ritenute fissate da Dio stesso,
facendone così il termine tecnico assoluto per indicare il culto ebraico ufficiale,
non è facile scoprirne le ragioni. In proposito si può forse dire — almeno
in via di ipotesi — quanto segue:

1. Nulla fa supporre che i L X X abbiano voluto rifarsi alle «Liturgie»


delle antiche democrazie della Grecia classica, perché nel termine « Li­
turgia » da essi usato non gioca più nessun ruolo la prima parte della pa­
rola (composta), non apparendo — almeno in maniera evidente o eviden­
ziata — nella « Liturgia » levitica il senso di una « azione per il popolo ».
Se una volta (Num 16, 9) infatti si dice che la « Liturgia » fatta dai leviti
nella tenda è un « culto » reso a Dio « per gli Israeliti », è da notare che
questo complemento dativo di comodo o d’interesse non è collegato al ter­
mine « Liturgia » ma al verbo XocTpsisiv, che, come vedremo, è stato volu­
tamente usato in maniera distinta da XsiTOOpystv.

2. Nella scelta di « Liturgia » per designare il « culto levitico » non


può aver neppure influito il fatto che la traduzione della Bibbia sia avve­
nuta ad Alessandria d’Egitto, ossia in un ambito territoriale dove vigevano
radicate e deprecate, le « Liturgie », intese come « servizio obbligatorio del
lavoro ». Basterebbe a dimostrazione ricordare che nel racconto della schia­
vitù degli Ebrei sotto i Faraoni, il « servizio » edile obbligatorio, cui gli
Ebrei erano sottoposti, è detto anch’esso ‘abhodhàh (cfr. per es. Es 1, 14;
2, 23; 5, 9. 11; 6, 6. 9 ecc.), e cioè con un termine che aveva la sua tradu­
zione — a quell’epoca del tutto naturale in Egitto — in « Liturgia » in­
tesa appunto come « servizio obbligatorio del lavoro ». Ma i L X X ave­
vano già fatta la loro scelta e quindi se per rendere questa £abhodhàh coatta
degli Ebrei in Egitto non si servono di « Liturgia », è perché essi ricono­
scono a questo termine un significato religioso già in certo modo specifico.

1 S. Daniel, Recherches sur le vocabulaire dii culte dans la Septante, Paris 1966, 56-117.
37 « Liturgia »

3. D ’altra parte non è pensabile che i L X X siano ricorsi all’uso di « Li­


turgia » per imitare e assimilare il « senso tecnico cultuale », che la parola
a quel tempo andava assumendo sul piano religioso nell’ambito pagano.
È più verosimile che una tale ragione avrebbe spinto i L X X a evitare il
termine. In ogni caso non si può dimostrare che l’uso di « Liturgia » in « senso
tecnico cultuale » fosse già talmente affermato nell’ambiente religioso elle­
nistico, che possa aver pesato sulla scelta dei L X X . La maggior parte in­
fatti delle testimonianze scritte in tal senso non risalgono, per il paganesimo,
al di là del secolo 1 a. C. e cioè in epoca in cui la traduzione dei L X X era
già opera compiuta da almeno un secolo. Questa osservazione acquista maggior
valore se riferita slY Ecclesiastico. Scritto da Ben Sira all’epoca della tradu­
zione dei L X X e tradotto in greco poco dopo, in Egitto, dal nipote stesso
dell’autore, è un libro dall’indirizzo chiaramente ostile ad ogni penetra­
zione ellenista nell’Ebraismo. Orbene « per il traduttore di Ben Sira, Xet-
Toupystv (che ricorre in Eccli 4, 14; 7, 29-30; 24, io; 45, 15; 50, 14. 19)
non aveva altra applicazione, sul piano del linguaggio religioso, che alla
funzione cultuale del Sacerdozio israelita e senza dubbio era, ai suoi occhi,
l’unico verbo specialmente adatto a quest’uso » 1. Considerata la posizione
così antiellenista dell’autore-traduttore del libro, come pensare che si sa­
rebbe servito di una parola che fosse già usata come termine « tecnico-reli­
gioso » per qualificare il culto pagano ?
4. Considerato che i L X X hanno unificato nella parola « Liturgia »
due termini sheret-abhodàh, che sono parzialmente sinonimi («servizio») e
dei quali il primo indica soprattutto l’atteggiamento interiore del « servizio »
e l’altro principalmente l’azione del «servire»; e tenuto presente che essi
usano il termine « Liturgia » non in senso di « culto » genericamente in­
teso e neppure come espressione particolare del « culto di Jahve », ma
come termine specialmente adatto ad indicare il « modo di culto » prati­
cato dai Sacerdoti e dai Leviti ebrei, c’è da concludere che essi hanno visto
in « Liturgia » una luce particolare. Questa ha fatto loro ritenere il termine
come degno e capace di esprimere tutto in una volta:
a) l’azione di culto con la quale « si serve » Jahve, e solo lui nella sua
tenda, nel suo tempio, al suo Altare;
b) gli attori di questo culto, e cioè uomini specialmente a ciò destinati
dalla elezione divina;
c) Yunicità di un culto che, destinato a Jahve, unico vero Dio, è anche
talmente unico e vero da essere stato regolato da impreteribili norme divine.
In altre parole: « Liturgia» nel testo greco della Scrittura è stato scelto
perché esso — data la nobiltà originaria del termine nell’uso classico —
poteva rappresentare nel modo migliore il culto di Jahve, secondo una forma
esteriore divinamente stabilita e affidata al sacerdozio lenitico, e cioè alla cate­
goria più « alta » e più « nobile » del popolo ebraico 8.12 *

1 S. Daniel, 0. c.y 1 1.
2 È lo stesso fenomeno riscontrabile, sempre nei L X X , a proposito della scelta del termine
Laos per indicare il « popolo » di Israele. In epoca — quella ellenistica — in cui quel termine
antichissimo, già comune nel linguaggio classico, è diventato rarissimo, perché sostituito da dèmos}
i L X X scelgono l’antico termine, letterariamente aristocratico, proprio per indicare la particolare
natura e nobiltà del « popolo di Dio », che sarà chiamato sempre Laos e mai dèmos.
38 parte l - capitolo I

2 « Liturgia » e culto nell'Antico Testamento

Per sapere che cos’è « Liturgia » nell’A T era necessario passare per il
testo greco della Bibbia, e s’è potuto vedere:
a) che dei due termini cultuali skerèt e ‘abhodàh il primo è tradotto sempre
con « Liturgia »; nel secondo invece si fa una distinzione, nel senso che viene
tradotto molto spesso con « Liturgia », ma anche con Xarpeuav-Xocxpeioc
e SouXeÙEtv-SouXeta ;
b) che con « Liturgia » è sempre inteso — salvo i pochi casi che non ri­
specchiano il piano religioso — il servizio di culto com'è prestato dai sacerdoti
levitici;
c) che Xarpeúsiv-XaTpsía e SouXeóeiv-SouXsia sta invece ad esprimere
sia l5idea o il fatto del culto in genere, sia il culto del popolo in quanto distinto
dal culto sacerdotale, visto nel suo concreto svolgimento rituale e cerimoniale.

Assistiamo così al fatto, che all’interno di due termini ebraici, più o


meno sinonimi [skerèt e cabhàd- abhodàh), i L X X operano una distinzione a
seconda dei soggetti agenti del culto (Xetxoupyta per i sacerdoti-leviti e Xa-
Tpsia-SouXcia per il popolo). È stata insomma evidenziata la differenza tra
« rito » (XeiToupyta) e « culto » (XaxpEÍa-SouXeía) e, purtroppo, a tutto van­
taggio del primo, perché « nella prospettiva dei traduttori alessandrini (LXX)
i sacerdoti e i leviti erano i soli ad avere propriamente la vocazione ad eser­
citare un’attività cultuale » h
Che una distinzione vi sia tra « culto » ed « esercizio esteriore del culto »
non c’è da dubitarne. Ma è da dubitare se questa distinzione poteva e doveva
essere così radicalizzata, da creare due differenti termini cultuali a seconda
che si vuole indicare l’atteggiamento interiore e personale nei riguardi di
Dio oppure si vuole identificare il culto nelle pratiche esteriori del suo eser­
cizio.
Per comprendere come questo sia potuto avvenire, non bisogna dimenti­
care che la traduzione dei L X X coincide con l’epoca del secondo Tempio
(post-esilico), nel quale si ripeteva, purtroppo, quella esperienza cultuale-
sacerdotale dell’epoca immediatamente preesilica, che identificava il « culto
di Jahve » con una magnificenza esteriore, che era altrettanto « splendida
che inutile » di quella delle antiche (civili) « Liturgie » elleniche deplo­
rate da Aristotele [Politica 5, 8).
In altre parole: la traduzione biblica dei L X X fa di «Liturgia» il ter­
mine tecnico del culto del sacerdozio levitico, che diventa così il soggetto-
esponente del culto di Jahve. Ma questo è avvenuto a spese di quel senso
indifferenziato di culto, che appare nel testo originale (ebraico) della Scrittura
e tutto fa pensare che, almeno in gran parte, questo non fosse originato da
una mancanza di chiarezza linguistica, ma dalla ignoranza della concezione
originaria del culto, fondamentalmente « spiritualistica », che — come ve­
dremo — era già ben rappresentata nella Toràh 2, e sarà poi ripresa dai Salmi
e dai Profeti.

* S. Daniel, 0. c\, 105.


2 Vedi p. 39 ss.
39 « Liturgia »

3 « Liturgia » nel Nuovo Testamento

Il termine « Liturgia », preso cumulativamente nella sua forma ver­


bale (X e iT o u p y e tv ), nel sostantivo di cosa (XsLTOupyla) e nel sostantivo di
persona (XeLTOupyóc;), ricorre in tutto solo 15 volte nel N T e precisamente
così:
X e iT o u p y c tv : Atti 13,2; Rom 15,27; Ebr i o , 11;
X e iT o u p y ia : Le 1,23; 2 Cor 9, 12; Fil 2, 17.30; Ebr 8,6; 9,21;
X etT o u p y ó ? : Rom 13,6; 15, 16; Fil 2,25; Ebr 1,7. 14; 8,2.

Il senso, in cui questi termini vengono usati, può essere riassunto sotto
3 categorie, onde si ha una « Liturgia » :

1. in senso profano, mutuato dal comune linguaggio (v. sopra) :


Rom 13,6: i m a g is tr a ti sono « m in is tr i-X e iT O u p y o t » di Dio;
Rom 15, 27: i pagano-cristiani devono «prestare servizio» con l’aiuto ma­
teriale ai giudeo-cristiani, quasi in contropartita del fatto che da questi
è venuto loro di poter partecipare al cristianesimo;
Fil 2, 25. 30: Epafrodito, recando a Paolo le offerte dei Filippesi, ha portato
a termine Fatto di « deferente servizio » (XeiToupyioc) dei fedeli nei ri­
guardi dell’Apostolo e così si è rivelato per lui un « aiuto prezioso » (Xei-
Toupyós) ;

2 Cor 9, 12: il raccogliere elemosine per i cristiani di Gerusalemme è pre­


stare loro una « Liturgia » e cioè un « servizio per sé oneroso » e forse
«doveroso» (cfr. sopra Rom 15, 27) ma che poi si risolve a beneficio
degli offerenti;
Ebr 1,7. 14: pur parlandosi di «Liturgia angelica» questa non è .intesa
in senso « cultuale », ma di « servizio » che gli angeli rendono a Dio
in favore degli uomini.

2. «Liturgia» in senso rituale-sacerdotale delVAT:


Le 1, 23: si parla del turno di «servizio» di Zaccaria, padre di Giovanni
Battista, al tempio di Gerusalemme (Liturgia levitica) ;
Ebr 8, 2. 6: Cristo Pontefice già siede alla destra della maestà divina, perché
è « Liturgo » del vero santuario ed esercita quindi una « Liturgia »
superiore. Benché il soggetto del discorso sia Cristo, tuttavia i termini
« Liturgo-Liturgia » devono essere intesi in funzione del termine di pa­
ragone, che è il pontefice ebraico, e di conseguenza i termini stessi restano
nella prospettiva vetero-testamentaria.
Bisogna però dire che proprio per la linea di analogia sulla quale il di­
scorso si muove, si intravede un’idea nuova di « Liturgia », quella ap­
punto « superiore » di Cristo, perché è in rapporto ad una « nuova »
(Ebr 8) e « migliore alleanza, garantita da migliori promesse » (Ebr 6) ;
Ebr 9, 21 : accenno agli oggetti « liturgici » del culto ebraico ;
Ebr io, 11: confronto tra il ripetersi quotidiano della «Liturgia» sacer­
dotale ebraica e dell’unico sacrificio di Cristo.
40 parte I - capitolo I

3. « Liturgia » in senso di culto spirituale:


Rom 15, 16: Paolo si dichiara « ministro-liturgo » di Cristo, che svolge il
suo «sacerdozio» (azione liturgico-sacerdotale) col Vangelo, in modo
che i pagani, santificati nello Spirito Santo, siano un sacrificio gradito
a Dio.
Qui il termine « liturgo », posto come equivalente di colui che compie
un’ « azione sacerdotale» in vista di un «sacrificio» da offrire, ricalca
evidentemente il « senso tecnico-cultuale », che « Liturgia » ha nell’A T :
« azione di culto sacerdotale ». D ’altra parte la vittima che Paolo deve
offrire « in sacrificio » non è un animale irrazionale — come faceva
il sacerdote ebraico — ma sono i pagani, che « diventano sacrificio gradito
a Dio, per opera dello Spirito Santo » attraverso il Vangelo annunziato
dall’Apostolo. Quindi pur servendosi della terminologia tecnica del
culto sacerdotale ebraico, Paolo trasferisce i termini sul piano di un
« culto spirituale » ;
Fil 2, 17: Paolo dichiara di essere pronto a « essere versato in libazione sul
sacrificio e sulla Liturgia della fede » dei Filippesi.
« Liturgia » è nuovamente presa in senso strettamente « cultuale-sacer-
dotale » («sacrificio»), quindi secondo il linguaggio tecnico cultuale
dell’A T ; ma nello stesso tempo viene spostata su un piano « spirituale ».
La «Liturgia» dei Filippesi è infatti costituita non dall’offerta («sa­
crificio») di una vittima animale, ma dal loro cristianesimo («fides»)
vissuto e per il quale Paolo è disposto a dare il proprio sangue « come
libazione » conclusiva della loro offerta, già iniziata, per sua opera, con
la conversione a Cristo.

4. «Liturgia» in senso di culto rituale cristiano:


Atti 13,2: traduzione letterale: «Mentre essi facevano Liturgia al Signore
e digiunavano, lo Spirito Santo disse ».
È l’unico testo biblico del N T nel quale si potrebbe scorgere già il nome
di quella che poi sarà chiamata « Liturgia cristiana ». Non che il N T ignori
l’esistenza di una « Liturgia cristiana » (v. appresso parte II), ma è un
fatto che mai — se non forse qui — compare il nome di « Liturgia » per
indicare l’insieme del culto cristiano. È naturale quindi che il testo abbia
suscitato l’interesse degli studiosi, i quali però danno in proposito soluzioni
sensibilmente differenti tra loro.
A lcuni1 ritengono senz’altro che nel nostro testo « Liturgia » rappresenti
la nuova « Liturgia cristiana » e principalmente la celebrazione eucari­
stica.
A ltri12 si contentano di affermare che si tratta veramente della prima te­

1 L. Cerfaux, La communauté aposlolique (Témoins de Dieu, 2), Paris 1956, 87. « A d An­
tiochia il Signore Gesù è il centro del culto. “ Celebravano la liturgia del Signore ” (Atti 13, 2).
Si tratta prima di tutto della cena. L ’Eucaristia non si celebra diversamente da Gerusalemme,
perché anche qui si riproduce la cena del Signore. M a per la prima volta si vede chiaramente che
questa cena del Signore, nella quale vi è la presenza di_ Gesù, è il centro unico della vita religiosa
della comunità». Cfr. anche J. Renié, Actes des Apotres, in Pirot-CIamer, La sainte Bible, X I, 1, 182,
secondo cui qui « Liturgia » sta ad indicare le funzioni^ che si sono sostituite al culto giudaico :
preghiere, canti e soprattutto cena eucaristica, il sacrificio della nuova alleanza.
2 A. Romeo, Il termine Leitourgia nella grecità biblica, in « Miscellanea Mohlberg », voi. II, Roma
l 949> 512 ss.
41 « Liturgia »

stimonianza — in quanto al nome — di una specifica celebrazione liturgica


cristiana, benché non si possa affermare con certezza che si tratti dell’ Eu­
carestia h
Secondo altri12 siamo di fronte a qualcosa di molto nuovo nei confronti
del linguaggio biblico ricevuto dai L X X attraverso la loro traduzione greca
dell’A T , e la novità consisterebbe nel fatto che « il termine Liturgia viene
applicato alla preghiera comunitaria » e precisamente nel senso che « un
concetto cultuale così importante nell’AT, quale è Liturgia, viene trasferito
ad indicare il culto puramente spirituale cristiano, anche se quella che viene
in questione è solo una piccola comunità di poche persone particolarmente
autorevoli (“ profeti e dottori ” ) ».
Probabilmente queste differenti interpretazioni hanno tutte un loro punto
di verità. Anche se il testo non specifica in che cosa consistesse la « Liturgia »
in questione, la cosa importante è proprio nel fatto che la celebrazione cristiana
viene chiamata « Liturgia ». Se questo è un dato positivo o negativo per il culto
cristiano dovrà essere ulteriormente appurato; quel che maggiormente im­
porta è constatare che una riunione cultuale cristiana, celebrata nella prima
comunità antiochena e nella quale con tutta probabilità non vi era presenza
di « sacerdoti » ebraici, è chiamata tuttavia col nome tecnico con cui si
designava il « servizio cultuale levitico ». Se non altro si può scoprire in questo
la volontà di presentare il « culto cristiano » come la continuazione del
« culto sacerdotale » ebraico o come un culto in analogia a questo. Atti
13, 2 sarebbe quindi sulla stessa linea di Ebr 8, 2. 6, che per individuare il
valore cultuale della morte di Cristo, lo paradigma suìYazione cultuale del sa­
cerdote ebraico, dando all’una e all’altra lo stesso nome di « Liturgia »,
anche se a quella di Cristo riconosce una « superiorità assoluta ».

4 La « Liturgia » dall'Antico al Nuovo Testamento

Che « Liturgia » s’incontri una volta sola nel N T ad indicare una ce­
lebrazione cultuale della comunità cristiana non è casuale né senza signi­
ficato. Abbiamo visto come la « Liturgia » sia la forma levitica del culto
e come essa non serva mai ad indicare né il culto in se stesso — come at­
teggiamento interiore — né il culto del popolo in quanto tale.
Abbiamo detto, anche che è soprattutto per merito della traduzione-inter­
pretazione del L X X che la « Liturgia » acquista questo carattere speci­
fico e riservato di culto della casta sacerdotale.
D ’altra parte l’interpretazione discriminativa che i L X X , traducendo
la Toràh, introducono nel termine 6abhàd-'abhodàh non è di certo arbitraria.
È un’interpretazione voluta, ma fondata su un dato ormai di fatto: il culto
di Jahve era passato, con la creazione del sacerdozio levitico (gerarchico), a
prerogativa della tribù di Levi, diventata casta sacerdotale, e come ogni pre­
rogativa, si fondava e si reggeva sulla sua forma istituzionalizzata. Di conse­
guenza i L X X , pur sapendo che ‘abhàd-abhodàh nel suo generale senso
di « servizio religioso » implica più particolarmente il « sacrificio », che è

1 A. Wickenhauser, Atti degli Apostoli, ed. it. 1958, 181, con non minore cautela parla «di
una cerimonia liturgica accompagnata dal digiuno e della quale non sappiamo altro ».
2 H. Strathm ann. in T h W z N T 4. 233.
42 parte I - capitolo I

per eccellenza « azione sacerdotale », non traducono mai questa parola con
« Liturgia », anche quando chiaramente si riferisce al « sacrificio », se il
testo non suppone già la istituzione del sacerdozio gerarchico. È appunto
quel che avviene in Esodo (durante il quale non c’è ancora — istituito —
il sacerdozio levitico), dove una sola volta (Es 38, 21) cabhodàh è tradotto con
« Liturgia », e precisamente nel concludere la descrizione dell’erezione
della Tenda, cui è destinata « la Liturgia dei leviti ». Tutte le altre nume­
rose volte, in cui, in Esodo, il termine cabhodàh manifestamente si riferisce al
«culto-sacrificio» che gli Israeliti devono dare a Dio nel deserto (Es 3, 12;
4, 23; 7, 16. 26; 8, 16; 9, 1. 13; io, 3. 78; i i, 24. 26 ecc.) e in particolare
al «sacrificio pasquale» (Es 12, 25. 26; 13, 5), non viene mai tradotto con
« Liturgia », appunto perché questa indica, per i L X X , il « culto di un corpo
sacerdotale determinato» (levitico), che non è ancora costituito1.
La ragione intima di questa interpretazione sta nel fatto che i L X X non
ignorano che tutto il senso àtWEsodo sta appunto nella liberazione d’Israele
dalla schiavitù deWidolatria d’Egitto e nel passaggio ( = Pasqua) alla fede nel­
l’amore di Jahve, per onorarlo e rendergli servizio (culto) nel modo proprio
e particolare della religione rivelata : « Ascoltando la sua voce e osservando
la sua alleanza» (Es 19,5), ossia «amando e dando culto al Signore suo
Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima » (Deut io, 12). Solo così facendo
infatti tutto Israele sarebbe stato «popolo di Dio, regno di sacerdoti e nazione con­
sacrata (al culto di Jahve) » (Es 19, 6). Israele sa così di essere chiamato ad
un culto spirituale (che i L X X rappresenteranno con i termini — a differenti
epoche equivalentesi — di XotTpsfa e di SouXeia12), e cioè ad un culto che pur
ammettendo i «sacrifici» di vittime animali (Sai 49,5-8), non era costi­
tuito da essi, nel senso che Dio « non fece parola di sacrifici ai padri, quando
li trasse dall’Egitto, e invece diede loro una prescrizione: quella di ascoltare
la sua voce, perché solo così egli sarebbe stato il loro Dio ed essi il suo po­
polò » (Ger 7,22-23; cfr. Amos 5,25).

Il rapporto di culto che Israele avrebbe avuto col suo Dio doveva dunque
consistere in un amore che si esprimesse nell’ « ascoltare la sua voce e osser­
vare la sua alleanza ». Le cerimonie esterne e i molti sacrifici gli sarebbero
stati graditi — se volevano offrirli — solo in quanto erano espressione di
un intimo senso di gratitudine per i benefici ricevuti (Sai 49, 14. 23), o di
pentimento e di conversione dal peccato (Sai 50, 18-19; Is 1, 10-20; Ger
7, 3-11; Os 6, 6; 8, 11-13; Amos 6, 21-25). Ma, tolto forse qualche momento
del periodo del deserto (Ger 2, 2-3; Os 2, 17), questo ideale non si era rea­
lizzalo : Israele non si dimostrò di fatto quel « popolo sacerdotale » che era
per elezione, perché non era fedele al suo Dio, e, sotto l’influsso delle cul­
ture e delle religioni circostanti, rinnegò in pratica la sua vocazione ad un
culto spirituale, che nascendo da una conversione si doveva esprimere nella
ubbidienza alla Parola e nel mantenersi nzH'alleanza di Dio.
Venendo infatti dall’idolatria, dove l’uso dei sacrifici non solo era unir
versalmente diffuso, ma costituiva il tutto dell’atto religioso, Israele —
anche ammesso che non necessariamente dovesse abbandonare quello che era

1 La stessa osservazione, con identica conclusione, si può fare sul libro di Giosuè: mai com­
pare «L itu rgia», perché non esiste ancora la casta sacerdotale; cfr. S. Daniel, 0. c 69.
2 S. Daniel, 0. c., 66-67 e 102-104.
43 « Liturgia »

Tuso di tutte le religioni del tempo — avrebbe dovuto d’ora in poi servirsi
dei « sacrifici » animali-vegetali solo in quanto poteva farne « segno » della
propria fedeltà alla Parola e airalleanza di Dio. Senza di questo i « sacrifici »
e tutta la loro « Liturgia » non potevano esprimere la religione di Jahve.
Avvenne così che anche l’istituzione del sacerdozio levitico (Num 16, 9),
addetto appunto al culto sacrificale « esteriore », fatto di vittime « sosti­
tutive » di quello che avrebbe dovuto essere il culto « interiore » al quale
Jahve chiamava il suo popolo — culto fatto di atteggiamento di amore e
fedeltà e che i L X X chiameranno XaTpeioc-SouXria e non XeiToupyloc1 — ,
divenne un sacerdozio esteriore e materiale.
Così la « Liturgia », ossia l’azione esterna di culto esercitata dalla casta
sacerdotale, diventa in parte il « simbolo » ma, purtroppo, anche la « so­
stituzione » del « culto », che il « popolo » era stato chiamato a dare a
Jahve con la santità della vita.

Questa falsa concezione « liturgico-sacerdotale », che si era col tempo


identificata con il Tempio di Gerusalemme, in parte era stata distrutta dal
lungo periodo dell’esilio. Molti infatti avevano capito il richiamo dei profeti,
sintetizzato da Os 6, 6: « Voglio l’amore e non gli olocausti », e nella obbli­
gata mancanza del Tempio, di sacerdoti e di sacrifici, trovavano l’occasione
di offrire a Dio « la contrizione dell’anima e l’umiltà dello spirito come un
sacrificio che fosse più gradito degli olocausti di tori e agnelli, perché impe­
gnava a seguire Dio, a temerlo e a cercarne la faccia» (Dan 3, 39741).
Di questo nuovo atteggiamento, che attraverso i profeti ritrova il « culto
spirituale », sono tra l’altro prova eloquente i Salmi. Di questi infatti alcuni
affrontano direttamente il problema, come si può vedere in Sai 39, 7-9 (Dio
non gradisce né sacrifici e offerte, né olocausti e sacrifici d’espiazione, ma
vuole che si faccia la sua volontà, perché in ciò si riassume il libro della Legge) ;
Sai 49, che è nient’altro che un « processo » fatto agli stessi antichi Padri
(«santi») che «del sacrificio vollero fare il segno dell’alleanza»; ma Dio,
che parla nel salmo, dichiara che « sacrificio a lui gradito è la lode e non
la carne di tori o il sangue di agnelli»; Sai 50, 17-19 ci ripete ancora che
« la lode dello spirito purificato e del cuore umile vale più delle oblazioni
e degli olocausti » (cfr. Sai 68, 31-32) ; Sai 140, 2 mette la preghiera al posto
dell’offerta dell’incenso e del sacrificio vespertino.
Non minore importanza è data al « culto spirituale » nel libro del-
l’Ecclesiastico, che in 4, 14 giuocando sulle parole XocTpetoc e XeLToupyta dichiara
che vera « Liturgia » è il « culto » della Sapienza; e in 35, 1-4 afferma che
« sacrificio è osservare la Legge, oblazione è il ringraziamento, e olocausto
la misericordia ».
Infine il profeta Michea 6, 1-8 annunzia il processo di Dio al suo popolo,
e quando a Dio che chiede una risposta da Israele, questi risponde dicendo
di volersi avvicinare a Dio con sacrifici di vitelli e di migliaia di agnelli,
Dio a sua volta risponde: « Già da molto tempo ti è stato detto che cosa
Dio vuole da te: soltanto che tu cammini davanti a lui e lo ami profon­
damente ».
Dopo l’esilio una manifestazione di questo ritrovato « spiritualismo

1 Idem, 0. c.j 9 6 -9 7 .
44 parte I * capitolo I

cultuale » è appunto il sorgere delle Sinagoghe, dette anche « casa di pre­


ghiera » {Beth-hatefillàh) o «casa della dottrina» (Beth-hamidràsch). In
esse infatti si raccolgono « le assemblee » ( = cjuvayoyir)) dei fedeli per at­
tendere all’ascolto della Parola di Dio e alla preghiera, al di fuori di ogni
regime « liturgico » levitico-sacerdotale.
In questo ambiente si muove Cristo, il quale presentandosi come Tul-
timo nella serie degli inviati da Dio al suo popolo (Mt 21, 33-43; cfr. Ger
7, 25-26), si ripresenta anche con la concezione cultuale dei profeti, alla
quale espressamente si richiama (Mt 9, 13; 12, 7 riferendo Os 6, 6; Mt 15,
7-9 riferendo Is 29, 13; Mt 21, 13 riferendo Is 56, 7 e Ger 7, 11). Di qui il
suo discorso sulla distruzione del Tempio (« segno del Tempio » Gv 2, 18-21)
e sul fatto che finalmente è venuta Tora del culto spirituale, non legato più
alle istituzioni « sacerdotali-templari » di Gerusalemme o del Garizim (Gv
4j 19-26).
L ’affermazione del culto spirituale, cioè non espresso in una « Liturgia »
né templare né sacerdotale nel senso antico, come portò alla morte di Cristo
(Mt 26,61; Me 14,58), così decise della morte del diacono Stefano (Atti
7, 47-53) e provocò la prima persecuzione contro i discepoli di Cristo (Atti 8, 1).
In questo clima si comprende quindi come le fonti neotestamentarie
tacciano a proposito di « Liturgia », parlando del culto cristiano, e prefe­
riscono di gran lunga parlare di Xaxpsia, SouXsia anche laddove il contesto
esigerebbe, nello spirito della distinzione dei termini creata dai L X X , la
parola « Liturgia » 1. Gli autori ispirati non si troverebbero più a loro agio
se si dovessero servire di un termine come « Liturgia », che è troppo privo
dello « spirito » e troppo ricco della « esteriorità » del culto.

Nota. Si deve però avvertire che molto presto già nella Chiesa postapostolica,
la parola « Liturgia » perde gran parte del suo aspetto negativo e serve a designare
i riti del culto cristiano. Non è forse senza una risonanza discretamente ebraica
— almeno sul piano della formulazione — Tapparire della parola « Liturgia »
in Didaché 15, 1: «Eleggetevi dei vescovi e dei diaconi...; anche essi infatti vi
fanno la stessa “ Liturgia ” dei profeti e dei dottori (del NT) ». Ma poi, benché
il « sacerdozio » gerarchico cristiano non abbia nulla in comune con quello ebraico,
il parallelismo tra i due si fa sempre più stretto, come può vedersi chiaramente
in 1 Clementis ad Corinthios (v. appresso), e quindi anche il termine «Liturgia»
serve ad indicare soprattutto l'azione cultuale del Vescovo, del presbitero e del dia­
cono, ma anche il rito in se stesso, prescindendo da colui che lo esercita o pre­
siede. Così si parla di « divina liturgia » (= Eucarestia), di « Liturgia del batte­
simo », di « Liturgia vespertina ».
NelVOriente greco « Liturgia » è restato sempre in vigore, conservando il senso
di «azione sacra rituale» in genere; ma oggi di fatto sta ad indicare prima di
tutto la « celebrazione eucaristica », secondo un particolare rito. Così si dirà « Li­
turgia » di san Giovanni Crisostomo, di san Basilio, di san Giacomo, di san Marco,
dei 12 apostoli ecc.
NelVOccidente latino, a differenza di tante altre espressioni tecniche del vocabo­
lario cristiano, che sono state semplicemente translitterate dal greco nel latino
(p. es. : Episcopus, presbyter, diaconus, ecclesia, synagoga, apostolus, propheta,
baptismus, eucharistia, evangelium), il termine « Liturgia » è stato completamente
ignorato. La cosa non può non meravigliare data la insolita frequenza ed il va­
lore dichiaratamente tecnico che « Liturgia » ha nelle più antiche fonti cristiane,
— che come si sa sono scritte in greco — . Il fatto è forse un indice della carica
1 Strahtmann, in T hW zN T 4, 62-66.
45 « Liturgia »

negativa — in quanto espressione tecnica di una concezione troppo ebraica del


culto — che i traduttori latini della Bibbia greca dei LXX avvertivano nel termine ?
L’unico autore latino che conosce « Liturgia » in senso cultuale, ma indebita­
mente l’identifica nel significato con ^arpeia, è sant’Agostino : « Ministerium vel
servitium religionis, quae graece liturgia vel latria dicitur » 1.
Nel linguaggio occidentale latino per molti secoli invece di « Liturgia » si
sono usati termini come officia divina, sancta, ecclesiastica; celebritas {celebratio) sancta
— ecclesiastica; ministeria sacra — divina — ecclesiastica; opus — opera Dei; opus
divinum; munus; observationes sacrae — ecclesiasticae; sacri ritus; ritus ecclesiastici; agenda
— divina agenda 12.
Con il secolo xvi, per il contatto che il Rinascimento aveva creato nuovamente
con le fonti greche, ridando una componente ritenuta classicheggiante alla cul­
tura del tempo, comincia a riapparire anche in Occidente l’antico termine greco
di « Liturgia ». Così con i primi studi o riesumazioni di antichi formulari di culto
compaiono opere, che nel titolo portano il termine « Liturgia » nella forma ag­
gettivale (neutra sostantiva) :
G. Cassander, Liturgica de ritu et ordine dominicae caenae, quam celebrationem Graeci
liturgiam, latini missam appellarunt, 1558.
J. Pamelius, Liturgica latinorum, Colonia 1571. (Un II voi. di «Liturgica grae-
corum » era in progetto, ma non fu pubblicato).
J. Bona, Rerum liturgicarum libri 7/, Romae 1671.
Dopo pochi anni compare però senz’altro il termine « Liturgia », ma sempre
— come del resto negli autori sopra citati — nel senso di riti e formulari della
Messa (quindi secondo l’uso greco) :
J. Mabillon, De liturgia gallicana libri HI, Parisiis 1685.
J. Grandcolas, Les liturgies anciennes ou la manière dont on a dit la sainte Messe
dans chaqué siede, 3 voli., Paris 1697-1704.
D. Giorgi, Liturgia romani pontificis in celebratione missarum solemni, 3 voli.,
Romae 1731-1744.
A. L. Muratori, Liturgia romana vetus, 2 voli., Venetiis 1748.
Quando al contrario la materia di studio si estende oltre la Messa, continuano
le antiche denominazioni, anche in opere contemporanee alle precedenti. Così
per es. :
M. Hittorp, De catholicae ecclesiae divinis officiis ac ministeriis, Colonia 1568.
E. Martène, De antiquis ecclesiae ritibus, 2 voli., Rouen 1700-1702; De antiquis
monarchorum ritibus, 2 voli,, Anversa 1736-1738.
Ma già il termine comincia a superare i propri limiti e il famoso abate di
San Biagio nella Selva Nera, M. Gerbert, oltre la sua Vetus liturgia alemannica,
2 voli., Sankt Blasien 1776 e i Monumenta veteris liturgiae alemannicae, 2 voli., Sankt
Blasien 1777-1779, opere in cui « Liturgia » sta solo per « Messa », scriverà anche
Principia Theologiae liturgicae quoad divinum officium, Dei cultum et sanctorum, Sankt
Blasien 1759, dove « Liturgia » acquista il più generale senso di « culto », ve­
nendo riferita anche a quello che più particolarmente si chiama « Ufficio di­
vino ».
Nel linguaggio ecclesiastico ufficiale latino il termine « Liturgia » comincia
a comparire solo nella prima metà del secolo xrx con Gregorio XVI (Inter gravis­
simas, 1832; Studium pio, 1842) e Pio IX {Non mediocri, 1864; Omnem sollicitudinem,
1874), ma diventa usuale a partire da san Pio X {Tra le sollecitudini, 1903, ecc.)
fino ad assurgere al ruolo di parola qualificante tutto un atteggiamento spirituale,
caratteristico dell’opera intrapresa e dell’epoca aperta dal Vaticano II.

1 S. Agostino, Enarrat, in Ps. 13$: PL 37, 1757.


2 Agenda c il termine rimasto vivo nel protestantesimo tedesco per indicare i libri rituali lu­
terani.
capitolo secondo

verso una teologia della Liturgia

Bibliografia

J. A. Jungmann, Gewordene Liturgie, Innsbruck 1941, 1-20; A. Stenzel, Cultus


publicus. Ein Beitrag zum Begriff und ekklesiologischen Ort der Liturgie, in ZfkTh 75, 1953,
174-214; L. Bouyer, La vie de la Liturgie (Lex orandi, 20), Paris 1956; M. Schmaus-
K. Forster, Der Kult und der heutige Mensch, München 1961; J. A. Jungmann, La
liturgie des premiers siècles (Lex orandi, 33), Paris 1962; I. A. Dalmais, Iniziazione
alla Liturgia, Torino 1964; G. Vagaggini, Il senso teologico della Liturgia, Roma
19654; A. Verheul, Introduzione alla Liturgia. Saggio di teologia del culto, Roma 1967;
S. Marsili, Il problema liturgico, in «Rivista Liturgica» 26, 1939, 16-19; Idem, Il
mistero di Cristo, l. c. 73-78; Idem, Liturgia, in «Diz. del Concilio Vat. II», Roma
1969, 1294-1342; Idem, Liturgia, in « Diz. Ene. di Teologia Morale», Roma 1973,
533-54í ; E. Cattaneo, Introduzione alla storia della Liturgia occidentale, Roma 1969a.

Nel capitolo precedente il termine Liturgia ci si è rivelato come una pa­


rola tacitamente contestata dal NT, e ciò certamente in ragione della carica
« giudaizzante » in essa contenuta per la scelta fattane dai L X X , quando
la introdussero come espressione tecnica del culto levitico della Tenda e del
Tempio.
Ciò non ostante, essa riappare, come s’è detto, molto presto nel cristia­
nesimo primitivo, riacquistandosi gradualmente un diritto di cittadinanza,
che non scomparirà mai più. Questo si deve indubbiamente al fatto della
sua presenza nel testo ufficiale della Bibbia (versione greca dei LX X ) preso
al di fuori di una lettura sufficientemente riflessa e comparata del testo ebraico
— sul tipo della lettura da noi fatta più sopra — e che sola avrebbe po­
tuto mettere sull’avviso rivelando il senso vero ed esclusivamente ritualista
del termine.
Ma a questa ragione ne va aggiunta presumibilmente un’altra più pro­
fonda e, crediamo, più incisiva, sempre dipendentemente dalla prima. A c­
cenniamo alla posizione della / Clementis a proposito dei « ministeri » del
NT. In essa il termine Liturgia ricorre ripetutamente L Di solito il suo signi­
ficato non si estende al di là di quello di « ministero-servizio » in genere

1 j Clementis, 8, 1 ; 9 , 2. 3 ; 20, io; 3 4 , 5. 6; 3 6 , 3 ; 40 , 2. 5 ; 4 1 , 1. 2 ; 4 3 , 4 ; 4 4 , 2 , 3 . 6.


48 parte I - capitolo II

—- sia pure sul piano religioso — anche quando i soggetti di esso sono o gli apo­
stoli o i successori che essi si dettero 1 e cioè i vescovi, i diaconi e più gene­
ricamente, i presbiteri2. Tuttavia è abbastanza chiaro che il « ministero-
Liturgia » dei vescovi, per es., si identifica con Vazione sacrificale3. Questo
è tanto più evidente se si considera: i) che parlando del « ministero-Liturgia »
dei sacerdoti dell’AT, questa si identifica con sacrificio 4, con azione sacerdotale
sacrificale5, e con Vofferta fatta dal sommo sacerdote e dagli altri ministri
(Xs'/róupyoì) 6; 2) che il «ministero» cristiano dei «vescovi-presbiteri-
diaconi » del NT è chiaramente paradigmato — richiamandosi ad una
superiore « gnosi » 7 — sul « ministero » del « pontefice-sacerdoti-leviti »
dell’A T 8, e ciò proprio per riportare anche il ministero-Liturgia del N T a
quella origine divina alla quale si riferiva Panalogo ordinamento dell’AT.
Questo fatto contribuirà attraverso il riannodarsi della parola « Liturgia »
all’idea e alla funzione « sacerdotale », a portare fatalmente anche il culto
cristiano su quelle posizioni ritualistico-clericali, che erano proprie della
Liturgia veterotestamentaria.
Naturalmente questo processo, frutto di un accostamento tanto super­
ficiale quanto facile, ma del resto ben comprensibile in uno scrittore di pro­
babile origine ebraica 9, quale è l’autore della 1 Clementis, non avrà fortuna­
tamente così presto un seguito, almeno non fino al punto che l’identificazione
di Liturgia-culto cristiano debba creare subito un « problema teologico ».
Infatti proprio per non aver riconosciuto in « Liturgia » l’equivalente di
quella determinata forma cultuale, che abbiamo visto identificarsi in quella
legale e particolarista del rituale levitico, si potrà constatare che anche lad­
dove e per quel tanto che il termine entra nell’uso cristiano, esso per molto
tempo ancora starà ad indicare soprattutto un contenuto cultuale, che sarà
tutt’altra cosa da quello della « Liturgia » sacerdotale ebraica e che si espri­
merà quindi con una propria « teologia del culto ».

I antichità cristiana

i Spiritualismo cultuale

Lo « spiritualismo » del culto non può essere visto nel cristianesimo


come una semplice risposta polemica nei confronti delPesteriorismo e della
materialità della Liturgia ebraica, perché, al contrario, esso forma l’elemento
base del cristianesimo sul piano cultuale. Infatti il « culto spirituale » viene
affermato universalmente e di conseguenza anche — e certo in maniera an-

* Ibidem, 42,4; 44, 5.


2 Cfr. le espressioni, ibidem, 4 4 ,2 .3 : «Uom ini degni ricevettero il ministero (XeiToupyta) degli
apostoli»; «Riteniamo ingiusto allontanare dal loro ministero (XeiTOUpyia) coloro che, incaricati...
con l’approvazione della Chiesa danno il loro ministero (XetTOupyetv) al gregge di Cristo ».
3 Cfr. ibidem, 44,3-4: «Riteniamo ingiusto allontanarli dal loro ministero. Sarebbe infatti non
piccolo peccato allontanare dalVepiscopato coloro che santamente hanno offerto i doni».
4 Ibidem, 40, 2.
5 Ibidem, 43, 4.
'Ibidem, 41,2.
7 Ibidem, 40, 1 ; 41, 4.
8 Ibidem, 40, 44.
9J. Quasten, Patrologia, voi. I, Torino 19712, 52.
49 verso una teologia della Liturgia

cora più violenta — nei confronti del paganesimo. Basta vedere in propo­
sito come vengono interpretate quelle che sempre e dappertutto nel mondo
extra e precristiano erano state le componenti essenziali del culto, e cioè
il tempio, Valtare e il sacrificio.

È noto che la primitiva Chiesa dovette difendersi, tra l’altro dall’accusa


di « ateismo » e di « empietà » ( = « irreligiosità » nel senso di « mancanza
di culto »), proprio per il fatto che non esistevano in essa né templi né al­
tari né sacrifici con i quali onorare Dio 1. Per i cristiani quei termini ave­
vano acquisito una dimensione del tutto diversa, perché erano espressivi di
un culto che si muove su tutt’altro piano, e così mentre li negavano nel si­
gnificato corrente che avevano tanto presso i pagani che presso gli Ebrei,
si sentivano sollecitati a ritenerli in senso di « culto spirituale ». Infatti,
in seguito alla loro nuova visione del culto, che consisteva non tanto in pre­
stazioni esterne di adorazione, quanto nel sentirsi chiamati ad essere essi stessi
una proclamazione di lode dell’amore di Dio, che dall’eternità li aveva eletti
alla santità in Cristo (Ef i, 4-6), i cristiani ponevano nella interiore santità
il culto da prestare a Dio. A proposito di questo « culto nello spirito » (Fil
3, 3), esso viene certamente descritto anche con i su citati termini di sacri­
ficio (0uaLa-7rpoCT9òpà), altare (OuaiacrnijpLov), tempio (vaó<;), che però compa­
iono ormai carichi del particolare senso loro attribuito dal NT.
Così sacrificio non è più la vittima animale, ma Cristo stesso che si offre
per la remissione dei nostri peccati (Ef 5, 2; Ebr 9, 14; io, 11-12), in un sa­
crificio spirituale (Ebr 9, 14). Analogamente a Cristo, che « offre il suo corpo »
(Ebr io, 11), anche i cristiani « offrono nel loro corpo » se stessi come « sa­
crificio vivo, santo e gradito a Dio » (Rom 12, 1) realizzando così un « culto
di sacrificio spirituale» (Rom 12, 1; 1 Piet 2,5). Come questo sacrificio
in Cristo trovò espressione in un atto di interiore volontà (Ebr io, 7. io)
che si manifestò come «sacrificio di preghiera e di supplica» (Ebr 5, 7),
così anche i cristiani « offrono in Cristo il sacrificio della lode> come l’unico
gradito a Dio» (Ebr 13, 15-16). A questo sacrificio che di se stessi fanno
tanto Cristo che i cristiani, san Paolo dà la qualifica di « Liturgia » (Ebr
8, 2. 6; Fil 2, 17) senza naturalmente intendere in nessun modo di mettere
in rilievo l’aspetto esteriore e cerimoniale connesso con quel termine.
Questa impostazione nuova del culto continua ad affermarsi nei primi
secoli della Chiesa, e così vediamo che è « sacrificio » la morte del martire123:
« sacrificio » sono le preghiere unite alla carità del prossimo 8. « Il sacrificio
splendido e grande — dice Tertulliano — che i cristiani offrono e che fu
da Dio comandato, è la preghiera che sorge da un corpo puro, da un’anima
senza colpa e dallo Spirito Santo » 4.
In questa tradizione fondata dalla nuova teologia cultuale cristiana, si
muove ancora al secolo iv, sant’Agostino, quando per spiegare che « il vero
sacrificio consiste in ogni opera buona che si fa per unirsi in comunione

1 Cfr. per es. Giustino, Apoi. I, 6; 13: PG 6, 336; 345; Atenagora, Legatio pro Christ., 3;
4; io; 13; 27 (/. c.y 896 ss.; 908; 916; 952); Taziano, Aav. Graecos, 27 (/. c., 952); Origene,
C. Celsum, 8, 17: PG 11, 1540.
2 Martirio di PolicarpOy 14, in Ruinart, Acta martyrum, Verona 1731, 37.
3 Clemente Aless., Stromatay V II, 6, 31, 7; 32, 4; Pastore di Erma, mand., io, 3, 2-3; Let­
tera a Flora, 3, in « Sources chrét. » 24; Giustino, Dial., 117.
4 Tertulliano, Apolog., 30, 5.
50 parte 1 - capitolo II

con Dio», si richiama a Rom 12, i. Egli parla così del «sacrificio» del
corpo, messo a servizio di Dio; del «sacrificio dell’anima », nella quale la
presenza dell’amore di Dio estromette ogni forma di concupiscenza mon­
dana, di modo che, « consacrandosi a Dio », tutto l’uomo diventa un « sa­
crificio », fino al punto che « l’intera redenta città e comunità dei Santi
diventa un sacrificio universale offerto a Dio per mezzo del sommo sacerdote
Cristo... perché il sacrificio dei cristiani consiste nel formare tutti un solo
corpo con Cristo » h

Nel suo « culto spirituale » il cristiano offre un « sacrificio incruento » 3


su un altare che è Cristo 3 ma che è formato anche da quanti sono uniti nella
comune preghiera 4.

Anche il tempio, altro elemento cultuale portante e che soprattutto nel­


l’ebraismo era il punto focalizzante di tutto il culto visto a livello di « Li­
turgia » levitico-sacerdotale, acquista nel cristianesimo una posizione che
è certamente di primo piano nella nuova teologia del culto che lo caratterizza.
La primitiva tradizione cristiana, anche se con non poca difficoltà da
parte dei fedeli provenienti dal giudaismo, dimostrò subito di aver assor­
bito profondamente e vitalmente il valore e il senso delle dichiarazioni di
Cristo a proposito del tempio„ di Gerusalemme («segno del tempio» Gv
2, 19-22; Mt 26, 61; Me 14, 58; Alti 6, 14), la cui distruzione è legata in
via diretta alla «spiritualità del culto» (Gv 4, 19-24), già promessa per il
tempo della nuova alleanza (Mal 3, 1-5) e espressa da Cristo nel «segno»
della cosiddetta «purificazione» del tempio (Mt 21, 12-13; Me 11, 15-17;
Le 19,45-46; Gv 2, 14-16; cfr. Is 56,7; Ger 7, 11). Questo culto «spiri­
tuale » fondato sulla distruzione-purificazione del « tempio », implicava non
solo l’abbandono delle forme sancite dal codice liturgico mosaico (Atti 6, 14) 5
ma anche il sorgere appunto di un nuovo culto, che si sarebbe concretizzato
in un tempio « non fatto da mano d’uomo » (Me 14, 5-8; Ebr 8, 2; 9, 11-24)
e che per ciò stesso sarebbe stato « spirituale » (1 Piet 2, 5) e « santa dimora
di Dio nello Spirito» (Ef 2,21-22). Il prototipo di questo «tem pio»,
frutto di una « risurrezione », doveva essere Cristo stesso il cui « corpo è
il tempio » (Gv 2, 21), nel quale « abita in pienezza la divinità » (Col 2, 9).
In questa visione, la morte e risurrezione di Cristo non acquistano solo il
valore di « segno » del potere, da Cristo rivendicato, di stabilire un nuovo
culto (Gv 2, 18-22), ma costituiscono direttamente in Cristo — Agnello
immolato — il nuovo « tempio » della « nuova Gerusalemme » (Apoc 21, 22),
e cioè appunto il tempio « non fatto da mano d’uomo », il quale implica
« la presenza, nel NT, di una vittima ugualmente non fatta da mano di
uomo » 6, ossia diversa dal sacrificio materiale di animali sostitutivi. « Cristo
infatti entrò nel santuario non manufatto per mezzo del proprio sangue,

A go stin o , De Civ. Dei, io, 6: PL 41, 283 ss.


2 Atenagora, Legatio pro Christ., 13 (/. c., 916).
3 Cfr. Ebr 13, io nel commento di C. Spicq, Epitre aux Hébreux, voi. II, 425; Ignazio, Ad
Magri., 7, 2.
4 Clemente Aless., Stromata, V II, 6, 31, 8; Policarpo, Ad Philip., 4, 3; Crisostomo, In Io. hom.,
13, 4: PG 59, 90.
6 Cfr. Atti 15, 1 .5 ; 21, 21. 28; 25, 8; 28, 17 dove appare non meno chiaramente che si tratta
delle norme cultuali-liturgiche del mosaismo.
6 Epist. Barnabae, 2, 6.
51 verso una teologia della Liturgìa

offrendo se stesso come vittima immacolata nello Spirito Santo » (Ebr 9,


” -*4)-
In questo modo il NT designava contemporaneamente il « sacrificio »
e il « tempio » dell’A T come figura destinata a scomparire, per cedere il
posto alle nuove realtà cultuali instaurate da Cristo (Ebr io, 1). Il nuovo
culto infatti avrebbe avuto nel «corpo di Cristo» tanto il suo «sacrificio»
che il suo « tempio », perché, il « corpo-realtà di Cristo » può fondare, in
opposizione ai riti dell’A T (Col 2, 17), un «culto in spirito e verità» (Gv
4,23-24)-
Ma mentre Cristo si presentava come « tempio », si presentava anche
come «pietra di volta e fondamento» (Mt 21,42; Me 12, io; Le 20, io)
del nuovo « tempio », visto nella « torre » che Dio ricostruisce nella sua
« vigna », servendosi di « Cristo-pietra rigettata dai costruttori » (Sai 117, 22;
cfr. Mt 21, 42 e par. sopra citati). I cristiani edificati come altrettante « pietre
vive sulla pietra viva che è Cristo, rigettata dagli uomini (morte) ma glori­
ficata da Dio (risurrezione) », formeranno una casa di Dio spirituale (1 Piet
2, 4-5) ossia « il tempio santo e la dimora di Dio nello Spirito » (Ef 2, 21-22;
1 Cor 3, 16-17; 12 C °r 16-19). Sono infatti anche essi, dopo Cristo, « vigna
e costruzione di Dio » (1 Cor 3, 9), « tempio, sacerdoti e vittime spirituali »
offerte e gradite a Dio (cfr. 1 Piet 2,4-5; R ° m 12, 1) L
Su questa nuova realtà iniziata da Cristo e continuata dalla Chiesa,
insiste la primitiva tradizione cristiana, che tanto nella polemica antigiudaica
come nella apologia antipagana richiama e sviluppa le affermazioni del
N T per giustificare e spiegare lo spiritualismo cristiano in funzione di una
nuova teologia del culto. In questa prospettiva possiamo infatti leggere che
« gli uomini diventando spirituali diventano un tempio perfetto di Dio » a.
Questo vale sul piano individuale,. « dando a Dio un culto ininterrotto nel
tempio del proprio corpo » 3 ossia nell’offerta di se stessi a Dio col compiere
la sua volontà. Prima della conversione ognuno aveva un cuore pieno di
idolatria, come fosse « casa di demoni e tempio veramente costruito da mano
d’uomo » 4* ma poi, attraverso « la remissione dei peccati e la rigenerazione,
Dio abita veramente in noi e c’introduce nel tempio immortale e spirituale, co­
struito per il Signore » 6, che è nient’altro che « la chiesa dei fratelli e dei
santi, nella quale si loda e si canta a Dio » a. Infatti la comunità stessa è
« la casa della preghiera e del culto » 7 e, « la assemblea degli eletti ( =
cristiani) è il tempio più di ogni altro adatto per accogliere la grandezza
e la dignità di Dio », e in esso « l’altare risulta essere radunanza dei santi

1 Per percepire tutta Pimportanza che il « tempio-corpo di Cristo » ha per Pintelligenza del
« culto spirituale », cfr. Y. Congar, Il mistero del tempio, Tonno 1963, 135-270; S. Marsili, Dal tempio
locale al tempio spirituale, in II tempio, Atti i8ma seti. lit. nazionale, Roma i960, 51-63; Idem, La chiesa
locale comunità di culto, in «Rivista Liturgica» 59, 1972, 29-53.
2 Epist. Barnabae, 4, 11.
3 Ireneo, Demonstratio, 96, in « Sources chrét. » 62, 164. Cfr. Ignazio, Eph., 15, 3; Phildd.} 7, 2;
Clementis, 9, 3.
4 Epist. Bamabae, 16, 7. Nota che il comune termine greco x eiPOTr°hFO<; = manufatto, che
nel N T (Me 14,58; Atti 7,48; 17,24; Ebr 9, 11.24) è riferito al tempio di Gerusalemme, al
quale si oppone il tempio àxeip 07ro[7]TO<; (termine noto ai L X X , ma non agli autori profani, cfr.
Grimm-Trayer, Greek-English Lexicon, Edinburgh 19584, 90), innalzato da Cristo con la sua risur­
rezione (Me 14, 58, cfr. G v 2, 19-22), è usato normalmente dai L X X per indicare gli idoli pagani.
Cfr. per es.: Is 2, 8; io, 11 ; 16, 12; 19, 1; 21, 9; 31, 7.
®Ibidem, 8-10.
6 Ibidem, 6, 15-16.
7 Giustino, Dial., 86: PL 6, 631.
52 parte I - capitolo II

uniti nella voce e neiranima » 1. I singoli fedeli sono « altrettanto pietre


che devono formare il santuario e la casa del Padre » 12: e questa si realizza
nell’assemblea comune 3. È questo il tempio che Dio, in opposizione a quello
« manufatto » d’Israele, si costruisce da se stesso « alla fine della settimana »
e cioè dopo il sabato, giorno-sintesi del culto ebraico4.
Come si vede, la nuova teologia del culto, che il cristianesimo fonda tutta
su una visione interamente « spirituale » del culto stesso, mentre ignora
qualunque forma di ritualismo, implica tutta la vita in un clima cultuale,
ridonando al fatto religioso un compito di coordinazione totale di tutta l’at­
tività umana. Nel fare questo, la primitiva tradizione cristiana non cessa
mai di richiamarsi all’interpretazione « spirituale » che del culto avevano
già dato i profeti56 , stabilendo così una continuità, sia pure differenziata,
nella rivelazione dei due Testamenti. Bisogna infatti fare attenzione a non
scorgere nelle posizioni neotestamentarie un’interpretazione « allegorica »,
per la quale, pur conservando la precedente terminologia — nel caso quella
esaminata di « sacrificio-altare-tempio » — si pensa che questi stessi ter­
mini perdano il loro significato direttamente cultuale una volta che siano
«trasferiti su un altro piano» ( = allegoria), stemperandosi in un generico
senso morale come avviene, per es. negli scritti filosofico-religiosi di Filone
a proposito dell’AT.
Qui siamo al contrario, in tutt’altro rapporto, ed è quello che interviene
tra cose le quali sono, tra loro, in un rapporto di reciproca tensione inte­
riore, qualificabile come preparazione e compimento, annunzio e attuazione, ombra
[figura) e realtà. E tale è appunto il rapporto che esiste tra il culto dell’A T :
« preparazione-annunzio-ombra (figura) », e culto del N T : « compimento-
attuazione-realtà ». Questo significa che i suddetti termini cultuali dell’A T
(e a più ragione ciò vale per l’ambito extra-rivelazione) acquistano tutti
il loro valore di realtà piena nel NT, nel senso che solo in questo il loro si­
gnificato — sono infatti dei « segni » — riceve quel « contenuto » reale,
senza del quale non vi è autenticità di rapporti con Dio.
Sant’Agostino, tra gli altri, dicendo che vi deve essere necessariamente
una diversità tra « il rito profetico che annuncia cose future e il rito evange­
lico che proclama cose compiute » 6 non fa che interpretare nel suo giusto va­
lore Ebr i o, i che rileva come « la legge possedesse l’ombra delle realtà fu­
ture, non l’immagine (reale) delle realtà avvenute ». Quindi se nella teologìa
del culto cristiano, il « sacrificio » è l’interiore santità della vita e la preghiera
che la esprime; se « l’altare » è Cristo in quanto raccoglie la comune offerta
della preghiera; se il « tempio » è il « corpo di Cristo » nella sua duplice
dimensione: personale (persona di Cristo) e comunitaria (Chiesa), questo
non vuole dire che siamo in un linguaggio puramente allegorico o che si parli
in termini di analogia per cui solo in maniera impropria « sacrificio-altare-
tempio » possono essere considerati ancora come termini veramente cul­
tuali. Al contrario, solo nel cristianesimo questi termini raggiungono un li­

1 Clemente Aless., Stromata, V II, 6, 31, 8.


2 Ignazio, Eph., 9, 1.
3 Idem, Ad Maga., 7, 2.
4 Epist. Bamabae, 16, 6-7.
5 Cfr. per es. Epist. Barnabae, 2 , i - i o „
6 Agostino, Contra Faust., 19, 16: PL 42, 356.
53 verso una teologia della Liturgia

vello veramente cultuale. Identificati infatti con la vita, essi cessano di essere
solo « segni » di una « realtà » diversa da essi, perché implicano finalmente
quella « realtà » senza la quale sono « segni » vuoti.
Questo non vuol dire, che per il suo carattere di culto « spirituale », il
cristianesimo non dovesse possedere — e non abbia in verità posseduto
fin dal principio — un sistema « rituale » proprio. Esistevano certamente
dei riti, dei quali ricorre il nome fin dagli scritti apostolici (battesimo, fra­
zione del pane o cena del Signore-Eucaristia, imposizione delle mani, ecc.) ;
ma essi non erano tuttavia una « Liturgia » nel senso dell’A T e tanto meno
della religione pagana. Non erano infatti gesti o azioni « ceremoniali »
intesi come mezzi atti a onorare Dio per se stessi. I riti cristiani erano fin
dal principio l’espressione perfetta e unica del culto « spirituale », perché
erano « segni-sintesi » di un momento salvifico, e cioè segni nei quali si con­
densava allo stesso tempo la presenza santificatrice del mistero di Cristo e la
presenza santificata dei fedeli. Il rito cristiano ha infatti avuto sempre lo scopo
diretto di consacrare e santificare l’uomo, affinché questi diventasse in tal
modo nella sua stessa propria persona — insieme con Cristo e per Cristo —
e non per un simbolo sostitutivo, « sacrificio-altare-tempio » di Dio,
ossia realtà e luogo spirituale del culto di Dio. I riti cristiani erano infatti pro­
priamente sacramenti e misteri. In altre parole: i riti cristiani erano veramente
una « novità » in materia di culto, perché questo non risultava un’azione
organizzata a fianco della vita, ma costituiva la ragione stessa dell’essere
cristiani, cioè creava uomini che vivevano in Cristo h

2 Sintomi di involuzione

Il culto cristiano, pur non cessando mai di essere un culto « spirituale »,


non è però sfuggito alla presa delle situazioni concrete dell’ambiente sto­
rico, sociale e culturale nel quale era inserito. La Epistola ad Diognetum così
scriveva al secolo n : « I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini
né per paese né per lingua, né per costumanze. Non è infatti che abitino
città particolari o si servano di un linguaggio distinto o conducano una vita
differente... anche se mostrano di avere una impostazione ammirevole nella
propria condotta... A dirlo in una parola, i cristiani sono nel mondo quel
che ramina è nel corpo » a. Ma c’è una cosa nella quale si differenziano
da tutti, e questa è « il loro culto che è invisibile » a, perché esso non solo
non è un « ordinamento di misteri umani » 4, ma anzi, il mistero del loro
culto non si può neppure apprendere dagli uomini 5.
Queste affermazioni, mentre mostrano 1’inserimento cristiano in tutto il
tessuto della vita civile e culturale, eccezione fatta solo per la religione 8,
sottolineano la differenziazione dei cristiani appunto sul piano religioso,
richiamandosi non a differenze rituali, esternamente controllabili, ma al12 5
4
3

1 Per una magnifica sintesi teologica di cristianesimo-liturgia cfr., per es. Eusebio di Cesarea,
Demonstr. evang.j io: PG 22, 83-94.
2 Epist. ad Diognetum. 5, 1-4 e 6, 1.
3 Ibidem, 6, 4.
4 Ibidem, 7, 1.
5 Ibidem, 4, 6*
0 Tertulliano, Apologo 37, 4: «Siamo di ieri, ma abbiamo riempito il mondo e tutte le vostre
istituzioni... lasciando a voi solo i templi ».
54 parte I - capitolo II

carattere « invisibile » e « non umano » ossia all’aspetto « spiritualista »


proprio e unico del « mistero del culto cristiano ». Ma finché questo inseri­
mento nell’ambiente implicò un confronto critico e dialettico sia con l’e­
braismo — cfr. il significato delle lettere paoline ai Romani, ai Galati, agli
Ebrei — sia con il paganesimo, il quale proprio con la sua persecuzione
contribuiva a tener vive certe distanze, non vi fu nulla da temere.
Al secolo iv, le cose cominciarono a prendere un’altra piega. Veditto
costantiniano del 313 diede la pace alla Chiesa, ma aprì anche la Chiesa
al mondo circostante e aH’Impero, provocando non solo facili conversioni,
soprattutto nelle città, ma anche un inevitabile contatto con certi elementi
culturali, che fino allora erano restati più o meno esclusi dall’ambito cri­
stiano.
La stessa severa organizzazione tanto del catecumenato quanto della peni­
tenza, che proprio al secolo iv-v raggiungerà le forme più espressive e più
efficaci, dimostra certamente la volontà della Chiesa di non cadere vittima
di una comoda facilità tanto nell’accogliere quanto nel mantenere i con­
vertiti in vero impegno cristiano sia sul piano generale della vita che su
quello particolare del culto. Questo infatti continua ad essere presentato
— come dimostrano soprattutto le molte « catechesi » giunte fino a noi
da quell’epoca — come un culto spirituale. Ma la forma di questo culto co­
mincia a subire l’influsso — sia pure, per l’appunto, solo sul piano « formale »
— del tempo e del luogo. Il fatto che in questa maniera il culto cristiano
acquisti le caratteristiche proprie, ossia il « genio » di un determinato po­
polo x, è da giudicare in senso altamente positivo; ma questo non deve im­
pedirci di guardare criticamente le cose123 .

Il passaggio, registrato a Roma sul finire del secolo ni, dalla lingua greca
a quella latina nella Liturgia, non avvenne per semplice traduzione di testi
anteriori — se ne esistevano (vedi appresso) — ma fu un adattamento e
spesso una vera creazione, in vista delle esigenze proprie della mentalità la­
tina e romana. Questo non poteva non comportare un avvicinamento a
formule cultuali più congeniali al « genio » romano sia sul piano linguistico-
stilistico 8 sia, pur troppo, sul piano della mentalità e talvolta del contenuto.

Per il contenuto basti pensare al canone romano, nel quale l’originale linea
« eucarìstica » o di « preghiera di ringraziamento », ha ceduto il posto a
quella direttamente « sacrificale » che è diventata dominante4, e il conte­
nuto « anamnètico », che prima comprendeva tutta la « storia della sal­
vezza » a cominciare dal momento « cosmico » di essa fino all’adempimento
del « mistero di Cristo » nella sua totalità dall’Incarnazione alla Parusia,
è stato ristretto al solo « memoriale » della « passione-risurrezione-ascen-
sione », nel quale appunto il momento « sacrificale » appare con maggiore
evidenza. Ma se il contenuto risulta, sotto questi aspetti, mancante, esso si
è accresciuto di un elemento nuovo, fornito dalla mentalità giuridico formale,

1 È restato famoso a questo proposito ed è sempre istruttivo — benché oggi se ne scoprano


i limiti — lo scritto dell’inglese É. Bishop, The Genius qf thè Roman Rite, in « Liturgica Histórica »,
1918, 1-19 : trad. frane, di Wilmart, Le géme du rit romain, 1920.
2 U n’ottima sintesi di tutto il problema in J. A. Jungmann, La liturgie des premiers siècles, 1962,
191-252. Cfr. Th. Klauser, La Liturgia nella Chiesa occidentale. Sintesi storica e riflessioni, Torino 1971.
3 S. Marsili, Testi liturgici per Cuorno moderno, in «Concilium » 1969-1972, 254-273.
4 C. Vagaggini, Il Canone della Messa e la riforma liturgica, 1966, 74 ss.
55 verso una teologia della Liturgia

che il romano porta anche nel culto. In questo tempo va sempre più in
disuso il principio e la pratica della « improvvisazione » liturgica, che fino
allora era tipica del culto cristiano non solo per primitivi addentellati « ca­
rismatici » 1 ma perché rispecchiava un carattere proprio della preghiera
« nello spirito » ossia del culto spirituale: nascita spontanea della preghiera
dalla presenza dello Spirito in noi, senza formulazioni studiate e fisse (Rom
8, 15. 26). 11 fatto, che di certo non si deve spiegare come un venir meno
dello Spirito, era nondimeno un adattamento ad una precisa mentalità, che
era corrente nel mondo romano a proposito della preghiera svolta nell5azione
cultuale, e che corrispondeva all’idea secondo la quale la preghiera doveva
essere espressa non solo « solemnibus verbis », ma anche « conceptis, certis verbis »,
ossia con solennità di espressione e in più con parole adeguatamente pensate
e precise nel loro significato 12. Era la mentalità giuridica#— congiunta, sullo
sfondo, al valore « magico » della parola — che riteneva valido anche nel rap­
porto cultuale il principio stabilito dalla « Legge delle X II Tavole » romane:
« Il diritto è legato alla parola nella sua espressione » 3 e che portava di con­
seguenza all’uso di fissare nello scritto le formule cultuali, magari con la
conseguenza che col tempo si continuarono a recitare preghiere che nes­
suno comprendeva4. Questo fissismo delle formule, così rigido in campo
giuridico che « vel qui minimum errasset, litem perderet » 6, era applicato scru­
polosamente anche nella preghiera cultuale, al punto da richiedere che il
celebrante del sacrificio dovesse essere assistito da un « suggeritore » [praeco)
il quale « de scripto praeiret » 6.
Tertulliano già aveva rilevato che questa dipendenza del culto pagano
dalla parola scritta non era condivisa dai cristiani, i quali pregavano « senza
suggeritore appunto perché la loro preghiera scaturiva dalVintimo » 7. Ma già
al secolo m non si è più sullo stesso piano. Ippolito, riferendo nella sua Tra­
ditio apostolica tutta una serie di formule liturgiche, avverte certamente che
questo non avviene perché esse siano ripetute « a memoria » 8, ma il fatto
stesso che le formule vengano fissate nello scritto è significativo. C 5è la preoc­
cupazione di conservare una « tradizione », che si sente minacciata da pos­
sibili infiltrazioni di errore, frutto di ignoranza 9, e sotto questo punto di
vista si è certo ben lontani dal dover dare a questo lavoro di fissaggio reda­
zionale della preghiera cristiana quel sottofondo magico che esigeva, nella
religione pagana, l’uso di «libelli». È tuttavia innegabile un fatto: se
nell’uso cultuale i « libelli » nascono dal timore di un errore, che nel cristia-

1 Didachéy io, 7: « Ai profeti permettete di protrarre l’Eucarestia per quanto tempo vogliono »;
Ippolito, Traditio aposta 9, ed. Botte, 28: « I l vescovo faccia la prece di Eucarestia come è detto;
non è però assolutamente necessario che dica le stesse parole scritte da noi... ma ognuno preghi
secondo la propria capacità. Se c’è chi è capace di fare una prece lunga e solenne, bene; ma non
è vietato a uno di fare una prece moderata. L ’importante è che la sua prece sia secondo la sana
ortodossia ».
2 Cfr. K . Latte, Rómische Religionsgeschichte, Miinchen i960, 62. Sulle formule: «sollemnibus,
conceptis, certis verbis» cfr. B. Brissomus, De formulis et sollemnibus libri VII, Frankfurt 1592, 61-64;
108-114.
3 Tav. 6, 1 : « Uti lingua nuncupasset, ita ius esto », cit. in Latte, /. c.
4 Cfr. Quintiliano, Inst. orat.} 1, 6, 40.
5 Secondo il giurista romano Gaio, cit. in Latte, L c.
6 Plinio, Hist. nat., 28, .11. Altri esempi in Brissonius, 0. c., 61; cfr. Latte, L c., che rimanda
a molti passi dello storico Livio.
7 Tertulliano, Apologo 30, 4: «Sursum suspicientes christiani manibus expansis quia innocuis..., sine
monitore quia de pectore oramus, precantes sumus... ».
8 Vedi sopra, nota 1.
9 Ippolito, 0. c.3 1; 43, L c 2 ss. e 102.
56 parte I - capitolo II

nesimo inciderebbe solo sulla « ortodossia » l, mentre nel paganesimo, come


si è visto più sopra, sarebbe causa di invalidità del rito, in realtà è avve­
nuto che il senso validistico che caratterizzerà ben presto la Liturgia cristiana,
ha la sua fonte in questa tendenza a valorizzare più la parola scrìtta che la
tradizione, ossia una generica linea di preghiera trasmessa per insegnamento,
la quale lasciava libertà allo Spirito 2.
Un'identica mentalità giurìdica si rivela in certe formule liturgiche cri­
stiane, che in questo tempo e in questo spirito, riaffiorante dall’antica tra­
dizione cultuale precristiana, vengono fissate nello scritto. Alludiamo a
espressioni come quelle del Canone romano:

« Uti accepta habeas et benedicas


haec dona,
haec munera,
haec sancta sacrificia illibata...
Quam oblationem...
benedictam, adscriptam,
ratam, rationabilem,
acceptabilemque facere digneris... ».

In queste espressioni infatti non c’è solo una insistenza, ma c’è soprat­
tutto una « precisazione » a tono fortemente giuridico sia sull'oggetto dell’of­
ferta (haec), sia sulle qualità che questa deve conseguire sotto l’azione divina.
Troppo lontano ci porterebbe seguire qui lo sviluppo non solo della lingua
liturgica, ma il sorgere di un cerimoniale, che certamente fino al secolo iv
era ignoto al culto cristiano.
Ormai la celebrazione non avviene più nelle « sale » di una casa pri­
vata, adibita o per l’occasione o stabilmente a « casa dell’assemblea » [domus
ecclesiae, cfr. Filem i, 2: « Ecclesia quae in domo tua est»), ma comincia a svol­
gersi nelle basiliche. Quale che sia il modello a cui o del tutto o principalmente
si riferirono gli architetti del tempo nell’erigere l’edificio, che sotto questo
nome era destinato all’uso del culto cristiano8, è chiaro che tanto nel nome
quanto nella forma, la basilica non voleva, in origine, essere un sinonimo
di « tempio ». In fondo conservava il nome di un edificio profano, ben noto
nell’uso civile tanto pubblico che privato, e nella forma ampia, spaziosa e
libera si distanziava notevolmente dal « tempio », nel quale la aedes (greco
vccò<;) occupava di solito la parte centràle, attorno alla quale girava uno
spazio quasi sempre formato di colonne (disposte in quadrato, in quadrilatero
o in circolo), che altro non era che un ambulacro di accesso all’aedes, dentro
la quale era racchiusa la statua della divinità.
Questa voluta lontananza dal tipico stile architettonico cultuale pagano,
sta indubbiamente a testimoniare una positiva volontà di distanziarsi da
esso, tanto più che il culto cristiano avevà come esigenza assoluta quella di

^Ippolito, ibidem. Cfr. Agostino, De baptismo, 6,25: PL 43, 213 ss.; Concilio di Cartagine del
397, in cui fu presente sant’Agostino : « Et quicunque sibi preces aliunde describit, non iis utatur nisi prius
eas cum instructioribus fratribus contulerit». (E. J. Jonkers, Acta et symbola conciliorum, Leiden 1954, 126).
2 Cfr. Basilio, De Spir. Sanctoy 27, ed. B. Pruche, in « Sources chrét. » 17, 233 ss.
3 Cfr. M. Righetti, Storia liturgicay voi. I, 1964a, 432 ss.
57 verso una teologia della Liturgia

essere un luogo nel quale si potesse radunare un’assemblea che doveva essere
insieme « assemblea della parola » e « assemblea conviviale ». Ciò però
non valse a impedire che la « basilica » si trasformasse in un ambiente son­
tuoso e ricco, che certo solo con difficoltà riusciva a testimoniare ancora il
piano « spirituale » del culto cristiano e inevitabilmente cominciò a richia­
mare prima l’aspetto « liturgico-esteriore » e poi anche il nome (« tempio »)
degli edifici cultuali non cristiani L

Altro profondo cambiamento è quello relativo alYaltare. Alla fine del


secolo n o al principio del ni, Minucio Felice poteva scrivere: «Non ab­
biamo altari » a. Era una sfida che rivendicava il carattere « spiritualista »
del culto cristiano, perché « l’altare » richiamava vittime cruente di « ani­
mali » offerti alla divinità, mentre i cristiani offrivano se stessi come « vit­
tima spirituale» (Rom 12, i) a Dio in Cristo. Nelle loro riunioni si racco­
glievano attorno ad una mensa; disposti attorno o di fronte ad una comune
tavola essi partecipavano alla « vittima spirituale », rappresentata dal Corpo
e Sangue del Signore nel memoriale della morte di lui (1 Cor 11, 20. 27).
Si tratta veramente di una « mensa » che al momento voluto si dispone
al suo posto, visibile a tutti e che per tutti resta una « mensa », anche se
ha valore di altare3.
E bisogna qui rilevare che non sarà solo e forse neppure principalmente
l’idea che l’Eucarestia è un sacrificio a dare alla « mensa » la forma di « al­
tare»; da sempre infatti l’Eucarestia era stata ritenuta un «sacrificio» e
tuttavia la celebrazione era avvenuta sempre su una « mensa », situata in
una « domus ». Ma siccome la « domus ecclesia » era diventata un « tempio »
e il « tempio » vuole un « altare », anche l’idea della « mensa » passò in
secondo piano, e anzi assunse sempre più la linea esterna di « altare », ri­
chiamata da una visione mai tramontata del tutto e di cui anche l’A T era
pieno.

Fissata in pietra, la « mensa » diventa veramente anche nella forma


esteriore un altare non differente da quello ebraico pagano, e, come questo,
a poco a poco si trasforma in oggetto sacro: diventato oggetto di culto, reso
« intoccabile » ai laici, sarà circondato dai sette candelabri onorifici che,
per un cerimoniale desunto dalla corte imperiale, avevano accompagnato
il vescovo al suo ingresso nella basilica; sarà incensato con l’incenso che
— nuovamente secondo gli usi di corte — aveva preceduto il vescovo;
sarà non solo coperto — come ogni « mensa » — da una tovaglia, ma sarà
« vestito » — come una persona (altare = Cristo) — con « vesti di seta »12 3

1 Cfr. Itinerarium Aetheriae, 25, 8 (ed. H. Pctré, in « Sources chrét. » 21, 202) : Al secolo iv, nelle
basiliche costantiniane di Gerusalemme « non si vede altro che oro, pietre preziose e seta e broc­
cati d’oro... e i vasi liturgici sono tutti d’oro incrostati di pietre preziose... ». In concomitanza
sappiamo che non minori «onori e ricche donazioni» i vescovi ricevevano da Costantino; Eusebio
di Cesarea, Hist. eccl., io, 2, 2, ed. G. Bardy, in « Sources chrét. » 55, 79.
2 Minucio Felice, Octavius, 32, 1.
3 Cipriano, Epist., 45, ed. Campos, Madrid 19642, 499: «In tanto fratrum religiosoque conventus
consedentibus sacerdotibus et altari posito ». Cfr. Acta Thomae, 49, ed. it. di M. Erbetta, Gli apocrifi del N T ,
voi. II: Atti e leggende, Torino 1966, 332: avendo l’apostolo ordinato « al suo ministro di preparare il
pane da consacrare », questi prese, in mancanza eli una mensa, uno « sgabello (subsellium) » e co­
pertolo con una tovaglia, vi fu disposto il pane per l’eucarestia {panis benedictionis). Ancora al secolo
iv leggiamo: Optato di Milevi, De schism. Donat., 1 ,1 9 : PL 11, 922 : « Conferta erat ecclesiabopulis, piena
erat cathedra episcopalis, erat altare loco suo»: Agostino, Sermo 132: PL 38, 735: « Mensa... est in
medio constituta. Quid causae est ut mensam videatis et ad epulas non accedatis} ».
58 parte I - capitolo II

decorate in oro finalmente sarà occultato alla vista dai « quattro veli » o
tetravela a, che dovevano nascondere agli occhi dei profani i santi misteri8.
Ecco così ristabilita in pieno la forma esteriore — anche se altro è il
contenuto — della « Liturgia templare » ebraica : si è infatti ricostituito
il «santuario » chiuso da un velo (Es 26, 31-33), dimenticando che proprio
questo si stracciò in due alla morte di Cristo (Mt 27, 51), ad indicare appunto
che l’antica « Liturgia » cedeva il posto al culto del NT.

Il Medioevo

i Giuridismo-esteriorismo liturgico

Le cose non migliorano certo nel basso Medioevo, prima con l’altare-
reliquiario (che nel Barocco si trasforma in altare-sostegno di busti-reli­
quiari e di statue), e poi con l’altare a dossale (che dal Barocco in poi dà
origine alla grande «pala o quadro d’altare»). Così si crea — e si molti­
plica — l’altare devozionale, che accentra l’attenzione sulle reliquie e sui
Santi, e non ha più lo scopo diretto di servire da « mensa del Signore » per
la comunità, ma sarà il luogo da cui si esporrà a venerazione il santo: si
dirà infatti: «altare della Madonna», «altare di san Giovanni», ecc.
Questo fenomeno di distacco dal significato di « mensa » sarà accentuato,
o col porre l’altare su un piano sopraelevato, formante il « presbiterio »,
al quale si accede per molti gradini, o col relegarlo al fondo dell’abside (Ba­
rocco). L ’una e l’altra soluzione, creando un ampio spazio attorno e davanti
all’altare, fanno di questo il luogo adatto di una « Liturgia » solenne e son­
tuosa, alla quale ormai il popolo assisterà dal basso o da lontano, come ad
uno spettacolo. Viene così radicalizzata la distinzione tra clero, che fa la Liturgia,
e popolo, che assiste alla Liturgia, e in più viene resa non solo materialmente
e funzionalmente difficile la partecipazione vera (sacramentale) del popolo,
ma si crea sempre più profondo — sul piano psicologico — il punto di rot­
tura tra Liturgia (ormai clericalizzata nella forma e monopolizzata nell’eser­
cizio) di coloro che si dicono « ministri », ma in realtà sono i padroni esclu­
sivi di essa, e popolo, che nelle devozioni ai Santi cercherà il surrogato ad una
Liturgia sontuosa, signorile nel linguaggio (ignoto) e nella forma (incompresa),
e posta ormai lontana non solo spiritualmente ma anche materialmente.
Che cosa è diventato il cerimoniale di una messa papale al secolo vi -vii
si può avere un’idea leggendo YOrdo Romanus / 4: non è null’altro che un
groviglio intricatissimo di nomi e di movimenti5, dove la volontà di « fare
spettacolo » non è meno evidente dell’intenzione di imporre un’aureola di1

1 Liber PontijìcaliSj ed. Duchesne, voi. II. 120. Lo stesso nome: palliotto d’altare con la sua
radice nel latino pallium, ci parla ancora di « veste ».
2 Ibidem.
3 Cfr. Giovanni Crisostomo, h'pisl. ad Eph. hom., 4: PG 62, 29.
4 Andrieu, Les Ordines Romani, II, Louvain i960, 67-108.
5 Si legga, per cs., l’ingresso alla messa: « Ritorna il quarto cantore annunciando che il
Papa dà alla scuola l’ordine di cominciare il canto. La Schola si dispone in due file, davanti
alPaltare, con i parafonisti nelle ali esterne delle file. Appena il canto sarà intonato, i diaconi
entrano in sacrestia per avvertire e allora il Papa accompagnato dall’arcidiacono e da un secondo
diacono esce, preceduto da im suddiacono con l’incenso e da sette accoliti con le candele. Prima
di giungere all’altare i diaconi si tolgono le pianelr (restano in dalmatica) c le consegnano al
59 verso una teologia della Liturgia

« sacralità » sulle persone e sulle cose, che entrano nell5azione cultuale. Ecco
come si veniva involvendo il « culto cristiano », ritornato « Liturgia », e
cioè una forma esteriore di culto, che dello « spettacolo » e della « sacra­
lità » si era sempre servita — a Gerusalemme, come a Babilonia e a Roma
— per farsi rispettare in ammirata lontananza.

Il momento nel quale maggiormente si rivela questa mentalità « litur­


gica », a tipo veterotestamentario, che va prendendo il posto del « culto
spirituale » cristiano, è quello in cui la « celebrazione cultuale » assume
una dichiarata dimensione giuridica, in forza della quale si stabilisce una « va­
lidità liturgica ». La « Liturgia » infatti sarà sempre di più quella forma
di culto che è fatta secondo Yordinamento e il comando della Chiesa (gerar­
chica), che viene eseguita in nome della Chiesa (universale) da persone deputate.
Questa concezione giuridica applicata al culto: a) allontanerà definitiva­
mente il popolo dalla Liturgia, che diventa campo riservato di determinate
categorie (persone ad essa deputate) ; b) contribuirà fortemente alla « ma­
terializzazione » del culto. Criterio non certo unico, ma principale, sul piano
giuridico, per riconoscere la « Liturgia », sarà nel fatto che questa venga
materialmente eseguita secondo la legge. Avremo così la conseguenza ben
conosciuta che un’azione liturgica sarà legalmente valida (sarà cioè un vero
atto di culto), ma moralmente illecita (sarà cioè un peccato pur essendo
autentico atto di culto). La ragione di questo sarà nel fatto della « doppia
personalità» di colui che compie l’azione liturgica: come persona «depu­
tata » agisce in nome della « Chiesa » — e questa non può fallire il suo
effetto — ; come persona privata agisce in nome proprio, e a questo li­
vello può peccare o neH’intenzione o nel modo. Così: chi è «obbligato»
— come appunto si dice — alla recita dell’Ufficio divino, è tenuto a dire
un certo numero di parole, secondo un certo ordine stabilito in un deter­
minato libro. Chi così fa, prega in nome della Chiesa, anche se per distrazione
egli personalmente non ha pregato x.
La mentalità giuridica, puntando soprattutto alla materiale precisione
nell’uso delle formule e dei gesti, nel numero e nelFordine delle parole
da dire, non poteva non portare il culto a posizioni sempre più esteriori.
Così la « Liturgia » è qualcosa che « deve essere fatto » e fatto « in un
certo modo » ; non ha più un contatto reale neppure con colui che la
eseguisce, perché il suo valore dipende non dalla responsabile azione per­
sonale individuale, quanto dalla presenza della « Chiesa », vista come man­
dante e quindi unica responsabile della celebrazione.
Di una tale Liturgia il popolo non era che un soggetto passivo. Anche
per esso — nella posizione in cui ancora aveva un rapporto con la Liturgia
— questa era una legge che doveva essere osservata, ma appunto come ogni

suddiacono regionale, il quale le passa agli accoliti della regione che hanno turno di servizio in
quei giorno, ecc. Ed ecco i “ passaggi ” che deve fare la patena: cominciando il canone, la tiene
con velo sulle mani un accolito. A metà canone la prende, coprendosi le mani con la pianeta,
il suddiacono secondo, che, dopo un po’, la passa al suddiacono regionale. Questi si mette dietro
l’arcidiacono, il quale — dopo aver detto “ ab omni perturbatione securi ” — la bacia e, presala
dal suddiacono, la dà a tenere al diacono secondò». Cfr. Ordo Rom., I, L c., 97-98.
1 Cfr. Tanquerey-Quevastre, Brevior synopsis Theologiae moralis et pastoralis, Roma 192o2, 260
n. 710: « Num insuper requiratur intentio interna seu applicatio mentis ad ea quae dicuntur, negant alii,
quia externe attentus agit sufficienter ut minister Ecclesiae et publice orat... Aliunde, iuxta omnes, non
requiritur attentio intellectualis seu ad sensum verborum, nec affectiva, quae concipit affieclus expressos, nec
mystica, quae mysteria meditatur; sed sufficit attentio verbalis seu ad verba rite pronuntianda ».
60 parte I - capitolo II

altra « legge », cioè esternamente. Così, pei es., la messa come azione « li­
turgica » esige dal fedele di « vedere la cerimonia » con la generica intenzione
di rendere onore a Dio e cori attenzione esterna b
Questa situazione ne creava di conseguenza altre. Essendo la Liturgia
da una parte il fatto esteriore del culto e dall’altra una cosa riservata al prete,
avveniva che a) la Liturgia era tanto più tale, quanto maggiore era il ri­
salto esterno del rito, b) tanto più di retribuzione si doveva al prete, quanto
più gli si chiedeva in sfarzo esteriore. Si corre così sempre più verso una
inflazione « liturgica », nella quale l’apparato esteriore sempre maggiore è
in rapporto alla incomprensibilità sempre più profonda dei riti. Allo stesso
tempo si creano nuovi motivi — non di rado superstiziosi — per molti­
plicare le celebrazioni liturgiche, per le quali si fissavano accuratamente le
« offerte » da parte del popolo.
Il valore puramente esteriore, ma quasi magico, del rito liturgico, tocca
il suo vertice nella cosiddetta missa sicca c nella missa bifadata, tri-quatrifa-
ciata, che erano due forme diverse di eludere la proibizione di celebrare più
messe per al trettanti sti pendi . Si trovò al l ora il m o d o di c e l e b r a r e un rito
che esternamente sembrava, ma non era una messa e prendere così ogni volta
l’offerta, senza cadere nelle sanzioni della legge che vietava la celebrazione
di più messe. Delle due, la missa sicca abbastanza generalmente diffusa e
conosciuta molto anche in Italia era la più tollerata e talvolta perfino rac­
comandata, almeno per evitare 12 la missa bi-tri-quatrifadata. Essa consisteva
nel ripetere, stando in genere fermi a un lato dell’altare, tutti i formulari
della messa ad eccezione della « preghiera sulle offerte » ma tuttavia com­
preso il rito deH’offertorio 3; detto il prefazio col Sanctus, si ometteva il ca­
none, passando direttamente al Pater noster, c aIVAgnus Dei; omessa natu­
ralmente la comunione, si diceva tuttavia sia l’antifona che la preghiera dopo
la comunione, concludendo con Ite, missa est, e il Vangelo di san Giovanni.
Un famoso testo di pastorale del secolo xv, la raccomanda nei giorni di
pellegrinaggio ad un santuario, consigliando che alla elevazione (per non
« elevare » il pane non consacrato) si facesse l’ostensione di una qualche
reliquia4, c perfino il Sacerdotale Romanum del Castellani, uno dei primi
modelli di « Rituale », ancora nell’edizione del 1585 « rivista e corretta a
norma del Concilio di Trento », ci descrive, senza batter ciglio, la missa
sicca, come mezzo o di soddisfare in quaresima alla « propria devozione »
con la doppia messa (feria e santo) o « pro populorum devotione » in caso
di viaggio in nave (missa marina - fluvialis), o anche per un infermo5.
La missa bi-tri-quatrifadata avveniva invece così: si cominciava la messa
e la si portava fino aH’offertorio, poi se ne cominciava una seconda fino

1 Cfr. Tanqucrey-Quevastrc, o. c 1 19, 11. 311, secondo cui all’adempimento del precetto basta
una presenza corporale, che possa essere ritenuta unione morale al sacerdote celebrante, c tale si ha
quando uno è « intra ecclesiam » oppure « in sacristía » o anche « extra ecclesiam sed prope iamiam »,
o « in domo proxima ex qua videant caeremoniam ». Quanto poi alla seconda condizione richiesta e cioè
una « assistentia religiosa ». questa esige, per essere tale, un 'intenzione implicita di rendere onore a Dio
e un'attenzione esterna.
2 Cosi almeno da parte di qualche vescovo animato da spirito riformatore. Cfr. A. Franz,
Die Messe im deutschen Millelalter, ristampa i 1 ed., Darmstadt 1963, 80,
3 Durandus, Rationale divinorum officiorum, IV, 1, 23, ed. Lione 1551, f. 55. dice: «Accipiat
omnes vestes sacerdotales et missam suo ordine celebret usque finem offerendae, dimittens secretam
quae ad sacrificium pertinet ».
4 G. de Mont-Rocher, Manipulus curatorum, 4, 7, citato in Franz, 0. c., 81, nota 3.
5 Sacerdotale Romanum ad consuetudinem sanctae romanae ecclesiae..., cc. 46-48, Venetiis 1585, f. 93V-94.
61 verso una teologia della Liturgia

allo stesso punto, e così di seguito, quante se ne volevano. Fatto un unico


offertorio, con un solo canone e una sola comunione, si riprendevano tante
preghiere « dopo la comunione » e tutte le altre formule che seguivano,
quante erano le volte in cui s’era detta la prima parte della messa h
Giovanni Eck, il grande teologo controversista tedesco del secolo xvi,
nel riprovare questi abusi, che certi parroci, aderenti al protestantesimo,
portavano perfino nelle messe parrocchiali festive 12, con una parola spiega
tutto: « S i simula uno spettacolo» 8. Questo infatti è ormai la Liturgia: uno
« spettacolo » religioso, cui il popolo assiste unendo stranamente la fede più
profonda ad atteggiamenti, che compongono insieme la mondanità più
sfrenata e la devozione più superstiziosa4, che molto spesso confina chiara­
mente con la « magia », come si può rilevare dal fatto che gli stessi predi­
catori si richiamano non di rado alle « parole d’incantesimo », usate per
esempio dagli incantatori di serpenti, per spiegare l’efficacia delle parole del
sacerdote alla messa 56. Anzi si afferma che quanto più « silenziosamente »
si assiste allo « spettacolo sacro », tanto maggiore sarà l’efficacia delle « pa­
role del sacerdote ». Si chiedeva infatti — come si farebbe oggi — che
durante la messa non ci si chiudesse in proprie preghiere private, ma si facesse
attenzione a quel che faceva e diceva il prete; però a prevenire l’obiezione
che « non si capiva » quel che avveniva all’altare, si rispondeva categori­
camente che: « Il tuo silenzio è necessario per Vefficacia delle parole divine » 8.

2 Tentativi di spiritualismo cultuale

Non si deve pensare che non vi fossero delle reazioni contro questa men­
talità « materialista » della Liturgia. La letteratura medievale è certamente
molto ricca proprio in campo liturgico 7, perché questo era per l’appunto
il veicolo più diretto che il popolo aveva con la verità della sua fede. M a
la stessa letteratura medioevale teologicamente migliore non raggiungeva
che pochi lettori capaci, e d’altra parte non è dato scoprire che si facessero
tentativi di « teologia » della Liturgia; non si ha cioè uno sguardo comples­
sivo sul valore e sul significato della Liturgia in rapporto alla fede e alla vita
cristiana, e ci si contenta di spiegare o storicamente o allegoricamente i di­
versi riti su un piano che difficilmente raggiunge il popolo 8.
Scorrendo però la storia della Liturgia si può notare che, dal Medio­
evo in poi, in pratica si sono seguite due direttrici principali, che su due

1 Cfr. Durandus, o. c., 24, che definisce la cosa come uso «detestabile»; proibizioni sinodali
al riguardo vengono segnalate già al secolo xn-xm da Franz, 0. c., 85 ss.
2 Mentre tra i cattolici la « missa sicca » — definita « messa senza grazia e senza sugo » da
Pietro Cantore, Verbum abbreviatum, 28, cit. in Franz, 0. c., 80 — era un abuso introdotto allo scopo
di evadere la proibizione di celebrare più di un messa, presso i protestanti aveva tutt’altro motivo.
Stante la negazione del valore sacrificale della messa, che valeva solo come « rito di comunione »,
avveniva che se non vi erano fedeli che comunicavano, si ritenesse giustificato non procedere alla
« consacrazione », mantenendo così l’abuso della « missa sicca » anche in occasione di una cele­
brazione festiva parrocchiale.
3J. Eck, Apologia..., Ingolstadt 1542, f. L III-L IV : «Nonne hoc est... spectaculi more simulari id
quod in veritate non agitur?». Cfr. Franz, 0. c., 84, nota 1.
4 Cfr. Franz, 0. c., 28 ss., 90 ss.; J. Huizinga, Uautunno del medioevo, Firenze 1966, 220 ss.
5 Franz, 0. c., 25, 35.
6 Biga salutisi Sermo 84, in Franz, 0. c., 25, nota 1.
7 Vedi per es., M. Righetti, Storia Liturgica, voi. I, Milano 19643, 83-86.
8 Spesso fanno eccezione alcune, tra le molte, Explicationes Missae medievali, che sono notevoli
sul piano teologico-spirituale. Cfr. Franz, 0. c., 333-617.
62 parte I - capitolo II

piani diversi e con risultati in parte divergenti, dovevano contribuire a creare


e tener vivo il senso cultuale nei cristiani. Parliamo del fenomeno della spie­
gazione allegorica della Liturgia e del sorgere del devozionalismo.

a La spiegazione allegorica della Liturgia non trova le sue radici, contra­


riamente a quello che si potrebbe pensare, nell’uso della allegoria, figura
letteraria del resto conosciutissima nell’antichità sia classica sia medievale.
La riprova sta nel fatto che Yallegorismo liturgico è giunto praticamente fino
ai nostri tempi, anche cioè quando l’allegoria non era più in tanti altri campi
di uso comune. L’allegorismo sul piano liturgico deve più che altro la sua
origine alla confusione che facilmente si è creata — e molti dei Padri non
ne sono stati esenti — tra simbolo e allegoria.

Il « simbolo » è una « doppia (greco auv-pà>vXco = unire insieme) realtà »,


ossia qualcosa che realmente esiste su due piani. Il « simbolo » quindi è
una cosa, un fatto, una persona che oltre la « realtà » visibile che mostrano,
ne celano in sé contemporaneamente una invisibile alla quale la prima si
riferisce. Il « simbolo » non esiste finché la prima realtà visibile non è per­
cepita come indicativa della realtà invisibile. Prendiamo, per es., dalla Scrit­
tura Abramo e la liberazione dall’Egitto. Si tratta di una persona e di un
fatto reale sul piano storico, dei quali però la rivelazione profetica ci dirà
che in sé racchiudono un’altra realtà, che è, rispettivamente, l’elezione-
vocazione degli uomini da parte di Dio e la loro liberazione dal peccato
(ignoranza del vero Dio). Nella Liturgia l’offerta del sacrificio è natural­
mente un « simbolo », cioè reale manifestazione di quel reale stato d’animo che
implica amicizia e omaggio, ossia volontario riconoscimento di superiorità
in colui al quale l’offerta si dirige. Insomma, il « simbolo » è sempre sul
piano di realtà oggettiva, che è però costituita da due momenti interdipen­
denti tra loro proprio a livello di realtà.

L ’allegoria (greco = trasposizione) è vicinissima al simbolismo. Ma


mentre questo proviene soprattutto dalla « visione profetica » della storia
d’Israele (letta cioè come intervento divino in ordine al mistero della sal­
vezza umana), l’allegoria non è altro che un linguaggio metaforico elevato
a sistema nell’interpretazione delle cose o dei fatti. Si può dire che l’inter­
pretazione del « segno » è l’allegoria per eccellenza. Nell’allegoria scompare
(benché non si neghi) la realtà storica dell’avvenimento o del personaggio,
e si passa a una visione puramente soggettiva (anche se questa si serve di
elementi tradizionali o diventa poi tradizionale). L ’allegoria, nata in clima
ellenistico soprattutto come interpretazione dei miti religiosi omerici*, sarà
sistematicamente applicata alla Scrittura da Filone e poi dalla scuola ales­
sandrina cristiana (Origene) e da tutti coloro che seguiranno il metodo
filonico (tra i latini cfr. principalmente Ambrogio), e avrà certamente una
importanza di prim’ordine, perché si affiancherà a quello che si chiamò
il « senso letterale » della Bibbia, fornendo così a questa un « senso spiri­
tuale » a diversi livelli, dei quali appunto uno era quello dell’allegoria12.
Applicando il procedimento di lettura allegorica della Bibbia alla L i­

1 Cfr. M. Büchsel, ThWzNT i, 260.


2 Cfr, P. Grelot, Sens chréiien de l ' A . T Paris 19622. 442*455.
63 verso una teologia della Liturgia

turgia, troppo spesso si cadde in un allegorismo deteriore. Dimenticando


infatti che la Liturgia, in quanto regime di segni-simboli, era già condizio­
nata nel suo significato dal valore segnale che le cose e i gesti avevano in
rapporto alla realtà sacramentale, di cui il simbolo era l’espressione, l’allego-
rismo si perdette nella ricerca di strani significati da dare alle persone, alle
cose, ai gesti. Così, per es., nella messa, per Amalario (secolo ix), « il calice
è il sepolcro del Signore; iì celebrante è Giuseppe d’Arimatea, e l’arcidia­
cono è Nicodemo, in quanto sepoltori di Cristo; i diaconi che stanno inchi­
nati dietro il celebrante, sono gli apostoli che nella passione del Signore cer­
cavano di farsi piccoli e di nascondersi ; i suddiaconi, che di fronte al celebrante,
stanno in posizione eretta, sono invece le donne che con libertà stavano
vicino alla Croce » 1. Perduto il senso del rito e del valore funzionale delle
sue parti, anche il « simbolo » fondamentale .della messa, l’essere cioè
segno sacramentale della passione del Signore, viene arbitrariamente scisso
in altrettante visioni allegoriche della passione di Cristo.
In questa linea" si muove con sorprendente tranquillità tutto il Medio­
evo 12 e assistiamo così alle più strane elucubrazioni e fantasie, molte delle
quali sono giunte fino ai nostri giorni. Per accennare solo ad alcune di
queste allegorie ci rifacciamo al Rationale divinorum officiorum di Guglielmo
Durando (f 1296), il quale non ne è l’autore ma il raccoglitore fedele. V i
leggiamo dunque che le torri della Chiesa sono i predicatori e i prelati
posti a difesa, come lo sposo dice alla sposa nel Cantico dei cantici: « Il
tuo collo è come la torre di Davide edificata con avamposti » ; la cuspide
della torre è la vita e la mente del prelato, volta verso l’alto; il gallo postovi
al sommo designa i predicatori, perché non solo col suo canto divide le ore
e sveglia coloro che dormono, ma prima di tutto eccita se stesso al canto
percotendosi con le proprie ali; la stanga di ferro sulla quale è poggiato
il gallo, rappresenta l’ortodossia di linguaggio del predicatore, e il fatto
che essa superi in altezza la croce fa capire che la parola della scrittura è
ormai cosa compiuta e confermata, perché il Signore nella passione disse:
« È compiuto » e il suo titolo era posto con segni indelebili al di sopra di
lui. Le finestre di vetro della chiesa sono le scritture sante, che tengono
lontani vento e pioggia, cioè tutto ciò che nuoce. 11 pavimento della chiesa
è il fondamento su cui poggia la nostra fede, e nella Chiesa spirituale pa­
vimento sono i poveri di spirito, ma pavimento, quello che si calca con i
piedi, è il volgo, che con il proprio lavoro sostenta la Chiesa 3. Se, lasciato
l’edificio, si passa alla messa, ecco una specie di « algebra introitale»: « Si
può anche dire che l’introito è la lode che la Chiesa fa per la conversione
dei Giudei. È infatti composto di tre parti: antifona, verso e <c Gloria al
Padre ” , ad indicare i tre ordini di fedeli di lingua ebraica, e cioè i patriarchi,
i profeti e gli apostoli, ai quali corrispondono per ordine: l’antifona, il verso

1 Floro di Lione, Opusculum adv. Amalarium, i, ¡2-4: PL 119, 73, acerrimo oppositore dell’alle-
gorismo amalariano riassume così alcune delle « pazze fantasie », come egli le chiama, del vescovo
di Metz. Cfr. Amalarius, Liber officialis, 3, 23, 3-4; 26, 6. 9. 19, ed. Hanssens, Amalarii episcopi opera
liturgica omnia, voi. II (Studi e testi, 139). 1958, 330; 345; 346; 349.
2 Fa eccezione, a parte qualcuna delle migliori tra le Expositiones missae, Alberto Magno nel suo
Opus de mysterio missae, dove con veemenza e sarcasmo parla contro le interpretazioni allegoriche
correnti ai suo tempo e alle quali erano sfuggiti solo in parte anche grandi spiriti come Innocenzo III,
De sacro altaris mysterio : PL 217, 773-914. e Tommaso d’Aquino, Summa TheoL, III, q. 83, a. 5 ad
3; ad 6-9.
3 Durandus, Rationale div. off., I, 1, 21-28, Lione 1551, f. 4V-5.
64 parte I - capitolo II

e il “ Gloria al Padre” . Il ripetersi poi dell’antifona indica il perdurare


identico del messaggio, perché l’apostolo evangelizzò quel che il profeta
aveva predetto e il patriarca aveva figurato » l. Se passiamo poi all’interno
del canone c’imbattiamo nel commento ai ripetuti « segni di croce » che si
erano venuti moltiplicando sulle offerte e che furono veramente una « crux
interpretum » per i medievali. Così sappiamo, per es., che al « Quam obla­
tionem » del Canone romano il « celebrante fa tre segni di croce sulle
due offerte insieme, per indicare la somma del prezzo per il quale Cristo fu
venduto da Giuda, perché 30 (denari) è il multiplo di 3; fa poi un segno
di croce singolarmente sul pane e sul vino per indicare l’atto di vendita di
Cristo (da parte di Giuda) e di compera (da parte dei Giudei)... Oppure
le tre croci comuni sulle offerte significano i tre (sacerdoti, scribi e farisei)
ai quali Giuda vendette Cristo; le due croci particolari sul pane e sul vino
stanno ad indicare che ci fu un venditore e un venduto, un traditore e un
tradito. Oppure le 3 croci significano: i tre giorni di predicazione di Cristo
dopo la Domenica delle Palme; i tre giorni del sepolcro; i 3 punti del corpo
(mani, piedi e costato) nei quali Cristo soffrì la passione; le 2 croci singole
significano invece la natura divina e umana di Cristo, oppure che egli soffrì
nell’anima e nel corpo. Tutte le croci insieme sono 5 a raffigurare le 5 piaghe
oppure il tempo della religione ebraica; essa infatti è contenuta in 5 libri,
in ognuno dei quali si parla della passione di Cristo ed è amministrata da
5 persone cioè dal giudice, dal re, dal principe, dal profeta e dal sacerdote,
persone che sono tutte riassommate da Cristo » 12.

Questi esempi possono dare un’idea di quel che era Yallegorismo liturgico
medioevale. Mancava una catechesi liturgica, perché mancava una teologia
della Liturgia; ma per creare comunque un interesse all’azione liturgica si
ricorreva a queste fantastiche elucubrazioni, fatte di strani accostamenti
e richiami biblici. Ma a questa ragione — che era certamente la fonda-
mentale, ma anche forse la meno avvertita — se ne aggiungeva un’altra.
Vero frutto della superstiziosa sacralizzazione e clerìcalizzazione del culto, la
Liturgia apparteneva al clero e di essa « quel che si può far conoscere e dire
ai laici, si condensa in 3 capitoli: sulle vesti, sui gesti (j baci; 5 giri verso il
popolo, 4 inchinazioni, 25 croci, poi lo spostarsi da una parte all’altra del­
l’altare e l’estensione delle mani) e sul perché le parole vengano dette al­
cune ad alta voce, altre a voce sommessa » 3.
La Liturgia era diventata sempre più spettacolo, eseguito oltretutto in
una lingua sconosciuta, e di conseguenza ci si preoccupava che tutto quello
che esteriormente potesse essere percepito dal popolo fosse spiegato. M a era
evidentemente una spiegazione, che per la sua stessa strana complicazione —
per non parlare di « contraffazione e derisione », come già diceva Alberto
M agno4 — poteva accrescere il senso di mistero che circondava la Liturgia,
già materialmente allontanata dal popolo (transenne, cortine, altare o so­
praelevato o separato dal popolo per mezzo del coro) creando un’atmosfera
religiosa che si muoveva tra i poli del « tremendum » e del « numinosum »

1 Ibidem, IV , 5 , 8, /. c., f. 5 9 V .
2 Ibidem, IV , 4.0, 3-6, l. c., f. 98 ss. Cfr. S. Tommaso, Summa TheoL, I I I, q. 83, a. 5 ad 3, che
indica ben nove significati dei « segni di croce », che il celebrante fa durante il Canone della messa.
3 Da un codice del 1300 conservato a Graz e citato da Franz, 0. c., 631, nota 3.
4 Cfr. le citazioni in Franz, 0. c.} 471 ss.
65 verso tuia teologia della Liturgia

della religione naturale, ma di fatto svuotava il mistero del culto cristiano di


qualunque forza di presa sul popolo.

b 11 devozionalismo. Mentre Tallegorismo liturgico aveva come scopo di


conservare il contatto tra Liturgia e popolo, il devozionalismo del secondo e
basso Medioevo costituisce di fatto un « surrogato » alla Liturgia.
Il devozionalismo al suo sorgere è legato a tutto un movimento cultu-
rale-politico-religioso, di cui è parte e di cui manifesta un aspetto fondamen­
tale: quello della « declericalizzazione » sul piano religioso oltre che su quello
politico.
La Liturgia per il suo legame con la lingua latiría, che era la lingua pro­
pria del clero, denunziava ad ogni momento la propria esclusiva attri­
buzione al clero. M a il sorgere e raffermarsi della lingua « volgare »
— quella cioè parlata dal popolo — come mezzo più valido di comunicazione
sociale, rispettivamente ma anche inevitabilmente relegava non solo la cul­
tura — era anch’essa un fatto « clericale » — nelle università, ma anche
la Liturgia nella Chiesa.
Il sorgere dei Comuni e delle Corporazioni sul piano civile, s’accom­
pagna a movimenti « laici » analoghi sul piano religioso h Sono Confrater­
nite, Terzi Ordini, Corporazioni d’arti e mestieri (aneli’essi orientati reli­
giosamente con proprio santo patrono e propria chiesa) ; sono i flagellanti
o disciplinanti (Perugia 1260), i Gesuati del Colombini e i Bianchi (metà
e fine del 1300), le Compagnie della carità, del Divino Amore, del Car­
mine, del Rosario, del SS. Sacramento, ecc. Sono forme varie di associa­
zioni religiose laicali orientate verso opere di carità o di penitenza che si
raccolgono in proprie cappelle o chiese o hanno un altare proprio nella chiesa
parrocchiale e, più spesso, in una chiesa di religiosi; seguono proprie pratiche
devote e per il canto creano le « laudi », donde il comune nome di « laudesi »
dato a codeste associazioni laiche. Il nome di « lauda » proviene dalle
« laudes » o « sequenze » della messa, ma il suo canto anche quando non
è -semplice trasposizione, su testi religiosi, di arie prese dalla canzone popo­
lare profana, si allontana molto presto e decisamente dalla melodia chiesa­
stica gregoriana, dando origine ad un linguaggio musicale nuovo, cioè un
linguaggio musicale italiano per testi italiani12. Ed è proprio la « lauda »
che indica il punto di rottura con la Liturgia « clericale ». Nasce eviden­
temente dalla Liturgia, ma quasi a indicare che essa è il mezzo cultuale
espressivo del popolo ossia dei « laici », nella forma si rifà a quella della « bal­
lata », nel canto si avvia su nuove strade, nel contenuto si rivela soprattutto come
esaltazione della fede e del sentimento religioso del popolo o dando sfogo
a calde espressioni di amore a Cristo e alla Vergine o insistendo su senti­
menti di penitenza.
Questi movimenti religiosi laici — dei quali almeno al principio quello
francescano fu certamente il più prestigioso — anche se hanno come com­
ponente il movimento frazionistico e antifeudale dei Comuni, sono rivela­
tori del grave disagio religioso del popolo del Medioevo. Con il loro ricorso

1 Anche se il discorso riguarda immediatamente l’Italia, esso in realtà c valido per tutta
l’Europa, che ha conosciuto uguali o analoghi movimenti.
2 II fenomeno non è particolare all’Italia, perché analoga origine e funzione hanno le can­
tigai in Spagna, e le virelai nella Francia meridionale.
66 parte I - capitolo II

a nuove forme comunitarie — si noti bene — di vita religiosa e con la ricerca


di mezzi cultuali espressivi nuovi, come la « lauda » in lingua volgare, essi
dimostrano che erano alla ricerca di qualcosa che la Liturgia ufficiale non
dava loro, sia perché non la capivano sia perché non apparteneva ad essi
in quanto « laici ».
Nasce così il movimento devozionale, nel quale, senza la presenza del prete
— almeno in via ordinaria — la devota ammirazione per il Bambino del pre­
sepio, la profonda compassione per il Cristo sofferente, il tenero amore per
Maria addolorata tiene al popolo luogo della Liturgia. Il culto « devozionale »
ha per oggetto Cristo con i suoi misteri, la Vergine Maria e i Santi — ap­
punto come nella Liturgia — ; eppure ha perduto gran parte dell’aspetto
proprio del culto cristiano. Mentre questo è fondato soprattutto sulla realtà
sacramentale, per cui il nostro culto verso Dio consiste nell’accogliere la rive­
lazione dell’amore e l’intervento di salvezza operatosi in Cristo e — per la
celebrazione sacramentale — operantesi oggi in noi, il culto « devozionale »
consiste wt\Yoffrire a Dio i nostri sentimenti di ammirazione, di penitenza e di
gratitudine, persuasi che l’intensità di questi sentimenti sarà quella che di
fatto opererà la nostra salvezza. In queste condizioni quel che conta è Vau­
mento delle devozioni, nella convinzione che in ogni santo si acquista un
« patrono » particolare il quale, in misura della devozione che si ha per
lui, non ci libera tanto dal peccato, quanto ci salva — ora e nella vita fu­
tura — dalle conseguenze del peccato e nonostante esso. E questo avviene
più che per uno sforzo di imitazione del santo, di cui si ignora la vita e si
conoscono solo leggendarie imprese miracolose, ma piuttosto per la fedeltà
nell’onorario con determinate pratiche, che poi costituiscono in concreto le
« devozioni » (tanti Pater noster, tante Ave Maria, con quel certo ordine, in­
tercalato con quella data preghiera, detti in quei certi giorni della settimana,
del mese, ecc.).
Non è esagerato dire che almeno in estensione e come intensità, sembra
di assistere in questo tempo a un risorgere del cristianesimo, ma di un cri­
stianesimo diventato ormai « la religione delle devozioni ». A prima vista
tutto sembrerà rimasto come prima, e questo contribuirà all’espandersi
del movimento, tanto più che esso si muove all’interno di uno spirito di
« liberazione », che trova i maggiori consensi. La Liturgia infatti è un ob­
bligo che deve essere eseguito, ma la « devozione » sarà di libera scelta; la
Liturgia sarà sufficiente, anche se fatta al livello minimo spirituale imposto
dalla legge, ma la « devozione » dovrà essere sempre spinta al massimo di
fervore: la Liturgia è obbligatorio farla in lingua latina e con un cerimo­
niale fisso, la « devozione » potrà farsi e si fa nella lingua parlata del popolo;
la Liturgia costituisce un momento riservato e avulso dalla vita quotidiana, ma
la « devozione » è nata invece proprio per sostenere la vita nelle opere di
carità e di penitenza.
Eppure tutto questo movimento « devozionale » non salvò la vita spirituale
del popolo. Accadeva infatti che, venuta a mancare una visione teologica del
culto cristiano e della espressione che esso aveva nella Liturgia e doveva
avere nella « devozione » e nelle « devozioni », il movimento devoto ri­
calcò sul piano « laico » gli stessi difetti per i quali si era allontanato dalla
Liturgia « clericale ». Invece di avere solo una Liturgia malata di mate­
67 verso una teologia della Liturgia

rialismo e intrisa di superstizione e talvolta di magia, ora si avrà il « de-


vozionalismo » a farle concorrenza in questi gravi difetti, superandola. La
Liturgia del Medioevo molto spesso non era, purtroppo, un momento
di interiore contatto con Dio e col mistero di Cristo; ma certo non si
può dire che il devozionalismo sia riuscito meglio in questo compito.

I li epoca moderna

i La « devotio moderna » nella Liturgia

Questa non riuscita si constatò del resto abbastanza presto. Inflazione


liturgica da parte del clero, inflazione devozionale da parte del popolo:
Tuna e l’altra tendono a creare un culto che si muove tra due poli che si
richiamano e oppongono: materialismo e superstizione.
Si crea così il momento di rottura con qualunque forma di culto esterno,
quale che sia. Il fatto si manifesta in un moto di « riforma », nel quale, posto
Yinteriorismo religioso come la meta da raggiungere, si teorizzò quella che allora
si chiamò « devotio moderna ». Si presentava come un ripensamento critico
di tutta la situazione religiosa spirituale, ripensamento, che provenendo da in­
dividui e gruppi diversi, convergeva in constatazioni analoghe: la vita spiri­
tuale non trova alimento né nella Liturgia né nelle devozioni, perché Tuna
e le altre ugualmente malate di materialismo cultuale; né maggior van­
taggio trae dalla teologia che si è arroccata neirintellettualismo. Per creare
una vita spirituale « nuova », bisogna ritornare a una profonda vita inte­
riore, orientata alPimitazione di Cristo, e raggiunta attraverso la meditazione
e la preghiera personale. È il vero momento di nascita dell 'individualismo
religioso: la salvezza non è tanto opera ottenuta attraverso i misteri di Cristo
(Sacramenti), che realizzano il mistero di Cristo totale, che è la Chiesa,
ma è il risultato di uno sforzo psicologico. Questo movimento di riforma
spiritualistica aggancerà la sua ricerca di devotio moderna ad un forte impegno
di meditazione, che diventa a questo tempo non solo il mezzo per eccellenza
della nuova mentalità, ma il segno distintivo e come la parola d’ordine di
essa e sarà soprattutto una «meditazione affettiva».
Parte del più generale moto di riforma che al secolo xv comincia ad
agitare la Chiesa, la devotio moderna ne forma l’ala ortodossa che non intende
abolire la Liturgia, poiché è persuasa che questa, permeata e anzi trasfor­
mata in meditazione x, ritornerà ad essere quella che deve essere. L ’altra
punta della riforma spiritualistica, impressionata da una presunta incapacità
della Liturgia di diventare mai un culto spirituale, tenderà all’abolizione più o
meno completa di essa, per ridare un’importanza capitale alla « pa­
rola di D io» (meditazione!), e sarà il protestantesimo. Di esso infatti uno
dei suoi teologi dovrà dire « che non riuscì a trovare, sul piano liturgico, il1

1 L ’Abate benedettino Ludovico Barbo (1381-1443), la cui riforma monastica (detta di S. Giu­
stina, Padova) influenzerà fortemente il monacheSimo austro-tedesco e spagnolo, metterà alla base
del suo movimento il proprio libro Forma orationis et meditationis. L ’altro Abate benedettino spa­
gnolo (Montserrat) García De Cisneros (1455-15io) farà ugualmente perno sulla meditazione sia
nel suo Exercitatorio de la vida spiritual che nel suo Directorio nel quale insegnerà ai monaci a tra­
sformare la Liturgia in meditazione.
68 parte 1 - capitolo II

punio di sutura, che pure cercava, con lam ica Chiesa, li il latto ebbe come
conseguenza sia un impoverimento, che pesò gravemente sulla preghiera
della Chiesa, sia la definitiva perdita di quella grande e complessiva visione
eucaristica dell5avvenimento salvifico, che era stata propria dell’antica Chiesa,
e della quale purtroppo non era stato più completamente capace il Medio­
evo » h Qiiando al secolo xvm « il pietismo e l’illuminismo scossero alla ra­
dice gli antichi fondamenti dogmatici, si ebbe di conseguenza anche il tra­
monto definitivo della Liturgia, a parte una sua certa sopravvivenza come
di vecchia cosa da museo » 12.
Era la riprova che una riforma liturgica non si poteva raggiungere senza
una teologia del culto cristiano come tale. Il tentativo di giungere ad un culto
autentico passando solo per il piano psicologico, se nella riforma cattolica por­
terà infatti alla Liturgia dell’epoca barocca, che sarà solo degna figlia, un
po’ ripulita, di quella medioevale; nella riforma protestante la Liturgia
sarà annientata definitivamente da quelle stesse forze psicologiche (pietismo)
con le quali si voleva riportare al suo primitivo significato.

2 « Storia » della Liturgia

La riforma protestante fu — come si è detto — anche un’insurrezione anti­


liturgica; ma i motivi e i punti di partenza di questa vanno ricercati nello
stesso ambiente devozionale-teologico e nella pratica liturgica del mondo
cattolico, dal quale il protestantesimo, come reazione, proveniva. Sappiamo
infatti che l’assenza sempre più profonda di una vera teologia della Liturgia,
affogata ormai nel rigoglio lussureggiante deH’allegorismo più fantasioso e
vuoto, aveva creato la necessità di un ritorno a nuove forme religiose, che
messesi alla ricerca di una maggiore « interiorità » (devotio moderna) facil­
mente erano sfociate in un « interiorismo » soggettivo-psicologico che o
faceva abbastanza tranquillamente a meno del sacramento e in genere della
Liturgia, oppure tendeva a porre il sacramento stesso su un piano altrettanto
psicologico e soggettivo, distaccandolo dalla « storia della salvezza ». Di
questo atteggiamento era tra l’altro un sintomo molto eloquente la grandio­
sità di certe manifestazioni di « devozione eucaristica », che, ricevute dal
Medioevo, si protrassero e affermarono maggiormente in questo tempo.
Ma pur polarizzando « l’adorazione » su Cristo presente nel sacramento,
questa medesima « devozione » non riusciva a riportare gli uomini ad una
vera partecipazione alla messa — né purtroppo si prefiggeva questo scopo —
e le rare comunioni non erano pensate tanto come una partecipazione al
mistero della salvezza, quanto come premio concesso a coloro cui era per­
messo accogliere in sé Gesù « ospite », « amico », « sposo » atteso per un
intimo « colloquio » di raccolta meditazione.
Fu un atteggiamento che la riforma protestante, patrocinando un ri­
torno alla « comunione » mentre escludeva la « messa-sacrificio », farà
proprio, portandolo alle ultime conseguenze. La « devotio moderna » aveva
posto a base unica della vita interiore la meditazione, dandole un valore di

1 R. Staehlin, Die Geschichte des christlichen GottesdiensUs, in Miiller-Blankenburg, Leiturgià, voi. I,


Kassel 1954, 60.
2 Idem, /. c.
69 verso una teologia della Liturgia

preminenza sulla preghiera liturgica, pur con nessuna intenzione di esclu­


dere questa, anzi con Fintante di vivificarla, sia pure in maniera inadeguata;
il protestantesimo ne fece al contrario Fuñica veramente valida forma di
culto, partendo dalFaffermazione di Lutero, secondo cui la predica o sermone
« è l’unica cerimonia e l’unico esercizio di culto che Cristo abbia istituito,
affinché in essi i cristiani si raccolgano, si esercitino e si tengano devoti » L
Se a questo processo di interiorizzazione individualista della religione
si aggiunge il fatto che la pratica liturgica aveva molto spesso assunto pro­
porzioni ipertrofiche e — purtroppo — su uno sfondo superstizioso e che
inoltre questo stato di cose veniva spesso abilmente sfruttato — sia pure
con una certa disinvoltura di buona fede — a scopo di vantaggi terreni123 ,
era facile che in un tentativo di « riforma » si arrivasse a condannare al­
l’estinzione la Liturgia stessa e non solo i suoi abusi. Così avvenne che, sotto
la spinta contestataria di liuto ciò che era nella Chiesa romana, e per in­
flussi che non sempre si possono ascrivere personalmente a Lutero s, si giun­
gesse non a una « riforma », ma alla quasi abolizione della Liturgia.
Anche se bisogna riconoscere che quest’opera di demolizione portava
in sé i germi di un provvidenziale ripensamento, che presto spingerà la
Chiesa ad agire più decisamente .per eliminare gli abusi, che con il tempo
avevano inquinato l’idea e la pratica liturgica, si deve riconoscere — con
gli stessi storici protestanti — che in essa si rivelano « con chiarezza i li­
miti di Lutero come liturgista », prima di tutto mettendo in luce una sua
totale incomprensione « del valore teologico della struttura liturgica », in
quanto è chiaro che « egli non riusciva a vedere nell’azione liturgica l’at­
tuarsi dell’avvenimento della salvezza preso in tutta la sua ampiezza » 4.
Secondariamente si fece evidente che sul piano liturgico non si può parlare
di vera « riforma » da parte di Lutero, perché non fu in grado « di trovare
quel contatto con l’antica Chiesa, che pure cercava, con la conseguenza che
si giunse — come s’è detto — ad un grave impoverimento della preghiera della
Chiesa e alla definitiva perdita di quella grandiosa visione eucaristica dell’av­
venimento della salvezza, che era stata viva agli occhi della antica Chiesa e
della quale purtroppo il Medioevo non aveva più avuto la giusta percezione»5.
Questo atteggiamento era quello che avrebbe dovuto esser corretto, ma
mancando una «teologia della Liturgia», la «riforma» luterana «fece saltare
l’antica struttura », ritenuta un conglomerato storico inaccettabile. Così av­
venne che da una parte «molto andava distrutto e molto si perdeva»; e quan­
do, d’altra parte, si cercava di « ricuperare singoli pezzi staccati, per riacco­
starli gli uni agli altri, si procedeva al riguardo in maniera sempre diversa,
fino che all’epoca del pietismo e dell’illuminismo, anche questi pezzi, che spesso
erano ormai solo pezzi da museo, caddero definitivamente nel nulla, insieme
con gli ultimi fondamenti dogmatici » 6. Si può ben dire che nel protestan­
tesimo la Liturgia diventa un fatto che appartiene ormai alla storia del pas­
sato e di un passato che si desiderava dimenticare.

1 Martin Lutero, Werke, ed. Weimar, 6, 231.


2 Cfr. A. Franz, 0. c., 293 ss. : Cono. Tridentino, Sess. X X II, Decr. de observandis et vitandis in
celebr. missarum, in G. Alberigo, Conciliorum oecum. decreta, Roma 1962, 712, 34-39.
3 R. Staehlin, /. c., 54.
4 Idem, L r., 60.
5 Ibidem.
6 Ibidem
70 parte I - capitolo II

Contemporaneamente però anche nella « Controriforma » tridentina i


documenti liturgici dell’antichità diventavano oggetto di ricerca, perché si
comprendeva che un ritorno alle fonti avrebbe giustamente illuminato e av­
valorato la restaurazione che si aveva in animo di fare. E così accadde che
mentre i protestanti cercavano di seppellire nella storia la Liturgia che non
comprendevano più, i cattolici si appellarono alla storia proprio per meglio
capire la Liturgia che ancora conservavano, ma di cui vedevano deturpato
il volto. Comincia così la serie, tra i « controversisti » cattolici, di coloro
che si segnalarono come difensori della Liturgia, a partire da G. Witzel
(t i 573) ì con -a sua Befetisio caeremoniarum ecclesiae adversus errores... (Ingolstadt
1544), seguito da C. Braun (7 1563), G. Maldonato (t 1583), R. Bellarmino
(| 1621). Tra gli altri da notare G. Dobreck-Cocleo (f 1552), che in una
antitesi, forse voluta, alla « devotio moderna », intitola la sua opera Spe­
culum antiquae devotionis (Magonza 1549 e Venezia 1582); in essa raccoglie
infatti molte opere liturgiche di più o meno remota antichità, proprio allo
scopo di dimostrare che « abbandonare I5antica fede della Chiesa sotto la
spinta delle nuove dottrine è solo segno di instabile leggerezza e di degenera­
zione spirituale ». A questi primi « apologeti » della Liturgia sul piano della
storia, seguiranno presto gli « storici » propuiamente detti, che a cominciare
da allora hanno messo in luce documenti sempre più numerosi e hanno
dato pregevoli studi h

3 La liturgia nella teologia post-tridentina

Il Concilio tridentino svolse la sua maggiore opera di riforma liturgica


solo indirettamente, attraverso la revisione e definizione dottrinale dei sacra­
menti 2 e direttamente emanando un decreto « de observandis et vitandis in cele­
bratione missarum» (Sess. X X II), che era il risultato di una commissione di
studio preposta all’esame delle molte notizie giunte in Concilio a propo­
sito di « abusi nelle messe » 8. Erano state istituite anche commissioni per
la riforma del Messale e del Breviario; ma trovandosi esse in difficoltà per
decidere fino a che punto si dovessero conservare le particolarità liturgiche
delle diverse Chiese e fino a che punto si dovesse portare l’uniformità litur­
gica, nella fretta di chiudere il Concilio nella Sess. X X V (a. 1563) si sta­
bilì di rimettere tutto « al giudizio e all’autorità del Romano Pontefice » 4.
La riforma liturgica tridentina, anche se molto importante e benefica
sotto certi aspetti, non portò ad una nuova visione del culto tramite una teo­
logia di esso. Quello che se ne ebbe fu un tenace attaccamento alle forme rice­
vute aai morente Medioevo, un infittirsi della mentalità giuridica e rubri­
cale e un nuovo tipo di splendore esterno, dato — dove se ne aveva la pos­
sibilità — sia dalle nuove realizzazioni musicali (polifonia prima, musica
orchestrale dopo) sia dalle nuove tecniche architettoniche, che creano alla

1 Una buona bibliografia al riguardo si trova in M. Righetti, Storia liturgica, voi. I, 19643,
86*99.
2 Sess. V I (a. 1547): sacramenti in genere, Battesimo, Confermazione; Sess. X III (a. 1551):
Eucarestia; Sess. X IV (stesso anno): Penitenza ed Estrema Unzione; Sess. X X I I (a.^ 1562): Sa*
orificio della messa; Sess. X X III (a. 1563): Ordine; Sess. X X I V (stesso anno): Matrimonio.
3 Cfr. Canones et decreta Concilii tridentini, Napoli 18723, 128 ss\ ; Alberigo, o.c., 712 ss.
4 Canones et decreta... 0. c., 471; Alberigo, o.c., 773.
71 verso una teologia della Liturgia

Liturgia un ambiente sempre più fastoso e veramente « trionfalistico ».


Proprio la Liturgia, tanto « protestata » dai riformatori, sembrava dover es­
sere, con i suoi splendori, come il segno della vittoria contro l’eresia protestante.
Nella realtà le cose non erano molto migliori di prima. Una celebrazione
liturgica era esteriormente qualcosa di grandioso che impressionava per bel­
lezza e decoro, ma era allo stesso tempo solo spettacolo cui si assisteva, perché
era un numero della festa; ma il suo senso vero di « avvenimento di salvezza »
sfuggiva ora come prima. Il popolo continuerà nelle proprie « devozioni »,
diventate talvolta, almeno per alcuni, più « meditative »; la Liturgia resterà
spesso solo a formare la cornice o piuttosto a dare la « misura di tempo »
dentro il quale ognuno singolarmente o tutti insieme potranno fare o la pro­
pria o la comune « devozione », quale è, per es., sempre più frequente,
la recita del rosario o la lettura di punti di meditazione. La comunione è
frequentata un po’ di più — uno dei maggiori risultati della riforma tri-
dentina — ma di solito si farà al di fuori della messa; l’esposizione solenne
del Sacramento, la processione del Corpus Domini — e altre in onore della
Vergine Maria e dei Santi — ; le novene, i tridui, saranno sempre ancora
le forme « devozionali » predilette del popolo. La Liturgia resta, anche
dopo Trento, quella che era: un culto esterno e un fatto «clericale», da
cui il popolo dovrà mantenersi distante. Non ne dovrà conoscere diretta-
mente i testi1 e una contravvenzione in questo senso sarà punita non merio
gravemente che nel Medioevo (cioè bruciando pubblicamente le traduzioni
del Canone della messa) a, come dimostra la condanna della traduzione
francese del messale, preparata dal Voisin. Con «lettera apostolica» di
Alessandro V II (1661), non solo vengono condannati i «figli di perdizione
che sono arrivati a tal punto di pazzia da dare il messale in mano a per­
sone di qualunque categoria e sesso, umiliando e calpestando la maestà dei sacri
riti espressa nelle parole latine con l’esporre la dignità dei sacri misteri agli
occhi del volgo », ma si dà «scomunica latae sententiae » a tutti gli stampa­
tori, lettori e detentori del libro, se questo non viene consegnato al vescovo
o agli Inquisitori, per essere bruciato « senza indugio » 12 3.
Da questo fatto nascerà la grossa questione — un po’ seria e un po’
salottiera — dell’epoca, che dal libro del Vallemont4 prenderà il nome di
« segreto dei misteri ». Ma la polemica portava allo studio e, al di là dei ri­
sultati immediati, più o meno positivi o negativi, si andava nuovamente
conquistando qualcosa che sarebbe restato come avvio ad una compren­
sione finalmente teologica della Liturgia.
Infatti si comincia a ripetere sempre più chiaramente quello che del
resto era sempre stato pensato, ma non sempre e da tutti abbastanza sotto-
lineato: la Liturgia, e in particolare la messa, non è un fatto solo «cle­
ricale » — a parte la questione della « forma » — ma appartiene a tutto

1 Gir. Il Catechismus ad parochos del Conc. di Trento, De Euch. sacram., 4, 19.


2 Cfr. Busch, De reformatione monasteriorum, 4, 3, cit. in Franz, 0. c., 632, nota 3.
3 Cfr. testo della lettera di Alessandro V II in P. Guéranger, Institutions liturgiques, voi. II, Paris
1841, 163. Altro analogo Breve -di Clemente X a proposito di una traduzione del Rituale, si può
leggere, ibidem, i6<t. Per la storia del caso, cfr. H. Bremond, Histoire du sentiment religieux en France,
voi. IX , Paris 193$, 178 ss.
4 P. De Lorrain, Abbé de Vallemont, Du secret des mystères, 2 voli., 1710. Per una sintesi della
questione cfr. S. Marsili, Il Canone romano, in «Rivista Liturgica» 54, 1967, 514 ss. Cfr. anche Bre­
mond, 0. r., 192 e 176.
72 parte I - capitolo l !

il popolo, in quanto a tutti gli uomini è stato comunicato il sacerdozio di Cristo,


tutti formano con lui un medesimo sacrifìcio, e tutta Yazione liturgica della
Chiesa è comune al prete e ai presentiL
Queste affermazioni in Italia trovarono un’applicazione clamorosa in
quella che si chiamò la controversia di Crema, dal nome della città donde prese
avvio la discussione, e che ergendosi contro l’uso stabilito, secondo cui i
fedeli potevano comunicarsi solo alle messe celebrate nel cosiddetto « al­
tare del Sacramento » e non a quella messa cui assistevano, cominciò ad
aprire il discorso sull’aspetto « conviviale » proprio di ogni messa, sul legame
comunione-sacrificio, sul diritto dei fedeli all’offerta e alla comunione, e sul
conseguente richiamo al carattere sacerdotale di tutti i fedeli12. Sempre in
Italia, ma senza accentuazioni polemiche, il Muratori apportava tutto il
peso della sua autorità di dotto al problema liturgico nei suoi diversi aspetti,
e con una parola sola, dettatagli dal suo preciso senso storico, distrugge tutta
la teoria del « segreto dei misteri » 3; cerca di persuadere i teologi a riportare
l’Eucarestia all’unità superando la deprecata distinzione di « Sacramento »
e « Sacrificio » ; chiaramente distingue tra « udire » e « partecipare » la
messa 4; infine afferma — apportando alcune testimonianze antiche non equi­
vocabili — che anche « il popolo unito al sacro ministro fa il sacrificio ». E
nell’affermare questo, nota che « non avran forse i più del popolo o impa­
rata o avverata giammai questa verità » per il fatto che la Liturgia si fa
in lingua latina, lingua divenuta « forestiera e non intesa presso il volgo »,
con la conseguenza che la Liturgia divenne un fatto clericale e che quindi
« solamente spettava al sacerdote l’eseguire con tutta devozione quella sa­
cratissima azione », mentre gli altri erano quasi giustificati « ad intervenire al
celeste sacrificio della messa con poca riverenza o almeno poca attenzione » 5.
La posizione del Muratori indica all’evidenza che la Liturgia sta acqui­
stando nuove prospettive e non in forza di riforme rituali ma per una ri­
scoperta teologica, espressa nella semplice proposizione: «Anche il popolo
unito al sacro ministro fa il sacrificio » e per questo il popolo deve pensare e
riprendere il posto che ora occupa il chierico inserviente 6. La lingua latina
nella Liturgia ha le sue origini storiche, ma è anche la responsabile diretta
del fatto che questa verità fondamentale sia ignorata. Il discorso del Mura­

1 Per queste affermazioni cfr. i testi del Duguet e del Letourneux riportati dal Bremond, o. c
155 ; 159-154. Il Letourneux fu alla fine del secolo xvii uno dei maggiori esponenti di un ritorno
ad una comprensione teologica della Liturgia, soprattutto con le sue due opere: L'année chrétienne,
1677-1686 (censurato da Roma nel 1671 sempre a causa della «traduzione» del Canone) e La
meilleure manière d'entendre la Messe, 1685.
2 Per la Controversia di Crema, cfr. : B. Volpi, Storia della celebre controversia di Crema, Venezia
1790; B. Matteucci, Controversia sulla comunione liturgica e il giansenismo italiano, in «Rivista del Clero
italiano» 18, 1937, 203-208; Idem, Comunione liturgica, in «F ides» 40, 1940, 515-522; A. M er­
cati, Un biglietto inedito del Muratori in occasione della controversia di Crema, in « Rivista della storia
della Chiesa in Italia» 2, 1948, 403-411; L. Paladini, La controversia della comunione nella messay in
«Miscellanea liturg. in honorem L. C. Mohlberg », voi. 1 (Roma 1948), 347-371; voi. 2 (1949).
341-347. In proposito una tesi (dattiloscritta) presentata al Pontif istituto Liturgico S. Anseimo
di Roma da J. Devos, De controverse rond de « volmaaktere deelname » van den gelovigen aan het misojjer
in de i8e eeuw, Roma 1969, è corredata dalla pubblicazione di numerosissimi documenti inediti,
raccolti in un II voi. di fonti per complessive 297 pagine.
#3 A. L. Muratori, Della regolata devozione dei cristiani, Roma 1957, 151. Sul Muratori cfr. L. Bran­
dolini, L. A . Muratori precursore del movimento liturgico italiano, Roma 1956, 550, tesi (dattiloscritta)
presentata al Pontif. Istituto Liturgico S. Anseimo, Roma e pubblicata in estratto in EphLit 81,
i 96 7> 333-375 ; 82, *968, 81-118.
4 Muratori, 0. r., 142 ss.
5 Idem, 0. r., 148*150.
"Idem , 0. c., 16, 88, e 151.
73 verso una teologia della Liturgia

tori si riferisce direttamente all’aspetto « sacrificale » della messa, ma esso


va legittimamente allargato a tutta la Liturgia, perché proprio dall’insi­
stenza posta, appunto in materia di « sacrificio », sul potere esclusivo del
clero, è nata e si è rafforzata l’opinione che la Liturgia fosse cosa non del
popolo, al quale erano invece riservate le « devozioni » con tutto il loro facile
apparato superstizioso, magico ed esteriore; apparato di cui peraltro soffriva
la stessa Liturgia, anche se racchiusa nella roccafòrte clericale.
Non c’è ancora una teologia della Liturgia, ma si comincia a ritrovarne
qualche elemento, e soprattutto lo studio delle antiche fonti liturgiche1 riscopre
— finalmente in pieno terreno liturgico — una ricchezza di pensiero, che im­
pegna ad una riflessione che sarà ormai non più solo storica ma teologica.

4 Albori del movimento liturgico

D ’altra parte si profila ormai nella storia del pensiero europeo Vorizzonte
romantico che così forte incidenza avrà nella letteratura e nell’arte. Si può
dire che nella seconda metà del secolo x v i i i sul piano religioso — anche
se solo a livello di dotti — tutti gli studi ecclesiastici e non solo quelli li-

1 Tra i principali autori, segnaliamo: il teatino italiano card. Tornasi (| 1713) con Codic
sacramentorum nongentis annis vetustiores, Romae 1680, pubblica per la prima volta il sacramentario
così detto gelasiano e tre libri gallicani, detti: Missale gallicanum, Missale Francorum e Missale gal-
licanum vetus (benché non si tratti di « messali » in senso plenario, ma solo di « sacramentari ») ;
seguirono: Responsorialia et antiphonalia ramarne ecclesiae, Romae 1686, e Antiqui libri missarum ro­
mánete ecclesiae, Romae 1691. (Altra edizione fu curata dal Vezzosi nelle Opera omnia del Tornasi,
Romae 1748-1754). Il benedettino francese G. Mabillon (| 1707), che nella sua Liturgia gallicana,
Parisiis 1685, riprende i testi gallicani del Tornasi, in edizione migliorata, con l’aggiunta di altre
fonti ancora inedite; fece poi seguire il Museum italicum, 2 voli., Parisiis 1687-1689, in cui pubblica,
in aggiunta al già noto Ordo romanus vulgatus (ed. Cassander, 1561 e Hittorpius, 1568), tutta una
serie di altri Ordines romani, ossia « Direttori » per la celebrazione della messa, dei sacramenti
e dell’uiTicio. Un altro benedettino francese E. Martène (j 1739) pubblica c studia molti mano­
scritti liturgici in due famose opere: De antiquis monachorum ritibus, Lione 1690 e De antiquis Ec­
clesiae ritibus, Rouen 1700-1702. L ’oratoriano italiano G. Bianchini (I 1764) in appendice alla sua
ediz. Anastasii Bibliothecarii de vitis romanorum pontificum (conosciuto sotto il nome di Liber Pontifi­
calis), Romae 1728, pubblica la preziosissima collezione di messe, che va sotto il nome di Sacra­
mentario Leoniano (per l’attribuzione da lui fattane al papa Leone Magno) o Veronense (per il luogo
dove fu scoperto: biblioteca capitolare di Verona). L ’importanza che si diede alle scoperte di questi
antichi testi liturgici risalta già dal fatto che il Muratori (f 1750) volle fare una pubblicazione
completa di tutti i Sacramentari allora conosciuti, romani e gallicani nella opera: Liturgia romana
vetus. Venetiis 1748, con l’intento esplicito di poter offrire con questi testi materiale per uno studio
teologico-apologetico della messa come « sacrificio ». Alle fonti bisogna poi aggiungere gli studi dei quali
molti sono tentativi encomiabili di penetrazione nello spirito della Liturgia, benché si muovano
prevalentemente sul piano storico. c quando entrano in quello teologico tendono a interpretare le
antiche fonti soprattutto in senso dottrinai ^-apologetico antiprotestante. Meritano particolare ri­
lievo: l’italiano cistercense card. Bona (f 1674), Rerum liturgicarum libri duo e De divina psalmodia,
in Opera omnia. Anversa 1739, che furono certamente tra gli studi più accurati e letti dell’epoca ;
l’oratoriano francese L. Thomassin (| 1695'/, famoso per parecchie sue opere, ma soprattutto per
il suo Traite de Voffice divin, Paris 1686. in cui riaffiora il problema con cui si apriva l’epoca
moderna: Meditazione 0 Liturgia? c l’A. lo risolve mostrando come e perché la Liturgia possa
e debba essere meditazione; l’altro oratoriano francese P. Lebrun (f 1729), Explication littérale,
historique et dogmatique de la Messe, con l’appendice di molte Disserlations historiques et dogmatiques,
varie di contenuto c di valore (difende tra l’altro il «secreto dei misteri»), Paris 1727 (trad.
it. da parte di A. M. Donado, già nel 1734, a Verona nel 17523) ; il francese G. Grandcolas (f 1732),
Antiquité des cérémonies qui se pratiquent dans Vadministration des Sacrements, Paris 1692; Les ancienner
liturgies, 3 voli., Paris 1697-1704 (uno studio sullo sviluppo storico della messa attraverso i secoli);
Commentaire hisiorique sur le Brcviaire romain, Paris 1727; il papa Benedetto X IV (t 1758), De festis
D. .Y. fé su Christi, et B. Mariae Virginis, Patavii 1745 e De sacrosancto missae sacrificio, Romae 1748,
opera nella quale si scorge troppo di frequente un’informazione di seconda mano e anche abba­
stanza limitata, in nulla paragonabile per es. al Bona. A questo papa si deve ad ogni modo, la
prima cattedra di Liturgia («Accadem ia liturgica») affidata al gesuita portoghese De Azevedo (no­
vembre 1748), con 4 anni di corso e con un complesso di materie che superavano di molto il
puro aspetto cerimoniale e rubricale (vedi il discorso d’inaugurazione e la lezione introduttoria
del corso, da parte dell’Azevedo, in Benedetto X IV . De sacrosancto missae sacrificio, Patavii 17553,
ad uso della scuola suddetta).
74 parte I - capitolo II

turgici, col loro orientamento verso Fantichità, avevano in certo senso an­
ticipato il processo romantico, almeno per quel che riguarda il suo sforzo
di comprendere la cultura moderna riagganciandola al Medioevo e quindi
non fu un fatto strano che proprio al tempo del romanticismo si avessero
i prodromi di quello che si chiamerà « Movimento liturgico ».
A metà del secolo xix, e cioè in pieno romanticismo, Fabate benedettino
P. Guéranger (1805-1877) che, dopo la devastazione della Rivoluzione fran­
cese, rifonda la vita monastica in Francia, è anche colui che praticamente
tira, in campo liturgico, le fila del lavoro che i predecessori del secolo xvm
avevano fatto, e coraggiosamente fa della Liturgia la grande missione della
sua vita. Per lui « la Liturgia è la preghiera della Chiesa » preghiera
che nasce tutta dallo Spirito Santo, vero ispiratore del canto del salmista
e dei profeti, dei cantici della Nuova Alleanza e finalmente del « “ cantico
nuovo 55 intonato dalla Chiesa. Da questa triplice fonte, aperta dallo Spi­
rito, emana Felemento divino chiamato Liturgia » 12. Dietro la pacifica
affermazione di Guéranger, c’è tutto un retroscena storico. Così dicendo
infatti egli vuole ritrovare il tipo vero della preghiera cristiana, perdutosi
— egli diceva — attraverso i secoli, poiché già prima del « razionalismo »
del secolo xvi i fedeli ormai da molto « non si univano più esternamente alla
preghiera della Chiesa se non nelle domeniche e nei giorni festivi..., sempre
più dimenticando ciò che era stato forte nutrimento ai loro padri. Entrò la
preghiera individuale al luogo della sociale e il canto.., fu riservato ai giorni solenni » 8.
Poi venne la Riforma, poi il razionalismo e « i paesi cattolici si trovavano in
braccio a questo spirito d’orgoglio nemico della preghiera: La preghiera
non è azione, dicono » 4. Sintetizzando poi gli sforzi spirituali dei secoli
precedenti continuava: « A porre rimedio ad un malessere indefinibile si
fe3 ricorso allo spirito di preghiera e alla preghiera stessa secondo dati metodi
in libri che contengono, è vero, pensieri lodevoli e pii, ma pensieri umani.
Tal nutrimento è vuoto perché non conduce alla preghiera della Chiesa, separa
invece di unire » 5. Egli vuole quindi affermare « Fincontestabile superiorità
della preghiera liturgica sopra Findividuale » 6, perché « Gesù Cristo stesso
è mezzo ed oggetto della Liturgia ».
Ci sembra che si possa dire che il Guéranger nel considerare la Liturgia
si ponga più sul piano della « spiritualità » che su quello della « teologia »,
anche se è sottolineata la nota tradizionale e sociale della Liturgia, nel pre­
sentarla come «preghiera della Chiesa». In fondo è questione di una forma
di preghiera della quale si afferma la superiorità su un3altra forma, che per
il fatto di essere « individuale », finisce di « separare invece di unire ». Cer­
tamente in lui il piano « spirituale » si arricchisce di un elemento « teo­
logico », ma questo rimane li, non sfruttato, perché in fondo tutto è visto
a livello « psicologico », non escluso Cristo stesso, « mezzo e oggetto della
Liturgia». Quindi col Guéranger non c3è un apporto positivo sufficiente-
mente valido per una teologia della Liturgia, e l’amore che per la Liturgia egli

1 P. Guéranger, Vannée liturgique, voi. I, citato secondo la traduzione italiana (apparsa ano­
nima): Vanno liturgico, voi. I, Torino 1884, 2.
2 Idem, 1. c.
3 Idem, /. c.j 3 ss.
4 Idem, K c., 5.
3 Idem, /. c., 6 ss.
ñ Idem, l.c.y 7.
15 verso una teologia della Liturgia

nutriva e fece nascere in alcuni ambienti di élite culturale, rispondeva so­


prattutto al « tradizionalismo » sentimentale e nostalgico che pretendeva
vedere nel Medioevo la espressione più autentica della vita della Chiesa, in
quanto lo si considerava permeato di Liturgia. E più sopra s5è visto come
questo giudizio sia infondato l.

5 La Liturgia culto della Chiesa

Ma anche l’opera di Guéranger era destinata a portare i suoi frutti,


perché dall’ambiente monastico nutrito dello spirito dell’abate di Solesmes,
sarebbe uscito il benedettino belga L. Beauduin (1873-1953), che avrebbe
fatto fare alla Liturgia un vero sbalzo in avanti sul piano teologico. Egli defi­
nisce la Liturgia come « il culto della Chiesa » 2.
In questa definizione la « Chiesa » è prima di tutto elemento speci­
ficante : sono « Liturgia » solo e tutti gli atti di « culto » che la « Chiesa »
riconosce come propri3, comunicando ad essi determinate « note », che pro­
vengono dalla natura stessa della « Chiesa », in quanto è sociale, gerarchica univer­
sale^continuazione di Cristo, santificatrice (ministerialmente) e composta di uomini4.
Inoltre, « il soggetto unico e universale del culto della Chiesa è il Cristo risusci­
tato e glorioso, che sta alla destra del Padre... È lui che esercita il nostro culto...
Unico mediatore tra Dio e Pumanità, Pontefice eterno... della Nuova A l­
leanza, Pontefice unico che compie, qui sulla terra, tutta la nostra Liturgia » 5.
Questa visione porta il Beauduin sulle vie che saranno quelle del Vati­
cano II, perché quest’azione di Cristo altro non potrà essere che 1’opera della
salvezza, vista « non come una pagina di storia, come un 'monumento com­
memorativo o come un sistema filosofico (di verità astratte), ma come una
realtà soprannaturale, sempre presente, sempre attiva, il cui centro vitale
è il Cristo glorioso » 6.
Per effetto di tale presenza attiva di Cristo, il culto della Chiesa si rivela
come esercizio del sacerdozio di Cristo 7 e diventa storia della salvezza in atto, cioè
il momento attivo col quale Cristo « ci costituisce in sua comunità e ci
sviluppa in suo Corpo mistico », perché il « vero culto (cristiano) si ha sol­
tanto quando si diventa membri del Corpo di Cristo » 8. Del sacerdozio col
quale Cristo esplica la sua azione cultuale nella Chiesa, il Beauduin precisa
il significato dicendo: a) è personale, è questo vuol dire che è il sacerdozio
personale di Cristo ad agire per mezzo di coloro che sono suoi ministri in
forza di un sacramento; b) è collettivo (noi diremo « comunitario ») in quanto
Cristo, assommando in sé tutta Pumanità redenta, esercita « un’azione sacer­
dotale collettiva e solidale, a favore e a vantaggio di tutta la sua comunità »;12 8
7
6
5
4
3

1 La critica, cosi violenta ma fondamentalmente esatta, che L. Bouyer, La vis de la Liturgie


(Lex orandi, 20), Paris 1956, 23-29, fa a Guéranger, è basata principalmente su questo aspetto
del « tradizionalismo », che è incomprensione della « tradizione ».
2 L. Beauduin, Essai de manuel de Liturgie, in « Mélanges liturgiques », Mont-César, Louvain
1954, 37. L ’opera restata incompleta era già comparsa sotto forma di articoli in « Questions
liturgiques et paroissiales » 3-6, 1912-1920.
3 Idem, 1. c.
4 Idem, La piété de VEglise, in « Mélanges... » 24-28. La piété de VEglise fu pubblicata come
volume già nel 1914.
5 Essai..., I. c., 73-76.
6 Ibidem, 76.
7 Ibidem, 79 ss.
8 Ibidem, 77.
76 parte l - capitolo IJ

c) è gerarchico e cioè, pur essendo « Cristo stesso a esercitare qui in terra


il suo sacerdozio », tuttavia volendo renderlo visibile, egli si dà « dei mi­
nistri, strumenti, che agiscono in suo nome e in suo potere, ed è questo il
sacerdozio cattolico, trasmissione sacramentale deirunico sacerdozio di
Cristo » l.
Oggi è facile apprezzare questa sintesi di teologia della Liturgia presentata
nel lontano 1912-1920, e anche sottoporre a critica la sua spiegazione della
natura sacerdotale della Liturgia 123
, ma allora fu un fatto veramente straor­
dinario e non tutti lo compresero nel suo pieno valore 8.
Da questo momento si assiste ad un fiorire di definizioni della Liturgia,
in molte delle quali si riconosce in maniera più o meno evidente quella del
Beauduin 4, ma la sua prospettiva ecclesiale della Liturgia fu in genere vista
molto meno sul piano teologico che su quello giuridico. Per molti infatti la
« Chiesa » è ancora o solo o soprattutto quella che « ordina e regola » il
culto « pubblico » 5, e la stessa parola « pubblico » è spesso spiegata nel
senso di « ufficiale » 6.

6 La Liturgia « mistero » della salvezza

Nella posizione teologica, che la Liturgia aveva assunta con Beauduin,


se molti avevano variamente interpretato la componente ecclesiale, nessuno
aveva approfondito un’idea che lo stesso autore aveva presentato e non sol­
tanto sfiorato, anche se poi non vi aveva insistito. Accenniamo aVCopera della
salvezza, vista come « realtà soprannaturale sempre presente e attiva nella
Liturgia » 7. Sia pure senza riferimento a questa affermazione del Beauduin,
e procedendo per vie del tutto proprie, sarà appunto questo l’aspelto della
Liturgia, che occuperà per lunghi anni la ricerca del benedettino tedesco
O. Casel (1886-1948). Egli senz’altro accetta la definizione di «Liturgia
culto della Chiesa », ma si chiede se la Liturgia cristiana s’iscrive veramente

1 Ibidem, 79-87.
2 Quando Beauduin parla di sacerdozio della Chiesa, stranar lente « Chiesa » assume un signi­
ficato solo « gerarchico-ministeriale », come può vedersi nella spiegazione dei tre momenti in cui
si esprime il sacerdozio di Cristo nella Chiesa. Nello spiegare infatti il momento « collettivo », questo
viene ricondotto al fatto che tutti siamo in Cristo e quindi Cristo ^ isce per tutti. M a si ha l’impres-
sione che Beauduin sfugga alla conclusione logica delle sue affermazioni e cioè che tutti agiamo sa­
cerdotalmente in Cristo. Questo avrebbe portato alla conseguenza che tutti hanno in Cristo un vero sa­
cerdozio (« sacerdozio universale »), cosa che egli dichiara doversi trattare « con circospezione »,
perché « dopo il protestantesimo è un’espressione pericolosa, capace di falsare le mentalità » (/„ c.,
07). Del resto Tidentificaziope di «sacerdozio della Chiesa» con «sacerdozio gerarchico» è ine­
quivocabile e frequentissima in Beauduin, /. c„, 87, 93, 2 e soprattutto in La piété de l'Eglise, 11 ss.,
dove apertamente tra l’altro descrive « la Liturgia come Topera sacerdotale della gerarchia visibile ».
3 Uno di coloro che meglio videro l’importanza della posizione del Beauduin fu, in Italia,
il benedettino E. Caronti, che con i suoi articoli su «Rivista Liturgica» 1, 1914, ripresi poi
nel volume La pietà liturgica, Torino 1920, accetta e sviluppa in pieno la linea teologica della li­
turgia presentata dal Beauduin.
4 H. Schmidt, Introductio in Liturgiam occidentalem, i960, 48-60 riporta con le parole e le spie­
gazioni degli autori 30 definizioni, ma si tenga presente che molte di esse sono già chiaramente
influenzate dalla Mediator Dei. A l confronto si può rilevare che tra le definizioni più antiche
quella del Muratori, Liturgia romana vetus, voi. I, Venetiis 1748, col. 1, suona: «Katio colendi
Deum verum per externos legitimos ritus, tum... tum... » e non come è riportata in Schmidt, 0. c., 57,
20: « Liturgia est cultus Ecclesiae tum... tum...», definizione che sarebbe stata, in questo modo, un
anticipo esatto di quella del Beauduin.
5 Cfr. per es., in Schmidt, 0. c., 49 ss. le definizioni di Bouyer, Callewaert, Eisenhofer, Gué-
ranger.
3 Cfr. in Schmidt, 0. c., le definizioni di Cabrol, Noirot.
7 Beauduin, Essai.. , 76.
77 verso una teologia della Liturgia

sulla linea « generica » di « culto », avendo la « Chiesa » come elemento


specificante di esso x, oppure se la « Liturgia cristiana » in quanto tale esprime
già qualcosa di « specificamente » determinato. La domanda in fondo è
sulla natura del « culto » nel cristianesimo e insieme sul come esso si realizza
nella Chiesa.
Il Casel, filologo delle lingue classiche antiche, fu impressionato dal fatto
che Vazione liturgica viene chiamata, nelle fonti liturgiche, con i nomi di
mysterium-sacramentum. Persuaso che il linguaggio delle fonti liturgiche non
può essere interpretato al di fuori della cultura ambiente, si rivolse allo studio
del « mysterium », che neirantichità era termine tecnico per indicare una
certa forma cultuale ben determinata, espressa dalla cosiddetta « religione
dei misteri » (misteri di Iside c Osiride, di Cibele e Atti, di Mitra, di Dio­
niso, Eleusini, ecc.).
I « misteri » erano riti nei quali i diversi momenti del processo agrario­
vegetativo, personificati in eroi del tempo primordiale, venivano riprodotti
in una scenografia religiosa allo scopo di assicurare il favorevole decorso del
processo cosmico di nascita e sviluppo delle messi, elemento base di vita per
gli antichi. Così, per es., nei misteri Eleusini, la giovane Kore (chicco di
grano) viene rapita da Plutone e portata nel suo regno sotterraneo (grano
nascosto, con la semina, sotto la terra). Demetra, madre di Kore, disperata
e piangente per la perdita della figlia, distrugge tutto sul suo passaggio (l’in­
verno con le sue piogge e i suoi venti gelidi), finché Hermes, dio del Sole,
mosso a compassione, le esce incontro (sole di primavera) e le ottiene la
restituzione di Kore (azione del sole per lo sviluppo del grano). Questa in­
fatti ritorna a vivere sulla terra, fino a quando dovrà tornare nel regno sot­
terraneo di Plutone (maturazione e raccolta delle messi, in attesa della nuova
semina). Di qui due conclusioni:

1. Il fatto cosmico agrario-vegetativo è diventato un mito, cioè un fatto


con valore di significato universale: la vita nasce continuamente dalla morte
secondo una legge costante della natura.

2. Esiste un rito, detto « mistero », alla base del quale c’è sempre un
mito, e cioè un fatto accaduto o pensato come accaduto nei primordi, che
attraverso i « segni » del rito (mistero) provoca il rinnovarsi del fatto an­
tico.
Nella « religione dei misteri » il rito perde gradualmente il suo riferi­
mento magico-agrario ossia cosmico, e viene applicato all’uomo e al suo desi­
derio di una vita che si «rinnovi sempre» («palingenesia») vincendo la
morte. Nasce così, sul rito agrario-vegetativo, il mistero-soteriologico umano,
cioè un rito col quale si comunica all’uomo la « salvezza » (solerla) con­
quistata dall’eroe protagonista del « mistero ». L ’uomo che ha raggiunto
questo, si chiama ed è un « iniziato » (dal latino initia che nella lingua clas­
sica traduce il greco mystèria), cioè un uomo « entrato nel mistero della sal­
vezza ». Il mistero rappresenta quindi una determinata forma cultuale che,1

1 Così appunto si esprime Beauduin. o. c.. 37: «N ella nostra definizione la nozione di culto
funge da nozione generica, che trova la sua delimitazione specifica nella nozione di Chiesa. Questo
vuol dire che non tutti gli atti di religione sono liturgici, e a questo fine si deve loro aggiungere
un elemento specificante: la Chiesa, che se li deve appropriare, farne cioè il suo proprio culto».
È il procedimento seguito anche da Festugièrc. Oifesl-ce que la liturgie?. Paris 1914, 28.
78 parte I - capitolo II

partendo da una religione a livello cosmico-agrario si eleva fino a raggiun­


gere un livello diviiio-umano ed ha come sua peculiare caratteristica quella
di stabilire un contatto diretto tra l’uomo in cerca di salvezza e l’antico
eroe divinizzato, che comunica all’uomo quella stessa salvezza che egli si è
acquistata.
Partendo dal fatto che la « Liturgia » cristiana è chiamata costante-
mente mistero, il Casel scopre che le componenti essenziali di questo termine
tecnico-cultuale sono: i. la esistenza di un avvenimento primordiale di salvezza;
2. che questo avvenimento è reso presente in un rito; 3. che l’uomo di ogni
tempo attraverso il rito attua la sua e universale storia di salvezza. Appli­
cati dunque questi elementi risulta che il culto cristiano realizzandosi sul piano
e nella forma cultuale del mistero, non è tanto un’azione dell’uomo che cerca
un contatto con Dio (concetto naturale di « religione ») quanto un mo­
mento dell’azione salvifica di Dio sull’uomo (concetto « rivelato » di « re­
ligione »). Perciò il Casel definisce la Liturgia come « Vazione rituale del-
Vopera salvifica di Cristo, ossia presenza, sotto il velo di simboli, delVopera divina
della redenzione » l.
L ’importanza di questa posizione del Casel è enorme, anche se al primo
momento non tutti la compresero. Mettendo infatti a monte della Liturgia,
come suo punto di partenza, Vavvenimento salvifico di Cristo, la Liturgia
non è soltanto una « istituzione » venutaci da Cristo, ma è la continuazione
rituale del mistero di Cristo. In altre parole: nella Liturgia — e cioè nella forma
rituale (segno-realtà) — l’avvenimento stesso della salvezza viene reso presente
e attivo per gli uomini di ogni tempo e luogo, e conseguentemente ogni
azione liturgica rappresenta un succedersi di momenti nella storia della
salvezza.
Siamo finalmente arrivati alla « teologia » della Liturgia. Inserendo
questa come « mistero cultuale » nello stesso « mistero di Cristo », che co­
stituisce il punto di arrivo e la realtà stessa di tutta la rivelazione, il Casel
fa della Liturgia un momento sempre attualizzatore della medesima rive­
lazione, e quindi le conferisce un posto centrale nella « teologia ».
Anzi per questa via, il Casel rilancia potentemente la visione « economica »
della teologia in genere, e cioè riporta questa ad essere prima di tutto rifles­
sione non su una somma di verità astratte, ma sull’attuazione progressiva
del disegno divino della salvezza.

7 La Liturgia nella « Mediator Dei »

La posizione teologica di Casel, in materia liturgica non aveva man­


cato di suscitare delle reazioni, anche violente, sopite solo in parte dalla
guerra mondiale 1939-1945. Accanto alle polemiche teologiche, si andavano
accumulando altri fermenti, che sul piano liturgico rivelavano limiti di rot­
tura non solo nei confronti di pratici ordinamenti liturgici (per es., l ’uso della
lingua volgare) ma nell’impostazione stessa della Liturgia sia riguardo ai

] O. Casel, Mysteriengegenwart, in «Jahrbuch f. Liturgiewissenschaft » 8, 1928, 145. Cfr. ibidem,


212 in forma più breve, ma intelligibile dopo quanto si è detto : « La Liturgia è il mistero cultuale
di Cristo e della Chiesa » ; e più breve ancora: «La Liturgia è il mistero di Cristo e della Chiesa »,
in Das christl. Kultmysterium, i960, 59, ed. it. Il mistero del culto cristiano, Torino 1966, 73.
79 verso una teologia della Liturgia

riti (esigenza di semplificazione e di aggiornamento) sia riguardo ai rapporti


della Liturgia con il campo così vasto e delicato della spiritualità (« devo­
zioni », « pratiche di pietà », « oggettivismo-soggettivismo » nella vita spi­
rituale, ecc.). Non erano problemi nuovi nella Chiesa, perché ne conosciamo
resistenza già all’uscita dal Medioevo e li abbiamo visti percorrere tutta
la storia dei secoli xvii-xvm, riaffiorare dopo la stasi della Rivoluzione fran­
cese col Guéranger, e radicalizzarsi nella famosa polemica che seguì, per
anni, alla pubblicazione del libro La Liturgie catholique (1913) del benedet­
tino belga Festugière l. Ma ora si andava oltre le polemiche ad alto livello,
e al Magistero sembrò necessario un chiarimento delle posizioni. Così, ab­
bastanza inattesa, venne l’Enciclica di Pio X II Mediator Dei, 20 novembre
1947 a. Di questo documento che aspetta ancora uno studio approfondito,
noi qui non ci occuperemo se non per l’aspetto che direttamente c’interessa
e cioè per il suo contributo alla comprensione teologica della Liturgia.
È fuor di dubbio che l’Enciclica di Pio XII, pur ricalcando le idee del
Beauduin, si muove contemporaneamente su due linee che sono pensate
complementari. Da una parte essa tenta una sintesi dottrinale del problema
liturgico a livello teoiogico-ecclesiale; dall’altra si fa evidente, fino al punto
di apparire predominante, una seconda intenzione. Si vuole infatti affer­
mare che il riconosciuto valore teologico della Liturgia non deve indurre
a ignorare che certe posizioni dottrinali e pratiche, inserite nel discorso li­
turgico o ad esso polemicamente attribuite, non sono sostenibili, perché
« contaminate da errori che toccano la fede e la dottrina ascetica » 12 3.
Le posizioni dottrinali e pratiche in questione, verso le quali Pio X II
si mostra abbastanza rigidamente inflessibile, sono le nuove tendenze che
si andavano facendo strada: introduzione della lingua volgare nella Li­
turgia; rapporto tra celebrazione-concelebrazione-messa privata e tra messa
e comunione; sacerdozio universale; diritti liturgici dei fedeli; pietà litur-
gica-pietà privata-meditazione; devozioni c pii esercizi; pietà oggettiva-pietà
soggettiva, ecc. L ’Enciclica intendeva porsi in una situazione di equilibrio:
mantenere intatto e anzi rialzare il valore della Liturgia, ma insieme riaf­
fermare la validità di tutte le altre forme religiose in dipendenza, ma anche,
in certo senso, a fianco della Liturgia.
In questo modo però si mostrava di ignorare due fatti: 1. il fatto storico,
secondo il quale le devozioni, i pii esercizi e tutto ciò che ne deriva di men­
talità e di atteggiamenti, erano stati il risultato di un tentativo di superamento
di una Liturgia ormai inefficiente sul piano spirituale: 2. il fatto attuale,
che tendeva ad un « rinnovamento » della Liturgia, il quale non fosse solo
una riabilitazione di essa sul piano rituale, ma che fosse, proprio per mezzo

1 II volume era la risposta ad un invito della « Revue de phiiosophie », che chiedeva uno
studio « sulla natura della preghiera rituale e delle funzioni liturgiche, sulla loro azione e sui loro
effetti psicologici nelle assemblee cultuali dei fedeli cattolici in genere, in quelle monastiche e
soprattutto nei contemplativi giunti ai gradi superiori dell’orazione mistica » (Festugière, La Li-
turgie catholique, 5). E siccome il libro si era rivelato molto critico e demolitore nel confronti di
certe correnti e forme di spiritualità cattolica indiscusse e imperanti, la polemica era divampata vio­
lenta per opera del gesuita francese J. Navatel, Uapostolat liturgique et la piété personnelle, in « Etudes »
137, 1913> 449-476. Per la bibliografia più significativa in materia, dr. Schmidt, 0. c., 90-93.
2 ÀAS 39, 1947, 521-600; è riprodotta integralmente in Bugnini, Documenta pontificia ad instau­
rationem liturgicam spectantia (1903-1953), Romae 1953, 96-164; la trad. it. edita da: Opera della
Regalità, ed. Paoline, ecc.
3 Mediator Dei, /. r., 524.
80 parte I ~ capitolo II

della Liturgia, una risposta alle nuove esigenze spirituali che si andavano
delineando sotto la spinta di nuove visioni teologiche.
Tuttavia, pur tenendo davanti agli occhi questo sfondo polemico-apo-
logetico dell5Enciclica di Pio X II, — che del resto situa bene il documento
nel suo tempo — , esso non deve impedirci di affermare gli aspetti di posi­
tivo progresso di cui si fa promotore nella conoscenza della Liturgia, se non
altro imponendo alla generale attenzione certi elementi che la riflessione
liturgico-teologica andava acquirendo in ambienti sempre più vasti.

E prima di tutto si deve sottolineare che Pio X II ha scelto un piano di­


rettamente teologico dal quale guardare sia la Liturgia sia tutta la proble­
matica che attorno ad essa si condensava. Così suo primo gesto è quello di
sgombrare il terreno da ogni altra considerazione liturgica che non si muova
su questo piano teologico e di conseguenza rigetta come « non vera e non
esatta nozione di Liturgia », tanto quella che riduce questa a « parte solo
esterna e sensibile del culto divino o a cerimoniale decorativo di esso», quanto
quella, secondo cui la Liturgia è « una mera somma di leggi e precetti con
cui Pautorità gerarchica della Chiesa regola il compimento dei riti » h
La presa di posizione dottrinale è qui estremamente netta, e così un
aspetto della problematica liturgica, che a quel tempo era in aperta discus­
sione e fortemente rappresentato, viene liquidato senza appello e — si
direbbe — perfino senza esame, per la semplice ragione che esso non esprime
la natura « vera » ossia teologica della Liturgia, in quanto considera solo
il lato « esterno-estetico » e « giuridico » di essa. La cosa acquista tanto
più importanza, se si pensa che le due concezioni rigettate erano le uniche
rappresentate dalla scienza ecclesiastica ufficiale dell’epoca oltre che del
passato.
Già nelle pagine introduttive la Liturgia viene presentata dall’Enciclica
come il mezzo principale dato alla Chiesa « per continuare Yufficio sacerdo­
tale di Cristo » 12, e più avanti la Liturgia è definita senz’altro come « Yeser­
cìzio del sacerdozio di Cristo » ossia lo stesso suo sacerdozio in atto 3. Cristo
infatti fin dal momento della sua Incarnazione « si rivelò al mondo nella sua
qualità di sacerdote », nell’offerta che di se stesso fece al Padre (Ebr io, 5-7)
e che consumò nel sacrificio cruento della Croce45 . Ma oltre a ciò Cristo
volle che lo stesso « culto da lui prestato e istituito nella sua vita terrena
non venisse mai a cessare » in mezzo agli uomini, e per questo volle lasciare
alla Chiesa non solo il suo potere di magistero e di governo, ma anche « il
sacrificio e i sacramenti da lui stesso istituiti », affinché la Chiesa diventasse
« ogni giorno più un tempio santo, nel quale la Maestà divina ricevesse un
culto gradito e legittim o»5. Di qui la definizione: «La Liturgia è dunque
il culto pubblico che il nostro Redentore, capo della Chiesa, presta al Padre celeste,
e che la comunità dei fedeli presta al suo fondatore e per mezzo di lui al Padre.
Più brevemente: la Liturgia è il culto pubblico totale del Corpo mistico di Cristo,
capo e membra » 6.

1 Ibidem, 532.
- Ibidem, 522.
:J Ibidem, 529.
4 Ibidem, 527.
5 Ibidem, 528.
fl Ibidem, 528.
81 verso una teologia della Liturgia

L'iter seguito dall1*5Enciclica per giungere a questa definizione della Li­


turgia risulta essere il seguente:
1. Punto dì partenza per comprendere la Liturgia, è Cristo, che nella sua qua­
lifica di mediatore e sacerdote unico deH5umanità dà al Padre un culto per­
fettissimo.
Rifacendosi a Ebr io, 5-7, Pio X II non solo pone l5Incarnazione come
momento iniziale della missione sacerdotale di Cristo, ma dà ad essa una
chiara finalità cultuale, in quanto « la gloria del Padre e la sempre maggiore
santificazione degli uomini » costituiscono di fatto « il culto da lui istituito
e prestato durante la sua vita terrena » 1. Questo « culto sacerdotale di Cristo »
si sintetizza prima di tutto « nell’atto di sottomissione » che Cristo fa al
Padre entrando nel mondo e « che durerà per tutto il tempo della sua vita »,
fin ad essere « portato a compimento in modo mirabile nel sacrificio cruento
della croce » e che avrà come conseguenza la santificazione degli uomini2.
2. La Liturgia della Chiesa non e altro che « la continuazione ininterrotta » del
culto già prestato da Cristo durante la sua vita terrena 3, e precisamente nella
duplice dimensione di « glorificazione di Dio e santificazione degli uomini ».
Questo principio, che forma l’elemento-base della natura teologica della
Liturgia, si fonda a sua volta su due punti complementari Ira loro: a) la
natura cultuale della Chiesa, e b) la presenza di Cristo mediatore e sacer­
dote nella Chiesa.
a Natura cultuale della Chiesa. La Chiesa riveste naturalmente i diversi
uffici propri di Cristo: ufficio di magistero, pastorale e sacerdotale; ma
anche in essa, come in Cristo, tutto viene a conglobarsi finalmente in una
finalità cultuale. Richiamandosi infatti a Ef 2, 19-22, PEnciclica vede tutto lo
sviluppo e tutta la crescita, che nella Chiesa emana dalla pietra-angolare-
Cristo, tendere come a « suo unico fine » a creare nel mondo « il tempio nel
quale la divina Maestà riceve il culto gradito e legittimo » 4. Solo così infatti
nella Chiesa « è sempre in atto, durante il succedersi dei secoli, il sacerdozio
di Cristo » 5, e questa è la ragione per la quale unicamente « la Chiesa co­
mincia ad avere una Liturgia fin dal primo momento della sua esistenza » 6.
b « Presenza » dì Cristo nella Liturgia. Sappiamo già che questo è il con­
tenuto più caratteristico della spiegazione « misterica », che il Casel diede
della Liturgia. Ma è facile constatare che esso è penetrato profondamente
nell’Enciclica e sicuramente non basta che questa rigetti « il modo incerto
e nebuloso con cui alcuni recenti autori ne parlano » 7, per allontanare il
sospetto che il documento pontificio sia su questo punto debitore al liturgista
tedesco nel momento stesso in cui dichiara di non accettare il suo modo di
spiegare tale « presenza » 8.
L ’idea della « presenza » di Cristo nella Liturgia, per sé implicita nel
fatto stesso che la Liturgia è « continuazione dell’ufficio sacerdotale di Cristo »

1 Ibidem, 527.
- Ibidem, 526.
:1 Ibidem, 522 e 527.
1 Ibidem, 528.
5 Ibidem. 529.
« Ibidem.
7 Ibidem, 580.
8 Ibidem.
82 parte I - capitolo II

viene esplicitamente affermata, quando si vuole spiegare per quali ragioni


è gradito a Dio il culto offertogli nel « tempio » che è la Chiesa. Infatti
— si legge — « insieme con la Chiesa, in ogni azione liturgica è presente Cristo,
divino fondatore di essa » e, continuando, si specificano i diversi momenti
di tale presenza: messa, sacramenti, preghiera di lode e di supplica; per
poi concludere proprio in forza di questa presenza di Cristo alla già citata defi­
nizione di Liturgia.
In tutto questo la nota più interessante sta nel fatto che la « presenza »
di Cristo negazione liturgica viene posta a lato della « presenza », in essa,
della Chiesa, in modo che la Liturgia risulta essere veramente Yazione cui-
tuale unitaria del capo e del corpo della Chiesa in una simbiosi-osmosi totale:
la Chiesa in e per mezzo di Cristo e Cristo nella e per mezzo della Chiesa.
Naturalmente la posizione subalterna che la Chiesa-corpo ha in rapporto
a Cristo-capo, ci porta a due conclusioni: i. la Liturgia è « primariamente »
culto di Cristo e « per partecipazione » e « in fase esecutiva » culto della Chiesa;
di conseguenza, la Liturgia appare ed è teologicamente il culto stesso di Cristo
partecipato e trasmesso alla Chiesa; 2. la Liturgia è culto della Chiesa, non
in quanto « società » (anche se l’Enciclica troppo spesso fa ricorso a questo
termine per qualificare il carattere «liturgico» della Chiesa), ma solo in
quanto è corpo di Cristo. Soltanto a questo titolo infatti la « presenza » di Cristo
è sacerdotalmente attiva nella Chiesa.

L ’analisi del pensiero teologico della Mediator Dei sarebbe però incom­
pleta se non ne rilevassimo certi punti, che a nostro giudizio sono meno
validi.
1. Per quanto riguarda la presentazione della Liturgia come culto pubblico
(parte I, cap. 1), il documento non è riuscito a staccarsi da uno schema
che, già troppo abusato in teologia, crede di dover sempre prendere le mosse
da una pre-teologia filosofica, e che qui è applicato per stabilire la « na­
tura » e il «dovere» del culto. Orbene si deve notare: a) che una deter­
minazione della natura e del dovere del culto sul piano naturale, ossia sulla
base dei rapporti che naturalmente intercorrono tra l’uomo e Dio, non può
creare nessun presupposto valido per un discorso teologico sulla Liturgia, quando
questa poi giustamente si definisce come avente la sua origine e la sua ra­
gione nell’esercizio sacerdotale di Cristo, che è un « unico », senza paralleli
sul piano naturale; b) che scendendo poi a parlare della differenza che passa
tra culto di religione naturale e culto di religione rivelata, la differenza stessa
è vista solo a livello degli « ordinamenti cultuali » dell’AT, considerati come
« istituzioni divine », che come tali sarebbero espressive del « peculiare
impegno di culto cui è tenuto l’uomo elevato all’ordine soprannaturale » a,
senza invece minimamente avvertire che quegli stessi « ordinamenti cul­
tuali » dell’A T hanno un loro carattere « figurativo » di una « realtà »
futura; un aspetto di cui pure si parla3 e che sarebbe stato quello giusto
per impostare il discorso teologico del culto, come « momento della storia
della salvezza », differentemente rivelato e attuato nell’A T e nel NT.12 3

1 Ibidem, 528.
2 Ibidem, 526.
3 Ibidem.
83 verso una teologia della Liturgia

2. Dimostrare che la Liturgia è « culto pubblico » e cioè « socialmente »


vincolante, facendo ricorso al fatto che la « società » in quanto tale è in­
vestita di un obbligo di culto pubblico: a) è dimostrazione non del tutto valida,
anche sul solo piano razionale, perché si basa su una considerazione cultu­
ralmente condizionata. Il principio infatti era vero per la « società » antica,
nella quale ogni popolo, proprio nella sua qualità di « popolo », riferiva
la sua origine e la sua esistenza ad una determinata divinità, fino al punto
di credere che un popolo non poteva cessare di esistere come tale, se prima
non fosse stato privato della propria divinità h Di qui la « religio publica »
degli antichi, nei quali il calendario religioso condizionava totalmente ia
vita civile, b) Anche se questo obbligo « sociale » fosse dimostrato valido
nell’ordine naturale, non è premessa sufficiente per giungere alla Liturgia, vista
come « culto di tutto il corpo mistico di Cristo ». La « società » si definisce
infatti come « una moltitudine di individui aventi una comune aspirazione
verso un unico fine », e questo ci dice che la « società » è specificata e unita
da qualcosa che è al di fuori di essa e cioè dal « fine ». Al contrario la Chiesa-
corpo di Cristo, trae la sua unità da un principio intrinseco ad essa, vale a
dire dalla « presenza attiva » di Cristo-capo sacerdotale del corpo. Da ciò
si deduce che un ricorso al culto sul piano naturale non potrà mai né spie­
gare né illuminare veramente la Liturgia; mentre infatti quello esprime
direttamente l’uomo in cerca di un contatto con Dio, questa risulta da una
« presenza » di Cristo negli uomini.

3. A proposito dello stretto legame posto tra Liturgia e Corpo mìstico, bisogna
riconoscere che la pur autorevole affermazione perde gran parte del suo va­
lore per il mancato riconoscimento del nesso che intercorre tra Liturgia e
storia della salvezza, già intravisto dal Beauduin e poi così ampiamente con­
fermato dal Casel. Né si può dire che neirEnciclica Mediator Dei ciò si deve
ad una volontà di « non intervento » in una questione disputata, quale era
quella caseliana della « presenza delazione salvifica di Cristo » nella Li­
turgia. L ’Enciclica conosce infatti questa « presenza » della storia della
salvezza e cioè dei misteri di Cristo nella Liturgia e precisamente nell’anno
liturgico, quando scrive: « L ’anno liturgico non è una fredda e inerte rap­
presentazione di cose del tempo passato né semplice e nudo ricordo di cose
d’altri tempi, ma è al contrario Cristo stesso, che perdura nella sua Chiesa,
continuando il cammino della sua immensa misericordia cominciato già
su questa terra..., affinché gli uomini possano venire a contatto dei suoi mi­
steri e così in certo modo vivere per mezzo di essi. Ma questi misteri sono con­
tinuamente presenti e operanti non in quella maniera incerta e oscura di cui
parlano certi scrittori moderni, bensì come insegna la dottrina cattolica » 2.
Quindi viene affermata una « presenza dei misteri », sia pure non nel senso
di Casel3, e viene spiegata in senso morale e psicologico, come avviene in12 3

1 Di qui il rito della evocatio alla divinità del luogo, prima di muovere all’assalto di esso. Gfr,
Lattes, Ròmische Religionsgeschichte, Miinchen i960, 125. Formule di «evocatio» in Brissonius, De
formulisi 63 ss.
2 Ibidemy 580.
3 Che nel testo citato si parli della « presenza misterica » di _Casel, e se ne parli per riget­
tarla, si rivela chiaramente dalla risposta data dal S. Officio a chi voleva vedere in quelle parole
addirittura un’approvazione della (dottrina caseliana (cfr. Bugnini, Documenta,,., 167-169).
84 parte I - capitolo II

una meditazione \ che, per quanto nobile, non si vede come possa conci­
liarsi con la natura sacramentale della Liturgia.

4. Un altro punto di cui l’Enciclica segna un arresto, è quello della teo­


logia ecclesiale. È vero che la Liturgia è stata da essa definita come « il culto
pubblico totale del Corpo mistico di Cristo » 2 e che in questo culto la Chiesa non è
solo «unita» a Cristo 8, ma ne è la «continuazione»4. Quando si tratta però
di approfondire il concetto di Liturgia, allora dal fatto che la « Chiesa po­
stula una gerarchia» e che solo appunto la gerarchia ha un «potere sacer­
dotale » 6, se ne deduce che « la Liturgia viene esercitata principalmente
dai sacerdoti in nome della Chiesa » fl, e ciò fino al punto da essere vietato il ter­
mine «concelebrazione» per indicare la parte che il popolo ha nella Liturgia7.
La Liturgia ritorna ad essere, per l’Enciclica, un fatto prevalentemente
« clericale », ed appartiene alla Chiesa-corpo solo in quanto « in nome di essa
viene esercitata dai sacerdoti e dagli altri minisi?i della Chiesa e dai religiosi
a ciò delegati » 8. Espressamente infatti si dice, per es., che Tofferta (inte­
riore) con la quale il popolo partecipa alla messa è qualcosa che « si rife­
risce al culto liturgico in quanto tale » 9, ma non è Liturgia. La ragione di
tutto questo è ancora la stessa. O non si parla di « sacerdozio dei fedeli » 10
o se ne parla solo in senso « metaforico » u.1

1 Ibidem, 577-579. Una fòrte incertezza si vede però, ibidem, 580, dove si dice che « i misteri
di Cristo sono presenti e operanti... come esempi di perfezione e come Tonti di grazia per i meriti e
le preghiere di Cristo» (sic!). Ma la difficoltà diventa insolubile, ammessa solo una presenza e
azione sul piano psicologico, quando il testo deirEnciclica prosegue dicendo: « I misteri di Cristo
perdurano in noi nel loro effetto, in quanto ognuno di essi a suo modo è causa della nostra sal­
vezza ». Quindi in noi si avrebbe o si potrebbe avere Vejfetto dei misteri e cioè la salvezza, pre­
scindendo da qualunque reale-attuale presenza di essi, presenza che pure è esplicitamente affermata,
anche se non si accetta nel senso prospettato da Casel. Cfr. l’interpretazione del S. Officio, sopra
citata: « A proposito della presenza dei misteri alcuni dicono che l’Enciclica approva coloro che
parlano di una presenza mistico-sacramentale reale. Invece il vero senso deirEnciclica... » (Bu-
gnini, 0. c., 168).
2 Ibidem, 528. Vedi sopra, p. 78.
3 Ibidem, 632.
4 Ibidem, 522 e 528. Vedi sopra.
5 Ibidem, 538.
6 Ibidem, 539.
7 Ibidem, 553.
8 Cfr. ibidem, 573.
9 Ibidem, 556.
10 L ’Enciclica non usa mai questo termine, ma si serve di altre espressioni, come: «diventare
membra di Cristo sacerdote» o «partecipare al sacerdozio di Cristo» (ibidem, 555).
11 Ibidem, 553-556.
capitolo terzo

la teologia della Liturgia nel Vaticano II

Bibliografia

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Vhomme (Lex orandi, 32), Paris 1962; F. Antonelli-R. Falsini, Costituzione conciliare
sulla S. Liturgia, Milano 1964; G. Barauna, La S. Liturgia rinnovata dal Concilio,
Torino 1964; G. Vagaggini, Lo spirito della costituzione sulla Liturgia, in Costituzione
sulla S. Liturgia, Torino 1964, 5-49; E. J. Lengeling, Die Konstitution des 2. Vatik.
Konzils (Lebendiger Gottesdienst, 5-6), Münster i. W. 1964; I. Gordon, Consti­
tutio de S. Liturgia et canones 1256-1257, Commentarium ad selecta principia Constitutionis,
in « Periodica de re morali, canon., liturgica » 54, 1965, 89-140; 352-405; P. Massi,
Catechesi del rinnovamento liturgico, Torino 1965; Idem, Il mistero pasquale nella costi­
tuzione del Vaticano II sulla Liturgia, Roma 1968; O. Casel, Il mistero del culto cri­
stiano, Torino 1966; H. Schmidt, La costituzione sulla S. Liturgia, Roma 1966;
J. P. Jossua e Y. Gongar, La Liturgie après Vatican IL Bilans, études, perspectives
(Unam sanctam, 66), Paris 1967.

I da una riforma rubricale ad una visione teologica

La Mediator Dei sembrò volesse soprattutto puntualizzare alcuni aspetti


teologici e frenare certi fermenti innovatori sul piano della pratica liturgica.
In realtà diventava solo il prologo di un discorso molto più ampio. Infatti
dal 1951 al 1961, anno di indizione del concilio Vaticano II, si susseguirono
alcuni importanti documenti pontifici i quali segnarono per la Liturgia
Favvio di una riforma, che nella mente di Pio X II doveva essere generale L
Essi sono nelFordine:
1. — 9 febbraio 1951: restaurazione della veglia pasquale a;

ò 9 f r o A A S 47 , I 9 5 à 2 l8 ; o2 ’ ! 96o , 393* J „ , , . .
- AAS 43, 1951, 128-129. La restaurazione della veglia pasquale concessa nel 1951 in via
facoltativa, nel 1952 fu prorogata per un triennio di esperimento, rinnovata ancora per un anno
nel 1955 in modo da venirsi a inglobare con il nuovo Ordo della settimana santa, che entrò in
vigore appunto nel 1956.
86 parte I - capitolo III

2. — 6 gennaio 1953: introduzione delle messe vespertine e nuove norme


per il digiuno eucarìstico 1;
3. — 23 marzo 1955: decreto di semplificazione delle rubriche del messale
e del breviario 12;
4. — 16 novembre 1955: pubblicazione del nuovo Rito della settimana
santa, accompagnata da una intelligente istruzione pastorale3;
5. — 3 settembre 1958: istruzione sulla musica nella Liturgia, che ten­
tava di affrontare in termini abbastanza nuovi il problema della partecipa­
zione attiva 45
6;
6. — 25 luglio i960: Nuovo codice delle rubriche, che ristrutturava, esten­
dendo il principio della «semplificazione» del 1955, sia le rubriche generali,
sia quelle proprie del breviario e del messale, sia lo stesso calendario litur­
gico 8.

La pubblicazione di quest’ultimo documento, avvenuta « con una rapi­


dità insolita a Roma » 0 e seguita subito dalle relative nuove « edizioni ti­
piche » del breviario (aprile 1961) e del messale romano (giugno 1962)
da molti fu ritenuta non solo inopportuna — dato che nel frattempo era
stato annunciato il Concilio ecumenico, il quale si sarebbe ampiamente oc­
cupato della Liturgia — ma si disse anche che, pur essendo venuta alla
luce come Motu proprio di papa Giovanni X X III, stava in realtà a rive­
lare quali erano gli intendimenti della Congregazione dei riti di fronte al
programma conciliare in materia di Liturgia:
a) mantenersi, in fatto di riforma liturgica, strettamente aderente al
piano rubricale;
b) far passare questo come attuazione di una riforma liturgica generale
già programmata da Pio X II e da condursi quindi a termine al di fuori del
Concilio ;
c) bloccare così in parte il programma di Giovanni X X III, riservando
al Concilio solo lo studio di generici « principi fondamentali » della riforma
liturgica in progetto 7.

Quel che è certo è che in fondo a tutto questo movimento, qua e là del
resto giustificato e avallato da innegabili esigenze e anche soluzioni « pasto­
rali », si rivelavano due tendenze. Da una parte si voleva una chiara affer­
mazione di « centralismo » in materia liturgica, centralismo che se era mo­
tivato dalle molte novità che si coglievano un po’ dappertutto, era però
anche spinto letteralmente fino ai classici « puntini sugli i », perché in ma­
teria di edizioni tipiche « perfino i dettagli di ortografia, maiuscole, inter­
valli, punti e virgole venivano minuziosamente prescritti ai tipografi » 8.

1 Costituzione Christus Dominus, in AAS 45, 1953, 15-24.


’ AAS 47 1955, 218-224.
3 Ibidem, 838-847.
4 AAS 50, 1958, 630-633.
5 AAS 52, i960, 593-740.
6 H. Schmidt, La costituzione sulla S. Liturgia, Roma 1966, 103.
^ A AS 52, 196°, 593.
HH. Schmidt, 0. c., 105.
87 la teologia della Liturgia nel Vaticano II

D ’altra parte tutto portava a pensare che si volesse erigere « con cura e de­
liberatamente un muro divisorio tra rubriche e Liturgia » 1, almeno nel
senso che l’aspetto teologico di questa — compreso quello promosso dalla
Mediator Dei e dagli altri interventi di Pio X II — doveva restare bloccato
a livello teorico, al punto di farlo apparire un discorso ormai chiuso e senza
influsso sulla « riforma generale » progettata dalla Congregazione dei riti123 .
Tuttavia bisogna riconoscere che, pur con le sue limitazioni, la riforma
avviata da Pio X II andava maturando lentamente una nuova teologia li­
turgica, se non altro perché le motivazioni « pastorali », che la riforma co­
minciava ad avanzare in maniera certamente coraggiosa, non potevano
sostenersi senza un sottofondo teologico, al quale davano anzi spesso occa­
sione di affiorare più apertamente. Basti pensare aH’importanza che la re­
staurazione della veglia pasquale ebbe nel riportare « pastoralmente » a li­
vello di coscienza la realtà teologica del « mistero pasquale », che con il Vati­
cano II diventerà non solo filo conduttore di tutta la riforma liturgica, ma
influirà su tutta la nuova visione del cristianesimo come « mistero eccle­
siale ».

Tralasciando la storia del non facile iter, percorso dallo schema liturgico
a livello di preparazione e poi di discussione nel Concilio 8, vogliamo solo
rilevare che il Vaticano II sfocia in una teologia della Liturgia, non partendo
da una ricerca « a priori », ma guidato da una rilettura e da un ripensa­
mento della Liturgia in chiave « pastorale », tanto che si sarebbe più nel
vero se si parlasse, a proposito del Concilio, di una sua « teologia della ce­
lebrazione liturgica ». Solo infatti perché il Concilio restò fedele all’idea
di fare della Liturgia una « celebrazione » autentica, fu possibile superare
due posizioni pregiudiziali, con le quali la Liturgia sembrava ormai iden­
tificarsi, e cioè la posizione di una Liturgia-fatto tradizionale e quella di una
Liturgia-valore giuridico. Erano due posizioni che, per ragioni diverse ma con­
nesse tra loro, facevano della Liturgia prima di tutto un elemento di intan­
gibile « immutabilità ».
Riconsiderando infatti la Liturgia sul piano concreto della celebrazione
si scopriva che pastoralmente questa non poteva raggiungere il suo scopo
se non a due condizioni:
i . si doveva distinguere in essa il fattore « tradizione », che ne fa un ele­
mento di contatto vivo con Cristo, dalle numerose « tradizioni », che le si
erano aggiunte col volgere dei tempi e che non solo la snaturavano, ma ri­
sultavano essere un velo e un diaframma che impedivano alla Liturgia di
essere « attuale » ;

1 Ibidem, 104.
2 Un primo abbastanza clamoroso esempio di come le agevolazioni pratiche, derivate da un
discorso teologico del papa, diventassero poi complicazioni giuridico-rubncali quando passavano
in mano alle Congregazioni romane del tempo, si ebbe in materia di digiuno eucaristico. I « 5
punti» ad esso relativi esposti nella Costituzione Christus Dominus (AAS 45, 1953, 22) diventano
« i l paragrafi» nella Istruzione del S. Officio (/. c.3 47-49), creando un’assurda casuistica, che
poi il papa stesso dovette rimuovere con il Motu proprio Sacram communionem (AAS 49, 1957, 177-
178), risemplificando la cosa. Fatto analogo si può osservare confrontando ciò che Pio X II diceva
sulla posizione del tabernacolo sull’altare, in particolare su quello « verso il popolo » (AAS 48,
1956, 722) e quel che prescrive, pur riferendosi al documento papale, la Congregazione dei riti
in AAS 49, 1957, 426.
3 H. Schmidt, 0. c., 107-208.
88 parte I - capitolo III

2. si doveva uscire dalla visione « statico-giuridica » che sembrava es­


sere il carattere proprio e tipico della Liturgia, nel senso che il valore di
questa consisteva tutto nell5« essere fatta», ossia nell’essere un rito ester­
namente compiuto a norma di legge rubricale e a regola d’arte cerimo­
niale. Infatti la rubrica garantiva in gran parte la « validità » del rito, e
la cerimonia assicurava lo « spettacolo sacro », necessario per la edificazione
spirituale di coloro che vi « assistevano ».
La prima di queste posizioni sarà superata dal Vaticano II col reinse­
rire la Liturgia nella « storia della salvezza ». Ridiventando infatti un « mo­
mento della storia della salvezza », la Liturgia riprendeva il posto di vera
« tradizione » ossia trasmissione del mistero di Cristo attraverso un rito,
che dello stesso mistero è insieme attuazione e rivelazione, in maniera sempre
nuova e sempre adeguata al succedersi dei tempi e al variare dei luoghi.
In questo modo quelle che si chiamavano « tradizioni » liturgiche appari­
vano di nuovo per quel che erano veramente: interpretazioni del rito, sempre,
o almeno parzialmente, condizionate dal tempo e dal luogo nel quale erano
nate e al quale restavano legate, e per ciò stesso incapaci di essere — come
invece si pensava — gli unici e insostituibili modi di « rivelazione » del
contenuto dei riti. Di qui derivava la legittimità e la necessità di un « ag­
giornamento » liturgico, che facesse della Liturgia non più una « forma »
avulsa dalla realtà, sia pure contingente, del momento, ma aprendo al
contrario la via ad una « mobilità » e a un « pluralismo », che fossero
in corrispondenza al continuo divenire della vita.
La seconda posizione, quella « statico-giuridica », sarà invece superata
col riportare la Liturgia su una prospettiva « dinamico-teologica ». Rien­
trata infatti nella sfera della « presenza » di Cristo agente ora nel rito e con
il rito, come una volta aveva agito nella e con l’umanità sua propria, la
Liturgia sarebbe tornata ad essere l’azione stessa di Cristo nel suo Corpo
che è la Chiesa, azione che avrebbe saldato ogni giorno daccapo un dia­
logo e un flusso di rapporti vitali tra l’uomo e Dio, mediante il mistero di
Cristo sempre « presente-agente » nel rito liturgico. Avveniva così la ri­
scoperta o comunque la rivalutazione della Liturgia come « azione di Cristo »
ossia mistero di salvezza operante nella Chiesa, e si rientrava in questo modo
nella originaria linea sacramentale della Liturgia, la quale continua il « mi­
stero di Cristo » nella forma di « mistero cultuale ».

Il la storia della salvezza

La prima caratteristica del modo come il Vaticano II introduce il di­


scorso sulla Liturgia nella Sacrosanctum concilium1, è data dal fatto che la
Liturgia non compare come « conclusione » di un discorso sulla natura del
culto e sulle forme di attuazione di esso: interno-esterno, privato-pubblico. A b­
bandonato questo procedimento, fino allora comunemente seguito, il Vati-

1 Con queste parole si apre la Costituzione sulla Sacra Liturgia, che noi citeremo in sigla come
SG, promulgata il 4 dicembre 1963, a quattrocento anni esatti dalla chiusura del concilio di
Trento, 4 dicembre 1563.
89 la teologia della Liturgia nel Vaticano / /

cano II entra direttamente a trattare della Rivelazione come storia della sal­
vezza, secondo un discorso già ampiamente usato dalla « teologia biblica » 1
e che, portato sul piano liturgico, cominciava a mostrarsi come la chiave
di volta di tutta la Liturgia 12*.
A parte l’importanza che così acquistava, la Liturgia rivelava la sua
vera natura, che non avrebbe potuto mai esser confusa — come era pur­
troppo avvenuto — con altri, suoi aspetti, come quello « giuridico-istitu-
zionale » e quello « rubricale », che erano stati messi in primo piano. Questi
aspetti non potranno certo non esser tenuti sempre presenti, per la stessa
necessaria incidenza « autoritativa » che la Chiesa, in quanto gerarchia
di potere, ha sulla formulazione e esecuzione della Liturgia; ma d’altra
parte la svolta decisiva data dal Vaticano II alla visione della Liturgia
non permette più che quegli aspetti possano costituire la ragione o di esi­
stenza o di valore di essa. La Liturgia infatti, centrata sulla « storia della
salvezza », acquisisce quel valore esistenziale e perenne, che ne fa la ragione
di vita del cristianesimo, non come proposizione dottrinale, ma come mo­
mento nel quale «si attua l’opera della nostra redenzione, in modo tale
che per essa il mistero di Cristo e la stessa autentica natura della Chiesa si
esprimono nella vita e si rivelano agli altri» (SC 2).

La SC apre il suo discorso soprattutto con gli articoli 5-6-7, e solo par­
tendo dalla presentazione della « rivelazione-storia della salvezza » giunge
gradualmente alla « Liturgia-azione salvifica di Cristo nella Chiesa ».
La Rivelazione compare come un susseguirsi di avvenimenti, che « in
diversi modi e tempi » denotano l’awerarsi del mistero della salvezza, esi­
stente nell’eternità di Dio.
La « diversità di modi » nei quali si attua la salvezza prevista e voluta
da Dio per tutti gli uomini ci annunzia i differenti piani, nei quali questa
attuazione avviene: piano della religione naturale e del suo ambito cultu­
rale, e piano della religione rivelata, ossia della « fede » nella duplice fase
della rivelazione ebraica e di quella cristiana.
La « diversità di tempi » nei quali la salvezza si venne realizzando, ci
pone davanti alla « dimensione storica » del mistero di Cristo, ossia ci pre­
senta il mistero stesso come un « avvenimento », anche se solo nel succedersi
dei tempi esso acquisterà quella necessaria « condensazione », che lo collochi
in una « dimensione storica » di vero « avvenimento reale ». Questo in­
fatti sarà preceduto da « avvenimenti » nei quali la loro stessa « dimen­
sione storica » sarà piuttosto quella di un « annunzio profetico » (rive­
lazione dell’AT), che non quella di un «avvenimento reale» (rivelazione
del NT).

I momenti successivi di questo attuarsi (rivelarsi) della storia della sal­


vezza sono presentati da SC negli articoli 5-6.

1 C fr per es. P. Grelot, Sens chrétien de l’Ancien Tesiamenl, 19622.


2 Da richiamare in proposito soprattutto l’opera del Casel (v. sopra), quale quella del mag­
giore antesignano della « Liturgia come storia della salvezza », anche se egli vi giunge piuttosto
per via patristica, anticipando i risultati della teologia biblica. Su questo ultimo piano, cfr. in­
vece, per il tempo immediatamente anteriore al Concilio, C. Vagaggini, Il senso teologico della Li­
turgia,, 19654. 17-32.
90 parte I - capitolo III

Art. 5 : I momento è quello « profetico », momento cioè di « annunzio »


del piano della salvezza, annunzio in cui viene gradualmente rivelato
Veterno amore con il quale il Padre, « volendo salvi tutti gli uomini » (i Tim
2, 4), li vede e li elegge come figli nel suo Figlio (Ef 1, 4; 2 Tim 1, 9); è
la rivelazione del «mistero nascosto dai secoli in Dio» (Col 1,26). L ’an­
nunzio qui considerato è soprattutto quello fatto ai « padri », cioè ai depo­
sitari dell’AT, ma non sono esclusi — come s’è detto — coloro che vive­
vano nella religione naturale.

II momento è quello della « pienezza dei tempi », quello cioè in cui i


tempi di preparazione cessano e « la Parola si fa carne » portando in sé
il «vangelo» (annunzio di lieto evento presente) e la «salvezza»: la sal­
vezza da annunzio per gli uomini («Parola») diventa realtà negli uomini
(«carne»). È il momento in cui «la grazia dataci dall’eternità in Cristo
si fa manifesta con l’apparizione-venuta (“ epifania ” ) di Cristo salvatore»
(2 Tini 1, io). Questa «apparizione-venuta» avviene « nell’incarnarsi della
Parola» (Gv 1, 14), ossia non più attraverso riflessi di parole umane, né
per mezzo di eventi « profetici », ma nella « pienezza della propria realtà
divina, comunicata agli uomini» (Gv 1,14-16). La salvezza entra nel
tempo, per attuarsi in esso attraverso la presenza di Dio nell’umanità di
Cristo, in modo che tutti « quelli che accolgono Cristo (cioè la salvezza
realizzata) diventino figli di Dio» (Gv 1, 12). Così dal tempo della «pro­
fezia-annunzio» si passa al tempo della «realtà» e al tempo di Cristo: rea­
lizzazione umana della « Parola » divina.
Questo vuol dire che gli uomini trovano in Cristo la « riconciliazione
perfetta » con Dio e la sempre anelata « pienezza del culto di Dio », che sono
appunto i due elementi di cui si costituisce la « salvezza ».
« Salvezza » infatti, quale è intesa dall’eterno disegno dell’amore di
Dio, è l’essere in una perfetta e totale amicizia con Dio, amicizia che per­
metta da una parte il « colloquio » col Padre (preghiera) e dall’altra il
poter dare a Dio quel « culto vero e perfetto », che non si esaurisce in segni
vuoti, ma che riempie di « verità e di spirito » ogni segno.

I l i momento: è insieme il risultato e la continuazione del II momento.


Ossia il II momento della storia della salvezza, che è il tempo di Cristo, dà
origine e si continua poi per sempre nel III momento della storia, vale a
dire nel tempo della Chiesa. Il « tempo di Cristo » dà origine al « tempo della
Chiesa », direttamente nel senso che la salvezza, di cui Cristo è portatore
in se stesso, si è già radicalmente operata in tutti gli uomini, perché in forza
della natura umana, che Cristo ha in comune con gli uomini di tutti i tempi
e di tutti i luoghi, tutti gli uomini sono stati salvati non solo da lui, ma in
lui. Infatti — secondo una comune espressione dei Padri — « egli ha compiuto
in sé i misteri della nostra salvezza ». In questo senso già san Paolo aveva
detto che « noi siamo stati messi a morte... nel corpo di Cristo » (Rom 7, 4),
e «in lui noi siamo risuscitati e sediamo nel cielo» (Ef 2,6). Per questo
la Costituzione liturgica (art. 5) — ripetendo un pensiero comune a molti
Padri e presente già nello stesso Vangelo di Giovanni, quando riferisce il
fatto della morte e del costato trafitto di Cristo (Gv 19, 30. 34) — avverte
che « dal Cristo morente sulla croce è scaturito il meraviglioso mistero della
91 la teologia della Liturgia nel Vaticano II

Chiesa». E vuol dire: che al momento in cui Cristo compie Topera della
salvezza, in quello stesso momento sorge la Chiesa, cioè la salvezza compiuta
nelTumanità di Cristo diventa di pieno diritto una realtà per tutti gli uo­
mini, attraverso i sacramenti (acqua-sangue-spirito) che appunto li costitui­
scono in vera Chiesa e cioè in Corpo di Cristo (Chiesa-mistero).

I li la Liturgia ultimo momento nella storia di salvezza

Il tempo della Chiesa è continuazione del tempo di Cristo, non per ragione
di semplice successione temporale, ossia perché viene « dopo » Cristo. La
linea di continuazione che legherà il tempo della Chiesa al tempo di Cristo
è costituita dalla Liturgia.
Il discorso liturgico vero e proprio del concilio Vaticano II comincia
infatti solo con Tart. 6 di SC. Dopo aver tracciato in sintesi i momenti di at­
tuazione del mistero della salvezza e aver individuato la attuazione completa
in Cristo, la SC richiama la « missione di Cristo ». Questa non arresta la
« missione eterna » delTamore del Padre, concretizzatasi in Cristo, anzi la
riprende e la continua, con la differenza che, dopo Tawenimento di salvezza
realizzatosi in Cristo, la « missione » delTamore del Padre non consisterà più
in un annunzio, come era quello che aveva preceduto Tattuazione della parola
in Cristo : era infatti un annunzio di cose ancora non reali nel mondo, ma solo
future. L 5« annunzio» non può certamente mancare dopo Cristo; ma esso
sarà d’ora in poi un vangelo ( = lieto annunzio di avvenimento presente) ;
dovrà infatti ormai proclamare che la « Parola » si era compiuta « facendosi
carne » ed era entrata nel mondo « prendendo dimora in mezzo a noi »
(Gv i, 14). Questa « dimora della Parola in mezzo agli uomini » si realizzava
su due piani contemporaneamente: come avvenimento della «realtà» della
salvezza nelTuomo Gesù, e come presentazione « sacramentale » di essa.
Cristo, che giustamente sant’Agostino 1 chiama « nome sacramentale », non
è infatti solo « presenza salvifica » di Dio, ma è anche il suo « sacramento »
(Col 1,2 7; 4,3; Ef 3,4) in quanto «segno» visibile e «immagine» (Col
1,15) di una salvezza fino allora restata nascosta' e invisibile (Ef 3, 9; Col
1, 26) a. È appunto su questo piano «sacramentale» che la «Parola fatta
carne » potrà diventare realtà salvifica per tutti gli uomini, sempre e ogni
volta che questi, avvicinati a Cristo dalYannuncio delTavvenimento di sal­
vezza (fede), cercheranno di inserirsi in essa, attuandone in se stessi Yavve­
nimento (Liturgia).
In questa linea si muove la SC 6, quando scrive:
« Come Cristo fu mandato dal Padre, così egli mandò gli Apostoli, perché
annunziassero... che il Figlio di Dio ci aveva liberati... e perché attuassero,

A gostin o, In Epìst. Io. 3 ,6 : PL 35, 2000: Christus nomen est sacramenti.


2 L. Cerfaux, Cristo nella teologia di S. Paolo, Roma 19712, 339: « I l mistero riguarda il pian
divino che realizza l’economia universale della salvezza. M a inoltre, perché la realizzazione di
questo piano è l’opera di Cristo o perché il piano divino si è realizzato in Cristo — si è quasi
tentati di dire: perché Cristo è la sapienza di Dio come ne è l’immagine — una rivelazione del
piano della salvezza è coestensivamente una rivelazione centrata sulla persona di Cristo e sul
suo modo di realizzare il piano divino. La persona di Cristo è identificata all’opera di lui ».
92 parte I - capitolo III

per mezzo del sacrificio e dei sacramenti — su cui gira tutta la Liturgia —
quella stessa opera di salvezza che annunziavano ».

Qui abbiamo espressa non solo la intima relazione che passa tra Scrit­
tura e Liturgia (v. appresso), ma la Liturgia chiaramente appare come mo­
mento della Rivelazione storia della salvezza, in quanto attuazione del
mistero di Cristo, oggetto di tutta la Rivelazione. Questa attuazione riguarda
tanto il mistero di Cristo in se stesso — realizzazione nel tempo — quanto
il suo annunzio. Oggi cioè la Liturgia è anch’essa — come Cristo stesso
— un avvenimento di salvezza, nel quale continua a trovare compimento quel-
Pannunzio che nel tempo antico prometteva la realtà di Cristo. La Liturgia
è quindi il momento-sintesi della storia della salvezza, perché congloba « an­
nunzio » e « avvenimento » ossia A T e NT ; ma allo stesso tempo è il mo­
mento ultimo della stessa storia, perché essendo la « continuazione della realtà »,
che è Cristo, suo compito è quello di ultimare gradualmente nei singoli
uomini e nelPumanità la immagine piena di Cristo.

In questo senso e per questa sua posizione di « sintesi » e di « compi­


mento ultimo », la Liturgia è quella che ultimamente costituisce il tempo
della Chiesa. Questa infatti si viene edificando nel mondo a mano a mano
che negli uomini s’inserisce vitalmente il mistero di Cristo, cosa che si rag­
giunge con Vannunzio, come elemento predisponente,4'e con Vattuazione del
mistero, attraverso l’azione sacramentale della Liturgia.

La SC 7 — concludendo — può quindi affermare che la Liturgia e


Vesercizio dell'ufficio sacerdotale di Cristo, esercizio che
a) implica la santificazione degli uomini e insieme il perfetto culto di Dio, e
b) si esplica in un regime di segni.

Come si vede, nella Liturgia viene messa al primo posto « la santifica­


zione degli uomini », perché solo con la santità l’uomo può rendere culto
a Dio. Non bisogna infatti confondere il « culto », con le sue esteriori « espres­
sioni ». Queste sono tali (« espressioni ») e sono valide solo quando appunto
« esprimono » uno stato di reale e totale adesione a Dio. Questo non può
ottenersi dall’uomo sul piano umano, ma solo quando l’ontologica unità
esistente in Cristo tra l’uomo e Dio, viene comunicata all’uomo: a questo
provvede appunto la Liturgia con i suoi « sacramenti ». Per essi infatti il
mistero di Cristo diventa una realtà che investe tutti gli uomini.

IV la Liturgia presenza di Cristo

La SC 7 nel presentare la Liturgia come attuazione del mistero reden­


tore di Cristo, trova la ragione ultima di questo fatto nella « presenza » di
Cristo. Leggiamo: «Per l’attuazione di quest’opera, Cristo è sempre presente
alla sua Chiesa, specialmente nel compimento della Liturgia ».
93 la teologia della Liturgia nel Vaticano II

L ’ultima parola di Cristo in Mt 28, 20: « Io sono con voi per sempre
sino alla fine del mondo », è la conclusione delle parole con le quali Cristo
inviando gli apostoli nel mondo dà loro il potere di fare di tutti gli uomini
altrettanti «discepoli» di lui, e questo per mezzo delPannunzio («inse­
gnate») e dei Sacramenti («battezzate»); cioè per mezzo della Parola e
dei sacramenti egli continuerà ad esistere tra e negli uomini, in una pre­
senza continua.

La SC 7 si prende cura di elencare alcuni momenti della Liturgia nei


quali viene affermata questa presenza:
1. nel sacrificio della messa e precisamente nel sacerdote e nel sacra­
mento, come presenza di vittima (sacramento) e presenza di offerente (Cristo
eterno sacerdote) ;
2. nei sacramenti, perché «in essi» è Cristo che agisce (N'B.: non solo
« per mezzo di essi ») ;
3. nella Parola proclamata nella comunità della Chiesa;
4. nella preghiera comunitaria, perché Cristo è sempre presente in una
comunità unita nel suo nome.

Che la Liturgia richiamasse come sua componente essenziale la « pre­


senza di Cristo » era stato già messo fortemente in luce da Casel con la
sua teoria del « mistero » applicato alla Liturgia : il « mistero » infatti è
un rito inteso come modo per creare la « presenza » dell’eroe mitico nei
suoi fedeli, al fine di comunicare la « salvezza » che egli ha trovato e rag­
giunto nella storia primordiale.

La stessa idea fu fatta proprio da Pio X II nello spiegare la natura della


Liturgia, pur senza fare ricorso alla concezione «misterica»; ma avendo
affermato che la Liturgia è « continuazione del sacerdozio di Cristo », la
cosa in certo modo s’imponeva (enciclica Mediator Dei, in AAS 39, 1947,
528). Per lo stesso motivo, ma forse con più intenzione la «presenza» acquista
valore nella SC 1.
I limiti di questa « presenza » non erano stati però ben delimitati e
non si sapeva su quale piano di «realtà» essa si situava. In altre parole:
Di tutti questi momenti di « presenza » si può o non si può dire che si
tratti di «presenza reale» di Cristo? Non è contro l’ Eucaristia affermare
altre « presenze reali » al di fuori di essa ? a.
Senza voler risolvere la questione in tutti i suoi termini, Paolo V I nel­
l’enciclica Mysterium Jidei} toccando l’argomento afferma: « L a presenza di
Cristo nell’Eucaristia si dice reale non per esclusione, quasi che le altre pre­
senze non siano reali, ma per eccellenza»12 3. Che cosa vuol dire?

1 H. Schmidt, La Costituzione sulla Sacra Liturgia. Roma 1966, 227 molto giustamente e oppor­
tunamente scrive: « La Costituzione sulla Sacra Liturgia si esprime con una chiarezza ancora
maggiore (nei confronti della Mediator Dei) : tutto essa vede sotto il segno àeW Emmanuele, del " Dio
con noi ” ». Cfr. 227-232.
2 Sulla discussione conciliare a proposito della proposizione sulla « presenza » di Cristo nella
Liturgia, cfr. E. J. Lengeling, Die Konstitution des 2. Vat. Konzxls ilber die hi. Liturgie (Lebendiger Got-
tesdienst, 5-6), Miinster 1964, 19 ss.
3 AAS 57, 1965, 764.
94 parte I * capitolo III

Diciamo :
a) Il senso immediato dell5affermazione del Papa è che egli riconosce
altre «presenze reali» (nota il plurale!) oltre quella dell5Eucaristia, e che
in ogni caso non è la « presenza reale » eucaristica a impedire che ne esi­
stano altre.
b) La « presenza » eucaristica è « reale » 1 in senso speciale ossia secondo
un valore di « eccellenza », se rapportata alle altre « presenze reali ». Significa
questo che si tratta di una presenza su un altro piano? La cosa ci sembra
probabile, perché si tratta di una « presenza » che si produce per un « mu­
tamento di sostanza ». Ciò però non significa direttamente che in questa
maniera si abbia una « presenza più reale », ma solo che si ha una « pre­
senza reale » per una ragione propria, cioè non comune alle altre « presenze
reali ».
c) Ci pare che tutte le altre « presenze reali » di Cristo nella Liturgia,
siano da giudicare in analogia alla « presenza reale » eucaristica. Si tratta
cioè di un rapporto di proporzione, che mentre stabilisce un elemento co­
mune tra le une e l’altra, ne afferma anche la differenza, a motivo di una ra­
gione o di una origine diversa. Questo vuol dire:
Tra la « presenza reale » eucaristica e le altre « presenze reali » non vi
è differenza in quanto a « presenza » di Cristo e a « realtà » di presenza, ma
vi è differenza per quanto riguarda il modo come queste diverse « presenze »
si fanno « reali ». Nell5Eucaristia infatti la « presenza reale » di Cristo è
un fatto permanente, perché aderisce ad una « sostanza » (il corpo di Cristo)
che permane. Nelle altre celebrazioni liturgiche la « presenza reale » di
Cristo è transeunte perché è legata alla « celebrazione », che è azione che
passa e non sostanza che permane 2. La cosa si chiarisce ancora se si consi­
dera che nella stessa Eucaristia si verifica questo duplice « modo » di « pre­
senza reale » in forza del suo duplice aspetto di « celebrazione » sacramentale
e di « sostanza » sacramentale. Mentre quest’ultima (sostanza-corpo di
Cristo) è « presenza reale » permanente, appunto perché è « sostanziale »,
la « presenza reale » del sacrificio (celebrazione) dura solo il tempo in cui
si svolge l’azione sacrificale.
d) Considerando da una parte la « presenza » in se stessa e non nel
suo « modo » di attuazione, e riflettendo d’altra parte che la Liturgia è
« continuazione dell’opera salvifica di Cristo », bisogna dire che la « pre­
senza » di Cristo nella Liturgia deve esser vista in rapporto aÌYavvenimento
di Cristo, perché esso è il fatto che « realizza » la Parola di salvezza di
Dio, conferendole una « realtà » ormai indistruttibile. Questo vuol dire
che la « presenza reale » di Cristo nella Liturgia, ossia indifferentemente

*E da notare che l’espressione «presenza reale» riferita all’Eucaristia come qualificazione


propria — è quel che avviene nel comune linguaggio non solo del popolo ma anche teologico
— è solo un’espressione «abbreviata». Parlando infatti dell’Eucaristia si deve dire: «presenza
vera, reale e sostanziale» (Conc. Trid., Sess. X III, DS 1636-1651).
2 Sembrerebbe che lo stesso Paolo V I nel parlare di « presenza reale... per eccellenza » a proposito
dell’Eucaristia, si riferisca particolarmente alla « permanenza » della presenza di Cristo, che di­
stingue l’Eucaristia dagli altri sacramenti. Cfr. in proposito il Conc. Trid., I. c., 1639, che dopo
aver detto che cosa l’Eucaristia ha «in comune» con tutti i sacramenti, aggiunge che in essa vi
« è questo di eccellente e particolare, che mentre gli altri sacramenti hanno efficacia santificatrice
solo al momento in cui vengono usati, nell’Eucaristia vi è l’autore stesso della santità anche
prima dell’uso del sacramento ».
95 la teologia della Liturgia nel Vaticano II

nell5Eucaristia come nelle altre celebrazioni, situa la Liturgia su quel piano


di «realtà», nel quale Y« avvenimento » di Cristo ha posto in genere il
NT nei confronti dell’AT.

La Lettera agli Ebrei, dopo aver affermato in 9, 24-28 che il culto-sacri­


ficio di Cristo si muove, nei confronti dei sacrifici delPAT, tutto su un piano
di realtà piena, volendo motivare questa differenza, prosegue richiamandosi
al rapporto fondamentale esistente tra A T e NT, che è appunto un rapporto
di «irrealtà-realtà», se commisurato alla storia della salvezza: «Nella
Legge vi era Vombra (segno irreale) delle cose future, non possedendo essa Vim­
magine della realtà avvenuta» (Ebr io, 1).
Il senso di queste parole è chiaro: Le cose future non possono avere un
segno reale-concreto, non essendo esse stesse ancora reali; ma una volta
che esse siano diventate un avvenimento, la realtà di questo non solo non viene
mai più meno, ma fa sì che il rito stesso destinato a perpetuare Pawenimento
sia contrassegnato dalla realtà di questo. È infatti la caratteristica del N T
che i suoi segni rituali siano non ombre 1 di qualcosa che deve ancora essere,
ma immagini di ciò che è già entrato, con ¡'avvenimento, nella storia a.
La Liturgia è tutta orientata alla « storia della salvezza », che è poi
il « mistero di Cristo », e i suoi riti sono sempre « segni » di questo « mi­
stero ». È chiaro che questo avviene differentemente secondo i « tempi »
di rivelazione del mistero, perché il diverso rapporto (rapporto di « prima »
e « dopo ») che il « tempo » viene ad avere con il « mistero di Cristo »,
crea una diversità di « segni », che sono o profetici, e cioè indicatori del
« mistero venturo » o attuatori del « mistero avvenuto ». Di qui la « diver­
sità di nomi e di segni tra il prima e il dopo » del N T 8; infatti « col mu­
tare dei tempi sono mutati i sacramenti delfunica fede (negli avvenimenti
salvifici del mistero di Cristo) allo scopo di rendere più adeguato il modo di
significarla » 4.
Abbiamo così: a) Cristo, che è «segno-realtà», ossia realizzazione della
parola profetica di annuncio; b) il rito profetico dell’AT, « stgno-ombra » del
Cristo venturo; c) il rito-immagine del NT, «realtà in segno» del Cristo av­
venuto 5. Il rito liturgico cristiano ha insomma, come elemento differen­
ziatore da ogni altra forma rituale, quello di fare sempre riferimento a una1

1 Cfr. Col 2, 17: feste, noviluni, sabati dell’A T «sono ombra di quel che deve avvenire, e cioè
della realtà (t( corpo ” ) che è unicamente Cristo ».
2 Cfr. G. Spicq, VEpitre aux Hébreux, voi. II, Paris 1953, 302: al seguito del Crisostomo e
di molti moderni, l’immagine (elxtov) è « una figura nella quale si esprime la realtà e Vessenza di
una cosa ». Vedi appresso nota 5.
3 Agostino, Epist. 102, 2, 12: PL 33, 374. Cfr. Epist. 157, 14, 1. c.3 680-681.
4 Agostino, De peccat. meritis et remissione, 2, 29, 47: PL 44, 169; Idem, Contra Faust., 19, 13-14:
PL 42, 355-356; Leone Magno, Sermo 24, 1: PL 54, 204.
3 In Col 2, 17 si rileva la differenza tra A T e N T opponendo la « realtà-Cristo » {corpo) alla
« ombra » di questo (i « riti » dell’AT) ; in Ebr io, 1 si mette in evidenza la differenza tra il « rito-
segno » (ombra) dell’À T e il «rito-segno» (immagine) del N T. Dicendo infatti: « L a Legge (AT)
aveva l’ombra delle cose avvenire ma non l’immagine delle cose avvenute», Ebr io, 1 ci presenta
i riti dell’A T come « ombra » — e cioè come segni senza contenuto di una presenza — , in quanto
si riferiscono a qualcosa che è ancora « futuro » (Cristo) ; al contrario i riti del N T sono « im­
magini » della cosa già « realizzata ». Nell’idea di « immagine » non si sottolinea soprattutto la
« somiglianza » come tale con una cosa, ma il fatto che la « somiglianza » è resa possibile dalla
«reale» esistenza della cosa; non si può infatti fare la « somiglianza » di ciò che non esiste. E
questo il pensiero che ritroviamo, oltre che nei citati testi di S. Agostino, anche in Ambrogio,
De interp. Job et David, 4, 2, 9, in CSEL 32-33, 274 e in Apoi. David, 1,12 , 58, /. c., 339, dove leg­
giamo: «Eccoci ormai non più nùY ombra, nella figura e nel tipo, ma nella realtà; tu, o Dio, non
per via di specchi e di enigmi, ma a faccia a faccia ti sei rivelato a me e io ti trovo nei tuoi sa­
cramenti ».
96 parte I - capitolo H I

« realtà » piena, ossia a livello di evento già compiutosi, e di quella stessa


« realtà » esso è propriamente « l’immagine ». Questa infatti prendendo
origine dairavvenimento, nella stessa « somiglianza », che ad esso la rilega,
porta il « segno » della « realtà » alla quale si richiama. Il « rito-immagine »
del N T non è solo « segno », ma è « presenza reale » dell’evento di salvezza
cui si riferisce, e cioè di un evento, che per aver avuto il suo « compimento »
totale in Cristo, è realtà piena alla quale nulla più può ormai seguire. Il
rito ha come fine che in esso l’uomo legga e veda qualcosa, che è fuori di
esso (mito) ; nel rito cristiano questo « qualcosa » è la realtà di Cristo resa
presente in esso.
È questa « presenza reale » di Cristo quella che fa della Liturgia una gran­
dezza insostituibile e di vera efficacia come « santificazione » e come « culto »,
perché costituisce una continuazione effettiva del « tempo di Cristo » nel
« tempo della Chiesa » che è il tempo della redenzione in atto.

V la Liturgia attuazione del mistero pasquale

La SC 5, nel descrivere i differenti tempi della rivelazione del disegno


salvifico di Dio, termina con il riconoscere in Cristo l’attuazione concreta
di questo disegno. L ’incarnazione della Parola eterna di Dio è il momento
nel quale entra nel mondo la salvezza, che nel caso — data la presenza del pec­
cato — è azione di redenzione dell’umanità e conseguente glorificazione
di Dio. Questo vuol dire: realizzandosi in Cristo Vunione dell’umanità con
Dio, l’umanità può dare a Dio tutta la « gloria » che gli spetta, in quanto
in Cristo l’umanità stessa è diventata manifestazione luminosa ( = « gloria »)
della potenza redentrice dell’Amore del Padre l.

Questa redenzione degli uomini, che si risolve nella glorificazione di Dio,


iniziata al momento dell’incarnazione (nascita del Figlio di Dio fatto uomo)
si compie al momento della morte-resurrezione-ascensione di Cristo. È questo
infatti il momento nel quale l’uomo in Cristo, dimostrando la sua perfetta
unione con Dio, ubbidisce al Padre fino alla morte; il Padre non solo ac­
cetta questa « morte », come espressione massima della sottomissione che
la nuova umanità in Cristo ha verso Dio, ma fa passare l’umanità di Cristo
(ossia l’umanità in Cristo) alla « resurrezione », vale a dire alla « vita »
nuova, che è vita dedita e consacrata a Dio ; di questa « risurrezione-vita
nuova» ultimo momento culminante è 1’« ascensione », ossia la trasposi­
zione nella piena sfera divina, che noi chiamiamo « eternità », perché è
esistenza sottratta alla « successività » e alla «limitazione» del tempo; è
infatti « possesso completo » (non successivo) e totale (senza limitazioni)
della vita nuova.1

1 E. J. Lengeling, o. c., 8o, così si esprime in proposito: « U n a qualunque concordanza greca


della Bibbia dimostra, esaminando le parole Só^a e §oí;á£<o, che tanto la “ gloria ” come santifi­
cazione dell’uomo per mezzo di Dio, quanto la “ gloria ” come glorificazione di Dio per mezzo
dell'uomo, sono due aspetti di un’unica e medesima realtà, nel senso che la santificazione è irra­
diamento della gloria di Dio, e di conseguenza è oggettiva glorificazione di Dio. Ammesso a par­
tecipare per la grazia alla " gloria di Dio ” , l’uomo risponde ad essa attraverso la propria sog­
gettiva glorificazione di Dio, sia con la Liturgia, che con la preghiera “ privata ” e il servizio
reso a Dio con la propria vita ».
97 la teologia della Liturgia nel Vaticano II

Ma la SC 5, nel sottolineare queste tre fasi successive dell’azione reden­


trice di Cristo, dice che esse sono state realizzate da lui nel « mistero pasquale
della sua santa passione, della sua risurrezione dai morti e della sua glo­
riosa ascensione ». Introducendo l’idea di « mistero pasquale », e speci­
ficandolo con i genitivi « della passione, della risurrezione e ¿¿//’ascensione »,
il Concilio praticamente dà a questi momenti dell’opera di Cristo il « co­
mune denominatore » di mistero pasquale.
Con questa affermazione la Pasqua di Cristo, ossia la realtà della reden­
zione operata da Cristo, viene posta:
a) al centro della storia della salvezza, e:
b) al centro della Liturgia.

1 La Pasqua centro della storia della salvezza

La Pasqua è la denominazione ebraica data alla rivelazione e all’attua­


zione (figurativo-profetica) del piano di salvezza, eternamente presente in
Dio. È infatti l’intervento liberatore di Dio, nel quale comincia a rivelarsi
e ad attuarsi il suo disegno di amore verso gli uomini, e che fino a quel
momento era rimasto allo stato di « promessa ».
L ’intervento liberatore che porta il nome di Pasqua è quello verificatosi
nell’.Erodi? di Israele dall’Egitto, e che non va identificato solo nella fuga
di una minoranza etnica, desiderosa di sottrarsi a un regime di oppressione.
La « liberazione » dall’ Egitto ha infatti lo scopo e il significato di una « vo­
cazione » di Israele a lasciare il culto idolatrico e ad aprirsi alla « rivelazione »
del vero Dio (Es 3, 13-15), in modo da « adorare» lui solo (Es 3, 12. 15.
18; 4,23; 5, 1.3 .8 ; 7, 16; 8,4; ecc.); tutto avviene perché «Jahve sia il
Dio d’Israele e Israele sia il popolo di Jahve » (Es 6, 7; 19, 6; 29, 45; ecc.).
L ’intervento liberatore divino a favore di Israele era — pur nella sua
realtà — un’attuazione solo parziale del « disegno » e conseguentemente
della « promessa di salvezza » esistente in Dio. La « liberazione » riguardava
infatti al momento solo un circoscritto numero di uomini e era anzi piut­
tosto una « didattica » verso la liberazione che sarebbe stata realizzata
perfettamente solo in futuro.
Ciò non ostante il fatto pasquale avrà un’importanza determinante nella
storia del popolo ebraico, in quanto popolo di Dio, perché su di esso si fonderà
per sempre la coscienza di un’alleanza eterna stabilita da Dio con Israele
e, per mezzo di questo, — secondo la visione profetica — con tutti gli
uomini.
Avverrà infatti che un giorno la Pasqua sarà effettivo e universale inter­
vento di salvezza, e sarà quando « liberazione » e « salvezza » non saranno
più ormai solo « parole annunziate », ma diventeranno « parola incar­
nata » nella realtà di Cristo, «salvatore e salvezza» (Le 2, 11 ; Gv 4,42;
Atti 5, 31; Ef 5, 23; 2 Tim 1, io; ecc.). Il senso della Pasqua trova la sua
piena realizzazione in Cristo, perché per lui l’umanità è entrata veramente
in quella liberazione e salvezza che Dio dall’eternità pensava e voleva per
tutti gli uomini. Con l’incarnazione del Figlio di Dio e con quello che questa
implica, gli uomini trovano « la redenzione perfetta e la pienezza del culto
98 parte I - capitolo III

divino » (SG 5, citando un’antica formula liturgica), ossia entrano in úna


Pasqua non più, a nessun livello, simbolica e portatrice solo di una promessa
di salvezza, ma nella Pasqua perfetta e totale in quanto a redenzione-liberazione,
e piena ossia reale in quanto forma di culto. E una Pasqua che non sta più
ad indicare una presenza e un passaggio puramente simbolici di Dio, ma
che realizza una presenza e un passaggio del Figlio di Dio, che, essendosi
incarnato, non cesserà mai più di essere vera liberazione degli uomini; « ri­
marrà infatti con noi sino alla fine dei secoli » (Mt 28, 20) e cioè come Pasqua
eterna.
La SC, qualificando come Pasqua tutta Popera redentrice di Cristo,
non solo ha inteso porre questa come compimento reale di quello che la Pasqua
profeticamente significava e preparava, ma le ha assegnato anche il posto
unico e eminente che nella rivelazione del disegno di salvezza è riservato
appunto alla Pasqua stessa, e cioè il posto centrale.
Già alla Pasqua storico-simbolica di Israele era ordinata tutta la rive­
lazione e l’azione divina che, secondo la Scrittura, va dalla creazione del
mondo ai patriarchi; da essa in seguito dipenderà tutta la rivelazione suc­
cessiva, come appare già dal fatto che tutta la predicazione profetica e la
tradizione che se ne svilupperà avranno lo scopo di tener vivo lo spirito della
Pasqua, richiamando ininterrottamente l’impegno che il popolo d’Israele
ha con Dio in forza dell’alleanza pasquale dell’Esodo. Giustamente si può
dire che la Pasqua è il centro reale e dinamico della storia d’Israele in
quanto popolo di Dio, ossia popolo consacrato al culto del vero Dio nella
santità della vita. Cristo porterà a compimento la Pasqua, ossia il significato
e il valore di liberazione annunziato nell’avvenimento profetico antico, quando
«passerà ( = farà Pasqua) da questo mondo al Padre» (Gv 13, il, e si­
tuerà così nel centro stesso della storia della salvezza in atto la sua morte-
risurrezione-ascensione, che sono appunto i tre momenti della Pasqua vera
e reale, diventata unica e eterna per tutto il mondo.

2 La Pasqua centro della Liturgia

Abbiamo già visto che un intimo rapporto lega la « storia della sal­
vezza » alla « Liturgia », in quanto questa costituisce un momento di quella,
ossia la sua attuazione nel « tempo della Chiesa ».
D ’altra parte sappiamo che la « storia della salvezza » concretizzatasi
nel « mistero di Cristo » trova il suo compimento, la sua realizzazione e il
suo centro nella Pasqua.
Dicendo però che Pasqua è compimento, realizzazione e centro della
storia della salvezza, noi prendiamo la Pasqua non solo come il momento
storico nel quale l’uomo è stato raggiunto dalla liberazione di Dio entrando
nella sua alleanza a livello simbolico-profetico nell’A T , a livello reale­
definitivo nel NT — . Pasqua è infatti anche il momento rituale di quell’avve­
nimento \1

1 Es 12,27: «Quando i vostri figli vi domanderanno che cosa significa questo rito, voi rispon*
derete loro che esso è il sacrificio della Pasqua ( — del passaggio) in onore di Jahve, che oltrepassò
le case dei figli d’Israele, quando egli colpì rEgitto ».
99 la teologia della Liturgia nel Vaticano II

È appunto sotto questo aspetto che la Pasqua, diventata una delle tre
grandi feste (hagj delFantico ebraismo nella duplice celebrazione di sacri­
ficio dell'agnello e di festa degli azzimi, si presentava come il rito memoriale che
ogni anno ricollegava Israele alle sue origini di « popolo » liberato dalla
schiavitù delPidolatria ( = Egitto) e passato in proprietà di Dio per essere
una « nazione consacrata » al suo culto come « corporazione sacerdotale »
(Es 19,5-6). Per mezzo del rito pasquale Favvenimento delle origini ridi­
ventava ogni anno una realtà presente e integrava tanto le singole succes­
sive generazioni quanto i singoli individui nel fatto che al tempo dell5Esodo
Dio aveva operato negli antenati come in altrettanti rappresentanti di tutti
i futuri membri del popolo.
La centralità del fatto pasquale veniva così trasferita nel rito, e attorno
a questo in effetti si radunava tutto Israele, che dal rito pasquale faceva di­
pendere tutto il proprio culto, e che in esso, ritrovando ogni volta la propria
rinuncia all5idolatria e la propria adesione all5Alleanza, riscopriva se stesso
come « popolo di Dio ».
Dato il rapporto di « annunzio-profezia » e di « avvenimento-realtà »,
che indissolubilmente unisce la Pasqua dell’A T a quella del NT, è chiaro
che anche nel N T il momento rituale della Pasqua non solo non perderà la
sua importanza, ma anzi Paccrescerà infinitamente, proprio perché anche
il « momento rituale » si situa ora a quel livello di « realtà », che è proprio
del momento storico della Pasqua di Cristo.
Per questa ragione la SC 5, ponendo la passione-risurrezione-ascensione
di Cristo in chiave pasquale, non si arresta a rilevarne solo la natura di « av­
venimento », che realizza il simbolismo profetico della Pasqua antica, ma
la vede subito nella sua posizione di rito pasquale. Sintetizzando infatti il
valore salvifico dei momenti culminanti dell’opera di Cristo come « mistero
pasquale » ne sottolinea già la nota « rituale », perché « mistero » è prima
di tutto « un rito caratterizzato dalla presenza di un avvenimento salvifico
già realizzato al principio della storia ». In questo modo la redenzione pa­
squale è già introdotta sul piano cultuale, ossia è vista come azione che,
realizzandosi attraverso i segni rituali, può essere resa presente a distanza
di tempo e di luogo, e può così mettere tutti a contatto con la realtà del
fatto pasquale della redenzione compiutasi in Cristo.
E in effetti la costituzione liturgica SC 6, proprio parlando dell’attua­
zione del mistero pasquale di Cristo attraverso segni rituali, entra final­
mente a parlare della Liturgia. « Cristo mandò gli Apostoli ad annunziare
l5avvenuta salvezza degli uomini nella sua morte-risurrezione, e ad attuare
questa stessa salvezza per mezzo del sacrificio e dei sacramenti, che formano
l’elemento centrale della Liturgia ». Come si vede, la Liturgia consiste fonda­
mentalmente nella attuazione della salvezza realizzata da Cristo. Ma siccome
questa stessa salvezza realizzata in Cristo altro non è che la Pasqua come
fatto reale, è chiaro che la Liturgia sarà Vattuazione della Pasqua per mezzo del
mistero, ossia per mezzo di « segni reali », cioè efficaci.
Pasqua — come fatto — viene da noi individuata nella morte-risur-
rezione-ascensione di Cristo; ma nella sua «realtà» essa implica la «sal­
vezza » come tale, cioè un « complesso » che racchiude in sé diversi mo­
menti, i quali però diventano effettiva salvezza solo in forza del « momento
100 parte I - capitolo III

culminante », cioè nel momento tipicamente « pasquale ». Soltanto in questo


infatti si attua il reale «passaggio» (= Pasqua), ossia l’allontanamento
dal male (morte) e il passaggio al Padre (vita). Così il battesimo dato dai
discepoli di Gesù (Gv 4, 1-2; cfr. 3, 22-26) era un rito di «purificazione»
(Gv 3, 25) e serviva a fare discepoli (Gv 4, 1 ; 3, 26) — ugualmente come
ü battesimo di Giovanni Battista — ma non dava lo Spirito Santo « perché
Gesù non era stato ancora glorificato » (Gv 7, 39), ossia non era ancora passato
per la Pasqua (morte-risurrezione). Ma dopo il fatto pasquale, i sacramenti
di Cristo non saranno solo « segni », per es., di una purificazione ancora
futura, e cioè non reale; ma al contrario saranno « segni » efficaci della com­
pleta realtà pasquale, ossia della reale salvezza esistente in Cristo e la rea­
lizzeranno in forza della morte-risurrezione di Cristo. In altre parole: la
« salvezza » è una realtà complessa, che presenta diversi aspetti, i quali
insieme formano il « mistero di Cristo ». Tutti questi aspetti di salvezza (es­
sere figli di Dio portatori dello Spirito — aver la remissione dei peccati
— formare la Chiesa come popolo di Dio — essere sacerdoti di Dio, ecc.)
costituiscono nel loro insieme la Pasqua, perché la Pasqua è sinonimo di sal­
vezza. La realizzazione di questa salvezza diventa efficace per gli uomini
al momento in cui Cristo sarà glorificato per la sua morte-risurrezione, cioè
nel momento, che per essere quello ultimo e conclusivo della complessa sal­
vezza pasquale, per antonomasia e per eccellenza si chiama « Pasqua ».
Nella Liturgia sarà proprio questo momento ultimo della Pasqua di Cristo
che verrà messo a contatto degli uomini e per mezzo di esso gli uomini par­
teciperanno ai diversi momenti salvifici della Pasqua totale. Per il mistero pa­
squale della morte-risurrezione rinasciamo nel Battesimo figli di Dio (Rom
6,3-4); nella morte («trasmise o diede lo Spirito» Gv 19,30, secondo la
interpretazione di molti Padri) e dopo la risurrezione (Atti 1, 8; 2, 33)
comunica lo Spirito della Cresima; con la partecipazione al suo sacrificio
(Le 22, 20-21) ci comunica la sua Pasqua al punto culminante; dando lo
Spirito dopo la risurrezione rende possibile il sacramento della Penitenza
(Gv 20, 22-23), ecc. Per questa ragione tutti i sacramenti, pur dando ognuno
una particolare comunicazione al mistero totale di Cristo, sono in un modo
o nell’altro legati all 'Eucaristia, centro e culmine del mistero pasquale; per
questo nell 'anno liturgico ogni mistero del Signore, dalla nascita all’ascensione-
pentecoste-parusia, viene celebrato e comunicato nel mistero pasquale
della morte del Signore (messa).
La Liturgia tende quindi essenzialmente a farci vivere la salvezza-mi-
stero pasquale nei suoi singoli momenti e fa questo attuando in noi lo stesso
mistero pasquale preso nel suo momento culminante: morte e risurrezione
di Cristo.

VI la Liturgia e sacramentalità

Quelle realtà che entrano come componenti essenziali nel concetto stesso
di Liturgia, vista come «celebrazione» del mistero di Cristo, e che sono
« storia della salvezza », « presenza-azione di Cristo », « attuazione dèi
mistero pasquale », risultano essere altrettanti elementi che pongono chia-
101 la teologia della Liturgici nel Vaticano II

ramente la Liturgia sul piano della sacramentalità. Questo è vero se non altro
perché, essendo la Liturgia costituita essenzialmente dai « sacramenti »,
essa forma globalmente una « realtà sacramentale ». Per una chiarifica­
zione di questo concetto è necessario fissare un momento l’attenzione sui
rapporti che esistono tra Scrittura e Liturgìa e tra rito e Liturgia.

i Sacra Scrittura e Liturgia

Finora tutti ammettevano che un legame particolare esisteva fra la Sacra


Scrittura e la Liturgia. La Liturgia era infatti il luogo e il momento privi­
legiato della lettura pubblica e ufficiale della Scrittura e della sua spiega­
zione; perché non vi era celebrazione eucaristica che non comportasse una
tale lettura e Pufficio divino era nient’altro che una composizione fatta di
lettura-meditazione e di preghiera sui testi biblici.
La cosa veniva spiegata storicamente, come una derivazione dall’uso
sinagogale ebraico. La Liturgia sinagogale infatti era tutta concentrata sulla
lettura della Sacra Scrittura e sul canto dei salmi, e era una Liturgia che sul
piano storico della evoluzione del culto dell’A T rappresentava da una parte
urVestensione territoriale del culto che, secondo la Legge, era accentrato tutto
nel Tempio di Gerusalemme (le « sinagoghe » infatti erano « luoghi di
preghiera » che potevano essere eretti dappertutto, mentre il « Tempio »
era « luogo di sacrificio » unico per tutto il popolo di Israele, anche per
quello che si trovava fuori del territorio e — come si diceva — nella « dià­
spora»). D ’altra parte il «culto sinagogale» rappresentava anche una
specie di ritorno alla primitiva forma cultuale ebraica inculcata dalle tradi­
zioni «jahvista» e « elohista » e che consisteva soprattutto «nell’ascolto
della Parola di Dio» (Ger 7,22-23; cfr. Amos 5,25 e Michea 6,8).
La presenza quindi della Sacra Scrittura nella Liturgia cristiana giu­
stamente veniva spiegata sul piano storico come la sopravvivenza di queste
idee, che si esprimevano nel culto sinagogale, tanto più che la Liturgia cri­
stiana reclamava per sé quel carattere di « culto spirituale », di cui
nell’ebraismo la «sinagoga», molto più del «Tem pio», era la rappre­
sentante.
Ma a poco a poco sulla notizia storica, già di per sé importantissima, si
è andata affermando la considerazione teologica, che ha approfondito il rap­
porto esistente tra Sacra Scrittura e Liturgia. Si è appreso così che la Li­
turgia è non solo quella forma di preghiera comunitaria e ecclesiale della
quale la lettura della Sacra Scrittura forma una caratteristica particolare,
ma è una forma di culto della quale la Sacra Scrittura costituisce una
componente essenziale. Considerando infatti che l’ordinamento fondamentale
del culto ebraico era basato tutto sugli « avvenimenti » di salvezza operati
da Dio per il suo popolo, e conosciuto il fatto che la redazione della Sacra
Scrittura è avvenuta soprattutto in vista di una lettura-riflessione di quegli
stessi « avvenimenti » nella Liturgia, è apparso chiaro che se da una parte la
Sacra Scrittura è Vannunzio perenne del piano divino della salvezza, la Liturgia
è Vattuazione rituale di esso.
Naturalmente questo avviene a livello diverso nella Liturgia ebraica e
102 parte I * capitolo III

in quella cristiana, per la profonda differenza che nei confronti della « realtà-
Cristo » assumono i due Testamenti. Non bisogna infatti dimenticare che
mentre la realtà della salvezza contenuta nell’annunzio della Sacra Scrittura,
anche dell’AT, è perenne, perché non è altri che Cristo (Le 24, 27. 44),
la Liturgia si riferisce per sé alla stessa « realtà » solo per il tramite degli
« avvenimenti », che la rivelano e la presentano. Orbene noi sappiamo che
gli « avvenimenti » della salvezza nell’A T sono solo « simboli » profetici,
mentre sono « realtà » piene nel NT. Di conseguenza la Liturgia ebraica
era attuazione rituale di un avvenimento di salvezza, che non superava
il valore di simbolo; al contrario la Liturgia cristiana sarà attuazione rituale
àùY avvenimento reale della salvezza.
Si può quindi dire in generale e con piena verità che la Liturgia cristiana
sta alla Sacra Scrittura, come la « realtà » di Cristo sta al suo « annunzio ».
A maggiore chiarimento bisogna però aggiungere che questo vale non
solo per quanto riguarda il rapporto corrente tra Liturgia cristiana e Sacra
Scrittura dell’A T, in quanto la « realtà », che questo ha ricevuto in Cristo,
si continua appunto nella Liturgia; ma trova la sua applicazione anche per
quel che concerne la Sacra Scrittura del NT. Questa infatti, pur presen­
tandoci « l’avvenimento » di salvezza già avveratosi in Cristo, vuole essere
allo stesso momento « annunzio » che lo stesso « avvenimento » è destinato
ad avverarsi nei cristiani. Quindi come la Sacra Scrittura, in tutte le sue
fasi, è sempre « annunzio » della salvezza, così la Liturgia in tutti i suoi
momenti è sempre « avveramento » di essa sul piano rituale.
Questo fatto ci fa perciò capire due cose: 1. che la Liturgia, proprio
per questo suo aspetto di « avveramento » di un « annunzio » esige la let­
tura della Sacra Scrittura non a scopo genericamente edificativo, ma perché
la Sacra Scrittura è una componente indispensabile della Liturgia cristiana;
2. che la Liturgia è sempre — e in senso forte — « rivelazione in atto »,
in quanto costituisce il momento in cui la « Parola diventa carne e abita
in noi» (Gv 1,14). Essendo infatti la Liturgia cristiana «presenza reale
e attiva » di Cristo, essa ci svela in lui l’AT, non solo dandoci la visione della
gloria del Signore Gesù, ma realmente ci trasforma con la forza dello Spirito nella
immagine di lui, facendoci passare ad una sempre più chiara comprensione di
lui (cfr. 2 Cor 3, 14-18).
Così si *àssiste ad un fatto importante: la Sacra Scrittura nella Liturgia
cessa di essere una morta parola scritta, per assumere sempre più il ruolo di
annunzio-proclamazione di un avvenimento di salvezza presente. In altre parole:
l’avvenimento che si legge nella Sacra Scrittura, è quello stesso che si attua
nella Liturgia, e così la Sacra Scrittura trova nella Liturgia la sua inter­
pretazione naturalmente concreta e cioè sempre sul piano di storia della
salvezza e non di elucubrazione intellettuale. Cristo è la « realtà annun­
ziata » dalla Sacra Scrittura, e Cristo diventa la « realtà awerata-comu-
nicata » dalla Liturgia. In questo modo sarà appunto la Liturgia, attraverso
la diretta « esperienza » del mistero di Cristo (esperienza di salvezza inte­
riore), a darci quella «conoscenza» e «rivelazione» dello stesso mistero,
che non potrà mai restare solo intellettuale, ma tenderà sempre a ripresen­
tarsi, con l’aumento della « conoscenza-rivelazione », in una maggiore
« esperienza » intima ed esistenziale. La Sacra Scrittura quindi, anche come
« rivelazione » di salvezza, si completa nella Liturgia.
103 la teologia della Liturgia nel Vaticano II

2 II rito e la Liturgia

La Liturgia è, a prima vista, un complesso di riti, ossia di formule e


gesti, in nulla dissimile in ciò dalle forme cultuali non cristiane h
Il valore del rito religioso è variamente interpretabile, a seconda soprat­
tutto dell’idea che ci si fa della religione e conseguentemente dei segni nei
quali si manifesta a. Nel giudicare comunque il rapporto che il rito ha con
la Liturgia cristiana, la prima cosa da ritenere è che questa verrebbe fal­
sata se la si pensasse come un puro ordinamento di sacri riti, quasi identi­
ficando « rito » e Liturgia3. Sarebbe ugualmente errato affermare, in nome
di qualunque tendenza « spiritualista », che la Liturgia cristiana per es­
sere autenticamente tale debba escludere ogni forma di rito. Il pericolo del
« ritualismo », che è esagerato valore del rito, non può far dimenticare che il
rito rientra in quella naturale esigenza che ha l’uomo di servirsi di « segni »
— e sono tali allo stesso titolo sia le parole che i gesti, come pure parole e gesti
uniti insieme — per esprimere i propri sentimenti e atteggiamenti interiori
sul piano relazionale tanto umano che divino (religione).

Omesse queste considerazioni, come pure quelle dei possibili rapporti


che i « riti » cristiani potrebbero avere o forse hanno, sia per origine che
per significato, con analoghi o identici riti non cristiani, vogliamo subito
rilevare il particolare valore che ai riti cristiani viene dal loro contatto con
la Sacra Scrittura, ossia con la « Parola » di Dio.
Se è generalmente vero sul piano religioso che il rito tende a esplicitarsi
in un gesto unito alla parola, questo vale tanto più nella Liturgia cristiana 4.
Infatti proprio l’intimo nesso che si è venuto sempre più scoprendo tra Sacra
Scrittura e Liturgia, ha posto in nuova luce anche il rito. Questo infatti nella
Liturgia cristiana non compare più né semplicemente né soprattutto come
espressione di un sentimento umano sul piano religioso. In altre parole:
pur accettando sempre il rito in questo senso — e cioè per quello che è e
non può non essere sul piano religioso-umano — non lo si considera più pre­
valentemente come mezzo atto ad esprimere il rapporto che Vuomo cerca di
stabilire con Dio e con il mondo delle realtà divine. Infatti il legame che unisce
la Sacra Scrittura (Parola) alla Liturgia porta a scoprire nel « rito » soprat­
tutto un altro aspetto, che è proprio della religione rivelata e in particolare
del cristianesimo e che consiste nell’essere « segno » di quella speciale realtà
divina, che è Cristo, e che è in posizione inversa al « rapporto » sopra citato,
in quanto è « segno » del rapporto di Dio con Vuomo. Questo « rapporto »
consiste ed è dato in quello che in linguaggio biblico si chiama « mistero
di Cristo » e sta ad indicare una presenza divina di salvezza realizzata, per
l’uomo, in Cristo; ossia è « presenza di Dio » che, in Cristo e per Cristo, è
rapportata come « realtà nell’uomo ». 11 « mistero di Cristo » è infatti nul-
l’altro che « la Parola fatta carne » ossia « Cristo in noi, speranza di gloria »
(Col 1,27), vale a dire: «salvezza umana realizzata» ( = Cristo).1

1 Cfr. Th. Ohm, Die Gebetsgebàrden der Volker u. das Chrislentum, Leiden 1948; E. Masure, Le
signet Paris 1953; L. Bouyer, Le rite et Vhomme (Lex orandi, 32), Paris 1962.
2 G. Van Der Leeuw, La religión dans son esserne et ses manijestations. Phénoménologie de la religión,
Paris 1948. Cfr. Bouyer, 0. c., 27-57.
3 Pio X II, Mediator Dei, in AAS 39, 1047, 532.
4 Cfr. Bouyer, 0. 0., 79-9 1-
104 parte I - capitolo 111

Questa « salvezza », passata dallo stato di « Parola » a quello di « realtà »,


trova il suo « segno reale » — ossia « segno » carico di « contenuto » —
nell’umanità di Cristo, che essendo portatrice della divinità e della sua sal­
vezza nel mondo (Col 2,9), è il «segno-immagine del Dio invisibile»
(Col 1, 15). Cristo è infatti il «segno dato da Dio» (Gv 6, 28) al mondo,
e non nel senso che Cristo è « segno » dell’esistenza o della potenza e sa­
pienza creatrice di Dio, ma è « segno » dell’amore con il quale Dio inter­
viene e agisce per la « salvezza degli uomini ». Cristo è infatti il grande pri­
mordiale « sacramento » e cioè « segno » di una « realtà » di salvezza, che
si è rivelata come «presenza» divina attiva tra gli uomini (Ef 1, 9; 3, 9;
Col 1, 27; 1 Tim 3, 16).

In dipendenza di questo « segno-sacramento » che è Cristo, bisogna


intendere anche i « segni » rituali o liturgici del NT. Ogni « segno » è in
funzione di una « realtà », che esso vuole « significare » ; ma il valore del­
l’azione significatrice dipende dalla posizione che la « realtà » ha in rapporto
al soggetto cui il « segno » è destinato. Così i « segni » liturgici (sacrifici,
feste, agnello pasquale, ecc.) del culto ebraico nell’A T significavano una realtà
futura, e cioè non ancora «avvenuta» e quindi «non reale»; al contrario
i « segni » liturgici del culto cristiano si riferiscono al « segno-sacramento »
primordiale, e cioè a « Cristo = realtà concretamente avvenuta di salvezza ».
Essi sono quindi espressione e attuazione del « reale » e permanente mi­
stero di Cristo, ossia sono « segni reali » non solo intenzionalmente, in quanto
riferiti ad un « avvenimento », ma sono oggettivamente « reali », nel senso
che attuano la stessa realtà dell’ « avvenimento », che riflettono.
La « realtà » dei « segni » liturgici è in rapporto diretto alla « realtà »
che la « Parola » ha assunto incarnandosi, e intendono riproporre nel « tempo
della Chiesa-corpo vivente di Cristo » l’attuazione della « Parola », di modo
che i « segni » diventano essi stessi come una continuata « incarnazione »
della Parola per rendere permanente l’ « avvenimento » di Cristo. Così come
le « opere » di Cristo erano « segni » (Gv 2, 23; 3, 2; 6, 2-26; 9, 16; 11, 47;
12, 37; 20, 30), e cioè « opere divine » nelle quali è « significata » la volontà
di salvezza esistente eternamente in Dio e rivelata in Cristo, così le « opere »
o « azioni liturgiche » sono sul piano rituale i « segni » del perpetuarsi di questa
rivelazione-attuazione della salvezza avvenuta in Cristo. Per questo Ebr
io, 1 ci avverte che il culto del NT è fatto di « immagini (segni) degli avve­
nimenti » realizzatisi appunto in Cristo.

Per questa via la Liturgia si distingue inoltre essenzialmente da qualunque


altra forma di culto esistente nella religione naturale, e a rettamente con­
cepirla non si può neppure partire dalla generica definizione di culto, di cui
poi la Liturgia cristiana sarebbe una specie, sia pure a livello di rivelazione 1.
Il « culto » infatti è soprattutto un atteggiamento interiore di venerazione
verso un essere ritenuto superiore o sul piano umano (culto dei genitori,
della patria) o sul piano divino (culto religioso a diversi gradi). Inoltre
questo culto-venerazione solitamente si manifesta in gesti esteriori («riti»)
di preghiera e di lode o di impetrazione e propiziazione (sacrifici, offerte1

1 Cfr. per es. M. Righetti, Storia liturgica, voi. I, Milano 1964a, 3.


105 la teologìa della Liturgia nel Vaticano II

votive, oblazioni; uso di incenso, di luci e di vesti particolari; canti, suoni


e danze; prostrazioni, genuflessioni, mani elevate, mani giunte; digiuni,
processioni, ecc.), che vogliono appunto essere «segni» dell3« atteggiamento
interiore ».
La Liturgia cristiana si può servire anche essa di questi elementi esteriori
e di solito ricorre ad essi, come di certo non esclude l’atteggiamento interiore
di venerazione per Dio. Ma ciò non ostante la Liturgia non può essere né
confusa né identificata sia col detto « atteggiamento interiore di venerazione »
— essa lo esige semplicemente come presupposto umano — sia, tantomeno,
con i gesti rituali sopraelencati, che lo vogliono esprimere. Essa infatti
essenzialmente non è — sia pure a livello di rivelazione quanto all’oggetto
(Dio rivelato come Padre, Figlio e Spirito Santo) — un puro atto di culto,
concepito come azione umana nei riguardi di Dio (venerazione interiore-
esteriore), ma è piuttosto presenza di azione divina sotto forma rituale; azione
che, creando un progressivo contatto col mistero di Cristo (salvezza in atto),
tende a fare degli uomini dei figli di Dio¡ i quali per la loro stessa esistenza
in questo piano (piano soprannaturale) rendono in se stessi culto a Dio. La
Liturgia non è dunque la « specie » cristiana del culto, comunque questo
lo si voglia considerare. Al contrario essa è un « unicum », di fronte al quale
ogni altra forma di culto è soltanto un « analogo », perché solo nella Li­
turgia cristiana il culto esiste nella sua vera natura.
In altre parole: la Liturgia cristiana non è un complesso di riti, che inter­
pretando Vatteggiamento interiore umano, vuole offrire a Dio delle « adorazioni »,
ma è un regime di segni, che inserendo nel mistero di Cristo i singoli uomini, ne
fa altrettanti « adoratori»; ossia per la Liturgia gli uomini vengono inseriti
nel « tempo » e cioè nell’azione santificatrice di Cristo, e per questa via e
a questo momento diventano « adoratori nella verità (realtà di Cristo) e
nello Spirito Santo » (Gv 4, 23-24). La Liturgia in questa prospettiva cessa
di essere — per quanto possa sembrare straordinario — la forma cristiana
della virtù della « religione », per diventare l’espressione della « fede »,
cioè di quell’atteggiamento col quale si accetta Dio prima di tutto come
« salvatore », cioè come colui che in un amore eterno ha un piano di sal­
vezza per gli uomini. La Liturgia non è infatti l’azione con la quale gli uo­
mini si ricongiungono a Dio, ma è prima di tutto l’azione con la quale Dio
in Cristo viene a contatto con gli uomini. La « religione » può nascere anche
dal « timore» di Dio; la Liturgia è solo un’emanazione dell’amore di Dio
per gli uomini e può essere esercitata realmente solo da chi è mosso dalParnore
verso Dio.
capitolo quarto

la Liturgia culto della Chiesa

Bibliografia

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Firenze 1965, 453-464; B. Neunheuser, Chiesa universale e Chiesa locale, in G. Ba­
rauna, 0, c.} 616-642; G. Vagaggini, Il senso teologico della Liturgia, Roma 19654,
I53“I^5 (il sacerdozio dei fedeli è trattato in maniera completamente nuova ri­
spetto alle precedenti edizioni della medesima opera) ; Y. Gongar, Vecclesia ou
communauté chrétienne sujet intégral de Vaction liturgique, in Jossua-Congar, La Liturgie
après Vatican II (Unam sanctam, 66), Paris 1967, 241-282; B. Neunheuser, De
praesentia Domini in communitate cultus. Quaestionis evolutio historica, in A. Schonmetzer,
Acta congressus de theologia Vaticani II, Roma 1968, 316-329; K. Rahner, De prae­
sentia Domini in communitate cultus. Synthesis theologica, in S. Schonmetzer, 0. c,3 330-
338; G. Cingolani, V assemblea e la sua partecipazione al sacrificio eucaristico, Roma
19^7 ^ S* Marsili, La Chiesa locale comunità di culto, in « Rivista Liturgica » 59, 1972,
29-53-

premessa: «Chiesa-Liturgia» prima del Vaticano II

« La Liturgia è il culto della Chiesa » è una definizione che risale ai


primi tempi del movimento liturgico, ed ebbe sempre il primato tra i mag­
giori pionieri della Liturgia. Ma spesso anche tra costoro la « Chiesa » si
presentava principalmente come « gerarchia » e solo per derivazione da
questa la Liturgia arrivava al popolo. Per alcuni poi la Liturgia era detta
culto della Chiesa, in quanto era organizzato e regolato dall’autorità della
Chiesa.
Sulla posizione ecclesiologica dell’Enciclica Mediator Dei di Pio X II, si
è già accennato più sopra (p. 82). Da una parte vi è ricorrente l’affer­
mazione che la Liturgia è « azione sacerdotale di Cristo continuata nella
C h iesa»1, ed è definita come «culto dell’intero corpo m istico»2; dall’altra
parte, a mano a mano che il discorso si fa più esplicito, si apprende già di-

AAS 39, 1947, 521; 529,


Ibidem, 528; 532
108 parte l - capitolo IV

rettamente da un sottotitolo della I Parte 1 e poi da quel che segue, che la


Liturgia è « un indiscusso e saldo diritto della gerarchia ecclesiastica » a, e
se si dice che « il suo esercizio appartiene in modo primario ai sacerdoti,
perché agiscono in nome della Chiesa » 12 3, dal contesto sembra che perfino
l’espressione « in nome della Chiesa » si restringa ad indicare invece prima­
riamente « l’autorità » di essa 4.
Quando l’Enciclica riportava così strettamente la Liturgia al sacerdozio
di Cristo, facendone una continuazione di essa da parte della Chiesa, quella
che sembrava la maggiore acquisizione teologica del momento sul piano
liturgico, si rivelava una specie di « vittoria di Pirro » : mentre pareva vin­
cere la sua battaglia teologica, il movimento liturgico perdeva sul campo
della realizzazione pratica. Infatti per l’Enciclica di Pio X II, proprio questo
aspetto sacerdotale della Liturgia, da essa così altamente proclamato ogni volta
che si addentra in una definizione della Liturgia 5, sarà la ragione alla quale
ci si appellerà continuamente per riaffermare e ribadire con forza che la
Liturgia « appartiene prima di tutto alla CkLsa gerarchica » 6. Non è che l’Enci­
clica ignori l’esistenza di un « sacerdozio » nei fedeli battezzati, dei quali
anzi esplicitamente si dice che « partecipano del sacerdozio di Cristo, in
quanto membra di Cristo sacerdote » 78 . Ma evidentemente la « parteci­
pazione al sacerdozio di Cristo» non è sufficiente — per l’ Enciclica — a
farsi che i fedeli siano veri e propri soggetti di Liturgia; essi infatti sono sol­
tanto coloro « in nome dei quali la Liturgia viene esercitata dai sacerdoti » 9.
Essendo dunque il « sacerdozio » appuntato tutto e solo sulla linea ge­
rarchica, Pio X II nella sua Enciclica eviterà accuratamente perfino l’espres­
sione sacerdozio comune o universale o dei fedeli, così come non citerà mai il
testo di i Piet 2,9: « Voi siete stirpe eletta, regale sacerdozio e nazione con­
sacrata (per il culto di Dio) »; espressione e testo ampiamente usati nel mo­
vimento liturgico dell’epoca. Questo naturalmente non gli impedirà —
come s’è detto — di riconoscere a tutti i cristiani una « partecipazione al
sacerdozio di Cristo », che li rende tutti « membra di Cristo sacerdote »,
tenendo però sempre fermo che « partecipazione al sacerdozio di Cristo »
non crea né un « potere » né tantomeno un « diritto sacerdotale » 9.
In fondo tutto nasce da una concezione ancora prevalentemente « este­
riore » del sacerdozio e conseguentemente della Liturgia. L ’ Enciclica in­
fatti come non si stanca di ripetere che la Liturgia è culto « esterno e pub­
blico » 101, così dichiara « visibile ed esterno » il sacerdozio di Cristo n. Data
dunque questa equiparazione di sacerdozio e di Liturgia su un piano ugual­

1 Ibidem, 538: « III. La Liturgia è prima di tutto cosa della Chiesa gerarchica».
2 Ibidem, 540.
Ibidem, 530.
j Ibidem.
5 Ibidem, 522; 528; 529.
6 Ibidem. Vedi sopra, nota 1.
7 Ibidem, 555.
8 Ibidem, 539.
9 Ibidem, 553-554.
10 Ibidem, 528-530.
11 Ibidem, 538. Veramente non si comprende come possa essere qualificato per « visibile ed
esterno» il sacerdozio di Cristo, quando già Ebr 8,4 (cfr. Ebr 7, 14) esclude apertamente tale
esterna « visibilità » a suo riguardo. Per quanto concerne il « sacerdozio ministeriale » esso è il
risultato di un carattere sacramentale (Ordine), non meno del « sacerdozio comune » dei fedeli (ca­
rattere del Battesimo), e se tra i due sacerdozi vi è una differenza, questa non è certo sul piano
della «visibilità», ma su quello della «posizione» che ne deriva ai rispettivi soggetti: «sacer­
dozio del capo » e « sacerdozio del corpo », che non sono realtà per sé visibili ma spirituali.
109 la Liturgia culto della Chiesa

mente « esteriore e pubblico », anche quella « partecipazione al sacerdozio


di Cristo », che viene riconosciuta generalmente ai fedeli, non è tale — ■
si dichiara — da incidere né positivamente né negativamente sull’azione li­
turgica. E cioè la Liturgia trae la sua realtà e il suo valore dall’essere azione
del sacerdote gerarchico esterno e visibile e non dall’essere azione dei fedeli,
membra di Cristo sacerdote. Infatti, ci dice Pio X II, la più perfetta parte­
cipazione alla messa, per es., « ha come fine quello di alimentare la pietà
dei fedeli e la loro unione con Cristo, stimolandone i sentimenti e le dispo­
sizioni interiori di assimilazione al sommo sacerdote del N T » (quindi un
fine eminentemente psicologico-soggettivo e per nulla oggettivo); ed è allo
stesso tempo « una dimostrazione esterna che il sacrificio è, di sua natura,
opera di tutto il corpo mistico » (quindi la partecipazione dei fedeli è « di­
mostrazione esterna » e non componente « attiva » del sacrificio). Di con­
seguenza — continua l’Enciclica — la partecipazione dei fedeli « non è
in alcun modo necessaria per dare alla messa il suo carattere pubblico e
comunitario » ossia — diremmo noi — per renderla azione liturgica x.
Tutto ciò sta ad indicare chiaramente che la Liturgia esiste solo e uni­
camente i\t\Vazione sacerdotale di colui che, investito del « sacerdozio visi­
bile ed esterno », « è legittimamente deputato », come si esprime il CIG
1256 e come continuamente ripete Pio X II.
Questo ci dice: a) che l’Enciclica, benché abbia avuto il merito di affron­
tare apertamente il tema ecclesiologico della Liturgia, è dominata ancora
talmente dall’aspetto «rituale esteriore», da farle dire, p. es., che una «messa
dialogata (cioè con partecipazione attiva dei fedeli) non può sostituire una
messa solenne12*, perché questa gode di una particolare dignità, che le deriva
dalla maestà dei riti e dallo splendore delle cerimonie » 8; b) che la «Chiesa»,
proprio perché è vista ancora in quella chiave esteriore-giuridica che è paral­
lela a quella esteriore-rituale della « Liturgia », si esaurisce propriamente
nella « Chiesa-gerarchia sacerdotale », lasciando in posizione del tutto peri­
ferica la « Ghìesa-comunità sacerdotale », con la conseguenza che la Liturgia,
esercizio del sacerdozio di Cristo, è attribuita direttamente ai sacerdoti della
Chiesa, in quanto «vicari» di Cristo sacerdote4 e non alla comunità dilla
Chiesa, formata dai fedeli che sono soltanto « membra » di Cristo sacer­
dote 5.

I la Chiesa, comunità cultuale

Pur accettando gran parte del discorso liturgico-teologico della Mediator


Dei, che aveva già raccolto e in più di un punto approfondito il discorso
iniziato dai maggiori promotori del « movimento liturgico », il Vaticano II
ebbe il merito, con la SC, di far fare alla teologia liturgica un passo che non
fu solo un progresso, ma che segnò senz’altro una svolta.
1 Ibidem, 561.
2 È, secondo la nomenclatura precedente all’attuale riforma liturgica del messale, la messa
celebrata con diacono, suddiacono e ministri inferiori.
z Ibidem, 561.
4 Ibidem, 553.
0 Ibidem, 555.
110 parte I - capitolo IV

A parte infatti tutte le maggiori esplicitazioni che, non solo sugli altri
piani ma anche su quello stesso liturgico, si potranno leggere negli altri
documenti conciliari (soprattutto nella LG e nella PO), riteniamo che ba­
sterà anche solo fermarsi a rileggere SC 26, per convincersi che — quasi
senza parere — in esso si ponga termine a tutte le precedenti incertezze:
SG 26: «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della
Chiesa, che è cc sacramento di unità55, ossia popolo santo riunito e ordi­
nato sotto l’autorità dei Vescovi (S. Cipriano, De cath. eccL unitate, 7;
Cfr. Epist., 66, 8, 3).
Conseguentemente le azioni liturgiche sono tali, che mentre appartengono
a tutto intero il corpo della Chiesa, lo rivelano e lo interessano, spettano anche
ai singoli membri di essa, sia pure in maniera diversa, e cioè a seconda
della diversità di ordine, di compiti e di partecipazione attiva ».

Il rapporto, che qui si pone, tra « Liturgia » e « Chiesa totale » è nettissimo


e altrettanto chiara — poiché si pone in evidenza la « gerarchia », nomi­
nando i vescovi e la diversità di ordine — è l’intenzione di superare proprio
il rapporto, fino allora dominante, di « Liturgia-Chiesa gerarchica », come
se fosse Punico vero o almeno il primario, sia che la Chiesa fosse pensata
solo come ordinatrice o anche come principale agente dell’azione liturgica.
Allo stesso tempo però si ribadisce un principio «ecclesiologico» di pri­
maria importanza, richiamando da una parte il fatto che la « Chiesa-popolo
di Dio nella sua totalità » — sia pure esistenzialmente « ordinata sotto i
vescovi » e « secondo una diversità di ordine e di compiti » — è il luogo dove
unicamente si può trovare, come in suo ambiente proprio, la Liturgia in quanto
attuale celebrazione; e dall’altra parte riaffermando — ciò che era già
solennemente avvenuto in SC 2 — che la Liturgia è il luogo dove il « corpo
di Cristo » si rivela e manifesta come « Chiesa », ossia nella sua vera natura
di « sacramento » ossia di mezzo efficace dell’intima unione con Cristo, cui
sono chiamati tutti gli uomini1. Infatti:
« Ogni volta che il sacrificio della croce, nel quale Cristo, nostro agnello
pasquale, è stato immolato” (1 Cor 5,7), viene celebrato all’altare, si
attua l’opera della nostra redenzione; e insieme viene rappresentata e
prodotta, nel segno sacramentale del pane eucaristico, l’unità dei fedeli
che costituiscono un solo corpo in Cristo (Cfr. 1 Cor io, 17) » 123 .

È un punto di rivelazione che la Chiesa è « Corpo di Cristo » e « popolo


santo di Dio ». Ma mentre il « Corpo di Cristo » è piuttosto il risultato del­
l’azione liturgica 8; e il « popolo di Dio » è « santo » cioè consacrato al fine
di dare un vero e degno culto a Dio 4, la « Chiesa » esprime soprattutto il
momento stesso in cui il popolo di Dio si aduna in posizione cultuale attorno
a Dio.
Tanto il Beauduin, quanto la Mediator Dei (per richiamare solo i due
momenti, iniziale e finale, di maggior rilievo al riguardo) hanno fortemente

1 LG 1.
2 L G 3.
3 Cfr., per es., L G 3; 7.
1 Cfr., per es., L G io; A A 3; PO 2; A G 15.
Ili la Liturgia culto della Chiesa

insistito sull'aspetto ecclesiale della Liturgia, ma con le incertezze che abbiamo


già rilevate. Ma ora a noi sembra che sulla scorta di SG 26 sia giunto il
momento di fermarci sull 'aspetto liturgico della Chiesa. Mentre infatti la Li­
turgia potrebbe essere « ecclesiale » anche solo per destinazione e per ordi­
namento — come del resto s’è visto che è avvenuto — , potremo così
invece scoprire che la Chiesa è « liturgica » per intima costituzione. È
quello appunto che ci propongono — come s’è detto — SC 2 e 26, pre­
sentandoci la Liturgia come « rivelatrice della vera natura della Chiesa ».
Accettando quindi come un dato di fatto da tutti ammesso che il ter­
mine « Chiesa » entra nel N T dall’A T è chiaro che da questo bisogna
partire per scoprire il senso e il contenuto del temine stesso.

a La « Chiesa » delVA T. La parola ebraica Qahal nella Bibbia greca dei


L X X è stata tradotta — salvo pochissime eccezioni in cui è stata resa con
auvaycoy/] 2 — sempre con la parola èxxXTjcia, che propriamente significa
« assemblea-riunione provocata dal richiamo di una voce che chiama a
raccolta » 8. Come traduzione di Qahal, éxxXyjcria compare per la prima volta
in Deut 4, io; 9, io; 18, 16 e qui, come poi soprattutto nei libri delle Cro­
nache, si presenta sempre con chiara intonazione cultuale, perché sta a in­
dicare « il giorno della Chiesa », ossia il giorno in cui Israele « si raccoglie
davanti a Dio, essendo stato chiamato ad ascoltare la sua voce » (Deut 4, io),
che proclamava l’Alleanza. E proprio per il fatto che Vassemblea del popolo
d’Israele avviene attorno o davanti a Dio, l’espressione Qahal Jahwe-Chiesa
di Dio diventa il termine tecnico, usato prevalentemente per designare ogni
« assemblea liturgica » d’Israele, in quanto questa avrà nei tempi fu­
turi sempre come prototipo ispiratore ed esemplare la « Chiesa-assemblea
dell’Horeb » (Deut 4, io L X X ; cfr. Atti 7,38: «Chiesa del deserto»).
In questo modo la « Chiesa di Dio » nell’AT, raccolta per la prima volta
al Sinai, poi nel deserto attorno alla « tenda dell’incontro » e quindi ideal­
mente (in quanto alla sua totalità) attorno al « Tempio fatto da mano di
uomo» in Gerusalemme (Atti 7,48), costituisce la comunità cultuale convo­
cata: per l’ascolto della parola di Dio (Deut 4, 9-13), per i giorni di digiuno
(2 Cron 20, 5), per l’offerta dei sacrifici (2 Cron 29, 33), per la celebrazione
della Pasqua (2 Cron 30, 2 ss.) e in genere per le feste e la lettura della Legge
(Neem 8, 2). Questa comunità non è soltanto localizzata (« Chiesa deWHoreb »
o « del deserto»), ma è anche temporalizzata: si parla infatti ripetutamente
di «giorno della Chiesa», per indicare l’assemblea del Sinai (Deut 9, io;
18, 16; cfr. 4, 9 secondo i LX X ).
La « Chiesa » dunque, anche se nel suo contenuto reale s’identifica con
il « popolo di Dio », sta tuttavia ad indicare in maniera diretta il momento
cultuale di esso, ossia la « Chiesa » esiste nel tempo e nel luogo nel quale il
« popolo di Dio » risponde alla « chiamata », che lo raccoglie di fatto e in
concreto attorno a Dio {culto). La Chiesa è insomma la proiezione teologico-
cultuale del «popolo di Dio», visto come «regno di sacerdoti» (Es 19,6),
come «sacerdoti di Dio» (Is 61,6), ossia come popolo destinato al culto12 3

1 LG 9.
2 A sua volta il termine auvayoyí) è il termine con cui viene tradotto — anche in questo caso
con pochissime eccezioni, nelle quali riappare ¿y.xXvjaia — il termine ebraico {edàh.
3 Cfr. Grimm-Thayer, Greek-english Lexicon of thè N T , Edinburgh 19584, 195.
112 parte I - capitolo IV

di Dio fino ad esserne essenzialmente qualificato. Quando infatti in Es 12, 16;


Lev 23, 2 ss.: Num 28. 25 il popolo raccolto in assemblea liturgica, per ordine
di Dio, viene detto « miqrà qodèsh » — che i L X X traducono sempre,
con evidente allusione a ekklesìa, per « kletè haghìa », — non vogliono qua­
lificare rassemblea come « santa » in senso o puramente esterno o anche
solo morale, ma piuttosto come « santa » nel senso di « consacrata al culto »
di Jahve.
Come si vede la dimensione « cultuale » nella Chiesa dell’A T non è ele­
mento ne accessorio né secondario. Non accessorio, perché è l’aspetto spe­
cifico assunto da Israele, diventando «popolo di Dio»: è infatti il popolo
che riconosce solo a Jahve il titolo a onori divini. Non secondario, perché
la dimensione cultuale è la ragione stessa del momento « locale » e « tempo­
rale » della « Chiesa » nell’A T : è infatti il « culto » quello che esige e de­
termina e il « luogo » e il « tempo », in cui il popolo di Dio si raccoglie
come « Chiesa », ossia come « assemblea attorno a Jahve ».

b La « Chiesa » nel J\‘T. L ’elezione, originariamente riservata nelPAT


in senso emblematico-profetico al « popolo » d’ Israele, si estenderà a tutti
i « popoli », perché anche coloro che « non erano il popolo, ora saranno il
popolo di Dio» (1 Piet 2, io). Ma in questo passaggio si può osservare che nel
NT l’equipollenza « popolo di Dio-Ghiesa », già presente nelPAT fv. sopra),
è proposta a tutto vantaggio del secondo termine e cioè di « Chiesa », nel
senso che la dimensione « cultuale » del nuovo « popolo di Dio » passa de­
cisamente in primo piano.
La Chiesa infatti che è da Cristo costruita «come sua» (Mt 16, 18) e
che allo stesso tempo risulta fatta di « pietre vive edificate su Cristo » (1 Piet
2, 5) non è soltanto una comunità a livello sociologico, ma è soprattutto una
comunità a livello di culto come risulta tra l’altro:
— dalle immagini « cultuali » ripetutamente usate per caratterizzare la
comunità del NT ;
— dalla identificazione di « Chiesa-corpo di Cristo ».
Nel linguaggio del NT gli uomini che si costruiscono su Cristo formano
una « casa-abitazione di Dio » (Ef 2, 22, 1 Piet 2, 5) e un « tempio del Si­
gnore » (1 Cor 3, 16-17; 2 Cor 6, 16; Ef 2, 21). Che così dicendo ci si rifaccia
non a una pura immagine, ma si punti sulla « realtà » cultuale contenuta
nella « figura » veterotestamentaria della « tenda-tempio », risulta chiaro
da 2 Cor 6.. 16.
È chiaro infatti che nell’affermazione di Paolo:
«Noi (Volg.: voi) siamo il tempio del Dio vivo, secondo quello che
Dio stesso ha detto: Abiterò in essi e camminerò in mezzo ad essi, così
che sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo »,

ci troviamo di fronte a una interpretazione che, identificando « tempio di


Dio » con « popolo di Dio », supera nettamente la visione dell’AT. In questo
infatti le parole di Lev 26, 11 : « Io metterò la mia tenda in mezzo a voi... »
avevano trovato realizzazione in una vera e propria « tenda », che aveva pur­
troppo localizzato la presenza di Dio, come si può riscontrare in Es 29,43:
« Io incontrerò i figli d’Israele in questo luogo consacrato dalla mia gloria ».
113 la Liturgia culto della Chiesa

Orbene Paolo, interpretando il « Metterò la mia tenda in mezzo a voi »


(Lev 26, 11) con «Abiterò in voi», non ha soltanto abolito — anche se
ha conservato l’immagine dell’abitazione — il senso «locale» («tenda»)
della presenza di Dio, ma trasferendo questa sul piano « personale » (« in
voi»), ha inteso far capire quale era il vero senso dell’antica «parola detta
da Dio stesso ». Il culto vero di Dio, anche per Paolo come già per Cristo
(Gv 4,21-25) non è legato a un «luogo» materiale, perché Dio non si
racchiude né nella tenda né nel tempio; egli infatti «abita in noi», ossia
nel suo popolo, che è il solo e vero « tempio » di Dio.
Ma anche nell’identificazione « Chiesa-corpo di Cristo » non viene posto
in rilievo, come potrebbe sembrare, né solo né principalmente l’aspetto
costitutivo-organico della Chiesa, anche se ciò può apparire quando si dice che
« la Chiesa è il corpo di Cristo » ; ma viene sottolineato o almeno dato allo
stesso grado l’aspetto cultuale del « corpo di Cristo ». Realizzandosi infatti questo
come « Chiesa », esso assume senz’altro la dimensione « cultuale », che nella
« Chiesa » in quanto tale è sempre primaria (v. sopra per l’A T), e che
risuona nell’espressione rovesciata: « Il corpo di Cristo è Chiesa».
L ’evidenziazione di questo aspetto cultuale della « Chiesa-corpo di
Cristo » ha una sua radice e ragione ben precisa e che non può essere tro­
vata nel fatto che la Chiesa in quanto « corpo » sta a indicare una comunità
di membra unite tra loro, ma solo nel fatto che è « Corpo di Cristo ».

È noto che il termine « corpo » di Cristo nel N T è usato sia per indicare
il corpo di Gesù nella sua individualità umana x, sia il Corpo di Cristo che è la
Chiesa123, sia infine il corpo sacramentale di Cristo nell’Eucaristia8.
Questa comune denominazione di tre realtà in sé oggettivamente diverse
non si spiega in forza di un’assimilazione puramente esterna o data dal fatto
che la « Chiesa » è definita « corpo di Cristo » perché in essa si percepisce
quel principio di unità che si riscontra in un qualunque « corpo », — caso
del « corpo » sociale in analogia al « corpo » animato; — o presa nel senso
che, partendo dal principio animatore del « corpo » stesso, si pensi a Cristo come
a colui che raduna attorno a sé delle persone e influisce efficacemente sulla loro
vita. In questa prospettiva non si potrebbe, tra l’altro, spiegare quale posi­
zione avrebbe — dato un simile contesto — il « corpo sacramentale » di Cristo.
Il comune denominatore che pone veramente su un piano di comune realtà,
e cioè al di là di una denominazione soltanto esterna, tanto il « corpo umano »
di Cristo, quanto il « corpo-Chiesa » di Cristo e il suo « corpo sacramentale »,
si ritrova nell’identità di destinazione cultuale, che ad essi compete alla luce
della rivelazione. Basterebbe per questo osservare anche solo l’equazione
« corpo-tempio », che viene stabilita con il « corpo umano » di Gesù tanto
a livello di esistenza terrena (« Cristo parlava del tempio del suo corpo»: Gv
2, 21) quanto a livello di esistenza sacramentale (« Suo tempio è... l’Agnello »:
Apoc 21,22), con il «corpo individuale» del cristiano (« Il vostro corpo è
tempio dello Spirito Santo»: 1 Cor 6, 19) e con il «corpo della Chiesa»
{«Noi siamo il tempio del Dio vivo»: 2 Cor 6, 16).

1 M t 2 6 ,12; 27,58; Me 14,8; 15,43; Le 2 3 ,52 .5 5; 24,3; Gv 2 ,2 1; 19,38.40; 20,12;


Rom 7 ,4 ; Gol 1,22; Fil 3 ,2 1; Ebr 10,5. io; 1 Piet 2,24.
2 Rom 12, 5; 1 Cor io, 17; 12, 13. 27; E f 1, 23; 2, 16; 4, 4. 12. 16; 5, 23. 30; Gol 1, 18. 22.
24; 3> 15-
3 M t 26,26; Me 14,22; Le 22, 19; 1 Cor io. 16; 11,2 4 .2 7.
114 parte I - capitolo IV

i II vero culto nel « corpo » di Gesù

Se vogliamo scoprire la genesi della suddetta equazione « corpo-tempio »


per quel che riguarda la « Chiesa-corpo di Cristo », non andiamo certamente
errati dicendo che essa dipenda dalla « rivelazione », secondo la quale unico
vero « tempio » di Dio, è il « corpo umano di Cristo », visto nella sua realtà
storico-salvifica. In altre parole: il fatto dell5Incarnazione, per la quale il
« corpo di Gesù » si situa a livello direttamente cultuale, è il punto di arrivo
di una « rivelazione », che voleva condurre l’uomo a una religione essen­
zialmente vera in quanto sarebbe stata profondamente spirituale 1. Per rag­
giungere infatti il traguardo di una religione « vera e spirituale » quale
era quella che « il Padre andava cercando da sempre » (Gv 4, 23-24), era
necessario sradicarla dalla materialità del luogo e del modo. E questo poteva
avvenire solo in due maniere:
— col sostituire al « luogo » religioso materiale un analogo « luogo »
spirituale, facendo cioè dell’uomo stesso — corpo in cui vive lo spirito — la
sede del culto; e insieme
— con l’abolire quelle forme di culto, quali erano per es. i sacrifici
delle vittime, visti come « segni » troppo facilmente sostitutivi della « realtà »
dell’adorazione, e così ancora una volta facendo dell’uomo stesso e il « segno »
e la « realtà » del proprio culto 12.
Spieghiamo un poco queste idee seguendo la Scrittura.

a II « luogo » spirituale del culto. Gv 1, 1-14, nel presentarci in sintesi la storia


della salvezza, proclama chiaramente la dimensione cultuale dell’Incarnazione
di Cristo, ponendo la « carne-corpo » di Cristo sulla linea dell’attuazione
del « segno » veterotestamentario della « tenda » :
« La Parola si fece carne e pose la sua tenda tra noi e noi vedemmo così
la sua gloria » (Cfr. Lev 26, 11 = Tenda; Es 29,43 = Tenda-gloria).

Il tema è ripreso, in un discorso di esplicitazione, in Gv 2, 19-21, dove


Gesù, richiesto di dare un « segno » (il cosiddetto « segno del tempio »)
del « potere » che si era assunto di mettere termine al regime « sacrificale »
del culto ebraico e di cui il tempio di Gerusalemme (Gv 2, 15-16) era il
punto di concentrazione, rispose dicendo : « Distruggete questo tempio e
io in tre giorni lo rialzerò». E l’evangelista così commenta: « Così dicendo
parlava del tempio del suo corpo ».
Insomma è come se Gesù avesse detto: « Io vedo nel vostro culto due cose:
la figura e la realtà. La figura, da voi espressa in sacrifici di pecore, di
tori... e di colombe” e da me dichiarata ormai decaduta, era orientata

1 Cfr. Y. Congar, Il mistero del tempio, Torino 1963, 214 ss.: «Ripetiamolo: “ spirituale”
nel N T non si oppone a visibile o corporale, ma a carnale, a quanto è puramente naturale e umano...
Nella religione del Verbo incarnato “ spirituale ” non si oppone a “ corporale ” , né si riduce
a un ordine di vita personale puramente interiore e individuale. Il sacrificio spirituale di ciascuno
si realizza sì nella vita personale deirindividuo, ma non si consuma che nel servizio e neirunità
della comunità; il versetto di Rom 12, 1 non deve essere separato dal resto del capitolo. O meglio:
non si consuma come sacrificio spirituale se non nell'unione sacramentale col sacrificio di Gesù
Cristo, celebrato liturgicamente nella Chiesa... e per il quale tutti diventano insieme un solo corpo
del Figlio di Dio fatto uomo ».
2 Ibidem 157 ss. Su tutto il tema del «tem pio» cfr. S. Marsili, Il tempio nella storia della Sal­
vezza; Dal tempio locale al tempio spirituale, in: Il Tempio, ed. CA L, Padova 1968, 39-64.
115 la Liturgia culto della Chiesa

verso una realtà, che è il culto da esercitarsi nel “ tempio del mio corpo ” ,
in quanto unico culto “ vero e spirituale55. Voi, per restare attaccati alla
“ figura 55 del culto, non esisterete a distruggere (o a continuare a distruggere?)
il tempio vero che sono io. Ma a questa distruzione seguirà una risurrezione,
la mia risurrezione ossia quella del mio tempio e del mio culto. Così avete
i l “ segno 55che avevo il potere di fare quello che ho fatto ; e quando la “ realtà 55
del culto risorgerà con il mio corpo, che sarà il tempio del vero culto, è chiaro
che la “ figura 55, per la quale voi vi accanite fino a distruggere me, è ormai
passata e più non tornerà. “ Figura55 e “ realtà55 non possono coesistere».
E in effetti Gv 2, 22 continuando a commentare il discorso di Cristo
aggiunge:
« I discepoli ricordandosi dopo la risurrezione di quel che Gesù diceva,
credettero alla Scrittura e alle parole di lui ».
Questo « credere dei discepoli alla Scrittura », messa in stretto rapporto
alle « parole di Gesù », ci vuol dire che i discepoli, superando per effetto
della Spirito Santo (Gv 15, 26; cfr. Le 24, 45) la conoscenza della « lettera »
della Scrittura, raggiunsero quella conoscenza di « fede », per la quale
anche su questo punto, come su tutto il resto, la Scrittura è comprensibile
solo in riferimento a Cristo (Gv 5, 39-40).
In altri termini: anche il caso in questione, che è quello del «tempio-
tenda », presentato nelPAT come Yunico luogo di culto e di presenza del vero
Dio, trovava la sua intelligenza di fede, ossia il suo significato di avvenimento
profetico, solo in Cristo, perché questi soltanto, diventato nella sua esistenza
umana («corpo») vero «tempio» di Dio, avrebbe di fatto costituito il
vero e unico luogo di culto e avrebbe insieme realizzato il solo culto spirituale,
quello cioè che si attua nella vita stessa delfuomo. In questo modo il culto,
strappato dalla materialità del « luogo » e del « modo » di attuazione, sarebbe
finalmente risultato «vero» cioè reale e autentico (Gv 4, 19-26).

b La realtà spirituale del culto. Il « corpo » di Cristo, ossia la sua umanità,


oltre che essere « tempio » di Dio, è anche quello che — sempre sulla linea
di adempimento dell’annuncio dell’A T — si sostituirà alle « vittime » ani­
mali dell’antico ordinamento cultuale tanto dentro che fuori d’Israele.
Come si sa, già in apertura di Vangelo, Gv 1, 29. 36 ci fa fare la prima
conoscenza di Gesù, presentandocelo come « l’Agnello di Dio che toglie
[che porta su di sé per toglier via] il peccato del modo », e questa linea di
pensiero percorrerà tutto il IV Vangelo, fino a farci vedere nella morte di
Cristo (comprese le circostanze: giorno di Pasqua; ora dell’immolazione del­
l’agnello pasquale; luogo fuori del tempio, come era in origine il sacrificio
pasquale) un nuovo adempimento della Scrittura per quanto riguarda il « sa­
crificio della Pasqua » (Gv 19, 36). Per i cristiani non vi sarà ormai che un
solo «Agnello pasquale: il Cristo sacrificato» (1 Cor 5,7).
Ritenendo a tutti noto il senso e il valore « sacrificale » della morte di
Cristo, proprio sul piano dell’adempimento dei sacrifici dell’A T *, vorremo
solo rilevare il senso e il valore ancora una volta spirituali di questo « sacri­
ficio » offerto da Cristo nel proprio « corpo » (Ebr io, io). È infatti proprio1

1 Mt 20,28; Me 1o, 45 con riferimento a Is 53, io ss.; Le 22, 19; Gal 1,4 ; 2,20; Ef 5 ,2 ;
5, 25 ecc. Cfr. soprattutto Ebr 9 -1 0 .
116 parte I - capitolo IV

a questo titolo di « sacrificio spirituale » che l’offerta compiuta da Cristo


nel proprio « corpo » e cioè in se stesso, mentre si « distingue » da tutti i
sacrifici dell’A T e della religione naturale, tutti li porta a «compimento».
Gli antichi sacrifici sempre « materiali » nell’oggetto offerto, potevano
certo assumere valore « spirituale », solo se e quando riuscivano a esprimere
Patteggiamento interiore ( = spirituale) dell’offerente; ma non perdevano
tuttavia mai la caratteristica di essere « segni » o sostitutivi o solo raramente
integrativi del senso interiore dell’offerente. Una tale antinomia, sempre
rilevata dai profeti *, non poteva di fatto essere superata che tornando alle
origini di un culto spirituale, consistente nella « ricerca di Dio » (Ger 50, 4;
Amos 5, 4-6; Sof 2, 3, ecc.), perché solo questo era il culto originariamente
richiesto da Dio (Ger 7, 22-23; Amos 5, 25), quando egli « aveva cioè fatto
sapere quel che voleva: Che si compisse il bene e si amasse teneramente
Dio, camminando in umiltà con lui» (Mi 6, 8). Solo così infatti si sarebbe
potuta realizzare «un’Alleanza eterna e indimenticabile» (Ger 50,4-5).
Con l’andar del tempo la lezione profetica non andò perduta del tutto e
a ciò contribuì in particolare la situazione dell’esilio, nella quale gli Ebrei
si videro obbligati non solo a fare a meno del « tempio » ossia del luogo del
culto, ma si sentirono spinti a riflettere anche sulla materia del loro culto,
scoprendo, al seguito dei profeti, che questa non poteva e non doveva con­
sistere nell’offerta di animali, cose esterne all’uomo e sostitutive di lui, ma
piuttosto nell’offerta dello « spirito » stesso dell’offerente, ossia nell’adesione
perfetta della propria volontà a Dio. Si veniva così gradualmente a compren­
dere che lo « spirito » da solo poteva subentrare al posto delle « migliaia »
di sacrifici una volta offerti nel «tempio» (Dan 3, 37-40), e si ricuperava
così, per la via del «sacrificio spirituale» (Sai 49,8-15.23; 50, 17-19)3 la
verità del culto degno di Dio.
Questa « spiritualizzazione » del culto, per cui « l’amore e l’ubbidienza
sono da Dio preferiti al sacrificio» (Mt 9, 13; 12,7; Me 12,32-33), ossia
a ogni vittima esterna all’uomo, forma, secondo Ebr io, 5-9, il punto stesso
di partenza e la ragione giustificatrice dell’Incarnazione; il culto spirituale
apre la porta « di ingresso di Cristo nel mondo ». Infatti il Figlio di Dio
assume un corpo per « fare la volontà di Dio » e in questo modo realizzerà
quella « offerta » sacrificale, superiore a ogni altra delPAT, che sola porterà
alla « piena santificazione » del mondo, poiché sarà essa a fondare la « nuova
Alleanza », fatta di interiore e cioè di vera adesione alla legge di Dio (Ebr
io, 14-16; cfr. anche Gv 17, 19: « Io mi offro per essi in sacrificio, affinché
essi pure diventino un’offerta vera»).
Il richiamo all’alleanza come effetto di questo sacrificio spirituale, consumato
da Cristo nel suo corpoy ci riporta al primitivo concetto di culto, che era già
stato formulato nella « rivelazione » dell’A T e insieme ci presenta in Cristo
colui che finalmente tale culto realizza. In Es 19, 6 viene infatti specificato
il culto che Dio voleva dal suo popolo e per il quale lo aveva liberato dalla
schiavitù dell’idolatria: «Ascoltare la voce di Dio e osservarne l’Alleanza».
È quello che in Cristo si esprimerà nella formula: «fare, cercare la volontà
del Padre» (Gv 4,34; 5,30; Mt 26,39.42; Me 14,36; Le 22,42).1

1 Basta rifarsi anche solo a Is 1, 10-20; 29, 13: « M i lodano con le labbra, ma il loro cuore
è lontano da m e»; Ger 14, 12; Amos 4,21-23; M i 6,6-8.
117 la Liturgìa culto della Chiesa

Di conseguenza la « spiritualizzazione » del culto nel N T è indubbia­


mente un punto di arrivo di un movimento di pensiero, che, se pure ha delle
coincidenze nel mondo ellenistico immediatamente precedente al cristia­
nesimo, deve essere visto soprattutto come maturazione di un pensiero « ri­
velato », che profeticamente tendeva alla sua vera prima realizzazione in
Cristo 1.

2 Dal « corpo » di Gesù al « corpo » di Cristo-Chiesa

Il « corpo » di Cristo, ossia Cristo nella sua concretezza umana inte­


grale, diventa così il prototipo dal quale la « Chiesa » trarrà il suo essere
« corpo » di Cristo sul piano del culto, e ciò avverrà proprio perché la pro­
spettiva cultuale riscontrata come insita nella umanità di Gesù, sintetizza
e raccoglie in unica « realtà », assurta a livello « spirituale », tanto il luogo
che la materia del culto dovuto a Dio.
La primitiva comunità cristiana, riflettendo sul « segno del tempio »
annunziato da Cristo (Gv 2, 21), per il quale il « corpo » di Gesù è il « tempio »
di Dio, acquisterà subito una piena coscienza che « Dio non può abitare
in un tempio fatto da mano d’uomo » (Atti 7, 48). A una tale riflessione si
riferisce Gv 2, 22 dicendo:
« Dopo la risurrezione di Gesù, i discepoli si ricordarono di quel che egli
aveva detto e credettero alla Scrittura e alle sue parole ».

Questo non vuol dire soltanto che i discepoli qualche tempo dopo capirono
che le parole di Gesù si riferivano a quanto la Scrittura aveva narrato a
proposito della «tenda-tempio» dell’A T ; ma col notare che ciò avvenne
dopo la risurrezione, l’evangelista vuole rilevare ancora un’altra cosa: Quel
culto « spirituale » che Cristo aveva instaurato nella sua esistenza terrena,
concludendolo con il «sacrificio» della sua morte, continuerà ad esistere
per effetto della risurrezione del « corpo », ormai vivo per sempre, di Cristo.
Il risorgere del Signore non è stato infatti solo il « rialzarsi » del suo « corpo »
in quanto tale, ma è stato il « rialzarsi del suo corpo-tempio non fatto da mano
d’uomo» (Gv 2 ,21; Me 14,58), un «tempio» che non si restringerà più
ormai solo al « corpo » umano di Cristo. Su di lui, che con la morte era
sembrato una « pietra rigettata al di fuori della vigna » (Mt 21, 42 da leg­
gere in funzione di Mt 21, 39), ma che con la risurrezione era diventato
una « pietra onorata » (1 Piet 2, 4) e « pietra di angolo » per la costruzione
del « nuovo tempio » a, si edificheranno « pietre vive su pietra viva », i cri­
stiani per formare «la casa spirituale di Dio» (1 Piet 2,5) e il « tempio dì
Dio nello Spirito » (Ef 2, 21-22).
I cristiani infatti per la loro unione a Cristo, reso « Spirito vivificante »
dalla risurrezione (1 Cor 15,45), diventeranno «spirito» anche nel loro
«corpo» (1 Cor 6, 16-17), che come tale è «tempio di Dio in forza dello12

1 Questa visuale considera la « spiritualizzazione » del culto come l’adempimento dell’annuncio


profetico e insieme come la prima attuazione di un culto già in origine « rivelato come spirituale » ;
ci sembra che essa possa utilmente integrare le considerazioni del Congar, 0. c.} 174-176.
2 II Salmo 118 (ebr.) che fa da base al discorso di Cristo (Mt 21,39-42) e a 1 Piet 2,4,
cantava la ricostruzione del tempio dopo resilio.
118 parte I - capitolo IV

Spirito che è nei loro corpi » (i Cor 6, 19; Volg. legge: « nello loro membra »).
In una sola parola: Il cristiano, per il fatto di essere possessore dello Spirito
comunicato loro dalla risurrezione di Cristo (Gv 7, 39), diventa nella sua
stessa corporeità anch’egli un tempio spirituale, come il corpo umano di
Cristo.
Ma i cristiani per questo processo di aggregazione al Cristo risorto, for­
mano una «costruzione che va crescendo nello Spirito» (Ef 2,20-21), co­
struzione la quale al momento stesso in cui si sviluppa nella forma di un
« corpo » — che è tale non sul piano sociale, ma in quanto « corpo » e
«compimento» di Cristo (Ef 4,13.15-16) — assume le caratteristiche
proprie del « tempio di Dio, santo e spirituale» (Ef 2,21-22; 2 Cor 6, 16;
1 Piet 2, 5). Così la Chiesa nasce come « corpo di Cristo » per essere il vero
« tempio di Dio ». Costruita su Cristo, e conseguentemente dopo Cristo, essa
continuerà nel mondo appunto il « tempio non fatto da mano d’uomo, rial­
zato » da Cristo con la risurrezione del suo « corpo ».
Ecco però che la polivalenza, già rilevata nel « corpo » umano di Gesù,
e per la quale esso era non solo il « luogo » ma anche il « soggetto-oggetto »
del culto, si presenta anche nel « corpo di Cristo-Chiesa ». Anche la Chiesa
sarà insomma e « tempio » e « offerta di se stessa » nel tempio.
La Chiesa soggetto-oggetto del culto. Nel culto del NT non vi sono, proprio
in ragione della sua «spiritualità», due distinti momenti: quello del «sa­
cerdote » che offre e quello della « vittima » che viene offerta. Quanto è
avvenuto in Cristo, che è stato l’offerente di se stesso (cfr. Ebr 9, 11-14;
io, io ecc.), avverrà anche nella Chiesa. Già la stessa evangelizzazione ha
valore di approntamento del sacrificio spirituale e perfetto che i pagani,
una volta convertiti, faranno di sé a Dio (cfr. Rom 15, 15-16). La vita cri­
stiana, vissuta nella fede, è «sacrificio e liturgia» (Fil 2, 17) e in questo
senso Rorn 12, 1-2 esorta i fedeli a « offrire i loro corpi (la vita concreta) in
vittima viva, santa e accetta a Dio come loro culto spirituale » (cfr. 1 Piet
2,5). « I cristiani — dice Paolo in Fil 3,3 — sono la vera circoncisione
(il vero Israele), consacrati al servizio liturgico nello Spirito di Dio » 1.
Giustamente e con molta acutezza sant’Agostino 12 ci spiegherà che la
Chiesa offre il proprio culto a Dio precisamente nel suo « essere corpo di
Cristo », poiché — egli dice — « il sacrificio dei cristiani consiste nelVessere
tutti un unico corpo in Cristo », ossia nel realizzarsi, attraverso la santità della
vita, come continuazione concreta della vita vissuta da Cristo nel suo corpo
umano.

3 II culto della Chiesa è sacramentale nel « corpo » di Cristo

Il formarsi del « corpo di Cristo » non deve intendersi unicamente su u


piano di assimilazione morale. Questo sarebbe vero se Cristo fosse solo il
maestro di una dottrina etica. Al contrario, nel cristianesimo si tratta di un
fatto che è in rapporto a quella stessa « immagine » di Dio, in vista del con­
seguimento della quale l’uomo fu creato e che è esistente in Cristo (Col

1 L. Cerfaux, Il cristiano nella teologia paolina, Roma 1969, 303.


2 Agostino, De civ, Dei, 10,6: PL 41, 283 ss.
119 la Liturgia culto della Chiesa

i, 15), e la cui realizzazione non può conseguirsi che attraverso il «com­


piersi» dell’uomo in Cristo (Ef 1,23; 4,13).
È quel che avviene appunto attraverso il processo « sacramentale » in
genere, per il quale l’uomo viene efficacemente inserito nel mistero di sal­
vezza che è Cristo, e in specie per quel processo, ugualmente « sacramentale »,
in cui la « partecipázioñe » al corpo-sangue di Cristo realizza la « comunione »
di tutti nell’unico « corpo di Cristo, che è la Chiesa » (cfr. 1 Cor io, 16-17).
È su questo theologoumenon, che certamente rientra nella rivelazione per es­
sere stato espresso da san Paolo e che sta alla base della dimensione pasquale
dell’Eucaristia — è infatti la Pasqua quella che porta all’esistenza il « po­
polo di Dio », radunandolo prima dalle 12 tribù e poi da tutte le genti —
che si costruirà tutta la teologia dell’Eucaristia in rapporto alla Chiesa x,
fino a far concludere che la realtà deWEucaristia consiste nel formare la Chiesa,
ossia l’unità del « corpo di Cristo » 123
. La cosa era sintetizzata nella formula
« VEucaristia fa la Chiesa », che riprendeva il pensiero di sant’Agostino, il
quale afferma che l’Eucaristia è il sacramento « col quale la Chiesa si forma
in comunità » 8.
Già « il battesimo di tutti nell’unico medesimo Spirito tende alla rea­
lizzazione di un unico corpo » e cioè a realizzare « Cristo » in persona
(1 Cor 12,12-13) nei singoli fedeli4*. Sant’Agostino rilancia la medesima
idea a proposito dell’Eucaristia in maniera fortissima, quando presenta
questa non sul piano di un’assimilazione .rtato-sacramentale, ma sul piano
della celebrazione liturgica e di tutto il realismo che questa implica nel suo
segno. Infatti Agostino, parlando dei cristiani che nella santità della loro
vita attuano quel sacrificio che li fa essere corpo di Cristo (v. sopra), dice
che « questa medesima cosa la Chiesa celebra anche nel sacramento dell’al­
tare, nel quale le viene insegnato che essa stessa è offerta in ciò che offre » e
cioè nel corpo sacramentale di Cristo.
Come si vede, Agostino non considera la Chiesa che diventa « corpo
di Cristo » per il fatto che si unisce al « corpo » sacramentale del Signore,
quanto piuttosto vede la Chiesa farsi corpo di Cristo perché si unisce a\Yofferta
e al sacrificio sacramentale del Signore. Il sacramento dell’Eucaristia ha
una duplice funzione: Da una parte esso riprende — per così dire — il
« sacrificio » per il quale la Chiesa, offrendosi nella santità della vita, si
fa « corpo di Cristo »; ma allo stesso tempo di quel sacrificio ne fa il « segno »
e la «realtà» («la Chiesa viene offerta») del sacrificio celebrato all’altare
e che è quello del corpo del Signore («ciò che la Chiesa offre»).
È superfluo notare che il pensiero agostiniano è nettamente debitore
qui come altrove6 di 1 Cor io, 16-17. Ci sembra invece da sottolineare
quello che or ora accennavamo e cioè il richiamo alla celebrazione eucaristica.
Qui vediamo infatti non una Chiesa già costituita che si unisce al sacramento
del corpo di Cristo, anch’esso beffe fatto: ma vediamo la Chiesa che si fa
« corpo di Cristo » facendo il « corpo di Cristo », come vediamo Cristo che
si offre offrendo la Chiesa. La conseguenza chiara e inequivocabile di tutto

1 È l’aspetto che sopra tutti gli altri è stato messo in evidenza dai Vaticano II ogni volta
che parla dell’Eucaristia.
* Tommaso d*Aquino, Summa TheoL, III, q. 73, a. 3; q. 82, a. 2 ad 2.
3 Agostino, Contra Faust., 12, 20: PL 42, 205*
4 L. Cerfaux, La théologie de VÈglise suivanl saint Paul, Paris 1942, 159, n. 1; 183; 217 ss.
6 Agostino, De civ. Dei, 10,6. Cfr. ibidem 10,20: PL 41, 283 ss.; 298.
120 parte I - capitolo IV

questo è una sola: La Chiesa è una comunità cultuale liturgica nell’unità


sacramentale con il « corpo » del Signore.
Concludiamo con il Gerfàux l} il quale dopo aver affermato che:
«la concezione della Chiesa-corpo di Cristo... appartiene a San Paolo
in proprio... nellajfunzione " liturgica ” attribuita al corpo risorto di Cristo,
che diventa il movo tempio » ;

così continua:
« Mediante il corpo di Cristo s’è realizzata la redenzione, morte e ri­
surrezione; il corpo di Cristo è Vambiente nel quale si attua la nostra santi-
tificazione e noi abbiamo contatto con lui attraverso il Battesimo e la
Eucaristia... D ’altra parte la Chiesa è... a suo modo anch’essa il luogo
dove col Battesimo i cristiani nascono e dove la comunità partecipa al
corpo di Cristo, il luogo dove la vita di Cristo investe gli uomini... I cri­
stiani hanno relazione a un corpo umano consacrato, che per loro è fonte
di unità reale, superfisica: il corpo di Cristo ch’essi ricevono sacramental­
mente nell5Eucaristia e col quale il Battesimo li pone in contatto. L ’unità
dei cristiani, che si realizza nella Chiesa, sarà connessa in modo speciale
con la nozione di partecipazione al corpo di Cristo... Il "p ara g o n e ”
ellenistico del corpo e delle membra..., nella sfera delle cose cristiane è
una " r e a ltà ” : noi non siamo solo come un corpo, ma siamo veramente
delle membra e Cristo è principio di unità e di vita tra noi... Il Bat­
tesimo ci ha consacrati al corpo di Cristo e l’Eucaristia ci identifica a
questo medesimo corpo di Cristo... in modo che Cristo sia realmente per
tutti i cristiani il loro corpo. I cristiani sono un corpo non per semplice
diritto di paragone, ma in un realismo sacramentale e mistico ».

4 II culto « locale » forma la « Chiesa locale »

Il detto fin qui è valido certamente, se applicato alla « Chiesa » intesa


sul piano della universalità, piano al quale un’indiscutibile evoluzione della
parola « Chiesa » ci ha ormai abituati. Tuttavia il senso ovvio del nostro
discorso, almeno per quel che concerne la presentazione che della Chiesa
ci fa la Scrittura, è certamente da intendersi sul piano della « Chiesa locale ».
La cosa è stata ampiamente documentata dal Cerfaux12, il quale tra
l’altro nota come la « Chiesa » si carica allo stesso momento di un duplice
senso, che è determinatamente locale e temporale: « Chiesa » è infatti il mo­
mento in cui si tiene l’assemblea cristiana: riunione in atto della Chiesa locale3*,
come si può vedere per es. dal modo di esprimersi di i Cor n , 18 e in ge­
nere da tutto i Cor 14. Questo rende normale che si parli di « Chiese do­
mestiche », che sono riunioni parziali in rapporto all’intera comunità locale.

1 Gir. in proposito alcuni esempi in Agostino, Sermo 227; 229; 272: PL 38, n o i ; 1103;
1247 ss.; ecc.
2 L. Cerfaux, 0. c.y 153 ss.
8 Ibidem, 155. L ’A. rileva anche che il termine « ekklesìa » congloba presto il significato bi­
blico di « comunità » — più naturalmente di stanza nell’ambiente cristiano — e quello elleni­
stico di « riunione-assemblea ».
121 la Liturgia culto della Chiesa

A parte queste conclusioni derivate dal fatto che le singole comunità cri­
stiane, a somiglianza di quella primitiva di Gerusalemme, sentono di attuare
in se stesse la realtà annunciata dalla « Chiesa del deserto» («luogo»), ra­
dunata nel «giorno dell’Horeb » («tempo»), e costruita nuova da Cristo
(Mt 16, 18; cfr. 18, 17), ci sembra che anche il fatto accertato più sopra,
secondo cui la « Chiesa-corpo di Cristo » ci riporta al « corpo di Cristo-
tempio di Dio », ci aw ii necessariamente verso una visione della « Chiesa »,
che può essere afferrata nella sua intima natura solo se ripensata come co-
munita liturgica prima di tutto a livello locale. Se infatti il « corpo di Gesù-
tempio di Dio » ci richiama a un culto templare svolto nel « corpo-persona »
di Gesù per affermare l’evoluzione dello stesso culto in senso « spirituale »,
è anche vero che il « corpo di Gesù », realizzando in sé il « tempio di Dio »,
acquisisce al proprio culto una dimensione veramente locale, anche se dissi­
mile da quella che il culto ebraico riceveva dal tempio di Gerusalemme.
Diciamo infatti: «dissimile» perché è evidente che non pensiamo a un
culto situato nel « corpo » di Gesù come in un « luogo », che si possa de­
finire tale in base alla sua composizione materiale. Si vuol dire soltanto che
il « corpo » di Gesù sta al « culto » come il « tempio » sta al « culto »,
dove l’analogo principale non è — nonostante le apparenze — il « tempio »,
ma il « corpo » del Signore, poiché il punto di riferimento dell’uno e dell’altro,
vale a dire il « culto », è vero e reale solo in un caso, e cioè in rapporto al
« corpo » di Gesù, e quindi questo è anche il solo vero « tempio » di Dio, ossia
il solo e vero « luogo del culto ».
Stabilita inoltre (v. sopra) l’equazione « corpo di Gesù-corpo di Cristo
(Chiesa) » e « tempio », resta chiaro che la « Chiesa » è comunità di culto
sul piano locale sia perché è il luogo del culto vero per il fatto di essere « corpo
di Cristo », sia perché è comunità che si trova in un luogo. Sappiamo anche
che tutto questo avviene nel processo sacramentale dell’Eucaristia, che nel­
l’unità del « pane-corpo di Gesù » forma la comunità del « corpo di Cristo-
Chiesa ». Ma in che senso l’Eucaristia, formando la « Chiesa », la costituisce
tale a livello locale?
Senza addentrarci a fondo in questo tema, ci piace concluderlo richia­
mandoci a quanto in proposito ci dice il Rahner. Premesso il duplice prin­
cipio : che « la Chiesa locale è il farsi evento della Chiesa universale » x, e
che « la celebrazione eucaristica è il momento in cui la Chiesa si fa evento
nella maniera più intensa»8, il Rahner insegna ancora:
« L a celebrazione eucaristica... ha come carattere essenziale di essere
determinata localmente, non potendo essere fatta che da una comunità
radunata in un luogo ben preciso. Orbene questo significa che la Chiesa...
è destinata per sua stessa natura a concretizzarsi e attuarsi in un luogo
determinato. Essendo l’Eucaristia una celebrazione locale, è chiaro che
non solo avviene nella Chiesa, ma è evidente che questa stessa diventa
un corpo visibile, in tutta la forza del termine, solo nella celebrazione
locale del santo sacrificio... È vero quindi che vi è l’Eucaristia perché
vi è la Chiesa, ma anche... che vi è la Chiesa perché vi è l’Eucaristia» 8.12
3

1 K. Rahner in: Rahner ~ Ratzinger, Episkopat u. Pritnats Freiburg 1961, 27.


2 Ibidem, 26.
3 K. Rahner, Chiesa e sacramenti, Brescia 1966, 82 ss.
122 parte I - capitolo IV

Potrebbe sembrare che qui la « località » della Chiesa risulti su un piano


piuttosto « esterno », legato solo al fatto di una « celebrazione », che non
può in concreto avvenire se non in un luogo e tempo determinati. Anzi si di­
rebbe che si tratti di un fatto puramente « epifanico », come risulterebbe dal
richiamo alla « visibilità » della Chiesa.
Ma le cose non stanno così. Il Rahner sa molto bene che una celebra­
zione eucaristica agisce a livello di «segno efficace» e cioè: mentre pro­
voca il « segno » della Chiesa-comunità, realizza anche il « contenuto »
del segno, facendo della Chiesa il «corpo di Cristo». Egli così si esprime:
« Senza dubbio la celebrazione dell5Eucaristia è un avvenimento centrale
nella Chiesa. Anche oggi non bisogna stancarsi di porre l’accento sul
fatto che la Messa... non va concepita solo come il costituirsi della pre­
senza reale di Cristo nel sacramento in funzione di una comunione in­
tesa il più possibile in senso individualistico... Noi possiamo e dobbiamo
dire: la partecipazione al corpo fisico di Cristo mediante la sua mandu-
cazione, ci elargisce la grazia di Cristo, in quanto questo comune man­
giare dell’unico pane (i Cor io, 14-18) è segno efficace della parteci­
pazione... e dell’incorporazione in quel corpo di Cristo, in cui solo si
può aver parte allo Spirito Santo e cioè nella Chiesa » L
Ci sembra che questo ritorni per altra via a confermare quel che abbiamo
detto piu sopra: la Chiesa si fa realmente corpo di Cristo in quanto, per la
sua unione spirituale al fisico corpo di Gesù, presente come vero sacrificio,
diventa essa stessa il luogo del culto del NT, un « luogo » che è « reale »
come era reale il corpo umano del Signore. In forza di questa realtà la co­
munità è « locale » non solo sul piano esterno e di certo non è tale solo
perché « appare » localmente. Agostino ci ha spiegato che la celebrazione
liturgica è il momento nel quale la Chiesa si fa «corpo di Cristo»; e questo
vuol dire che la celebrazione con le sue necessarie componenti di tempo e
luogo è il momento nel quale il « popolo di Dio » passa ad essere formal­
mente «Chiesa»: Comunità radunata per la liturgia.

Il la Chiesa, comunità sacerdotale

Il compito di « realizzare e attuare » la Chiesa da « comunità cultuale »


alla posizione più specifica di comunità sacerdotale è riconosciuto, secondo un
modo loro proprio, a tre sacramenti: Battesimo, Ordine ed Eucaristia12.
Il Battesimo è il primo e generale sacramento, per il quale tutti i fedeli
vengono «incorporati a Cristo... e resi partecipi dÚVufficio sacerdotale» di
lu i3 in modo da essere atti a compiere quel « culto della religione cristiana »
al quale sono destinati appunto dal « carattere battesimale » 4.
Per questa via, e cioè in forza della loro partecipazione all’ufficio sacer­
dotale di Cristo, frutto della « consacrazione » ricevuta in Battesimo, i cri­

1 Ibidem , 83 ss.
2 LG i i . ‘
123 la Liturgia culto della Chiesa

stiani sono chiamati « a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo » 1,


vale a dire un « corpo » o « comunità sacerdotale », quale è appunto la
Chiesa-Popolo di Dio 123 . Ma « Chiesa », « Popolo di Dio », « corpo sacer­
dotale », pur includendo nel loro nome l’idea della « visibilità », di fatto
sono realtà interiori, « nascoste con Cristo in Dio » 8.
E in effetti ogni cristiano, in quanto singolo membro di Cristo, vive la
sua « incorporazione » al Signore, la sua natura « ecclesiale » e di « Po­
polo di Dio », come pure il suo carattere « sacerdotale », quando attraverso
la propria santificazione e la ricerca continua della gloria di Dio consacra
se stesso, le proprie cose e il mondo, nel quale vive, a Dio. Allora il cri­
stiano vive in invisibile unione con Cristo, capo invisibile del suo Corpo
sacerdotale, che è la Chiesa-Popolo di Dio.
Ma tanto un « corpo », quanto un « popolo » non appaiono tali, se non
per una distinzione di « struttura », che esige non solo la presenza di membra
diverse ma di un capo visibile, perché solo attorno ad esso si può rendere vi­
sibile quel corpo sacerdotale di Cristo, o quel Popolo di Dio che è la Chiesa.
Si tratta infatti di creare una visibile unità tra le membra del corpo 4,
di « formare il Popolo sacerdotale » 56e di « attuare la comunità sacerdotale »
della Chiesae. Ed ecco quindi che il Signore « promuove alcuni dei fedeli »
prendendoli da quel « suo Corpo mistico, nel quale tutti i fedeli formano già
un sacerdozio santo », per dare loro con un sacramento particolare, che è quello
delPOrdine, una « sacra potestà », ossia una « partecipazione a\Yautorità>
con la quale Cristo fa crescere, santifica e governa il proprio Corpo » 7.
Quelli che in tal modo vengono scelti sono « segnati con un carattere par­
ticolare, che così li configura a Cristo sacerdote, da poter agire in nome di
Cristo-Capo della Chiesa » 8, diventando così capi sacerdotali del « Corpo »
o « comunità sacerdotale », che è la Chiesa.
Una parola di spiegazione. Come dicevamo, ogni singolo cristiano eser­
cita sempre, ma individualmente, l’ufficio sacerdotale cui è stato consacrato
per il suo inserimento a Cristo nel Battesimo, ogni qualvolta vive nella san­
tità della vita derivata a lui da Cristo. La santità infatti è un atto di culto
(Rom 12, i), anzi un «sacrificio» (Rom 15,16; 1 Piet 2,5), e perfino
una «Liturgia sacrificale» (Fil 2, 17). Sant’Àgostino, dopo aver detto che
« quello che comunemente si chiama sacrificio è solo segno del vero sacrificio »
e che questo « consiste in ogni opera buona fatta per unirci santamente a
Dio », prosegue spiegando :

« È sacrificio Vuomo stesso, quando consacrato dal nome di Dio e a lui of­
ferto, muore al mondo per vivere a Dio... Vi è un sacrificio del corpo, quando,
per Dio, lo mortifichiamo nella temperanza... Ancor più diventa un
sacrificio l'anima stessa, che, dirigendosi a Dio, si accende del suo amore
fino a perdere ogni forma di desiderio mondano... In questo modo av­
viene che tutta intera la città dei redenti, ossia la comunità dei santi,

1 L G io ; cfr. 9; A A 3; P O 2.
2 L G zi.
3 L G 6.
4 P O 2.
5 L G io.
6 LG ii.
7 P O 2.
8 P O 12.
124 parte I - capitolo ¡V

diventa sacrificio universale offerto a Dio per il tramite di quel sommo sa­
cerdote (Cristo) che nella sua passione si offrì per noi, secondo la sua
forma umana, per fare di noi il suo corpo... Questo infatti è il sacrificio
dei cristiani: diventare tutti un solo corpo in Cristo » 1.
Come si vede, la santità cristiana non è solo un fenomeno di perfezione
morale, ma è soprattutto ricerca di adesione a Dio, realizzata attraverso
il « sacrificio » di se stessi, e riveste quindi un aspetto fondamentalmente
cultuale sia per il modo in cui si attua (sacrificio di se stessi), sia per la sua
origine : nasce infatti da una iniziale « consacrazione » per la quale si è
offerti a Dio. Non è neppure un fatto che rimanga o debba rimanere chiuso nel-
Yindividuo, perché, pur toccando il singolo, la santità cristiana si realizza in
quella « forma (natura) umana », che per essere già stata offerta da Cristo,
assimila tutti gli uomini a lui nel momento stesso del suo sacrificio, perché
appunto « nella sua umanità Cristo offrì e fu offerto » ossia « fu sacerdote
e sacrificio » allo stesso tempo.
In questo modo, in forza di una santità, che tutti ci accomuna nel sa­
crificio del « Capo », e ci rende per ciò stesso « Corpo di Cristo », tutta
quella umanità, nella quale la grazia della redenzione agisce come principio
santificatore, diventa « universale sacrificio offerto a Dio ». Il momento
cultuale della santità cristiana si fonde qui nella stessa dimensione ecclesiale,
che è la dimensione base del cristianesimo.
In altre parole: la santità, frutto dell’azione sacerdotale dell5individuo,
in realtà ha contribuito alla costruzione della Chiesa, vista nella sua realtà
interiore, che consiste nell5« essere tutti un solo corpo in Cristo», ossia,
secondo Gv 17, 21, nel « diventare tutti una cosa sola con lui e in lui ».
Ma tanto l’aspetto « cultuale » quanto quello « ecclesiale » insiti nella
santità cristiana, non restano allo stato di latente intenzione e — rispettiva­
mente — di realtà interiore, ma sfociano ineluttabilmente nella Liturgia,
la quale darà forma ed espressione sacramentale alla realtà interiore della
Chiesa («comunità di santi») portandola su un piano di comunità visi­
bile attraverso un segno, che è rivelatore e insieme efficace di quella unità
nella santità, che l’idea stessa di Chiesa implica.
È questa la funzione dell’Eucaristia, terzo dei sacramenti destinati —
come sopra dicevamo — ad attuare la « comunità sacerdotale ».
Sant’Agostino, arrivato col suo discorso alla conclusione che l’atto di
culto per eccellenza, « il sacrificio dei cristiani è l’essere tutti un solo corpo
in Cristo », continua dicendo :
« Questo è quello che la Chiesa celebra anche nel sacramento dell’altare,
sacramento nel quale le viene significato che essa stessa è offerta nella
cosa che offre » 12.
Il senso è chiaro: il sacrificio dei cristiani, che consiste in una reale ma
interiore unione a Cristo, fino a formare con lui un corpo solo, si realizza
anche sacramentalmente, e cioè attraverso un « segno sacro », forma rituale, di
cui la Chiesa comprende il « significato» (« demonstratur ») : sa infatti che la
sua unione a Cristo, come la sua offerta a Dio, non sono solo interiori inten­

1 Agostino, De Ciu. Dei. io, 6: PL 41, 283 ss.


2 Agostino, 1. c., 284.
125 la Liturgia culto della Chiesa

zioni, ma acquistano quella superiore consistenza e quel valore unico che


ad esse provengono dalla sacramentale presenza del sacrificio di Cristo. La Chiesa
infatti « viene offerta in quella medesima cosa che essa offre » e cioè nel
sacrificio di Cristo. La Chiesa, come Cristo, «è sacerdote e vittima»; ma
in questa duplice caratteristica essa si realizza appunto come « Chiesa »,
cioè come « città santa di redenti » che è insieme « Popolo di Dio » e « co­
munità sacerdotale», quasi in due momenti distinti: prima nel Battesimo,
che è inserimento nel « Corpo di Cristo » (cui si aggiunge la Confermazione,
per la quale si diventa portatori dello « Spirito ») e poi, in un secondo
momento, che chiameremo « perfettivo » e di « consumazione o adempi­
mento totale », con l’Eucaristia.
In altre parole; c5è un atto di culto, che ogni singolo cristiano, consacrato
dal Battesimo, offre quotidianamente a Dio con la santità della vita; per
mezzo di esso egli entra nella realtà interiore della Chiesa, come pietra sin­
gola in un edificio che è il tempio santo del Signore, fondato sulla pietra an­
golare che è Cristo (cfr. Ef 2, 20-22; 1 Piet 2, 5).
Ma questo atto di culto si sviluppa e si completa in una Liturgia pro­
priamente detta, ossia in una celebrazione sacramentale, che è quella della
Eucaristia, nella quale l’unità visibile creata dal « segno sacro » rivela a
tutti e mette davanti a Dio come fatto ecclesiale, ossia come Chiesa in atto,
quella santità che, già interiormente realizzata, nel « sacramento » diventa
manifestazione cultuale vera e propria, unitaria e comunitaria del « Popolo
di Dio », e cioè di una « Comunità sacerdotale » in atto. In questo mo­
mento, per la presenza del sacrificio di Cristo-Capo, sorge propriamente la
Chiesa-comunità sacerdotale, che offrendo se stessa nell’oblazione di Cristo di­
venta « sacramento » del sacerdozio e del sacrificio di Cristo.
Siccome però il « sacramento » viene compiuto dal « sacerdote mini­
steriale » a cui soltanto, come a vic^rio-auctor salutis, è conferito con il
Sacramento dell5Ordine il potere di trasformare il pane — « segno » della
Chiesa — nella « realtà » del Corpo di Cristo, è appunto il « sacerdote mi­
nisteriale » colui che mette la Chiesa in condizione di essere « attuata » e
« formata » come « comunità sacerdotale » in atto. Per mezzo dell’azione li­
turgica del « sacerdote capo », l’azione liturgica del « corpo sacerdotale », che
è la Chiesa, diventa vero e « attuale esercizio dell’unico sacerdozio di Cristo ».
È appunto muovendosi in questa prospettiva di convergenza dei tre sa­
cramenti del Battesimo, Ordine ed Eucaristia, che il Vaticano II stabilisce
insieme le basi del mistero della Chiesa e insieme ne scopre l’intima finalità
cultuale e la specifica natura sacerdotale. Ma allo stesso tempo è per questa
via che chiaramente risulta e s’illumina la parte che la Liturgia ha in tutto
questo. Infatti proprio in quanto « esercizio del sacerdozio di Cristo » la
Liturgia « fa sì che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri
il Mistero di Cristo e la genuina natura della Chiesa » L
Così, per citare solo qualche passo, leggiamo che i sacerdoti
« Agendo in persona di Cristo, uniscono le preghiere dei fedeli al sacri­
ficio del loro Capo C risto»12;

1 SG 2.
2 L G 28.
126 parte I - capitolo IV

PO 2, ispirandosi a sant’Agostino (vedi sopra), ci dice:


« Per il ministero dei presbiteri il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso
perfetto, perché viene unito al sacrificio di Cristo, unico mediatore;... il
loro servizio... ha come scopo che tutta la città redenta, cioè la comunità
e società dei santi offra a Dio un sacrificio universale per mezzo del gran
sacerdote, il quale ha anche offerto se stesso per noi nella sua passione,
affinché diventassimo corpo di così eccelso Capo ».

Questa « sacramentalizzazione » della vita, operata dalla Liturgia, nella


quale con Cristo e in nome di Cristo agisce ministerialmente il sacerdote,
capo della comunità sacerdotale, viene di nuovo così presentata in LG 34:
« Tutte le opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniu­
gale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale...
e persino le molestie della vita... diventano sacrifici spirituali graditi a Dio
per Gesù Cristo, i quali nella celebrazione deWEucaristia sono piissimamente
offerti al Padre insieme alVoblazione del Corpo del Signore ».

Per questa ragione e sotto questo profilo PEucaristia appare, oltre che
« fonte e culmine di tutta Pevangelizzazione sacerdotale », anche come
mezzo per il quale « i fedeli sono pienamente inseriti nel Corpo di Cristo »
e conseguentemente come Peffettivo
« centro della comunità dei cristiani presieduta dal presbitero, che insegna ai
fedeli a offrire la vittima divina nel sacrificio della messa e a fare in
unione con questa vittima Pofferta della propria vita » l.

In altri termini, il ministro, compiendo Pofferta sacramentale del Corpo


di Cristo e innestando e immedesimando in essa Pofferta della Chiesa, « attua »
il sacerdozio di questa in una Liturgia, che è il vero culto del N T, perché è conti­
nuazione dell5unico vero sacerdozio di Cristo comunicato alla Chiesa-Corpo,
e attuato in questa da colui, che come Capo vicario di Cristo, è principio
dinamico in forza del quale il Corpo sacerdotale agisce.
E evidente che da questa duplice posizione sacerdotale esistente:
a) nella Chiesa e nel Popolo di Dio come «corpo sacerdotale»; e
b) nel ministro di Cristo come « capo sacerdotale »,
anche la Liturgia in quanto esercizio del sacerdozio di Cristo assume, come na­
turalmente e di conseguenza, due dimensioni:
1. quella di azione sacerdotale del Corpo di Cristo e
2. quella di azione sacerdotale del Capo nel Corpo di Cristo.

Queste due dimensioni non sono certo su piani autonomi e tanto meno
indipendenti. Sono infatti azioni sacerdotali « ordinate Puna all’altra » 12,
e precisamente nel senso di una tale convergenza nell’unicità dell’azione
liturgica, che questa risulta come unica azione sacerdotale nella quale agiscono

1 PO 5.
2 LG io.
127 la Liturgia culto della Chiesa

il ministro-capo visibile e la Chiesa-corpo visibile di Cristo. In verità la


celebrazione liturgica, non provenendo dal ministro o dai fedeli quasi fossero
« persone private, ma dalla Chiesa-sacramento di unità, appartiene sempre
a tutto il Corpo della Chiesa » \

In altre parole: il sacerdozio è presente nei singoli cristiani in forza di un


inserimento in Cristo; ma questi stessi cristiani rivestono la qualifica di « Po­
polo sacerdotale » e « comunità sacerdotale » solo quando sono formati e
attuati come popolo e comunità sacerdotale, in forza del dinamismo liturgico
insito in loro, da colui che come « capo sacerdotale visibile » lo possiede per
virtù di un sacramento, dal quale è costituito attuatore e « auctor » vicario
della salvezza di Cristo.

I li Liturgia e sacerdozio comune

La Costituzione liturgica, contro ogni previsione, non apporta molto svi­


luppo in materia di « Liturgia e sacerdozio comune ». Essendo essa entrata
come primo schema nella discussione conciliare, si trovava ancora fortemente
influenzata da posizioni così energicamente difese dai documenti di Pio X II.
Quasi avvertendo che il « sacerdozio comune » — pure di importanza
fondamentale per la piena comprensione della Liturgia — era argomento
« tabù », la SC 14 appena lo nomina di passaggio, per affermare che il
popolo cristiano, « in quanto regale sacerdozio ha il dovere e il diritto, in
forza del Battesimo, di prendere parte alla Liturgia ».
Anche data così di sfuggita questa affermazione riveste una grande im­
portanza, perché viene enunziata la ragione ultima della partecipazione
dei fedeli alla Liturgia : Non è né « privilegio », né « concessione », ma
« dovere e diritto » fondato su un « sacerdozio » di origine « sacramentale »
(Battesimo).
Nella SC 26 — tenendo presente che Liturgia è culto della Chiesa —
si afferma che « le celebrazioni liturgiche non sono azioni private, ma ce­
lebrazioni della Chiesa, sacramento di unità, e cioè popolo santo, radunato e ordinato
sotto l’autorità dei vescovi. Perciò sono celebrazioni che appartengono all'in­
tero corpo della Chiesa, la manifestano e la implicano; i singoli membri vi sono
interessati in diverso modo, secondo la diversità di stato, di uffici e di parte­
cipazione attuale ». Non appare il termine « sacerdozio dei fedeli », ma esso
sta alla base delPaffermazione. Soggetto della celebrazione è infatti tutta
la Chiesa senza distinzione, e cioè in quanto composta di capo e di membra.
D ’altra parte se vi è differenza di rapporti tra i singoli e la Liturgia, tale dif­
ferenza non è data dal « sacerdozio » degli uni c dal « non sacerdozio »
degli altri, ma dalla diversa posizione («stato») che possono avere nel sa­
cerdozio stesso.
Ma la comprensibile timidezza della Costituzione liturgica in materia di
« sacerdozio dei fedeli » non dura negli altri documenti conciliari.1

1 SC 26.
128 parte I - capitolo IV

Nella Costituzione sulla Chiesa il « sacerdozio » del popolo di Dio è


posto come il termine conclusivo di una breve sintesi della « storia della
salvezza » e come espressione della « nuova e perfetta alleanza avvenuta
in Cristo e della più piena rivelazione » manifestatasi nelPincarnazione del
Verbo di D io 1. Conseguentemente la Chiesa è una « comunità sacerdo­
tale » 12 nel suo insieme, perché « tutti i discepoli di Cristo » sono stati
fatti5 per la stessa ragione che li designa « nuovo Popolo di Dio », anche
suoi « sacerdoti » e ciò in fòrza di una « consacrazione » che viene a
tutti dal comune « Battesimo » 3.

Che la qualifica sacerdotale si estenda veramente in una maniera reale


a tutta la Chiesa, ci viene ripetuto in forma solenne nel Decreto Presbyte­
rorum Ordinis 2, dove si afferma che « tutto il Corpo mistico di Cristo » ossia
« tutti i fedeli formano un sacerdozio regale », in quanto tutti partecipano
all’unzione con cui Gesù fu consacrato («fu unto» — fu fatto «Cristo»)
dalla presenza dello Spirito Santo nella sua umanità4.

Questo « sacerdozio », designato come « comune » 5, proprio ad in­


dicarne la universale estensione a tutti i cristiani e non a una parte sol­
tanto della Chiesa, ritorna subito in primo piano quando la Lumen Gentium
si occupa dei « laici », che con « i religiosi e il clero » formano uno dei tre
gruppi, nei quali si integra il « Popolo di Dio » fl. Dopo aver affermato
che anche ad essi, « siano uomini o donne », era diretto tutto il discorso
sul « Popolo di Dio », e quindi anche quel che era stato detto sulla sua quali­
fica di « comunità sacerdotale », il Concilio nel caratterizzare in partico­
lare questo gruppo di fedeli, « ad esclusione dei membri debordine sacro
e dello stato religioso », ne traccia la fisionomia ecclesiale in tre compo­
nenti: incorporazione a Cristo, costituzione in Popolo di Dio, partecipa­
zione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo 7.
Ora se di queste tre componenti vogliamo individuare quella della « in­
corporazione a Cristo » come Pelemento fontale da cui le altre due deri­
vano, è certo che queste non possono non avere la stessa verità e realtà della
prima. La lettura del documento conciliare ampiamente dimostra che par­
lando di « sacerdozio comune », lontanamente non intende qualificare
questo né come un « sacerdozio » in senso minore o, per così dire, dimi­
nuito, né tanto meno, come un «sacerdozio» puramente «metaforico».
In altre parole: Vuniversalismo sacerdotale cristiano è un’affermazione che
conserva intatto tutto il suo valore e la sua concretezza, al di fuori o al di
qua di qualunque interpretazione « metaforica », e quindi tutto il popolo
cristiano è insignito di una vera dignità sacerdotale, frutto di una altrettanto vera
vocazione ed elezione sacerdotale.
Questo naturalmente non vuole né escludere la funzione né diminuire,
nei confronti del « sacerdozio comune », Pimportanza di quella partico­

1 L G 9.
2 L G 11.
3 L G 3.
4 II decreto cita M t 3, 16: battesimo di Cristo; Le 4, 18: profezia della missione spirituale-
messianica di Gesù; A tti 4 ,2 7 ; 10,38 : riferimento al battesimo di Cristo.
5 L G io.
129 la Liturgia culto della Chiesa

lare forma di sacerdozio, che si chiama « ministeriale o gerarchico » 1.


L ’uno e l’altro non sono infatti che una differente esplicitazione dell’unico
sacerdozio di Cristo, e questa differenza non esiste sul piano di una maggiore
o minore capacità sacerdotale dei ministri e dei fedeli, ma soltanto in un di­
verso rapporto di partecipazione al sacerdozio di Cristo.
Il Concilio infatti chiaramente proclama che:
« Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quan­
tunque differiscano tra loro essenzialmente e non solo di grado, sono
tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a modo
suo, partecipano deir unico sacerdozio di Cristo » 3.
Si tratta quindi di un «sacerdozio» che è sempre unico: unico in Cristo
e unico nella Chiesa; ma nella Chiesa esso esiste in una duplice dimensione.
Le due dimensioni non dicono differenza di gradualità (sacerdozio « maggiore »
nei ministri, o « minore » nei fedeli), ma esprimono due diversi modi di esistere
o di essere (differenza essenziale) dell’unico sacerdozio di Cristo nella Chiesa.
Questa diversità di essere e di esistere nasce:
1. Dal differente rapporto che il fedele e il ministro hanno con Cristo,
in quanto il fedele è membro del Corpo di Cristo, il ministro invece ha la funzione
di capo (vicario) nel Corpo di Cristo.
2. Dal differente modo di origine del sacerdozio nella Chiesa: infatti il
sacerdozio dei fedeli proviene da Cristo mediante il sacramento del Battesimo
(inserimento nel Corpo di Cristo) e quindi è universale, come universale è
il Battesimo; quello del ministro invece è dato dal sacramento deWOrdine
(elevazione a capo nel Corpo di Cristo) e di conseguenza è particolare, perché
particolare è la posizione del capo nei confronti dell’universalità del corpo.

Nonostante questa profonda differenza di rapporto al sacerdozio di


Cristo, tanto il sacerdozio dei fedeli quanto quello ministeriale hanno una
intima relazione tra loro, poiché Tuno e l’altro sono ordinati finalistica­
mente non ad un culto, genericamente religioso, di Dio, ma al culto unico
di Cristo esercitato nella Chiesa. Ma dicendo « culto di Cristo esercitato nella
Chiesa », noi parliamo di un’azione del capo (Cristo) nel corpo (Chiesa) e
quindi abbiamo un’azione cultuale che viene promossa e attuata dal capo
(sacerdote-vicario di Cristo) nella Chiesa-Corpo di Cristo.
E questo fa sì che il sacerdozio ministeriale sia ordinato ad « attuare »
il sacerdozio fondamentale dei fedeli.
In una parola: la differenza di piani nella attuazione dell’unico sacer­
dozio di Cristo nella Chiesa riflette principalmente la duplice posizione
che Cristo ha nei confronti della Chiesa. Ne è infatti il « capo », ossia prin­
cipio reggente; ma forma con essa anche la totalità del suo « corpo ». Con­
seguentemente, Cristo può trasmettere il « suo sacerdozio » a un doppio
titolo: lo comunica alla Chiesa, facendo di essa, nella sua totalità, il suo
« Corpo sacerdotale » ; ma in essa lo comunica anche — in quanto « capo
del corpo » — a persone particolari, perché siano « capo e principio at-
tuatore » del suo culto nell’ambito stesso del « Corpo » che è la Chiesa.

1 LG io.
3 LG IO:
130 parte I - capitolo IV

IV sacerdozio spirituale e sacrificio spirituale

Purtroppo bisogna convenire che nel Concilio non è stata raggiunta la


necessaria chiarezza in materia di « sacerdozio comune », quando si tratta
di applicare questo alla posizione « liturgica » dei fedeli.
È un fatto che molto spesso nei documenti conciliari — e sempre nel
medesimo contesto — ogni volta che si deve stabilire il rapporto tra « sacer­
dozio » e « sacrificio », si parla di « sacrifici spirituali » — e al plurale —
se si tratta di « sacerdozio comune », mentre si parla di offerta del « sacri­
ficio » — senza specificazioni e al singolare — quando è in questione il
« sacerdozio », che viene detto « pubblico e ufficiale » e che è quello confe­
rito dal sacramento delPOrdine.
Se questa contrapposizione è reale, non si può evitare la conseguenza
che ne deriva, e cioè: la Liturgia, in quanto esercizio del sacerdozio pubblico e
ufficiale^ appartiene direttamente e primariamente al ministro e quindi il
« sacerdozio dei fedeli » non sarebbe in effetti qualificabile come esercizio
di un’azione liturgica specificata dall’offerta del sacrificio di Cristo, ma
solo come esercizio di un atto di culto genericamente cristiano, che si attua nella
spicciola santità della vita. Al massimo questa santità denominata « sacri­
ficio spirituale » diventa « liturgica » per aggiunta, in quanto viene unita
al sacrificio di Cristo, celebrazione riservata per sé al sacerdote ministeriale.
In pratica, se così stanno le cose, saremmo rimasti alle note posizioni della
Mediator Dei (vedi sopra, pp. 82 e 106-107).
In fondo a questa posizione, che innegabilmente tradisce incertezza e
mancanza di chiarezza, vi sono due idee ancora abbastanza radicate:
a) che i « sacrifici spirituali » consistenti nella santità della vita sono
detti « sacrifici » solo in senso analogo, se rapportati al « sacrificio eucaristico »,
che solo è vero «sacrificio»;
b) che nella stessa azione del sacrificio eucaristico, nel quale — a quanto
si afferma — tutto il popolo cristiano ha « parte attiva », soltanto il sacer­
dote ministeriale, come colui che solo possiede il « sacerdozio vero e pro­
prio » 1 è chiamato a «fare il sacrificio» («sacrifica»), mentre i fedeli vi
sono unicamente come « offerenti » per mezzo di lui, o come « coofferenti
con lui » 12.
Senza entrare in tutta la problematica che questa posizione, diventata
in certo senso tradizionale, implica; e pur non dimenticando che il tema
è per sé specifico — riguarda infatti il « sacrificio » e le sue forme — ci
sembra che la questione meriti di essere esaminata un po’ a fondo, perché
certamente può contribuire a chiarire il concetto stesso di « Liturgia »,
soprattutto per quanto riguarda il suo reale punto di incontro con la
« Chiesa ».
1. È certo che la difficoltà a vedere nel «sacerdozio dei fedeli» un
rapporto diretto con la Liturgia nel suo esercizio, nasce dall’idea (v. sopra),
che nella Chiesa esista come solo « vero sacerdozio », quello gerarchico.

1 Pio X II, Allocuzione del 2 novembre 1954, in AAS 45, 1954. 6^7 e 669.
2 Pio XTT. Allocuzione al Congresso internazionale liturgico di Assisi, in AAS 48. 1956, 716-717.
131 la Liturgia culto della Chiesa

2. È chiaro che l’idea di questo solo « vero sacerdozio » è collegata alla


opinione che esso è tale, perché è il solo ad esercitare il « vero sacrificio »,
e cioè quello rituale, che nella Chiesa è l’Eucaristia.
3. Come prova di questo sarebbe l’affermazione di 1 Piet 2, 5-9, secondo
cui il « regale sacerdozio » di cui sono insigniti tutti i cristiani, è un « sa­
cerdozio santo », che esplica la sua attività nell’offerta di sacrifici esclu­
sivamente « spirituali », quelli cioè che vengono offerti nella santità della
vita e che come tali non rientrano né nell’idea né nell’esercizio della Li­
turgia, che per definizione sarebbe una celebrazione esteriore; essi infatti si
distinguono — pur senza vedervi un « antagonismo » che non esiste —
come « culto spirituale interiore » dal « culto eucaristico, esteriore e mi­
stico » h
4. Come controprova dell’esattezza di queste deduzioni starebbe il fatto
che in 1 Piet 2, 5: «le espressioni tempio, sacrificio, sacerdozio sono tutte usate
per metafora » e cioè secondo una trasposizione per analogia, che parte, spi­
ritualizzandola, dalla realtà del tempio, dei sacrifici e del sacerdozio del-
l’A T 12*. Questo porterebbe alla conclusione che a difesa di una presunta reale
attività liturgica dei fedeli non ci si può richiamare alla loro appar­
tenenza al « sacerdozio santo », perché la Liturgia si celebra in un tempio
reale, con sacrifici reali e suppone un sacerdozio reale; tutte cose che non
si esprimono in una metafora. Infatti anche se la formula di 1 Piet 2, 5-9:
« merita di essere rimessa in onore... essa non deve esprimere direttamente t pri­
mariamente la partecipazione dei fedeli al culto eucaristico,., ; questa infatti può
aversi altrimenti che richiamandosi all’idea del sacerdozio universale » 8.

In conclusione, siamo — come si vede — su un piano di netta distin­


zione tra « sacrifici spirituali » che sono interiori, e « sacrificio eucaristico »
— che poi è quello in cui si sintetizza tutta la Liturgia — il quale è este­
riore. Ma mentre questo è vero sacrificio, tale cioè che « ad esso solo corri­
sponde un sacerdozio ministeriale » 4, quello « spirituale » è detto « sacrificio »
solo per « metafora », in quanto « attribuisce a tutto un popolo quei privilegi
che sono naturalmente prerogativa di una sola classe o casta di esso » 56 .
1 L. Cerfaux, Regale sacerdotium, in « Recueil L. Cerfaux », II, Gembloux 1954, 314.
2 Ibidem, 302.
8 Ibidem, 315. Questa posizione, assai comune negli ambienti cattolici — si direbbe per un certo
timore di vedere diminuito il « sacerdozio gerarchico » — è stata messa fortemente in crisi dal pro­
testante E. Lohmeyer, Vom christl. Abendmahl, in « Theol. Rundschau» 9, 1937, 296, il quale ri­
tiene che i Piet 2, 5-9 si muova in un « tale contesto, che l’Eucaristia vi ha, per così dire, un
posto necessario ». L ’idea è stata ripresa e fortemente sviluppata da E. G. Sehvyn, The First Epistle
of St. Peter, London 1949, 295 ss.: « I sacrifici offerti dalla Chiesa-corpo sacerdotale sono intima­
mente connessi all’opera redentrice di Cristo...; sono tutte azioni santificate e convogliate nella
Eucaristia. Tempio, sacerdozio, sacrifici : ecco altrettanti termini che nulla ci autorizza a considerare
come puramente metaforici. La morale della Chiesa apostolica è inseparabilmente legata al suo
culto... I 4* sacrifici spirituali ” di cui parla san Pietro giustamente sono stati interpretati come
consistenti nelle opere di giustizia, di offerta di sé, ecc. Ma lo sfondo di essi era la comunità cul­
tuale radunata per la celebrazione eucaristica... ». Cfr. anche R. Staehlin, Die Geschichte des christl.
Gottesdienstes, in Miiller-Blankenburg, Leiturgia, voi. I, Kassel 1954, 15, nota 42a. J. Colson, Mi-
nistère de Jésus-Christ ou le sacerdoce de VEvangile, Paris 1966, 175-176, concludendo un lungo studio sul
testo in questione, scrive: « Quando 1 Piet ricorda ai cristiani di essere un sacerdozio santo per offrire
sacrifici spirituali, “ thysìa ” (sacrificio) sta certamente a significare... il vivere secondo un ideale
sacerdotale... formando un gruppo religiosamente selezionato per giustizia, purezza, obbedienza
alla volontà di Dio... Questo senso “ spirituale ” è fuori di dubbio. Ma si è per questo in diritto
di dire che esso esclude, con altrettanta certezza, ogni rito di valore più o meno sacrificale?... Non
si legge forse, in filigrana, l’Eucaristia nella 1 Piet? È una questione che non si può, in ogni caso,
non porre »
^L. Cerfaux, 0. c.. 314.
6 Ibidem.
132 parte I - capitolo IV

La conseguenza di questa posizione, per quanto riguarda la componente


ecclesiale della Liturgia, è evidente: data l’importanza determinante che
nella Liturgia ha il « sacrificio », è chiaro che, corrispondendo a un meta­
forico « sacrificio spirituale » un altrettanto metaforico « sacerdozio spiri­
tuale », non si potrà mai parlare di « Liturgia » del corpo sacerdotale dei
fedeli se non in senso metaforico. La Liturgia infatti sarà sempre e solo « zona
riservata » al sacerdozio gerarchico, anche se lo si chiama « ministeriale ».
Abbiamo già incontrato SC 26, dove ci si dice che la Liturgia è « ce­
lebrazione della Chiesa... Popolo santo radunato e ordinato sotto l’auto­
rità dei vescovi; celebrazione che appartiene all’intero corpo della Chiesa...
e ad essa i singoli membri sono interessati in diverso modo, secondo la di­
versità di stato, di uffici e di partecipazione attuale»; sappiamo ora dalla
Institutio generalis del nuovo messale romano, che la messa in particolare è
«azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente disposto» (n. 2).
Ma si può sostenere questo, se il « Popolo di Dio » e « l’intero corpo della
Chiesa » hanno nella Liturgia un ruolo puramente « metaforico », a causa
di un loro sacerdozio ugualmente « metaforico » ?

A chiarimento della questione ci sembra di dover fare le seguenti osser­


vazioni.

a) Si dà come dimostrato che il sacerdozio ministeriale e di conseguenza


la sua « delegazione » liturgica, sia l’analogato principale al quale si ri­
ferisce il sacerdozio comune o spirituale: dal primo sarebbe stato denominato
il secondo, nel senso che pur avendo i due in comune un’intenzione di « of­
ferta », questa risulta « reale » nel primo, perché si tratta di una vittima
(animale o cosa), che viene sacrificata; al contrario nel secondo l’offerta
si concretizza in un atto dello spirito. V i sarebbe dunque una « traslazione »
(metafora) di termini sulla base di una somiglianza, ma che non dice la
stessa realtà.

Un tale processo sarebbe il risultato di una progressiva « spiritualizza­


zione » nell’idea di culto; cosa che si osserva soprattutto nell’ebraismo,
ma non in esso soltanto.
Ora per quel che riguarda almeno la religione rivelata (ebraismo) se
un simile processo non si può negare, esso deve essere visto come un « re­
cupero » di una posizione preesistente, piuttosto che come un’evoluzione
di progresso. Infatti quello che, prima di ogni ordinamento sacerdotale a
livello di casta, noi incontriamo nella Scrittura, è l’elezione di tutto un popolo
ad essere « corpo sacerdotale » per dare a Dio un culto che si esplica nel­
l’ascolto della Parola e nell’osservare l’Alleanza (Es 19, 6). Che questa
elezione non fosse qualificata da forme esteriori di culto, che come tali esi­
gevano dei « sacerdoti-deputati », è confermato ripetutamente dall’inse-
gnamento profetico (Ger 7, 22-23; Amos 5, 21; Michea 6, 6-8; Sai 39, 7-9;
49, 8-15; 50, 18-19). E se, dopo il fallimento dell’istituto sacerdotale di
casta e della Liturgia sacrificale-templare, che esso si era attribuita, Israele
« fatto a pezzi (nelle sue istituzioni) dai profeti e messo a morte dalla pa­
rola di Dio, ha compreso che Dio preferiva ai sacrifici l’amore per lui e agli
olocausti la conoscenza di lui» (Os 6, 5-6), e conseguentemente ha comin­
133 la Liturgia culto della Chiesa

ciato a ricercare la salvezza in un « culto spirituale.», non ha fatto che


tornare alle sue origini di « popolo sacerdotale ».
La stessa storia delPingresso del termine « Liturgia » nella versione
greca dei L X X (vedi sopra, p. 33 ss.) sta a dimostrare che la <<Liturgia sa­
cerdotale » di marca levitica è un surrogato al « culto sacerdotale » del
popolo.
Tutto questo vuol dire che se si vuole parlare di « analogia » (metafora),
bisogna — almeno per quel che concerne la Scrittura — invertire i ter­
mini: Il culto materiale, con il suo sacerdozio ridotto a casta, è un ana­
logo al culto spirituale, unico vero culto voluto originariamente da Dio. Con­
seguentemente il « sacerdozio spirituale », che Dio conferisce al popolo dopo
averlo sottratto al « culto materiale » dell’idolatria (Egitto), è il vero sacerdozio,
il solo capace di una vera Liturgia, che è sempre « spirituale » anche nel
suo svolgimento rituale. Potremo infatti facilmente dimostrare in seguito,
che il sacerdozio di Cristo non è altro che l’attuazione di questo primitivo « sa­
cerdozio spirituale», previsto prima da Es 19, 6 e poi dai profeti e dai
salmi.

b) Si presenta come un fatto ugualmente scontato che il N T debba avere


un suo « sacerdozio esteriore », cui corrisponderebbe un « sacrificio » che senza
cessare di essere spirituale sarebbe tuttavia vero sacrificio soprattutto in forza
della sua esteriorità o visibilità, secondo un pensiero accolto anche — come
si è visto — dalla Mediator Dei h
Questo « dualismo » sacrificale in verità può trovare conferma in una
certa mentalità teologica giuridica, sviluppatasi a seguito della lotta tra
sacerdozio e Impero al secolo xi e sistematizzata all’epoca della Scolastica,
quando « ci si preoccupava di stabilire con precisione quel che nel culto
ognuno ha o non ha il potere di fare » 123 . Per determinare infatti un tale
« potere » nel culto, non c’è nulla di meglio che stabilire l’oggetto stesso del
culto, che è il « sacrificio spirituale » (interiore) per i comuni fedeli, e il
« sacrificio vero » (visibile) per i sacerdoti « propriamente detti », come si
credeva di poterli senz’altro definire.

Prima di entrare per ora in merito al « potere » del sacerdote ministe­


riale, bisogna dire che tutta la tradizione antica ha ignorato la distinzione
di un duplice « sacrificio » in regime cristiano. In esso non esiste che un
unico sacrificio e questo è spirituale, sia in Cristo che nella Chiesa. Procediamo
per gradi.

1. Cristo porta alla perfetta «spiritualizzazione» il culto dell’AT, non


abolendo « il sacrificio », ma presentando in se stesso sia la materia del­
l’offerta che il sacerdote offerente. In altre parole: Seguendo i profeti, al
«dir dei quali al momento dell’Alleanza Dio non aveva imposto al suo po­
polo di offrirgli sacrifici, ma di prestare ubbidienza alla sua voce 8, Cristo non
solo insegna la « spiritualità del culto » 4 e denunzia la fine del culto « ma-

1 Enc. Mediator Dei, in A AS 30, 1947, 556. Gfr. sopra p. 106 ss.
2 Y . Congar, V Ecclesia sujet de Vaction li turgique, in La Liturgie aprh Vatican II, Paris 1966, 254.
3 Ger 7,22; Amos 5*21-25; cfr. Is 1 ,11 -17 ; Sai 40,7-9; 49,8-14; 2 2 -2 3 ; 50,18-19.
4 Mt 9 ,1 3 ; 12 ,7; Me 12,33-34; Gv 4.23-24.
134 parte I - capitolo IV

teriale » ebraico tanto nel segno sodale-religioso del sabato x, quanto in


quello esterno-cultuale del tempio 12, ma fa delPadempimento della volontà
del Padre e dell’ascolto della sua voce lo scopo determinante della sua vita e
insieme la sua maniera di onorare il Padre in un culto perfetto. La sua
« venuta » nel mondo è sotto il segno di quel « culto », del quale appunto
parlavano i profeti, e che era in realtà espresso dalle prime parole dell’A l­
leanza: «Se voi mi obbedirete e rispetterete la mia alleanza, sarete mio
popolo scelto fra tutti ... sarete mio regno sacerdotale e nazione consacrata
a me» (Es 19,5-6).

E infatti Ebr io, 5-10 ci presenta Cristo che, entrando nel mondo, è
pienamente conscio di dover dar culto a Dio non con vittime e oblazioni
di animali, ma con la propria ubbidienza, che diventa « offerta » da Cristo
presentata « una volta per sempre » « nel suo corpo », ossia nella sua uma­
nità viva. La stessa morte di Cristo non è da considerarsi come un atto a sé
stante, quasi fino a farne un « sacrificio esterno e visibile » ; ma è soltanto
l’ultimo momento nel quale «si compie» («Consummatum est») quel
sacrificio di ubbidienza che si era protratto e spinto «fino alla morte» (Fil
2, 8).

La morte di Cristo non ha infatti nessun riferimento formale ossia este­


riore ad un rito sacrificale, anche se nella coscienza di Cristo prima e nella
fede della Chiesa poi, quella morte ha il valore di « segno esterno » di quel
reale sacrificio che, coerentemente a tutta la Rivelazione, consiste nell’ubbi­
dienza totale e incondizionata a Dio 34 . Solo così la vita e la morte di Cristo
5
formano quel « sacrificio spirituale », che in quanto offerta dell’Io umano
(spirito) personale di Cristo si oppone al « sacrificio animale », nel quale si
offre non il proprio sangue — sede e simbolo della vita e dello spirito —
ma il sangue di vittime estranee all’offerente *. E solo per questa ragione
la morte di Cristo è « sacrificio vero », che adempie e compie tutte le « im­
magini » di esso, « aberranti » nei sacrifici pagani o « profetiche » in quelli
ebraici, che la precedettero, come molto bene si esprime sant’Agostino6.

2. Come unico e unicamente spirituale fu il sacrificio di Cristo, ugualmente


un unico sacrificio spirituale hanno anche i cristiani, nel senso che, come Cristo,
essi stessi sono, per la santità oggettiva (sacramentale) e per la conseguente
santità morale della loro vita, « sacrificio spirituale » a Dio per mezzo di
Cristo e a somiglianza di Cristo. Non crediamo necessario richiamare qui
quanto dicemmo più sopra, riproponendo la dottrina di sant’Agostino sul-
Yuniversale sacrificio della « città dei redenti », sacrificio realizzato attraverso
quella santità che ci fa « Corpo di Cristo ». Vogliamo soltanto insistere su
un fatto : Il cristianesimo è essenzialmente su un piano di « culto spirituale »
in forza della sua stessa originea, in quanto deve continuare nel mondo

1 Mt 12,8; Me 2,28; Le 6,5.


2 Gv 2, 14-17; Mt 26,61; Me 14,58; cir. anche Mt 21, 12-13; Me 11. 15-17; Le 19,45-46,
come gesto simbolico della purificazione-spiritualizzazione del culto, e Mt 24, 1-2; Me 13, 1-2;
Le 21, 5-7 come annuncio della distruzione del tempio, segno di un culto troppo materializzato.
3 Gir. C. Spicq, VEpilre aux Hébreux, Paris 1952, 303.
4 Cfr. Ebr. 9, 25; Sacramentarium Veronense (Leoniano). ed. Mohlberg, n. 1246.
5 Gfr. S. Agostino, Contra Faustum, 20, 18 ss.; 22, 17 (PL 42.382; 409V.
6 Cfr. LG 34.
135 la Liturgia culto della Chiesa

il culto esercitato da Cristo, e questo non consiste né può consistere in altro


che nell’offerta di se stessi alla volontà del Padre. Qualunque forma con cui
si tentasse di sostituire questo atteggiamento cultuale di base e pratico, cioè
esplicantesi nella vita, sarebbe una forma aberrante della « spiritualità »
vera del culto cristiano.

3. Cristo con la sua vita e morte ha portato a compimento, realizzan­


done il senso profetico, la Pasqua, ossia quell’intervento divino, che si rias­
sume nella parola « liberazione-redenzione », ma che si esplicita in un « al­
lontanamento dal male » e in una « ricerca di Dio », che è culto 1 espresso
in forma di amore unico per lu ia. Di questa « Pasqua », realtà irrevoca­
bile e definitiva, entrata con Cristo nel mondo, Cristo ce ne ha lasciato
il mistero o sacramento, vale a dire un rito che è memoriale e presenza effet­
tiva del sacrificio col quale egli aveva portato la redenzione nel mondo.
Ma il significato e il valore del « mistero » e del « sacramento » non con­
siste nel semplice fatto che, reso presente il supremo atto di culto che Cristo
ha dato al Padre, questo possa dall’uomo essere offerto « in sostituzione »
della propria vita. In questo modo noi avremmo una vittima più degna
certamente di quello che poteva essere un animale: ma sostituendo Cristo
a noi, anche noi — non identificandoci con la vittima come nell’antico
culto « materiale » — potremmo continuare ad essere « spiritualmente »
lontani da Dio, per esporci, come l’antico Israele, al rimprovero: «Questo
popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me » 8.

Questa idea, purtroppo, è molto spesso viva e operante in coloro che cre­
dono che basti « realizzare la presenza di Cristo » sull’altare, perché Dio
sia glorificato. Allo stesso modo si potrebbe pensare che basti ricevere mate­
rialmente il sacramento per credere di essere entrati in comunione con Cristo.
Non si sarebbe certo molto lontani da una concezione magica del sacramento,
ma è proprio in questo modo di pensare che affonda le radici l’idea che la
Eucaristia sia il « sacrificio esteriore » « ufficiale » e « pubblico » della Chiesa,
dal quale si distingue il «sacrificio spirituale» e «privato» dei cristiani.

Orbene deve essere chiaro che l’Eucaristia, « sacramento del sacrificio


spirituale » di Cristo, ossia dell’unico sacrificio voluto da Dio e conosciuto
dalla rivelazione, non può diventare il « sacrificio esteriore » della Chiesa.
Questa, che non è un’organizzazione esteriore, ma è il « Mistero stesso di
Cristo » presente nel mondo, ossia è « il Corpo di Cristo », ha ricevuto nel
sacramento lo stesso, unico « sacrificio spirituale » del suo Capo, non perché
lo offra distinto da sé, ma perché anche essa, come « Corpo » diventi « sacri­
ficio spirituale » in unione al suo « Capo » e per mezzo di esso.

La celebrazione del sacramento è certamente un fatto rituale — e quindi


esteriore — ; ma il «sacrificio» di Cristo reso presente nel sacramento-rito
non è un « sacrificio esteriore », bensì la « sacramentalizzazione » ossia unione
del « sacrificio spirituale » dei cristiani al supremo, unico vero « sacrificio123

1 È la finalità espressa come motivo della liberazione: Es 3, 12. 18; 5, 1, ecc.; 19, 4-6.
2 Cfr. per es. Ger 3, 19-20; Os 2, 16-25; 1-6.
3 Is. 29, 13. Cfr. M t 15, 7-9; M e 7, 6-7.
136 parte l - capitolo IV

spirituale » di Cristo. È nell5Eucaristia che si realizza a pieno il culto spiri­


tuale offerto a Dio dai cristiani, perché in essa si « sacramentalizzano » vale
a dire cadono sotto l’azione trasformante di Cristo quei sentimenti di ubbi­
dienza al Padre, che, secondo san Paolo, noi dobbiamo nutrire in noi sul­
l’esempio di Cristo, e.costituiscono appunto il «sacrificio spirituale» della
Chiesa. Come per mèzzo della sua ubbidienza al Padre, Cristo, abolendo
il mezzo espressivo, ma più spesso diaframmatico, della vittima animale,
offrì se stesso in un unico « sacrificio spirituale », che culminò nella morte
volontariamente accettata, così la Chiesa fa della propria ubbidienza al
Padre un sacrificio, che, unito come sacrificio del Corpo a quello del Capo,
dà a Dio un culto veramente perfetto e « spirituale ». La Chiesa infatti,
direbbe sant’Agostino 1Ì sa che attraverso il segno esterno (« ei demonstratur »)
offre sacerdotalmente se stessa in quella medesima cosa (passione di Cristo)
che essa offre, e in questo modo, la Chiesa stessa, ossia noi siamo il massimo
sacrificio che si possa offrire a Dio, e di esso celebriamo il mistero sacra­
mentale con l’offerta che facciamo all’altare 12.

Concludendo : Il « sacrificio spirituale » realizzato dai cristiani nella


santità della vita non è qualcosa che si oppone come interiore a esteriore al
« sacrificio eucaristico », ma è la materia stessa per la quale Cristo può at­
tuare, portandolo alla sua personale perfezione di Capo, il sacrificio del
suo Corpo che è la Chiesa. Di conseguenza il « sacerdozio dei fedeli » è
direttamente finalizzato dal «sacrificio eucaristico»; non è espressione di
un culto genericamente religioso, ma è l’esercizio del culto stesso di Cristo,
preso al culmine della sua « spiritualità », cioè al momento in cui offre al
Padre nello Spirito non solo atti singoli, ma la radice stessa di quegli atti:
la sua vita.

1 S. Agostino, De civ. Dei, io, 6: PL 41, 284.


2 Ibidem, 19,23 {le., 655).
capitolo quinto

Liturgia e non-liturgia

Bibliografia

Per una bibliografia essenziale fino al 1958, cfr. H. Schmidt, Introductio in


Liturgiam occidentalem, Romae i960, 89-97. Ad essa si aggiunga: J. A. Jungmann,
Gewordene Liturgie, Innsbruck 1941, 1-27; A. Stenzel, Cultus publicus. Ein Beitrag
zum Begriff und ekklesiologiscken Òri der Liturgie, in « Zeitschr. f. kath. Theol. »
75, 1953, 174-214; C. Koser, Pietà liturgica e «pia exercitia », in G. Barauna,
La s. Liturgia rinnovata dal concilio, Torino 1964, 229-277; Y. M.J. Congar, U« ec­
clesia » ou communauté chrètienne, sujet intégral de l'action liturgique, in La liturgie apres
Vatican l i (Unam Sanctam, 66), Paris 1967, 242-282 ; A. Veilleux, Laprière de l'Eglise
in «Collectanea cistercensia » 29, 1967, 101-115; S. Marsili, Le orazioni della
Messa nel nuovo Messale. Teologia e pratica della preghiera liturgica, in « Rivista Li­
turgica » 58, 1971, 70-91; Idem, La Chiesa locale comunità di culto. Teologia e diritto
liturgico, in « Rivista Liturgica » 59, 1972, 29-53.

I premessa storica

i Liturgia e ordinamento della Liturgia

È connaturata all’esistenza stessa del culto, in quanto espressivo della


religione nell’uomo, la distinzione in culto interno e culto esterno. Con essa si
vogliono però indicare non due forme diverse di culto, ma due modi di es­
sere dello stesso unico culto, a seconda che lo si considera esistente nell’in­
teriore dello spirito oppure nelle manifestazioni che esso può prendere.
Un’altra distinzione si aggiunge a questa e si riferisce non al modo di
essere del culto, ma al suo soggetto, che può essere un singolo individuo (culto
individuale) oppure una comunità (culto comunitario).
Infine è da rilevare la distinzione tra culto privato e culto pubblico, a se­
conda che l’atto di culto viene reso a titolo personale ossia « a nome » pro­
prio, oppure a titolo ufficiale cioè « a nome » del pubblico ( = popolo-co­
munità). Di solito però l’idea di « pubblico », appunto per il senso di « uffi-
138 parte l - capitolo V

cialità » che esso esprime, si arricchisce di altri elementi che, in materia li­
turgica, si possono riassumere nella necessità di un « riconoscimento », il
quale si concreta in un « ordinamento » e in un’ « approvazione » da parte
dell’organismo (Chiesa), di cui la celebrazione è espressione ufficiale.
È quel che troviamo espresso in CIC 1256, che dice: « Quando il culto
è dato a nome della Chiesa, da persone a questo scopo legittimamente de­
putate e per mezzo di azioni che siano determinate dalla Chiesa... si dice
culto pubblico; altrimenti è privato ». Che la « Chiesa » qui accennata come
quella che fa da sfondo all’azione cultuale, sia quella gerarchica e preci­
samente quella al vertice, lo afferma il successivo 1257 dello stesso CIC,
che riconosce « alla sola Sede apostolica l’ordinamento della Liturgia e la
approvazione dei libri liturgici ».
Come si vede, l’aspetto « pubblico » della Liturgia, che a questa dovrebbe
essere connaturale appunto perché è espressione di una « comunità » cul­
tuale quale è la Chiesa, si carica talmente di valore « giuridico », che ne­
cessariamente risulta essere « Liturgia » solo il culto che è normativamente
determinato dalla Chiesa gerarchica. E non sarà inutile rilevare subito che
questo avviene solo in conseguenza di una ecclesiologia, che ancora non si
emancipa dall’idea di « Chiesa-società », e quindi in essa il culto compare
non come un fatto « ecclesiale » propriamente detto, ma solo come un fe­
nomeno « sociale » estrinseco alla « Chiesa » come tale.

Su questo piano si muovono in genere tutte le « definizioni » di Liturgia,


tanto quelle più antiche quanto quelle che pure partono dalla « definizione »
del Beauduin, secondo cui « la Liturgia è il culto della Chiesa » tutte in­
fatti insistono non solo sul suo aspetto esterno-rituale, ma soprattutto sulla
necessità che essa sia ordinata e disposta àdXYautorità della Chiesa.
Proprio a proposito di questo e cioè dell’importanza che da molti, nel
definire la natura della Liturgia nelle sue linee essenziali, si attribuiva al­
l’aspetto « normatico-dispositivo » impresso ad essa dalla Chiesa gerarchica,
Pio X II ritenne di dover dicliiarare che non erano immuni « da un errore
abbastanza grave, coloro che affermavano che la Liturgia non è altro che
la pura somma delle leggi e delle disposizioni con le quali la gerarchia ec­
clesiastica stabilisce e ordina i sacri riti » a. Ed è da pensare che l’Enciclica,
proprio per non ricadere nello stesso errore e per non darvi motivo, evita
di appellarsi a qualunque autorità legislativa della Chiesa quando, nel de­
finire che cosa è essenzialmente la Liturgia, la presenta come « il culto
pubblico del Corpo mistico di Cristo nella sua totalità di capo e di membra»3.
M a la precedente affermazione non è tuttavia, nel pensiero dell’Enci­
clica, così solida come sembra. Infatti, di nuovo per una concezione eccle­
siologica che oggi ci appare chiaramente insufficiente, Pio X II rifacendosi
all’aspetto « sacerdotale » della Liturgia, ma restringendo questo al suo
— pur necessario e indispensabile, ma non unico — momento « gerar-
chico-ministeriale », conclude che « la Liturgia appartiene principalmente
alla Chiesa gerarchica » 4, in quanto detentrice privilegiata del sacerdozio12 4
3

1 Un gran numero di queste definizioni si trovano raccolte in H. Schmidt, Introductio in Li-


turgiam occidentalem, Romae i960, 48-60.
2 Enciclica Mediator Dei, in AAS 39, 1947, 532.
3 Ibidem, 528.
4 Ibidem, 538.
139 Liturgìa e non-liturgia

di Cristo, e_di conseguenza — dice l’Enciclica — « Tordillamente, la guida


e la forma della Liturgia non può non dipendere dalTautorità della Chiesa » x.
Ribadendo ancor più la cosa, Pio X II si rifà direttamente « alla natura
stessa del culto cristiano » oltre che ai documenti della storia2 e al fatto
che la Liturgia è strettamente connessa con quei principi dottrinali, che si
richiamano alVautorità del supremo magistero8. Procedendo oltre sulla stessa
linea autoritativa, PEnciclica riconosce « unicamente al sommo Pontefice
il diritto di ammettere e stabilire tutto quel che riguarda il culto divino »,
mentre afferma, sempre ancora ricalcando il CIC 1261, che ai Vescovi com­
pete solo la vigilanza sull9esatta osservanza delle norme liturgiche stabilite 4.
In tutto questo bisogna riconoscere che il far dipendere « Tordinamento,
la guida e la forma della Liturgia dalTautorità gerarchica della Chiesa »,
richiamandosi per questo alla « natura stessa del culto cristiano », riporta quasi
inevitabilmente a quella già riprovata concezione della Liturgia, secondo
cui questa è la somma delle leggi e disposizioni fissate dalla gerarchia eccle­
siastica (v. sopra). A ovviare questo ritorno indietro che minaccia di fare
nuovamente della Liturgia — a dispetto di ogni definizione teologica —
un puro valore giuridico, basta non restare nella già rilevata incompleta
visione ecclesiologica, che ancora sta al fondo dell12 5Enciclica, quando parla
4
3
delTaspetto « sacerdotale » della Liturgia. Infatti nella più sana ecclesio­
logia del Vaticano II, Taffermata « principalità » della Chiesa gerarchica
nel ruolo liturgico, vale esclusivamente sul piano « ministeriale » del sacer­
dozio e non per il fatto che la Liturgia è azione « sacerdotale ». In questo
senso infatti, e cioè in quanto esercizio attuale del sacerdozio unico di Cristo,
la Liturgia appartiene a uguale titolo tanto al sacerdozio « gerarchico-mi-
nisteriale » dei Vescovi e dei presbiteri, quanto al «sacerdozio comune»
dei fedeli.
Possiamo comunque dire che — a parte una non superata mentalità
di fondo — nel pensiero più autentico della Mediator Dei il momento or­
dinativo dell’autorità gerarchica della Chiesa non entra come elemento
« costitutivo » della Liturgia.

2 Liturgia e « pii esercizi »

Purtroppo TEnciclica ha mancato l’occasione migliore che le si presen­


tava per chiarire veramente che cosa è quel che fa « Liturgia » un’azione
di culto. Intendiamo parlare del rapporto che c’è tra « Liturgia » e « pii
esercizi ».
È risaputo infatti che tra i motivi non certamente ultimi del documento
pontificio c’era quello di difendere i « pii esercizi » ossia le « pratiche de­
vote », che formano gran parte del culto popolare e che sembravano mi­
nacciate da quella parte del movimento liturgico che tendeva a fare della
Liturgia Tunica fonte ed espressione di vita spirituale cristiana 5. Da tutti
si dava come scontata la ragione che distingueva i « pii esercizi » dalla

1 Ibidem, 539.
2 Ibidem.
3 Ibidem, 540 ss.
4 Ibidem, 544.
5 Cfr. A. M. Roguet, La Liturgie et les dévotions, in I.MD 73. 29.
140 parte I - capitolo V

Liturgia; ma era una ragione che si formulava su un piano negativo: i « pii,


esercizi » non sono Liturgia. E su questa posizione, senza interrogarsi oltre,
si muove la Mediator Dei, unicamente preoccupata di rilevare Yimportanza
e anzi la necessità dei « pii esercizi » nella vita cristiana in genere 1 e come
mezzo di preparazione e di attuazione personale della Liturgia123 . Trala­
sciando quindi di chiarire positivamente perché i « pii esercizi » non sono
Liturgia, si afferma e ripete che sono « azioni sacre altre » da questa % al­
meno che non si debba pensare che l’elemento differenziatore debba trovarsi
nel fatto che i « pii esercizi » sono « azioni private » 4, perché trovandosi
« al di fuori del culto pubblico » 5, « non sono direttamente connesse con la
Liturgia » 6. Anzi lo Schmidt crede di poter rilevare che i « pii esercizi »
sono talmente poco sentiti dall’Enciclica come Liturgia, che essi non ven­
gono neppure onorati, in via diretta, del nome di « culto » 7.

Alla questione che cosa rende veramente « liturgica » un’azione di culto,


tenta di dare una risposta la Istruzione sulla musica sacra e la Liturgia ema­
nata dalla SRC il 3 settembre 1958 8, ma facendo un passo che, nei con­
fronti della Mediator Dei, di cui pure vorrebbe essere un’illustrazione, è
dichiaratamente indietro. Infatti pur partendo dalla definizione teologica
di « Liturgia », data dall’Enciclica, essa viene spiegata semplicemente ri­
correndo non solo all’idea, ma alla stessa formulazione « giuridica », che
della Liturgia aveva già dato il C IC 1256-1257, e conseguentemente gli
elementi costitutivi e differenziatori tra « azione liturgica » e « pii esercizi »
vengono identificati sulla base di detta visione « giuridica » della Liturgia.
Leggiamo infatti: « L a Liturgia è il culto pubblico del Corpo mistico
di Cristo nella sua totalità di capo e di membra (Mediator Dei). Sono
perciò azioni liturgiche quelle che per istituzione di Cristo o della Chiesa
e a loro nome vengono eseguite da persone a ciò legittimamente depu­
tate, in conformità ai libri liturgici approvati dalla S. Sede (cfr. CIC
1256); le altre azioni sacre, che vengono eseguite sia in chiesa che fuori,
e anche con la presenza e la presidenza di un sacerdote, si chiamano
invece “ pii esercizi ” » 9.
È chiaro che qui il momento giuridico-normativo non è più — come po­
teva apparire nella Mediator Dei — soltanto un fatto secondario benché
necessario della Liturgia, ma ne diventa di nuovo l’elemento costitutivo ed
essenziale, perché è quello che distingue l’azione sacra « liturgica » da
quella « non-liturgica » in base alla semplice equazione: Liturgia = culto
pubblico = culto ordinato dalla S. Sede, eseguito, a norma di libri approvati,
da persone legittimamente deputate.
La precisazione, con la quale « le altre azioni sacre » vengono rigettate
tra i « pii esercizi », togliendo loro inesorabilmente qualunque pretesa

1 Enciclica Mediator Dei, in AAS 30. IQ47, S34.


3 Ibidem,, 536 ss., 583 ss. ;
3 Ibidem, 533 : « ceterae religionis actiones » ; 583 « ce tera religionis opera ».
4 Ibidem, 536.
5 Ibidem, 533.
* {*»*'»> 533, 534. 543'
7 H. Schmidt, 0. c.} 118.
8 AAS 50, 1958. 630-663.
9 Ibidem, 632.
141 Liturgia e non-liturgia

« liturgica », anche se celebrate in chiesa e sotto la presidenza di un sacer­


dote, ha senza dubbio di mira quello che scriveva lo Jungmann:
« La variopinta moltitudine di devozioni, che hanno luogo nelle fun­
zioni pomeridiane, sono “ culto della Chiesa55 ( = Liturgia) non meno
delle “ ore canoniche55; lo sono anzi ancora di più, perché sono cosa
di tutta intera una comunità sotto la presidenza di un sacerdote, e cioè
cosa della Chiesa, mentre le ore canoniche, che in origine erano, almeno
in parte (Lodi e Vespro) ugualmente cosa della intera comunità, oggi
sono solo una preghiera comunitaria di piccoli gruppi clericali (capitoli
cattedrali e monastici)... Là si fa “ Liturgia55, dove una comunità
ecclesiale (e cioè popolo di fedeli presieduto dalla gerarchia) si raccoglie
per la preghiera e il culto... Un parroco, quando al pomeriggio di
una domenica... presiede anche soltanto la recita del rosario e delle
litanie lauretane, fa Liturgia non meno dei monaci, che in coro cantano
i vespri » 1.

E comprensibile che la posizione dello Jungmann, che elevando alla


dignità di « azione liturgica » anche la semplice recita del rosario, se fatta
comunitariamente sotto la presidenza del parroco, si metteva in contrasto
con tutto quello che fino allora s5era detto, provocasse la drastica reazione
della « Istruzione ». Questa infatti, non ostante lo sforzo ecclesiologico,
che in materia liturgica era stato fatto dalla Mediator Dei, continuava a ve­
dere nella Liturgia soprattutto una certa « forma », riconosciuta propria
dalla Chiesa in forza di una « tradizione », c più ancora di una « appro­
vazione » del potere gerarchico, affidata a persone rese responsabili per
effetto di una « deputazione » ufficiale.
Lo Jungmann invece, edotto dalla storia a scoprire « forme » sempre
differenti in una « Liturgia », che restava, ciò non ostante, sempre unica,
cercava di affrontare il discorso sul rapporto « Chiesa-Liturgia », e così aveva
creduto di scoprire che questa è sempre esistita — storicamente — e sempre
esisterà, dove c5è la Chiesa, ossia la comunità cultuale cristiana.
Per lo Jungmann è infatti sempre « Liturgia », quando una comunità
si raccoglie con finalità cultuale intorno al proprio vescovo o, in mancanza
di questo, intorno a qualcuno che sia stato deputato a rappresentarlo2.
Riassumendo il suo pensiero, egli giustamente dichiara che bisogna ripren­
dere nel suo più pieno senso teologico la « Chiesa », di cui si parla quando
si definisce « la Liturgia come culto della Chiesa ».

« Accentuando, egli dice, al solito l’aspetto normativo e quello della de­


putazione, a ragione si rilevano, per quanto riguarda la funzione della
Chiesa nella Liturgia, due fattori di grande importanza pratica; ma se
nel far questo si lasciasse cadere la funzione della Chiesa in se stessa, sa­
rebbe come uno svuotare di contenuto il concetto stesso di Liturgia.
E per evitare questo pericolo, si deve ridare tutto il suo significato alla
definizione, secondo cui “ la Liturgia è il culto della Chiesa” . E questo
vuol dire: Non il culto cui la Chiesa dà delle norme, né il culto che la

1 J. A. Jungmann, Gewordene Liturgie. Innsbruck 1941, 15-19.


- Cfr. ibidem, 9.
142 parte I ■ capitolo V

Chiesa autorizza a fare; ma vuol dire soprattutto il culto che la Chiesa


fa. La “ Chiesa orante55, ossia la Chiesa raccolta per fazione di culto,
è l’espressione concreta della Liturgia » x.

Lo Jungmann aveva così indubbiamente mostrato per quale via si po­


teva — almeno in parte, per le posizioni che egli stesso allora aveva — giun­
gere a determinare la vera natura della Liturgia: bisognava ricondurla
alla « Chiesa » come tale. D’altra parte bisogna riconoscere che gli elementi
formali-tradizionali della Liturgia, che implicavano soprattutto un certo
stile e perfino una certa lingua 12 delineavano ancora per molti il « vero »
volto della Liturgia. Questo spiega alcune incertezze in cui si muove per­
fino la Sacrosanctum Concilium o Costituzione liturgica del Vaticano II, che
pure vuole darci della Liturgia una visione dichiaratamente teologica.
Merito indiscusso del documento conciliare è certamente quello di aver
fatto luce sulla natura della Liturgia, distinguendo nettamente il potere di
« ordinamento » della Liturgia — che resta « unicamente di competenza
dell’autorità della Chiesa » 3, autorità individuata però non più solo nel
papa, ma anche nel vescovo c nelle conferenze episcopali4 — dalla <<Li­
turgia » stessa. Di questa, che la Mediator Dei aveva detto « appartenere
principalmente alla Chiesa gerarchica» (v. sopra), la SC 14 afferma in
modo inequivocabile che « in conseguenza della natura stessa della Liturgia, tutto
il popolo cristiano ha diritto e dovere di prendervi parte in forza del Batte­
simo », poiché — dirà altrove — « le azioni liturgiche non sono azioni
private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacramento di unità, ossia popolo
santo riunito e ordinato sotto i propri vescovi; esse appartengono infatti a tutto
intero il corpo della Chiesa », naturalmente « secondo la diversità di ordine »,
ossia di posizione che ognuno ha nella Chiesa5.
D ’altra parte si nota come anche la SC affrontando ancora una volta
rargomento dei « pii esercizi » 6, non riesce ad enunziare — in loro con­
fronto — gli elementi che li distinguono dalla Liturgia sul piano teolo­
gico. Al contrario, proprio perché la visione « giuridica » della Liturgia
non è ancora del tutto scomparsa dall’orizzonte, mentre evidentemente
vuole distinguere i « pii esercizi » dalla « Liturgia », tuttavia li dichiara
« altamente raccomandabili », in quanto « dotati di speciale dignità » se
vengono « comandati dalla Sede apostolica » o se sono « celebrati per
ordine del vescovo ». In altre parole: a parte i « pii esercizi » di origine pu­
ramente privata-individuale o che vengono eseguiti privatamente, ve ne
sono altri che hanno un riconosciuto contatto con la Chiesa nella persona
dei capi gerarchici, che li comandano e li ordinano e sono quindi anche

1 Ibidem. iq .
2 Cfr.. per es.. Pio X . Tra te sollecitudini, in AAS 36. 1903-1904. 7: « È proibito nelle solenni
funzioni liturgiche di cantare in volgare qualsivoglia cosa; molto più poi di cantare in volgare
le parti variabili o comuni della messa e dell’ufficio»; e più recentemente, SRC, Istruzione, 3
settembre 1958, in AAS 50, 1958, 635: «Nelle celebrazioni liturgiche in canto nessun testo liturgico
può essere cantato tradotto in lingua volgare...; ma nei pii esercizi si può usare la lingua che meglio
conviene ai fedeli... Nelle processioni prescritte dai libri liturgici si deve usare la lingua che gli
stessi libri prescrivono; ma nelle processioni che si fanno come pii esercizi si può usare la lingua
che meglio conviene ai fedeli... II canto religioso popolare può usarsi nei pii esercizi; ma nelle azioni
liturgiche si osservi invece... ».
3 S C 22, 1.
4 S C 22, 1-2. Cfr. 36.3-4; 30; 40, 1-2.
5 S C 26.
6 SC 13
143 Liturgia c non-liturgia

essi celebrazioni, che per essere fatte dietro ordine dell’autorità ecclesia­
stica e secondo norme approvate, non pare si possano veramente distinguere
— sul piano « giuridico » — dalla Liturgia.
È vero che allo stesso momento si afferma solennemente che « la Li­
turgia per sua natura supera di molto i pii esercizi ». E questo in realtà
senz’altro vale se per « Liturgia » si intendono solo i sacramenti, perché
questi appunto « per loro natura », ossia per una ragione teologica ben
precisa, si distinguono da ogni altra forma di culto, superandola, in quanto
sono diretta realizzazione del mistero di Cristo. Ma se per « Liturgia »
s’intende, per esempio, una processione « liturgica » (come quella della Pre­
sentazione del Signore al 2 febbraio, quella delle Palme, quella del Corpus
Domini) o anche solo la Liturgia delle ore, in che cosa realmente si fonda
raffermata « superiorità » della Liturgia nei confronti dei « pii esercizi »,
che possono essere appunto delle « processioni » o un « Piccolo Ufficio della
Madonna » ? Se fermiamo in proposito la nostra attenzione, per esempio,
sulla « Liturgia delle ore », seguendo il capo IV della SC, è evidente che
tale « superiorità » è data solo da determinazioni giuridiche come si può
vedere appunto nel caso di un « Piccolo Ufficio », che da pio esercizio diventa
preghiera pubblica della Chiesa e cioè Liturgia, purché sia « recitato in forza
delle costituzioni religiose (dei partecipanti), sia disposto in conformità al di­
vino Ufficio e abbia avuto regolare approvazione » L Ma la stessa situazione
si ha in fondo per la « Liturgia delle ore ». Dopo aver letto che « Cristo
continua la sua opera sacerdotale per mezzo della sua Chiesa, la quale...
col divino Ufficio loda senza interruzione il Signore e intercede per la sal­
vezza del mondo » a, subito dopo si scopre che « questo meraviglioso cantico
di lode... è veramente voce personale della Sposa che parla allo Sposo, è anzi
la preghiera che Cristo unito al suo Corpo rivolge al Padre », solo se ciò avviene
attraverso persone « deputate » o insieme ad esse, e « secondo una forma
approvata » 3. Si direbbe che senza questi interventi giuridici e formali,
l’Ufficio divino dovrebbe essere considerato — non meno di quello che lo
era ogni « Piccolo Ufficio » prima dell’art. 98 della SC — solo un « pio
esercizio » e non certamente una « Liturgia delle ore » 4.
L ’incongruenza di risolvere, con una formula giuridica, la natura litur­
gica della « preghiera delle ore » è stata finalmente vista nella Institutio
generalis premessa alla nuova « Liturgia delle ore », dove ripetutamente
riaffiora in maniera diretta il rapporto « Chiesa-preghiera comunitaria-
Liturgia delle ore » senza altre determinazioni giuridiche5, creando una
preghiera liturgica, nella quale la forma, la lingua e la stessa completezza non
giuocano più nessun ruolo.

Il lungo cammino che abbiamo fatto attraverso le fonti, che nell’arco


di quasi un mezzo secolo documentano i passi spesso incerti e tuttavia sempre
progressivi verso una comprensione più profonda della Liturgia, ci avverte
chiaramente che questa non può essere intesa fuori di un contesto che si

- 0^1 03.
3 SC 84; 98; i o i , 3.
4 Cfr. istruzione^ 3 settembre 1958, 645.
5Institutio generalis della Liturgia delle ore, 2; 7; 9; 15; 22; 24; 27; 32.
144 parte I - capitolo V

è rivelato sempre più ecclesiologico e che necessariamente richiamerà quello


cristologico.
Su questa base noi vogliamo ora — dopo la premessa storica — procedere:
1. per determinare che cosa è quel che di un'azione di culto fa una Liturgia;
2. per vedere se può esistere un'azione di culto della Chiesa che non sia o possa
non essere Liturgia.
Nel far questo noi prescindiamo dalla distinzione tra « Liturgia » e
« pii esercizi » nel modo come viene comunemente presentata. Anche se
compare come un assioma del quale sembra inutile discutere, perché tutti
lo ammettono, noi non possiamo adeguarci a questa distinzione, perché
l’abbiamo vista fondata solo su determinazioni «giuridiche»; e queste
le riteniamo insufficienti perché sono del tutto fuori da quella visione « teo­
logica », che unicamente ci può dire che cosa è e che cosa non è « Liturgia ».

Il le componenti essenziali di un’azione liturgica

i La Liturgia azione cultuale della Chiesa

È universalmente riconosciuto e ammesso che il soggetto della Liturgia


è la Chiesa. Come s’è visto in precedenza, nella parola « Chiesa » si identi­
ficava principalmente, secondo un’evoluzione di pensiero che si rifaceva
soprattutto al medioevo e che s’era rafforzato dal secolo xvi in poi, la parte
« gerarchica » della Chiesa. In questo senso la Liturgia risultava essere o
il complesso delle norme poste dalla gerarchia per l’esercizio del culto, op­
pure la stessa azione di culto esercitata da coloro che di fatto costituivano
la gerarchia nella Chiesa. In conseguenza di ciò, il popolo cristiano o re­
stava un soggetto puramente passivo di una Liturgia, che era diventata sempre
più esercizio di « potere liturgico », oppure — e si era nell’assurdo — ri­
sultava soggetto incapace di Liturgia, al momento stesso in cui la celebrava:
è il caso della « Liturgia » delle ore, preghiera della « Chiesa » per eccel­
lenza, che era « Liturgia » nelle persone « legittimamente deputate », ma
restava « pio esercizio » nei fedeli che vi prendevano parte.
Ma finalmente la « Chiesa » va gradualmente riassumendo le sue di­
mensioni più autentiche, e deposto l’aspetto più propriamente « societario »
e talvolta « associazionista », ritorna alla sua primitiva e fondamentale
natura di « Corpo di Cristo », di « mistero-sacramento di Cristo » e di
« popolo di Dio », e tutto questo sul piano concreto di Chiesa locale. Questa
infatti non è più vista come una delle tante possibili « suddivisioni » di
una Cliiesa esistente a livello universale, ma è più giustamente il punto
in cui la Chiesa universale si fa realtà visibile e concretax.
Ora è risaputo che « Chiesa », e precisamente quella temporalizzata e
localizzata come « Chiesa del deserto-del Sinai » (Deut 4, io [LXX] ; 18, 16;1

1 Cfr. L G 23: « Nelle Chiese particolari esiste la Chiesa cattolica nella sua unità e unicità»; 26:
« Le comunità locali sono nel loro territorio il nuovo popolo di Dio... e in esse sebbene piccole, po­
vere e disperse... si raccoglie la Chiesa una...»; 28: « I presbiteri... santificando e guidando una
porzione del gregge... rendono visibile nel loro territorio la Chiesa universale».
145 Liturgia e non-liturgia

Atti 7, 38), già nell’A T è il termine tecnico per esprimere la «convocazione


sacra » ossia il momento in cui il popolo di Dio si raccoglie in assemblea
liturgica, convocato per l’ascolto della Parola, per celebrare i giorni di
digiuno ( = giorni di preghiera), per la celebrazione della Pasqua e delle
altre feste e in genere per ogni riunione di lettura della Legge e di preghiera
nella sinagoga. La « Chiesa » si identifica dunque con « il popolo di Dio »,
ma in più essa è il momento in cui questo si rivela come « regno sacerdotale
e gente consacrata » al culto di Dio, e cioè secondo quell’aspetto che in­
timamente lo costituisce « popolo di Dio » 1.
Nel N T l’equipollenza « Chiesa-comunità cultuale » diventa ancor più
esplicita, non solo perché il « popolo di Dio » nel NT è ripetutamente
detto «casa-abitazione di Dio» (Ef 2,22; 1 Piet 2,5) e «tempio del Si­
gnore» (1 Cor 3, 16-17; 2 Cor 6, 16; Ef 2, 21), ma soprattutto se si con­
sidera l’espressione nuova « Chiesa-Corpo di Cristo ».
In essa infatti, contrariamente a quello che potrebbe a prima vista sem­
brare e che in genere viene supposto, « non viene posto in rilievo né solo
né principalmente l’aspetto costitutìvo-organico della Chiesa (corpo = orga­
nismo), ma viene sottolineato o almeno dato allo stesso grado l’aspetto cul­
tuale del Corpo di Cristo, perché realizzandosi questo come “ Chiesa ” , di
questa assume senz’altro la dimensione cultuale, che nella Chiesa in quanto
tale è sempre primaria (v. sopra) e che risuona chiaramente nell’espressione
rovesciata: Il corpo di Cristo è Chiesa cioè comunità cultuale»12.
È nel giusto quindi SC 2 quando afferma che « la Liturgia rivela l’au­
tentica natura della Chiesa », che è appunto quella di essere « popolo di
Dio » con vocazione e destinazione cultuale, essere cioè nel tempo e nel
luogo la realizzazione spirituale ma tuttavia concreta ( = « corpo ») di
quello che Cristo già fu nel suo «corpo» terreno3.

Conclusione. Tenuto dunque presente: 1. che «la Liturgia è il culto


pubblico del Corpo di Cristo nella sua totalità di capo e di membra » 4*;
2. che il culto « pubblico » non è tale perché è comandato per essere eser­
citato in forma pubblica-uffìciale, ma perché è « un’azione nella quale il
“ popolo di D io ” agisce appunto come “ popolo di D io ” , ossia come co­
munità cultuale » 6, si può già tirare una prima conclusione : Elemento essen­
ziale di ogni azione liturgica è che essa provenga dalla Chiesa, non come fatto
d’imposizione per « legge » dell’autorità gerarchica della Chiesa o per « tra­
dizione », ma come fatto, direi « genetico ». Deve cioè essere un’azione di
culto in cui la Chiesa riveli e maniftsti se stessa in quanto comunità cultuale.

Così dicendo, facciamo per sé astrazione tanto dalla « universalità »


quanto dalla « località » della Chiesa, perché « proviene dalla Chiesa » tutto
quello che nella Liturgia « rivela e manifesta » la Chiesa sia a livello uni­
versale che a livello particolare. Le peculiarità locali non sono infatti che
espressioni del particolare modo di essere che la Chiesa assume nel luogo

1 Gir. L. Cerfaux, La théologie de VEglise suivanl saìnt Paul. Paris 1942, 73-94. Cfr. sopra pp. 107 ss.
2 Vedi sopra, p. 111.
3 Vedi sopra, p. 112 ss.
4 Enciclica Mediator Dei, in AAS 39, 1947, 528 ss.; SC 7.
6 A. Stenzel, Cultus publicus. Ein Beitrag zum Begrijf und ekklesiologischen Ort der Liturgie, in
« Zeitschr. f. kath. Theol. » 75, 1953, 190.
146 parte I - capitolo V

nel quale vive e agisce come Chiesa. Vogliamo però, ciò non ostante, sot­
tolineare due fatti:
1. Non essendo Vazione liturgica altro che un’azione posta in essere sul piano
cultuale secondo una situazione « temporale-locale », essa riguarda ed esprime
prima di tutto la Chiesa locale, cioè una comunità che nella unione del « capo »
e delle « membra » forma un « corpo », che si presenta come attuazione
nel tempo e nel luogo delPunico « corpo di Cristo ».
2. L ’azione liturgica non esige dunque che essa sia manifestazione della
« universalità » della Chiesa, ma che sia rivelazione della natura « eccle­
siale » della comunità locale in questione. Detta natura « ecclesiale » della
comunità si manifesta quando questa si presenta in concreto come « Corpo
di Cristo » secondo il duplice aspetto che ciò implica e cioè: a) In quanto
comunità che perpetua e rivela la situazione profondamente cultuale che era
propria di Cristo nel suo « corpo » terreno, ossia per effetto della sua In­
carnazione; b) In quanto «corpo» organizzato, in concreto, di «capo»
e di « membra », i quali fanno un’azione liturgica non solo perché sono
insieme uniti, ma perché sono gerarchicamente uniti, nel senso che il « capo »
rappresentante visibile di Cristo, è colui che per natura dà ordine e forma
alla Liturgia, appunto perché il « capo » invisibile Cristo è colui che dà
a questa il suo contenuto e cioè il proprio « mistero di salvezza ».
La prima inderogabile componente della Liturgia è dunque che questa
sia azione cultuale della Chiesa, nella sua complessa realtà di « Corpo di
Cristo ».

2 La Liturgia attuazione del mistero di Cristo

Questo discorso è stato già fatto ampiamente nei capitoli precedenti.


Ad esso mi richiamo soltanto per indicare in esso il necessario momento « cri­
stologico », che insieme con quello « ecclesiale », forma l’altra faccia ugual­
mente essenziale della Liturgia.
Sappiamo che la Chiesa è per natura sua una comunità cultuale, non
nel senso che essa istituisce una forma di culto, bensì nel senso che essa con­
tinua nel tempo e nel luogo l’azione sacerdotale di Cristo. Sappiamo inoltre
che l’azione sacerdotale di Cristo consiste nel dare a tutti gli uomini, attra­
verso il suo corpo (Incarnazione), accesso al Padre (cfr. Ebr io, 19-20).
Conseguentemente l’azione liturgica della Chiesa deve, per essere espres­
sione adeguata del culto del NT, riprodurre costantemente negli uomini
il mistero di Cristo, ossia quell’attuazione del disegno divino per il quale
l’umanità di Cristo realizzava, attraverso sé, negli altri la salvezza. Questo
avviene certamente nei sacramenti, che sono ugualmente « misteri » sul piano
cultuale, e cioè presenza salvifica, attraverso segni (per la Chiesa) dell’azione
di Cristo 1.
Il culto del N T è infatti un « culto spirituale », che non si esplica cioè
tanto in esteriori azioni cultuali, quanto piuttosto esiste in un atteggiamento
interiore di perfetto ossequio a Dio, espresso in una disponibilità continua

1 S. Marcili, I Segni del mistero di Cristo, uso manoscritto, Pontificia Università Gregoriana,
Roma 1969.
147 Liturgia e non-liturgia

a fare la sua volontà. È quello che Cristo realizzò nella obbedienza pre­
stata al Padre e che ora viene comunicato a tutti coloro che, accogliendo
in sé Cristo, diventano come lui figli di Dio (Gv i, 12). I sacramenti hanno
appunto lo scopo di fare degli uomini altrettante immagini vive di Cristo, fino
a farli diventare in lui e per lui « tempio santo di Dio nello Spirito » (Ef 2,
22), ossia concreta, visibile e viva « lode di gloria al suo amore » (Ef 1, 6).
Ma che dire della preghiera, che per sé è un fatto umano universale, e
che sembra non avere un diretto rapporto con il mistero di Cristo? Come
c perché diventa azione liturgica in senso cristiano? Come diventa attuazione
e segno di attuazione del mistero di Cristo? È questo infatti il minimo che
si richiede perché essa sia « azione liturgica ».

La preghiera fatto umano e cristiano. A proposito del rapporto « preghiera » -


« Liturgia » riassumiamo in breve il nostro pensiero L
1. La preghiera è un fatto umano universale e non può quindi essere in
nessun modo sopprimibile.
2. Si applica comunemente alla preghiera la duplice distinzione, che già
conosciamo per il culto in genere: individuale-comune \ privata-pubblica. La
prima distinzione si muove sul piano del numero-quantità (individuo o comu­
nità), mentre la seconda più propriamente qualifica il titolo (privato o
ufficiale) in cui avviene la preghiera. Ma in sé la preghiera, come fatto umano,
non viene aumentata di valore e tanto meno mutata nella natura da nessuno
di questi aspetti singolarmente presi e opposti al proprio contrario. E cioè:
la preghiera « comune » nei confronti di quella « individuale » è — in
quanto fatto umano — solo la somma di tante preghiere individuali, anche
se il soggetto della preghiera non sono tanto gli individui, quanto la comu­
nità. Ugualmente la preghiera « pubblica » non aggiunge nulla a quella
« privata », se non al più una nota di « ufficialità », ossia un titolo esterno
(legge, consuetudine) in forza del quale la preghiera è « riconosciuta » come
emanante dalla comunità o da chi la rappresenta.
3. L 'avvenimento cristiano non toglie alla preghiera-fatto umano, nessuno di
questi momenti differentemente espressivi, ma aggiunge ad essa un elemento
differenziatore assolutamente nuovo, in quanto la preghiera passa da fatto
umano a fatto cristiano quando e perché avviene « nel nome di Gesù » (Gv
14, 13-14; 15, 16; 16, 23. 24. 26; E f 5, 20; Gol 3, 17; Giac 5, 14) ».
4. Pregare nel nome di Gesù: a) Non equivale a servirsi di una formula
particolare che includa il « nome » del Signore, quasi che nel « nome »
aderisca una forza speciale a carattere magico8 e neppure nel senso che
Tinclusione del « nome » sia sufficiente a fare sì che la preghiera passi da
fatto umano a cristiano. Pregare nel « nome di Gesù » sta ad indicare prima
di tutto che anche quel settore dell’attività umana — la preghiera = — va
posto come tutti gli altri settori sotto l'influsso di Cristo. E questo vuol dire:1

1 Cfr. S. Marsilij Le orazioni della Messa nel nuovo messale. Teologia e pratica della preghiera litur­
gica, in «Rivista Liturgica » 58, 1971, 70-91.
2 Equivalente a questa è l’altra espressione « per Cristo », che san Paolo usa di frequente
in contesti che si riferiscono alla preghiera: Rom 1, 8; 15, 30; 16, 27; Col 3, 17; Ebr 13, 15.
3 Cfr. Atti 19, 13-16, dove si vedono dei giudei che pensano, pur non credendo in Cristo, di
poter con l’uso del nome di Gesù agire sui demoni.
148 parte I - capitolo V

b) Porre e realizzare la preghiera sul piano della rivelazione, perché


oggetto di questo è appunto il « nome » del Signore (Atti 4, 17 ss.; 5, 28. 30;
8, 12; 9, 15), in quanto il «nome» racchiude in sé tutto l’eterno disegno
della «salvezza» degli uomini (Mt 1, 21), una salvezza che è presenza di
Dio tra gli uomini*, perché il suo nome è Dio con noi (Mt 1, 23).
c) Investire la preghiera di un potere e forza (Atti 4, 7), che sono di colui
che è indicato e reso presente ogni volta che ci si rifà al suo nome-persona.
Quindi la preghiera fatta « nel nome » di Cristo, sarà mediatrice in senso
pieno, sarà veramente il ponte di passaggio dell’uomo al Padre e del Padre
all’uomo, poiché è preghiera da noi fatta nel nome dì Gesùy ed è insieme dal
Padre ascoltata nel medesimo nome (Gv 13, 13-16. 26; 16, 23-24).
Questa preghiera espressa « nel nome di Gesù », superando il grado
di una esperienza interiore puramente umana, diventa personale esperienza
deWazione dello Spìrito, che ci trasforma in figli di Dio (Rom 8, 16) e insieme
esperienza di tutta la storia della salvezza, accettata da noi in unione al Figlio
di Dio, per cui resi a lui conformi, possiamo « glorificare il Padre nel Figlio »
( ° v 14, 13)-
E chiaro che in questo senso, ogni preghiera cristiana, anche la più indi­
viduale, diventa un evento salvifico di Cristo, perché è continuazione di quel
colloquio del Figlio col Padre, che ristabilito da Cristo tra gli uomini, segna
il punto di arrivo dell’opera redentrice di lui, che era appunto riportare
gli uomini a quel contatto col Padre, che permettesse loro di parlare con Dio
con sentimento di rinnovata amicizia, « proprio come uno parla col suo
amico » (Es 33, 11) e di ritrovata coscienza filiale, che ci fa « gridare: Abbà,
Padre! » (Rom 8, 14-16).
d) La preghiera « nel nome di Gesù » — fatto cristiano — comporta
inevitabilmente e sempre un senso e un valore comunitario del tutto proprio,
comunque essa — vista sul piano umano — avvenga: individuale o co­
mune; privata o pubblica. Infatti essa entra sempre in contatto con quella
di un altro cristiano orante, in ragione sia dell’elemento comune che porta
la preghiera dell’uno e dell’altro, e che è il «nome-persona» di Cristo;
sia del fatto che essa tende a realizzare qualcosa che è comune a tutti e cioè
il piano di salvezza, che non può arrestarsi all’individuo. È in realtà una
preghiera che avviene sempre in Cristo ed è sempre quindi preghiera nel
corpo di Cristo, senza per altro essere ancora preghiera del corpo di Cristo;
è preghiera delle singole membra, anche se queste trovano poi la loro unità
nell’unico Capo-Cristo.
La preghiera cristiana liturgica. La preghiera cristiana assume tuttavia un
suo aspetto nuovo e cioè diventa liturgica, quando della realtà che essa con­
tiene — l’unità nel nome di Cristo — essa ne presenta anche il segno e cioè
l’assemblea orante, la Chiesa « che si raccoglie nel nome di Cristo » (Mt 18, 20).
A questo punto infatti la comunità-assemblea, nata dal comune « consenso
su Cristo e in Cristo» (Mt 18, 19), diventa il «segno» visibile della pre-1

1 Che l’invocazione del nome sia un richiamarsi alla presenza redentrice di Cristo risulta evi­
dente dalla narrazione di due analoghi miracoli operati da san Pietro, nel primo dei quali (Atti
3, 6. 16; 4, io) il comando dato « nel nome di Gesù Cristo » evoca la presenza della persona e della
sua potenza salvatrice, allo stesso modo che avviene nel secondo miracolo (Atti 9, 34), dove
Pietro dice: «Enea, Gesù Cristo ti guarisce». Non c’è infatti altro «nom e» ossia «persona»
che porti la salvezza (Atti 4, 12).
149 Liturgia e non-liturgia

senza di Cristo, che con noi e per noi si fa « orante » davanti al Padre (Gv
14, 16). La Chiesa non è solo «sacramento» ossia segno effettivo di unità
tra Dio e gli uomini in Cristo, ma diventa sacramento della preghiera di Cristo,
quando raccolta a pregare nel nome di lui, essa si fa segno di Cristo orante
nel suo corpo.
Della preghiera liturgica una volta si dice che in essa « Cristo associa
a sé la Chiesa..., la quale per mezzo di lui rende culto al P a d re» 1; un’altra
volta si dice, che « Cristo continua il suo ufficio sacerdotale per mezzo della
Chiesa che loda incessantemente il Signore e intercede per la salvezza del
mondo » *. Questa osmosi di « mediazione » nella preghiera liturgica, che
è fatta da « Cristo per mezzo della Chiesa » e dalla « Chiesa per mezzo di Cristo »,
ci riporta in pieno alla « preghiera nel nome di Gesù », dove non è que­
stione di « ufficialità » giuridicamente valida della preghiera, ma di « realtà »,
che implica una duplice presenza-azione: quella di Cristo e quella della Chiesa.
Di questa duplice « presenza-azione », la prima forma il contenuto reale della
preghiera della Chiesa, e la seconda costituisce il segno della preghiera di
Cristo.
Siccome però la Chiesa esiste, come « popolo di Dio » e « corpo di Cristo »
in una situazione pluridimensionale, che implica in essa la presenza e in­
sieme la distinzione di capo e di membra, non in astratto ma secondo una
concretizzazione personale e locale (è formata da queste persone in questo
luogo e tempo), la preghiera liturgica troverà il suo « segno » — a livello
naturalmente diverso — tanto nel « capo » di questa comunità, quanto nella
« comunità » raccolta attorno al suo capo; cioè nella fusione di « capo­
comunità », in modo che la preghiera risulti « preghiera del corpo di
Cristo ».
Come si vede la « preghiera liturgica » riveste un carattere sacramentale,
perché è trasmissione-continuazione della preghiera salvifica di Cristo [con­
tenuto reale) attraverso il segno della Chiesa orante. Ed è questa sua basilare
costituzione sacramentale quella che fa della preghiera della « Chiesa »
— al pari di tutti i sacramenti — un’attuazione del mistero di Cristo, e
cioè ne fa un'azione liturgica.
A ragione quindi SC 83 nel presentare la «preghiera della Chiesa»:
1. Ne fa una «continuazione dell’opera sacerdotale di Cristo per mezzo
della Chiesa », opera che la Institutio generalis premessa alla « Liturgia delle
ore» (n. 13) specifica ulteriormente come «opera della redenzione umana
e della perfetta glorificazione di Dio », applicando così in particolare alla
« preghiera » quello che SC 5 aveva già detto per spiegare la « Liturgia »
in generale; 2. La mette a fianco del sacramento dell’Eucaristia, come sua
esplicitazione, anzi suo « completamento » 12 3.
Quest’ultimo aspetto riceve ancora una carica particolare, quando la
Institutio generalis 12 fa anche della « preghiera » liturgica un « memoriale »
dei misteri salvifici, le dà cioè un compito « anamnetico », che è essenziale
ad ogni realtà sacramentale 4.

1 SC 7.
2 SC 83.
3 Cfr. SC 83; PO 5; IG L H 12; 13.
4 IG L H 12 riprende felicemente un’antichissima tradizione rappresentata per es. da Ter­
tulliano, De ieiunio, io: PL 2, 967; Cipriano, De orat. d o m in 34: PL 4, 559 e soprattutto da Ippolito,
Traditio apost., 41: ed. Botte, La tradition apostolique de saint Hippolyte, 1963, go ss.
150 parte I - capitolo V

Così la Liturgia ci rivela la sua seconda essenziale componente nell’essere


essa attuazione del mistero di Cristo, attraverso segni cultuali, che si ritrovano
non solo nei sacramenti, propriamente detti, ma anche nella preghiera della
Chiesa, in quanto anche nel « segno » della Chiesa concretamente realiz­
zata come « assemblea orante », è presente la « realtà » salvifica della pre­
ghiera stessa di Cristo.

I li Liturgia e « pii esercizi »

Fissate quelle che abbiamo chiamato le due componenti essenziali della Li­
turgia e scoperta la loro esistenza anche al di fuori del mondo sacramentale
propriamente detto, e cioè nella « preghiera liturgica », ci resta da vedere
se può esistere miCazione di culto, che debba dirsi « della Chiesa » e tuttavia
non sia « liturgica ». Vogliamo cioè tentare di trovare una ragione — al
di fuori di determinazioni giuridiche — che ci spieghi perché i cosiddetti « pii
esercizi » non sono e se effettivamente non possono essere « Liturgia ».

Il sorgere del movimento liturgico al principio del secolo fu per la Chiesa


una specie di strano risveglio, provocato da un intrecciarsi di luci troppo
violente. Forse per la prima volta infatti si accorgeva, per il clamore di al­
cuni spiriti, del resto fedelissimi a essa e alle sue tradizioni, di vivere la pro­
pria fede su un complesso vario e multicolore di « pratiche religiose » che,
si trovavano al di fuori del suo cosiddetto « culto ufficiale » e che d’altra
parte caratterizzavano tanto la vita cristiana, da costituire quasi una sup­
plementare e tuttavia necessaria « carta d’identità » del cattolicesimo occi­
dentale. Gran parte della Chiesa si sentì messa in certo modo sotto accusa,
quasi si fosse allontanata dalle linee maestre della rivelazione in materia
di culto, e ne nacque così una polemica1, nella quale i fautori del movi­
mento liturgico spesso apparvero come i nuovi « iconoclasti » del secolo xx,
e — dall’altra parte — i difensori del regime « devozionale », ormai col­
laudato da secoli, passavano come i responsabili della decadenza della « vera
pietà » nella Chiesa.
Sappiamo come la enciclica Mediator Dei di Pio X II (1947) abbia cer­
cato di fare un discorso chiarificatore e insieme conciliativo, nel senso che
mentre indicava la via per situare teologicamente la Liturgia e rialzarne
l’importanza insostituibile, d’altra parte non esitò a difendere a oltranza
non solo la legittimità d’esistenza dei « pii esercizi », ma anche la loro ne­
cessità oltre che la loro autonomia nei confronti della Liturgia. Ma tutto
questo non spiegava, ma difendeva soltanto, il chiaro dualismo cultuale
esistente nella Chiesa.
La stessa SC del Vaticano II non ha risolto — come s’è visto — questo
dualismo e lo ha anzi in certo senso accentuato. Infatti: 1. Riconosce ai
« pii esercizi » una « speciale dignità », che proviene ad essi dal fatto di
essere eventualmente comandati o per tutta la Chiesa dal Papa, o per le sin­

1 Per la bibliografia essenziale cfr. in proposito H. Schmidt. o. c.. 90-97.


151 Liturgia e non-liturgia

gole diocesi dai vescovi; 2. Perché ammette che essi possano essere tali da
risultare come un5emanazione della Liturgia 1.
Nella Chiesa vivono insomma con lo stesso diritto — almeno sul piano
pratico — due forme di culto: una disposta e comandata a tutti dall’auto-
rità della Chiesa, e l’altra più varia, indefinita e cangiante che sorge dal
popolo; una ufficialmente riconosciuta, cui tutti si è obbligati costituti­
vamente (se si vuole essere cristiani) e l’altra solo ufficiosamente accettata,
per nessuno obbligatoria in senso stretto e tuttavia necessaria a tutti12 3; una
avente sempre valore « pubblico », anche se fatta « in privato », Paltra
resta sempre « privata », anche se fatta « in pubblico » da tutta una comunità,
magari all5interno di un’azione liturgica e per comando dello stesso Papa3.
Queste differenze, universalmente ammesse tra « culto liturgico » e
« culto non liturgico », in realtà non superano il livello della distinzione
che passa tra « pubblico » e « privato ». Di questa distinzione però ab­
biamo già notato, che pur essendo formulata costantemente in termini « giu­
ridici », in realtà è comprensibile, nel culto cristiano, solo se spiegata a li­
vello «teologico». In altri termini: culto «pubblico» non è quello fatto
a « titolo ufficiale », come culto « privato » non è quello fatto a « titolo
privato ». Teologicamente culto « pubblico è quello che viene esercitato
dal «popolo (donde pubblico) di Dio», nella sua qualità di Chiesa e cioè di
assemblea raccolta localmente attorno a Dio; «privato» è il culto che
— pur nell’unità della Chiesa — viene esercitato individualmente da un
membro del Corpo di Cristo, per cui si ha un culto nel, ma non ancora del
Corpo di Cristo.
Orbene questa spiegazione teologica non può essere addotta per fondare
la distinzione che continua a permanere tra « Liturgia » e « pii esercizi »,
perché i « pii esercizi » in questione non sono quelli che vengono praticati
da singoli cristiani, in rispondenza ad un bisogno, esigenza o altra spinta
psicologica; sono al contrario quelli che riguardano e interessano la comu­
nità o una certa comunità cristiana come tale, e cioè in quanto Chiesa. Leg­
giamo infatti che i « pii esercizi » sono quelli del « popolo cristiano » 45
, e sotto
questa determinazione non possiamo intendere altro che la Chiesa tanto
a livello universale che locale. Se così non fosse, bisognerebbe di nuovo ca­
dere nell’equivoco di « Chiesa-gerarchia », nella quale risiederebbe in senso
privilegiato il sacerdozio di Cristo, mentre « popolo cristiano » sarebbe la
parte teologicamente indifferenziata — e quasi di secondo rango — della
Chiesa stessa 6. Questo potrebbe spiegare il dualismo cultuale di fatto esistente
così nella Chiesa, ma equivarrebbe ad affermare che la Liturgia o non ap­
partiene al popolo cristiano oppure non è sufficientemente adatta a nutrirne
la vita.

1 s e 13.
2 Cfr. Lettera del S. Officio 25 novembre 1948 in A. Bugnini, Documenta pontificia ad instau­
rationem liturgicam spectantiaì I, Romae 1953, 168.
3 Per es., Leone X III con decreto 20 agosto 1886 e 15 agosto 1889 ordinò che in tutte le chiese
parroccliiali e in tutti gli oratori pubblici dedicati alla Madonna, per tutto il mese di ottobre
si recitassero, durante la Messa al mattino e davanti al Sacramento esposto nel pomeriggio, il
rosario, le litanie lauretane e la preghiera: « A te, o beato Giuseppe ».
4 SG 13.
5 Cfr. per es. la « Preghiera eucaristica », dove, nelle intercessioni, pregando per la « Chiesa,
pellegrina sulla terra », si distinguono in linea decrescente papa, vescovo, clero e « il popolo re­
dento », che sarebbero poi i « laici », quasi che papa, vescovo e clero non fossero anch’essi da an­
noverare aWinterno del « popolo di Dio », ma solo al di sopra di esso.
152 parte I - capitolo V

La ragione vera di questo dualismo cultuale, che ormai da secoli fa pro­


blema nella Chiesa cattolica, anche se di esso si è presa coscienza viva e
polemica solo al secolo xx, è da ricercarsi, a nostro parere, soprattutto
sul piano della storia. Qualunque altra spiegazione, giuridicamente alle­
stita, denota solo il tentativo di giustificare una situazione di fatto a mano
a mano creatasi nella storia, senza indagarne né i motivi né le origini.
Un culto « privato-individuale » è sempre esistito nella storia del cri­
stianesimo come in ogni altra forma religiosa. Ma proprio nel cristianesimo
antico sarebbe difficile fare una vera e propria distinzione di valore e di at­
teggiamento — se non di modo — tra esso e « Liturgia ». A parte il fatto
che lo stesso « culto pubblico » cristiano al principio non è volentieri classi­
ficato come « Liturgia » per le note implicanze levitico-templari, che deno­
tavano soprattutto l’aspetto esteriore e materiale del culto (v. sopra p. 39 ss.),
nell5antichità si considerava valido soltanto il culto del N T, come tale, quello
cioè che si distingueva per la sua natura « spirituale » e che consisteva in
un proiettare nella preghiera la « vita in Cristo » ricevuta nella fede e nei
sacramenti (Mt 7, 21; Rom 12, 1).
Solo più tardi, quando « Liturgia » torna a diventare un termine te­
cnico anche nel NT, con significato purtroppo analogo a quello già ripu­
diato dell’AT, e riprendeva quindi ad indicare una certa forma di culto,
legata ad una casta sacerdotale e a precise norme rituali, essa viene a distin­
guersi — nella pratica — dal culto « privato-individuale ». Ma è una di­
stinzione di cui nessuno parla e che in nessun modo crea dei conflitti.
Che infatti vi fosse una differenza di stile tra preghiera « privata » e
Liturgia era inevitabile; ma si deve anche ammettere, sulla base dei docu­
menti storici della spiritualità cristiana, che fino al primo medioevo la pre­
ghiera « privata » era tanto profondamente impregnata di quel contenuto bi­
blico che forma l’anima della Liturgia da sempre, che perfino la sua forma
ne risentiva in modo evidente 1.
Si deve insieme anche ammettere che spesso, soprattutto per influsso di
tendenze spirituali nuove, talvolta non esenti da elementi eterodossi, o di men­
talità magica e superstiziosa, la preghiera « privata » si è trovata in disac­
cordo col vero spirito del culto cristiano 12.
Ma se si ricerca Yorigine dei « pii esercizi », dei quali qui è soprattutto
questione, e cioè di quelli che assumono spesso la forma di una « Liturgia
popolare », che si distingue e si sovrappone alla « Liturgia della Chiesa »,
si deve prima di tutto dire che in genere essi non si presentano come esten­
sione delle forme « private-individuali », che passano dall’uso individuale a
quello della comunità, ma nascono quasi sempre dalla Liturgia stessa. Gli
esempi sarebbero moltissimi, ma ci contentiamo di segnalarne due, che più
degli altri ci sembrano rappresentativi, soprattutto in ordine alla diffusione
che hanno assunto e alla popolarità di cui godono.
1. La pia pratica àzYYAngelus, detta al mattino, a mezzogiorno e a sera.
Essa ha la struttura fondamentale di una delle « Ore canoniche » mi­

1 Gfr. per es. A. Wilmart, Precum libelli quattuor aevi karoliniì ed. EphLit, Roma 1940.
2 A questo pericolo non è del resto sfuggita purtroppo neppure la Liturgia, non ostante la
vigilanza della gerarchia. Gfr. p. es. A. Franz, Die Messe im deutschen Mittelalter, ristampa Darmstadt
1963-
153 Liturgia e non-liturgia

nori: a) tre antifone (Angelus Domini... Ecce ancilla... Et Verbum caro...), seguite
ognuna da urìAve Maria, al posto del salmo, da un versetto con risposta
[Ora pro nobis... Ut digni efficiamur...) e da un Oremus {Gratiam tuam...), seguito
da un triplice Gloria Patri; b) la recita era « comune » — anche se fatta pri­
vatamente — perché annunciata per tutto il paese dalle campane delle sin­
gole chiese, come ogni altra azione liturgica; c) l’equiparazione all’ «O ra
canonica » risalta ancor più dal fatto che la forma àz\YAngelus sottostava alle
norme del Breviario, nel senso che nel « tempo pasquale », la preghiera do­
veva essere sostituita dall’antifona Regina coeli, con relativo versetto e ora­
zione propria, e doveva essere detta in piedi, secondo la norma liturgica
comune, che nel tempo pasquale vietava la preghiera in ginocchio.

2. Il rosario. Nell’uso monastico medievale i monaci laici {«conversi»),


impossibilitati per l’ignoranza del latino a seguire l’ Ufficiatura corale, erano
soliti sostituire i salmi del giorno con 50 (in qualche luogo 150) Pater noster.
Molto presto la devozione mariana assorbì la pia pratica diffondendola tra
il popolo e la rese ancor più conforme all’Ufficio canonico. Premettendo in­
fatti come antifona l’annuncio di un mistero di Cristo o di Maria a ogni
Pater noster e all’annessa decina di Ave Maria, che teneva il posto di altret­
tanti salmi, le /50 Ave Maria che ne risultavano, furono di nuovo compa­
rate ai /50 salmi del breviario. Era denominazione corrente quella di « Sal­
terio mariano», con cui si chiamava il rosario: un «salterio» del popolo,
che prendeva il posto del « salterio » dei chierici.

A questi esempi si dovrebbero aggiungere le novene, gli ottavari, i tridui


con cui non si fa che estendere l’onore delle « ottave », che la Chiesa ri­
conosceva di diritto a poche feste dell’anno, a tutti quei santi, che più
godono la devozione del popolo. E si potrebbe continuare. Ma la ragione
sarebbe sempre la stessa.
Nel momento in cui il « popolo » avverte che la « Chiesa » — diven­
tata ormai sinonimo di gerarchia, di tradizione e di potere — e con essa
la Liturgia, si vanno sclerotizzando in una lingua latina, che l’evoluzione cultu­
rale del popolo eliminava gradualmente ma inesorabilmente; si presentano
sempre più ammantate in un ritualismo dichiaratamente « esoterico », nel
quale il popolo non poteva entrare se non attraverso una spiegazione, che
nel migliore dei casi era un « allegorismo », che aveva il discutibile pregio
di rendere quasi- ancor più alienante la Liturgia che voleva spiegare, era
inevitabile che si creasse una posizione di rottura tra « popolo » e « Li­
turgia ». Il popolo rinunziava a una Liturgia, che resasi sempre più « cle­
ricale », di fatto e di diritto lo tagliava fuori da quello stesso culto al quale
lo obbligava. Di qui, mentre la « Chiesa » clericale conservava e faceva
la « Liturgia », nel « popolo » nasceva la spinta a crearsi delle proprie
forme cultuali, che fondamentalmente avrebbero rispecchiato, secondo i
casi, le stesse forme liturgiche, ma che allo stesso tempo sarebbero state
forme «popolari», cioè non dotte e clericali (cfr. sopra, p. 63 ss.).
Che nel sorgere di queste « forme devozionali » di culto a livello di po­
polo — forme che si affiancavano, senza peraltro volerla abolire, a una
Liturgia resa ormai incomprensibile e capace ad essere fatta solo dal clero
— abbiano avuto gran parte anche spinte psicologiche e culturali nuove,
154 parte I - capitolo V

sta solo a dimostrare che dal medioevo in poi la Liturgia, stretta nelle maglie
di una « tradizione » non sempre rettamente compresa, ha ignorato quella
legge fondamentale di vita che si chiama aggiornamento e adattamento, e che
finalmente farà propria il Vaticano II al secolo xx. Che poi molte di queste
spinte non potessero sempre richiamarsi ad un cristianesimo autentico, perché
— come s’è detto parlando delle « pratiche devote » di estrazione pro­
priamente privata e individuale — spesso sconfinavano in situazioni super­
stiziose o traevano motivi che si rifacevano a una mentalità religiosa più
« naturalistica » che cristiana, non può meravigliare, se si riflette alla man­
canza o almeno airinsufficienza di una vera catechesi evangelizzatrice, che
ha caratterizzato la Chiesa dal secolo x in poi.
In tutto questo travaglio storico-spirituale e non ostante tutti gli aspetti
negativi, che restano a carico di questi « pii esercizi », si deve fare attenzione
a non rovesciare le parti — come talvolta hanno fatto i fautori del movi­
mento liturgico in lotta contro l’invasione dei « pii esercizi » nel culto cri­
stiano — e cioè: i «pii esercizi», considerati soprattutto nei loro lati ne­
gativi, non sono tanto la causa, quanto il segno di una decadenza spirituale-
liturgica. Contro una Liturgia decadente essi si sono posti — forse spesso sba­
gliando — il compito di rifare una Liturgia, che fosse viva a livello di popolo.
Resta comunque il fatto storicamente innegabile che non sono pochi i
momenti, sia pure effimeri, di primavere religiose, che devono ascriversi al
sorgere e diffondersi dei « pii esercizi », che dopo uri azione liturgica scarsa­
mente frequentata, riempivano letteralmente le chiese. Si pensi à quel che
avveniva ancora pochi anni fa — e in parte è ancora cosa di oggi — nel
Triduo pasquale. Si sa che le sue celebrazioni liturgiche, di primaria impor­
tanza per la vita cristiana, avvenivano al mattino di giorni, che ormai per
tutti erano diventati « giorni lavorativi », ed esse restavano quindi deserte.
Il prete doveva celebrarle, ma Porario a cui le norme liturgiche, avulse dalla
vita del popolo, lo obbligavano, rendevano la sua una « Liturgia solitaria ».
M à il « popolo cristiano » non aveva rinunziato al suo Triduo pasquale,
e così negli stessi giorni, ma nelle ore serali, i « pii esercizi » — un po’
caoticamente ordinati per una precedente incomprensione della celebrazione
liturgica — del « sepolcro », dell’agonia, della Via crucis, della processione
del Cristo morto, richiamavano moltitudini di fedeli. Che cos’era questo
se non un tentativo di tradurre in linguaggio, in stile e in orario popolare
il contenuto di riti, che non solo erano di difficile comprensione, ma che si
continuava a celebrarli in ore impossibili, come se per essere riti « litur­
gici » dovessero essere «fuori del tempo»? Non c’è dubbio che molte cri­
tiche si potevano muovere a queste « traduzioni » popolari in materia li­
turgica; ma si potrà ragionevolmente contestare che esse rispondevano ad una
necessità e che a modo loro dimostravano come il popolo fosse attaccato alla
realtà se non alla forma liturgica, e non fosse disposto a vederla morire, chiusa
nell’inaccessibile suo palazzo rituale, prigioniera delle sue stesse tradizioni?
A questo punto, e cioè dopo interrogata criticamente la storia relativa
al sorgere dei «pii esercizi», la domanda che s’impone è questa: I «pii
esercizi », quando sono a livello di « Chiesa » e cioè di comunità in senso integral­
mente ecclesiale (corpo di Cristo con il suo capo visibile) e quando ripresentano
il mistero di Cristo, sono o non sono « azioni liturgiche » ?
155 Liturgia e non-liturgia

Se la Liturgia non è costitutivamente data dall’ordinamento dell’auto-


rità gerarchica, ma nasce dalla Chiesa, in quanto comunità cultuale del NT ;
se la Liturgia non è data dallo stile delle sue forme, né dalla lingua latina
— una volta ritenuta, come lingua « sacra », indispensabile all’azione litur­
gica nella Chiesa occidentale — ma è data dal contenuto, che è appunto
il mistero di Cristo, reso presente là dove « due o tre sono radunati nel nome
di Cristo », non si vede perché molti « pii esercizi », che veramente ri­
spondono a queste esigenze, non possano avere valore di « azione litur­
gica ».
Di fatto sappiamo che oggi questo non è possibile, perché c’è una legi­
slazione che vi si oppone. Ma a riflettere, quale è la profonda differenza che
passa tra l’annunzio di un mistero, fatto seguire da una decina di Ave Maria,
come si usa nel pio esercizio del rosario, e l’annunziare il medesimo mistero,
sotto forma di « antifona », facendolo seguire da un salmo, come avviene
nell’ Ufficio liturgico della festa della Madonna del rosario? In verità l’unica
differenza che si può notare è quella formale della scelta di un’Ave Maria
al posto di un salmo; in quanto al contenuto e quindi al «valore cultuale»,
non vi è certo altra differenza che quella — « giuridica » e non « teo­
logica » — che si riscontra tra una Liturgia che è tale, perché è « coman­
data », e il « pio esercizio », che è tale perché è soltanto « raccomandato »
dall’autorità gerarchica della Chiesa.
Ma sappiamo anche che se — a ragione — « l’ordinamento della Li­
turgia è unicamente di competenza dell’autorità della Chiesa » x, questo
non è l’elemento « costitutivo » ma solo « dichiarativo » della Liturgia. In
altre parole, l’autorità della Chiesa può « dichiarare » che il « pio esercizio »
contiene tutto quello che è necessario perché sia « Liturgia ».
D ’altra parte non è la stessa SC 35, 4 ad avviare su un piano « liturgico »
i « pii esercizi », quando inculca « celebrazioni della Parola » non solo in
vista delle solennità (nuova forma possibile di « novene »?), ma soprattutto
nei luoghi sprovvisti di pastore proprio, purché la celebrazione avvenga
con la « presenza » delegata del vescovo, rappresentato da un diacono o
da altro incaricato ? Che cosa vuol dire questo, se non dichiarare « celebra­
zione della Chiesa », quello che per sé appare come un « pio esercizio » ?
E quando in SC 41 si dice che « la maggiore manifestazione della Chiesa
(prima manifestazione dell’azione liturgica, come s’è detto sopra) si ha
quando tutto il popolo di Dio si raccoglie in plenaria partecipazione attiva
nelle celebrazioni liturgiche », e tra queste, segnalata al primo posto (praesertim)
l’Eucaristia, viene inclusa anche la preghiera celebrata unitariamente col ve­
scovo : che cos’è se non un assegnare una posizione « liturgica » a « riunioni
di preghiera », che prima passavano come « pii esercizi », e che invece ora
si scopre che sono « celebrazioni della Chiesa » ?

Per concludere crediamo di poter dire quanto segue:


1. Resta fermo che qualunque forma di preghiera « privata-individuale »,
pur essendo, sul piano cristiano, fatta nel corpo di Cristo, non è per sé mani­
festazione del corpo di Cristo, e quindi non è « azione liturgica ».1

,
1 SC 22 1-2.
156 parte l - capitolo V

2. Ogni forma di preghiera che la comunità cristiana esercita in quanto


Chiesa (corpo e capo, ossia: «popolo unito al suo pastore») con l’intento
di celebrare il mistero di Cristo, è da ritenersi fondamentalmente « litur­
gica » e capace di essere dichiarata tale.
3. La forma, lo stile, la lingua in cui questa celebrazione avviene, non
incidono per sé sul suo valore « liturgico » né in senso positivo né in senso
negativo. In altre parole: forma, stile, lingua sono da giudicare in rapporto
al principio dell’adattamento, sancito da SC 37-40, e che a modo suo la storia
già ci dimostra. Quando si riteneva infatti che elemento essenziale della
Liturgia fosse una certa forma, abbiamo visto che quelli che prima erano
« pii esercizi » sono saliti al rango di « azioni liturgiche », dietro un semplice
travestimento « formale ». Basti pensare alla processione e alla benedizione con
il Sacramento, che da fatti «devozionali» diventano funzioni liturgiche;
alla devozione al S. Cuore che assurge a festa « liturgica », ecc.
4. Tutto ciò non vuol dire introdurre nella Liturgia quel che « Liturgia »
non è o non può essere; ma vuol dire piuttosto farci prendere coscienza
che la Liturgia non è né deve necessariamente essere qualcosa che è valido
solo per un motivo tradizionale o per una sanzione giuridica, ma che al con­
trario deve essere qualcosa che, salvate le componenti che le sono essenziali
(« rivelare la Chiesa » e « attuare il mistero di Cristo »), possa esprimersi nelle
forme, che il « popolo di Dio », guidato dai propri pastori, trova più rispon­
denti al suo momento storico, culturale e psicologico.
5. Naturalmente, siccome la Liturgia rientra nel dato della rivelazione,
spetterà sempre all’autorità magisteriale della Chiesa il « dichiarare » (non
il « costituire ») che un certo « pio esercizio » — pur nella sua forma pro­
pria e nel suo stile popolare — è veramente « Liturgia », perché in effetti
realizza le già spiegate « componenti essenziali » di ogni autentica azione
liturgica.
parte seconda

ermeneutica liturgica
capitolo primo

principi di interpretazione dei testi liturgici


(a cura di M. Augé)

introduzione

Si può dire che la funzione della scienza liturgica consiste nella rifles­
sione teologica sulla vita liturgica della Chiesa in quanto viene effettuata
e in quanto dovrà essere realizzata secondo i principi conoscitivi che deri­
vano in parte dalla struttura permanente della Chiesa e in parte dall’analisi
teologica delle varie situazioni storiche della stessa L Secondo questa affer­
mazione, si può parlare di due diverse e complementari prospettive della
scienza liturgica e, per tal motivo, anche del metodo e della tecnica del lavoro
scientifico liturgico: i. una metodologia liturgica, che è fondamentalmente
una ermeneutica della realtà liturgica vissuta dalla Chiesa; 2. una meto­
dologia liturgica, che è fondamentalmente una criteriologia della riforma e
della creatività liturgiche 2. Noi ci limitiamo al primo di questi due aspetti.
Lo studio scientifico della Liturgia come realtà vissuta dalla Chiesa in
genere, e la indagine liturgica in particolare, presentano esigenze proprie
di metodo specifico. Si può parlare di una vera e propria metodologia li­
turgica : essa, pur avendo una sua fisionomia tipica, è strettamente connessa
con la metodologia teologica e con la metodologia della scienza storica e
della scienza giuridicaa. Presupponendo quindi la conoscenza dei principi
fondamentali delle metodologie teologica, storica e giuridica e, naturai-12 3
1 Cfr. H. Rennings, Obiettivi e compiti della scienza liturgica, in «Concilium » 5, 1969, 2, 150.
2 Sul tema della creatività liturgica esiste oggi una sempre più crescente bibliografia. Pre­
sentiamo soltanto alcuni numeri monografici dedicati dalle diverse Riviste a tale argomento:
«Concilium » 5, 1969, 2: dedica una serie di studi interessanti al futuro della Liturgia.
« Phase » io, 1970, 50, 325-392, Liturgia y acontecimiento: presenta una serie di articoli orien­
tati ad approfondire il tema deirincarnazione della Liturgia nelFoggi della storia.
«Concilium » 7, 1971, 2: raccoglie diversi studi sul culto e il cristiano d’oggi.
«L itu rgia» 26, 1971, 254, 187-299, Creatividad litúrgica.
«Liturgie et vie chrétienne » 1971, 75, Prier aujourd'hui.
«Rivista Liturgica» 58, 1971, 1, Preghiera liturgica, forma ed espressione: contiene alcuni articoli
che riguardano il tema della creatività nella Liturgia.
« L a Maison-Dieu » 1972, i l i , Créativité et liturgie: gli articoli di questo numero mettono in
evidenza la complessità del problema della creatività in Liturgia.
3 Cfr. P. de Puniet, La méthode en malière de liturgie, in « Cours et conférences des semaines
liturgiques » 2, Abbaye de Maredsous 1914, 41-77; R. Guardini, tfber die systematische Methode
in der Liturgiewissenschaft, in «Jahrbuch f. Liturgiewissenscbaft » 1, 1921, 97-108; Ph. Oppen­
heim, Institutiones systematico-historicae in sacram Liturgiam, V : Introductio in scientiam liturgicam, Torino
1940: H. Rennings. Obiettivi e compiti della scienza liturgica, in «Concilium » 5, 1969, 2, 139-157*
160 parte II - capitolo I

mente, i principi di metodologia generale, la metodologia liturgica si propone


come suo obiettivo specifico di chiarire ulteriormente la natura e il valore
dei documenti o delle fonti proprie della Liturgia e di introdurre allo studio
del loro contenuto, per una conoscenza più profonda della Liturgia stessa.
Le fonti della Liturgia si possono ricondurre a cinque principali: mondo
religioso naturalex, Sacra Scrittura2, Padri della Chiesas, Concili12 4, libri
3
liturgici5. Ebbene, a parte i libri liturgici, tutte le altre fonti elencate sono
tali anche e soprattutto per la scienza teologica in generale e non possono
quindi ritenersi riservate al campo esclusivamente liturgico. I libri liturgici,
invece, rappresentano un prodotto specifico, e il più genuino, della Li­
turgia. In essi, e particolarmente nei testi eucologici, sono rimaste plasmate
le ricchezze del mistero celebrato dalla Liturgia, motivo per cui tali testi
costituiscono nello stesso tempo anche la fonte più preziosa da cui può na­
scere la conoscenza del mistero del culto cristiano. I testi liturgici rappre­
sentano quindi un patrimonio di sana tradizione a cui è necessario rife­
rirsi continuamente per conoscere il pensiero autentico della Liturgia sulle
realtà cristiane che essa contempla e sulla stessa Liturgia. L ’esegesi di tali
testi comporta un metodo particolare, in ragione della loro natura.
Nei documenti o fonti della ricerca scientifica possiamo distinguere un
duplice valore: uno estrinseco e uno intrinseco. Il valore estrinseco di un
documento si fonda sulla sua autenticità, verità, autorità e funzionalità:
cioè sulla identificazione dell’autore, dell’origine del documento, del tempo
e dell’ambiente dello stesso, e, trattandosi di un documento liturgico, sul­
l’uso che di esso si è fatto nel culto. Il valore intrinseco del documento, in­
vece, si identifica col valore del suo più autentico contenuto, con la sua
forza espressiva e, trattandosi di un documento liturgico, con il suo speci­
fico senso liturgico. La critica ha il compito di indagare sul valore estrinseco,
mentre l’ermeneutica si preoccupa di far luce sul valore intrinseco.
Ricordiamo alcune nozioni di critica, che riteniamo necessarie prima di
affrontare il nostro argomento specifico, cioè l’ermeneutica dei testi liturgici.
Il valore estrinseco di un documento è messo in chiaro attraverso un du­
plice procedimento di critica interna e di critica esterna. La critica esterna
parte dai dati esistenti al di fuori del documento in questione: testimonianze
degli autori, citazioni e altre notizie storiche. La critica interna parte invece
dal documento stesso, cioè trae i suoi argomenti dalla terminologia, dallo
stile e dalla teologia particolari emergenti dal documento in esame. I cri­
teri esterni, quando sono sufficienti e veridici, offrono già per se stessi un cam­
mino sicuro al lavoro di ricerca, cammino che i criteri interni possono poi

1 Cfr. L. Bouyer, Le rite et Vhomme. Sacratiti naturelle et liturgie (Lex orandi, 32), Paris 1962;
A. Kirchgàssner, La puissance des signes. Origines, formes et lois du culte, Paris 1962 ; C. Castro Cubells,
El sentido religioso de la Liturgia, Madrid 1964.
2 Cfr. J. Daniélou, Théologie du Judéo-Christianisme (Bibliothèque de Théologie) : Histoire des
doctrines chrétiennes avant Nicée I, Toum ai 1958; O. Cullmann, La foi et le cuite de l'Eglise primitive
(Bibliothèque thcologique), Neuehàtel 1963; F. Hahn, Il servizio liturgico nel cristianesimo primitivo
(Studi Biblici, 20), Brescia 1972*
3 Cfr. M. Pellegrino, I Padri della Chiesa come fonte della Liturgia, in A A. W., Introduzione agli
studi liturgici, Roma 1962, 97-110; C. Vagaggini, Il senso teologico della Liturgia. Saggio di Liturgia
teologica generale, Roma 19654, 556-590.
4 Cfr. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, voi. I: Introduzione generale, Milano 19502, 33-36.
5 Cfr. C. Vogel, Iniroduction aux sources de Vhistoire du cuite chrétien au Moyen Age, Spoleto. È un
buon strumento di lavoro Topera di K . Gamber, Codices liturgici latini antiquiores (Spicilegii Fri-
burgensis Subsidia. 1), pars prima et pars secunda, Fribourg 1968a.
161 principi di interpretazione dei testi liturgici

rendere ancor più sicuro e definitivo. In ogni caso, il metodo della critica
interna e quello della critica esterna si completano a vicenda L
Il fine del lavoro critico è dunque di determinare con la maggiore pre­
cisione possibile il contesto storico e dottrinale delle fonti, cioè il loro « Sitz
im Leben ». Il contesto storico di un documento liturgico è dato anzitutto
dalla determinazione della sua data, dell5autore e delPambiente geografico.
Si tratta di tre elementi ugualmente importanti: il poterli definire del tutto
o in parte eviterà il pericolo che il documento in questione resti soffocato
dall’anacronismo. È importante che Pindagine sul contesto storico del docu­
mento liturgico si allarghi alPambiente storico più vasto di cui fa parte il
testo stesso.
Inoltre, la determinazione del contesto storico di un documento litur­
gico, presuppone che si rintracci la funzione che il testo rivestiva origina­
riamente. Generalmente i testi liturgici sono stati usati nel culto, cioè hanno
assolto — come si suol dire — a una « funzionalità liturgica ». Rintrac­
ciare i termini della funzionalità liturgica di un determinato testo, può sup­
plire eventuali lacune sulla sua data e sull’autore, mentre al tempo stesso
è garanzia del valore tradizionale dell’elemento preso in esame.
Per definire il contesto dottrinale del documento liturgico, si deve anzi­
tutto stabilire la natura del testo in rapporto alla Liturgia: cioè se si tratta
di un documento che si riferisce alla Liturgia direttamente o solo indiretta­
mente o casualmente. I documenti che sono in rapporto diretto con la Li­
turgia si possono dividere in quattro gruppi fondamentali: commentari li­
turgici, formule liturgiche, rubriche e ordinamenti sulla Liturgia. Tra tutti
questi, il gruppo di maggiore interesse da un punto di vista dottrinale è
senza dubbio la formula liturgica e, all’interno di questa categoria, il testo
eucologico, in quanto in esso si manifesta con maggiore originalità il pen­
siero della Chiesa.
Sia per il lavoro critico come per quello ermeneutico, è della massima
importanza analizzare il contenuto dei testi eucologici alla luce del pensiero
dei Padri e dell’ambiente teologico dell’epoca, cui appartengono i docu­
menti in esame. Gli studi recenti sugli antichi Sacramentari romani hanno
dimostrato quale prezioso aiuto offra questo metodo al fine di evidenziare
le ricchezze dell’eucologia liturgica 123
.
Poste queste premesse indispensabili, che inquadrano i documenti li­
turgici nel loro contesto proprio, possiamo ora rivolgerci alla questione che
qui ci interessa: l’interpretazione dei testi liturgici.
L ’ermeneutica si propone, in genere, di dare delle norme per l’interpre­
tazione del contenuto intrinseco dei documenti e degli studi che sono og­
getto dell’indagine scientificaa. La finalità propria dell’ermeneutica dei

1 U n ’opera che ha riscosso unanimi consensi per la correttezza metodologica con cui la uso
dei criteri della critica interna ed esterna nell’attribuzione di diciotto formulari del Sacramentario
,di Verona a Gelasio I, è ([nella di G. Pomares, Ge'/nsc I er. Lettrcs confíe les Lufterralcs et dix-huit Messes
du Sacramentane Léonien (Sources Chrctiennes. 65), Paris 1959. Si veda, per altro la critica di A.
Lauras, Etudes sur Saint Leon le Grand, in « Recìierchcs de science religicuse » 49, 1961, 498, nota 78.
2 Da questo punto di vista, oltre Popera rii G. Pomares che abbiamo ora citato, merita la nostra
attenzione lo studio di A. P. Lang. Leo der Grosse tmd die Texte des Altgelasìanums mil Berücksichtigung
des Sacramentarium Ijeonianum und des Sacrarnentanum Oregorianwn, Steyf 1957.
3 Se l’esegesi è l’interpretazione quasi sempre dei testi scritti, lo è anche delle altre realtà,
come l’arte, la tecnica, ecc. ; Yermeneutica invece, in un senso molto generale, è considerata come
la « teoria dell’interpretazione ».
162 parte II - capitolo I

testi liturgici consisterà dunque nel proporre norme di metodologia per l’in-
terpretazione dei testi liturgicih
Nella Liturgia si incontrano un complesso di testi molto vari per ori­
gine, genere letterario ed anche per il tipo di utilizzazione che trovano nella
Liturgia stessa. Si deve perciò distinguere innanzitutto i diversi generi sotto
cui si possono ricondurre i vari testi liturgici12*. Possiamo porre una prima
divisione in due grandi gruppi: secondo che si tratti di formule che la Chiesa
attinge direttamente dalla Sacra Scrittura o di formule create espressamente
dalla Chiesa per il culto. Nel primo gruppo si distinguono nettamente le
letture scritturistiche e i canti biblici; al secondo gruppo appartengono in­
vece tutte le altre formule composte dalla Chiesa, sia testi eucologici che
testi poetici. A questi due grandi gruppi bisogna aggiungere i testi patri­
stici, usati dalla Liturgia soprattutto nell5Ufficio della lettura.
I testi eucologici sono i più interessanti per noi, al fine di fare maggior­
mente risaltare la capacità creativa della Chiesa. Tali testi rivestono espres­
sioni molteplici dal punto di vista della struttura, e molto diverse Puna dal­
l’altra. Troviamo così testi eucologici diretti a Dio (anafore, formule di be­
nedizione e consacrazione, preghiere...), altri invece diretti all’assemblea:
come le esortazioni; e infine ci sono i testi deprecatori (esorcismi). Sotto
un altro punto di vista, si può distinguere tra formule spettanti al sacer­
dote e formule proprie dell’assemblea.

I i testi biblici

Ci limitiamo qui a indicare il significato che riveste, nell’ambito della


celebrazione liturgica, il tipo di uso e la distribuzione dei testi biblici. Te­
niamo presente soprattutto la celebrazione eucaristica.
Distinguiamo tra letture e canti biblici. Tale distinzione si fonda sulla
diversa funzione liturgica che questi due tipi di testi scritturistici svolgono
nell’ambito della celebrazione liturgica. Lo schema dottrinale della Liturgia
della Parola, in cui si incontrano questi due tipi di testi, è costituito dalla
proclamazione della Parola di Dio per mezzo della lettura biblica all’as­
semblea, e dalla risposta che l’assemblea stessa, accogliendo nella fede la
Parola, dà a Dio per mezzo dell’orazione e del canto. La Liturgia della
Parola è perciò un dialogo tra Dio e il suo popolo. Ebbene: la struttura
dialogica della celebrazione liturgica deriva dalla stessa natura dialogica
dell’intervento di Dio nella storia della salvezza. Specialmente là dove
l’intervento di Dio appare particolarmente clamoroso, la gratitudine del

1 A lla base deirerm eneutica dei testi liturgici vi è la problem atica generale dell’ermeneutica
teologica, tema che oggi è oggetto di particolare riflessione da parte degli studiosi. C i limitiam o
ad elencare alcuni studi più rappresentativi: E. Simmons, Die Bedeulung der Hermeneulik für die
katholische Theologie, in « C a th o lic a » 21, 1967, 184-212; A A . V V ., Die hermeneutische Froge in der
Theologie, Freiburg 1968; B. Casper, Die Bedeutung der phìlosophischen Hermeneutik fiìr die Theologie
in « Theologische Quartalschrift » 148, 1968, 283-302; G. Stachel, Die neue Hermeneutik, M iinchen
1968; C. M olari, La fede e il suo linguaggio. Saggi di teologia, Assisi 1972: si veda soprattutto il
cap. I I: Principi per un'ermeneutica del magistero, 66-98.
2 Cfr. P. A . R oguet, I generi letterari dei testi liturgicij loro traduzione e uso liturgico, in Le tradu­
zioni dei libri liturgici (Atti del Congresso tenuto a R om a il 9-13 novem bre 1965). C ittà del V a ti­
cano 1966, 145-160.
163 principi di interpretazione dei testi liturgici

singolo fedele o del popolo irrompe in una dilagante litania di gioia fino
ad esprimersi in un canto o in un salmo. Gli esempi abbondano, sia nelPAT
come nel N T (cfr. Es 15, 1-18.21; 1 Sam 2, 1-10; Dan 3,26-90; Giudit
16,1-16; Le 1,46-55; Le 1,68-79; Le 2,29-32).
Ai due momenti rituali o didattici della Liturgia della Parola corri­
spondono dunque, rispettivamente, le letture e i canti biblici. A volte, questi
due momenti della proclamazione e della risposta si intrecciano, proprio
come avviene nel canto-salmo responsoriale o graduale, che è il canto bi­
blico principale e fondamentale dell’antica Liturgia della Parola 1. Il salmo
responsoriale è in primo luogo Parola di Dio, e come tale viene proclamato
dal ministro sacro mentre Passemblea è in ascolto. Ma i fedeli intervengono
con un ritornello, preso normalmente dal salmo stesso. In questo modo la
risposta della fede dell’assemblea si intreccia con la proclamazione della
Parola stessa di Dio, e si stabilisce un dialogo tra Dio e Passemblea.

1 Le letture

Per quel che riguarda il sistema o il criterio delPuso della Sacra Scrit­
tura nella Liturgia, ci troviamo di fronte a tre sistemi principali: lettura con­
tinua, semicontinua e a tema.
Da quanto ci risulta, sembra che la Chiesa dei primi secoli abbia usato
di preferenza o esclusivamente il sistema della lettura continua, o per lo meno
semicontinua12. La lettura continua polarizza Pattenzione sul messaggio glo­
bale della Sacra Scrittura e sull’unità della storia della salvezza, più che su
un determinato passo della Sacra Scrittura stessa. Il sistema della lettura
semicontinua, da parte sua, mentre conserva Pobiettivo fondamentale della
lettura continua, evita le difficoltà che possono presentare certi libri sacri o
alcuni passi in determinate celebrazioni cultuali. In realtà la lettura semi­
continua comporta già di per sé una certa selezione per il fatto stesso che un
determinato libro della Sacra Scrittura si legge in un certo periodo delPanno
liturgico, o che certi passi sono volutamente omessi oppure riservati a cele­
brazioni ben precise. Le diverse tradizioni liturgiche seguono criteri co­
muni o particolari nel determinare questi sistemi di selezione, criteri che
Permeneutica liturgica deve evidenziare e valutare attentamente.
La lettura a tema fa la sua comparsa a partire dal m-rv secolo, seguendo
lo svolgimento delPanno liturgico e Pestrinsecarsi del suo mistero attra­
verso celebrazioni distinte. Pasqua, Pentecoste e più tardi Natale, Ascen­
sione, ed anche il tempo preparatorio e quello successivo alla Pasqua, le feste
di san Pietro e san Paolo, ecc. usufruiscono normalmente di letture proprie,
in armonia con il significato della festa.
Il lezionario attuale della Chiesa romana è caratterizzato dalla com­
binazione dei due sistemi di lettura semicontinua e a tema.
Passando ora ad esaminare i criteri di distribuzione delle letture bibliche
lungo Panno liturgico, distinguiamo i suddetti cursus. I due cursus fondamentali
sono quello domenicale e quello feriale. In genere, i cursus domenicali sono
i più importanti, cioè contengono le pericopi fondamentali della storia della
1 Cfr. L. Deiss. Le bscume traduci, in « Assemblées du Seigneur » 2e sèrie. 2. i q 6 q. 40-72.
2 Cfr. C. Vogel, 0. c., 252-253.
164 parte II - capitolo I

salvezza. Ricordiamo come caso tipico la primitiva distribuzione delle letture


bibliche nelle messe domenicali della Quaresima romana, letture passate
in seguito ai giorni feriali e ora nuovamente inserite nel cursus domenicale
di Quaresima 1.
Passando a parlare della celebrazione eucaristica in particolare, notiamo
die le diverse tradizioni liturgiche hanno conosciuto Puso di due o più let­
ture bibliche, tratte dalPAT e dal NT. Questa pratica tradizionale trova
giustificazione nell’unità dei due Testamenti e di tutto il messaggio biblico
in generale. Ebbene, tali letture possono essere scelte con l’esplicito intento
di armonizzare i diversi contenuti o terni: è questo il caso dell’attuale lezio-
nario della Liturgia romana a. È opportuno quindi fare un raffrontamento
reciproco tra le letture. Ed è parimenti cosa fruttuosa vedere i rapporti esi­
stenti tra le letture, i canti biblici e gli stessi testi eucologici. Questo lavoro
di comparazione è di grande aiuto per determinare i criteri seguiti dalle di­
verse tradizioni liturgiche nella distribuzione delle letture, per scoprire l’e­
ventuale esistenza di un tema comune nel formulario liturgico, ecc.
E per completare Panatisi non possono essere dimenticate le conclusioni
della scienza della Liturgia comparata12 3. Così, per esempio, è tradizione
comune all’Oriente e all’Occidente l’uso di leggere l’Evangelo di san Gio­
vanni durante il ciclo pasquale. Ma mentre l’Occidente ne legge la prima
parte, cioè le pericopi mistagogiche, durante la Quaresima, riservando la
parte rimanente per il tempo pasquale, in Oriente invece si legge san Gio­
vanni solo durante il tempo pasquale.

2 I canti

Distinguiamo i salmi dagli altri canti biblici.


Nella stessa scelta dei diversi salmi per il culto, la Liturgia già propone
una ben precisa interpretazione del salterio. Ci sono salmi caratteristici
delFAvvento, della Quaresima, ecc.; certi salmi sono caratterizzati dalla
tradizione liturgica come salmi mattutinali o vespertini. Ci sono salmi pro­
cessionali, di azione di grazie, di lode, di penitenza, di meditazione. Il che
non vuol dire che la Liturgia si arroghi la pretesa di dare ai salmi un senso
diverso da quello letterale. Nel senso letterale immediato è contenuto come
in germe un senso più profondo della Sacra Scrittura che adesso, dopo la
venuta di Cristo, può essere scoperto per il fatto che i testi vengono inseriti
in una più ampia prospettiva della storia della salvezza. Quando la Liturgia
interpreta i salmi, stabilisce dunque un contatto immediato e vitale con
la rivelazione 4. Alla luce di questo principio fondamentale la ermeneutica
liturgica deve valorizzare l’uso tradizionale che la Liturgia ha fatto di ogni
singolo salmo e l’interpretazione che ne ha dato.
Per individuare i motivi che hanno portato alla scelta di un determinato

1 Sulla storia di queste pericopi, cfr. A. Chavasse: A. (A M artim ort, La Chiesa in preghiera.
Introduzione alla liturgia, R om a 1963, 757-758; T h. M aertcns, Storia e funzione delle tre granai peri­
copi « de caeco nato», «de samaritana», « de Lazaro», in « C o n c iliu m » 3, 1967, 2, 73-78.
2 II caso più comune è quello delle domeniche per annum, nelle quali è stata fatta una arm o­
nizzazione tra la lettura evangelica e la lettura veterotestamentaria.
3 Cfr. l’opera fondamentale di A. Baumstark, Liturgie comparée. Principes et méthodes pour Vétude
historique des liturgies chrétiennes, éd. revue par Dom B. Botte, Chevetogne-Paris 19533.
4 Cfr. P. Drijvers, Los salmos. Introducción a su contenido espiritual y doctrinal, Barcelona 1962.
165 principi di inter prelazione dei testi liturgici

salmo per un ben preciso ufficio di preghiera, si devono consultare innanzi­


tutto le regole monastiche, gli ordines degli uffici cattedrali e monastici, e i
commentari patristici ai salmi.
Dal punto di vista strettamente musicale, i salmi si distinguono a seconda
della loro struttura musicale: sillabica, che dà al testo il senso dell’accla-
mazione e ne favorisce la recitazione comunitaria; neumática e responsoriale, più
adatta ai salmi meditativi: le parole sono pronunciate lentamente e alcune
frasi sono persino ripetute. Si possono anche considerare i salmi a seconda
della forma di esecuzione: in diretto, responsoriale, a cori alterni, continua...
I canti biblici, composti secondo le regole ebraiche (parallelismo e ritmo)
e tratti dai libri dell’A T e NT, ricevono nella Liturgia romana un uso si­
mile a quello dei salmi. Così, per esempio, i canti usati nell’ufficio della pre­
ghiera del mattino e del vespro. Ci sono canti usati in determinati tempi
dell5anno liturgico, come, ad esempio, i canti di Isaia in Avvento e quelli
dell’Apocalisse nel tempo pasquale. Certi canti accompagnano determinati
momenti della celebrazione, come i canti dell’introito, dell5offertorio e della
comunione, quest’ultimo preso frequentemente, nella Liturgia romana, dal
testo evangelico del giorno. Un’attenzione particolare spetta al canto del­
l’Alleluia, per la ricchezza di significato tutta particolare che assume nella
tradizione liturgica1.
I canti biblici a volte appaiono nella Liturgia con leggere varianti ri­
spetto al testo originale. Si tratta di piccole modifiche dettate da esigenze
musicali o dalla ricerca di un più stretto adattamento del testo biblico alla
solennità liturgica o al momento rituale della celebrazione.
Riassumendo, possiamo dire che l’ermeneutica liturgica dei testi biblici
è principalmente ordinata a scoprire il senso o la funzione liturgica che questi
stessi testi rivestono nell’ambito della celebrazione. L ’uso fattone dalla Li­
turgia presuppone una vera e propria interpretazione dei testi biblici alla
luce del mistero di Cristo celebrato nel culto. Ebbene, per scoprire e valo­
rizzare questa interpretazione, la tecnica ermeneutica analizza attentamente
l’uso e la distribuzione dei testi stessi lungo Tanno liturgico, il posto che
occupano nelle singole celebrazioni, il modo con cui vengono utilizzati,
la loro composizione ed esecuzione musicale se si tratta di canti biblici.
Confronta inoltre il loro contenuto con quello degli altri testi biblici ed
eucologici, consulta i commentari dei Padri e utilizza le conclusioni della
Liturgia comparata. Tutto questo concorre all’unico intento di delineare la
fisionomia propria di ogni testo biblico nell’ambito della celebrazione liturgica.

Il i testi patristici

Parliamo ora dell’ermeneutica dei testi patristici, nella quale si incon­


trano vari punti di contatto con l’ermeneutica dei testi biblici.
Nella ricchissima letteratura patristica, la Liturgia sceglie quei testi
che hanno maggior interesse per la spiegazione del mistero che celebra.

1 Cfr. H. En^berding, Alleluia, in « Reallexikon fur Antike und Christentum » i, 1950, 293-299;
L. Deiss, VAlleluia ou le processionai de VEvangile, in « Assemblées du Seigneur » 2e sèrie, 3, 1969, 78-02.
166 parte II - capitolo )

C. Vagaggini ha diviso la letteratura patristica di argomento teologico-


liturgico, dal punto di vista letterario, in cinque gruppi principali1 : i . Le
catechesi ai catecumeni e ai neofiti sul significato dei riti della iniziazione
cristiana: si tratta della letteratura mistagogica o della iniziazione propria­
mente detta; 2. A partire dal secolo v nascono i trattati di Liturgia in ge­
nere, opere di carattere sintetico, o meglio, monografie su punti particolari.
Questo tipo di letteratura liturgica andò crescendo sia in Oriente che in
Occidente durante tutto il Medioevo; 3. Altro genere letterario che concerne
la Liturgia sono le omelie sulle feste liturgiche. Le più antiche, del secolo
il, trattano naturalmente della Pasqua. A partire dal secolo iv, abbondano
le omelie su tutte le altre feste, seguendo il progressivo sviluppo dell’anno
liturgico; 4. Un genere letterario a parte è costituito dalle lettere pasquali
che i patriarchi di Alessandria erano soliti indirizzare ai propri fedeli, dal
secolo in, alFinizio della Quaresima; 5. Infine, alcuni scritti teologici dei
Padri, di diverso genere letterario, hanno indirettamente un certo interesse
liturgico, che dovrà essere determinato caso per caso.
Ci limitiamo qui a dare molto brevemente alcune norme di ermeneu­
tica per Finterpretazione delle letture patristiche, che la Liturgia usa so­
prattutto nella preghiera delle ore. La lettura patristica è un elemento tra­
dizionale dell5Ufficio notturno romano, nel quale è stata introdotta come
commento alla Sacra Scrittura. La Regola di san Benedetto ne è una testi­
monianza : « Codices autem leguntur in vigiliis divinae auctoritatis, tam
Veteris Testamenti quam Novi. Sed et expositiones earum quae a nominatis
et orthodoxis catholicisque Patribus factae sunt » .12 Quest’uso darà poi più
tardi origine agli Omeliari, che sono proprio collezioni di omelie raccolte dai
santi Padri. Queste collezioni sono generalmente in relazione con i libri della
Sacra Scrittura che si leggevano nei diversi periodi deH’anno liturgico 3.
L ’ermeneutica di questi testi patristici, dovrà tener conto prima di
tutto dei diversi generi letterari a cui tali testi appartengono e della pro­
blematica generale del linguaggio patristico 4. D ’altra parte il compito speci­
fico dell’ermeneutica liturgica, tenendo sempre presente l’origine e la fun­
zione di questo elemento testuale nella struttura dell’Ufficio di lettura, sarà
quello di determinare più concretamente i criteri che condizionano la scelta
delle letture patristiche, della loro disposizione ed uso lungo Panno liturgico.
Si esaminerà perciò: 1. La presenza o meno di un criterio di armonizza­
zione tra le pericopi bibliche e le letture patristiche; 2. L ’eventuale ana­
logia tematica tra il ciclo o tempo liturgico e le letture patristiche; 3. I
criteri seguiti nell’uso e nella distribuzione degli scritti di un determinato
Padre. Così, per esempio, nel nuovo ordinamento di letture patristiche del­
l’Ufficio di lettura romano, si usa la lettura continua di alcuni trattati clas­
sici patristici, come il De Mysteriis di sant’Ambrogio in una parte del tempo
« per annum » 5.

1 G. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia..., 557-562.


2 Regula Benedicti, 9, in L. Holstenius, Codex Regularum Monasticarum et Canonicarum, I, Augsburg
1759; Reimpressio photomechanica, Graz 1957, 121.
3 Cfr. M. Righetti, 0. c.> 251-252.
4 Per tale questione, rimandiamo allo studio di P. Ghiocchetta, Il linguaggio della Patristica.
Orientamenti di fondo e suggestioni in AA. W . , Il linguaggio teologico oggi in « III Congresso Teologico
Nazionale, Sestri Levante, 2-4 gennaio 1969», Milano 1970, 119-169.
5 Cfr. H. Ashworth, Il leziona.no patristico del nuovo Ufficio divino, in AA. W . , Liturgia delle Ore.
Documenti ufficiali e studi (Quaderni di Rivista Liturgica, 14), Torino-Leumann 1972, 221-227.
167 principi di interpretazione dei testi liturgici

III i testi eucologici

I testi eucologici1 si distinguono da tutti i testi biblici anzitutto per di


versità di origine. Le formule eucologiche infatti sono create appositamente
dalla Chiesa per esprimere il mistero del suo culto in un modo che si adatti
alle condizioni socio-culturali dell5assemblea. L ’eucologia delle varie tradi­
zioni liturgiche è quindi la manifestazione più caratteristica della concezione
che una determinata Chiesa locale ha riguardo alla Liturgia e al suo mistero.
Distinguiamo i testi poetici non biblici dagli altri testi eucologici. Tut­
tavia i principi di interpretazione della eucologia che andremo delineando
sono in linea di massima altrettanto validi anche per i testi poetici. Questi
però devono essere interpretati inoltre alla luce delle norme generali di er­
meneutica dei testi poetici.
Indichiamo in primo luogo i principi dottrinali generali di interpreta­
zione dei testi eucologici. Quindi ne studieremo più dettagliatamente la
tecnica interpretativa.

i Principi dottrinali generali di interpretazione

Quando la Chiesa crea formule eucologiche per il culto, fondamental­


mente è mossa dall’intento di trasmettere, illustrare, esercitare e applicare
il potere ricevuto da Cristo in ordine alla realizzazione della salvezza tra gli
uomini.
Trasmettere. La Chiesa ha in sé un potere sacramentale ricevuto da Cristo.
La salvezza realizzata nelPumanità del Verbo si conserva e si continua nel­
l’opera di santificazione che Dio compie in noi per mezzo dei sacramenti
della Chiesa.
La Chiesa si edifica per mezzo della potenza di Cristo nei sacramenti:
« Sacramenta ordinantur... ad aedificationem Corporis Christi » 12. In ge­
nerale, possiamo affermare con san Paolo (cfr. i Cor 14) che il fine di ogni
azione sacramentale o liturgica è una ólxoSójxy), una « edificazione » — in
senso forte — della comunità ecclesiale. La Chiesa nasce, cresce e si forti­
fica nella grazia per mezzo dei sacramenti e mediante l’esercizio delle virtù
che dai sacramenti stessi derivano e a loro volta ad essi conducono.
L ’efficacia dei sacramenti deriva dal fatto che Cristo è in essi presente
ed operante. Nei sacramenti Cristo prolunga la sua azione di mediatore e
rivelatore della salvezza, e la Chiesa fa esperienza della propria salvezza.

1 P. Cagin, Veuchologie latine étudiée dans la tradition de ses formules et de ses formulaires, i . Te
Deum ou illatio? Contribution à Vhistoire de Veuchologie latine à propos des origines du « Te Deum », Abbaye
de Solesmes 1906; 2. « VEucharistie » canon primitif de la Messe ou forrnulaire essentiel et premier de toutes les
liturgies, Tournai-Roma 1912; P. Alfonzo, Veucologia romana antica. Lineamenti stilistici e storici, Su-
biaco 1931; Ph. Oppenheim, Tractatus de textibus liturgicis, Romae 1945; F. Nakagaki, Metodo in-
tegraie. Discorso sulla metodologia nelVinterpretazione dei testi eucologici: Fons Vivus, in « Miscellanea
liturgica in memoria di Don Eusebio Maria Vismara » (Bibliotheca Theologica Salesiana, Ser. I :
Fontes, 6), Zürich 1971, 269-286. Eucologia (dal greco: ebxh = preghiera, e Xóyo? = discorso)
indica propriamente la scienza che studia le preghiere e le leggi che regolano la loro formu­
lazione. In un senso meno proprio, ma di uso corrente, eucologia indica l’insieme delle preghiere
contenute in un formulario o in un libro liturgico.
2 Concilio Vaticano II. Costituzione Sacrosanctum Concilium. 59.
168 parte II - capitolo I

Ogni azione liturgica è quindi una « tradizione », o trasmissione della


-santità di Cristo alla Chiesa e, attraverso di essa, a tutti gli uomini che si
aprono alPazione salvifica del mistero di Cristo. I testi liturgici, in parti­
colare quelli di carattere eucologico, contengono e attestano questa costante
e inviolabile « tradizione » del mistero di salvezza di Cristo alla Chiesa.
Illustrare. La Chiesa trasmette i doni divini di cui è depositaria illustrando
nello stesso tempo la loro natura. Tali doni infatti non operano in modo ma­
gico, ma mediante la loro comprensione e la libera accettazione da parte
degli uomini. Fine precipuo della eucologia, come genere letterario, è di
far luce sulla natura di questi doni: di quali doni si tratta, come sono comu­
nicati ai fedeli, qual è il potere della Chiesa nella loro trasmissione...
Di qui la possibilità di parlare di un carattere didascalico dei testi euco-
logici, il quale va considerato come un aspetto particolare del carattere di­
dascalico della Liturgia in generale. Ebbene, nella Liturgia, il carattere
didascalico non è immediato e diretto: il fine didattico della Liturgia è su­
bordinato al fine cultuale immediato. La Liturgia è un’azione eminente­
mente vitale della Chiesa. Più che esprimere concetti chiari e distinti, più che
insegnare, la Liturgia si preoccupa di sintonizzare l’assemblea partecipante e
di inserirla in un ambiente di preghiera e di donazione a Dio l. Si può
quindi affermare che i testi liturgici esprimono in modo sintetico, universale
e vitale, non però sistematico né necessariamente completo, la natura dei
doni divini che comunicano.
Esercitare. La Chiesa usa le formule eucologiche nell’esercizio vero e
proprio del suo potere sacramentale. I testi eucologici sono, di fatto, ele­
menti costitutivi e per ciò stesso decisivi nella realizzazione del segno salvi­
fico: «accedit verbum ad elementum et jit sacramentum» 12. Al genere eucologico
appartengono le anafore eucaristiche, le formule dei sacramenti e dei sacra­
mentali; rientrano parimenti sotto questo genere le preghiere e le suppliche
della Chiesa con cui essa esercita la potestà ricevuta da Cristo di pregare
il Padre nel nome di Gesù.
Applicare. Il potere santificante di Cristo e della Chiesa non si esercita
in modo puramente astratto in una determinata azione sacra, ma si applica
efficacemente all’uomo concreto, cioè si comunica adeguandosi e adattan­
dosi a quanti partecipano con fede a una determinata celebrazione. I testi
eucologici esprimono e testimoniano tale applicazione efficace e concreta
dei doni di salvezza e pertanto si fanno contemporaneamente eco delle cir­
costanze socio-culturali dell’assemblea.

2 Contesto biblico ed espressione letteraria

I testi eucologici si presentano per un certo aspetto come ispirati e ab­


bondantemente influenzati dalla Sacra Scrittura e, d’altra parte, sono con­
figurati in una veste letteraria propria di un determinato autore, del tempo
e del luogo in cui furono scritti. Questi due fattori caratterizzano non sol­

1 Cfr. C. Vagaggini, o. c 477-485»


2 S. Agostino, In Ioannis Evangelium 80, 3: PL 35, 1840.
169 principi di interpretazione dei testi liturgici

tanto l’aspetto formale, esteriore, del testo, ma influenzano la stessa espres­


sione e comprensione del suo contenuto dottrinale.
Il contesto e le espressioni bibliche non figurano soltanto come testimo­
nianze della tradizione, ma come frutto naturale della comprensione che la
Chiesa ha del mistero di Cristo, nella sua autentica fonte: la Sacra Scrittura.
Soprattutto della Liturgia romana, caratteristica per la sua sobrietà, si può
dire che l’eucologia non fa altro che coordinare, sottolineare e interpretare il mes­
saggio dei passi scritturistici che occupano sempre il primo posto h

La Chiesa che contempla il mistero di Cristo meditando la Parola di Dio,


lo manifesta nel suo culto con espressioni bibliche, servendosi tuttavia di forme
letterarie adeguate alla intelligenza e capacità di comprensione dei fedeli di
un determinato tempo e luogo. Nell’uso delle forme letterarie del suo tempo,
la Chiesa non persegue propriamente un fine letterario, cioè una perfezione
stilistica; quello che cerca è piuttosto una forma nobile e compiuta, oltre
che intelligibile ed espressiva delle realtà sacre celebrate nel suo culto. Da
questa duplice preoccupazione nasce un vero e proprio stile letterario li­
turgico. Questo si verifica soprattutto nella eucologia latina degli antichi
Sacramentari romani. Dai secoli iv-v in poi esiste una tradizione letteraria
comune e una relativa omogeneità di vocabolario. A. Chavasse vede questa
lingua liturgica comune come un linguaggio ieratico, un po’ più solenne
del linguaggio dei documenti ufficiali, e che possiede un suo proprio voca­
bolario tradizionale, suoi temi e frasi tipiche 12.
Si può pertanto parlare di una specifica lingua liturgica. Il latino li­
turgico deriva dal linguaggio particolare dei cristiani; è nell’ambito di questa
lingua e della sua diffusione in Occidente che si è costituita e sviluppata.
Con la creazione di una lingua liturgica, Roma si emancipò dalla tradizione
greca dando così luogo al sorgere di uno stile liturgico eminentemente ro­
mano, senza minimamente tradire lo spirito del cristianesimo.
Il latino liturgico degli antichi Sacramentari romani si forma nei secoli
iv, v e vi. Le sue caratteristiche fondamentali sono le seguenti3:
In un primo momento il latino della Chiesa è caratterizzato dal rigo­
rismo nei confronti di tutta una terminologia derivata dal culto pagano.
Viene escluso dal vocabolario cristiano tutto ciò che ha qualche rapporto
con un senso cultuale di origine pagana. Così per indicare la preghiera i
primi cristiani si sono serviti di un termine speciale, oratio, derivato da orare,
vocabolo antico e poco usato nel parlare corrente del i secolo. La carità
cristiana viene diversificata dall 'amor pagano : caritas o dilectio. Il luogo di culto
per i primi cristiani non è il templum ma la ecclesia, il dominicum, la basilica...

Più tardi, verso il rv secolo, si ha un ritorno all’antico ieratismo del


primitivo genio romano. Il rigorismo dei primi secoli cede il posto a un
certo umanesimo. Non si deve però vedere in questo processo un umane­
simo passivo e tributario: si tratta di una creazione nuova ispirata abbon­
dantemente a tutta la ricchezza sia del linguaggio cristiano che del linguaggio
biblico.

1 Cfr. G. Vagaggini, o. c., 427.


2 A. Chavasse, Messes du Pape Vigile (557-555) dans le Sacramentaire Uonien, in EphLit 66, 1952, 165.
3 Cfr. Ch. Mohrmann, Notes sur le latin liturgiqueì in « Irénikon » 25, 1952, 3-19.
170 parte II - capitolo I

Il vocabolario della lingua liturgica è molto ricco. D ’altra parte vi si


trovano espressioni retoriche, stereotip>ate. Alcune espressioni del parlare
quotidiano non sono ammesse in questa lingua cultuale perché ritenute ba­
nali o poco tecniche.
In una lingua ieratica si deve evitare ogni espressione rozza. Così, per
esempio, nel Veronese non appare mai l’antica opposizione tra spiritualis
e carnalis, espressioni che invece si trovano tra i neologismi più caratteri­
stici del primitivo linguaggio cristiano. Un altro carattere tipico della lingua
ieratica è l’uso di espressioni provenienti dal linguaggio della poesia. Questo
avviene tuttavia con misura e con grande delicatezza. Per fare un esempio:
il termine poetico crúor si incontra più volte nel Veronese. Una volta è ap­
plicato al sangue delle vittime pagane \ due volte al sangue dei martiril2,
mai però al prezioso sangue di Cristo, sempre denominato sanguis.
Il latino liturgico è dunque un fenomeno linguistico assolutamente a
sé, e deve essere esaminato nel contesto del latino dei cristiani: è un suo svi­
luppo, determinato da vari fattori, che in parte abbiamo già indicato.

L ’interpretazione dei testi eucologici degli antichi Sacramentari romani,


che costituiscono anche il substrato principale della eucologia dell’attuale
messale romano, richiede una particolare attenzione. Tali testi rispecchiano
una latinità di valore molto vario, quantunque sempre con note sue carat­
teristiche, almeno nei secoli di creatività. Si deve perciò fare attenzione a
non usare un unico criterio nell’interpretare questi stessi testi, dal momento
che le parole subiscono una evoluzione e prendono significati diversi col
mutare dei tem pi3.

l V c X L , III: ed. L. C. Mohlberg, n. 1246, 159.


2 Ve X X III, V : ed. L. G. Mohlberg, n. 818, 102; Ve X L II, I: l.c., n. 1286, 165.
3 Esiste una serie di monografìe utilissime dal punto di vista linguistico per tale lavoro di in­
terpretazione delle fonti della Liturgia romana. Diam o un elenco per ordine alfabetico di A u ­
tori: A . Bugnini, Patrono, in EncG att 9, 983-990; J. Chatillon, Devotio, in « D ictionnaire de Spi-
ritualité » III, Paris 1957, 702-716; A . Coppo, Vita cristiana e terminologia liturgica a Cartagine verso
la metà del I I I secolo, in EphLit 85, 1971, 70-86; V . D. Agostino, Studi sul significato delle voci animus,
anima, mens, in « A t ti A ccadem ia delle Scienze di T o rin o » 1937, 114-127; A. Daniels, Devotio, in
«Jah rb uch iù r Liturgiewissenschaft » 1, 1921,40-60; W . Diezinger, Ejectus in dcr rómischen Liturgie
(Theophaneia, 15), Bonn 1961; B. Droste, « Celebrare » in der rómischen Liturgiesprache (M ünchener
theologische Studien, II. Systematische Abteilung, 26), M ünchen 1963; W . Dürig, Pietas liturgica.
Studien zum Fròmmigkeitsbegrijf und zur Gottesvorslellung der abendlàndischen Liturgie, Regensburg 1958;
A. Guillaum ont, Les sens des noms du cceur dans Vantiquité: Le Coeur, in « Etudes Carm élitaines » 1050,
41-81, E. Lam irande, La signification de « christianus » dans la théologie de saint Anguslin et la tradition
ancienne, in « Revue des études augustiniennes » 9, 1963, 221-234; H. Leclercq, Patron, in « D ictionnaire
d ’archéologie chrétienne et de litu rg ie» X I I I , 2513-2524; P. T en a G arriga, La palabra Ekklesia.
Estudio histórico-teológico (Colectanea San Paciano. Serie teològica, 6), Barcelona 1958; Idem, Eglise,
in «D ictionn aire de Spiritualité » IV , Paris i960, 370-384.
Altre opere di tipo più generale:
M. P. Ellebracht, Remarks on thè vocabulary of thè ancìsnt orations in thè Missals Romanum (La­
tinitas Christianorum primaeva, 18), second edition, Nijmegen 1966; P. M. Gy, Remarques sur le
vocabulaire antique du sacerdoce chrétien, in Eludes sur le sacrement de VOrdre (Lex orandi, 22), Paris
1957; S. Lyonnet, De peccato et redemptione, II: De vocabulario redemptionis, Romae i960; Ch. Mohr­
mann, Etudes sur le latin des chrétiens, I: Le latin des chrétiens, Rome 1961; II: Latin chrétien et mé-
diéval, Rome 1961; III: Latin chrétien ei liturgique, Rome 1965; H. Pétré, Caritas. Etudes sur le
vocabulaire latin de la charité chrétienne (Spicilegium Sacrum Lovaniense. Etudes et documents, 22),
Louvain 1948.
Preziosi strumenti di lavoro sono i seguenti vocabolari: A. Blaise, Le vocabulaire latin des prin-
cipaux thèrnes liturgiques, Ouvrage revu par Dom A. Dumas, Turnhout 1966; Dictionnaire latin-frangais
des auteurs chrétiens. Revu spécialement pour le vocabulaire théologique par H. Chirat, Turnhout 1954
(Addenda et corrigenda 1962); M. M. Mueller, The vocabulary of pope St. Leo thè Great (The Ca-
tholic University of America. Patristic Studies, 67), Washington 1943.
Alcuni interessanti consigli per l’interpretazione del latino del nuovo messale romano (edi­
zione tipica 1970) si possono trovare in A. Dumas, Pour mieux comprendere les textes liturgiques du
Missel Romain, in «N otitiae» 1970, 194-213.
171 principi di interpretazione dei testi liturgici

3 Tecnica interpretativa

Dopo aver indicato i principi teorici generali per l’interpretazione dei


testi eucologici e le loro peculiarità linguistiche, possiamo addentrarci più
compiutamente nella esposizione della tecnica interpretativa di questi stessi
testi. Ci soffermeremo sulle questioni seguenti: elementi oggettivi o di con­
tenuto dell’eucologia, elementi strutturali o di forma di composizione, carat­
teristiche stilistiche e ritmiche.
a) Elementi oggettivi della eucologia. Gli elementi oggettivi o contenutistici
comuni ai testi eucologici in un certo senso dipendono tutti fondamental­
mente dalla solenne preghiera di benedizione pronunziata da Cristo al mo­
mento della istituzione dell’Eucaristia, nucleo centrale da cui promana tutto
il culto cristiano.
Il carattere pasquale della cena di Cristo sembra incontestabile1. Le
preghiere del rito pasquale giudaico conservano fondamentalmente la classica
struttura della berakà, ed è alla luce di questa formula eucologica ebraica
che viene interpretata la benedizione pronunciata da Cristo sul pane e sul
calice. Seguendo la tematica della berakà, l’elemento eucologico della cena
pasquale ebraica si svolge in tre fasi: azione di grazie a Dio creatore che
ha cura di tutto l’universo e di ogni singola creatura, con bontà, amore e
misericordia; azione di grazie a Dio che ha avuto ed ha ancora attualmente
una particolare cura per il suo popolo eletto: in tale contesto di azione di
grazie il presidente benediceva il pane e tutto ciò che si doveva consumare
nella cena pasquale; infine c’era l’intercessione e la supplica per il popolo,
per la città santa, per il tempio...
Quando Cristo celebra la sua Pasqua nel quadro del rito ebreo, ne ri­
spetta fondamentalmente la forma e, per quanto riguarda il contenuto,
gli dà il compimento propriamente cristiano, verso cui erano orientate le
figure veterotestamentarie. Indubbiamente non è il caso di fare troppe spe­
culazioni sui dettagli della benedizione pronunciata da Gesù, tuttavia, stante
il fatto che fu pronunciata nel suddetto contesto pasquale, è pienamente le­
gittimo cercarne l’orientamento in questo stesso contesto. Sembra così del
tutto probabile che quella preghiera sia stata innanzitutto una confessione
del Padre, che Gesù rivelò ai suoi e al mondo per mezzo del suo nome (cfr.
Gv 17, 1-6). Cristo aveva già altre volte levato la sua benedizione al Padre,
in un modo simile, pronunciando parole riguardanti la propria missione
(cfr. Mt l i , 25-26; Gv i l , 41-42). Appare così chiaro che in quel momento
e in quel contesto Gesù ha cercato di situare la sua venuta nel mondo e il
suo ritorno al Padre dopo il compimento della missione ricevuta. D ’altra
parte, le parole pronunciate sulla coppa fanno pensare che Gesù ha ricordato
per l’ultima volta il significato soteriologico della sua morte. E infine, Gesù ha
pregato per l’unità e la pace della Chiesa di tutti i tempi (cfr. Gv 17, 9-26).
Possiamo quindi ricostruire l’ordine logico e il contenuto essenziale degli
elementi fondamentali della preghiera di benedizione pronunciata da Cristo :

1 Dopo le controversie degli ultimi anni, oggi la maggior parte degli Autori si orientano
verso la teoria di una « atmosfera pasquale » deirultima cena di Gesù, cfr. L. Ligier, Les ori­
gines de la prière eucharistique. De la céne du Seigneur à VEucharistie} in « Questiona Liturgiques » 1972,
181-182.
172 parte II - capitolo I

ricordo dei mirabilia Dei con azione di grazie; santificazione dei doni rive-
vuti dalla provvidenza di Dio; supplica per la Chiesa.
Questi tre elementi sono stati sempre presenti nella tradizione delle ana­
fore della Chiesa e formano il contenuto essenziale della eucologia cristiana.
Lo si vede con particolare evidenza nei testi della tradizione romana più
classica.
I tre elementi classici della eucologia romana possono, è vero, subire
certe trasformazioni, e non sempre compaiono nella successione logica e
così ben distinta che abbiamo sopra esposto. Un caso tipico è la prima pre­
ghiera eucaristica della Liturgia romana o Canone romano, che contiene,
sì, i tre elementi, ma disposti in modo abbastanza disordinato. Così anche
si può dire della benedizione del fonte battesimale del sacramentario gela­
siano antico 2. Per di più, in questa ultima formula, il primo elemento non
compare sotto forma di azione di grazie, ma di semplice invocazione a Dio:
Deus, qui invisibili potentia tua... La stessa cosa si può dire della maggior parte
delle orazioni romane, nelle quali il primo elemento si trasforma in invoca­
zione a Dio. Il secondo elemento si trova configurato con libertà ancora
maggiore, dato il carattere particolare della consacrazione eucaristica nelle
anafore. Spesso è omesso per il fatto che la maggior parte delle formule eu-
cologiche non sono destinate a una particolare consacrazione di doni materiali.
b) Elementi strutturali dell’eucologia. Se gli elementi oggettivi sono l’espres-
sione contenutistica dei testi eucologici, gli elementi strutturali sono la forma
di composizione in cui tale contenuto si esprime. Per questo, ad ogni elemento
contenutistico corrisponde una forma strutturale di composizione.
Abbiamo detto che il primo elemento oggettivo si riduce molte volte a
una semplice invocazione. Il secondo elemento, la santificazione dei doni,
non di rado viene omesso per le ragioni che già abbiamo esposte al paragrafo
precedente. Tutto ciò porta come conseguenza l’accentrarsi dell’attenzione
sul terzo elemento o petizione, che viene ad arricchirsi del fine e in alcuni casi
anche della motivazione che giustifica la petizione.
Gli elementi oggettivi costituiscono dunque il materiale tematico o il
contenuto da cui procedono le forme strutturali di composizione. Tale con­
tenuto, d’altra parte, è in un certo senso subordinato alle forme strutturali
nelle quali viene espresso.

Lo scopo principale delle forme strutturali è di dare al testo eucologico


una maggiore efficacia espressiva, rispettando in generale la disposizione
logica e normale degli elementi oggettivi classici. Anche nei casi in cui non
viene rispettata la successione logica di tali elementi, le forme strutturali
fanno sì che appaia con sufficiente chiarezza la funzione specifica di cia­
scuno di questi elementi. E anzi, l’apparente disordine degli elementi clas­
sici è un fattore positivo a favore della varietà delle forme, molto utile per
una maggiore e più facile compenetrazione del partecipante nella preghiera
della Chiesa*.
In genere, le diverse specie di formule eucologiche hanno ognuna un
modo diverso e caratteristico di usare e ordinare le forme strutturali, so­
prattutto quella dell’invocazione.1

1 Ge I, X L IIII : cd. L. C. Mohlberg, Liber sacramentorum romanae ecclesiae, nn. 445-448, 72-74.
173 principi di interpretazione dei testi liturgici

L ’invocazione conserva anche il suo carattere di lode e di azione di grazie


anzitutto, come è logico, nel preambolo dei prefazi romani. Inoltre, nel
Sacramentario Gelasiano antico sembra essere una caratteristica delle ora­
zioni mattutine e vespertine della Preghiera delle ore. Il Libro III del Ge­
lasiano antico contiene due serie distinte di orazioni per la mattina e per la
sera: Orationes ad matutinasx, Orationes ad vesperum2. In tale complesso di di­
ciannove orazioni, tre conservano la invocazione in forma di azione di grazie:
Gratias tibi agimus, Domine, sancte Pater, omnipotens aeterne Deus,
qu i...8.
Gratias agimus inenarrabili pietati tuae, omnipotens Deus, qui...4.
Gratias tibi agimus, Domine, custodisti per diem, gratias tibi exsolvimur
custodiendi per noctem...6.

D ’altro canto, 1’orazione super populum dà poca importanza alla invoca­


zione. Una indagine nel Sacramentario Veronese dà questo risultato: di
centosessantaquattro orazioni super populum soltanto dieci contengono l’in­
vocazione nt\Vincipit; tutte le altre hanno inclusa la invocazione nella pe­
tizione, ridotta quasi sempre a Domine oppure Deus:
Tuere, Domine, populum tuum ...6.

La orazione super populum è una preghiera di benedizione sulla assemblea,


e per questo tende a sottolineare il contenuto di tale benedizione, accen­
trato sulla petizione. Così il verbo di petizione, generalmente nzìYincipit,
conferisce una particolare forza espressiva all’intera formula. A volte è il
soggetto della benedizione che occupa Yincipit della preghiera. In una si­
mile disposizione degli elementi strutturali è evidente il fine psicologico.
Le orazioni di colletta hanno invece spesso una invocazione « relativa » :
cioè sono accompagnate da una locuzione relativa in funzione dossologica
o commemorativa:
Deus, qui in praeclara salutiferae crucis inventione passionis tuae mira­
cula suscitasti, concede...7.

La motivazione è un elemento strutturale relativamente raro nelle fòrmule


eucologiche, eccezion fatta per il prefazio. L ’embolismo del prefazio, in effetti,
svolge la motivazione della lode e dell’azione di grazie: nel Sacramentario
Veronese la particella quoniam è quasi esclusivamente riservata ai prefazi.
Le orazioni sopra le offerte e quelle dopo la comunione presentano di
solito un elemento strutturale che potremmo chiamare premessa, raramente
presente in altri testi eucologici. Si tratta di un incipit che di solito sottolineaI,

III, L X X X I II I: ibidem, nn. 1576-1586, 230.


2 Ge III, L X X X V : ibidem, nn. 1587-1594, 231.
3 Ge III, L X X X IIII: ibidem, n. 1576, 230.
4 Ge III, L X X X IIII: ibidem, n. 1584, 230.
6 Ge III, L X X X V : ibidem, n. 1594, 231. In tutto il Gelasiano si trovano solo altre tre formule
eucologiche con una invocazione di questo genere: due postcommunio (Ge, nn. 34, 720 = 1233)
e una preghiera super populum (Ge, nn. 204 = 660). Queste preghiere sono state studiate da D.
Sartore, Le orazioni mattutine e vespertine^ dei Sacramentari Romano-Gallici nel contesto della tradizione
eucologica occidentale: Tradizione manoscritta, uso liturgico, contenuto dottrinale, Roma 1967.
6 V e V i l i , V i l i : ed. L. G. Mohlberg, n. 17, 5.
7 Ge X V III: ed. L. C. Mohlberg, n. 869, 138.
174 parte ¡I - capitolo I

il momento spirituale della celebrazione. In genere, su questa premessa si


inserisce immediatamente la petizione. Si può dire pertanto che questo ele­
mento strutturale esprime una circostanza o un concetto da cui parte e su
cui si appoggia la petizione:
Redemptionis nostrae munere vegetati, quaesumus, Domine, ut hoc nobis
perpetuae salutis auxilium fides semper vera perficiat1.
Mysteria tua, Domine, debitis servitiis exsequentes, supplices te rogamus, ut,
quod ad honorem tuae maiestatis offerimus, nobis proficiat ad salutem a.

Alcune formule contengono due o più petizioni. Si tratta, in genere, di


petizioni di valore disuguale e in connessione reciproca. Perfino nelle ora­
zioni più semplici e meno elaborate, si incontra quella che possiamo chia­
mare petizione introduttiva. Si tratta di una vera e propria petizione che è
però strettamente connessa con la petizione che segue; è quindi una peti­
zione puramente preparatoria, cioè tutta la forza della supplica si appoggia
sulla petizione successiva, che è anche di contenuto più definito. La peti­
zione introduttiva non è che un modo di disporre Dio a un atteggiamento di
benevolenza verso la comunità in preghiera:
Adesto, Domine, famulis tuis, et opem tuam largire poscentibus, ut iis, qui
te auctore et gubernatore feliciter gloriantur, et creata restaures, et re­
staurata conserves 8.

Il carattere introduttivo di questa prima petizione è ancora più evi­


dente se consideriamo che sta in prima posizione, e a volte addirittura pre­
cede la stessa invocazione. La petizione introduttiva è di solito espressa in
termini caratteristici: se si tratta di orazioni collette, di orazioni che chiu­
dono una litania, di orazioni dopo la comunione, o di orazioni super populum,
sono usati i verbi come audire, aspicere, adesse e simili. Se si tratta di orazioni
sopra le offerte, ci sono i verbi respicere, accipere..., scelti per introdurre il con­
tenuto fondamentale della petizione.
La distinzione tra petizione principale e petizione introduttiva può es­
sere utile per distinguere tra idee centrali e idee secondarie o accidentali
in una determinata formula eucologica.
Dagli elementi oggettivi procedono quindi le forme strutturali o di com­
posizione, il cui ordine classico e logico è: invocazione, petizione, fine e mo­
tivazione. Tale ordine subisce però molteplici variazioni durante il periodo
aureo della eucologia romana e, a volte, qualcuno di questi elementi può
mancare. Le diverse formule eucologiche tendono a servirsi e a ordinare
anche in modo diverso e loro proprio le formule strutturali, tenuto conto della
particolare funzione liturgica di ciascuna formula.
c) Caratteristiche stilistiche e ritmiche della eucologia. Le questioni stilistiche
non sono questioni puramente formali; al contrario, rivelano problemi
umani, religiosi, psicologici, storici e tipologici4.

! V e X V III, I: ed. L. G. Mohlberg, n. 417, 56.


2 Mis sale Romanumì Dominica V II «per annum», Super oblata; V e X V III, X V I: ed. L. C
Mohlberg, n. 505, 66.
8 Missale Romanum, Orationes super popolum, n. 8.
4 ,
Cfr. P. G. Gülden, I aj stile della lingua liturgica in: AA. W . , Le traduzioni dei libri liturgic
(Atti del Congresso tenuto a Roma il 9-13 novembre 1965), Città del Vaticano 1966, 217-230.
175 principi di interpretazione dei testi liturgici

Lo stile dei testi dell’eucologia latina romana non è quello del latino
classico, ma è il parlare corrente dell’epoca, che contemporaneamente ri­
sente di strutture e reminiscenze classicheggianti e di tendenze derivate dal
nuovo stile creato dal cristianesimo.
La eucologia cristiana trae i suoi primi ornamenti stilistici direttamente
dai testi poetici dell’AT. Indichiamo qui sotto i più importanti ornamenti
stilistici e le loro caratteristiche:
Ampliamento. Si tratta il più delle volte di un ampliamento della invo­
cazione, che può esprimersi: in forma di orazione relativa — la più comu­
ne — : « Deus, qui in Filii tui humilitate iacentem mundum erexisti... » 1; o in forma
di apposizione: «Deus, omnium misericordiarum ac totius bonitatis auctor... » 12;
oppure in forma di orazione relativa e apposizione nello stesso tempo:
« Omnipotens sempiterne Deus, spes unica mundi (apposizione), qui pro-
phetarum tuorum praeconio praesentium temporum declarasti mysteria... » (orazione
relativa) 3.
Si noti come l’ampliamento contenga quasi sempre elementi di anamnesi,
che sottolineano qualche momento o aspetto dell5intervento salvifico di Dio
nella storia degli uomini.
Successione binaria. L 5ampliamento può essere costituito di varie proposi­
zioni; normalmente però si trova composto di due proposizioni ugualmente
proporzionate. Si verifica in tal caso ciò che chiamiamo una successione bi­
naria, che consiste nella successione ordinata di due membri del periodo in
reciproca corrispondenza. È un ornamento molto frequente nella compo­
sizione dell’embolismo del prefazio romano e si incontra anche nelle orazioni
di benedizione super populum.
Il prefazio è costituito di tre parti fondamentali: formula di esordio, em­
bolismo o parte centrale, e formula finale4. Già abbiamo detto, a propo­
sito degli elementi strutturali, che l’embolismo del prefazio svolge la moti­
vazione della lode, cioè esplicita il motivo per cui si loda e si rende grazie
a Dio. Questo embolismo, come abbiamo appena detto, si compone frequen­
temente di successioni binarie. È questa una costruzione caratteristica so­
prattutto dei prefazi di Papa Vigilio. I binari dell5embolismo sono disposti
in modo tale che: il primo e l’ultimo esprimono una tesi ben definita: i
binari intermedi invece, pur proponendo un loro contenuto, sono però in
stretta connessione con le tesi precedente e successive. Se l’embolismo è
costituito solo di due binari, uno dei due dipende sinteticamente dall’altro.
La concatenazione delle diverse tesi si ha per mezzo di un processo logico.
L ’ultima tesi offre la motivazione definitiva e insuperabile che conduce
l’orante all’ammirazione e all’azione di grazie.
Se ne trova un esempio tipico in un prefazio di Papa Vigilio conser­
vato nel Veronese. Esso, partendo da un unico concetto — la relazione
tra male morale e male materiale — , sviluppa sulla base di successioni

1 Missale Romanum, Dominica X IV « per annum », Collecta.


a Ge I, X V II: ed. L. C. Mohlberg, n. 249, 38.
3 Ge I, X L III: Le., n. 441, 71.
4 Uno studio esauriente sulla struttura del prefazio è quello di A. Triacca, La strutturazione
eucologica dei Prefazi. Contributo metodologico per una loro retta esegesi, in « Ephemerides Liturgicae »
176 parte II - capitolo I

binarie una vasta argomentazione che conduce alla fine alla fiducia e
alla riconoscenza verso D io 1:
qui curam nostram ea ratione moderaris,
ut proventus exterior de internorum qualitate procedat.
Nullis quippe forinsecus miseriis adfligemur,
si vitia frenemus animorum;
nec visibili dedecori subiacebit,
qui foedis cupiditatibus obviaverit;
nulla inquietudo praevalebit extrinsecus,
si agamus corde sincero;
nullis subdemur hostibus,
si pacem teneamus internam.
Ita, sicut a nemine magis quam a nobis laedimur,
sic noxia cuncta succumbent,
si nosmetipsos ante vincamus 12.
Antitesi. È un ornamento stilistico tipico della eucologia classica romana
che consiste nella contrapposizione immediata di due concetti, per dar loro
maggior risalto. È frequente nella Sacra Scrittura: l’inno della i Tim 3, 16
che può essere ricostruito in base alla 1 Piet 1, 20; 3, 18-22; ed Ef 5, 14,
usa continuamente l’antitesi. Una nota orazione della antica Liturgia
romana del Natale, attribuita a san Leone, si esprime elegantemente sulla
base di concetti antitetici:
Deus, qui humanae substantiae dignitatem et mirabiliter condidisti, et
mirabilius reformasti, da, quaesumus, nobis Iesu Christi filii tui divini­
tatis esse consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignatus est particeps3.
Parallelismo. Consiste nella enunciazione di un concetto in due forme di­
verse, ma equivalenti e molto simili nella sostanza. Comunissimo nei testi
poetici della Sacra Scrittura, si incontra anche nella eucologia liturgica4.
Parallelismo semplice:
Deus, a quo bona cuncta procedunt,
largire supplicibus tuis,
ut cogitemus te inspirante quae recta sunt,
et te gubernante eadem faciamus 5.
Parallelismo antitetico:
Largire nobis, Domine, quaesumus, semper
spiritum cogitandi quae recta sunt
propitius et agendi,
ut qui sine te esse non possumus,
secundum te quaerere valeamus 6.

1 Cfr. J. Pinell, Oraciones de la paz en la sección XVIII del Leoniano> in « X X X V Congreso


Eucaristico Internacional», Secciones de Estudio, 1, Barcelona 1952, 692-698.
2 V e X V III, X V : ed. L. C. Mohlberg, n. 501, 66.
3 Missale Romanum, In Nativitate Domini, Ad Missam in die, Collecta; Ve X I., I: ibidem,
n- 1239, 157*
4 Cfr. S. Marsili, Testi liturgici per l'uomo moderno, in « Concilium » 2, 1969, 68-87.
5 Ge I, X L : ed. L. C. Mohlberg, n. 556, 87.
6 Ge III, IIII: ibidem, n. 1190, 177.
177 principi di interpretazione dei testi liturgici

Ridondanza verbalex. È la tendenza ad accumulare espressioni analoghe


con il risultato di una ridondanza stilistica^ a prima vista contrastante con
la classica sobrietà espressiva della eucologia romana. L ’esempio più noto
è la prima preghiera eucaristica romana — Canone romano — , con le sue
proposizioni binarie, ternarie, quaternarie e quinarie : « Haec dona, haec
munera, haec sancta... »; ecc.
La ridondanza verbale è il segno di un certo stile cultuale, che la Liturgia
romana ha ereditato dalla mentalità religiosa precristiana, e denota la preoc­
cupazione che la preghiera sia più completa possibile, che esprima e speci­
fichi tutto, senza lasciare nulla di indeterminato.
Completiamo quanto abbiamo detto finora con alcune brevi riflessioni
sulla struttura ritmica dei testi eucologici, cioè sul cursus e la concinnitas.
Il cursus latino12* consiste in una particolare disposizione delle parole
allo scopo di porre in risalto le cadenze e di preparare le pause. Tale risul­
tato si consegue attraverso una speciale combinazione di sillabe brevi e lunghe,
atone e toniche. Tanto il succedersi ritmico di tutto il periodo come la ca­
denza delle pause viene chiamato cursus, che può essere quantitativo se le
cadenze si basano sulla quantità delle sillabe, e invece accentuativo se si
basano suH’accento delle parole, oppure misto se le cadenze tengono conto
ora della quantità ora dell’accento. Gli scrittori cristiani dei secoli m-iv
usano in maggioranza il cursus misto. Per quel che riguarda le clausole finali
dei testi del Veronese, Di Capua afferma che per il 96% rispettano le leggi
del cursus misto.
La concinnitas3, o armonia del periodo, si manifesta nell’equilibrio delle
varie parti, che si corrispondono simmetricamente sia in linea di pensiero,
sia nella forma e nella cadenza, oppure si succedono le une alle altre in una
progressione crescente di contenuto e di formulazione.
Una formula eucologica di grande perfezione nella sua struttura ritmica,
rincontriamo nel Veronese:
Plebs tua, Domine, sacramentis purificàtà càélèstibus,
quod sfimit, / intèlligfl/;
quod gustu delibat:, / moribüs apprehende/;
quod iustis orationibus expetit, / tua miseratione pèrcipie/4.
La costruzione di questo testo è perfetta quanto al cursus e quanto
alia concinnitas. Tutte le finali rispettano accenti e quantità, ossia si atten­
gono al cursus misto. La disposizione dei vari membri del discorso è simme­
trica: dopo una introduzione, seguono tre petizioni tutte inizianti con un
quod e concluse con un finale unisono -at. Tali proposizioni impetratorie
sono anche costruite per ritmi binari crescenti per forma e intensità di con­
tenuto, e tutto questo avviene senza che ne venga minimamente intaccata
la simmetria, cioè mantenendo sempre il verbo alla fine di ogni successione
binaria. Sottolineiamo la raffinatezza della concinnitas dei vari membri,

1 Cfr. S. Marsili, 0. c., 74-75.


2 Cfr. F. Di Capua, De numero in vetustis Sacramentaros, in « Ephemerides Liturgicae » 26, 1912,
459-476, 526-535, 591-600; Idem, Il ritmo prosaico nelle lettere dei Papi e nei documenti della Cancel­
leria Komana dal IV al X IV secolo, voi. I e III, Roma 1937-1946; Idem, Cursus, in EncCatt 4,
1084-1092.
8 Cfr. J. Marouzeau, Traiti de stylistique latine, Paris 19644, 287-300 .
4 Ve X X V IIII, X V II: ed. L. C. Mohlberg, n. 1068, 135.
178 parte II - capitolo I

che tenta di riconciliare i due procedimenti classici della disposizione sim­


metrica e della disposizione crescente dei membri.
Non è sempre da considerarsi come vuota erudizione il soffermarsi nel­
l’analisi della struttura ritmica dei testi eucologici. Tale analisi può portare
vantaggio non indifferente, soprattutto alla critica dei testi antichi, perché
aiuta a distinguere quale tra le varianti di un manoscritto possa essere rite­
nuta come autentica; facilita inoltre la scoperta di glosse e aggiunte posteriori,
e contribuisce a illuminare l’autenticità dei testi antichi; e infine ci intro­
duce a una migliore comprensione del contenuto preciso del testo 1.

4 Funzione liturgica dei testi eucologici

Parlando della struttura dei testi eucologici, già abbiamo notato come
ogni singola formula ha un suo modo di ordinare le forme strutturali; la
stessa cosa abbiamo sottolineato a proposito degli ornamenti stilistici. Tale
personalità strutturale è in ragione della funzione specifica che l’elemento
eucologico riveste nell’ambito del culto.
Il contenuto di un testo liturgico non potrà pertanto essere adeguata-
mente interpretato senza tenere ben presente la funzione liturgica che esso
svolge nel contesto della celebrazione.
Abbiamo detto che gli elementi contenutistici della eucologia liturgica
derivano in certo qual modo dalla solenne preghiera di benedizione pro­
nunciata da Cristo nell’ultima Cena. Ogni testo eucologico ha quindi un
nucleo contenutistico fondamentalmente comune. Tale contenuto si esprime
pienamente nella preghiera eucaristica, ma è presente anche nelle altre
formule — collette, preghiere sopra le offerte, prefazi, preghiere dopo la
comunione, preghiere di benedizione super populum — , che lo esprimono
ciascuna a suo modo e a seconda della funzione che svolgono nella celebra­
zione. D ’altra parte l’Eucaristia, che è celebrata nel tempo della Chiesa,
non è indifferente alle circostanze socio-culturali nelle quali la concreta
Chiesa locale la celebra. E sono precisamente le formule eucologiche, come
già abbiamo avuto modo di dimostrare, quelle che esprimono il mistero
che si celebra nel modo più consono a tali circostanze socio-culturali.
Ogni formula esprime in un modo particolare la connessione tra il mistero
e la storia 12. Ciononostante, i testi liturgici classici, pur essendo improntati
alla più viva attualità, sono per la maggior parte dotati nello stesso tempo
di una certa intemporalità che li rende validi per tutti i tem pi3.
Le formule eucologiche, se da una parte hanno indubbiamente una
funzione specifica e per ciò stesso una loro propria personalità espressiva,
non possono d’altra parte essere interpretate avulse dal contesto del formu­
lario di cui fanno parte. Il formulario liturgico, a sua volta, viene interpretato
nel contesto più ampio del mistero dell’anno liturgico, di cui il formulario
stesso non è che una espressione particolare.

1 Fa abbondante uso di questa analisi Topera di A. P. Lang, Leo der Grosse and die Texte des
Altgelasianums...
3 Cfr. soprattutto A . Ghavasse, Messes du Pape Vigile (537-555) dans le Sacramentaire Léonien,
in «Ephem erides Liturgicae » 64, 1950, 161-213; 66, 1952, 145-219.
3 Cfr. J. A . Gracia, Acontecimiento y Eucaristía en los textos litúrgicos primitivos, in « Phase» 1970,
3 5 1-369-
179 principi di interpretazione dei testi liturgici

Possiamo ben dire che tutte le norme ermeneutiche che abbiamo enun­
ciate fin qui, devono essere usate alla luce di questa specifica funzione che
il testo eucologico svolge nel quadro della celebrazione liturgica L

1 L a funzione liturgica delle formule eucologiche ci si va sempre più chiarendo sulla base
dei risultati di alcuni recenti studi monografici. Elenchiamo qui sotto alcuni studi su ognuno dei
brani che costituiscono Teucologia minore del formulario della messa romana : M . Cappuyns,
La portée religieuse des collectes (Cours et conférences des scmaines liturgiques, 6), Maredsous 1928,
93-103; B. Botte, Commentaire des collectes dominicales du Missel romain. Travaux liturgiques, voi. I,
Louvain 1955, 197-266; M . A uge, Le collette del Proprio del Tempo nel nuovo Messale, in « E p h e ­
merides Liturgicae » 84, 1970, 275-298; Idem , Le collette di Avvento-Natale-Epifania nel Messale
Romano, in « R ivista L itu rg ica » 59, 1972, 614-627; J. A. G ra d a Gimeno, Las oraciones sobre las
ofrendas en el Sacramentario Leoniano, (Consejo Superior de Investigaciones Científicas), M adrid
1965 ; V . R afia, Commento alle « Orazioni sulle offerte » delle domeniche (Sussidi liturgico-pastorali,
io), M ilano 1965; Idem , Le orazioni sulle offerte del Proprio del Tempo nel nuovo Messale, in « E p h e ­
merides L itu rgicae» 84, 1970, 299^322; B, Capelle, Problèmes textuels de la préface romaine. Mélanges
Jules Lebreton} t. 2 (Recherches de Science religieuse, 40), 1952, 139-150; P. Opfermann, Die
heutigen liturgischen Sonderprafalionen, in « Theologie und G laube » 46, 1956, 204-215; A. Dumas,
Les préfaces du nouveau Missel, in «Ephem erides L itu rgicae» 85, 1971, 16-28; A. M . T riacca, Per
una lettura liturgica dei prefazi « Pro defunctis» del nuovo Messale Romano, in « R ivista L itu rgica»
58, 1971, 382-407; Idem , La strutturazione eucologica dei prefazi..., in «Ephem erides Liturgicae»
86, 1972, 233-279; G, Francesconi, Per una lettura teologico-liturgica dei prefazi di Avvento-Natale-Epi­
fania del Messale Romano, in « R iv ista L itu rgica» 59, 1972. 628-648; R . Falsini, I Postcomuni
del Sacramentario Leoniano. Classificazione, terminologia, dottrina (Bibliotheca Pontificii Athenaei A n ­
toniani, 13), R om a 1964; B. Baroffio, Le orazioni dopo la comunione del Tempo di Avvento, in
« R ivista L itu rgica» 59, 1972, 649-662; W. Ferretti, Le orazioni « post Communionem» de Tempore
nel nuovo Messale, in «E phem erides Liturgicae» 84, 1970 323-341; C. Callewaert, Qu'cst-ce que
r « Oratio super populum'»?, in «Ephem erides L itu rgicae» 51, 1937, 310-318; J. A. Jungm ann,
« Oratio super populum » und altchristliche Biisssersegnung, in « Ephemerides Liturgicae » 52, 1938, 77-96;
L. Eizenhòfer, lìntersuchungen zum SUI und Inhall der rñmischcn « Oratio super populum », in « Ephemerides
L itu rgicae» 52, 1938, 258-311; M . Auge, La oración «suber populum» en el Sacramentario Veronense.
Estudio de su forma y contenido. Extracto de Tesis doctoral en la Facultad Teològica y el Pontificio
Instituto Litúrgico del Ateneo de S. Anselmo en Rom a, R om a 1968,
capitolo secondo

la Liturgia e le sue leggi


(a cura di R. Civil)

introduzione: la Liturgia richiede delle leggi

Ogni tentativo di definizione dell’idea di Liturgia implica di fatto au­


tomaticamente, insieme al concetto di culto, le note, espresse o tacite, di
ufficialità ed efficacia proprie di certi determinati segni.
Già lo stesso concetto di significanza, come anche quello di espressione
ufficiale, ci introducono in pieno nel campo del fatto sociale. La Liturgia è
il culto ufficiale della Chiesa. La Chiesa (éxxXvjata) è la comunità, l’assemblea
degli uomini che accolgono la fede in Gesù Cristo e formano il Popolo di
Dio. In realtà « volendo il Signore santificare e salvare gli uomini non in­
dividualmente e isolati tra loro, ma costituiti come popolo che lo conosca
in verità e lo serva in santità » 1 l’elemento comunitario o sociale è intrin­
seco alla realtà stessa della Chiesa. La stessa cosa si deve dire della Liturgia.
I fedeli, preparati dalla vocazione alla fede e alla conversione, trovano nella
Liturgia « il punto culminante verso il quale tende tutta l’azione della Chiesa
e la fonte dalla quale emana tutta la sua forza » a. Le azioni liturgiche « non
sono private, ma sono celebrazioni della Chiesa » 3.

Contemporaneamente alla realtà sociale nasce il diritto, come regola­


zione normativa delle relazioni sociali.
Ogni società è necessariamente regolata da alcuni principi di compor­
tamento, da determinate convenzioni, accettati incondizionatamente dai
membri della società stessa. Il loro rifiuto implica una sanzione o addirittura
l’esclusione dal gruppo sociale.
Il diritto ha per oggetto il regolamento del buon andamento della so­
cietà, e ci si deve riferire ad esso per derimere eventuali conflitti.
Al diritto, che ha la missione di vigilare alla salvaguardia degli interessi
della società, è connaturale una certa staticità. Le esigenze comunitarie
182 parte II - capitolo II

possono, in casi determinati, essere in opposizione con i legittimi interessi


degli individui, coartando così in qualche modo il loro impulso dinamico.
Tuttavia, allo stesso modo che l’uomo si realizza come persona integrandosi
alla società, così deve — proprio in vista della propria piena realizzazione
— liberamente sottomettersi a un diritto.
Il diritto di per se stesso non è unicamente né principalmente rigidezza,
fissismo o coartazione della vitalità degli individui.
L ’origine del diritto è provocata precisamente dall’ansia di vita e di amore
che investe tutti i membri della società. Lo stesso amore, che crea sempre
nuove forme di comunità, è alla base del diritto. Il diritto positivo dev’essere
frutto dello sforzo concreto e permanente volto a regolare indefinitamente
le necessità concrete degli uomini, al ritmo stesso dell’apparizione di nuove
situazioni che richiedono soluzioni nuove h La vera minaccia contro il di­
namismo degli individui sorge quando il diritto non si evolve in funzione delle
necessità della comunità e quando il legislatore, infedele alla sua missione,
trascurando le^ richieste o le semplici proposte dei membri della comunità
si rinserra nel culto della istituzione.

La Chiesa, la comunità ecclesiale è una società umana che ha coscienza


di essere in comunione con la persona dell’ Uomo-Dio, Gesù Cristo. La sua
dimensione umana la introduce nell’ambito del diritto naturale e — per usare
la terminologia tomista — dello « ius quod est natura ». In questo senso per­
segue il bene comune e richiede un’autorità e determinati segni — isti­
tuzionali, ufficiali — che assicurino la intercomunicazione tra i membri
che la compongono, e che all’esterno la esprimano e le diano un’identità.
Ed è nella sua dimensione specifica, per la fede e i sacramenti — per
il culto e la Liturgia, in definitiva — che questa società resta vincolata
alla persona di Gesù Cristo, formando così il Popolo di Dio.
Il cristiano come tale è un soggetto cultuale, sottomesso alla « lex sacra­
mentorum », allo « ius quod est ex gratia » a.
Nt sacramenti sono segni sensibili ed efficaci per i quali la Chiesa nasce
e si sviluppa, si afferma e si riconosce di fronte a se stessa, e si esprime al­
l’esterno.
La Liturgia, che raccoglie tutti i sacramenti, per il fatto di essere espres­
sione efficace — ufficiale, infallibile — della società cristiana, postula ne­
cessariamente un diritto, delle norme, delle rubriche che la regolino nelle
realizzazioni concrete e che la istituzionalizzino.
Il diritto liturgico non si confonde però con la Liturgia stessa, e d’altra
parte questa non sta senza quello.
La Chiesa, a motivo della sua natura dialettica, — essendo nel più in­
timo del suo essere « contemporaneamente assemblea visibile e comunità
spirituale » 3 — soffre più di ogni altra società storica della tensione tra
l’elemento costituzionale e l’elemento spirituale carismatico, tra il diritto
e l’elemento vitale e dinamico. Nella Chiesa il diritto è sempre nel pericolo
di costituire una grave minaccia contro lo spirituale. Ed è appunto compito12

1 W. Pannenberg, %ur Theologie des Rechts, in Zeìtschrìft fùr evangeliscke Ethik, Bielefeld, gennaio
i960.
2 S. Hi., II-II. q. io , a. io. V edi M. Useros Carretero, «Statuta Ecclesiae» e «Sacramenta
Ecclesiae» en la Eclesiologla de St. Tomás, R om a i960, 189-190.
183 la Liturgia e le sue leggi

della Chiesa tender e continuamente verso la sintesi mai pienamente raggiunta,


sempre perfezionabile, tra l’istituzionale e lo spirituale.
La valutazione del diritto da parte della Chiesa ha incontrato attraverso
la storia periodi molto diversi. In un primo tempo la Chiesa ha accentuato
il suo carattere di Citta di Dio e di esaltazione dello spirituale, che portò
a scrivere a proposito dei cristiani che « la loro esistenza trascorre in terra,
ma essi sono cittadini del cielo » 1 e, secondo la espressione di san Paolo
«siamo cittadini del cielo» (Fil 3,20).
I cristiani dei primi tempi si disinteressavano o addirittura rifiutavano
il diritto. Perciò furono giudicati e perseguitati molte volte come nemici
deirimpero. Più tardi però, con l’aumentare dei fedeli, la stessa Chiesa dettò
le sue norme di vita e di coesistenza, stabilì una propria gerarchia ogni volta
più complessa, fondò organismi legislativi, amministrativi, decretò sanzioni
e creò un’infinità di istituzioni.
Infatti già nei primi secoli si abbozzarono le linee principali del diritto
canonico, ispirandosi per questo molte volte allo stesso diritto romano.
Col passar del tempo il diritto della società cristiana non sfuggì all’ecces­
sivo legalismo, particolarmente nell’ambito del diritto liturgico. Questo
fatto è responsabile se spesso nella storia, ma più frequentemente negli ul­
timi tempi, si sono sentite espressioni di disprezzo contro le prescrizioni ca­
noniche e le rubriche con cui si pretendeva di precisare, fino all’ultimo par­
ticolare, tutti e singoli gli atti cultuali pubblici della Chiesa, cioè ogni atto
liturgico. Si disapprovava la rigidezza e l’anacronismo di tali norme, il loro
carattere artificiale e stereotipato, l’eccessivo formalismo e lo sterile confor­
mismo a cui portavano.
La Liturgia e il suo diritto hanno effettivamente risentito dell’eccessivo
legalismo. Nella celebrazione dell’Eucaristia, per esempio, la preoccupa­
zione delle rubriche e l’ansia dell’uniformità hanno fatto ridurre a nulla
l’interesse per il fattore più importante, la partecipazione personale alla
celebrazione comunitaria.
Queste considerazioni, purtroppo oggettive, non furono certo estranee
alla decisione presa dal Vaticano II di porre fine a un’epoca di indubbia
decadenza liturgica, alla quale contribuì di fatto in maniera evidente un
giuridismo esagerato. Così, il Concilio, preceduto e preparato da un vasto
movimento di sensibilizzazione biblica e liturgica, ha pubblicato la Costi-
tuziom sulla Sacra Liturgia, nella quale si proponevano i principi che de­
vono regolare il rinnovamento della Liturgia, e si dava l’avvio a un susse­
guirsi-di pratiche riforme, che aprono un nuovo capitolo del diritto liturgico.
Naturalmente anche se si tratta di un nuovo diritto liturgico, questo, per
quanto riguarda la sua concreta attuazione, dovrà far fronte alla sempre diffi­
cile sintesi tra certi principi teologici e spirituali, e le esigenze radicate nella
dimensione sociale della espressione liturgica da una parte, e dall’altra te­
nendo presente l’idiosincrasia dell’uomo contemporaneo. Se la espressione
rituale è assolutamente necessaria, essa non deve in nessun caso essere a
discapito della interiorizzazione e personalizzazione della preghiera dell’uomo
concreto e storico, poiché l’unico culto reale è il culto in spirito e verità.

Lellsra a Diognelo, 5: PG 2, 1173.


184 parte II - capitolo II

Se vogliamo valutare adeguatamente il risultato dello sforzo di rinno­


vamento liturgico cui il Vaticano II ha dato impulso, non possiamo non
considerare le principali vicissitudini della evoluzione della Liturgia e del
suo diritto nel corso della storia. Infatti il passato ci dà ragione della situa­
zione attuale.

I la legislazione liturgica attraverso la storia

Non è mia intenzione presentare qui l’esposizione completa della storia


della legislazione liturgica. Mi propongo unicamente di esaminare in breve
l’evoluzione del senso e del carattere delle prescrizioni liturgiche, nel passato
della storia, fermandomi innanzitutto sui motivi che indussero il legislatore
a progressivamente coartare la libertà nelle espressioni cultuali.

i Dai primi tempi al concilio di Trento

Cristo abolì le prescrizioni cultuali dell’A T e instaurò il nuovo culto in


spirito e verità incentrato sull’Eucaristia.
Nei vangeli si trovano soltanto alcune regole generali date con estrema
semplicità e sobrietà. Si riferiscono al Battesimo (Gv 3, 5; Mt 28, 19), alla
Eucaristia (Le 22, 19 s. e par.; Gv 6,54)...
Negli Atti e nelle lettere degli apostoli si trovano particolari più pre­
cisi. Ci si dice che i primi fedeli « erano perseveranti nell’ascolto dell’inse-
gnamento degli apostoli e nell’unione, nella frazione del pane e nella pre­
ghiera » (Atti 2,42).
San Paolo nelle sue lettere dà prescrizioni, consigli, proibizioni. Di
fronte alle deviazioni sorte in seno alla Chiesa di Corinto nella celebrazione
della Cena del Signore, l’Apostolo manifesta la sua disapprovazione e dà
alcuni avvertimenti (1 Cor 11, 17). Raccomanda che i fedeli considerino
bene l’eccellenza del coipo di Cristo, di cui si nutrono, e li esorta a distin­
guerlo chiaramente dagli altri alimenti [ibidem 29) ; elogia i fedeli per il ri­
cordo che hanno di lui e perché conservano le « tradizioni » così come lui
le ha loro trasmesse [ibidem 2); per giustificare quello che dice e quello che
fa, si fonda su quanto ha « ricevuto » dal Signore, e che ha « trasmesso »
[ibidem 23). Lo stesso Apostolo, dopo aver dato ai Corinti una serie di pre­
scrizioni, scrive loro : « Il resto, lo regolerò alla mia venuta » [ibidem 34).
Analogamente Giacomo nella sua lettera ci ha lasciato alcune indica­
zioni sulla preghiera e Funzione degli infermi da parte dei presbiteri (5, 13 ss.).
È facile comprendere la ragione dell’intervento personale degli apostoli
nella vita delle prime comunità: essi, i fondatori delle Chiese, precisando
le forme del culto, le cementavano in unità, mentre attraverso queste forme
le comunità stesse si esprimevano come cristiane.

In seguito, le consuetudini e le prescrizioni che si presentavano come di


origine apostolica, godevano di uno speciale prestigio, anzi il marchio apo­
stolico sarà il criterio decisivo, che giustificherà la istituzionalizzazione e la
185 la Liturgia e le sue leggi

progressiva valorizzazione assoluta di alcune forme concrete, spesso acciden­


tali.
Tertulliano (160-220) attesta questa credenza nella tradizione apostolica.
Nel De corona precisa qual era nel suo tempo il concetto e la portata di tale
tradizione, e fa conoscere alcune delle forme cultuali che considerava tra­
dizionali.
Vicino alla triplice immersione battesimale e alla celebrazione eucari­
stica, cita la tradizione pasquale di cibarsi di latte e miele, e di segnarsi col
segno della croce in diversi momenti della giornata h
Testi analoghi li troviamo in Origene, in san Basilio e in molti altri rap­
presentanti della patristica 12.
Nelle diverse costituzioni pseudoapostoliche figurano una serie di prescri­
zioni che pretendono di essere anch’esse di tradizione apostolica.
Si prescrivono norme molto concrete; alcune di esse vengono imposte
con autorità e il contravvenirvi implica una sanzione; esistono norme tra­
dizionali alle quali neppure il vescovo può sottrarsi.
Cosicché neirepoca immediatamente posteriore a quella apostolica, le
prescrizioni aumentano di numero, e di conseguenza si riduce notevolmente
il margine lasciato alla libera scelta.
Il criterio in funzione del quale si impongono o si rifiutano i diversi usi
liturgici continua ad essere quello della « tradizione » apostolica. Così in
polemica contro i novatori del suo tempo, Ippolito (secolo m) in difesa della
« tradizione che s’è mantenuta fino al presente », scrive la sua Traditio apo­
stolica 3.
A misura che ci si allontana dall5epoca apostolica e quando la Chiesa
ottiene pubblico riconoscimento, e addirittura riceve una situazione privi­
legiata nell5Impero, la legislazione liturgica va aumentando e la libertà
di cui fruivano le prime comunità passa ad essere monopolio di alcune de­
terminate sedi episcopali. È l’epoca — dal riconoscimento dei cristiani da
parte di Costantino (313) fino ai tempi di papa Gelasio (492-496) — in cui
la evangelizzazione è facilitata e le conversioni sono sempre più numerose.
Il moltiplicarsi dei fedeli e il rapido consolidarsi dell5aspetto temporale nella
Chiesa, esigono a poco a poco una organizzazione sempre più stabile, con
strutture più definite. Il campo del diritto acquista via via di importanza.
L ’istruzione romana civile molto spesso esercita una marcata influenza sopra
la nuova legislazione liturgica, oltre che su quella canonica in generale.
Contemporaneamente, e per ragioni ovvie, il fervore dei fedeli diminuisce.
Questa situazione porta i vescovi riuniti in Concilio, e lo stesso Papa,
attraverso le lettere decretali, a imporre usi determinati, e a insistere Ae­
ratamente sulla loro obbligatorietà « ne forte aliquid contra fidem vel per
ignorantiam vel per minus studium sit compositum », come si può leggere
negli atti del concilio di Milevi del 416 4. Successivamente i Concili di Vannes

1 Gap. 3; CG 2, 1042-1043.
3 Una buona raccolta — in ordine cronologico — di testi che dimostrano il passaggio della
legislazione liturgica verso la centralizzazione, si può vedere in D. Bouix, Tractatus de iure liturgico,
Parigi 18864, 187 ss. Cfr. Ph. Oppenheim, Tractatus de iure liturgico (Institutiones... de S. Liturgia),
Torino 1939-1940; cfr. C. Callewaert, De S, Liturgia universim} Bruges 19444, 123-147; M. Righetti,
Storia liturgica, I, 19643, 44-55.
8 Canones Apostolorum, can. 3.
4 Cap. 12; Mansi 4, 330.
186 parte II - capitolo II

(461), Gerona (517), Braga (561), IV di Toledo (633), tra gli altri, prescri­
vono la uniformità liturgica entro i limiti delle rispettive province ecclesia­
stiche: le stesse forme liturgiche devono essere adottate da coloro che hanno
una medesima fede nella Trinità; poiché la diversità potrebbe essere causa
di scandalo oppure indurre i fedeli in errore 1.
Fino alPvm secolo i Papi sebbene operino per la propagazione della Li­
turgia romana, che considerano come un modello da imitare, non intendono
con questo imporla in forma strettamente obbligante.
Così Papa Damaso (366-384), crede che ad una unica fede corrisponde
un’unica tradizione, e a questa una comune disciplina da osservarsi da tutte
le Chiese12. Con la figura di Innocenzo I (401-417) il prestigio del papato
aumenta. Il Papa pretende già di imporre la pratica della Liturgia romana,
ricevuta dai Principi degli apostoli, a tutte quelle chiese che avevano rice­
vuto da Roma la fede: ITtalia, le Gallie, la Spagna, PAfrica, la Sicilia e le
isole adiacenti. La ragione che muove il Papa è similmente il pericolo di
scandalo e di errore a cui possono portare le divergenze di usi liturgici per
coloro che non riconoscono le tradizioni apostoliche. Il Papa si riferisce
evidentemente ad alcune forme di culto non essenziali, altrimenti non po­
trebbe accondiscendere a forme diverse praticate fuori dal settore della in­
fluenza romana3. Prospero di Aquitania (circa il 420-451) e san Leone, ri­
tengono che Puniformità delle forme liturgiche è esigita per la conservazione
di unità nel dogma : delle tradizioni apostoliche si dice che « in toto mundo
atque in omni ecclesia catholica uniformiter celebrantur; ut legem credendi
lex statuat supplicandi » 4.
II desiderio del Papa Innocenzo non si realizza immediatamente. Il
monaco sant’Agostino inviato dal Papa Gregorio I in Inghilterra, — al dire
di san Beda nella sua Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum5 — scrisse a san
Gregorio chiedendogli il perché della diversità di consuetudini che, secondo

1 Concilio di Vannes: « Rectum quoque duximus, ut vel intra, provinciam nostram sacrorum ordo et psal­
lendi una sit consuetudo: et sicut unam cum Trinitatis confessione fidem tenemus, unam et officiorum regulam
teneamus: ne variata observatione in aliquo devotio nostra discrepare credatur », can. 15; M ansi 7, 955.
Concilio di G erona : « De institutione missarum, ut quomodo in metropolitana ecclesia fiunt, ita in
Dei nomine in omni Terraconense provincia tam ipsius missae ordo quam psallendi vel ministrandi consue­
tudo servetur », can. 1; ed. J. Vives, Concilios Visigóticos e Hispano-romanos, Barcellona-M adrid 1963, 39.
Concilio di B raga: « L Placuit omnibus communi consensu ut unus atque idem psallendi ordo in ma­
tutinis vel vespertinis officiis teneatur et non diverse ac private neque monasteriorum consuetudines cum ecclesia­
stica regula sint permixtae. II. Item placuit, ut per sollemnium dierum vigilias vel missas omnes easdem et
non diversas lectiones in ecclesia legant... I I I I . Item placuit, ut eodem ordine missae celebrentur ab omnibus,
quem Profuturus condam huius metropolitanae ecclesiae episcopus ab ipsa apostolicae sedis auctoritate suscepit
scriptum », ibidem, 7 1 .
Concilio di Toledo I V : « Post rectae fidei confessionem, quae in sancta Dei ecclesia praedicatur, placuit,
ut omnes sacerdotes qui catholicae fidei unitate complectimur, nihil ultra diversum aut dissonum in ecclesiasticis
sacramentis agamus, ne qualibet nostra diversitas apud ignotos seu carnales schismatis errorem videatur osten­
dere, et multis existat in scandalum varietas ecclesiarum. Unus igitur ordo orandi atque psallendi a nobis per
omnem Spaniam atque Galliam conservetur, unus modus in missarum sollemnitatibus, unus in vespertinis matu­
tinisque officiis, nec diversa sit ultra in nobis ecclesiastica consuetudo qui una fide continemur et regno; hoc
enim et antiaui canones decreverunt, ut unaquaeque provincia et psallendi et ministrandi parem consuetudinem
teneat », ibidem, 188.
3 V e d i Decretale ad episcopos Galliae (attribuita frequentemente al Papa S ilicio: Ep. io : P L
13, 1187).
3 A lcune di queste forme non essenziali sono:
I. « Pacem igitur asseris ante confecta mysteria quosdam populis impertire...». II. «Prius oblationes
sunt commendandae, ac tum eorum nomina quorum sunt dicenda... ». III. « De consignandis vero infantibus,
manifestum est non ab alio quam ab episcopo fieri licere ». IV . « Sabbato vero ieiunandum esse, ratio
evidentissima demonstrat», Ad Decentium Eugubinum Episcopum: P L 56, 513-514.
4 Praeteritorum Sedis Apostolicae episcoporum auctoritates de Gratia Dei et libero arbitrio, cap. 8, ed.
P. e H. Ballerini, S. Leonis opera, Venetiis 1756, voi. II, col. 256.
5 L. 1, cap. 27; ed. C. Plummer, Venerabilis Bedae opera historica, Oxford 1896 (1946), 49.
187 la Liturgia e le sue leggi

quanto lui stesso aveva constatato, esisteva riguardo al modo di celebrare


la messa a Roma e nelle Gallie, dal momento che entrambi i popoli profes­
savano la stessa fede. Il Papa, in risposta, suggerisce all’apostolo dell’In-
ghilterra di scegliere con sollecitudine tutto quanto di meglio vi ha nelle
diverse Chiese, per raggiungere una prassi che si addica alla sua Chiesa ap­
pena fondata.
Col v i i secolo si conclude il periodo della grande creazione di forme
liturgiche L
Il secolo vili è un tempo critico; le invasioni, le rivoluzioni e quindi
i disordini si susseguono l’un l’altro. Il clero conosce un periodo di decadenza;
numerosi sono i preti adulteri e quelli che abusano dei beni delle Chiese e
dei monasteri, ed è frequente il caso di preti che ignorano perfino il modo
corretto di celebrare la messa e di amministrare i sacramenti. Si era arrivati
a perdere molte tradizioni, erano scomparsi alcuni libri liturgici, e l’orga­
nizzazione metropolitana non era ancora sufficientemente consolidata da
poter esercitare un’azione di controllo sulle Chiese suffraganee 12. Di fronte
a tale deplorevole situazione san Bonifacio e Pipino il Breve decisero di ri­
correre al prestigio della Sede romana. Trovarono Roma ben disposta ad
intervenire. Roma approfittò dell’occasione per diffondere la sua Liturgia
nelle Gallie. Tale intromissione, tuttavia, rispondeva più all’interesse delle
stesse Chiese locali che erano assoggettate, che non ad una azione centra-
lizzatiice intrapresa dal papato. Sono, in linea generale, dei privati — i
pellegrini, per esempio — , che propagano i libri romani acquistati nella
città eterna. San Bonifacio più volte sollecitò e ottenne da Roma chiarimenti
sulle pratiche liturgiche, e dei chiarimenti richiesti molti già riguardavano
questioni di ben poca importanza.
Un rinnovamento liturgico in senso romano, fu definitivamente consa­
crato con l’impulso che gli diede Carlomagno. Questi nei suoi editti capi­
tolari, nell’ordinanza che dettò per l’istruzione del clero, e nell’esposizione
della propria politica religiosa affermò la sua decisa volontà di seguire la
Liturgia romana 3. Sollecitò dal Papa Adriano il Sacramentario romano au­
tentico, e il Papa acconsentì, mosso dall’interesse di assicurare « ut non esset
dispar ordo psallendi quibus compar erat ordo credendi » 4. Tuttavia la
accoglienza del Sacramentario romano non fu facile. A parte gli altri motivi,
la sua divulgazione veniva ostacolata dalla difficoltà che in quei tempi com­
portava la composizione e l’acquisto di un nuovo libro, e dalla reticenza dei
fedeli dellTmpero a rinunciare alle loro tradizioni e a un complesso di riti
e simbolismi molto espressivi a cui erano attaccati.
In tutte le parti si professava una stessa fede e uno stesso battesimo, ma
le diverse società umane esprimevano questa unità diversamente, in funzione
dei modelli culturali loro propri. Così, una era la forma di espressione sobria,
logica ed astratta che caratterizzava i romani, e altra era la forma più esu­
berante, a volte fino all’esagerazione, individualista e rozza, propria dei

1 B. Botte in A. G. Martimort, VEglise en prióre.... 37.


2 Ep. 50 di san Bonifacio; ed. M GH, Epist. merovìng. et karol. aevi, I, 1892, 299.
3 M. Andrieu, Les Ordines Romani du Haut Mojen-Age, II, Louvain 1948, X X I-X X II. L ’autore
presenta nell’introduzione alcuni testi che illustrano bene la realizzazione effettiva di questa volontà
del re franco.
4 Libri Carolini, I, 6: PL 98, 1020-1022.
188 parte II - capitolo II

celti o dei germanici. Le molteplici vicissitudini che presenta la storia dei


Sacramentari nel medioevo sono, in molti casi, manifestazioni della forte
compenetrazione tra il popolo e la Liturgia.
Il Sacramentario non potè mantenere la sua forma originale. Lo stesso
Carlomagno si vide costretto ad affidare al suo consigliere palatino Alcuino
la missione di adattare i riti romani alle effettive possibilità delle diverse
regioni. Il Sacramentario allora adottò la forma del messale. Fu così che a
fianco dei Sacramentari apparvero gli Ordines Romani. Questi, provenienti
o no da Roma, avevano la pretesa di riprodurre la disciplina osservata a
Roma.
La sottomissione alla tradizione romana poteva in quell5epoca rappre­
sentare una soluzione vitale per superare il problema che comportava l’im-
perante confusione. I diversi Ordines Romani ci mostrano la mescolanza di
opposte consuetudini e le modalità diverse, che uno stesso rito adottava per
conformarsi ai condizionamenti imposti dalle Chiese locali. Gli Ordines Ro­
mani si imponevano, almeno alfinizio, in forza del prestigio che pesava sul­
l’attributo di « romano ». In seguito, la semplice constatazione della presenza
di un determinato uso in un Ordo sarà motivo sufficiente per trasformarlo
in oggetto di una rubrica, che la maggior parte delle volte assumerà carat­
tere strettamente obbligante. Con gli Ordines Romani si fa un passo avanti
verso la riorganizzazione generale della Liturgia, sia modificandola in modo
rilevante rispetto alla struttura antica del rito romano, sia generalizzando
su tutto l’Occidente alcune tradizioni liturgiche di carattere locale e par­
ticolare 1.
Nel secolo xi si verifica un fatto molto significativo per quel che riguarda
la ingerenza del Papa nel campo della Liturgia allo scopo di raggiungere
una maggiore uniformità. Gregorio V II impone la Liturgia romana in Spagna,
e di conseguenza la Liturgia ispanica, detta anche visigotica o mozarabica
venne ad essere soppressa. L ’importanza e il carattere insolito di questa in­
gerenza del Papa è nel fatto di essere una imposizione. La Sede Apostolica
va infatti più in là di una semplice esortazione: lo esige, e purtroppo non
è tanto l’interesse delle Chiese locali quanto l’imposizione della volontà
del Papa il fattore decisivo della sostituzione di una Liturgia con l’altra in
Spagna, anche se il Papa mostrava di ritenere che la primitiva Liturgia
introdotta in Spagna dai sette vescovi che erano venuti da Roma come in­
viati degli apostoli, fosse stata adulterata da apporti di origine priscillia-
nista, dalla perfidia e dagli errori degli ariani e dalle successive invasioni
dei goti e dei saraceni. Di fatto egli chiese ai re della Spagna di sottomettersi
alla Liturgia romana a. Questa iniziativa del Papa rappresentava uno dei
momenti della riforma della Chiesa, intrapresa in Occidente da Gregorio
V II; una volta di più la centralizzazione liturgica fu strumento della re­
staurazione della unità ecclesiastica12 3.
Da Gregorio V II fino al concilio di Trento, non si verifica nessun fatto
decisivo per la storia della legislazione liturgica. Non si può tuttavia igno­
rare l’importanza che ebbe Tinserimento di certe decretali nelle collezioni

1 1. H. Dalmais, Initiation à la liturgie. Cahiers de la Pierre-qui-vire, 1958, 177.


2 Epistolae selectae, lib. 1, ep. 64, ed. M G H , Berlino 1920, voi. 1, 92.
3 G. Pinckers, Pourquoi le Moyen-Age a-t-il uniformisé les rites liturgiques ?, in « Paroisse et Liturgie »
r, 1965, 28.
189 la Liturgia e le sue leggi

canoniche e in particolar modo nel Decreto di Oraziano — , attraverso le


quali si imponeva alle Chiese locali l’obbligo di seguire gli usi vigenti a Rom a1.
Nel secolo xm esiste un movimento di riforma liturgica, variamente
promosso da Innocenzo III (1198-1216), da Guglielmo Durando, vescovo
di Mende, e dai nuovi ordini religiosi mendicanti, movimento imperniato
sul desiderio e nel tentativo di riforma dei libri liturgici della Curia Romana.
La cosa si fece soprattutto codificando antichi usi, ma il senso profondo di
molti riti e del loro simbolismo sfugge ad essi e così ci si incammina pro­
gressivamente verso il fissismo degli stessi riti. I riti vengono in tal modo
ad essere formalistici, forme stereotipate, e facilmente ci si ferma al giuri-
dismo; la vitalità che corrispondeva alla retta valutazione dell5autentico signi­
ficato dei riti resta sostituita dall’allegoria o dalla riflessione pia o moraleg­
giante a. In questo processo, ogni particolare rituale, per insignificante che
sia, può acquistare, senza alcun vero fondamento, ma solo per effetto di un
impulso sentimentale, un valore assoluto. Tale arbitraria mistificazione
finisce spesso per attribuire alle rubriche stesse un valore quasi-sacramentale,
che certamente non hanno. A poco a poco i vescovi vengono costretti ad
adottare le usanze religiose di Roma e ad obbedire alla legislazione cultuale
del Papa. L ’ordine francescano, dall’origine intimamente legato alla Curia
Romana, svolse in questo momento un ruolo decisivo verso la effettiva uni­
ficazione liturgica. I suoi predicatori itineranti diffusero i libri liturgici ro­
mani — già molto più accessibili dopo l’invenzione della stampa — e pre­
pararono in tal modo l’opera liturgica di Trento. La fissazione di determinate
forme canoniche da parte del Concilio, e la uniformità liturgica che viene
prescritta, non sono semplici frutti di una legislazione, ma rispondono ad
una realtà effettiva nella maggior parte del popolo cristiano.

2 Da Trento alla legislazione liturgica del CIC

Trento inaugura quel periodo della storia della Liturgia, che Teodoro
Klauser qualifica come periodo di ristagno o delle rubriche1*3, ed è un pe­
riodo che si è esteso fino ai nostri giorni.
Trento intraprende con i suoi Decreta de reformatione la riforma generale
della Chiesa, che è minacciata all’interno dalla corruzione di molti dei suoi
membri e all’esterno dalle possibili conseguenze che può avere l’atteggia­
mento preso dai riformatori. Il Concilio prende misure severissime in tutti
i campi della disciplina ecclesiastica. In materia liturgica, a parte il De­
cretum de observandis et vitandis in celebratione missarum, non si hanno veri e propri
interventi, se non quelli in cui determinati riti sacramentali sono visti in
funzione dottrinale. Sembra anzi di dover dire che Trento non mostrasse
mire centralizzataci in campo liturgico, perché se decise (Sess. X X V ) di
rimettere al giudizio del Papa il lavoro preparatorio di riforma del breviario
e del messale, già elaborato dalle apposite commissioni, una delle ragioni

1 Cfr. specialmente la decretale di Innocenzo I a Vittore di Rouen: D 11, c. 11 (Friedberg I,


col. 26). Questa decretale figurava anche nelle collezioni di Bureardo, Anseimo dedicata, Decreto
de IuOy la Policarpo ecc., il che manifesta la attualità di questo testo nei secoli x-xn.
8 Cfr. I. H. Dalmais, Initiation...f 185.
3 Th. Klauser, La liturgia nella Chiesa occidentale. Sìntesi storica e riflessioni, Torino 1971. 161 -
190 parte II - capitolo li

fu anche quella di non voler decidere tra le due tendenze manifestatesi in


seno alle commissioni stesse: alcuni infatti stavano per la pluralità tradi­
zionale, altri propugnavano invece l’unità assoluta. La decisione non presa
dal Concilio, fu presa dal Papa e si sa in quale senso. Nel 1568 fu pubbli­
cato il Breviarium romanum e nel 1570 il Missale romanum, ognuno con inserite le
proprie rubriche. La promulgazione avvenne con le bolle papali di san Pio V
Qiiod a nobis e Quo primum rispettivamente. Erano libri « romani », ma nei
documenti che li accompagnavano la volontà del Papa appariva chiara
e decisa e le sue formule taglienti: i due libri sono imposti con forza obbli­
gante a tutti e si proibisce assolutamente e sotto minaccia di sanzioni qual­
siasi cambiamento del testo ufficiale. Si stabilisce una sola eccezione: la
possibilità di prescrizione in favore di una consuetudine con più di 200 anni
di vita. Gli scopi che muovono il Papa ad imporre questa unificazione sono,
oltre a quelli comuni a tutta Popera della Controriforma, gli stessi che si
erano proposti i Papi per giustificare la progressiva centralizzazione della
legislazione liturgica: convenienza del ritorno alle forme antiche, puri­
ficazione dalle forme sopraggiunte e di dubbia autenticità, restituzione al
primitivo stato delle forme che erano state alterate; il tutto visto come re­
staurazione delle forme romane, togliendo le differenze che potevano gene­
rare turbamento, nelPintento che la comunione con Punico Dio avvenga
in un medesimo e unico modo h

Nel 1588 Sisto V fondò, in virtù della costituzione Immensa, la Congre­


gazione dei Riti che sarà d5allora in poi la suprema autorità romana incari­
cata di monopolizzare la legislazione liturgica latina. I documenti ponti­
fici riaffermano continuamente questa decisione. I Papi e la Congregazione
dei Riti « districte » ed « in virtute sanctae oboedientiae praecipiunt », « auctori­
tate apostolica decernunt », « sub indignatione aposiolicae poenae statuunt et ordinant »,
« iubent », « mandant » 2. Fino alla promulgazione del Codice di diritto ca­
nonico, nel 1917, si fa poco più che ratificare Patteggiamento deciso nel
concilio di Trento 3. Questo fatto si può provare chiaramente consultando
le fonti dei canoni relativi alla Liturgia, annotate dal card. Gasparri. Il
canone 818 dice: «Reprobata quavis contraria consuetudine, sacerdos celebrans
accurate ac devote servet rubricas suorum ritualium librorum, caveatque ne alias caere­
monias aut preces proprio arbitrio adiungat ». Tra i testi postridentini che figurano
come fonti di questo canone, troviamo ripetute volte espressioni come « nihil
omnino mutandum » 4, oppure « omnia in missali praescripta ad unguem
servanda sunt » 5. La Congregazione De propaganda Fide ricorda in una
occasione che la ragion d'essere di queste prescrizioni è legata al fatto che i
fedeli possano rendere a Dio un culto più degno e edifichino se stessi8. Be­
nedetto X IV scrive a proposito delle rubriche che « ipsa communis sententia12 6
*5
3

1 Cfr, la Bolla Quod a nobis.


2 Ph. Oppenheim , o. c., 75. V edi anche il testo di una dichiarazione di Benedetto X I I I al
concilio Rom ano del 1785 : « Pastoralis nostri muneris curam ad hoc intendimus et ab omnibus ita fieri
volumus et mandamus, ut in Sacramentorum videlicet adminisIralione, in Missis et Divinis Officiis celebrandis...
non pro libitu inventi et irrationabiliter inducti, sed recepti et approbati Ecclesiae Catholicae ritus, qui in
minimis etiam, sine peccato negligi, omitti vel mutari haud possunt, peculiari studio ac diligentia serventur ».
3 Gfr. i testi addotti in D. Bouix, 0. c., 218-219.
* SRC Lisbon, 12 novem bre 1605. P. Gasparri, CIC Fontes, n. 5217.
5 SRC Urbis, 18 agosto 1651 ad 2. Gasparri, 0. c., n.^5465. E anche nel SRC Decret., n. 1666
dei 19 aprile 1681, si legge: « Servanda esse ad unguem praescripta in Caeremoniali ».
6 Instr. ad Vie. Ap. Conchinchin., 30 giugno 1830. Gasparri, 0. c., 218-219.
191 la Liturgia e le sue leggi

tenet rubricas esse praeceptivas quae obligant sub mortali ex genere suo » 1. Lo stesso
Papa permette agli orientali l’uso dei loro propri riti, a condizione che siano
in parte legati ai santi Padri « nec fidei catholicae adversantur nec periculum ge-
nerant animarum » 2. Pio X insiste sulla necessità di un’assoluta sottomissione
alle prescrizioni liturgiche: la diversità, in questo punto, provocherebbe
discordia, che si radicherebbe proprio nella celebrazione di quello che è
il principio della unità cattolica 3.
Il canone 1257 che si rifà all’imposizione della prassi romana in vista
della conservazione della purezza della fede, si esprime così : « Unius apostolicae
sedis est tum sacram ordinare Liturgiam, tum litúrgicos approbare libros » 4. Sempre
avendo di mira la salvaguardia della purezza della fede, la Sede Apostolica
si propone di estirpare tutto quanto « periculosum est vel indecorum » 5. Benedetto
X IV , rivolgendosi ai vescovi, dice loro che per nulla al mondo tollererebbe
che si mutasse la « tuta ac laudabilis consuetudo » 6. La Chiesa, dice ancora
Papa Lambertini, ordina fino ai particolari minuti (minutissima) allo scopo
di conseguire la « uniformitas ad splendorem officii Ecclesiae », poiché bisogna
mantenersi fedeli al precetto apostolico: «Tutto si faccia con decoro e or­
dine » (1 Cor 14, 40) 12 7. Leone X III lo giustifica con l’interesse a « vigilare...
6
5
4
3
ut integritas fidei morumque Christianorum ne quid detrimentum capiat » 8.
Più volte le Congregazioni Romane dichiarano che i vescovi non godono
neppure della facoltà di giudicare sui dubbi che sorgessero nell’applicazione
dei diversi riti e cerimonie 9.

3 La legislazione liturgica del CIC

Il codice di diritto canonico non pretende di essere una nuova legisla­


zione, ma solo una codificazione di un diritto preesistente, il che non impe­
disce che si siano introdotte nuove leggi e se ne siano abrogate altre.
Per quel che riguarda la legislazione liturgica, esso segue fondamental­
mente lo spirito delle norme emanate nel periodo post-tridentino.
Già nel canone 2 il Codice precisa che, salvo eccezioni, la sua intenzione
non è quella di legiferare in merito ai riti e le cerimonie che i libri liturgici,
approvati dalla Chiesa latina, prescrivono circa le azioni liturgiche: « quindi,
tutte le leggi liturgiche conservano la loro forza, e non si dà mai che una di
esse venga espressamente corretta nel Codice ». La validità di queste stesse
leggi viene confermata nel canone 6, paragrafo 6. Fino ad oggi non esiste,
ne è mai esistita, una codificazione propriamente detta del diritto liturgico.
Pertanto, per quanto riguarda questa materia, eccezion fatta delle prescri­

1 Benedetto X IV , De sacrificio missae, III, 15, 3.


2 Etsi pastoralis (26 maggio 1742), IX , 1. Gasparri, 0. c., n. 320.
3 Cfr. Gost. Tradita ab antiquis (14 settembre 1912), 1, ibidem, n. 698.
4 Cfr. Clemente V I, Enc. Super quibusdam, ibidem, n. 42.
5 Benedetto X IV , Enc. Allatae sunt (26 luglio 1755), 27, ibidem, n. 434.
6 Enc. Inter omnigenas (2 febbraio 1744Ì, 18, ibidem, n. 339,
7 Enc. Aestas (11 ottobre 1757), V II-X II, ibidem, n. 445. Un esempio preso a caso da un de­
creto della Sacra Congregazione dei Riti, che ha per oggetto una questione di poco conto, lo offre
il n. 5989, ibidem: si tratta di questo: se un sacerdote che celebra due messe in uno stesso giorno,
può o no servirsi di due calici diversi.
8 Cost. Officiorum ac munerum (25 gennaio 1897), n. 18, ibidem, n. 632.
9 Vedi tra l’altro : SRC Visen (11 giugno 1605) ad 1, e SRC Boian (16 gennaio 1607), ibidem, n.
1510 e 5228 rispettivamente.
192 parte II - capitolo II

zioni canoniche, ci si deve attenere alle rubriche, che si trovano nei libri
liturgici ufficiali.
In realtà però le prescrizioni del Codice in materia liturgica sono nume­
rose. Il numero più rilevante si concentra nel terzo libro: Degli oggetti: 1
Parte, Dei sacramenti (e sacramentali) (canoni dal 731 al 1153); II Parte, Dei
luoghi e tempi sacri (canoni dal 1154 al 1254) ; III Parte, Del culto divino (canoni
dal 1255 al 1306). Riguardano ancora la legislazione liturgica: il canone 98,
che regola l’appartenenza dei fedeli ai vari riti cattolici; i canoni 239, 240, 337,
349 e 435 relativi alle facoltà e ai privilegi riconosciuti, in materia liturgica,
ai cardinali, ai vescovi, e ai capitoli e vicari capitolari di una sede impedita
o vacante; il canone 1390 relativo alla pubblicazione dei libri liturgici;
e il canone 2378 nel quale si minaccia di applicare sanzioni ai chierici « che
nel sacro ministero trascurano gravemente i riti e le cerimonie prescritte
dalla Chiesa e, ammoniti, non si siano corretti ».
Per scoprire il carattere generale della legislazione liturgica del codice
di diritto canonico, sono di capitale importanza oltre i canoni 2 e 6, para­
grafo 6 — già citati — , anche i canoni 818, 1256, 1257 e 1261.
I canoni 818 e 1257, citati già precedentemente, prescrivono rispetti­
vamente: il valore obbligante delle rubriche del messale, e la competenza
esclusiva di Roma per tutto quel che riguarda l’ordinamento liturgico. Più
tardi, Pio X II nella Mediator Dei riaffermerà questa ultima clausola h II
canone 1257 viene completato dal 1261, in virtù del quale si assegna al ve­
scovo ordinario del luogo la sola funzione di « vigilare perché siano fedel­
mente osservate le prescrizioni dei sacri canoni relative al culto divino... ».
Si concede loro inoltre la facoltà di promulgare leggi in vista di ottenere
l’applicazione di dette prescrizioni e al fine di dare disposizioni in merito
a particolari non determinati dalla legislazione generale della Chiesa.
II canone 1256 stabilisce che il culto pubblico della Chiesa implica che
esso venga tributato « in nome della Chiesa, da persone legittimamente
costituite per questo scopo, e mediante atti istituiti dalla Chiesa ». Questo
principio viene ribadito anche da Pio X II nella Mediator Dei e nella Istru­
zione del 3 settembre 1958 12.
Riassumendo, la legislazione liturgica del codice di diritto canonico
consacra il monopolio della Liturgia da parte della Sede Apostolica; sta­
bilisce chiaramente i limiti di esercizio della Liturgia; decreta la uniformità
delle sue espressioni per quanto riguarda la Chiesa latina, e prescrive la
stretta obbligatorietà delle rubriche.

Il riflessione sulla storia della legislazione liturgica

L ’evoluzione della legislazione liturgica, dai primi tempi fino all’epoca


contemporanea, si traduce di fatto nella storia della progressiva fissazione
delle formule rituali e nella uniformità che a poco a poco va imponendosi,
a tutto vantaggio del centralismo romano che alla fine viene a detenerne il

1 Enc. Mediator Dei, in A AS 39, 1947, 543 ss.


2 Istruzione De Musica sacra et Liturgia. I, r. in AAS 50, 1958, 632.
193 la Liturgia e le sue leggi

monopolio. Situando questo fenomeno nel quadro della dialettica, cui sopra
abbiamo fatto allusione, presente nella Chiesa tra lo spirituale e il vitale da
una parte, e Pelemento istituzionale e il formalismo di una espressione so­
ciale dalPaltra, constatiamo di fatto che a poco a poco nella Liturgia ro­
mana quest’ultimo aspetto è andato guadagnando terreno, arrivando fino
a soverchiare l’altro della autenticità personale e spirituale, che pure è l’a­
spetto più essenziale del culto.
La storia ci mostra che nella legislazione liturgica spesso — per non dir
la maggior parte delle volte — preoccupazioni e interessi marginali hanno
avuto maggior peso di quello che è il fine intrinseco della Liturgia. Altre
volte si sono promulgate leggi, che essendo in funzione di determinati momenti
storici, in ragione di questi davano alle proprie prescrizioni un senso pie­
namente giustificato; ma superate quelle situazioni, le norme rimasero in vi­
gore e via via appesantirono senza ragione il patrimonio liturgico tradizionale.
Il diritto liturgico, specialmente quello post-tridentino, si è sviluppato
troppo indipendentemente dalla teologia e dalla pastorale, e mosso quasi
solo dall’amore di conservare determinate forme tradizionali. Il timore di
cedimenti all’errore, la paura di provocare scandalo o divisione tra i fedeli,
ma anche una certa ansia di conservare alto il prestigio del papato, identi­
ficato a tutti i livelli con l’unità della Chiesa, hanno forse polarizzato l’at­
tenzione del legislatore molto più del necessario, almeno nel senso che non
si sono attese a sufficienza altre preoccupazioni, sicuramente più fondate
sulla tradizione teologica e senz’altro più conformi alle effettive necessità
della pastorale. In tal modo si sono mantenute in vigore certe forme rituali
come aventi valore assoluto, e si è contribuito così a far perdere ad esse
il ruolo loro proprio, quello cioè di essere strumenti e mezzi in vista di una
realtà più profonda. A una funzione occasionalmente attribuita alle forme
rituali si è talvolta sacrificato quello che solo giustificava in fondo la loro
stessa struttura.
E purtroppo si deve notare che la legislazione liturgica del codice di di­
ritto canonico non ha minimamente migliorato la situazione, anzi ha fo­
mentato ancor di più la sottomissione servile alle rubriche. Come si è po­
tuto constatare più sopra, nel canone 1256 le rubriche romane sono consi­
derate quasi come condizioni della preghiera liturgica, al punto che senza
sottomissione alle rubriche non si può neppure parlare di Liturgia. E ad
attenuare l’implacabilità delle rubriche prescrittive non resta altro quindi
die l’opera certamente efficace, ma lenta e rischiosa, di creare una usanza
« contra ius », di inveterata tradizione canonica. Molti autori, nondimeno,
pongono in dubbio la legittimità di questa « consuetudo contra rubricas »,
c altri anzi la negano totalmente1, e in proposito il canone 818 sembra
dar loro ragione, per quanto riguarda le rubriche del messale.
Il canone 2, nonostante proclami la separazione della materia liturgica
dall’ambito del Codice, il che equivarebbe alla distinzione tra Liturgia e

1 Per studiare questa questione si consulti M. Noirot, Lìlurgique (.Droit), in « Dict. de droit ca-
nonique » 6, Paris 1957, 535^537 e 563-591: Idem, in « Revue de Droit Ganonique » 3, 1953,
99-100. C. Callewaert, 0. c., 141-143. Ph. Oppenheim, 0. c.y 141-159. Dom Guéranger sostenne una
teoria secondo cui non si riconosceva alla consuetudine la facoltà di far prevalere un modo di
procedere contrario alle rubriche prescritte e ai decreti della S. Congregazione dei Riti. Dom Beau-
duin condivise questa opinione. Cfr. Yormes pratìqncs pour les réformes liturgiques, in LND 1, 1945, 9-15-
194 parte II - capitolo II

diritto, di fatto praticamente attribuisce valore giuridico, convertendolo in


legge canonica, ad ogni norma o legislazione liturgica. Se il legislatore si
proponeva di distinguere chiaramente ciò che rientra più direttamente nel
campo della giustizia — al quale corrisponde propriamente il diritto — ,
da ciò che è innanzitutto dettato dalla virtù di religione, praticamente, in
virtù del diritto canonico, si è arrivati al risultato che quel che non era niente
altro che una norma rubricale, nata il più delle volte come semplice consta­
tazione di una usanza, di un certo modo di procedere, come un consiglio
artistico o una norma di urbanità, si presenta adesso con carattere di impo­
sizione canonica.
E bisogna ammettere che veramente non sembra proporzionato che,
elementi i quali di fatto sono in funzione della mobilità e del progresso dello
spirito nel suo rapporto con Dio — religione — , debbano prendersi, in via
ordinaria, come legge canonica. Infatti queste norme rubricali assumono
valore di leggi giuridiche per via estrinseca, ossia in forza di una disposizione
disciplinare, e questo non avviene neppure attraverso una trasposizione
recettiva o materiale neirordinamento canonico, ma per una incorporazione
puramente formale al medesimo ordinamento, in virtù del sopraccitato
canone 2 1.
Il codice di diritto canonico è stato frutto di un’epoca liturgicamente
povera. L ’aspetto comunitario, quello cioè di una partecipazione personale
alla comunione ecclesiale, era poco apprezzato, essendo al contrario diffusa
la mentalità individualista che caratterizzò la spiritualità del secolo xix
e dell’inizio del xx. Un esempio, scelto a caso, ma che illustra quanto an­
diamo dicendo, lo offre il canone 731, paragrafo 1, che serve da introduzione
alla serie dei canoni relativi ai sacramenti. Leggiamo: «T utti i sacramenti
della Nuova Legge, che furono istituiti da Nostro Signore Gesù Cristo, es­
sendo i principali mezzi di santificazione e di salvezza, si deve avere somma
diligenza e riverenza nell’amministrarli, nel riceverli opportunamente e se­
condo la debita forma ». Analogamente nel canone 737, paragrafo 1 si dice:
« Il Battesimo, porta e fondamento dei sacramenti, e la cui recezione, di
fatto o almeno di desiderio, è necessaria a tutti per salvarsi, si conferisce
validamente soltanto mediante abluzione fatta con acqua pura e naturale,
accompagnata dalla prescritta formula verbale ». In questi canoni è certa­
mente presente l’aspetto fondamentale della salvezza e l’interesse ad assi­
curare la validità della amministrazione dei sacramenti, ma non è neppure
insinuato l’aspetto, altrettanto essenziale, e che dovrebbe animare tutta
la legislazione liturgica, del carattere comunitario della salvezza. Eppure
questo è indubbiamente l’aspetto che maggiormente deve interessare il di­
ritto, perché prospettiva necessariamente religiosa e soprannaturale, che
giustifica la stessa esistenza del diritto canonico, è precisamente quella della
« salvezza dell’uomo in seno alla comunità » 12.
Questo modo improprio di impostare la legislazione liturgica ha reso
possibile la dannosa opposizione esistente tra questa e lo spirito della sacra
Liturgia. La Liturgia è venuta così a ridursi a fatto esteriore e spettacolare,

1 V edi C. Figueres, L a codificación del Derecho Litùrgico, in « Estudios de D erech o» 8, 1961.


2 G. Le Bras, Prolégomènes, Paris 1955. 25.
19 5 la Liturgia e le sue leggi

a un complesso formalistico, fino a identificarsi — nella mente di molti —


con il diritto liturgico, o con il rubricismo. Così avvenne che l’interesse si
appuntò più sul mantenimento che sul compimento del rito, più sul modo
di compierlo che sulla stessa realtà cultuale che lo giustificava, per cui non
era difficile né raro che si arrivasse alFestremo di sacrificare la realtà alla
letteralità di una prescrizione.
Pio X II dovette affrontare il pericolo di queste opinioni erronee: « Vanno
completamente errati riguardo alla vera nozione e natura della Liturgia
— dice il Papa nella Mediator Dei — quelli che la considerano soltanto
come una parte esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale
decorativo; né sono meno in errore quelli che la considerano come una pura
somma di leggi e precetti con cui la gerarchia ecclesiastica ordina la rea­
lizzazione dei riti» \ Purtroppo il Papa non pensava, così dicendo, al CIG!
Per un certo tempo Fattività legislativa in materia liturgica si ridusse quasi
esclusivamente a precisazioni proposte dalla casuística, o a decidere que­
stioni tanto banali come la forma delle casule, a perdersi in bizantinismi
musicali e in tante altre cose prive di qualunque interesse propriamente
liturgico. Si era in un’epoca ricca più di rubricisti che di liturgisti. In una
situazione liturgicamente così mediocre, gli uomini solo con grande fatica
potevano integrarsi pienamente nello spirito liturgico, perché nella Liturgia
trovavano troppa artificialità. La legislazione liturgica vigente fino a poco
tempo fa, poteva certamente assicurare, per esempio, la purezza del dogma.
Ma era necessario e utile conseguire questo risultato, ostacolando l’uomo
nel suo pieno inserimento alla realtà espressa dal dogma così difeso, impe­
dendogli una Liturgia che fosse realizzazione della sua comunione ecclesiale?
La riforma liturgica operata principalmente da Pio X II e dal Vaticano II,
corrispondeva ad aspirazioni già molto estese nella Chiesa.

I li l’opera di rinnovamento della legislazione liturgica


nel Vaticano II

L ’opera di rinnovamento liturgico del Concilio è, in rapporto al movi­


mento precedentemente abbozzato, di ritorno, di purificazione e di risco­
perta dei principi evangelici ed ecclesiologici, tenendo ben conto della fisio­
nomia propria dell’uomo contemporaneo.

i Contesto dottrinale

La Chiesa. Il Concilio si è proposto di proclamare in tutta chiarezza ai


credenti e a tutto il mondo la natura e la missione universale della Chiesa 123
.
Essa si riconosce come « un popolo educato nell’unità del Padre, del Figlio
e dello Spirito Santo » 8. È il Regno di Dio, il Popolo di Dio, costituito

1 Enc. Mediator Dei, in AAS 39, 1947, 532.


2 Gfr. LG 1.
3 L G 4.
196 parte II - capitolo II

dagli uomini santificati e salvati da Cristo, ordinato alla comunione di vita,


di carità e di verità, strumento di redenzione universale, inviato a tutto il
mondo come luce del mondo e sale della terra. Ha come segno distintivo
la libertà dei figli di Dio, ha come sua legge il comandamento delPamore
come Cristo stesso l’ha amata, ha come fine la diffusione universale. È la
Chiesa di Cristo, perché lui l’ha acquistata a prezzo del suo sangue, le ha
donato il suo Spirito e le ha dato i mezzi adatti per essere una unione visibile
e sociale l.
La Chiesa è dotata di organi gerarchici; e d’altra parte in essa, come
Corpo mistico di Cristo, lo Spirito ripartisce tra i credenti di ogni condizione
grazie, anche straordinarie, per mezzo delle quale li dispone e li prepara
a realizzare una varietà di opere e ministeri utili per il rinnovamento e una
sempre più ampia edificazione della Chiesa stessa2.
Questo Popolo di Dio, o Chiesa, si compone di tutti gli uomini della terra.
Diffondendosi, la Chiesa non soltanto non sottrae a nessun popolo alcun
bene temporale, ma anzi favorisce ed assume, in tutto ciò che contengono
di buono, le qualità, le ricchezze e le tradizioni che rivelano la fisionomia
di ciascun popolo 3.

L'uomo. Il Concilio fissa parimenti la sua attenzione sull’uomo contem­


poraneo al quale oggi è rivolto il messaggio cristiano. La Chiesa deve scru­
tare i segni del suo tempo e interpretarli alla luce dell’evangelo, per poter
in tal modo rispondere alle inquietudini di questo uomo. La Chiesa trova
l’uomo in un periodo nuovo della sua storia: l’uomo sperimenta oggi una
crisi o trasformazione sociale e culturale con ripercussioni anche nell’ambito
religioso 4. L ’umanità passa da una concezione dell’ordine della realtà piut­
tosto statica a una concezione più evolutiva e dinamica, il che viene a creare
una problematica totalmente nuova 5.
La Chiesa si rivolge all’uomo preso nella sua totalità, perché è così che
deve salvarlo e alla comunità che deve rinnovare 6. Oggi la maggioranza
degli uomini è convinta che tutto ciò che esiste sulla terra deve essere ordi­
nato all’uomo come a suo centro e culmine 7. Assistiamo al nascere di un
nuovo umanesimo, in cui l’uomo si definisce anzitutto per le proprie respon­
sabilità di fronte ai fratelli e alla storia 8. L ’uomo reclama, oggi come non mai,
il rispetto della sua coscienza9: è lui personalmente che, con piena libertà,
deve orientarsi al bene 10. L ’uomo di oggi si sa responsabile deH’ordinamento
politico sociale ed economico del mondo, e come tale in diritto di parteci­
pare all’andamento degli affari pubblici11.
La Chiesa, secondo l’espressione dello stesso Concilio, si sente solidale
con questa famiglia umana 12. Essa si propone pertanto di realizzare la diffi-

1 Gir. LG f)
2 LG 12.
2 LG 13-
4 GS 4 -
5 GS 5 -
r' GS 3 *
7 GS 1 2 .

,J GS i6.
10 GS 17.
11 GS 9.
12 GS 3.
197 la Liturgia e le sue leggi

cile armonia tra cultura umana e civile e formazione cristiana. In vista di


questo, fa appello ai teologi perché cerchino costantemente il modo più
adatto di proporre la sua dottrina ai contemporanei; sottolinea l’opportunità
di utilizzare, nella cura d’anime, le moderne acquisizioni delle scienze pro­
fane, della psicologia e della sociologia in modo particolare, per alimentare
una purezza e maturità maggiore nella vita di fede dei credenti; riconosce
inoltre il valore, in vista del medesimo obiettivo, delle lettere e delle arti.
In tal modo si manifesta meglio la conoscenza di Dio, la predicazione del-
Pevangelo risulta più intelligibile alla comprensione degli uomini e appare
nel suo rapporto con le concrete condizioni di vita. Un altro voto è che molti
laici ricevano una adeguata formazione delle scienze sacre e anzi che molti
di essi si dedichino a un approfondimento delle medesime scienze. Perché
tutto ciò possa avvenire è però indispensabile che a tutti, chierici e laici, sia
riconosciuta la libertà di ricerca, di pensiero e di espressione \
La Chiesa deve dialogare con gli uomini, ascoltarli attentamente e in­
terpretare le loro aspirazioni e i loro diversi linguaggi3.
La Liturgia. Un merito del tutto particolare del Concilio, che s’era pro­
posto di favorire l’incremento della vita cristiana tra i credenti alla luce delle
nuove esigenze del tempo presente, fu quello di aver operato il rinnovamento
e l’incremento della Liturgia. Tale preoccupazione si basa sul fatto che la
Liturgia si impernia tutta attorno alla Eucaristia, per la quale « si attua
l’opera della nostra redenzione » 8, e « viene rappresentata ed effettuata
l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo » 4, cioè la Chiesa.
L ’Eucaristia è in realtà la più piena espressione efficace della comunità
cristiana.
La partecipazione piena al sacrificio e sacramento della Eucaristia —
alla Liturgia — deve realizzare una sintesi dell’umano e del divino, del visi­
bile e dell’invisibile, del sociale e dello spirituale da cui è contemporanea­
mente costituita la Chiesa; e proprio in vista del congiungimento storico
di tali realtà antitetiche, la Liturgia deve adottare successivamente una forma
o un’altra.
È questo il criterio fondamentale proclamato dal Concilio che deve tro­
vare spazio nella Chiesa, deve animare in futuro lo spirito liturgico rinno­
vato.
L ’orientamento da una parte individualista, e dall’altra legalista e for­
malista, ma sempre volto allo spettacolare e all’esteriorità, e purtroppo
prevalente, fino a poco tempo fa, nella mentalità liturgica della maggior
parte della Chiesa deve ora cedere il posto a una preoccupazione eminente­
mente pastorale e teologica, rivolta a favorire la partecipazione cosciente,
attiva e fruttuosa dei cristiani che, comunitariamente e ufficialmente, si
dispongono a rendere a Dio il culto a lui dovuto 5.
Il Concilio ripetutamente si mostra interessato a che si favorisca e si
assicuri innanzitutto la partecipazione di tutto il Popolo di Dio alle celebra­
zioni liturgiche, soprattutto alla Eucaristia, dal momento che in questa12 5
4
3

1 GS 62.
2 GS 44.
3 LG 3.
4 LG 3, cfr. anche SC q; 6; io; passim.
5 Cfr. SC ii.
198 parte II - capitolo II

partecipazione si realizza la « maggiore manifestazione della Chiesa » 1.


La nuova legislazione liturgica dovrà dunque garantire tale partecipazione,
a cui il cristiano « ha diritto e dovere in forza del Battesimo » 2.

2 Criteri fondamentali della riforma liturgica del Vaticano II

Istruzione liturgica. Questa partecipazione, che costituisce l’ideale che il


Concilio si propone di raggiungere, esige necessariamente un tempo di pre­
parazione.
È compito dei pastori, vescovi e clero in generale acquisire per sé la pre­
parazione necessaria per saper alimentare lo spirito comunitario richiesto
dalla celebrazione del mistero pasquale, dal momento che tutti insieme si
mangia della Cena del Signore, non in veste di spettatori ma coscientemente,
devotamente e attivamente8.
Si deve pertanto incrementare la formazione liturgica, servendosi di
tutti gli strumenti pastorali e scientifici adeguati4. I professori di Liturgia
devono essere competenti, formati in istituti specializzati5, per poter dare
a loro volta una formazione autenticamente liturgica a tutti quelli che si
preparano al ministero pastorale6, presentando la materia liturgica secondo
una esposizione completa dal punto di vista teologico, storico, spirituale,
pastorale e giuridico. Gli incaricati delle altre discipline dovrebbero da
parte loro, nel trattare del mistero di Cristo e della storia della salvezza,
fare esplicito riferimento al rapporto esistente con la Liturgia7.
Al medesimo scopo di favorire la iniziazione liturgica e la attuazione
pastorale della Liturgia, si istituiscano commissioni liturgiche diocesane
o interdiocesane, composte da specialisti di Liturgia, musica, arte sacra,
e pastorale; potranno far parte di queste commissioni anche dei laici com­
petenti 8.
Rinnovamento. Tuttavia, l’istruzione e una solida formazione liturgica non
sono sufficienti, per se stesse, a realizzare l’ideale proposto dalla Costituzione
conciliare per la Liturgia. È indispensabile un rinnovamento delle stesse
forme liturgiche, che in parte possono e devono variare liberandosi di quegli
elementi che son venuti via via introducendosi, ma che non corrispondono
alla intima natura della Liturgia 9.
Questa revisione deve operarsi a partire dalle solide basi consacrate dalla
tradizione, senza tuttavia che ciò significhi rifiuto della innovazione e del
progresso, quando l’utilità della Chiesa realmente e con tutta certezza lo
richieda10.
Nel suo processo di rinnovamento, la Liturgia deve alimentarsi costante-
mente attingendo alla Sacra Scrittura11.
199 la Liturgia e le sue leggi

Dal momento che la celebrazione liturgica è in definitiva un atto del


Corpo in tutte le sue membra, qual è appunto la Chiesa, si deve porre par­
ticolare cura nel rendere manifesto il carattere comunitario della Liturgia
La celebrazione liturgica dovrà dunque presentare tutte le caratteri­
stiche adeguate ad una dignitosa esecuzionea. Dovrà promuovere la parte­
cipazione attiva dei fedeli, e le stesse rubriche dovranno prevedere la fun­
zione che spetta ad essi nella celebrazione8.
I libri liturgici, i testi e i riti prescritti devono essere riordinati, e addi­
rittura cambiati quando ne sia il caso, perché possano esprimere con maggiore
chiarezza la realtà che devono significare, e il popolo cristiano possa più
facilmente capire 4. I riti dovrebbero essere semplici, brevi e facilmente ese­
guibili, proporzionati alla capacità di comprensione dei fedeli5.
Adattamento. Il rinnovamento delle forme liturgiche esige, a sua volta, un
adattamento alle necessità di oggi6, e alla mentalità e tradizioni dei diversi
popoli e nazioni7, soprattutto quando si tratta dei paesi di missione 8.
Questo stesso interesse porta a riconoscere parità di diritti e di onore a
tutti i riti legittimamente accettati, e anzi a incoraggiare la revisione e lo
sviluppo 9.
Nell’ambito di questo intento di adattamento della Liturgia, rinnova­
zione più importante è l’introduzione della lingua parlata nella Liturgia 10.
Da questo stesso adattamento consegue necessariamente l’attenuazione
delPuniformità che, come abbiamo avuto modo di vedere, ha costituito una
delle caratteristiche dominanti della legislazione liturgica romana, soprat­
tutto nel periodo post-tridentino. E così, malgrado che poi in pratica, per
la maggior parte dei casi, la Sede Apostolica continui ad aggiudicare a sé
la regolamentazione della Liturgia, la Costituzione conciliare modificando
la prescrizione del canone 1257, che consacrava l’esclusiva del Papa su tale
legislazione, attribuisce potere effettivo « ad normam iuris » ai vescovi e in
modo particolare alle Conferenze episcopali11.

3 Principali applicazioni legislative della Costituzione

Alla Costituzione conciliare sulla Liturgia Sacrosanctum Concilium, appro­


vata praticamente all’unanimità nella sessione del 4 dicembre 1963 e pro­
mulgata da Paolo V I, hanno fatto seguito alcuni importanti documenti
riguardanti la legislazione liturgica.
Un primo passo è rappresentato dalla Lettera apostolica Sacram Liturgiam,
data motu proprio il 25 gennaio 1964, nella quale il Papa creava il « Con­
silium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia » e stabiliva quali12 6
5
4
3

1 Cfr. SC 27.
2 Cfr. SC 28-29.
3 Cfr. SC 30-31.
4 Cfr. SC 21-25.
5 Cfr. SC 34.
6 Cfr. SC 62.
7 Cfr. SC 37*40.
8 Cfr. SC 38.
6 Cfr. SC 4.
10 Cfr. SC q6; 5,
11 Cfr. SC 22.
200 parte l i - capitolo II

delle disposizioni conciliari liturgiche dovevano cominciare ad entrare in


vigore a partire dal 16 febbraio dello stesso anno.
Il Consilium, costituito da vescovi e da esperti in Liturgia, veniva ad es­
sere un organo parallelo alla Sacra Congregazione dei Riti, con rincarico
dello studio e della preparazione dei testi e dei riti liturgici secondo i nuovi
orientamenti conciliari. Il Consilium iniziò rapidamente e con impegno il
suo lavoro.
Ma dopo che la riforma liturgica promossa dal Concibo si fu imposta
nella Chiesa e fu condotta a termine nelle sue linee essenziali, il Consilium e
la sezione liturgica dell’antica Sacra Congregazione dei Riti si fusero, in
virtù della Costituzione apostolica Sacra Rituum Congregatio delP8 maggio
1969, dando luogo alla Sacra Congregazione del culto divino.
A questo nuovo dicastero spetta attualmente la competenza in materia
di diritto liturgico.
Il 26 settembre 1964 fu pubblicata una Istruzione per la retta appli­
cazione della Costituzione sulla sacra Liturgia, Inter 0 ecumenici, preparata
dal Consilium. L ’Istruzione determina più concretamente le competenze
delle Conferenze episcopali in materia liturgica *, spiega con maggior chia­
rezza alcuni principi già espressi in termini generali nei documenti prece­
denti, e determina alcune decisioni che potranno diventare effettive a par­
tire dal 7 marzo del 1965 123 *.
All’inizio del 1965 uscì il nuovo Ordo Missae e il Ritus servandus in cele­
bratione Missae e il De dejectibus. Il tono generale di questi codici rubricali
sulla messa continua ad essere quello di un interesse a incrementare uno
stile di celebrazione che faciliti la comprensione da parte dei fedeli. Con­
formemente alle prescrizioni della Istruzione, vengono semplificate le ru­
briche, e sono soppresse prescrizioni minuziose e superflue 8.
Si accresce il numero delle rubriche puramente orientative e si tenta
di dare un senso meno stereotipato c più realistico ai riti e ai gesti, in modo
che venga facilitata la partecipazione comunitaria, devota, cosciente e attiva
dei fedeli alla celebrazione liturgica.
In questa stessa epoca, il Consilium pubblica « La preghiera universale »
o « oratio fidelium ». Tale opuscolo contiene in una prima parte le direttive
pratiche che devono regolare questa preghiera introdotta nella messa; viene
posta in risalto la sua importanza pastorale e in una seconda parte si de­
scrive brevemente la storia di questa istituzione liturgica caduta in disuso
già da molti secoli. Si presentano inoltre alcuni testi a titolo di esempio.
L ’opuscolo è destinato alle autorità territoriali competenti, alle quali si
propone di offrire uno strumento che faciliti l’iniziativa di preparare for­
mule adeguate ai rispettivi territori.
Nello stesso anno 1965 appare un nuovo documento: il Ritus servandus
in concelebratione missae e Ritus communionis sub utraque specie. Viene ripristinata
la concelebrazione. Il suo rituale si caratterizza per il tono orientativo di
parecchie rubriche e per le molte varianti che nella esecuzione di alcuni

1 Gir. Decreto Inter Oecumenici, 22.


2 Ìbidem, 3.
3 Un esempio di rubrica inutile soppressa: « Alba induitur, caput submittens, deinde ma­
nicam dexteram brachio dextero, et sinistram sinistro imponens. Albam ipsam corpori adaptat,
elevat ante, et a lateribus hinc et inde... », Ritus servandus in celebratione Missae, I, 3.
201 la Liturgia e le sue leggi

riti sono lasciate alla scelta del celebrante. Si estende inoltre la pratica della
comunione sotto le due specie. Tutto ciò risponde alla preoccupazione peda­
gogica o pastorale di inculcare e tradurre con più chiarezza certe verità
della teologia eucaristica.

La riforma della messa continua. La seconda Istruzione per la retta appli­


cazione della Costituzione liturgica introduce, nel maggio 1967, una serie
di modifiche nell’ordinario della messa, e si introduce Tuso della lingua
parlata nel canone della messa, recitato a voce alta; si accrescono inoltre
le occasioni nelle quali è permessa la comunione sotto le due specie. Pochi
mesi dopo il Sinodo decide sull’uso facoltativo di tre nuovi canoni, in aggiunta
al canone romano tradizionale.
Una serie di documenti emanati dalla Sacra Congregazione dei Riti e
dal Consilium dovevano preparare la promulgazione della nuova edizione
del messale romano, che avviene con decreto della Sacra Congregazione del culto
divino del 26 marzo 1970. Il nuovo messale è preceduto dalla Institutio gene-
ralis, di grande portata formativa e pastorale, nella quale si cerca di evitare il
rubricismo del Ritus servandus del precedente messale romano di san Pio V.
Si spiega che la eleborazione della nuova edizione risponde al triplice inte­
resse di dare testimonianza della fede costante della Chiesa, di manifestare
una tradizione ininterrotta, e di adattare i riti alle condizioni del presente.
I testi esprimono meglio la dottrina, le rubriche sono più semplici e chiare.
La terza Istruzione del 5 settembre 1970 dichiara cessato il periodo degli
« esperimenti » liturgici e vuol porre un freno a una eccessiva « libertà »,
che si va manifestando, nell5applicazione del nuovo rito della messa. Simul­
taneamente si è proceduto alla revisione e al rinnovamento del pontificale
romano (Costituzione apostolica Pontificalis Romani del 18 giugno 1968);
del rituale del Battesimo dei Bambini, della Cresima (Costituzione aposto­
lica Divinae consortium naturae del 15 agosto 1970), del Matrimonio, dei funerali.
II calendario e Panno liturgico sono stati inoltre revisionati e adattati se­
condo le direttive conciliari: sono scomparsi i nomi di molti santi che non
reggono alla critica storica, e si è dato rilievo alle feste che celebrano i prin­
cipali misteri della salvezza (Motu proprio Mysterii Paschalis del 14 febbraio
1969). Hanno ricevuto particolare attenzione da parte dell’opera di legi­
slazione postconciliare anche la Liturgia delle Ore (ex « Breviario romano »
(Costituzione apostolica Laudis canticum del i° novembre 1970) e la musica
sacra (Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti Musicam Sacram del
5 marzo 1967).

Nel momento di scrivere queste pagine, meriterebbe, mi pare, attenzione


particolare il nuovo Ordo initiationis christianae adultorum, non soltanto per
essere il documento liturgico importante di più recente comparsa, ma anche
per il metodo seguito nella sua elaborazione e per le innovazioni e pro­
spettive che apre. Il documento in questione illustra molto bene qual è
lo stile che ispira attualmente il legislatore liturgico. Il decreto della Sacra
Congregazione del culto divino che lo promulga, porta la data del 6 gen­
naio 1972 h1

1 L 'Ordo initiationis christianae adultorum fu presentato ai giornalisti nella Sala Stampa della
Santa Sede, il 17 febbraio del 1972. Cfr. 1*« Osservatore Romano» del 19 febbraio 1972.
202 parte II - capitolo II

Già nel settembre 1964 Consilium affidò a una commissione speciale la


restaurazione del catecumenato degli adulti e la revisione dei rituali del
Battesimo, auspicati dalla Costituzione liturgica h I principi che guidarono
la elaborazione del rito, approvati dai vescovi membri del Consilium furono
i seguenti:
— Esprimere con maggiore chiarezza ciò che i riti devono significare
al fine di permettere la partecipazione più attiva dei fedeli ai misteri della
salvezza.
— Studiare gli elementi tradizionali utilizzati nella Liturgia del cate­
cumenato ed assicurare la continuità tra le forme antiche e le nuove.
— Manifestare l’intimo rapporto tra l’azione di Dio significata dai riti
e il cammino percorso dal catecumeno nel suo itinerario verso il Battesimo.
Ciascun rito deve esprimere nello stesso tempo sia il primato della chiamata
della grazia, che la risposta dell’uomo disposto a collaborare. Si presup­
pone costantemente il processo di evangelizzazione in seno a una Chiesa
in stato di missione, e a una comunità viva.
— Eliminare dai riti tradizionali ogni elemento che non corrisponde alla
mentalità o alle circostanze di oggi.
— Dare il massimo di possibilità alle Conferenze episcopali in ordine
all’adattamento dei riti alla mentalità locale, specialmente nei paesi di mis­
sione. Non si deve trattare unicamente di tradurre il nuovo rituale nella
lingua di altri paesi, ma soprattutto di adattarlo alle tradizioni, al genio
e alle situazioni peculiari di ogni popolo; si ammette perciò la possibilità
di creare riti, di comporre nuove preghiere, di cercare gesti e musiche ori­
ginali, sempre che si integrino nella struttura fondamentale del rituale romano.
Del resto, il nuovo rituale presenta un’ampia varietà di testi, lasciandone
la scelta alla Conferenza episcopale, al vescovo del luogo o allo stesso sacer­
dote che amministra il sacramento.

Per realizzare tale compito, la commissione incaricata della elaborazione


del nuovo rituale cercò la collaborazione di esperti competenti dai quali
furono esaminate diligentemente le diverse fonti liturgiche: la Liturgia ro­
mana, così come le altre Liturgie occidentali e le orientali. Furono inoltre
esaminati i rituali analoghi in uso presso le confessioni non cattoliche. La
commissione per altro lavorò in stretta collaborazione con un certo numero
di centri di catecumenato in Asia, Africa ed Europa. Il risultato dei lavori
realizzati diede origine, in un primo moménto, a un rituale approvato « ad
experimentum » dal Consilium; il Papa ne autorizzò l’applicazione in una
cinquantina di centri di catecumenato sparsi in tutto il mondo. Le risposte
e le reazioni di questi centri furono prese in considerazione a partire dal mese
di ottobre 1968. Il Consilium redasse il rituale definitivo nel novembre del
1969; finalmente il Papa lo approvò il 6 gennaio 1972.1

1 Cfr. SC 64-70.
203 la Liturgia e le sue leggi

IV problematica attuale e prospettive


della legislazione liturgica

L ’azione del concilio Vaticano II ha impresso un cambiamento radicale


nell’indirizzo seguito dalla legislazione liturgica nel corso dei secoli passati.
La fisionomia della legislazione è stata profondamente trasformata, soprat­
tutto per la scomparsa del monolitismo liturgico romano. Si è in realtà ri­
nunciato ad esso, a vantaggio di quel che è l’essenziale nella Liturgia: la
partecipazione piena e cosciente del popolo cristiano alla celebrazione cul­
tuale. Il monopolio legislativo romano scompare, in certo qual modo, a
partire dal momento in cui si riconosce, in materia liturgica, una certa fa­
coltà legislativa ordinaria — per quanto limitata — alle Conferenze epi­
scopali, e perfino ai singoli vescovi. Il culturalismo latino-romano, in vigore
fino alla vigilia del Concilio, è stato irreversibilmente sostituito dal plura­
lismo a livello locale della Liturgia, non solo per quel che riguarda l’uso
della lingua viva, ma anche, spesso, nella scelta e composizione degli stessi
riti. Si è riconosciuto, per così dire, ufficialmente diritto di cittadinanza nella
Chiesa alla Liturgia locale: la Liturgia romana, a partire dal Vaticano II,
è chiamata a rappresentare come un nucleo considerato essenziale, che
dovrà però essere integrato con forme adattate alle comunità locali, oppure
come uno schema-modello suscettibile in alcuni casi di venire modificato.
La Liturgia, dopo il Concilio, è divenuta più sobria e più breve, guada­
gnando con ciò in espressività. È inoltre evidente il carattere pastorale della
stessa legislazione liturgica. Le prime norme decretate secondo lo spirito della
Costituzione sulla sacra Liturgia furono — e lo sono tuttora in alcuni casi —
provvisorie, appunto perché perseguivano lo scopo di una formazione allo
spirito liturgico, di cui la maggior parte dei fedeli è ancora sprovvista.
La riforma liturgica propugnata dal Vaticano II, in un primo momento,
fu una scossa che risvegliò ampi settori del popolo cristiano e manifestò a
tutto il mondo il nuovo clima di rinnovamento che animava la Chiesa Ro­
mana. Le innovazioni furono accolte con generale soddisfazione; per molti
il nuovo spirito rappresentò un motivo di grande speranza.
Ma l’entusiasmo non doveva durare molto. Già alle prime manifesta­
zioni della riforma, alcuni — relativamente pochi — « tradizionalisti »,
manifestarono la propria inquietudine e preoccupazione. Si mostrarono
restii alle innovazioni, contestarono in particolare la decisione, presa per
motivazioni evidentemente di carattere pastorale, dalla grande maggioranza
dei Padri conciliari, di rinunciare a insistere sulla conservazione di certi
valori di natura estetica: l’uso del latino e del canto gregoriano.
Tuttavia la riforma dava luogo a un fenomeno insperato. La maggiore
partecipazione, cosciente e attiva, alla celebrazione, auspicata da molti
e di cui i competenti organismi postconciliari dovevano creare le condizioni
(condizioni d’altronde che erano richieste dalla stessa nuova situazione
socio-culturale del presente), portò i cristiani a scoprire il carattere per certi
aspetti ancora un po’ superficiale della riforma finora intrapresa. La maggiore
preparazione liturgica e la partecipazione attiva e responsabile mostrarono
che il rinnovamento e l’adattamento proposti erano meno radicali di quanto
sembrasse a prima vista: i problemi di fondo si rivelano ora con più chiarezza.
204 parte II - capitolo II

Di qui la disillusione e il disinteresse che sembrano diffondersi oggi in


molti ambienti cristiani riguardo alla riforma liturgica.

Il fatto è che i problemi di fondo oltrepassano il campo liturgico. Senza


un esame critico realizzato a fondo, e senza una chiara visione di questi
stessi problemi, la riforma liturgica non può dare di per sé molto più che
paludamenti moderni per ricoprire una struttura mentale ancora anacro­
nistica, sfasata rispetto alla cultura contemporanea.
La Chiesa e il popolo cristiano, oggigiorno, come in generale tutta la
civiltà occidentale, vivono un’epoca di crisi culturale, politica e sociale.
Questo implica profondi mutamenti di categorie e di valori, e forse perfino
la morte di determinate istituzioni.
Per quel che riguarda la Liturgia — per esempio — non si vede come
nella civilizzazione occidentale contemporanea, decisamente orientata verso
strutture urbane e verso la tecnica del programmatore elettronico, il linguaggio
e la mentalità « rurali » che hanno alimentato la Liturgia e la stessa presen­
tazione della vita cristiana dagli inizi, possano oggi continuare a parlare
a quelli che credono in Gesù Cristo. Le rappresentazioni teologiche tradi­
zionali trovavano la loro piena giustificazione in un contesto di sacralizza­
zione, di soggezione alle forze della natura, di riferimento al passato, di pas­
sività e di dipendenza, di riconoscimento di una gerarchia e di accettazione
del potere che emana da essa, di una determinata valutazione della ses­
sualità, ecc. Tutto ciò contrasta con l’uomo secolarizzato di oggi. La scienza
e la tecnica attuali si propongono come obiettivo precisamente la trasfor­
mazione e la conquista del dominio sulle forze della natura. La fonte di
valori per l’uomo contemporaneo si colloca più nel futuro che deve creare,
che nel passato. Più che nella contemplazione, l’uomo tende a realizzarsi
con più pienezza nelPazione e nella lotta per la giustizia e il benessere di
tutti. La giustizia, la solidarietà, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia
sono alla base stessa del comportamento dell’uomo contemporaneo. Il suo
atteggiamento di fronte alla sessualità è demistificante. Se, attualmente,
l’uomo vuol trovare giustamente la spiegazione di se stesso e del mondo,
presterà ascolto non già alle spiegazioni mitiche e teologiche, ma piuttosto
alle scoperte scientifiche.

Alla base della crisi cristiana del presente, lo sfasamento di mentalità


colpisce il cuore stesso del messaggio cristiano: il rapporto uomo-Dio e,
di conseguenza, il rapporto Chiesa-mondo. La Chiesa entra perciò in una
specie di fase di silenzio : quando parla è male interpretata e non è ascoltata,
a volte è semplicemente ignorata.
Di fronte a una tale situazione, in vista di ciò che interessa la Liturgia,
si devono formulare chiaramente alcuni interrogativi: Come può interessare
un linguaggio — quello della celebrazione — che fa continuo uso del sim­
bolismo naturale, rurale, e che non dice ormai più nulla ai contemporanei?
E come trovare simboli adeguati? Che valore ha in realtà il riferimento in­
sistente alla tradizione di forme liturgiche del passato? Quali vie si do­
vranno seguire per scoprire o inventare un linguaggio adeguato?
Che valore si può attribuire alla assemblea liturgica, quando in essa stanno
a gomito a gomito persone che si ignorano mutuamente, e che anzi forse
205 la Liturgia e le sue leggi

sono separate da interessi economici o politici contrari? Qual è dunque il


significato reale, umano, che prendono termini come unità, comunità, o comu­
nione? Alla lunga, tutto ciò svanisce, naturalmente, in verbalismo e mi­
stificazione, inganno o artificio. Come creare in un contesto simile il clima di
celebrazione, di « festa » proprio della assemblea liturgica ? In tali condizioni
non può destare meraviglia che il disinteresse per la Liturgia vada crescendo.

Attualmente, Patteggiamento che i cristiani presentano nei confronti


della Liturgia è vario. Ci sono quelli che accettano docilmente le strutture
attuali, sia per senso atavico o perché non si aspettano nulla da esse, oppure
ne sono effettivamente soddisfatti. A fianco di questi stanno aumentando
di giorno in giorno quelli che « contestano » le recenti innovazioni. Da
una parte stanno i « conservatori », che vedono scomparire con esse la pro­
pria « sicurezza », oppure le considerano come un indice di degradazione
del cattolicesimo. Dall5altra parte stanno coloro che, scontenti dalla man­
canza di radicalità della riforma, prendono decisioni proprie, si emarginano
e danno campo libero alla propria immaginazione e creatività.
Davanti a questo confuso panorama, come può sperare la Chiesa di rag­
giungere un linguaggio suscettibile di essere compreso da tutti e di creare
Punità di tutti? Un tale linguaggio facilmente può arrivare ad essere il
linguaggio di nessuno.
Questa realtà critica interessa in modo speciale il legislatore. Ma anche
il canonista non può ignorarla, se veramente crede che la missione del di­
ritto è di assicurare una istituzione che favorisca lo sviluppo della vita di
fede tra i cristiani concreti di un’epoca ben precisa.

Se è lecito avanzare proposte relative all’itinerario da seguire per la


legislazione liturgica, sulla linea di quello spirito liturgico propugnato dal
Concilio, ci sembra che, tenuto conto della situazione di crisi descritta,
l’obiettivo cui ora si deve tendere è il riconoscimento del pluralismo liturgico
inteso non come semplice avvicinamento a livello di popolo di una Liturgia
già fatta, ma come atto di fiducia nella coscienza e nel senso di responsabilità
dei diversi gruppi cristiani, un atto di fiducia nella loro immaginazione e
creatività e soprattutto nel loro carattere profetico.
Sarà indubbiamente necessario che nella legislazione cultuale l’aspetto
istituzionale — cioè il mantenimento di alcune forme istituzionali con tutto
quello che comportano di riferimento alla tradizione storica — e Yaspetto
astratto, non concretamente legato alla comunità, tendano a diminuire,
salvaguardando il nucleo molto ridotto già contenuto nel NT. Dovranno
avere la preminenza le preoccupazioni più specificamente liturgiche, più
umane ed evangeliche, di garantire le condizioni necessarie a che la cele­
brazione possa realizzarsi per tutti con il massimo di sincerità, di verità e
di vita. La Chiesa, come l’istituzione liturgica — e le forme in cui si è sto­
ricamente espressa — non sono dei fini a se stesse, ma stanno a servizio di
tutti gli uomini h Non tener conto di questo ci condurrebbe a un nuovo,
sterile istituzionalismo.
È vero che tanto la uniformità e la fissazione di certe forme cultuali1

1 Cfr. il discorso pronunciato da Paolo V I aH?apertura della IV Sessione del Concilio V ati­
cano II ( 1 4 settembre 1 9 6 5 ) , in Enchiridion Vaticanum. Bologna 1 9 7 1 9 [ 1 9 3 - 2 1 5 ] .
206 parte II - capitolo II

quanto il costante ricorso alla tradizione hanno reso possibile, in certi mo­
menti della storia, salvare dal pericolo deWerrore determinate comunità
cristiane che altrimenti vi avrebbero ceduto, vittime degli eccessi della spon­
taneità. È vero anche che il fatto di aver dato alle azioni liturgiche una
forma stereotipata, ha conferito alle stesse un’aura di mistero. Ma tutto
questo non è forse troppo spesso avvenuto a scapito della comprensione del
vero mistero di Cristo?
Per assicurare alla Liturgia l’assenza da errori e la purezza dottrinale,
la Chiesa oggi non si vede più costretta a imporre una lingua e usi pluri­
secolari: ha infatti a sua disposizione dei mezzi più accessibili e convincenti
per l’uomo contemporaneo, mezzi che l’attuale civilizzazione ci facilita at­
traverso la sociologia delle comunicazioni.
La comunità è l’ambiente favorevole allo sviluppo della vita cristiana,
il luogo di promozione della persona alla vita della grazia, come anche alla
vita naturale. Potremo parlare con ragione di Liturgia solo nella misura in
cui alle comunità cristiane si diano possibilità di autentica espressione. Se si
realizza questo, ne verrà come inevitabile conseguenza la varietà delle forme
liturgiche. In tal caso, al di sopra delle diversificazioni secondarie, scopri­
remo non già una uniformità imposta — segno di debolezza e di superficia­
lità— , ma l’unità sostanziale della fede e dei riti fondamentali, liberamente ac­
cettati secondo la più profonda e imperitura tradizione dei discepoli di Cristo.
Attribuire troppo importanza a qualsiasi altro tipo di unità, tradizione,
o comunità, potrebbe venire a danno della visione più profonda della vera
vita di fede in Gesù Cristo.
Inoltre, occorre sottolineare che la decentralizzazione della legislazione
cultuale o il pluralismo radicale auspicato, non debbono essere intesi come
diminuzione della devozione e del rispetto dovuti all’autorità evangelica
della Chiesa, al primato del Papa e alla funzione episcopale; si potrebbe
applicare forse a questo proposito la espressione di sant’Ambrogio : «Desi­
dero seguire in tutto la Chiesa romana; tuttavia anche noi abbiamo l’umano
discernimento; ed è per questo che come altrove giustamente si osserva una
cosa, altrettanto giustamente noi osserviamo la nostra » h
L ’unità organica della società che raccoglie gli uomini cristiani non deve
essere considerata come qualche cosa di statico e raggiunta una volta per
sempre, ma come una realtà in continuo divenire. Essa si consegue non con
l’imporre una apparente unità di espressione — che è poi artificiale — ,
ma piuttosto cercando il modo di attivare le diverse forme di reale solidarietà,
conosciute e valorizzate dai vari gruppi che costituiscono la società. La Li­
turgia è una creazione che viene allo stesso tempo, dalla Chiesa, dal popolo
e dalle persone concrete. Seguendo la linea tracciata dal Concilio, si dovrà
arrivare al giorno in cui anche agli « emarginati » di oggi venga riconosciuto
il diritto di dar libera espressione alla propria immaginazione e creatività,
affinché, umilmente e con lucidità critica, — e senza necessariamente di­
struggere le attuali strutture — ricerchino e inventino nuovi segni e nuovi
riti. Non si deve mai dimenticare che è proprio in corrispondenza del modo
di essere dell’uomo che si adottano segni e parole nel culto, e non già in

De Sacramentis, III, i, 5. ed. O . Faller, in C S E L 40, 1955.


207 la Liturgia e le sue leggi

corrispondenza al modo di essere di Dio. Infatti se noi ci serviamo di parole


nel culto, non è tanto per manifestare a Dio quel che c’è dentro di noi, « ma
per indurre noi stessi e quelli che ci ascoltano all’adorazione di Dio » 1. Bi­
sogna stare attenti a non pretendere di elaborare una riforma del diritto litur­
gico a partire — contro l’insegnamento dello stesso Concilio — da una con­
cezione troppo giuridica della Chiesa. La Chiesa non consiste principalmente
nella gerarchia, nei sacramenti e nelle altre istituzioni; tutti questi non sono
in realtà che strumenti a servizio della progressiva conversione degli uomini
all’evangelo. Troppo spesso i laici continuano ad essere considerati come
semplici beneficiari dell’azione della Chiesa, invece che nella loro qualità
di membri costitutivi di questa Chiesa che è il popolo di Dio. Se non si rico­
nosce ad ogni cristiano una reale responsabilità, personale ed attiva, come ci si
potrà aspettare da lui una partecipazione autentica alla celebrazione liturgica?

La futura legislazione liturgica, fatta alla luce degli orientamenti del


concilio Vaticano II, dovrebbe certamente presentare un sistema normativo,
atto a determinare le linee generali essenziali della Liturgia cristiana — su­
perando di poco quello che già compare nel N T — in modo che il modello
elaborato dalla riforma conciliare acquisterebbe il carattere di punto di rife­
rimento per tutto il mondo cristiano. A questo scopo gli si dovrebbe garan­
tire la possibilità di essere adottato in luoghi di culto frequentati da un pub­
blico variabile; potrebbe nello stesso tempo applicarsi in quei luoghi nei
quali permane una struttura di tipo parrocchiale tradizionale, regolando
il culto in quelle comunità non parrocchiali che se ne mostrassero soddi­
sfatte, come in quelle che o non sentono la necessità di un cambiamento o
non saprebbero inventarne un altro migliore. Finalmente si riconoscerebbe
il diritto di ogni gruppo o comunità di celebrare il culto, secondo quel modo
che umilmente sembrerebbe loro più adatto alla loro situazione e identità.
Così, senza perdere il pregio di una « norma comune » per ciò che è
fondamentale, si otterrebbe la effettiva possibilità di rendere a Dio un culto
più umanizzato e, in ultima analisi, più evangelico, con più spirito e verità.
L ’ordinamento canonico da parte sua guadagnerebbe una maggiore
coerenza, e il diritto canonico si conformerebbe più strettamente al senso
che gli viene imposto dall’antropologia e dall’evangelo. Si realizzerebbe in
tal modo la nozione — nel suo significato più profondo, più essenziale e più
reale, anche se meno spettacolare — di tradizione e di comunità.

Un tale orientamento implica l’accettazione del rischio di rafforzare i


muri di separazione e divisione tra due o più Chiese. Ma la fede — spe­
ranza o certezza di raggiungere la salvezza fondata sulla fiducia che ispira
Gesù Cristo — non comporta già per se stessa la situazione di spirito che
spinge ad assumersi questo rischio? Ne potrebbe forse risultare la scoperta
di nuove forme di espressione adeguate alla comunità che riunisce tutti
coloro che si sono convertiti alla fede in Gesù Cristo.

Resta da dire che quanto si è qui suggerito non può non essere seguito
da un interrogativo: il prudente interrogativo che sempre si accompagna
a ogni misura presa in un tempo di crisi, di trasformazione, di incertezza.

1 S, Tom m aso, Summa theol., II-II, q. 91. a. 1.


appendice

cronologia della riforma liturgica


(a cura di M. Augé - S. Marsili)
Elenchiamo di seguito, i documenti legislativi più caratteristici che sono an­
dati applicando e sviluppando le direttive contenute nella Costituzione Sacrosanctum
Concilium.
Ci limitiamo ai documenti di carattere ufficiale ed universale.
Alcuni di questi documenti riflettono una legislazione circostanziale o transi­
toria, superata in seguito da altri documenti più completi e di carattere più du­
raturo o definitivo. A distanza, in questa intensa attività legislativa non è difficile
scoprire un graduale disagio e persino un vero e proprio superamento della legi-
slazione-base della Costituzione Sacrosanctum Concilium.
Abbiamo ordinato il nostro elenco secondo un ordine cronologico di promul­
gazione di ciascun documento. Diamo una nota sintetica del contenuto del do­
cumento in questione, e indichiamo di seguito il luogo degli Acta Apostolicae Sedis in
cui si trova. Avvertiamo che alcuni — pochi — documenti elencati non si trovano
negli AAS; li introduciamo lo stesso per il loro carattere ufficiale ed universale.

Anno 1964
25 gennaio Sacram Liturgiam: Motu proprio di Paolo VI sull’entrata
in vigore di alcune prescrizioni della Costituzione Sacro­
sanctum Concilium h
25 aprile Quo actuosius: Decreto della S. Congregazione dei Riti sulla
nuova formula per la distribuzione della Comunione8.
26 settembre Inter Oecumenici: Istruzione della S. Congregazione dei Riti,
su elaborazione del Consilium, per la debita applicazione
della Costituzione Sacrosanctum Concilium8.

1 Cfr. A AS 56, 1964, 139-14^.; «Rivista Liturgica» 51, 1964, 93-98 (testo latino-italiano),
che segnala le differenze tra Tedizione dell’ « Osservatore Rom ano» (29 gennaio 1964) e il testo
di AAS. Vedi commento in «Rivista Liturgica» 51, 1964, 233-238.
2 Gfr. A AS 56, 1964, 337-338.
3 Gfr. AAS 36, 1964, 877-900; «Rivista Liturgica » 51, 1964, 526-569 (testo latino-italiano
con note illustrative a cura di S. Marsili) ; F. DelFOro, La recente « Instructio ad exsecutionem Consti­
tutionis de Sacra Liturgia recte ordinandam » (commento), ibidem, 487-525; In margine all1« Instructio »
del 26 settembre 1964, ibidem, 52, 1965, 526-528: Risposte ad alcuni quesiti.
212 appendice

14 dicembre Quum Constitutio: Decreto della S. Congregazione dei Riti,


promulgatorio del Kyriale simplex 1.
14 dicembre Edita Instructione: Decreto della S. Congregazione dei Riti,
promulgatorio dei canti che mancano nel messale romano 12.

Anno /965
27 gennaio Nuper edita Instructio: Decreto della S. Congregazione dei
Riti, che promulga VOrdo Missae.
Ritus servandus in celebratione Missae e De defectibus in celebra-
tione Missae occurrentibus 3.
7 marzo Ecclesiae semper: Decreto della S. Congregazione dei Riti,
promulgatorio dei Ritus servandus in concelebratione Missae ei
Ritus Communionis sub utraque specie 4.
7 marzo Quamplures Episcopi: Decreto della S. Congregazione dei
Riti, promulgatorio delle variazioni che si devono introdurre
neirOrdinario della settimana santa5.
23 novembre In edicendis normis: Istruzione della S. Congregazione dei
Riti sull’uso della lingua nella celebrazione delhufficio di­
vino e della messa conventuale o comunitaria dei reli­
giosi 6.

Anno ig66
27 gennaio Cum, nostra aetate: Decreto della S. Congregazione dei Riti
sull’edizione dei libri liturgici7.
8 febbraio Peculiare ius: Motu proprio di Paolo VI sull’uso dell’altare
papale nelle basiliche patriarcali di Roma 89
.
14 febbraio Cum hac nostra aetate: Decreto della S. Congregazione dei
Riti sulla comunione negli ospedaliB.
29 dicembre Da qualche tempo: Dichiarazione della S. Congregazione dei
Riti e del Consilium per l’applicazione della Costituzione
sulla sacra Liturgia intorno ad alcune iniziative riprove­
voli circa le celebrazioni eucaristiche 10.

1 Cfr. AAS 57, 1965, 408-409; F. DelPOro, Sussidi per la celebrazione della M essa rinnovata dalla
« Instructio », in «Rivista Liturgica» 52. 1965, 68-85 (in particolare le pp. 70-73). Kyriale Simplex.
Ed. Typica , Typis Polyglottis Vaticanis 1965.
2 Cfr. A AS 57, 1965, 408; F. Dell’Oro, art. c i t 68-70. Cantus qui in M issali Romano desi­
derantur iuxta Institutionem Constitutionis de Sacra Liturgia recte ordinandam et iuxta Ritum Concelebrationis,
Typis Polyglottis Vaticanis 1965.
3 Cfr. A AS 57, 1965, 408-409; F. Dell’Oro, art. cit., 73*84.
Ordo M issae et Ritus servandus in celebratione M issae . Ed. Typica , Typis Polyglottis Vaticanis
i 965 -
4 Cfr. AAS 57, 1965, 410-412; C. Vagaggini, Il valore teologico e spirituale della M essa concelebrata,
in «Rivista Liturgica» 52, 1965, 189-219; F. Dell’Oro, L a concelebrazione eucaristica: D alla storia
alla pastorale, ibidem, 220-251 ; Norme per la Cóncelebrazione e la Comunione sotto le due specie per la D io­
cesi di Lugano, in « Rivista Liturgica» 53, 1966, 109-112; B. Neunheuser, Il Canone nella Conce­
lebrazione, ibidem, 581-592; AA. V V ., L a Concelebrazione. Dottrina e pastorale, in «Culm en et Fons »
7, Brescia 1965; AA. V V ., L a Concelebrazione. Teologia, Pastorale e iStoria, in «Quaderni di Rivista
Liturgica» i , 'Forino-Leumann 1966.
5 Cfr. A AS 57, 1965, 412-413; F. DelPOro, Sussidi per la celebrazione della M essa rinnovata dalla
« Instructio », in «Rivista Liturgica» 52, 1965, 67-85 (particolarmente alla p. 84). Variationes in
Ordinem Hebdomadae sanctae inducendae. Ed. Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1965.
6 Cfr. A AS 57, 1965, 1010-1023; «Rivista Liturgica» 63, 1966, 99-107 (testo latino-italiano
con note a cura di F. DelPOro).
7 Cfr. A AS 58, 1966, 169-171; «N otitiae» 2, 1966, 172-180 (testo e commento latino).
8 Cfr. A AS 58, 1966, 119-122; «N otitiae» 2, 1966, 201-208 (testo e commento latino).
9 Cfr. A AS 58, 1966, 525-526; «N otitiae» 2, 1966, 327-329 (testo e commento latino).
10 Cfr. AAS 59, 1967, 85-86; «N otitiae» 3, 1967, 37-46 (testo e commento a cura di A. Bu-
gnini).
213 cronologia della riforma liturgica

Anno ig6y
5 marzo Musicam Sacram: Istruzione dèlia S. Congregazione dei Riti
sulla musica nella sacra Liturgia l.
4 maggio Tres abhinc annos: Istruzione seconda della S. Congrega­
zione dei Riti per la debita applicazione della Costituzione
Sacrosanctum Concilium 12.
25 maggio Eucharisticum Mysterium: Istruzione della S. Congregazione
dei Riti sul culto del mistero eucaristico 3.
18 giugno Sacrum Diaconatus Ordinem: Lettere apostoliche, date Motu
proprio, sul diaconato permanente 4.
3 settembre Sacrosancti 0 ecumenici Concilii: Decreto della S. Congrega­
zione dei Riti, promulga torio del Graduale simplex 5.

Anno ig68
23 maggio Prece eucharistica: Decreto della S. Congregazione dei Riti
sulle nuove orazioni eucaristiche e i nuovi prefazi del mes­
sale romano 6.
6 giugno Domus Dei: Decreto della S. Congregazione dei Riti sopra
il titolo di Basilica Minore 7.
18 giugno Pontificalis Romani: Costituzione apostolica con la quale si
approvano i nuovi riti per l’ordinazione del diacono, del
presbitero e del vescovo 8.

1 Gir. AAS 59, 1967, 300-320; «Rivista Liturgica» 54, 1967, 225-251 (testo latino-italiano);
Note illustrative a cura di F. Dell’Oro, ibidem, 251-276; «N otitiae» 3, 1967, 81-108 (testo latino
con presentazione e note a cura di L. Agustoni) ; H. Hucke, Il problema della musica di Chiesa, in
«Rivista Liturgica» 59, 1972, 169-182; N. Schalz, L a nozione di « Musica sa c ra ». Un passato recente,
ibidem, 183-207; R. G. Weakland, L a musica nella Liturgia dopo il Concilio, ibidem, 208-215; E. Costa,
L a riflessione post-conciliare sul canto e la musica nella Liturgia , ibidem, 216-226; R. Court, Simbolo mu­
sicale e atto liturgico, ibidem, 256-271; Cfr. ancora AA. W . , Musica sacra e azione pastorale in « Q u a ­
derni di Rivista Liturgica» 6, Torino-Leumann 1967.
2 Cfr. AAS 59, 1967, 442-448; «Rivista Liturgica» 54, 1967, 277-287 (testo latino-italiano);
Commento a cura di F. D elrO ro, ibidem, 287-318; «N otitiae» 3, 1967, 169-194 (testo e commento
latino a cura di C. Braga, L. Trimeloni, G. Pasqualetti).
3 Cfr, AAS 59, 1967, 539-573; «N otitiae» 3, 1967, 225-288 (testo latino e commento a cura
di J. Tillard, I. Lécuyer e S. Famoso) ; AA. W „ , Eucaristia. Memoriale del Signore e Sacramento per­
manente, in «Quaderni di Rivista Liturgica» 7, Torino-Leumann 1976.
4 Cfr. A AS 59, 1967, 697-704; «Rivista Liturgica» 54, 1967, 659-662, dove si riporta solo
in parte il Motu proprio; G. Z., Situazione del Diaconato nel mondo, ibidem, 55, 1968, 443-445.
5 Cfr. «N otitiae» 3, 1967, 311-325; Decretum, Praenotanda al Graduale Simplex, commento a
cura di L. Agustoni.
8 Cfr. «Rivista Liturgica» 55, 1968, 819-831 (testo latino-italiano); «N otitiae» 4, 1968,
156- r 79 : Decretum, Normae pro adhibendis precibus eucharisticis; Praefationes; Preces eucharisticae; Indi-
cations pour faciliter le catéchèse des Anaphores de la Messe, ibidem, 148-155; B. Neunheuser, Eucaristia
perenne, in «Rivista Liturgica» 55, 1968, 782-807; S. Marsili, Le nuove Preghiere eucaristiche, ibidem,
808-817; G. Villoresi, I laici di fronte alle nuove Preghiere eucaristiche, ibidem, 832-851; AA. W . , Le
preghiere eucaristiche nella celebrazione della M essa, in «L iturgia», nuova serie, 7, Roma 1969. (Atti
del Convegno su le nuove Preci eucaristiche, Roma 4-7 febbraio 1969). Per un resoconto cfr.
in «Rivista Liturgica» 56, 1969, 262-265; H. Ashworth, I nuovi Prefazi, ibidem, 55. 1968, 758-781.
Preces Eucharisticae et Praefationes, Typis Polyglottis Vaticanis 1968.
7 Cfr. A AS 60, 1968, 536-539*
8 Cfr, AAS 60, 1968, 369-373; «Rivista Liturgica» 65, 1968, 144-150 (testo latino-italiano);
«N otitiae» 4, 1968, 209-219 (testo latino, commento a cura di J. Lécuyer) ; Quaedam iudicia de
ritu ordinationum, ibidem, 220-223; B. Kleinheye, L a riforma degli Ordini sacri. Saggio storico‘■ liturgico
sui nuovi Riti, in «Rivista Liturgica» 65, 1968, 8-24; E .J. Lengeling, Teologia del sacramento del-
VOrdine nei testi del nuovo Rito, ibidem, 25-54; B. Maggioni, Il Sacerdozio nel Nuovo Testamento, ibidem,
55-69; E. Lanne, Teologia dei ministeri nella problematica dell Ecumenismo odierno, i b i d r 70-89; C. Og-
giom, Aspetti pastorali e spirituali dei nuovi riti di Ordinazione, ibidem, 90-100.
Pontificale Romanum ex decreto... promulgatum: De Ordinatione Diaconi, Presbyteri et Episcopi Ed.
Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1968.
214 appendice

2i giugno Pontificalia insignia: Lettera apostolica, data Motu pro­


prio, sulla revisione delle insegne pontificali1.
2i giugno Pontificales ritus: Istruzione della S. Congregazione dei Riti
sulla semplificazione dei riti e insegne pontificali 2.

Anno igò'g
14 febbraio Mysterii paschalis: Lettera apostolica, data Motu proprio,
per approvare le norme generali deiranno liturgico e del
nuovo calendario romano 3.
19 marzo Ordo celebrandi matrimonium: Decreto della S. Congregazione
dei Riti, promulgatorio del Rituale per la celebrazione del
matrimonio 4.
21 marzo Anni liturgici: Decreto della S. Congregazione dei Riti,
promulgatorio dell’ordinamento dell’anno liturgico e del
calendario generale romano 5.
3 aprile Missale Romanum: Costituzione apostolica, con la quale è
promulgato il messale romano, aggiornato secondo le di­
rettive del concilio Vaticano I I 6.

1 Cfr. AAS 60, 1968, 374-377; «N otitiae» 4. 1968, 224-226 (testo latino del Motu proprio);
Commentarium a cura di S. Famoso, ibidem, 307- 312; F. Dell’Oro, Le insegne pontificali, I: Il Motu
Proprio «Pontificalia In sign ia» (commento e bibliografia), in « Rivista Liturgica» 56, 1969, io n i 18.
2 Cfr. AAS 6o, 1968, 406-412; «N otitiae» 4, 1968, 246-252 (testo latino); Commentarium
a cura di S. Famoso, ibidem, 312-324; F. Dell’Oro, Le insegne pontificali, II: L'Istruzione « Ponti­
ficales R itu s» (commento e bibliografia), in «Rivista Liturgica» 56, 1969, 118-143.
3 Cfr. A AS 61, 1969, 222-226; «Rivista Liturgica» 57, 1970, 284-287 (testo italiano del
Motu proprio); Norme generali per Vordinamento dell'anno liturgico e del calendario: ibidem, 288-298;
Note illustrative a cura di F. Dell’Oro: ibidem, 299-320; «N otitiae» 5, 1969, 159-162 (Motu
proprio); Normae universales de anno liturgico et de calendario, Calendarium romanum generale, ibidem,
165-186; Conferenza-stampa e commento rispettivamente a cura di P. Jounel e A. Bugnini,
ibidem, 295-303; Variationes in «Calendarium romanum» inductae a cura di G. Pasqualetti-S. Bianchi,
in «N otitiae» 6, 1970, 191-192; S. Marsili, Il «tempo liturgico» attuazione della storia della
salvezza , in «Rivista Liturgica» 57, 1970, 207-235; E. Cattaneo, Lo sviluppo del calendario intorno
al Mistero pasquale, ibidem, 257-272; B. Neunheuser, L a «celebrazione liturgica» nella prospettiva di
0 . Casel, ibidem, 248-256; P.Jounel, Il nuovo Calendario, in «N otitiae» 5, 1969, 273-283; Notificazione
sul Messale Romano, la Liturgia delle Ore e sul Calendario, in «Rivista Liturgica» 58, 1971, 550-553.
Calendarium Romanum. Ed. Typica. Typis Polyglottis Vaticanis 1969.
4 Cfr. «N otitiae» 5, 1969, 203-220: Decretum, Descriptio e Praenotanda.
Rituale Romanum ex Decreto... Pauli P P . V I promulgatum. Ordo celebrandi Matrimonium. Ed. Ty­
pica. Typis Polyglottis Vaticanis 1969.
5 «N otitiae» 5, 1969, 163-164: Decretum.
6 Cfr. AAS 61, 1969, 217-222; «N otitiae» 5, 1969, 142-146 (testo latino della « Constitutio »);
«O rdo Missae» et Institutio Generalis (commento), ibidem, 14.8-158; Testo italiano dei «P rin­
cipi e norme per l’uso del Messale Romano», in «Rivista Liturgica» 57, 1970, 19-92; F. Del­
l’Oro, L a «Institutio Generalis» del Messale Romano 1970, in «Rivista Liturgica» 58, 1971, 456-
495 (presentazione e commento alle «varianti» introdotte nella prima edizione tipica [1969]);
Variationes in « Institutionem Generalem M issalis Romani » et Variationes in « Ordinem M issae » a
cura di G. Pasqualetti-S. Bianchi, in «N otitiae» 6, 1970, 177-193; «Prooemium» premesso
alla Institutio Generalis Missalis Romani (1969) nella edizione del nuovo messale, in «Rivista
Liturgica» 58, 1971, 533-539; Notificazione sul messale romano, la Liturgia delle Ore e sul Ca­
lendario, ibidem, 550-553; C. Braga, Il nuovo «O rd o M issa e » , in «Rivista Liturgica» 57, 1970,
7-17; S. Marsili, Teologia della celebrazione eucaristica. Note sul nuovo « Ordo M issa e » , ibidem, 93-114
(studio ripreso ed ampliato, in «Presenza Pastorale» 40, 1970, 1-2, 57-87: Per una teologia della
celebrazione eucaristica) ; K. Falsini, Diversità di assemblee e forme ai celebrazione, in « Rivista Liturgica »,
57, I97°i 115-126; E. Lodi, Partecipazione attiva 0 concèlebrazione dei fed eli? ibidem, 127-142; L. Bo-
rello, Aspetti pastorali del nuovo «O rd o M issa e », ibidem, 143-156; G. Negri, L a catechesi in funzione
del nuovo «O rd o M issae », ibidem, 157-180; A. Bugnini, Il nuovo Messale Romano, in «Rivista Litur­
gica» 58, 1971, 447-455; E. J. Lengeling, Contributo alla storia della riforma del Messale Romano,
ibidem, 496-514; B. Neunheuser, I Comuni del nuovo Messale Romano, ibidem, 515-532; A. Dumas,
Pour mieux combrendre les textes liturgiques du M issel Romain, in «N otitiae» 6, 1970, 194-213; AA. W . ,
Il nuovo Rito della M essa, in « Q u a d e r n i d i Rivista Liturgica» 12, Torino-Leumann 1970.
M issale Romanum ex Decreto../P a u li P P . V I promulgatum: Ordo Missae. Ed. Typica, Typis Polyglottis
Vaticanis 1969. M issale Romanum. Ed. Typica. Typis Polyglottis Vaticanis 1970.
215 cronologia della riforma liturgica

15 maggio Ordinem Baptismi parvulorum: Decreto della S. Congrega­


zione per il Culto divino, promulgatorio del Rituale per il
Battesimo dei bambini l.
15 maggio Actio pastoralis: Istruzione della S. Congregazione per il
Culto divino sulla messa per gruppi particolari12.
25 maggio Ordinem lectionum: Decreto della S. Congregazione per il
Culto divino, promulgatorio del Lezionario della Scrittura
per la messa 3.
29 maggio Memoriale Domini: Istruzione della S. Congregazione per
il Culto divino sul modo di amministrare la santa comu­
nione 45.
IO luglio Petentibus nonnullis: Decreto della S. Congregazione per il
Culto divino sulla « vacatio legis » del nuovo Rituale per
il Battesimo dei bambini6.
15 agosto Ritibus exsequiarum: Decreto delia S. Congregazione per il
Culto divino, promulgatorio del Rituale delle esequie6.
20 ottobre Constitutione apostolica: Istruzione della S. Congregazione per
il Culto divino suH’applicazione progressiva della Costitu­
zione apostolica Missale Romanum 7.

Anno igyo
2 febbraio Professionis ritus: Decreto della S. Congregazione per il
Culto divino, promulgatorio del nuovo Rito della profes­
sione dei religiosi8.

1 Gir. AAS 61, 1969, 548; «N otitiae» 5, 1969, 221 (testo del Decreto); De initiatione Chri­
stiana. Praenotanda generalia, ibidem, 222-229; De Baptismo parvulorum. Praenotanda, ibidem, 230-236;
B. Fischer, De Ordine Baptismi parvulorum (Commentarium), in «N otitiae» 4, 1968, 235-245; B. Mag-
gioni, Il Battesimo come inizio di storia della salvezza, in «Rivista Liturgica» 57, 1970. 363-382;
E. Ruffini, Il Battesimo nell'economia sacramentale, ibidem, 383-404; I. Biffi, Riflessioni teologiche sul mi­
stero del Battesimo, ibidem, 405-432.
Rituale Romanum ex decreto... Pauli PP. VI promulgatum * Ordo Baptismi parvulorum. Ed. Typica,
Typis Polyglottis Vaticanis 1969.
2 Gfr. A AS 61, 1969, 806-811; «Rivista Liturgica» 57, 1970, 475-489 (testo italiano deb
I*« Instructio »; Note e commento a cura di F. Dell’Oro; F. Deleclos, Le messe dei giovani. Una
realtà che domanda riflessione, in «Rivista Liturgica» 56, 1969, 293-301; G. Danneels, La proble­
matica posta dalle « Messe dei giovani », ibidem, 302-316; Indicazioni e Norme per le « Messe dei giovani »
in atto nelle varie Diocesi d'Italia, ibidem, 442-458; La celebrazione della Messa per categorie e gruppi di
persone (Conferenza episcopale svizzera), in «Rivista Liturgica» 59, 1972, 129-144; I^e Messe dei
piccoli gruppi (Nota della Conferenza episcopale francese per la Liturgia), in « Rivista Liturgica »
57, 1970, 490-500; Nota sulle Messe per pìccoli gruppi (Conferenza episcopale del Belgio), ibidem,
501-509; F. Nikolasch, Celebrazione della Messa in piccoli gruppi, ibidem, 510-515.
3 Cfr. A AS 61, 1969, 548-549; «N otitiae» 5, 1969, 237-282: Decretum, Instructio, Praenotanda,
Commento a cura di G. Fontaine; I. Biffi, Riflessioni teologiche sopra l'Omelia, in « Rivista Liturgica »
57, 1970, 583-562; P. Massi, Omelia, didascalia, kerygma, catechesi 0 « actio liturgica»?, ibidem, 523-
5 3 7 ; G. Groppo, Omelia e catechesi, ibidem, 563-575; E. Lodi, Aspetti sociologici dell'Omelia: Dottrina,
Problemi, Esperienze, ibidem, 584-614; D. Sartore, Problemi dell'Omelia, oggi, ibidem, 615-626.
Ordo Lectionum Missae. Ed. Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1969.
4 Cfr. A A S 61, 1969, 5^1-545; « N o titia e » 5, 1969, 347-351 (testo latino della « In stru ctio » );
Lettera della S. Congregazione per il Culto divino alle Conferenze episcopali, ibidem, 351-353.
5 Cfr. AAS 61, 1969, 549-550.
6 Cfr. «N otitiae», 6, 1969, 423-435: Decretum, Praenotanda, Commentarium a cura di S. Mazza-
rello; G. Gozzellino, Il nuovo Rito deWesequie e la teologia conteniporanea della morte, in «Rivista Li­
turgica» 58, 1971, 303-322; E. Lodi, La pastorale del nuovo Rito dell'esequie, ibidem, 340-353.
Rituale Romanum ex decreto... Pauli PP. VI promulgatum: Ordo exsequiarum. Ed. Typica, Typis
Polyglottis Vaticanis 1969.
7 Cfr. AAS 61, 1969, 7 4 9 - 7 5 3 -
8 Cfr. A AS 62, 1970, 553; «N otitiae» 6, 1970, 113-126: Decretum, Praenotanda, Commentarium
a cura di I. Calabuig; Idem, Note sulla teologia e spiritualità della vita religiosa alla luce dell'« Ordo
Professionis », in Per una presenza viva dei Religiosi nella Chiesa e nel mondo, Torino-Leumann 1970,
933-979; Ordo Professionis religiosae. Documenta, in «N otitiae» 6, 1970, 316-322.
Rituale Romanum ex decreto... Pauli PP. VI promulgatum: Ordo Professionis Religiosae. Ed. Typica,
Typis Polyglottis Vaticanis 1970.
216 appendice

5 marzo Fidei custos: Istruzione della S. Congregazione per il Culto


divino per la disciplina dei sacramenti sui ministri straor­
dinari nclPamministrazione della comunione1.
26 marzo Celebrationis eucharisticae: Decreto della S. Congregazione per
il Culto divino, con il quale si promulga e si dichiara ti­
pica la nuova edizione del messale romano 12.
31 maggio Consecrationis virginum: Decreto della S. Congregazione per
il Culto divino, promulgatorio del nuovo Rito della consa­
crazione delle vergini3.
24 giugno Calendaria particularia: Istruzione della S. Congregazione per
il Culto divino sulla revisione dei calendari particolari e
degli uffici e messe proprie 45 .
29 giugno Sacramentali Communione: Istruzione della S. Congregazione
per il Culto divino su ima più ampia facoltà di ammini­
strare la santa comunione sotto le due specie 6.
5 settembre Liturgicae instaurationes: Istruzione terza della S. Congrega­
zione per il Culto divino sulla debita applicazione della
Costituzione Sacrosanctum Concilium 6.
30 settembre Ordine lectionum Missae: Decreto della S. Congregazione per
il Culto divino, con il quale si pubblica e si dichiara tipica
Tedizione latina del Lezionario del messale romano 7.
1 novembre Laudis canticum: Costituzione apostolica con la quale si pro­
mulga la nuova Liturgia delle Ore 89 .
9 novembre Abbatem et Abbatissam: Decreto della S. Congregazione per
il Culto divino, promulgatorio del nuovo rito per la bene­
dizione dell’abate e dell’abbadessa fl.
3 dicembre Ritibus Hebdomadae sanctae: Decreto della S. Congregazione
per il Culto divino, che promulga il nuovo rito per la bene­
dizione deirolio dei catecumeni e degli infermi e per la
preparazione del crisma 10.

1 Gfr. «Rivista Liturgica» 58, 1971, 276-278 (testo della Istruzione); I Ministri ausiliari
della Comunione (Nota dell’Episcopato belga ai suoi sacerdoti), ibidem, 278-281; I ministri straor­
dinari della Comunione (Nota della Commissione episcopale francese per la Liturgia), ibidem, 282-287.
2 Cfr. A AS 62, 1970, 554; «N otitiae» 6, 1970, 169 (Decretum).
3 Cfr. A AS 62, 1970, 650; «N otitiae» 6, 1970, 313-316: Decretum e Praenotanda.
4 Cfr. A AS 62, 1970, 651-663; «Rivista Liturgica» 58, 1971, 111-131 (testo italiano della
Istruzione, Note illustrative a cura di F. DelPOro); «N otitiae» 6, 1970, 348-370 (testo latino con
annotazioni incorporate).
5 Cfr. A AS 62, 1970, 664-667; « Rivista Liturgica» 58, 1971, 415-422 (testo italiano con com­
mento a cura di F. Dell’Oro; «N otitiae» 6, 1970, 323-328 (testo latino con brevi annotazioni);
Comunione sotto le due specie (Nota della Conferenza episcopale del Belgio), in « Rivista Liturgica »
58, 1971, 423-424; Communion sous les deux espèces (Ordonnance de la Conférence épiscopale fran-
gaise), in «N otitiae» 6, 1970, 43-44; A. Bugnini, V Istruzione « Sacramentali Communione». Precedenti
e significato, in « L ’Osservatore Romano» 4 settembre 1970, 1-2.
6 Cfr. AAS 62, 1970, 692-704; «Rivista Liturgica» 58, 1971, 540-550 (testo italiano); « N o ­
titiae.» y, 1971, 9-26 (testo latino e commento incorporato); Echi e commenti alla Terza Istruzione,
in «Rivista Liturgica» 58, 1971, 554-577; S. Maggiolini, Una « Instructio » e il suo fondo teologico,
in «N otitiae» 7, 1971, 49-52; G. P., L a Terza « Instructio » mortifica l'iniziativa?, in «N otitiae»
7, 1971, 85-88; A. Ini esta, En tomo a la tercera Instrucción, ibidem, 114-117; G. P., L a musica sacra
nella « Instructio Tertia » , ibidem, 294 ss. ; G. Oury, Le Missel et la I I I o Instruction, ibidem, 247-253.
7 Cfr. A AS 63, 1971, 710.
8 Cfr. «N otitiae» 7, 1971, 146-152 (testo latino della Costituzione).
9 Gir. A AS 63, 1971, i i o - i i i ; «N otitiae» 7, 1971, 32-36: Decretum, Praenotanda, Commentarium
a cura di S. B.
Pontificale Romanum ex decreto... Pauli P P . VI promulgatum: Ordo Benedictionis Abbatis et Abbatissae.
Ed. Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1970.
10 Cfr. A AS 63, 1971, 711; «N otitiae» 7, 1971, 89-91: Decretum e Praenotanda.
Ordo benedicendi Oleum catechumenorum et infirmorum et conficiendi chrisma. Ed. Typica, Typis Po­
lyglottis Vaticanis 1971.
217 cronologia della riforma liturgica

Anno 1971
11 aprile Horarum Liturgia: Decreto della S. Congregazione per il
Culto divino, con la quale si pubblica e si dichiara tipica
redizione latina del libro della Liturgia delle Ore \
15 agosto Divinae consortium naturae: Costituzione apostolica sul sa­
cramento della Confermazione 2. 1
22 agosto Peculiare Spiritus Sancti donum: Decreto della S. Congrega­
zione per il Culto divino, con il quale si promulga il
nuovo rito della Confermazione e si dichiara tipica la sua
edizione 3.

Anno 1972
6 gennaio Ordinis Baptismi adultorum: Decreto della S. Congregazione
per il Culto divino, promulgatorio del nuovo rito dell’ini­
ziazione cristiana degli adulti4.
27 maggio Lettera della S. Congregazione per il Culto divino al ve­
scovo di Gap R. Coffy, presidente della Commissione litur­
gica nella Conferenza episcopale di Francia, con la quale si
autorizza Fuso, nelle celebrazioni liturgiche, di una veste
sacerdotale di forma nuova 56.
16 giugno Sacramentum Paenitentiae: Norme pastorali della S. Congre­
gazione per la Dottrina della fede riguardanti l’assoluzione
sacramentale generale e.
24 giugno Thesaurum canius gregoriani: Decreto della S. Congregazione
per il Culto divino che promulga sotto il titolo di Ordo
cantus Missae il nuovo Graduale Romano, adattato alle norme
della riforma liturgica 7.
7 agosto In celebratione Missae: Dichiarazione della S. Congregazione
per il Culto divino sulla concelebrazione, per l’interpre-
tazione del nn. 76, 158 della Institutio generalis del messale
romano 8.

1 Oír. AAS 63, 1971, 712; « N o titia e » 7, 1971, 145: Decretum; Institutio generalis de Liturgia
Horarum, Index analylicus, ibidem, 153-214; A. G. M artim ort, V a Institutio generalis » /a nouuelle
« Liturgia H orarum », ibidem, 201-240: A A. V V ., Liturgia delle Ore. Documenti c Studi, in « Q u a d ern i
di R ivista L itu rgica» 14, Torino-Lcum ann 1971.
2 Cfr. A AS 63, 1971, 657-664; «N otitiae» 7, 1971, 333-346: Constitutio, Praenotanda; « R i­
vista Liturgica» 59, 1971, 432-437: testo italiano della Costituzione; U. Betti, Confermazione: S i­
gillo dello Spirito , in «N otitiae» 7, 1971, 347-351; G. P., /)* instauratione Ordinis Confirmationis, ibidem,
352-363; I Biffi, Riflessioni teologiche sul nuovo «O rd o Confirmationis » , in «Rivista Liturgica» 59,
1972, 313-.323; G. M. Medica, Catechesi di preparazione immediata alla Cresima, ibidem, 352-366; E. Lodi,
Aspetti pastorali deW« Ordo Confirmationis», ibidem, 379-390; A. Nocent-S. Marsili, Problemi contem­
poranei dell*iniziazione cristiana , ibidem, 54, 19G7, 81-102: G. Milanesi, Confermazione e inserimento del
cristiano nella società, ibidem, 179-198: AA. V V ., L a Confermazione e l'iniziazione cristiana, in « Q u a ­
derni di Rivista Liturgica» 8, Torino-Leumann 1967.
Pontificale Romanum ex decreto... Ptfu/i PP. V I promulgatum: Ordo Confirmationis. Ed. Typica, Typis
Polyglottis Vaticanis 1971.
3 Cfr. A AS 64, 1972. 77; «N otitiae» 7, 1971, 332: Decretum.
4 Cfr. AAS 64, 1972, 252; «N otitiae» 8, 1972, 68-95: Decretum, Praenotanda, Commento a
cura di J. B. Molin.
6 Cfr. G. Oury, Faut-il un vètement liturgique? in «Esprit et vie» (L’ami du clergé), 82, 1972,
481-486.
6 Cfr. AAS 64, 1972. 510-514; «N otitiae» 8, 1972, 312-326 (testo latino e commento a cura
di M. Zalba).
7 Cfr. «N otitiae» 8, 1972, 215-226: Decretum, Praenotanda e commento a cura di J. Claire.
Ordo Cantus M issae, E a . Typica, Tvpis Polyglottis Vaticanis 1972.
HCfr. A AS 64, 1972, 561-563; «N otitiae» 8, 1972, 327-332 (testo latino e commento a cura
di G. P.); « Rivista Liturgica » 60, 1973, 243-245 (testo italiano); cfr. anche «L iturgia» 137-
138, 1972, 878-883 (testo italiano c commento a cura di E. Lisi).
218 appendice

15 agosto Ministeria quaedam: Lettera apostolica data Motu proprio


con la quale viene riformata nella Chiesa latina la disci­
plina relativa alla prima tonsura, agli ordini minori e al
suddiaconato l.
15 agosto Ad pascendum: Lettera apostolica data Motu proprio con la
quale si stabiliscono alcune norme relative all’Ordine sacro
del diaconato 12.
9 ottobre Cum de nomine Episcopi: Decreto della S. Congregazione per
il Culto divino riguardante la menzione del nome del
vescovo nella Prece eucaristica 3.
30 novembre Sacram Unctionem Infirmorum: Costituzione apostolica con la
quale si approva il nuovo rito dell’Unzione degli infermi4.
3 dicembre Ministeriorum disciplina: Decreto della S. Congregazione per
il Culto divino con il quale si promulgano i nuovi riti dei
ministeri dei lettori e degli accoliti, i riti dell’ammissione
tra gli aspiranti al diaconato e al presbiterato e dell’impegno
del celibato 5.
7 dicembre Infirmis cum Ecclesia: Decreto della S. Congregazione per il
Culto divino con il quale si promulga il nuovo rito del­
l’Unzione degli infermi e si dichiara tipica la sua edizione 6.

1 Gfr. A AS 64, 1972, 529-534; «N otitiae» 9, 1973, 4-8 (testo latino); G. P., Commentarium
de nova disciplina et ritibus circa Ministeria, ibidem, 18-33; «Rivista Liturgica» 6o, 1973, 116-120
(testo italiano) ; cfr. anche Precisazione circa il Motu proprio « Ministeria quaedam », in « L ’Osservatore
Romano» 6 ottobre 1972.
2 Gfr. AAS 64, 1972, 534-540; «N otitiae» 9, 1973, 9-16 (testo latino); «Rivista Liturgica»
60, 1973, 236-242 (testo italiano).
3 Gfr. AAS 64, 1972, 692-694; «N otitiae» 8, 1972, 347-353 (Decretum e commento a cura di
G. P.); «Rivista Liturgica» Go, 1973, 120-121 (testo italiano).
4 Gfr. «N otitiae» 9, 1973, 52-69 (testo, Praenotanda e presentazione di A. G. Martimort); P. -
M. Gy, Le nouueau riluel des malades, ibidem, 108-118; S. Famoso, Il nuovo « Ordo » deWunzione degli
infermi, in «Rivista di Pastorale Liturgica» io, 1973, 3-15; E. Cattaneo, Unzione degli infermi: l'in-
segnamento della storia, ibidem, 16-19; G. Davanzo, Il rituale dellunzione degli infermi: riflessioni teologico-
pastorali, ibidem, 20-26; R. Falsini, IL viatico, ibidem, 31-37; E. Lodi, V«Ordo » della raccomandazione
dei moribondi. Aspetti teologico-pastorali e antropologici, ibidem, 38-45.
6 Gfr. «N otitiae» 9, 1973, 17-33: Decretum.
De institutione Ledorum et Acolythorum. De Admissione inter candidatos ad Diaconatum et Presbyte­
ratum. De sacro caelibatu amplectendo. Ed. Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1972.
6 Cfr. «N otitiae» 9, 1973, 51: Decretum.
Rituale Romanum ex decreto... Pauli PP. VI promulgatum: Ordo unctionis infirmorum eorumque pasto­
ralis curae. Ed. Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1972.
INDICE

Presentazione (S. Marsili) 5


Abbreviazioni 7

Introduzione - IL MOVIMENTO LITURGICO: panorama storico e linea­


menti teologici (a cura di B. Neunheuser)

I Illuminismo nella preistoria del movimento liturgico 11


II II secolo xix 15
III II rinnovamento monastico come immediato punto di partenza del
movimento liturgico 16
IV La nuova idea di Chiesa 19
V Gli inizi del movimento liturgico 20
VI II movimento liturgico tra affermazioni e contrasti 22
VII II movimento liturgico entra nel Vaticano II 29

Parte I - LA LITURGIA, MOMENTO STORICO DELLA SALVEZZA


(a cura di S. Marsili)

Capitolo I - « Liturgia » 33

Bibliografia 33

I « Liturgia » nelPuso civile 34


II « Liturgia » nell’uso religioso-cultuale 34
220 indice

III « Liturgia » nella Sacra Scrittura 35


1 Nell'Antico Testamento 35
2 « Liturgia » e culto nell’Antico Testamento 38
3 « Liturgia » nel Nuovo Testamento 39
4 La « Liturgia » dall’Antico al Nuovo Testamento 41

Capitolo II - Verso una teologia della Liturgia 47


Bibliografia 47
I Antichità cristiana 48
1 Spiritualismo cultuale 48
2 Sintomi di involuzione 53
II Medioevo 58
1 Giuridismo-esteriorismo liturgico 58
2 Tentativi di spiritualismo cultuale 61
III Epoca Moderna 67
1 La « devotio moderna » nella Liturgia 67
2 « Storia » della Liturgia 68
3 La Liturgia nella teologia post-tridentina 70
4 Albori del movimento liturgico 73
5 La Liturgia culto della Chiesa 75
6 La Liturgia « mistero » della salvezza 76
7 La Liturgia nella « Mediator Dei » 78

Capitolo III - La teologia della Liturgia nel Vaticano II 85


Bibliografia 85
i Da una riforma rubricale ad una visione teologica 85
ii La storia della salvezza 88
in La Liturgia ultimo momento nella storia di salvezza 91
IV La Liturgia presenza di Cristo 92
V La Liturgia attuazione del mistero pasquale 96
1 La Pasqua centro della storia della salvezza 97
2 La Pasqua centro della Liturgia 98
VI La Liturgia e sacramentalità 100
1 Sacra Scrittura e Liturgia 101
2 II rito e la Liturgia 103
221 indice

Capitolo IV - La Liturgia culto della Chiesa 107

Bibliografia 107

Premesse: «. Chiesa-Liturgia » prima del Vaticano II 107

I La Chiesa, comunità cultuale 109


1 II vero culto nel « corpo » di Gesù 114
2 Dal « corpo » di Gesù al « Corpo » di Cristo-Chiesa 117
3 IIculto della Chiesa è sacramentale nel « corpo» di Cristo 118
4 II culto « locale » forma la « Chiesa locale » 120
II La Chiesa, comunità sacerdotale 122
III Liturgia e sacerdozio comune 127
IV Sacerdozio spirituale e sacrificio spirituale 130

Capitolo V - Liturgia e non liturgia 137


Bibliografia 137

I Premessa storica 137


1 Liturgia e ordinamento della Liturgia 137
2 Liturgia e « pii esercizi » 139
II Le componenti essenziali di un’azioneliturgica 144
1 La Liturgia azione cultuale della Chiesa 144
2 La Liturgia attuazione del mistero diCristo 146
III Liturgia e « pii esercizi » 150

Parte II - ERMENEUTICA LITURGICA

Capitolo I - Principi di interpretazione dei testi liturgici (a cura di


M. Augé) 159

Introduzione 159

I I testi biblici 162


1 Le letture 163
2 I canti 164
II I testi patristici 165
222 indice

III I testi eucologici 167


1 Principi dottrinali generali di interpretazione 167
2 Contesto biblico ed espressione letteraria 168
3 Tecnica interpretativa 171
4 Funzione liturgica dei testi eucologici 178

Capitolo II - La Liturgia e le sue leggi (a cura di R. Civil) 181

Introduzione: la Liturgia richiede delle leggi 181


I La legislazione liturgica attraverso la storia 184
1 Dai primi tempi al concilio di Trento 184
2 Da Trento alla legislazione liturgica del CIC 189
3 La legislazione liturgica del CIC 191
II Riflessione sulla storia della legislazione liturgica 192
III L'opera di rinnovamento della legislazione liturgica nel Vaticano II 195
1 Contesto dottrinale 195
2 Criteri fondamentali della riforma liturgicadel Vaticano II 198
3 Principali applicazioni legislative della Costituzione 199
IV Problematica attuale e prospettive della legislazione liturgica 203

Appendice - CRONOLOGIA DELLA RIFORMA LITURGICA (a cura di


M. Augé - S. Marsili) 209

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