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LETTERE DI GIOVANNI
o
Città N�
Grafica di copertina di Rossana Quarta
ISBN 978-88-311-3779-9
l. IL TESTO
5
coli successivi, e in modo frammentario nel papiro P9 del secolo III
-solo la l Gv- e in quello del VII secolo (P74). Nel codice gre
co/latino di Beza o Cantabrigiensis (D) del V secolo mancano i fo
gli che corrispondono al testo delle tre Lettere. Esso invece è pre
sente nei codici delle versioni latine antiche -Vetus latina (Il se
colo) e Vulgata (IV secolo)- delle versioni copta (IV secolo) e si
riaca (Harclensis del V secolo).
La prima citazione di 1 Gv 4, 2-3 (2 Gv 7) si trova nella Lette
ra ai Fili ppesi di Policarpo di Smirne (metà del II secolo). Anche
Giustino nel Dialogo con Tri/one rimanda alla l Gv. Papia, vesco
vo di Gerapoli, nella prima metà del II secolo conosce il testo del
la prima Lettera di Giovanni. Anche lreneo di Lione nei suoi scrit
ti cita letteralmente la stessa Lettera. Un rimando a 1 Gv l, l si tro
va anche nella «Epistola degli Apostoli». Possibili allusioni al testo
della l Gv- raramente alla 2-J Gv- si riscontrano nella prima e
seconda «Lettera di Clemente» romano, nella Didaché, nel Pastore
di Erma, nelle Lettere di Ignazio di Antiochia, nella Lettera a Dio
gneto e nella Lettera delle Chiese di Vienne e Lione. Le citazioni o
reminiscenze della 1 Gv si fanno più frequenti negli scrittori del
III-IV secolo: Tertulliano, Cipriano, Clemente Alessandrino, Ori
gene, Eusebio di Cesarea, Dionigi Alessandrino, Epifanio di Sala
mina. Del rinomato esegeta Didimo il Cieco si sono conservati al
-cuni frammenti del suo commento alla prima Lettera.
La· documentazione del testo delle tre Lettere è legata al pro
cesso della loro ricezione nel canone delle scritture cristiane. A
partire dalla seconda metà del II secolo si hanno le attestazioni cir
ca il riconoscimento di 1-2 Gv (3 Gv) come scritti sacri posti sotto
il nome dell'apostolo Giovanni. TI documento più esplicito è il co
siddetto «Canone Muratoriano» -un testo frammentario fatto ri
salire all80 d.C. nell'ambiente di Roma- dove si dice che «le due
lettere, che portano il nome di Giovanni, già citato sopra, sono ac
colte nella Chiesa cattolica (o stanno tra le cattoliche)». Pare che
anche Ireneo conosca solo due Lettere sotto il nome di Giovanni
(l Gv-2 Gv). Si potrebbe pensare che la 3 Gv non sia presa in con
siderazione a causa del suo contenuto non dottrinale, oppure che
6
le prime due siano considerate come un testo unico. In ogni caso
alla fine del IV secolo, nei documenti della Chiesa del Nord Mri
ca, dove si riportano i primi elenchi completi degli scritti cristiani
canonici, compaiono anche le tre Lettere giovannee.
2. LESSICO E STILE
7
posizione bina, "aff inché", con valore esplicativo, oppure da h6ti,
"perché", che in alcuni casi corrisponde ai due punti che prece
dono una citazione. Attira l'attenzione la frequenza delle frasi di
carattere definitorio o dichiarativo: <<In questo conosciamo.. .
Questo (questa) è... ».
La sequenza e sviluppo dei temi spesso sono fatti per associa
zione lessicale- un vocabolo alla fine di una frase, viene ripreso al
l'inizio della successiva. Anche se lo stile nel suo insieme è sempli
ce, l'accostamento e la ripresa delle frasi dà al testo un ritmo ripeti
rivo, in alcuni casi ridondante, con il ricorso all'amplificazione e al
l' anafora. In questo ambito rientrano i frequenti parallelismi antite
tici di alcuni termini-categorie come "luce/tenebre", "verità/men
zogna", "amore/odio", "giustizia/ingiustizia" . Sotto questo profilo,
pur con le differenze dovute all'estensione dd testo- molto breve
per 2-3 Gv e ai temi trattati, si deve rilevare una sostanziale omo
-
3. GENERE LETI'ERARIO
8
D'altra parte la 1 Gv si apre con un prologo che potrebbe so
stituire l'intestazione. Inoltre l'autore, che parla a nome di un
gruppo "noi" , dice espressamente di "scrivere" con uno scopo
preciso ( l Gv l, 4; cf. 2, 1.7.8. 12-14.21.26; 5, 13). Nel corso dello
scritto egli si rivolge ai suoi interlocutori chiamandoli "figlioli" e
"carissimi", "fratelli" (1 Gv 2, 1.7. 12.18.28; 3, 2.7.13.18.21; 4,
1.4.7.11; 5, 21). In altre parole per mezzo dello scritto l'autore in
tesse un dialogo a distanza con i destinatari. Proprio questa, se
condo gli scrittori antichi e i manuali classici di retorica, è la fun
zione di una lettera. In base al contenuto e allo sviluppo dell'argo
mentazione si può stabilire se si tratta di una lettera di carattere pa
renetico o esortativo o di un lettera dimostrativa. In ogni caso de
ve essere mantenuta la qualifica di "lettera" che da sempre ha ac
compagnato il primo dei tre scritti del corpus epistolare giovanneo.
4. STRUTTURA
9
ni autori fanno l'ipotesi che si tratti di un'aggiunta, dopo la vera e
propria conclusione della Lettera con il versetto di Gv 5, 13 . In
realtà questo versetto fa da transizione tra la fine dell'ultima peri
cope- l Gv 5, 1 - 12 - e il vero e proprio epilogo ( l Gv 5, 14-2 1 ) .
Senza vedere nel numero "tre" un significato simbolico o ar
cano- allusione alla Trinità -si può proporre questa struttura del
testo come ipotesi di lavoro:
PROLOGO: l Gv l, 1-4
l. DIO È LUCE: l Gv l , 5 - 2, 27
- «Dio è luce»: l, 5-10
- Conoscere Dio: 2, 1-6
-n comandamento antico e nuovo: 2, 7 - 1 1
- «Avete vinto il maligno, non amate il mondo»: 2, 12- 17
-L'anticristo e il crisma: 2, 18-27
Il. DIO È GIUSTO: l Gv 2, 28 - 4, 6
-I figli di Dio praticano la giustizia: 2 , 28 - 3 , 10
--: Amiamo per attuare l a verità: 3 , 1 1 -24
-Lo spirito di Dio e quello dell'anticristo: 4, 1-6
III. Dio È AMORE, 1 Gv 4, 7 - 5, 12
- «Dio è amore»: 4, 7-2 1
- Fede e testimonianza: 5 , 1 - 12
EPILOGO: 1 Gv 5, 13 -2 1
5. ORIGINE STORICA
lO
Occasione, scopo, destinatari e situazione vitale di 2-3 Gv
11
re esplicito, l'autore si rivolge a un gruppo di cristiani che vivono
in uno stato di crisi provocato dalla presenza e dall'azione di altri
cristiani che chiama "anticristi", "falsi", "seduttori", "pseudo
profeti". Egli li considera falsi cristiani, perché non credono in
Gesù Cristo, il Figlio di Dio (cf. l Gv 2 , 22-23 ) Infatti il criterio
.
12
l'autore richiama, per contestarli, gli orientamenti dottrinali o la
posizione cristologica dei pseudocristiani o falsi profeti ( 1 Gv 2,
22�23 ; 4, 2�3 ; 5 , 6).
Da queste allusioni o rimandi "polemici" sparsi nella 1 Gv è
impossibile ricostruire l'identità storica e il profilo spirituale dei
cosiddetti "avversari", anche se da sempre si è tentato di dare ad
essi un nome e un volto identificandoli con i fondatori o i leader
dei movimenti innovatori o dissidenti del I o II secolo della storia
cristiana. Si è fatta l'ipotesi che si tratti di giudei o giudeo�cristiani
che negano la messianicità di Gesù, oppure di etnico cristiani che
risentono del dualismo antropologico greco, indulgendo ad uno
·spiritualismo entusiasta, o di cristiani che esasperano alcuni aspet
ti della tradizione giovannea del Quarto Vangelo. Non si può
escludere che il gruppo dei fuoriusciti anticipi posizioni cristologi
che e orientamenti spirituali che si ritrovano nei movimenti gno
stici del II secolo. Non è infatti casuale che il testo della l Gv sia
citato negli scritti gnostici. Ma è un procedimento antistorico e
anacronistico voler identificare gli "anticristi" della prima Lettera
giovannea con i fautori dei movimenti doceti o gnostici successivi.
13
i feddi di fronte al rischio della loro seduzione (l Gv 2, 18.22.26).
In breve si ha l'impressione che la seconda Lettera (2 Gv) faccia da
ponte o da collegamento tra la prima (l Gv) e la terza (J Gv), che
sotto il profilo tematico se ne distacca.
Sulla base di questa constatazione si fa l'ipotesi che la terza
Lettera sia stata composta e inviata prima delle altre due per af
frontare il problema dell'ospitalità e del rapporto tra i diversi
gruppi cristiani che vivono nell'area del presbitero. Questi è anche
l'autore della seconda Lettera, dove si presuppone la conoscenza
dei negatori della genuina fede in Gesù Cristo e che sono etichet
tati come "seduttori", rappresentanti dell"'anticristo". In altri ter
mini la seconda Lettera (2 Gv) è stata scritta e inviata dopo la pri
ma (l Gv) per trasmettere alcune disposizioni pratiche su come
comportarsi con i cristiani devianti che frequentano le comunità
legate alla figura del presbitero. Dato questo complesso intreccio
delle tre Lettere si profila l'ipotesi che lo stesso autore - chiamato
in 2-3 Gv "il presbitero" -stia all'origine dei tre scritti. Nella pri
ma Lettera egli è il portavoce di una tradizione autorevole di testi
moni e annunciatori della parola chiamata "comandamento nuovo
,
e antico; , che sta all'origine della comunità e fonda la sua attuale
esperienza di fede. Nella seconda e terza Lettera si presenta come
"il presbitero ", una figura che gode di autorevolezza nell'ambito di
alcune comunità cristiane che gravitano nell'area della tradizione
giovannea.
14
dell'amore reciproco, presenti nella Lettera, trovano un singolare
riscontro nel discorso finale di Gesù ai discepoli (Gv 13 , 34-35 ; 15 ,
12 . 17). La terminologia relativa alla "gioia" che arriva al compi
mento, corrisponde alle parole di Gesù nel discorso di addio (Gv
15 , 1 1 ; 16, 24; 17, 13 ). Alcune espressioni del prologo della Lette
ra l Gv l, 1-3
- - sembrano riecheggiare quelle del prologo poe
tico del Quarto Vangelo (Gv l, 1 - 1 8). Anche nella conclusione del
la Lettera- Gv 5, 13 - si ha l'impressione che l'autore abbia pre
sente il testo della prima conclusione del Vangelo (Gv 20, 3 1 ) .
A fronte della constatazione di queste convergenze e affinità
tra i due scritti vanno segnalate le divergenze e disparità. Oltre una
quarantina di termini presenti nella prima Lettera non si trovano
nel Vangelo di Giovanni come per esempio hilasm6s, antichristos,
parousia, chrisma. Altri vocaboli "comuni" ai due scritti sono ado
perati in contesti e con significati diversi. L'appellativo partikletos,
"intercessore", nel Vangelo è riferito allo Spirito Santo o Spirito di
verità, mentre nella l Gv è attribuito a Gesù. Nel Quarto Vangelo
con l'immagine della "luce" si sottolinea il ruolo rivelatore e salvi
fico di Gesù, mentre nella l Gv si dichiara: "Dio è luce". Non si
tratta di discrepanze isolate o secondarie, ma di una diversa impo
stazione del modo di pensare e argomentare che solo parzialmen
te si spiega con la situazione vitale riflessa nei due scritti. Nel Van
gelo il confronto e il conflitto di Gesù è con "i Giudei", mentre
nella Lettera il dibattito riguarda il gruppo di cristiani che negano
la fede cristologica o la contraddicono con la loro prassi. Sulla ba
se di questi dati l'ipotesi più plausibile è quella di attribuire la ste
sura della Lettera ad un autore distinto dall'autore del Quarto
Vangelo. Si tratta appunto del "presbitero" che sta all'origine del
corpus epistolare. Ma nello stesso tempo si deve ammettere che
questo autore non è estraneo all'ambiente e alla tradizione giovan
nea, dal momento che egli nella redazione delle Lettere presuppo
ne la conoscenza di temi, termini e categorie presenti nel Quarto
Vangelo. In breve egli interpreta, rilegge e rielabora in modo crea
tivo e originale il Vangelo che nella tradizione è posto sotto il no
me di Giovanni.
15
Tempo e luogo di composizione
16
lo, ma con l'autorevolezza di un padre verso i figli e quella di un
maestro di fronte ai discepoli. Lo stesso ruolo e profilo spirituale
si addicono a chi scrive la prima Lettera. TI "noi" editoriale di aper
tura del prologo fa da sfondo al dialogo epistolare che egli condu
ce in prima persona con gli interlocutori chiamandoli figli e fratel
li. La qualifica di "presbitero" con la quale si presenta nella inte
stazione delle due lettere 2-3 Gv conferma la sua identità e il suo
ruolo di testimone e garante della tradizione. Del resto nell'am
biente dell'Asia il gruppo dei dodici apostoli è ben distinto da
quello dei presbiteri come appare nella <<Esposizione delle parole
del Signore» di Papia vescovo di Gerapoli- 125 d.C. - riportata
da Eusebio di Cesarea nella sua «Storia ecclesiastica», 3, 39, 1 - 17
(cf. E. Norelli, Esposizione degli oracoli del Signore, Paoline, Mila
no 2005 , 23 1 -23 9) . Questa distinzione, ben sottolineata da Euse
bio, potrebbe risalire proprio alla presenza del termine "presbite
co" nelle due Lettere, unite alla prima Lettera e al Quarto Vange
lo, due scritti che nella tradizione del II secolo sono attribuiti al
l'apostolo Giovanni. Ma il presbitero che scrive le due Lettere non
può essere identificato con il "presbitero Giovanni" di cui parla
Papia.
6. IL MESSAGGIO
17
ecclesiale. Infatti la condizione per essere in comunione con Dio,
che è luce, è vivere nella luce, cioè nella comunione reciproca. Per
fare esperienza di Dio - conoscerlo e amarlo - si deve custodire la
sua parola o i suoi comandamenti che si concentrano nel comanda
mento "antico", quello che sta all'origine e a fondamento dell'e
sperienza di fede. Esso è anche il comandamento "nuovo" dell'a
more fraterno, che contraddistingue i figli di Dio. ll comando del
l' amore è dato da Dio attraverso la rivelazione di Gesù Cristo, il Fi
glio suo. Dunque chi ama il suo fratello, rimane nella luce, cioè è in
comunione con Dio Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo.
TI messaggio su Dio-luce si intreccia con quello su Gesù Cri
sto, il Figlio di Dio che con il dono della sua vita - il sangue - pu
rifica i credenti da ogni peccato. Essi possono contare sulla sua
mediazione efficace presso il Padre perché nella sua morte per
amore viene dato a tutti il perdono definitivo dei peccati. Infatti,
secondo la professione di fede autentica, Gesù è il Cristo e il Figlio
di Dio, inseparabile dal Padre. Egli è il Figlio di Dio, "giusto e fe
dele " , che si è manifestato nella storia umana per eliminare i pec
cati e le opere del diavolo che coincidono con l'ingiustizia e l'odio
fraterno. Perciò lo statuto dei credenti in Dio - chiamato "il suo
comandamento" - si riassume in queste parole: «Credere nel no
me del suo Figlio Gesù Cristo e amarsi gli uni gli·altri». Chi vive
secondo questo statuto è in comunione con Dio che rimane in lui
ed egli in Dio ( l Gv 3 , 24).
Attorno alla dichiarazione programmatica "Dio è amore" si
sviluppa un'altra serie di riflessioni sull 'esperienza cristiana resa
possibile dalla rivelazione di Dio in Gesù Cristo suo Figlio. L'a
more ha la sua fonte in Dio. Egli manifesta il suo amore inviando
il suo Figlio unigenito nel mondo per il perdono dei peccati e per
donare la vita ai credenti. Perciò i credenti riconoscono e attesta
no che Gesù inviato dal Padre è il salvatore del mondo. Ancora
una volta chi entra in questo dinamismo di amore «Dio rimane in
lui ed egli in Dio» (l Gv 4, 15).
Queste riflessioni sull'amore di Dio, che si manifesta e si ren
de presente in Gesù Cristo, sono inseparabili dalla professione di
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fede in cui si riconosce e professa che egli è "venuto nella carne"
o "nell'acqua e nello spirito" . In altre parole Gesù, che si è reso so
lidale con la condizione umana segnata dal peccato e dall a morte,
rende possibile la comunione con Dio eliminando radicalmente il
peccato e comunicando la vita ai credenti. Nel dono della sua vita
Gesù diventa anche la fonte e il modello dell'amore fraterno che
contraddistingue la comunità dei credenti: «In questo abbiamo co
nosciuto l'amore: egli ha dato la sua vita per noi e anche noi dob
biamo dare la vita per i fratelli» (l Gv 3 , 16).
TI discorso sull 'amore, che viene da Dio e si è manifestato in
Gesù, arriva a questa conclusione pratica: «anche noi dobbiamo
amarci gli uni gli altri» ( l Gv 4, 1 1) . Infatti l'amore a Dio, che ri
mane invisibile, passa attraverso l'amore al fratello che si vede. In
breve il comandamento dell'amore dato da Dio abbraccia in mo
do inseparabile Dio e il fratello ( l Gv 4, 2 1 ). Nella prassi dell'a
more fraterno si manifesta la fede di chi riconosce che Gesù è il Fi
glio di Dio e in tal modo partecipa alla sua condizione filiale: «ge
nerato da Dio» ( l Gv 5, l). L'esito finale di questo processo, che
parte dalla fede e sfocia nell'amore, è la vita piena e definitiva che
il Padre dona per mezzo del suo Figlio. L'autore riassume il mes
saggio della sua Lettera in questa dichiarazione conclusiva: «Que
sto vi ho scritto, affinché sappiate che avete la vita eterna, a voi che
credete nel nome del Figlio di Dio» ( l Gv 5, 13 ) .
Attorno a questo nucleo di riflessioni teologiche e cristologi
che si costruisce il profilo del cristiano - l'antropologia - e l'espe
rienza della comunità dei credenti o l'ecclesiologia delle Lettere
giovannee. L'antropologia della l Gv è connotata da queste di
mensioni: l'interiorità, la gioia e la fiducia. La parola di Dio rima
ne nei credenti come forza che garantisce la vittoria contro il ma
ligno e il sistema mondano. Assieme alla parola essi hanno ricevu
to fin dall'inizio il dono permanente del ehrisma o "unzione" , che
svolge il ruolo di maestro sicuro. Inoltre chi, mediante la fede, è
generato da Dio, ha in sé il suo "seme " , il dinamismo dell'amore
antitetico a quello del peccato che si manifesta nell'odio mortale.
Chi crede in Gesù, il Figlio di Dio, ha la testimonianza di Dio co-
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me realtà permanente e interiore. Infine Dio dona ai credenti il suo
Spirito come sigillo del suo amore e della comunione e immanen
za reciproca.
Un segno distintivo del credente in Gesù Cristo, Figlio di
Dio, è la " gioia" orientata al suo compimento o pienezza escato
logica. Un clima di gioia caratterizza i rapporti tra quelli che con
dividono l'esperienza della fede e vivono nell'amore fraterno ( l
Gv l , 4; 3 Gv 3). L a terza dimensione dell'antropologia cristiana
giovannea è la parrhesia, "fiducia" o "franchezza", che si esprime
e alimenta nella preghiera efficace davanti a Dio. I credenti aspet
tano la piena rivelazione del loro statuto di figli di Dio che si rea
lizzerà nell'incontro finale con lui. Essi perciò guardano con fidu
cia alla venuta del Signore e sono liberi dalla paura di fronte al
giudizio. _ _)
20
la carne, è il Figlio di Dio». La fede in Dio Padre, è legata al rico
noscimento del ruolo decisivo della personalità storica di Gesù.
Però il rapporto di ogni essere umano con Dio è deviato o in
terrotto dall'esperienza negativa del male e dell'odio che spezza la
solidarietà con gli altri esseri umani. In questa situazione umana si
rivela l'amore di Dio che offre a tutti uno spazio di riconciliazione
e di perdono per mezzo di Gesù Cristo, il suo Figlio. Egli non è so
lo un maestro di sapienza o un esempio di impegno etico, ma la ri
velazione definitiva e la presenza permanente dell'amore di Dio
nella storia umana. Questo awiene nel dono finale della sua vita
per amore.
Su questo fatto si fonda e trae impulso il nesso inscindibile tra
fede e impegno etico dei cristiani. La fede in Gesù Cristo, che ha
dato la vita per tutti, sta alla base del comandamento nuovo e an
tico dell'amore. In altri termini la fede cristiana si esprime e si at
tua nell'amore fraterno o vicendevole. L'amore, che ha la sua fon
te ultima in Dio e si manifesta per mezzo di Gesù Cristo, suo Fi
glio, alimenta la corrente di amore che unisce tutti gli esseri uma
ni. Prima di essere un comando l'amore è un dono, che si accoglie
nella fede, ma un dono che impegna a farsi carico del fratello. Si
può dire anche che l'amore fraterno può e deve essere praticato
perché viene comandato o donato da Dio.
L'esperienza di fede cristiana non è un cammino solitario e pri
vato, ma avviene dentro una storia fatta di incontri e di relazioni
tra persone credenti. Se lo statuto dei credenti in Gesù Cristo è il
comandamento dell'amore, la forma della loro esperienza di in
contro è la comunione ecclesiale, che si apre alla comunione con
Gesù Cristo e con Dio Padre. La comunione non risponde solo al
l'esigenza di rendere visibile la fede dei singoli credenti e non na
sce solo dal bisogno di trovare un appoggio e sostegno nel cammi
no di fede personale. La relazione vitale e permanente di amore dei
credenti con Dio e tra loro è il cuore dell'esperienza cristiana e l'a
nima della Chiesa.
21
PRIMA LETTERA DI GIOVANNI
la
Ciò che era da principio, Ib ciò che abbiamo udito, le ciò che abbiamo
veduto con i nostri occhz: I d ciò che contemplammo l e e le nostre mani
toccarono lf della parola della vita la e la vita in/atti fu manifestata,
-
23
La composizione del testo fa leva su una serie di verbi giu
stapposti gli uni agli altri con una certa ridondanza retorica. Nelle
brevi frasi si alternano sedici verbi con le rispettive forme verbali.
Si va dall'imperfetto iniziale - "era" - che indica la durata nel tem
po, alla forma del tempo compiuto o perfetto - "abbiamo udito"
- che sottolinea l'effetto permanente dell'esperienza (cinque vol
te) . Invece l'aspetto dell'evento unico e irrepetibile è suggerito dal
l'uso del tempo passato: "contemplammo" , "toccammo" , "fu ma
nifestata" (quattro volte) . Con il tempo presente si rimarca la con
tinuità dell'esperienza di comunicazione della parola - "testimo
niamo . . . annunciamo . . . " (tre volte) - e quella della comunione
(una volta) . Accanto ai sostantivi "parola" e "vita", ripresi più vol
te - ricorre invece un solo aggettivo "eterno" per qualificare la "vi
ta" - predominano i pronomi-aggettivi personali "noi" e "voi",
"nostro" e "vostro" , che evocano i due poli della comunicazione.
24
n ritmo del testo, anche se non si può chiamare poetico, è ca
denzato, scandito dalla ripetizione dei termini che si saldano tra lo
ro con un effetto ad eco. Nell'insieme si avverte un certo pathos o
emozione retorica che dà un tono di solennità alla prosa e sottoli
nea l'autorevolezza di chi scrive. Si ha l'impressione che fin dall'i
nizio l'autore voglia richiamare non solo l'importanza di quello che
comunica, ma sottolineame anche l'autenticità. Egli ricorre ad una
terminologia e a modi di dire che suppone noti ai suoi lettori: "pa
rola della vita", "comunione". La sua preoccupazione è di rimar
care l'autorità e genuinità della sua comunicazione. Questa insi
stenza in alcuni casi rende ambivalente e poco chiaro il suo dis
corso. Prendiamo in considerazione alcune espressioni per mette
re in risalto il messaggio del testo e la sua rilevanza attuale.
25
ce: «Dio nessuno l'ha mai visto: un Unigenito Dio, che è nel seno
del Padre, egli lo ha rivelato» ( Gv l, 28) . Però nel prologo del
Quarto Vangelo è esplicita l'identificazione del l6gos con l'Unige
nito che è in piena comunione con il Padre. Invece nel prologo
della Lettera ciò che hanno visto i testimoni e lo annunciano ai de
stinatari della Lettera è la vita eterna, quella che era con il Padre e
si è manifestata ad essi. In altre parole il centro di interesse del
l' autore della Lettera è la parola della vita che ha la sua fonte ulti
ma nel rapporto con il Padre. ll rimando al prologo del Vangelo la
scia trasparire la convinzione che la "parola della vita" e la "vita"
si identificano con Gesù Cristo, il Figlio. Infatti lo scopo dichiara
to dell'annuncio dei testimoni della vita è la comunione con il Pa
dre e con il Figlio suo Gesù Cristo (l Gv l, 3 de) .
La tendenza a personalizzare la "parola" è suggerita anche dal
le riflessioni dell'autore sul significato della sua comunicazione
epistolare quando dice: «Scrivo a voi, padri, perché avete cono
sciuto quello che era da principio» ( l Gv 2 , 13 . 14). Ma la formula
"da principio" il più delle volte nel seguito della Lettera è associa
ta all'ascolto della parola fondativa che coincide con il comanda
mento nuovo dell'amore reciproco (l Gv 2, 7 .24 ; 3 , 1 1 ; cf. 2 Gv 5-
6). Dunque anche se in greco l'espressione "da principio" di l Gv
l, l non differisce da quella del prologo giovanneo "in principio"
(Gv l, 1 ) , l'insieme del contesto della Lettera depone a favore di
una diversa interpretazione. Nella Lettera si fa riferimento all'ini
zio fondativo dell'esperienza di fede che sfocia nella comunione
con Gesù Cristo, Figlio di Dio.
Nel prologo prende la parola un gruppo attivo, "noi", distinto
dal "voi", destinatari del discorso. Essi si presentano come porta
voce e garanti della tradizione autorevole che si basa sull' esperien
za originaria e fondativa. Questa consapevolezza si avverte nella ri
petizione dei quattro verbi dell'esperienza totale e diretta: "udire,
vedere, contemplare e toccare". L'aspetto realistico del "vedere" è
sottolineato mediante il riferimento ai "nostri occhi", a cui corri
sponde il "toccare con le nostre mani". Anche in questo caso la pri
ma persona plurale "noi" e l'uso del verbo "contemplare" riman-
26
dano alla frase centrale del prologo giovanneo: «La parola divenna
carne . .. e noi contemplammo la sua gloria . . . » (Gv l, 14).
Nel testo della Lettera l'esperienza contemplativa inizia con
l'" ascoltare" e riguarda il «logos della vita». Esso si può "vedere"
perché è la vita, quella che era con il Padre, ma si è manifestata a
quelli che la testimoniano e l'annunciano agli altri ( 1 Gv l, 2 ) . L'in
sistenza sul realismo dell'esperienza del gruppo dei testimoni e an
nunciatori si può spiegare tenendo conto della situazione dei de
stinatari che rischiano di subire l'influsso dei dissidenti, quelli che
non riconoscono «Gesù venuto nella carne» (1 Gv 4, 2 ; cf. 2 Gv 7).
L'ultima tappa del processo di trasmissione della parola è la let
tera scritta: «E queste cose vi scriviamo . . . » (1 Gv l, 4a). L'esperien
za dell'incontro originario e fondativo con la parola della vita, che ha
il volto di Gesù Cristo, il Figlio, viene comunicata per iscritto ai let
tori -ascoltatori con lo scopo di portare alla forma piena e completa
la "gioia, comune. n ricorso al participio perfetto passivo dd verbo
plerousthai, "compiere", mette in risalto la dimensione escatologica
o definitiva della "gioia" , dono di Dio Padre ai credenti (cf. 2 Gv
12). Nel discorso finale ai discepoli Gesù parla della gioia piena o
completa (cf. Gv 15, 1 1 ; 1 6, 22.24; 17, 1 3 ) . La gioia è il frutto della
comunione, che a sua volta si fonda sulla condivisione della parola
della vita. Fin d'ora la gioia si vive nella comunione con il Padre per
mezzo del Figlio suo Gesù Cristo, tramite e dentro la comunione ec
clesiale. Ma essa raggiungerà la sua pienezza nel compimento finale.
fin dall'inizio l'autore presenta le coordinate del suo dialogo
epistolare che si condensa attorno ad alcuni nuclei: la parola, la vi
ta, la comunione e la gioia. L'esperienza originaria della parola, che
viene da Dio, coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni co
municative. A sua volta la parola ascoltata e accolta viene trasmes
sa mediante la testimonianza e l'annuncio. In tal modo si crea un
rapporto profondo e permanente tra i credenti - la "comunione"
- che si apre al rapporto vitale con i protagonisti divini della co
municazione: Gesù Cristo e Dio Padre. ll sigillo e il frutto di que
sta esperienza di comunicazione della parola è la gioia che prelude
alla beatitudine finale.
27
Il. «DIO È LUCE»
(l Gv l, 5- 10)
28
Struttura del testo
29
sia a Dio sia alla legge-sapienza (Sap 18, 4). Nel Salmo 27 , l la lu
ce, riferita a Dio, è associata alla salvezza. Analogamente il salmi
sta dice che «Dio è la sorgente della vita» e alla sua luce noi vedia
mo la luce (Sa/ 36, 10).
Nel Quarto Vangelo con il simbolo della luce si definisce l'i
dentità e la missione di Gesù Cristo. Fin dal prologo si afferma che
tutto «ciò che esiste in lui (l6gos) era vita e la vita era la luce degli
uomini» (Cv l , 4). Ma questa luce, come all'inizio della creazione,
deve aprirsi un varco nelle tenebre del male e della morte. Nella fe
sta delle capanne a Gerusalemme, sui piazzali del tempio, Gesù di
ce: «lo sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nella
tenebra, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12; d. 12, 35 .46) . La
stessa antitesi "luce/tenebra" compare anche nel testo della nostra
Lettera, ma per parlare di Dio. Non si tratta di una definizione del
la natura di Dio, ma del suo ruolo salvifico come risulta dai testi
della tradizione biblica. Se la luce richiama la salvezza e la vita,
l'immagine antitetica della tenebra esprime lo stato di perdizione e
di morte.
Dopo questa · affermazione su Dio che è luce assoluta senza
mescolanza di ombra, il discorso prosegue nella forma di un ipo
tetico dibattito, con la prima delle tre antitesi: «Se diciamo . . . ».
L'affermazione di chi dice di essere in comunione con Dio che è lu
ce, mentre di fatto egli vive «nella tenebra», risulta falsa. In effetti
le sue parole sono smentite dal suo comportamento. Imitando lo
stile giovanneo si può anche dire che egli "non fa la verità" nel sen
so che le sue scelte di fondo non corrispondono alla fede (cf. Gv
3 , 2 1 ) . A questa prima ipotesi negativa l'autore contrappone quel
la positiva: «Se invece camminiamo nella luce . . . ». Ancora una vol
ta con il linguaggio metaforico del "camminare" si indica il com
·portamento pratico del credente che riproduce la realtà luminosa
di Dio «che è nella luce».
A questo punto si passa dal linguaggio simbolico a quello reli
gioso reale che esprime l'esperienza della comunità: «siamo in co
munione gli uni con gli altri». La comunione con Dio si verifica
nella comunione ecclesiale o nelle relazioni di amore reciproco. In
30
altre parole la vera comunione con Dio non può essere separata
dalla comunione fraterna, cioè dai rapporti tra i credenti. Questo
è un tema che sta a cuore al nostro autore perché fin dal prologo
della Lettera afferma che lo scopo della comunicazione della pa
rola annunciata è la comunione che inizia nella comunità e sfocia
nella comunione con Dio Padre e il Figlio suo Gesù Cristo (l Gv
l , 3 ). Nel nostro testo invece si parte dalla comunione con Dio, si
passa alla sua verifica ecclesiale - comunione reciproca - e si con
clude affermando che mediante il sangue di Gesù, Figlio suo, Dio
«ci purifica da ogni peccato».
L'autore della Lettera esprime la convinzione, condivisa con i
suoi destinatari, che il processo di purificazione dipende dalla ini
ziativa di Dio, «che è luce» ed «è nella luce». Nello stesso tempo
egli precisa che la purificazione avviene mediante il "sangue" di
Gesù. TI lessico sul "sangue" e la "purificazione" dei peccati af
fonda le sue radici nelle tradizione biblica. Per eliminare il pecca
to e la colpa che impediscono l'incontro del popolo con Dio, il
santo, si fa ricorso ad un complesso di riti dove ha un ruolo fon
damentale il "sangue" delle vittime. Nel Levitico si afferma che il
sangue espia i peccati perché è il principio vitale degli esseri vi
venti. Ma nello stesso tempo si precisa che il sangue-vita ha una
funzione espiatrice e purificatrice in quanto viene posto sull'altare
per disposizione di Dio.
Il soggetto del processo di espiazione per eliminare il pecca
to è sempre e solo Dio. Il valore simbolico del sangue per l'espia
zione viene esplicitato in questi termini: «La vita della carne è nel
sangue e io ho dato esso - riferito a "sangue" - a voi sopra l'alta
re per espiare, in favore delle vostre vite, perché il sangue espia
mediante la vita» (Lv 17, 1 1 ) . Anche Paolo evoca il rituale biblico
dell'espiazione quando nella Lettera ai Romani afferma che la giu
stizia di Dio si manifesta a favore di quelli che credono in Gesù
Cristo perché «sono giustificati gratuitamente per la sua grazia,
per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù, che Dio ha pre
sentato (come) propiziazione nel suo sangue per mezzo della fe
de » (Rm 3 , 22-25 ) .
. . .
31
D " sangue" di Gesù richiama la sua morte violenta, che, grazie
all'iniziativa di Dio, diventa tramite di purificazione dei peccati. TI
sangue-morte di Gesù ha la forza di eliminare radicalmente «ogni
peccato» perché è il sangue del Figlio che vive in piena comunio
ne con Dio. In questa comunione di amore sono coinvolti i cre
denti che camminano nella luce di Dio e riconoscono l'efficacia re
dentiva della morte del suo Figlio. Questa sottolineatura del ruolo
del sangue di Gesù, che purifica dal peccato, si comprende sullo
sfondo del confronto con quelli che negano la <<Venuta di Gesù
nella carne» e «attraverso il sangue» e di conseguenza anche l'effi
cacia redentiva dalle sua morte ( l Gv 4, 3 . 1 0. 14; 5 , 6).
Questo confronto continua nel seguito del dibattito intro
dotto dalla seconda proposizione condizionale: «Se diciamo che
non abbiamo alcun peccato . . » ( l Gv l , 8a) . I sostenitori di que
.
sta tesi - «siamo senza peccato» - sono gli stessi che rivendicano
di essere in comunione con Dio, senza tener conto dei rapporti
di amore reciproco nella comunità cristiana. Per quelli che si
considerano esenti da peccato e impeccabili, la morte redentrice
di Gesù che purifica da ogni peccato, è inutile e senza senso.
Questa posizione dei cristiani senza peccato - entusiasti e perfe
zionisti - rischia di esercitare un influsso nefasto sui fedeli rima
sti nella comunità. L'autore denuncia questo pericolo dichiaran
do che chi ha questa convinzione e ne fa propaganda devia dalla
"verità " contenuta nell'annuncio originario e fondante. Per la se
conda volta con il termine "verità" si indica il cammino e la pras
si di quanti riconoscono e accolgono la parola della vita manife
stata in Gesù Cristo.
In antitesi con questa posizione che trova simpatizzanti anche
tra i destinatari della Lettera, l'autore propone l'atteggiamento spi
rituale che corrisponde alla verità del messaggio cristiano: «Se con
fessiamo i nostri peccati . » ( 1 Gv l, 9a) . Non si tratta solo di n
. .
32
dei peccati corrisponde il perdono da parte di Dio, riconosciuto,
secondo la tradizione biblica, "fedele" e "giusto" .
I due appellativi fanno parte delle professioni di fede nel Dio
dell'alleanza «misericordioso e pietoso, lento all 'ira e ricco di gra
zia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni,
che perdona la colpa e la trasgressione e il peccato . » (Es 34, 6-7;
. .
cf. Sa/ 86, 15; 103 , 8; 145 , 8) . Confessare i peccati vuoi dire "rico
noscere" che Dio è "giusto" , cioè "fedele" in quanto perdona e
mantiene la sua promessa (cf. Dt 32, 4; Dn 9, 7 ; Ne 9, 23 ). In altre
parole nel perdono effettivo e totale dei peccati si manifestano la
fedeltà e la giustizia di Dio.
Il tema del perdono dei peccati viene ripreso e rimarcato nel
la terza e ultima frase condizionale in cui si esprime la posizione di
quanti si considerano immuni da qualsiasi peccato. La loro prete
sa di essere in piena comunione con Dio al punto di considerarsi
"per natura" esenti dal peccare, è contraria alla rivelazione storica
di Dio che si presenta come colui che perdona i peccati degli uo
mini. Chi afferma di non avere mai peccato, in effetti getta un'om
bra di sospetto sulla veridicità di Dio e respinge la sua parola. Al
posto del termine "verità" alla fine subentra "parola" . È la parola
della vita, che era presso il Padre e si è manifestata a quelli che l'
hanno testimoniata e annunciata. La condizione per essere in co
munione con Dio, che è luce e vita, implica due scelte inscindibili:
essere in comunione gli uni con gli altri e aprirsi al perdono dei
peccati offerto da Dio a tutti nella morte redentrice del suo Figlio
Gesù.
33
sto sappiamo di averlo conosciuto, 3 h se custodiamo i suoi comanda
menti. 48 Chi dice: «Lo conosco», e non custodisce i suoi comanda
meni� 4b è un falso e in lui non è la verità. 58 Colui invece che cu
stodisce la sua parola, 5h veramente in lui l'amore di Dio è giunto al
la pienezza) 5c in questo conosciamo di essere in lui. 68 Chi dice di ri
manere in lu; 6h deve, come egli ha camminato, 6c [cosz'] anch'egli
camminare.
34
al plurale (due volte) ( l Gv 2, 3-4). Nel versetto successivo il ter
mine "comandamenti" è sostituito da l6gos, "parola" , accompa
gnato sempre dal verbo terein, "custodire" ( l Gv 2, 5). All a fine
l'osservanza dei comandamenti o della parola è trascritta con il ver
bo peripatein, "camminare", che indica l'impegno a vivere seguen
do il modello tracciato da Gesù Cristo. Mediante il verbo légein,
"dire", sono introdotte le due situazioni ipotetiche o esemplificati
ve che offrono lo spunto all'intervento dell'autore ( l Gv 2, 4a.6a).
Accanto all'uso degli undici verbi - tra cui il verbo einai, "es
sere", con tre ricorrenze - compaiono nove sostantivi accompa
gnati dai pronomi che esprimono le relazioni tra i protagonisti.
L'autore della Lettera si rivolge ai destinatari - hymeis, "voi" - op
pure si associa alla loro esperienza parlando dei "nostri" peccati.
Più frequente è l'uso del pronome dimostrativo personale aut6s,
"egli" - cinque volte - riferito a Dio che sta sullo sfondo del dia
logo, menzionato in apertura con l'appellativo di "Padre", presso
il quale Gesù Cristo svolge il ruolo di "paraclito" o inte rcessore ( l
Gv 2, l de) . Alla fine con il pronome dimostrativo ekeinos, "egli",
in modo più esplicito si rimanda al modo di comportarsi di Gesù
Cristo, chiamato fin dall'inizio con l'appellativo "giusto" ( l Gv 2,
le.6bc) . Per due volte con la formula en touto-i, "in questo", si
scandisce lo sviluppo dell'argomentazione ( l Gv 2, 3a.5c) . In altri
due casi con la stessa costruzione si indica la presenza della verità
o dell'amore di Dio ( l Gv 2, 4b.5b).
35
- 1 Gv 2, 4: esempio negativo: chi pretende di conoscere Dio
senza custodire i comandamenti è falso e la verità non è presente
in lui;
- l Gv 2, 5: primo esempio positivo: in chi custodisce la paro
la di Dio, il suo amore è giunto alla pienezza; si conferma così la
tesi annunciata all'inizio circa il rapporto tra pratica dei comanda
menti e conoscenza di Dio;
- l Gv 2 , 6: secondo esempio positivo: chi afferma di dimora
re in Dio deve comportarsi come Gesù, il Figlio di Dio, fonda
mento e modello dello stile di vita dei credenti.
36
paraclito che il Padre donerà ai discepoli grazie alla sua preghiera
(Gv 14, 16) . Implicitamente si intuisce che il primo "paraclito"
presso i discepoli è Gesù. TI paraclito inviato dal Padre grazie alla
mediazione di Gesù prolunga e porta a compimento la sua missio
ne. Invece nella prima Lettera Gesù Cristo stesso è chiamato para
kletos. Sullo sfond o della tradizione biblica e giudaica, dove è no
to il ruolo di intercessori e mediatori presso Dio - da Mosè, Aron
ne, all'angelo Michele e al servo del Signore (ls 53 , 12 ) - si può in
terpretare questo appellativo nel senso di "intercesso re'' .
Questo è confermato dalla qualifica dikaios, "giusto'' dato a Ge
sù Cristo come Dio stesso è riconosciuto "fedele e giusto'' in quan
to perdona i peccati (l Gv l, 9ab) . Gesù Cristo espleta il suo com
pito di intercessore "presso il Padre" , nella condizione di Figlio glo
rificato che vive nella piena comunione con Dio. L'autore della pri
ma Lettera si inserisce nell'alveo della tradizione primitiva, dove si
vive ed esprime la fede in Gesù Cristo risorto e vivo che intercede a
favore dei credenti (Rm 8, 34; Eh 7, 25). In tale contesto si colloca
anche la designazione originale di Gesù Cristo come hilasm6s, "pro
piziazione" per i peccati della comunità e del mondo intero (l Gv
2, 2). Nel Nuovo Testamento il vocabolo hilasm6s ricorre due volte,
solo nella nostra Lettera. Anche nel secondo caso hilasm6s è posto
in relazione con il Figlio mandato da Dio come "espiazione per i no
,,
stri peccati ( l Gv 4, l O). Questo vocabolo greco, come il verbo hi
ltiskesthai, "espiare", da cui deriva, indica l'atto di espiare.
Conforme alla legislazione biblica, riportata nel capitolo sedi
m
cesi o del Levitico, una volta all'anno il sommo sacerdote entra
nel Santo dei santi e asperge sette volte il coperchio dell'arca con
il sangue delle vittime per purificare "il popolo da tutti i suoi pec
cati" e così ristabilire l'alleanza con il Signore (Lv 16, 14.30.34).
Nella versione greca dei Settanta, con il termine hilasterion - tra
duzione dell'ebraico kapp6ret - si indica la lastra d'oro che ricopre
l'arca dell'alleanza, simbolo della presenza di Dio prima nella ten
da o poi nel tempio di Gerusalemme (Es 25 , 17-22 ; Lv 16, 15 ; cf.
Eh 9, 5). Perciò l'espiazione con il rito del sangue si fa davanti al
coperchio dell'arca.
37
Nella Lettera ai Romani Paolo afferma che Dio ha prestabilito
Gesù Cristo come hilasterion per mezzo della fede, nel suo sangue,
per manifestare la sua giustizia - fedeltà - che rende giusti tutti i
credenti in Gesù (Rm 3, 25-26) . In altre parole Dio per mezzo di
Gesù Cristo, morto in croce, fa passare il credente dalla condizione
di peccatore a quella di giusto, eliminando radicalmente i suoi pec
cati. Paolo riflette la tradizione di fede cristiana dove si utilizza il
simbolo dell'espiazione per sottolineare l'efficacia della morte re
dentrice di Gesù. TI termine hilasterion come hilasm6s, evoca il ri
tuale del yom hakkippurlm di Levitico 16, chiamato nella versione
dei Settanta: he heméra tou hilasmou (Lv 25 , 9) . La funzione di
espiare - in ebraico kipper, "coprire/espiare", corrispondente al
l' accadico kuppuru - è attribuita al sangue in quanto viene messo a
disposizione di Dio. Infatti il soggetto del verbo espiare nella Bib
bia è Dio in quanto egli solo può "coprire" o perdonare i peccati.
All a luce del rituale biblico dell'espiazione va interpretato an
che il testo di l Gv 2, 2, dove si dice che Gesù Cristo è hilasm6s,
"espiazione" per i nostri peccati e per quelli di tutto il mondo (cf.
l Gv 4, 1 0) . In alcune traduzioni italiane il vocabolo greco hila
sm6s viene interpretato come " vittima di espiazione". Anche se in
alcuni testi della versione dei Settanta hilasm6s indica il "sacrificio
di espiazione" - Ez 44 , 27 ; 2 Mac 3 , 3 3 non è questo il suo signi
-
ficato corrente nella lingua greca, dove hilasm6s indica l'offerta vo
tiva. L'autore della prima Lettera sceglie il termine hilasm6s per
esprimere l'efficacia universale della morte di Gesù Cristo " giu
sto", intercessore - pardkletos - presso Dio (l Gv 2, 1). Nel conte
sto di l Gv 4, lO lo stesso termine è connesso con l'amore di Dio
che ci ha amati e ha inviato il suo Figlio come «espiazione per i no
stri peccati, perì hamartion hemon». Anche in questo caso l'autore
della Lettera sottolinea la radicale e definitiva efficacia della mor
te di Gesù Cristo "venuto nella carne" contro quanti non lo rico
noscono Figlio di Dio nella sua umanità ( l Gv 4, 1 -6).
Perciò è preferibile tradurre il termine greco hilasm6s sempli
cemente con "espiazione" nel senso di perdono ed eliminazione
dei peccati. L'aggiunta del vocabolo "vittima" richiama l'idea del-
38
l'animale che viene immolato, cioè offerto a Dio per mezzo della
morte o mediante l'uccisione per placarlo. In realtà sia nel rituale
biblico dell'espiazione (Lv 16) sia nella rilettura cristiana la morte
in sé non ha nessun significato religioso. Nel caso di Gv 2, 1 -2 è la
fedeltà di Gesù Cristo, "giusto", che lo abilita ad essere interces
sore presso il Padre. In tale prospettiva la morte di Gesù, il Figlio,
manifesta l'amore del Padre che, nel dono del suo Unigenito Fi
glio, elimina per sempre i peccati dei credenti (l Gv 4, 9- 10).
Dopo la dichiarazione sul ruolo di Gesù Cristo in cui si ha il
perdono definitivo e sicuro dei peccati, l'autore elenca i criteri del
l' autentica esperienza di Dio evocata mediante il lessico del "co
noscere" . Egli annuncia la tesi generale ispirata alla tradizione del
Deuteronomio, dove la custodia e pratica dei comandamenti è la
condizione base per vivere nell'alleanza. Quindi presenta tre esem
pi o situazioni - uno negativo e due positivi - in cui applica que
sto criterio di verifica dell'esperienza cristiana. La pretesa di chi di
ce di conoscere Dio, ma non custodisce i suoi comandamenti, è fal
sa e contraddittoria perché la comunione con Dio è inseparabile
dall'accoglienza e attuazione della sua volontà. Si tratta infatti del
la aletheia, "verità" , o l6gos, "parola" di Dio in cui si manifesta e si
rende presente il suo disegno di amore, modello e fonte dell'agire
dei credenti. n vocabolo entolai, "comandamenti" al plurale, in
'
dica l'aspetto normativo della parola di Dio, che si riassume nel co
mando dell'amore fraterno (cf. l Gv 2, 7-1 1 ; Gv 14, 34-35 ). Infat
ti nell'esempio positivo si dice che l'amore di Dio arriva alla sua
pienezza in colui che custodisce la sua parola. Per esprimere l'idea
di "pienezza" escatologica si ricorre al verbo teleiousthai, nella for
ma del perfetto passivo, che rimanda all'iniziativa di Dio.
In questa affermazione sulla conoscenza di Dio si avverte l'e
co della promessa di Geremia circa la nuova alleanza: grazie alla
legge scritta nel cuore si ha la piena conoscenza di Dio ( Ger 3 1 , 3 1 -
33 ) . La stessa esperienza viene formulata con il linguaggio del "ri
manere" o "essere" in lui. Nell'ultimo esempio positivo si precisa
che «chi dice di rimanere in lui», si assume l'impegno di "cammi
nare" come Gesù Cristo. La congiunzione greca kath6s, "come ",
39
ha nello stesso tempo valore comparativo e causale: «deve cammi
nare "come" - sul modello - e "perché" - motivazione - egli (Ge
sù Cristo) ha camminato» ( l Gv 2, 6bc) .
In questi esempi i pronomi personali - " suo/sua", "egli/lui"
- possono essere riferiti sia a Dio sia a Gesù Cristo. Neli' ultima
esemplificazione il pronome ekeinos, "egli", si riferisce a Gesù
Cristo, che, con il suo stile di vita - "camminare " è la fonte e il
-
40
mandamento nuovo, sb che è una realtà vera in lui e in vo� Se perché la
tenebra sta passando sd e la luce, quella vera, già splende. 9a Chi dice di
essere nella luce 9h e odia zl suo fratello 9c è nella tenebra fino ad ora.
lOa Chi ama il suo fratello, l Oh rimane nella luce, lOc e non v'è in lui ri
schio di (far) inciampare. l l a Chi invece odia il suo fratello, l t h è nella
tenebra l te e cammina nella tenebra l l d e non sa dove va, l le e la tene
bra ha accecato i suoi occhi.
41
La seconda costellazione semantica ruota attorno ai termini
antitetici "tenebra/luce" e alle rispettive espressioni "essere-rima
nere nella luce/essere nella tenebra" . n vocabolo skotia, "tenebra",
compare cinque volte, mentre quello antitetico phos, "luce" si tro
va solo tre volte. Dal confronto lessicale risulta che l'autore pone
r accento sulla metafora negativa della "tenebra" come appare an
'
che dall'ampliamento dell'espressione "essere nella tenebra" me
diante la frase: "camminare nella tenebra" , che non ha un corri
spondente positivo esplicito. Però a livello di immagini la frase, ri
ferita a chi è nella tenebra e cammina nella tenebra, il quale «non
sa dove va», con la relativa motivazione - «la tenebra ha accecato
i suoi occhi» -, si contrappone a quella positiva precedente riferi
ta a chi è nella luce: «non v'è in lui rischio di inciampare» ( l Gv 2 ,
lObc//1 Gv 2, l lbcde) . L'interesse dell'autore per il versante posi
tivo è confermato anche dal fatto che egli identifica la luce con la
"realtà vera" alethés - qualificandola con l'aggettivo alethin6n,
-
ph6s, " fratello" - compare tre volte. Anche in questo caso l'auto
re tende a porre l'accento sull'aspetto negativo indicato dal sin
tagma: " odiare il proprio fratello" . Però l'appellativo iniziale aga
peto{, "carissmi" , che anticipa il discorso sulla figura di chi ama -
43
secessionisti, fautori di novità, che esercitano un certo fascino sui
fedeli rimasti nella comunità. L'autore precisa che con il suo scrit
to egli vuole proporre un comandamento antico, quello che di fat
to è l'annuncio della parola originaria e fondativa della comunità
credente (l Gv l , 1 -3 .5 ; cf. 2 Gv 4-5). Mediante l'aoristo del verbo
akouein, "ascoltare", riferito alla parola - l6gos - si richiama l'e
vento dell'esperienza di fede.
Ma anche l'espressione " comandamento nuovo" è legittima
e vera perché in essa si concentra l'esperienza della rivelazione
piena e definitiva portata da Gesù Cristo, la parola della vita che
era presso il Padre e si è manifestata ai testimoni e annunciatori.
Nella tradizione giovannea il sintagma entole kaine, "comanda
mento nuovo" , risale a Gesù che lo consegna alla comunità dei
discepoli come il loro statuto distintivo (Gv 13 , 34; cf. 15 , 12) .
Nell'Apocalisse l'aggettivo "nuovo" qualifica il canto dell' assem
blea celeste e dei redenti, il nome, la creazione - cielo e terra - la
città o Gerusalemme celeste, l'opera definitiva di Dio (Ap 3 , 12;
5 , 9; 14 , 3; 2 1 , 1-2.5 ) . Sullo sfondo di questo linguaggio sta la tra
dizione biblica, dove con la categoria della novità si annuncia la
realtà definitiva della salvezza. In particolare l'espressione gio
vannea " comandamento nuovo" richiama la parqla profeti ca di
Geremia sull a kaine diatheke, "nuova alleanza" (Ger 3 1 , 3 1 ) .
Nell'orizzonte della nuova alleanza trova l a sua collocazione il
nuovo comandamento come condizione per vivere la relazione
con Dio.
Ma il nostro autore giustifica la qualifica "nuovo" del coman
damento mettendola in rapporto con la "luce vera" , che già brilla
mentre la tenebra sta scomparendo (l Gv 2 , 8cd) . Anche il sintag
ma tò phos tò alethin6n - "la luce, quella vera" - riecheggia quel
lo del prologo del Quarto Vangelo, dove designa la manifestazio
ne di Gesù Cristo, rispetto al ruolo di Giovanni il testimone ( Gv l ,
9) . Ma nel contesto della Lettera la luce vera indica il processo
complessivo della rivelazione di Dio in Gesù Cristo che coinvolge
anche la comunità dei credenti: «il comandamento nuovo (che) è
una realtà vera in lui e in voi» ( l Gv 2, 8b) .
44
· Per dire questo l'autore forza la sintassi del testo perché il re
lativo neutro ho, "ciò che", non concorda con il sostantivo femmi
nile entole, ma anticipa il termine neutro alethés, "vero " nel senso
di "reale" o realizzato. Nel linguaggio della tradizione giovannea
con la categoria della "verità" si designa l'evento della comunica
zione di Dio in Gesù Cristo, la parola di verità. Questo trova una
conferma nel duplice pronome che segue la frase relativa: «(ciò)
che è vera realtà in lui - en auto-i e in voi» ( 1 Gv 2 , 8b) . Segue
-
45
il suo fratello rimane nella luce» (l Gv 2, lOab). TI verbo ménein,
"rimanere (nella luce) " , al posto del più comune einai, "essere
(nella luce) " , sottolinea il fatto della permanenza e durata dell'e
sperienza. La luce è la realtà di Dio che si è manifestata in Gesù
Cristo, la parola della vita. Questo è l'ambito in cui dimora in for
ma sicura e stabile chi ama il suo fratello. L'espressione generica
"amare il proprio fratello" viene commentata e ampliata con la fra
se: «e non v'è in lui rischio di (far) inciampare» ( 1 Gv 2, lOc) . Nel
testo originale il termine sktindalon - unica ricorrenza in tutta la
Lettera - è una metafora di matrice biblica per designare la pietra
di inciampo sulla strada oppure il trabocchetto sul sentiero dove si
cammina. Nel contesto religioso la metafora dello "scandalo" in
dica una situazione negativa che può provocare la crisi o la devia
zione dalla fede o prassi etica.
Nel sintagma en auto-i, "in lui/in esso/a" , il pronome perso
nale può riferirsi sia alla persona che ama il suo fratello e rimane
nella luce, sia al sostantivo tò phos, "luce " . In altre parole la fra
se si presta ad essere letta in due modi altrettanto plausibili. Nel
primo caso si afferma che chi rimane nella luce non solo non ri
schia di inciampare perché vede bene gli eventuali ostacoli sulla
strada, ma non diventa occasione di inciampo - scandalo - per il
fratello. Nel secondo caso si dice che nell'ambito della luce non
c'è rischio di inciampare. Tenendo conto dell'interesse dell'auto
re della Lettera per le relazioni interpersonali nell'ambito della
comunità è preferibile riferire il pronome a chi ama il fratello: fi
no a quando resta nell'ambito della luce-amore egli non può es
sere occasione di scandalo, cioè non può mettere in crisi di fede
il suo fratello.
La sezione si chiude con la presentazione del caso opposto:
«Chi invece odia suo fratello . . . » ( l Gv 2, 1 1 a) . Questi non solo si
trova nell'ambito negativo della tenebra, ma «cammina nella tene
bra» (cf. l Gv l , 6). ll verbo peripatein, "camminare" , nel lessico
giovanneo indica il comportamento o stile di vita permanente.
L'immagine del camminare nella tenebra evoca l'idea del cammi
nare al buio quando non si vede né la via da percorrere né la me-
46
ta da raggiungere. La ragione ultima di questo totale oscuramento
che incombe sul cammino di chi odia il suo fratello è la cecità pro
vocata dalla tenebra. N ella frase finale «la tenebra ha accecato i
suoi occhi» la realtà della skotia, "tenebra", è come una potenza
che agisce in modo negativo su chi vi si trova immerso. Questo lin
guaggio con le relative immagini - tenebra, camminare, accecare -
si ispira alla tradizione del Quarto Vangelo, che a sua volta attinge
a quell a biblica ( Gv 8, 12; 1 1 , 9- 10; 12 , 35 .40; cf. Is 6, 9- 10).
47
vitalz� l6e non è dal Padre, ma dal mondo. 1 78 E il mondo passa 1 7h e
anche la sua bramosia} 17c ma chi/a la volontà di DioJ l 7d rimane per
sempre.
48
egnokate tòn ap'arches, "conoscete quello (che era) da principio" -
essi sono interpellati nella seconda serie (l Gv 2, 14cd) . Con lo
stesso verbo ginoskein, nella forma verbale del tempo perfetto, si
descrive la situazione di quelli che sono chiamati paidia, "bambi
ni" , nella seconda serie, ma con un diverso complemento oggetto:
«avete conosciuto il padre, tòn patéra» ( l Gv 2 , 14b). In ambedue
le serie i destinatari della terza dichiarazione sono chiamati neani
skoi, "giovani". La loro situazione spirituale è caratterizzata me
diante il verbo nikan , "vincere" - nella forma del tempo perfetto
nenikekate - seguito dal complemento oggetto tòn poner6n, "il
maligno" .
L a sezione parenetica o esortativa ruota attorno ai due poli an
titetici; il mondo e Dio. Infatti il vocabolo "il mondo" - sempre
con l'articolo ho k6smos - ricorre complessivamente sei volte. Es
so è accompagnato dalle preposizioni - en to-i k6smo-z� ek tou k6-
smou, "nel mondo, dal mondo" - che ne esprimono la relazione o
l'ambito di influenza. Con la sfera del mondo sono connessi la
epithymia, "bramosia" - tre volte - e la alazoneia, "arroganza" , a
loro volta associati alla terminologia antropologica stirx, " carne",
ophtalmoi, "occhi" bios, "vitalità" o "beni vitali" . n polo positivo
antitetico al mondo' è rappresentato da Dio, designato due volte
con l'appellativo ho pater, "il padre". La scelta o l'adesione all 'uno
o all'altro polo è indicata mediante la terminologia dell'amore: due
volte il verbo agapan, "amare" e una volta il sostantivo agape,
"amore". L'aspetto effimero del mondo è suggerito dal verbo pa
rdgein, "passare " , mentre la stabilità fondata sul fare la volontà di
Dio, è indicata con il verbo giovanneo ménein, "rimanere ", raffor
zata dall'espressione temporale eis tòn aiona, "per sempre" .
49
li circa la loro situazione attuale in rapporto alla salvezza dono
di Dio;
- l Gv 2, 15- 17 : perciò li invita a scegliere tra Dio, il Padre e
il sistema mondano, caratterizzato dalla ricerca ossessiva del pote
re e del successo; mentre il sistema mondano con tutti i suoi d esi
cleri e progetti è radicalmente precario, a chi compie la volontà di
Dio è assicurato un futuro senza fine.
51
diavolo che minaccia i discepoli di Gesù ( Gv 17, 15) . Nella con
clusione della Lettera l'autore esprime la convinzione che chi è n a
to da Dio conserva integra la sua fede e il maligno non lo tocca. Al
contrario il mondo, come spazio dell'incredulità, sta sotto il domi
nio del maligno come Caino che uccise il suo fratello ( l Gv 5 , 18-
19; cf. 3 , 12). Nell'ultima dichiarazione relativa ai giovani l'autore
precisa che essi sono "forti" e <<la parola di Dio dimora» in essi. In
questo sta la ragione ultima e profonda della loro vittoria sul mali
gno. Mediante la fede i cristiani partecipano della forza di Dio, che
si esprime e attua nella sua parola. Conforme alla promessa di Ge
remia, nella nuova alleanza, grazie alla parola di Dio, posta nell'in
timo e scritta sul cuore, tutti conosceranno il Signore, dal più pic
colo al più grande (Ger 3 1 , 3 3 -34) . A sua volta il profeta Gioele an
nuncia un'effusione dello Spirito profetico su tutti i membri del
popolo di Dio, anziani e giovani ( G/ 3 , l ; A t 2 , 17). Solo il dono in
teriore dello Spirito, secondo il profeta Ezechiele, renderà effetti
va la fedeltà agli impegni di alleanza (Ez 36, 27) . Quando l'autore
della nostra Lettera, rivolgendosi ai cristiani - padri e giovani - af
ferma che essi conoscono colui che era da principio - la parola del
la vita - e che con la forza della parola di Dio essi hanno vinto il
maligno, riecheggia i testi profetici sulla nuova alleanza e il dono
dello Spirito.
Dopo la serie di affermazioni sulla condizione dei credenti, de
stinatari della sua comunicazione epistolare, l'autore li invita a fa
re una scelta radicale: «Non amate il mondo, né le cose del mon
do» ( l Gv 2, 15ab). ll divieto espresso con l'imperativo presente
del verbo agapan ha un valore permanente. Nell'ambito dell'al
leanza il verbo "amare" ("odiare") non si riferisce ai sentimenti o
ad uno stato d'animo, ma indica una decisione e scelta etico-reli
giosa. L'invito a scegliere tra il mondo e Dio si inserisce nella tra
dizione cristiana primitiva di cui si fa portavoce anche l'autore del
la Lettera di Giacomo (Mt 6, 24 ; Le 16, 13 ; Gc 4, 4). Nel Quarto
Vangelo e nella prima Lettera il "mondo" - 23 ricorrenze di k6-
smos - è una realtà ambivalente. Da una parte il mondo come real
52
dell'invio del suo Figlio unigenito (l Gv 2, 2; 4, 9. 14) . Dall'altra "il
mondo" si identifica con il polo antagonista a Dio. In tale contesto
i credenti, che hanno vinto il maligno, non possono scendere a
compromessi con il mondo che sta sotto il potere del maligno ( l
Gv 5, 1 9 ) . Perciò l'autore della Lettera afferma che «se qualcuno
ama il mondo, non c'è in lui l'amore del Padre» ( l Gv 2 , 15cd) .
L'espressione «l'amore del Padre non è in lui» può essere accosta
ta a quella precedente rdativa ai giovani forti che hanno vinto il
maligno: <<la parola di Dio rimane in voi». Non si tratta dell'amo
re dei fedeli verso il Padre, ma dell'amore che il Padre dimostra
verso di loro inviando il suo Figlio unigenito (l Gv 4, 9- 10. 16) . In
altri termini chi aderisce al sistema mondano resta estraneo e re
frattario all'amore redentivo di Dio.
Con tre brevi frasi l'autore motiva la sua affermazione sulla
incompatibilità del rapporto tra Dio e il mondo. L'intera realtà
mondana - «le cose che sono nel mondo» - è caratterizzata dal
la ricerca esasperata del piacere, del potere e del successo. Il so
stantivo epithymia, "bramosia" , trascrive il comando finale del
decalogo: «non desiderare» (Es 20, 1 7 ) . Nella tradizione biblica
il desiderio sfrenato sta all'origine di ogni peccato. Se ne fa in
terprete Gesù ben Sira che si rivolge al Signore chiedendo di non
!asciarlo in balia di sguardi sfrontati, di tenerlo lontano dalla bra
mosia - epithymia - e di non essere dominato da sensualità e li
bidine (Sir 23 , 4-6) . Nel nostro testo la epithymia è associata alla
" carne" e agli " occhi" . Nel Quarto Vangelo il termine sdrx, " car
ne" , non ha una valenza negativa. Come nella tradizione biblica
la " carne" indica la condizione umana esposta alla precarietà e
alla morte. Ma in questa carne prende dimora il l6gos che era con
Dio (Gv l , 14) . Nella carne è venuto Gesù Cristo, il Figlio di Dio
( l Gv 4 , 2 ) . Nella Lettera ai Galati Paolo invita i cristiani a cam
minare secondo lo Spirito per non cedere alla bramosia epithy -
53
to dalla condizione limitata propria dell'essere umano. Anche l'e
spressione "la bramosia degli occhi" non ha una connotazione
precisa. Però in alcuni testi sapienziali l'occhio è associato al de
siderio di possesso (Qo 4 , 8; Sir 14, 9).
Allo stesso modo la terza caratteristica del sistema mondano,
indicata dall 'espressione alazoneia tou biou, "arroganza dei beni vi
tali" , rimane troppo generica per essere identificata con un ambi
to preciso delle pulsioni umane. In alcuni testi biblici la alazoneia
è associata alla falsa sicurezza, alla spavalderia nel possesso dei be
ni, alla millanteria sociale (Sap 5, 8; Gc 4, 16). A sua volta il voca
bolo bios, tradotto con "beni vitali" , in l Gv 3 , 17 è riferito al pos
sesso dei beni materiali. In breve la caratteristica del sistema mon
dano - evocata dalle tre espressioni - è il desiderio sfrenato e spa
valdo, che fa leva sul possesso dei beni. La tradizione ascetica ha
interpretato le tre espressioni di l Gv 2, 16 riferendole a tre dei vi
zi capitali: la lussuria, l'avarizia e la superbia.
Nella prospettiva dell'autore della nostra Lettera la concezio
ne della vita fondata sulla bramosia e arroganza non deriva da
Dio, il Padre, ma dal sistema mondano totalmente ripiegato su di
sé ( 1 Gv 2 , 16e) . Su quest'ultima affermazione si innesta quella
conclusiva circa il destino del sistema mondano, caratterizzato
dalla bramosia. Mentre il mondo, con tutti i suoi desideri sterili, è
destinato a scomparire, chi fa la volontà di Dio, ha un futuro sta
bile. La volontà di Dio coincide con la verità e la giustizia da met
tere in pratica; essa si concretizza nei comandamenti da custodire
e praticare ( l Gv l , 6; 2, 10.29; 3 , 22) . Chi aderisce in modo vita
le e attivo alla volontà di Dio, partecipa alla sua vita senza fine (cf.
Sa/ 90, 5 ; Prv 10, 25 ).
Dunque l'autore, consapevole di svolgere un ruolo importan
te con la stesura del suo scritto, si rivolge alla: comunità nel suo in
sieme e ai singoli cristiani, per rassicurarli sul loro statuto di fede
ed esortarli a fare una scelta radicalmente alternativa al sistema
mondano, caratterizzato dal desiderio di potere e di possesso sen
za limiti, ma intrinsecamente effimero.
54
VI. L'ANTICRISTO E IL CRISMA
( l Gv 2, 18-27)
55
chriein, "ungere" "consacrare" , e fanno riferimento al nucleo del
la fede e all'appartenenza ecclesiale: (Gesù) Cristo e i cristiani. Nel
nostro brano il termine antichristos compare tre volte, di cui due al
singolare e una al plurale ( l Gv 2, 18cd.22d) . Parimenti anche il
vocabolo chrisma si trova tre volte, una nella parte centrale, e due
nell'esortazione finale ( l Gv 2 , 20a.27ad). L'appellativo "anticri
sto(i) " caratterizza quelli che sono ."usciti" e rinnegano Gesù Cri
sto, il Padre e il Figlio, mentre il "crisma" è dato ai fedeli per co
noscere e restare saldi nella verità ricevuta con l'annunzio iniziale
e fondativo.
Attorno a questa polarità positiva e negativa si muovono le altre
antitesi: verità/falsità, vero/falso, sapere/non sapere, confessare/rin
negare, uscire/rimanere. La terminologia del testo si concentra in
questi ambiti antitetici. n sostantivo aletheia, "verità" ricorre due
'
volte ( l Gv 2 , 2 1 ab). Ad esso si contrappone la duplice ricorrenza di
pseudos, "falsità" (l Gv 2 , 2 1 c.27e). Nella stessa area semantica ri
entrano l'appellativo pseustes, "falso" e l'aggettivo alethés, "veritie
ro" ( l Gv 2, 22a.27e). Nel polo positivo della verità gravitano i ver
bi: eidénai, "sapere" , nella forma del perfetto oida, con valore di
tempo presente, tre volte (1 Gv 2, 20b.2 1ab); diddskein, "insegna
re", tre ricorrenze ( l Gv 2, 27); akouein, "ascoltare", tre volte ( l Gv
2, 18b.24); ménein, "rimanere", cinque volte ( 1 Gv 2, 19b.24 .27bf);
lambdnein, "ricevere", una volta (l Gv 2, 27a); homologein, "con
fessare" , una volta ( l Gv 2, 23 c) .
Della costellazione semantica del polo negativo fanno parte i
verbi: arneisthai, "rinnegare" , tre ricorrenze ( l Gv 2, 22be.23a) ;
planan, "far deviare", una volta ( l Gv 2, 26b). L'identità e l' appar
tenenza antitetica dei due schieramenti sono indicate spesso con il
verbo einai, "essere" - dodici ricorrenze complessive - seguito dal
le preposizioni ek (ex), "da" e metà (meth), "con " ( l Gv 2, 19) . Lo
stesso ruolo svolge il verbo échein, "avere", in frasi positive o ne
gative, seguito dai diversi complementi oggetto. Nella dialettica
delle diverse e contrapposte identità e appartenenze rientra anche
l'uso del pronome personale hemeis, "noi" - sei ricorrenze ( l Gv
2 , 1 9.25a) . Un ruolo importante ha il pronome hymeis, "voi", con
56
tredici ricorrenze complessive. In particolare è da rilevare la sua
posizione enfatica in tre momenti del discorso, dove serve a sta bi
lire il contatto tra chi scrive e i destinatari (l Gv 2, 20a.24a.27a).
Allo stesso scopo risponde il duplice richiamo all'azione effettiva e
puntuale dello " scrivere" - grdphein - mediante la forma verbale
dell'aoristo ( 1 Gv 2, 2 1a.26a) .
n criterio per definire l'identità positiva o negativa dei due
schieramenti è data dalla professione o negazione della fede cri
stologica che costituisce il centro di gravità di tutto il discorso. Es
sa fa leva sul nome proprio Iesous, seguito dall'appellativo Chri
stos, riconosciuto come ho Hyios, "il Figlio " - quattro ricorrenze
che sta in un rapporto indissolubile con ho Pater, "il Padre", quat
tro ricorrenze ( l Gv 2, 22ce.23 -24d) . In questo ambito della fede
cristologica e teologica gravita anche l'appellativo ho Hdgios, "il
Santo" (l Gv 2, 20a) . Le molteplici ricorrenze del pronome dimo
strativo-personale autos, "egli" , il più delle volte vanno riferite a
Gesù Cristo, il Figlio, che opera in piena comunione con il Padre.
Su questa origine divina si fonda la promessa della vita eterna sul
la quale possono contare i credenti ( l Gv 2, 25).
57
- l Gv 2, 24-25 : il gruppo "noi" è invitato a mantenere l'an
nuncio che sta all'origine della sua fede per restare in comunione
con il Padre e il Figlio e conseguire la promessa della vita eterna;
- l Gv 2, 26-27 : il gruppo "noi", che ha ricevuto il crisma,
non ha bisogno di essere istruito da altri, perché ha il crisma co
me maestro interiore e veritiero, purché resti fedele all 'insegna
mento ricevuto.
58
me a una tradizione nota ai suoi lettori - «come avete udito» - è
un segno dell'ultima ora. Questo modo di parlare, ispirato ai mo
delli letterari dell'apocalittica, non si riferisce a una scadenza cro
nologica precisa, ma esprime la consapevolezza della comunità cri
stiana di vivere nel tempo decisivo inaugurato dalla manifestazio
ne di Dio in Gesù Cristo (cf. Gv 2, 8). Questo modo di leggere la
realtà non ha lo scopo di allarmare i cristiani destinatari della Let
tera, ma di incoraggiarli e sostenerli nel loro impegno.
Con lo stesso intento l'autore si preoccupa di precisare l'iden
tità di quelli che chiama "anticristi" . Anche se sono molti e sembra
che abbiano successo, essi in realtà contraddicono lo statuto dei
veri cristiani. �nfatti questi tali hanno abbandonato il gruppo dei
cristiani ai quali l'autore scrive la Lettera chiamandoli con il pro
nome inclusivo di prima persone plurale " noi". Pur facendo parte
formalmente della comunità cristiana, con la loro fuoriuscita, di
mostrano di non ave.re lo spirito che ne definisce l'identità pro
fonda. Anzi in questo " scisma" ecclesiale l'autore vede un effetto
positivo, in quanto rende palese la distinzione tra veri e falsi cri
stiani (cf. l Cor 1 1 , 19). In questa prima presa di posizione sembra
che il criterio per definire la vera identità cristiana sia l' apparte
nenza o meno al gruppo chiamato "noi".
Ma subito dopo l'autore affronta il problema da un altro pun
to di vista. Non basta appartenere al gruppo di quelli che sono ri
masti fedeli, ma si tratta di verificare il proprio statuto di credenti.
Egli parte da una dichiarazione tematica propositio - che fa leva
-
59
vano quella dei sacerdoti e quella metaforica dei profeti (Is 60, 1 ) .
Gesù, riconosciuto come il Cristo, è il re e profeta consacrato da
Dio (Le 4, 1 8; At 4, 27 ; 10, 38) . Quelli che credono in Gesù Cristo
partecipano al suo statuto di consacrato (2 Cor l , 2 1 ).
Da questa tradizione l'autore della Lettera deriva la categoria
dell'unzione che gli serve per definire l'identità dei veri credenti
in Gesù Cristo: essi hanno un chrisma, un'unzione che proviene
dal "Santo " . Per sé quest'ultimo appellativo nella Bibbia si riferi
sce a Dio, ma nella tradizione giovannea Gesù è conosciuto come
il " Santo di Dio" (cf. Gv 6, 69) . Dunque anche se il crisma in ul
tima istanza viene da Dio, esso è comunicato da Gesù Cristo, il Fi
glio consacrato e inviato nel mondo (cf. Gv 1 0, 3 6). Ma quello che
conta è l'effetto della presenza del crisma nei fedeli: essi, tutti, so
no abilitati a conoscere. In altre parole la conoscenza non è riser
vata a un gruppo elitario, come pretendevano i fuoriusciti, mar
chiati dall ' autore come anticristi, ma è una capacità donata a tut
ti i credenti in Cristo. L'affermazione: «Tutti siete in grado di co
noscere» riecheggia le parole di Geremia sulla nuova alleanza:
quando la legge sarà scritta nel cuore tutti conosceranno il Signo
re ( Ger 3 1 , 34) .
L'autore ci tiene a precisare che con il suo scritto egli vuole ri
marcare il ruolo positivo del crisma dato ai cristiani. Esso consen
te di riconoscere e accogliere la verità, che coincide con l' attuazio
ne della parola e del comandamento dell'amore fraterno (1 Gv l ,
6.8; 2 , 4 ; 3 , 18) . Inoltre il crisma diventa il criterio per discernere
tra i veri e falsi cristiani, tra "falsità" e "verità" . Non si tratta di un
criterio del tutto soggettivo o arbitrario, ma della comune profes
sione di fede, che si fonda sulla tradizione della parola ricevuta fin
dall 'inizio dell'esperienza cristiana.
Infatti al centro di questa sezione l'autore riporta la professio
ne di fede cristologica nella sua versione negativa: «Gesù non è il
Cristo». Questa formula di rinnegamento è posta in bocca a un
rappresentante dei fuoriusciti, chiamato appunto "falso" - negato
re della verità - e "anticristo" . Questi è definito per tre volte ho ar
noumenos, " colui che rinnega" , contrapposto a ho homologon,
60
"colui che confessa" ( 1 Gv 2, 22-23 ) . I verbi "professare" e "rin
negare" fanno parte del lessico tradizionale per una comunità cri
stiana chiamata a confrontarsi con un ambiente sospettoso e osti
le. Si tratta dunque di prendere posizione a favore di Gesù, l'uo
mo storico e concreto che ha subito una morte violenta; il suo san
gue purifica i credenti da ogni peccato ( l Gv l, 7). Come interces
sore presso il Padre egli ottiene il perdono definitivo per tutti ( l
Gv 2, 1 -2; cf. 4 , 9- 10. 14) . Perciò il credente, sotto l'azione dello
Spirito di Dio, confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne ( l Gv
4, 2 ; cf. 2 Gv 7).
Il titolo Cristo, congiunto al nome proprio Gesù, in almeno sei
testi della prima Lettera di Giovanni, è inseparabile dall a sua iden
tità di Figlio di Dio. Infatti la fede che vince il mondo è quella di
chi crede che Gesù è il Figlio di Dio: «Questi è colui che è venuto
per mezzo di acqua e sangue, Gesù Cristo; non nell'acqua soltan
to, ma nell'acqua e nel sangue» ( 1 Gv 5 , 5-6) . Dunque la formula
zione positiva della fede cristologica suona così: «Gesù è il. Cristo»
(cf. l Gv 5, la).
Le puntualizzazioni dell'autore di l Gv circa la professione di
fede cristologica fanno intuire che sono almeno due i punti che
stanno all'origine della separazione del gruppo degli anticristi. Da
una parte l'identificazione di Gesù con il Christ6s e con il Figlio di
Dio. Dall 'altra il suo ruolo mediatore in rappot;to al perdono dei
peccati e alla salvezza, connesso con la sua missione terrena culmi
nante nella morte violenta. Nel contesto attuale l'autore precisa
che chi nega l'identificazione di Gesù con il Cristo, non solo nega
la sua identità di Figlio di Dio, ma «rinnega il Padre». D'altra par
te, siccome l'unica possibilità di entrare in relazione con il Padre,
passa attraverso il Figlio, si può affermare che «chi rinnega il Fi
glio non ha nemmeno il Padre» ( l Gv 2, 23 ab) . In modo positivo
si può dire anche: «Chi confessa il Figlio, ha anche il Padre» ( l Gv
2, 23 cd) . L'espressione singolare " avere/non avere il Padre" corri
sponde alla comunione salvifica con il Padre, che dona la vita eter
na per mezzo del suo Figlio (cf. l Gv l , 3 .6; 5, 1 1 - 12).
n tema della vita eterna compare alla fine della nuova unità -
61
la quarta - che inizia con la domanda enfatica: «Voi . . . » ( l Gv 2,
24a) . Per due volte l'autore esorta i cristiani destinatari della sua
Lettera a rimanere saldi in quello che hanno udito "da principio" .
Si tratta della parola della vita eterna, che era presso il Padre e che
si è manifestata a quanti l'hanno testimoniata e annunciata ( l Gv
l, 2 ) . La parola che essi hanno ascoltata coincide con il comanda
mento ricevuto ".fin da principio" ( l Gv 2 , 7). Mediante la ripeti
zione del verbo ménein, " rimanere", riferito sia alla parola nei cre
denti sia al loro rapporto con il Figlio e con il Padre, si mette in ri
salto l'aspetto interiore e permanente della presenza della parola in
chi l'ascolta, come condizione per essere in comunione con il Fi
glio e il Padre. La realtà di questa comunione con Dio viene espli
citata mediante la categoria della vita eterna, come vita piena e de
finitiva, garantita da Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo, il Figlio
(cf. Gv 17, 3 ) .
Prima dell'esortazione finale l'autore ancora una volta mette
in guardia i lettori del suo scritto di fronte al rischio rappresenta
to dai dissidenti. Essi sono una minaccia permanente perché con
tinuano ad esercitare un certo influsso o una seduzione su quelli
che sono rimasti all'interno del gruppo fedele. Tuttavia l'autore li
rassicura: avendo ricevuto il crisma da parte di Gesù, il Cristo e il
Figlio di Dio, possono far fronte ad ogni difficoltà. L'unica condi
zione perché il crisma sia efficace è di conservarlo come maestro
interiore e stabile. Anche se i fuoriusciti rivendicano il ruolo di
maestri ispirati, tutti i fedeli possono contare sull'insegnamento
del crisma. In tal modo in essi si compie la promessa di Dio per i
tempi messianici, quando tutti saranno ammaestrati da Dio (ls 54,
13 ; Gv 6, 45 ; cf. Ger 3 1 , 34). Il crisma dunque nella vita dei cri
stiani svolge un ruolo analogo a quello attribuito allo Spirito di ve
rità: egli rimane per sempre nei discepoli e insegna ogni cosa fa
cendo penetrare nel cuore tutto quello che Gesù ha detto (Gv 14,
1 7 .26; cf. 16, 13 ) L'unica condizione richiesta per poter contare su
.
62
tore della prima Lettera fa riscoprire il ruolo del crisma che unisce
e conforma i credenti a Gesù, il Cristo e Figlio di Dio. AJ di là di
ogni strategia difensiva i cristiani nella loro esperienza di fede han
no il dono permanente e interiore della parola di Dio, che assume
il volto storico di Gesù Cristo, annunciato dai primi testimoni. La
fede opera nell'intimo dei cuori come lo Spirito di verità, unico e
definitivo maestro che porta a compimento la comunione con Dio
Padre per mezzo di Gesù Cristo.
63
Vincipit della nuova sezione è dato dall'appellativo teknia, "fi
glioli" , e dall'imperativo ménete en auto-i, " rimanete in lui", che ri
chiama l'ultimo versetto del brano precedente ( 1 Gv 2, 27f) . Lo
stesso verbo ricompare altre due volte nel corso del dialogo epi
stolare ( l Gv 3 , 6a.9c) . Vawerbio temporale di apertura: Kaì nyn,
"E ora . . . " , suggerisce il carattere esortativo del testo ( l Gv 2 , 28a) .
Questo è confermato dalla serie di verbi all'imperativo gignoskete,
"conoscete" - può essere letto come indicativo o imperativo - ide
te, "vedete" , che si alternano con le altre forme verbali ( l Gv 2 ,
29b; 3 , l a) . V appellativo teknia, "figlioli " , viene ripreso più avan
ti con un quarto invito-imperativo: medeìs planato hymas, «Figlio
li, nessuno vi faccia traviare . . . » ( l Gv 3 , 7a) . Anche l'appellativo
agapetoi, "carissimi" , che fa eco all 'agape del Padre, rientra nello
stile della parenesi epistolare ( 1 Gv 3 , la.2a).
Con il verbo phanerousthai, "manifestarsi" , del versetto inizia
le, si evoca lo scenario che fa da sfondo a tutto il discorso esortati
vo con le relative motivazioni. La prospettiva della manifestazione
escatologica è confermata dal termine parousia, "venuta/presenza"
(l Gv 2 , 28bc) . In questo orizzonte escatologico si collocano le due
espressioni positive simmetriche: échein parrhesian, "avere fidu
cia" - ed échein elpida, "avere speranza" ( l Gv 2 , 28b; 3 , 3a) . Con
il verbo phanerousthai sempre nella forma verbale dell'aoristo
-
64
gettivo hagn6s, "puro" (1 Gv 3 , 3 ). A questa si contrappone il cam
po semantico del peccato, presente con il sostantivo hamartia - sei
ricorrenze - il vocabolo anomia, "iniquità" - una sola volta - e il
verbo hamartdnein, "peccare", con quattro ricorrenze complessive.
Anche hamartia è associato un paio di volte al verbo poietn, nella
forma participiale in modo da creare una perfetta antitesi con le
proposizioni relative alla giustizia.
L'antitesi "giustizia/peccato" esprime a livello pratico quella
più radicale tra le due linee genealogiche esplicitamente richiama
te alla fine: "i figli di Dio" e "figli del diavolo" (1 Gv 3 , 10). Il sin
tagma tékna tou Theou, "figli di Dio", compare in tutto tre volte (l
Gv 3 , lb.2a. 10a) . A tale antitesi fa riscontro la triplice espressione
"generato da (Dio) " , dove il verbo gennan , "generare" , nella for
ma del perfetto passivo è sempre accompagnato dalla congiunzio
ne eklex, "da" (1 Gv 2 , 29c; 3 , 9ae) . In tal modo si va delineando
l'antitesi che percorre l'intero brano tra i due sistemi e i relativi sti
li di vita. Da una parte sta Dio, il Padre, che grazie al suo grande
amore - agape - genera i figli di Dio che praticano la giustizia. Nel
la stessa linea si colloca l'amore - verbo agapan - del proprio fra
tello, richiamato alla fine come criterio per riconoscere i figli di
Dio (l Gv 3 , lOe) . Sul versante opposto si trova il diavolo - il ter
mine didbolos ricorre quattro volte - con i suoi figli che gravitano
nell'orbita del "peccare/peccato". In questo ambito negativo rien
tra il k6smos, che non è in grado di riconoscere i figli di Dio (l Gv
3 , l d) . Al centro di questa antitesi storica e antropologica compa
re il Figlio di Dio ho hyi6s tou Theou - che si è manifestato per
-
65
zione del vero protagonista - Dio o Gesù Cristo - nelle dodici ri
correnze di aut6s. In effetti nella prospettiva dell'autore, ruolo e
azione di Dio e del Figlio di Dio, Gesù Cristo, si sovrappongono o
per lo meno non si possono separare.
66
Analisi del testo
67
logico. Chi vive in questo rapporto di comunione con Gesù Cristo,
il Figlio di Dio, può presentarsi davanti a lui con la fiducia e la si
curezza propria di chi non teme di essere smentito o sconfessato
vergognosamente nel giudizio finale (Sap 5 , l ) . Il termine parrhe
sia, "fiducia'', che nell'ambiente greco indica il diritto e la libertà
di parola dei cittadini della p6lis, è corrente nel Quarto Vangelo
per descrivere la franchezza di Gesù nella sua attività e insegna
mento pubblici. Invece nella nostra Lettera la parrhesia esprime in
genere la fiducia di chi si rivolge a Dio nella preghiera oppure at
tende con serenità il giudizio di Dio ( l Gv 3 , 2 1 ; 4, 17; 5 , 14) .
Su questo sfondo del giudizio escatologico l'appellativo di
kaios, "giusto" , evoca la presenza del giudice, in questo caso di
Gesù Cristo. L'autore della Lettera, facendo leva sulla convinzione
di fede dei suoi destinatari, che riconoscono Gesù Cristo "giusto '' ,
li invita a praticare la giustizia, ma precisando che questo stile di
vita è proprio di chi è generato da Dio. Qui si vede l'oscillazione
tra Gesù Cristo, chiamato "giusto" (l Gv 2 , l ) e Dio, che pure è
chiamato "fedele e giusto " ( l Gv l , 9). D'altra parte il tema della
"generazione" , che sfocia nello statuto dei figli di Dio, può essere
posto in relazione solo con Dio, il Padre, come appare dalla tradi
zione del Quarto Vangelo (Gv l , 12- 13; 3 , 3 .7 ) . È quello che l'au
tore dice espressamente quando, in una specie di esclamazione, in
vita i lettori a considerare il grande amore del Padre che sta all'o
rigine della loro condizione di figli di Dio. Nel corso della Lettera
con il termine agape e il verbo agapan egli descrive l'iniziativa gra
tuita di Dio Padre che ha inviato il suo Figlio come salvatore del
mondo ( Gv l , 2-3 ; 2, 15; 4, 14). Per designare la condizione filiale
dei credenti, l'autore non adopera il sostantivo singolare hyi6s, ri
servato a Gesù, ma il plurale neutro tékna, " figli" .
La condizione filiale, effettiva e reale fin d'ora, tende al suo
compimento definitivo nell' eschaton quando si avrà la piena co
munione con Dio. In quel contesto i giusti saranno riconosciuti da
vanti a Dio come suoi figli (cf. Mt 5, 9; 25 , 34) . Attualmente quan
ti partecipano dello statuto di figli di Dio vivono in una duplice
tensione. Da una parte essi non sono riconosciuti come tali dal
68
mondo, che nella tradizione giovannea è estraneo e refrattario al
l'azione di Dio Padre, rivelata storicamente nell'invio del suo Fi
glio Gesù Cristo. Dall'altra essere figli di Dio in modo pieno e de
finitivo equivale a entrare e vivere nel mondo di Dio. Nel linguag
gio biblico si dice "vedere Dio", oppure entrare nella vita eterna
(cf. Gv 3 , 3-5). Nelle proposizioni in cui esprime questa duplice
tensione della condizione dei figli di Dio, l'autore adopera il pro
nome personale aut6s, "egli" che in modo coerente può riferirsi sia
a Dio Padre, sia a Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Infatti secondo la
tradizione giovannea il mondo non ha conosciuto il Padre, così co
me non ha conosciuto Gesù, il Figlio inviato dal Padre (cf. Gv l ,
10; 16, 3 ; 1 7 , 25) . D'altra parte nella prospettiva giovannea l'unica
possibilità di conoscere Dio come Padre si ha solo tramite Gesù, il
Figlio (Gv l , 18; 6, 46) .
Nella Lettera con il verbo phaneroun, "manifestarsi" , il più del
le volte, si parla della manifestazione di Gesù Cristo sia di quella
storica sia di quella escatologica o parousia ( l Gv l , 2c; 2 , 28b; 3 ,
5a.8c). Perciò l'oscillazione nell'uso del pronome aut6s, "egli", rife
ribile sia a Dio Padre, sia al Figlio, Gesù Cristo, è giustificata, e le
relative proposizioni si possono leggere in modo coerente riferendo
il pronome all'uno o all'altro dei soggetti. L'espressione "saremo si
mili a lui", e quella che vi è connessa: "lo vedremo come egli è",
hanno un senso plausibile sullo sfondo della tradizione biblica e
giovannea riferendole sia a Dio Padre, sia a Gesù Cristo, il Figlio.
"Vedere Dio" equivale ad entrare nella comunione di vita con lui
(Sa/ 17, 15; 42, 3 ; Mt 5, 8; Ap 22, 4). Allora si compie il progetto
dell'essere umano creato a immagine di Dio (cf. Gn l , 26). In alcu
ni testi neotestamentari si afferma che i credenti in Gesù Cristo, sa
ranno pienamente conformati a lui nella gloria quando si manife
sterà come il Signore (2 Cor 3 , 18; Fi/ 3 , 2 1 ; Co/ 3 , 4). L'insistenza
dell'autore della Lettera sulla tensione escatologica dello statuto dei
figli di Dio potrebbe essere una presa di posizione nei confronti dei
secessionisti che si considerano già arrivati alla piena e definitiva
comunione con Dio senza tener conto dell'impegno di trasforma
zione che l'esperienza di fede comporta.
69
Infatti l'autore raccomanda questo impegno con l'esortazione
che segue immediatamente: «E chiunque ha questa fede purifica se
stesso . . . » ( l Gv 3 , 3 ab) . Si tratta di una purificazione di carattere
etico-religioso che si sviluppa in modo permanente nel corso della
vita, come lascia intuire il tempo presente del verbo hagnizein,
"purificare" . n modello e la fonte di questo impegno di purifica
zione è Gesù Cristo - pronome ekeinos, "egli" il Figlio "giusto"
-
70 "
concentrati nel comando dell'amore fraterno. Questa interpreta
zione dell'anomia è suffragata dall'ultima dichiarazione, dove si di
ce che chi non pratica la giustizia di fatto non ama il suo fratello ('l
Gv 3 , lOce). In tale contesto ha un senso plausibile la duplice af
fermazione sulla impeccabilità di chi rimane unito vitalmente a
Gesù Cristo, giusto, immune da peccato, oppure di chi è generato
da Dio e ha in sé in modo permanente il suo seme o forza gene
rante (l Gv 3 , 6a.9) . Non si dice che i credenti in Gesù Cristo o i
figli di Dio non dovrebbero commettere peccati, oppure che que
sta è la loro condizione nella fase escatologica in cui sono già en
trati, ma che il loro statuto di credenti o di figli di Dio coincide con
l'esclusione della prassi di peccato. Si tratta del peccato che con
traddice la loro condizione di credenti o di figli di Dio. Sul piano
pratico questo equivale a non praticare la giustizia, cioè non ama
re il proprio fratello.
Sul versante opposto l'autore afferma che chi pratica il pecca
to mostra che la sua identità non è definita dal rapporto con Dio,
ma dal rapporto con il diavolo, che sta all'origine della scelta di
peccare (l Gv 3 , 8ab). Questa affermazione, che riecheggia quella
riportata dall'autore del Quarto Vangelo nel contesto del dibattito
tra Gesù e i Giudei a Gerusalemme, rimanda al peccato primor
diale nella Genesi, da quello della coppia alla uccisione di Abele
da parte di Caino (cf. Gv 8, 44; l Gv 3 , 12). L'antitesi tra i figli di
Dio e i figli del diavolo corrisponde alla contrapposizione tra l'o
pera di Gesù, il Figlio di Dio, e le opere del diavolo. La missione
di Gesù, il Figlio di Dio, ha come obiettivo quello di "togliere i
peccati" o eliminare le " opere del diavolo" . L'espressione "toglie
re i peccati" richiama la sentenza di Giovanni che riconosce Gesù
come l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo in quanto
battezza-immerge nello Spirito santo (Gv l , 29) . Nella seconda di
chiarazione il sintagma "opere del diavolo" riecheggia quello di
Gesù che dice ai Giudei: «Voi fate le opere del padre vostro», cioè
del diavolo (Gv 8, 4 1 ) . Nella tradizione giovannea il peccato è il ri
fiuto di Gesù, il Figlio inviato dal Padre, condannato alla morte di
croce.
71
L'autore della prima Lettera applica questa categoria etico-re
ligiosa di peccato alla violazione del comando dell'amore fraterno.
n peccato è antitetico alla pratica della giustizia che ha il suo mo
dello e fonte in Gesù, il giusto, immune da peccato. Di conse
guenza può affermare che chi è unito in modo vitale e permanen
te a Gesù non pecca, oppure in modo parallelo può dire che chi è
generato da Dio non può peccare perché ha in sé il dinamismo vi
tale di Dio. La metafora del "seme" , associata all'idea di genera
zione da Dio, può riferirsi sia alla parola di Dio sia allo Spirito di
Dio, perché, come il crisma, è presente in modo permanente e in
teriore nei credenti (cf. l Gv l , 10; 2, 27; 3 , 24; 4, 13; Ger 3 1 , 34;
Ez 3 6 , 25-27).
Nel contesto generale del discorso l'affermazione sulla im
peccabilità dei credenti in Gesù Cristo e dei figli di Dio assume
anche una punta polemica nei confronti dei secessionisti che pre
tendono di essere senza peccato, ma non mettono in pratica la ve
rità, cioè non attuano il comandamento dell'amore fraterno ( l Gv
l , 6) . Essi dicono di essere in comunione con Dio e di conoscer
lo, ma non ne custodiscono i comandamenti ( l Gv 2, 4). L'autore
della Lettera afferma che «chiunque pecca non lo ha visto né lo
ha conosciuto» (l Gv 3 , 6bc) . In questo caso il pronome persona
le aut6n, retto dai verbi vedere e conoscere, si riferisce a Gesù Cri
sto nel quale rimane il credente (l Gv 2, 28a) . Egli si è fatto ve
dere ai testimoni e annunciatori come parola della vita ( l Gv 3 ,
6a; cf. 2 , 13a).
L'espressione "chiunque pecca" è ripresa subito dopo nell'af
fermazione molto dura: «Chiunque pratica il peccato è dal diavo
lo» ( l Gv 3 , 8a) . Nella Bibbia il termine dùibolos, traduce l'ebrai
co shatdn, l'avversario di Dio, che il nostro autore chiama anche ho
poner6s, "il maligno" ( l Gv 2 , 1 3 - 14; 3 , 12 ; 5 , 1 8). Nell'ultimo ver
setto, dove si riassume il criterio per distinguere i figli di Dio e i fi
gli del diavolo, questi ultimi sono identificati con chi non pratica
la giustizia, cioè non ama il suo fratello. In questo senso Caino, che
era dal maligno e ha ucciso il suo fratello, è il prototipo dei figli del
diavolo ( l Gv 3 , 12) .
72
In conclusione l'autore propone una scelta radicale tra due si
sterni alternativi definiti dalle relazioni positive o negative. Al si
stema positivo appartengono i figli di Dio, sono da lui generati e
traducono e manifestano il loro statuto filiale in una prassi chia
mata giustizia e amore fraterno. n modello e la fonte di questa
prassi è Gesù Cristo, il figlio di Dio, che vive il suo rapporto con il
Padre in modo fedele e integro. Perciò egli può disinnescare il
meccanismo petverso del peccato che ha il suo riferimento origi
nario nel diavolo. Al sistema negativo appartengono - sono "figli
del diavolo" - quelli che non praticano la giustizia, cioè non ama
no il fratello. In tale contesto si intuisce che il peccato o iniquità si
oppone radicalmente allo statuto filiale dei credenti. Perciò l'auto
re può dire che chi rimane unito a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, è
estraneo al sistema del peccato, come lo è chi lascia agire nel suo
intimo la forza generante della parola di Dio o del suo Spirito.
73
20a- per qualsiasi cosa il nostro cuore ci condanni - 20h che Dio è più
grande del nostro cuore 20c e conosce ogni cosa. 2 18 Carissimi, se il
[nostro] cuore non ci condanna, 2 1h abbiamo fiducia in Dio 22a e se
chiediamo qualcosa la riceviamo da lui, 22h perché custodiamo i suoi
comandamenti 22 c e facciamo le cose gradite davanti a lui. 23 a E que
sto è il suo comandamento, 2 3 h che crediamo nel nome del Figlio suo
Gesù Cristo 23 c e ci amiamo gli uni gli altri, lJ d con/orme al coman
damento che ci ha dato. 24a E colui che custodisce i suoi comanda
menti 24b rimane in Lui ed Egli in luz:· 24c e in questo conosciamo che
n'mane in noi, 24 d dallo Spirito che ci ha dato.
vato che è la prima e l'unica volta che l'autore della Lettera si ri
volge ai destinatari chiamandoli adelphoi, "fratelli" (l Gv 3 , 13a).
In altri due casi egli li interpella con il consueto appellativo fami
liare teknia, "figlioli ", oppure come agapetoi, "carissimi" (l Gv 3 ,
18a.2 1a) . Nella parte finale è concentrata la terminologia che gra
vita attorno al sostantivo entole/ai, "comandamento/i", con quat
tro ricorrenze in due versetti (l Gv 3 , 23 -24).
Dopo l'annuncio iniziale del tema - «amiamoci gli uni gli al
tri» - seguono due esempi antitetici. Da una parte Caino che
con l'uccisione del fratello rappresenta chi appartiene al mali
gno e finisce nella morte (l Gv 3 , 12 - 1 3 . 15 ) . Dall'altra Gesù che
con il dono estremo della sua vita è il prototipo di quelli che
74
amano fino a dare la vita per i fratelli ( l Gv 3 , 16) . L'autore ap
plica i due esempi alla situazione dei destinatari. Non devono
meravigliarsi se il mondo li odia perché, mentre il mondo sta
nella linea di Caino, essi sono passati dall'ambito della morte,
nel quale rimane chi non ama, a quello della vita. Il loro amore
verso i fratelli ne è la prova e la conferma ( l Gv 3 , 14) . In que
sti versetti all'antitesi tra i verbi " amare" e "odiare " - misein - è
connessa quella tra zoe, "vita" , e thtinatos, "morte " , con due ri
correnze per ogni termine. Ma l'accento è posto sull'ambito ne
gativo della morte, nel quale rientra anche il vocabolo anthro
pokt6nos, "omicida" , ripetuto due volte ( l Gv 3 , 15ac) . Nell'ap
plicazione dell'esempio positivo l'autore presenta un caso dove
non c'è l'amore che ha la sua fonte ultima in Dio ( 1 Gv 3 , 17).
Quindi egli conclude con un invito che riprende il tema pro
grammatico iniziale: «Figlioli non amiamo con parola e la lin
gua, ma in opera e verità» ( 1 Gv 3 , 1 8) .
L'ultimo termine aletheia, "verità" , offre lo spunto per ripren
dere il discorso con una fraseologia ricorrente nel dettato della
Lettera, dove il sintagma tipico en touto-i, è seguito da ginoskein
nelle diverse forme verbali, dal presente, al perfetto e al futuro: «In
questo conosceremo - abbiamo conosciuto, conosciamo - che sia
mo dalla verità, ek tes aletheias . . » ( 1 Gv 3 , 19a; cf. 3 , 16a.24c) . Il
.
75
"viscere" , nel senso di sentimenti profondi di compassione ( l Gv
3 , 16bc. 17c) . Alla stessa area semantica dei sentimenti appartiene
il termine parrhesia, "fiducia" , "sicurezza" , davanti a Dio nella pre
ghiera e che si fonda sul custodire i comandamenti (l Gv 3 , 2 1 ) .
Quest'ultima espressione terein tàs entolas, "custodire i comanda
menti" , ricorre due volte nella parte finale ( l Gv 3 , 22b.24a) . Qui
è concentrato anche l'uso del verbo ménein , che compare in tutto
cinque volte: una volta è riferito all'amore di Dio e due volte alla
reciproca immanenza tra Dio e chi custodisce i comandamenti ( l
Gv 3 , 1 7d.24bc) .
Sotto il profilo lessicale colpisce la definizione del "comanda
mento " dato da Dio: credere nel nome del Figlio suo Gesù Cristo
e amarsi reciprocamente (l Gv 3 , 23 ). Con la stessa forma del ver
bo dare dédoken, "ha dato" - all 'iniziativa di Dio è attribuito il
-
76
- 1 Gv 3 , 16-17: presentazione dell'esempio positivo di Gesù
che ha dato la vita per noi e illustrazione dell'esempio con un caso
in cui non c'è l'amore che proviene da Dio;
- 1 Gv 3 , 18: conclusione della prima parte e transizione alla
seconda con l'invito ad amare in modo effettivo e pratico.
B. Fiducia davanti a Dio e attuazione del comando dell'amore
- l Gv 3 , 19-20: si devono superare le perplessità del nostro
cuore contando sulla conoscenza di Dio che è più grande del nostro
cuore;
- 1 Gv 3 , 2 1 -22: la fiducia davanti a Dio si esprime nella pre
ghiera efficace, unita alla custodia dei comandamenti di Dio;
- 1 Gv 3 , 23 -24: presentazione del contenuto essenziale del co
mandamento di Dio - credere in Gesù Cristo Figlio di Dio e amar
si reciprocamente - con la promessa della presenza di Dio e del do
no dello Spirito per chi custodisce e pratica i suoi comandamenti.
77
A conferma di questa dichiarazione programmatica l'autore
adduce l'esempio di Caino, prototipo di quanti contraddicono il
comando-statuto dell'amore fraterno. Caino è l'unico personaggio
biblico menzionato nella prima Lettera di Giovanni. Infatti l'altro
personaggio del racconto della Genesi - Abele - non è presentato
con il nome proprio, ma semplicemente in rapporto a Caino come
il " suo fratello" . n profilo negativo del protagonista è rimarcato
dal sintagma accostato al suo nome: ek poneros en, " (era) dal ma
ligno" . Questa identità negativa di Caino si manifesta nelle sue
opere definite ponerd, "malvagie", e contrapposte a quelle del fra
tello, chiamate dikaia, "giuste" (l Gv 3 , 12 ). Sullo sfondo di que
sta antitesi sta il racconto della Genesi 4, 3 -7 , rielaborato nella tra
dizione giudaica e cristiana, dove Abele è "giusto", perché offre a
Dio un sacrificio migliore di quello di Caino (Eh 1 1 , 4). Ma Abele
è considerato anche il prototipo di tutti i giusti uccisi nella storia
umana (Mt 23 , 35 ).
Per l'autore della Lettera la malvagità delle opere di Caino si
esprime e si concretizza nella uccisione brutale del fratello. Con
una domanda retorica egli pone in risalto il motivo del gesto vio
lento di Caino contro il suo fratello. L'aspetto cruento della ucci
sione di Abele è suggerito anche dal verbo sphdzein, "sgozzare" , ri
servato nell'Apocalisse all'uccisione dell'Agnello e dei martiri (Ap
5, 6.9. 12; 6, 9; 13 , 8; 18, 24) . Anche se l'autore si concentra sulla
figura e sul gesto negativi di Caino, egli lascia intravedere l' antite
si tra le due genealogie, quella che deriva dal maligno e si esprime
nelle opere malvagie e quella che viene da Dio e si esprime nelle
opere giuste.
N eli' applicazione dell'esempio biblico alla situazione della co
munità l'autore pone in evidenza l'aspetto negativo e tragico della fi
gura di Caino. Prima di tutto si rivolge ai lettori per incoraggiarli e
rassicurarli come ha fatto Gesù con i discepoli: «Non vi meraviglia
te, fratelli, se il mondo vi odia>> (l Gv 3, 13 ; cf. Gv 15, 18-19) . Non
è casuale in tale contesto l'uso dell' appellativo "fratelli" , che sugge
risce la duplice equivalenza �ra il "mondo" e Caino da una parte e i
"fratelli" e il "fratello " ucciso dall' altra. In effetti il mondo - ho kO-
78
smos - rappresenta il polo negativo, antitetico a quello di Dio, in
quanto sta sotto il potere del maligno ( 1 Gv 2, 15- 16; 5, 19).
n discorso di incoraggiamento e di rassicurazione rivolto ai
destinatari della Lettera sviluppa questa contrapposizione tra il
mondo e i fratelli, mediante la doppia antitesi: "morte/vita" ,
" odio/amore" ( 1 Gv 3 , 14- 16a) . L'autore introduce questo discor
so con una formula che esprime l'esperienza di fede che egli con
divide con i suoi destinatari: «Noi sappiamo . . . » ( 1 Gv 3 , 14a) . Si
tratta di un'esperienza che sta nel passato, ma si prolunga e per
mane nei suoi effetti fino al presente, come lascia intuire l'uso del
verbo metabainei, "passare oltre", nella fonna del tempo perfetto.
n passaggio decisivo che sta all'origine della condizione attuale dei
fedeli è come un esodo pasquale che si innesta su quello di Gesù
(cf. Gv 13 , 1 ) . In realtà nel dibattito con i Giudei di Gerusalemme,
dopo la guarigione dell'infermo alla porta delle pecore, Gesù, a chi
ascolta la sua parola e crede nel Padre, dice: «Ha la vita eterna e
non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» ( Gv
5, 24). L'autore della Lettera collega il passaggio dalla morte alla
vita con l'amore fraterno che ne è prova e conferma, perché «chi
non ama rimane nella morte» ( l Gv 3 , 14d).
La stessa cosa viene ripetuta al negativo mediante il verbo mi
sein, "odiare", riferito sempre alle relazioni fraterne all'interno
della comunità. La connessione tra odio e morte, viene approfon
dita sotto un duplice profilo. Da una parte si sottolinea il fatto che
l'odio sta all'origine della violenza omicida e dall'altra si affenna
che l'omicida si autoesclude dalla vita piena e definitiva ( 1 Gv 3 ,
15) . In breve l'odio fraterno è la fonte di ogni violenza mortale
contro gli altri e contro se stessi. Sullo sfondo di questo scenario
dell'odio mortale si profila ancora la vicenda biblica di Caino, che
con l'uccisione del fratello, diventa l'omicida per eccellenza. Que
sto è confermato dal fatto che l'appellativo antropokt6nos, " omici
da" , è utilizzato nel Quarto Vangelo nel contesto della discussione
di Gesù con i Giudei di Gerusalemme nella festa delle capanne,
dove egli li accusa di essere figli del diavolo, «che è stato omicida
fin da principio» (Gv 8, 44) . Nel contesto della Lettera la qualifica
79
di "omicida" è attribuita a chi odia il suo fratello, identificato con
la figura biblica di Caino, l'uccisore del fratello. L'intento dell' au
tore non è solo quello di incoraggiare i fedeli rimasti nella comu
nità, ma anche di indicare un. criterio sicuro per identificare e
squalificare quelli che con lo scisma si sono posti in una traiettoria
che va dali' odio alla morte.
In contrasto con questo quadro negativo si pone in risalto l'e
sperienza positiva dell'amore, già anticipata nell'espressione pre
cedente: «Siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fra
telli» ( l Gv 3 , 14bc). Ma ora si risale alla prima e originaria mani
festazione dell'amore: «Egli ha dato la sua vita per noi». Con l'uso
del pronome ekeinos, "egli" , si fa riferimento a Gesù che ha af
frontato la morte come estrema espressione del suo amore per il
Padre e per i suoi (Gv 10, 17- 18; 13 , l ; 15 , 13 ) . Egli è il pastore au
tentico perché rischia la vita per le pecore ( Gv l O, 1 1 . 15). Sullo
sfondo di questa immagine di Gesù che dà la vita per noi hypèr -
hemon - sta la figura del servo del Signore, che dona la sua vita -
psyche - per la moltitudine (cf. Is 53 , 8.12; Mc 10, 45). ll gesto di
Gesù, che porta a compimento la sua missione di Figlio nel dono
di sé per amore, è la fonte e il modello dello stile di vita dei cre
denti che devono dare la vita per i fratelli.
L'impegno etico, che si fonda sullo statuto originario dei fede
li, si concretizza nei gesti della solidarietà quotidiana. Per confer
marlo l'autore richiama un caso esemplare, ma sotto il profilo ne
gativo. Se all'interno della comunità uno che ha beni e potere, di
fronte al fratello che si trova nel bisogno, reprime i suoi sentimen
ti profondi di compassione, dimostra di essere estraneo alla logica
dell'amore di Dio ( l Gv 3 , 17). Per parlare dell'amore di compas
sione di fronte al bisogno altrui, l'autore ricorre alla metafora "vi
scere" - spltigchna - con la quale nella tradizione biblica si designa
l'amore misericordioso di Dio (cf. Os 1 1 , 8; Ger 3 1 , 20; Is 54 , 8; Le
l , 7 8) . Perciò si comprende il senso della domanda retorica che
chiude e commenta il caso: «Come rimane in lui l'amore di Dio?»
( l Gv 3, 17d). Nel sintagma "amore di Dio", il genitivo va inteso
in senso soggettivo, cioè l'amore che ha la sua fonte e il suo mo-
80
dello in Dio, come è stato manifestato a noi da Gesù Cristo, suo
Figlio (cf. l Gv 4, 9- 10. 16) . L'invito a non indurire il cuore e non
chiudere la mano di fronte al fratello bisognoso affonda le sue ra
dici nella tradizione biblica attestata dal Deuteronomio nel conte
sto della normativa per l'anno sabbatico (Dt 15, 7-1 1 ) .
Su questa tradizione, ripresa nei testi della Chiesa primitiva, si
innesta l'appello finale dell'autore della Lettera: «Figlioli, non
amiamo con parola e la lingua, ma in opera e verità» ( 1 Gv 3 , 18).
Il binomio "parola e lingua" può essere interpretato come un'en
diadi - parole sterili - mentre la seconda coppia potrebbe essere
compresa nel contesto del linguaggio giovanneo come "operare" o
"fare la verità" (cf. Gv 3 , 2 1 ) . Il commento più pertinente dd testo
di 1 Gv 3 , 18 si trova nella Lettera di Giacomo, dove si esemplifi
ca la sterilità della fede - "fede morta" - di chi, di fronte al fratel
lo o sorella bisognosi di cibo e vestiti, �i accontenta di belle parole
(Gc 2, 15-16).
Anche se l'autore riprende il termine aletheia nell'espressione
ek tes aletheias, in realtà affronta un altro aspetto dell'esperienza
cristiana che riguarda il rapporto del credente con Dio e la sua
identità. Egli propone un criterio per riconoscere l'identità vera e
profonda di chi non solo mette in pratica la verità - la parola ascol
tata - ma nel suo modo di sentire e di vivere si lascia guidare dal
la verità (cf. l Gv l, 6.8; 2 , 4 .2 1 ). Si tratta di verificare e valutare
davanti a Dio i propri sentimenti, progetti e scelte che si radicano
nel centro della personalità, il "cuore". Questo vale anche nel mo
do di amare il fratello bisognoso, senza assecondare paure, dubbi
e secondi fini. Chi si lascia guidare dalla rivelazione e dal dono del
l' amore di Dio - "la verità" - può superare le perplessità, i dubbi
e le incertezze del proprio cuore, dove egli si sente messo sotto ac
cusa e condannato. Egli deve fare affidamento su Dio che «è più
grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» ( 1 Gv 3 , 20bc).
La duplice affermazione su Dio che è "più grande" e " cono
sce ogni cosa" per sé potrebbe alludere al contesto del giudizio,
dove Dio, il giudice, è colui che «scruta i cuori e penetra nell'in
timo ogni pensiero» ( 1 Cr 28, 9; cf. l Cor 4, 5; Eb 4, 13 ) . Ma que-
81
sta interpretazione non si armonizza con il contesto immediato
della Lettera, dove l'autore intende rassicurare i destinatari circa
la loro identità profonda vincendo le perplessità e le paure del lo
ro cuore: «In questo sappiamo che siamo dalla verità, e davanti a
lui convinceremo il nostro cuore . . . che Dio è più grande del no
stro cuore . . . » ( 1 Gv 3 , 19). Questo intento trova conferma in
quello che segue immediatamente, dove, riprendendo l'ipotesi
delle possibili accuse o condanne del "nostro cuore", si parla di
parrhesia, "fiducia" , "sicurezza" nei confronti di Dio ( l Gv 3 , 2 1 ) .
Questo atteggiamento spirituale positivo è avallato dall'esperien
za della preghiera, accompagnata dalla custodia pratica dei co
mandamenti di Dio e da un modo di vivere conforme alla sua vo
lontà ( 1 Gv 3 , 22) . Il termine parrhesia, anche se non è estraneo al
contesto del giudizio (cf. 1 Gv 2, 28; 4, 17 ) , ricompare in seguito
in un contesto analogo dove si parla dell'efficacia della preghiera
( l Gv 5 , 14- 15).
D tema della preghiera efficace rimanda alle sentenze di Gesù
conservate nella tradizione comune (Mt 7, 7 -8; Gv 14, 13 -14; 15 ,
7. 16; 16, 23 -24.26) . Rispetto a questa tradizione la novità del testo
della l Gv sta nella motivazione della preghiera efficace: la custo
dia dei comandamenti e l'attuazione di quello che è gradito a Dio.
In effetti il rapporto tra preghiera e compimento della volontà di
Dio corrisponde alle parole di Gesù che promette ai discepoli che
sarà dato "quel che chiederete nel mio nome" , cioè in piena co
munione con il suo statuto di Figlio. In altri termini la preghiera è
esaudita nel momento stesso in cui si realizza il suo scopo intrin
seco che consiste nella piena sintonia dell'orante con la volontà di
Dio. In tale contesto non ha senso parlare di "giudizio" davanti a
Dio che " conosce ogni cosa" per emanare una sentenza severa e
senza appello. Invece l'affermazione che Dio è più grande del no
stro cuore, perché conosce anche i sentimenti più profondi e na
scosti, fonda la fiducia dei credenti che si esprime nella preghiera
per attuare la sua volontà. In altre parole chi si impegna in una
prassi di amore attivo e solidale verso i fratelli bisognosi non deve
lasciarsi prendere da dubbi e paure, perché Dio è più grande di
82
ogni pensiero e progetto umano e conosce le intenzioni profonde
di ogni persona.
Questo orientamento positivo del discorso nel senso di esorta
re alla fiducia nel rapporto con Dio e di sostenere ogni impegno
pratico - custodire i comandamenti - si prolunga nella parte fina
le che assume gli accenti della promessa. Prima di tutto l'autore
precisa il contenuto essenziale del comandamento. Esso abbraccia
in modo indissociabile due aspetti: la fede in Gesù Cristo, il Figlio
di Dio e l'amore reciproco. Sono le due dimensione dello statuto
o carta costituzionale dei cristiani: la dimensione verticale, che si
esprime e si attua nella fede cristologica, e la dimensione orizzon
tale, che si vive nei rapporti di amore reciproco nella comunità dei
fratelli. L'autore adopera il verbo pisteuein, "credere" , per esprime
l'aspetto relazionale e dinamico della fede in Gesù Cristo, ricono
sciuto e accolto nella sua realtà personale - "nome" - come Figlio
di Dio (cf. 1 Gv 3 , 22) . Su questa relazione vitale con Gesù Cristo,
il Figlio di Dio, si fonda l'amore di reciproco scambio tra i fratelli,
partecipi del stesso statuto filiale.
Dato questo nesso tra il credere e l'amare l'autore può parlare
del "suo " comandamento perché è dato da Dio (1 Gv 3 , 23 ). Allo
stesso modo può affermare che lo Spirito è dato da Dio come cri
terio di riconoscimento della sua presenza permanente in chi cu
stodisce e pratica i suoi comandamenti ( l Gv 3 , 24) . La dialettica
tra il comandamento, al singolare, e i comandamenti, al plurale -
per lo più connessi con il verbo terein, "custodire" - riecheggia il
linguaggio di alleanza del Deuteronomio, ripreso nel Quarto Van
gelo (Gv 14, 15.2 1 .24; 15, 10. 12) . n " comandamento" è lo statuto
dei credenti, che si esprime e attua nelle molteplici concretizzazio
ni della volontà di Dio condensate nell'amore. Ma anche la custo
dia dei comandamenti, condizione per essere in comunione con
Dio, ha una dimensione interiore grazie al dono dello Spirito, che,
come la parola e il crisma, è la garanzia e il sigillo del rapporto di
alleanza (cf. Ez 36, 26-27 ; l Gv 2, 14.20.27). La formula biblica del
l' alleanza - «lo sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» - nel
la tradizione giovannea viene trascritta in termini di reciproca im-
83
manenza: «rimane in me e io in lui» (cf. Gv 6, 56; 14, 20; 15, 5 .7 . 10).
In questa esperienza si compiono le promesse bibliche per il tempo
finale circa la dimora permanente di Dio in mezzo al suo popolo.
Con queste dichiarazioni il discorso di incoraggiamento ed
esortazione raggiunge il suo apice. TI confronto con gli avversari
che hanno lasciato la comunità, creando scompiglio e disorienta
mento, sta sullo sfondo e serve da sponda per rilanciare gli appel
li e gli inviti positivi. Quelli che odiano o non amano i fratelli, rap
presentati da Caino, non solo sono estranei alla vita, ma minaccia
no la morte e restano nella morte. Essi non si lasciano coinvolgere
dall'amore di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo, suo Figlio,
nel dono della vita. Infatti, pur avendo a disposizione beni mate
riali e potere, restano insensibili di fronte alle necessità dei fratelli.
Si illudono di amare facendo bei discorsi.
Al gruppo dei fedeli, rimasti nella comunità, l'autore propone
una verifica della propria prassi di amore davanti a Dio. Non de
vono lasciarsi sopraffare dai dubbi e dalle paure che vengono dal
loro cuore. Se si lasciano guidare dalla "verità" che viene da Dio,
come manifestazione del suo amore in Gesù Cristo suo Figlio, pos
sono accostarsi a Dio con piena fiducia sapendo di essere esauditi
nella loro preghiera, fatta conforme alla sua volontà. Ma la radice
ultima della fiducia è il loro statuto di credenti. Esso è un dono di
Dio come il suo Spirito, che conferma e porta a compimento la co
munione dei credenti tra loro e con lui.
84
siete da Dio, figlioli, 4b e li avete vint� 4c perché quello che è in voi
è più grande 4d che non quello (che è) nel mondo. 5a Essi sono dal
mondo, 5h per questo parlano dal mondo, 5 c e il mondo li ascolta.
6a Noi siamo da Dio, 6b chi conosce Dio a· ascolta, 6c colui che è non
da Dio non ci ascolta. 6d Da questo riconosciamo 6e lo spirito della
verità e lo spirito dell'inganno.
85
tivo. L'autore si rivolge ai suoi interlocutori con il pronome perso
nale hymeis, "voi ", distinto dal gruppo negativo designato con il
pronome autoi, "quelli/essi" (l Gv 4, 4.5a) . Normalmente con il
pronome di prima persona plurale egli include anche i destinatari
della Lettera, quando non intende mettere in risalto il ruolo auto
revole dei testimoni e annunciatori della parola ( l Gv 4, 6a) . L'i
dentità e le relazioni dei vari protagonisti sono descritte in massi
ma parte con il ricorso al verbo einai, "essere", nella forma tem
porale del presente, con nove ricorrenze complessive. Per precisa
re le loro azioni e reazioni l'autore utilizza relativamente pochi ver
bi, tra i quali spiccano akouein, "ascoltare" (quattro volte) , gino
skein, " conoscere" (tre volte) , érchesthai, "venire" (una volta) e il
composto exérchestai, "uscire" (una volta) . Nella strategia comu
nicativa del testo un ruolo particolare è assegnato al verbo della
professione di fede homologein, "confessare", associato a Gesù
Cristo ( l Gv 4, 2b.3 a).
86
Analisi del testo
87
- dello spirito si può verificare sulla base della professione di fede
in cui si riconosce e proclama apertamente: " Gesù (è) Cristo ve
nuto nella carne", oppure: "Gesù Cristo (è) venuto nella carne" . ll
testo - nell'originale senza il verbo estin, "è" - può essere letto in
modo plausibile sia nel primo senso, in cui si afferma l'identità tra
Gesù e il Cristo venuto nella carne, sia nel secondo, dove si pone
l'accento sulla venuta nella carne di Gesù Cristo. Tenendo conto
del contesto più ampio della Lettera questa seconda interpretazio
ne è preferibile. L'autore infatti insiste sulla venuta di Gesù Cristo,
il Figlio di Dio, nel "sangue" , con un riferimento esplicito alla sua
morte redentrice (1 Gv 5, 5 -8; cf. l , 7 ; 2, 2; 4 , 10) . Del resto nel
Quarto Vangelo con il vocabolo stirx, "carne" , che indica la fragi
lità mortale dell'essere umano, si esprime la fede nella incarnazio
ne del l6gos che si dona per la vita del mondo (Gv l , 14 ; 6, 5 1 ) .
L o stesso criterio della professione di fede cristologica viene
riproposto in forma negativa, in una specie di controprova: «Ogni
spirito che non confessa (il) Gesù non è da Dio» ( l Gv 4, 3 ab) .
Quello che attira l'attenzione in questa formulazione della fede è il
complemento oggetto del verbo homologein, " confessare" : tòn Ie
soun, "il Gesù " , dove l'accento è posto sul nome di "Gesù" prece
duto dall'articolo. In questa seconda professione di fede, al posto
della costruzione participiale della frase precedente - "venuto nel
la carne" - si sostituisce il nome storico di Gesù senza l'appellati
vo Christ6s. TI participio perfetto del verbo érchestai, "venire" , sot
tolinea un evento che perdura nel tempo. In breve quello che è ve
nuto nella carne è "il Gesù" , oggetto della proclamazione di fede
cristiana.
L'autore si premura di mettere in risalto la conseguenza che si
deve trarre da questa verifica dello spirito sulla base della profes
sione di fede cristiana. Chi non confessa (il) Gesù, non può essere
ispirato da Dio, ma dall'anticristo. E subito precisa che lo spirito
dell'anticristo "viene nel mondo" , anzi è già presente e attivo. Non
può sfuggire il parallelismo antitetico tra la venuta, irreversibile di
Gesù Cristo, e quella dell'anticristo, che si manifesta e opera con
la comparsa nel mondo di molti falsi profeti. Si tratta di una real-
88
tà o esperienza della quale i destinatari della Lettera sono al cor
rente perché è connessa con la tradizione relativa al tempo finale o
ultima ora (cf. l Gv 2 , 18).
L'obiettivo perseguito dall'autore non è solo quello di allerta
re i fedeli di fronte al pericolo dei falsi profeti, ma di rassicurarli:
«Voi siete da Dio, figlioli . . . » ( l Gv 4, 4a) . Egli infatti riprende l'ap
pellativo familiare teknia, "figlioli" , per confermare il loro statuto
di figli di Dio, che sta all'origine della loro vittoria sui falsi profe
ti, rappresentanti dell'anticristo. Anche in questo caso il ricorso al
tempo perfetto del verbo nikan, "vincere", sottolinea un fatto già
compiuto che perdura nei suoi effetti. La stessa cosa era stata det
ta dei "giovani" che hanno vinto il maligno perché in essi rimane
la parola di Dio ( l Gv 2, 13 . 14cd). Ora si afferma che i fedeli sono
vittoriosi rispetto ai falsi propagandisti, perché in essi è presente in
modo stabile e definitivo una forza spirituale che è più grande di
quella che opera nella sfera mondana.
Tuttavia resta da chiarire un problema che interpella e mette
in crisi il gruppo dei fedeli. Essi sono impressionati per il successo
o l'audience che hanno i falsi profeti. L'autore della Lettera preci
sa che essi non solo appartengono al sistema mondano, ma predi
cano in sintonia con tale sistema e, ovviamente, trovano il consen
so presso quelli che ne condividono l'appartenenza e l'identità. A
questa esperienza del fronte avversario egli contrappone quella dei
testimoni e annunciatori della parola che sta all'origine della co
munità dei fedeli: «Noi siamo da Dio . . . ». Il "noi" non include i de
stinatari, già menzionati sopra - «Voi siete da Dio» - ma il gruppo
autorevole di quelli che hanno trasmesso loro l'esperienza origina
ria della parola. Infatti i fedeli sono indicati subito dopo con la fra
se: «chi conosce Dio ci ascolta» (l Gv 4, 6b) .
n discorso si conclude con la ripresa della dichiarazione ini
ziale circa il riconoscimento, ma leggermente modificata per in
eludervi le argomentazioni appena presentate: «Da questo rico
nosciamo . . . » ( l Gv 4 , 6d) . Nella formulazione finale l'oggetto del
riconoscere è lo "spirito di verità" che corrisponde allo "spirito di
Dio" di quella iniziale ( l Gv 4, 2a) . Allo " spirito di verità" ora si
89
contrappone lo "spirito di inganno" , che riassume l'attività nega
tiva e pericolosa dei falsi profeti. Nell'espressione "spirito di veri
tà" si avverte l'eco della tradizione giovannea, dove allo Spirito,
promesso e donato tramite Gesù, si assegna il ruolo di maestro e
guida interiore (Gv 14, 17 .26; 16, 1 3 ) . Nella Lettera lo stesso ruo
lo è affidato al crisma che è un sicuro antidoto per neutralizzare
l'influenza nefasta di quelli che cercano di ingannare i fedeli ( 1 Gv
2, 26-27) . L'idea di seduzione e inganno dei falsi profeti è con
densata nella formula "spirito di inganno", antagonista dello " spi
rito di verità" .
In questo brano l'autore mette in atto l a sua strategia comuni
cativa con un duplice obiettivo: da una parte denunciare e sma
scherare l'azione degli avversari, che si appellano allo spirito di
Dio per ottenete il consenso presso i loro uditori, e dall 'altra inco
raggiare e rassicurare il gruppo dei fedeli fornendo loro alcuni cri
teri per confermare la propria scelta di fede. Non è in gioco solo
una questione di appartenenza o di identità cristiana. Neppure si
tratta solo di uno scontro tra diversi gruppi o comunità cristiane
che si contendono i clienti. La vera posta in gioco è la professione
di fede in Gesù Cristo venuto nella carne. Questa fede, che sta al
la base dello statuto dei cristiani, si verifica e si attua in una prassi
di amore fraterno e solidale. Questo è l'argomento che sarà svi
luppato nel seguito del discorso epistolare.
X. «DIO È AMORE»
( 1 Gv 4, 7-2 1 )
90
Figlio espiazione per i nostri peccati. l l a Carissimt� se così Dio ci ha
amatt� I l h anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Ila Dio nes
suno l'ha mai visto. 1 2h Se ci amiamo gli uni gli altrt� ll c Dio rima
ne in noi 12 d e il suo amore in noi è giunto al compimento. 1 3 a In
questo conosciamo I Jb che rimaniamo in lui ed egli in noz� l 3 c dal
fatto che ci ha dato dal suo Spirito. 14 8 E noi abbiamo visto e testi
moniamo 14h che il Padre ha mandato il suo Figlio salvatore del
mondo. l5 a Chi confessa che Gesù è il Figlio di Dio, 15h Dio rimane
in lui egli in Dio. 168 E noi abbiamo conosciuto e crediamo l'amore
I 6h che Dio ha in noi. l 6c Dio è amore, 16d e chi rimane nell'amore,
I6e rimane in Dio e Dio rimane in lui. 17 8 In questo l'amore è giun
to al compimento in mezzo a noz� 17h per avere fiducia nel giorno
del giudizio, 1 7c poiché come egli è, 1 7 d anche noi siamo in questo
mondo. lSa Paura non esiste nell'amore, lBb ma l'amore completo
caccia fuori la paura, l Bc perché la paura ha il castigo, l Sd chi ha pau
ra non è giunto al compimento nell'amore. 1 98 Noi amiamo,
1 9h perché egli per primo ci ha amati. 208 Se qualcuno dice: 20h
((A mo Dio" e odia il suo fratello, 20c è menzognero; 2 0d in/atti chi
non ama il suo fratello che ha visto, lOe non può amare Dio che non
ha visto. 21 8 E questo comandamento abbiamo da lui: 2 1 h chi ama
Dio, ami anche il suo fratello.
91
primi dodici versetti e negli ultimi tre, mentre il sostantivo è dis
tribuito con diversa intensità in tutto il brano.
Spesso il lessico dell'amore è usato in senso assoluto, cioè sen
za precisare a chi si rivolge l'amore. Un paio di volte il comple
mento oggetto del verbo amare o i destinatari dell'amore sono in
dicati con il pronome personale hemeis, " noi " , all'accusativo, he
mas, oppure con il sintagma en hymin, "in noi" , e meth'hemon,
"in mezzo a noi" ( l Gv 4 , 16b. 17a) . In tre casi il verbo è accom
pagnato dal pronome personale di reciprocitià allelon, "gli uni gli
altri" ( l Gv 4, 1a. l lb. 12b). In altri l'oggetto dell'amore è Dio e il
fratello ( l Gv 4, 20.2 1 ) . Invece il soggetto dell'amore è quasi sem
pre esplicitato: il più delle volte è Dio e negli altri casi è il gruppo
designato con il pronome hemeis, "noi" . Il dinamismo dell'amore
è rimarcato mediante il verbo teloiousthai, nella forma verbale del
perfetto passivo (l Gv 4 , 12d. 17a. 18d). Allo stesso ambito lessi
cale appartiene l'aggettivo téleios, "perfetto" , che qualifica l'amo
re ( l Gv 4, 18b) .
Nell'area semantica dell'agape si colloca anche il termine par
rhesia, "fiducia" contrapposto a phobos, "paura" e al verbo pho
beisthai, "avere paura" ( 1 Gv 4, 17b. 18). L'antitesi "fiducia/paura"
è associata al "giorno del giudizio". Parimenti il verbo "amare" si
contrappone non solo all'espressione "non amare", ma anche al
l'unica ricorrenza del verbo misein, "odiare" ( l Gv 4, 20b) . Si de
ve inoltre rilevare che in tutta la sezione l'unica ricorrenza del vo
cabolo entole, "comandamento" , si trova alla fine, dove sono uni
ti insieme l'amore di Dio e del proprio fratello ( 1 Gv 4, 2 1 ) .
Altri due termini che danno l'intonazione tematica alla sezio
ne sono il verbo ménein, "rimanere" - cinque volte -, e il verbo gi
noskein, " conoscere", utilizzato quattro volte. Le ricorrenze del
verbo ménein si trovano nella parte centrale (l Gv 4, 12-16). TI ver
bo "conoscere" compare nel versetto iniziale e in due versetti cen
trali ( 1 Gv 4 , 13a. 16a). TI quadro lessicale può çssere completato
con la menzione dei verbi connessi con il campo semantico del
"vedere" , richiamato da theasthai, "contemplare" - due volte -, e
horan, "vedere" (l Gv 4, 12a. l4a.20de). Nella stessa area gravita
92
l'unica ricorrenza del verbo phanerousthai, "manifestarsi", riferito
all'amore di Dio ( l Gv 4, 9a) .
Una menzione particolare per cogliere l'articolazione del testo
merita la formula dell'invio che compare tre volte con il verbo dd
la tradizione giovannea apostéllein, "inviare", due volte nella forma
del perfetto e una all 'aoristo (l Gv 4, 9b. 1 0d. 14b) . TI soggetto che
invia due volte è ho Theos, "Dio" e una volta ho Pater, "il Padre".
L'inviato è "il suo Figlio", qualificato come ho Monogenes, "l'Uni
genito" , hilasmos perì hamartion hemon, "espiazione per i nostri
peccati" e ho soter tou kosmou, "salvatore del mondo" . All'invio del
Figlio corrisponde il dono del Pneuma, " Spirito", fatto da Dio ai
credenti ( l Gv 4, 13c). In questo ambito dell'azione dei protagoni
sti divini si colloca anche la professione di fede - con il verbo ho
mologein - che riguarda Gesù, "il figlio di Dio" ( l Gv 4, 15a).
93
- l Gv 4, 19-2 1 : l'amore di Dio rende possibile il nostro amo
re: separare l'amore a Dio, che non si vede, dall'amore al fratello
che si vede, è in contraddizione con il suo comandamento che ri
guarda l'amore a Dio e al proprio fratello.
94
una definizione della natura di Dio, che nessuno è in grado di son
dare, con queste formule si esprime l'esperienza che se ne può fa
re grazie alla sua rivelazione in Gesù Cristo. Anche la scelta del
lessico dell' agape rientra nella tradizione linguistica della rivela
zione biblica che privilegia questa terminologia rispetto a quella
greca dell'eros e della philia. Nel contesto dell'alleanza Dio si ri
vela come il Dio fedele che non viene meno al suo amore leale e
misericordioso.
Infatti l'autore della Lettera, dopo la dichiarazione «Dio è
amore», introduce la prima delle tre formule sull'invio del Figlio:
«In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi» ( l Gv 4, 9a) . In
altre parole l'amore di Dio, non è altro che l'amore che viene da
Dio. Con una fraseologia che ricorre ben dodici volte nella Lette
ra - «in questo . . » - si risale alla manifestazione storica dell'amo
.
95
nica ricorrenza del verbo zen, "vivere" , che si innesta su un tema
ricorrente nell'ambiente del Quarto Vangelo. L'esperienza che sta
all'origine della comunità dei credenti è la manifestazione della pa
rola della vita, quella che era presso il Padre ( 1 Gv 4, 1-2). In que
sto caso il passaggio dal mondo - universalità antropologica - de
stinatario dell'invio del Figlio, al gruppo "noi", vuole precisare che
la condizione per avere la vita è l'accoglienza del Figlio come ma
nifestazione dell'amore di Dio.
Infatti la prima formula dell'invio viene ripresa ed esplicitata
con una nuova dichiarazione, introdotta allo stesso modo: «In que
sto consiste l'amore . . . egli ha mandato il suo Figlio espiazione per
i nostri peccati» (l Gv 4, 9). Ma ancora una volta l'autore pone
l'accento sul fatto che il dinamismo dell'amore ha una sola dire
zione: da Dio a noi e non viceversa. La conferma di questa espe
rienza è l'invio del Figlio di Dio, presentato come hilasm6s, "espia
zione" . Dall'accostamento delle due dichiarazioni sull'invio del Fi
glio si intuisce che il termine "espiazione" prende il posto della
qualifica "Unigenito" e precisa in che modo i credenti vivono per
mezzo di lui. n vocabolo hilasm6s, è riferito al ruolo intercesso re
di Gesù presso il Padre con lo scopo di eliminare non solo i pec
cati della comunità dei credenti, ma quelli di tutto il mondo (l Gv
2, 1 -2). La stessa efficacia redentiva è attribuita al "sangue" di Ge
sù, il Figlio di Dio, che purifica da ogni peccato (l Gv l , 7). La ca
tegoria dell'espiazione evoca il perdono totale e definitivo dei pec
cati che awiene per mezzo della morte di Gesù, il Figlio inviato da
Dio nel mondo. In altre parole lo scopo e l'esito dell'iniziativa del
l' amore di Dio, che invia il suo Figlio, è la eliminazione dei nostri
peccati per realizzare la piena comunione di vita con lui.
La conseguenza di questa presa di coscienza della manifesta
zione dell'amore di Dio è un impegno all'amore reciproco. L'auto
re riprende l'appellativo iniziale, agapetoi, "carissimi", e, in una
chiara forma di inclusione, dice: «Se così Dio ci ha amati, anche
noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4, l l b) . Prima di es
sere un dovere imposto, l'amore è un dono offerto da Dio. L' av
verbio greco houtos, "così" , richiama l'attenzione sulla qualità e in-
96
tensità dell'amore di Dio manifestato nell 'invio del Figlio, culmi
nante nel dono della sua vita per eliminare i nostri peccati. Con
questa precisazione la frase della Lettera è un calco di quella del
Quarto Vangelo: «Dio infatti ha tanto houtos amato il mondo
- -
97
vannea dell'immanenza reciproca tra Dio e i credenti, ripresa in
questa sezione per tre volte, ricalca quella dell'alleanza eterna di
Dio: «lo sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ez 3 7 , 27 ).
n profeta Ezechiele associa la promessa dell'alleanza definitiva di
Dio con il dono dello Spirito posto nell'intimo per rinnovare il
cuore (Ez 3 6, 26-28) . Precisamente a questo punto, per la seconda
volta nel corso della Lettera, l'autore menziona il dono dello Spi
rito, che conferma e sigilla la reciproca immanenza di Dio e dei
credenti (cf. l Gv 3 , 24). Lo Spirito di Dio è una realtà alla quale i
fedeli, per libera iniziativa di Dio, prendono parte. L'autore rileva
questo aspetto della "partecipazione" perché non dice semplice
mente che Dio ci ha dato il suo Spirito, ma ci ha dato dal greco -
98
separabile dal Figlio di Dio (cf. 1 Gv 5 , 5 ) . Solo chi mantiene que
sta genuina professione di fede cristologica può contare sulla pro
messa di Dio che rimane nel credente come il credente rimane in
lui (cf. Gv 6, 56; 14, 20) .
La riflessione sull'esperienza dell'amore si chiude con l' affer
mazione che fa perno su due verbi della tradizione giovannea: «E
noi abbiamo conosciuto e crediamo l'amore . . . » (1 Gv 4, 16a; cf.
Gv 6, 69) . Rispetto al linguaggio del Quarto Vangelo l'autore del
la Lettera premette il verbo "conoscere" , nella forma del perfetto
per suggerire l'idea di un'esperienza che perdura nei suoi effetti.
L'unico complemento oggetto del conoscere e credere - quest'ul
timo al tempo presente - è l'amore, precisando che si tratta dell'a
more che Dio ha "in noi" (en hemin) . La lettura più owia di que
sta strana fraseologia sarebbe quella di equiparare le due preposi
zioni greche: en/eis, "in/verso" (di noi) . Ma forse l'autore vuole
suggerire un altro aspetto dell'esperienza dell'amore che parte da
Dio. Esso si manifesta nell'invio del suo Figlio e si rende presente
e attivo "in mezzo" o tra i credenti come amore reciproco.
A questo punto anche la seconda affermazione: «Dio è amo
re», non è una semplice ripetizione della precedente (l Gv 4 , 8b)
ma si carica della nuova valenza che assume l'amore grazie alla sua
manifestazione nell'invio del Figlio unigenito, espiazione per i no
stri peccati e salvatore del mondo. Allora l'autore può concludere
la parte centrale della sua meditazione sull'amore con una terza di
chiarazione sulla presenza permanente di Dio in chi rimane nell'a
more ( l Gv 4, 16de) .
Prima di chiudere il suo discorso con alcune precisazioni sul
rapporto tra amore a Dio e amore al fratello, l'autore apre una pa
rentesi sulla prospettiva escatologica dell'amore. Riprende la dichia
razione precedente relativa al compimento o pienezza dell'amore di
Dio in noi e la colloca nell'orizzonte del "giorno del giudizio" ( l Gv
4, 12d. 17ab) . L'idea di compimento, espressa con il verbo al perfet
to passivo - teteleiotai, "è giunto al compimento" - fa capire che il
compimento è non una prestazione umana, ma esso dipende dall'i
niziativa di Dio che opera "in mezzo a noi". Lo scopo e il frutto di
99
questo compimento dell'amore è la pa"hesia, la fiducia e sicurezza
nel giorno del giudizio di Dio (cf. l Gv 2, 2; Sap 5, l ) .
Un secondo elemento che sta alla base della sicurezza davanti
a Dio giudice è il riferimento a Gesù Cristo: «poiché come egli è,
anche noi siamo in questo mondo» (l Gv 4, 17cd). TI pronome
ekeinos, con il riferimento alla realtà storica - "in questo mondo"
- fa pensare alla figura e al ruolo di Gesù Cristo. Prima di tutto egli
è il nostro intercessore presso il Padre ( l Gv 2, 1 ) . Inoltre quelli
che vogliono restare uniti a Gesù Cristo, in attesa della piena co
munione finale, devono riprodurre il suo modo di comportarsi da
Figlio fedele e puro ( l Gv 2 , 6; 3 , 3).
Il giudizio di Dio richiama la categoria della paura di fronte a
una possibile sentenza di condanna. In termini espliciti l'autore af
ferma che paura e amore sono incompatibili. Se veramente l'amo
re è completo nel senso che è giunto al compimento, elimina radi
calmente e per sempre la paura. Non è una questione di sentimen
ti o di stato d'animo, ma un'esperienza religiosa che si colloca nel
l'orizzonte escatologico. Infatti la "paura " e l'espressione "caccia
re fuori" , evocano il contesto del giudizio finale (cf. Is 2, 19; Gl 3 ,
4; Abd l , 15 ; Mt 25, 30). Questa insistenza dell'autore sulla esclu
sione della paura di fronte al giudizio quando l'amore è giunto al
compimento, conferma l'idea che non si tratta di una perfezione di
tipo psicologico o morale, ma di una pienezza escatologica, dove
sono decisive l'iniziativa e l'azione di Dio.
Questo fatto non esclude, anzi fonda ed esige la risposta da
parte dei fedeli. Nell'ultima parte del suo discorso l'autore affron
ta questo aspetto pratico ponendo l'accento sull'unità inscindibile
tra amore a Dio e al fratello. Prima di tutto parte da una constata
zione che riassume il discorso precedente sull'esperienza dell'a
more: «Noi amiamo . » (l Gv 4, 19a). La posizione enfatica del
. .
pronome "noi" depone a favore della lettura del testo come una
parola di rassicurazione, più che un comando o invito ad amare.
Per sé la forma verbale agapomen si presta a tutte e due le letture.
In ogni caso quello che sta cuore a chi scrive è richiamare un aspet
to fondamentale del suo discorso: nel processo di amore la priori-
100
tà assoluta spetta al Padre «che ci ha amati» (cf. 1 Gv 4, 9-
10. 1 1 a. 14b).
Dopo questa frase riassuntiva e programmatica egli presenta
un caso che nella sua formulazione ricorda il dibattito con gli av
versari: «Se qualcuno dice . . . » (cf. 1 Gv l , 6.8. 10; 2, 4 .6.9). Anche
l'appellativo "menzognero", dato a chi separa l'amore a Dio dal
l'amore al fratello - anzi "odia suo fratello" � conferma il contesto
dello scontro con un rappresentante dei secessionisti che dicono di
conoscere Dio, ma non custodiscono e praticano i suoi comanda
menti ( 1 Gv 2, 4; d. 2, 22; 3, 15). La menzogna di chi pretende di
amare Dio mentre odia - non ama - il suo fratello è esplicitata me
diante il confronto tra l'amore a Dio che non si può vedere e l'a�
more al fratello che invece si vede (cf. l Gv 3, 17). Non si tratta so
lo di una contraddizione, ma della negazione della verità o dello
statuto dei credenti. Infatti il comandamento ricevuto da Dio uni
sce insieme la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, e l'amore reci
proco ( 1 Gv 3 , 23 ). Alla fine l'autore riporta il comandamento do
ve l'amore a Dio è speculare a quello verso il proprio fratello. Egli
fa risalire questo comando a Dio, anche se l'accostamento dell'a
more a Dio e al prossimo, nella tradizione evangelica, risale a Ge
sù (cf. Mt 22, 37 -39).
Dal momento che il fascino di questa pagina è legato all'e
spressione «Dio è amore», il rischio è di estrapolarla dal suo con
testo, per fame uno slogan che si presta a tutte le manipolazioni.
L'amore di cui si parla non è uno stato d'animo e neppure un im
pulso o trasporto istintivo verso qualcuno o qualcosa. L'amore, che
ha la sua origine in Dio, assume il volto di Gesù Cristo, il Figlio in
viato da Dio Padre come spazio di perdono dei peccati e salvatore
di tutti gli uomini. L'esperienza di questo amore che viene da Dio
ed è accolto nella fede, è inseparabile dall'impegno a viverlo nei
rapporti di amore scambievole tra le persone. n primo ambito di
realizzazione dell'amore reciproco è quello delle relazioni comuni
tarie o tra i fratelli di fede. L'insistenza su questo aspetto intraec
clesiale dell'amore deriva dalla situazione concreta della comunità
cristiana alla quale è indirizzata la Lettera. È una comunità minac-
101
ciata dalle divisioni all'interno e dalle pressioni ostili sul fronte
esterno. Ma l'esperienza dell'amore di Dio, manifestato nell'invio
del suo Figlio Gesù Cristo come salvatore del mondo, tiene aper
to l'orizzonte della prassi di amore, che potenzialmente abbraccia
tutti gli esseri umani.
logia della fede è presente in tutto il brano, dal verbo pisteuein, "ere-
102
dere" - cinque volte - al sostantivo pistis, "fede", unica ricorrenza
in tutta la Lettera (l Gv 5 , 4d) . Intrecciato con questo lessico è quel
lo dell'amore, a partire dal verbo agapan, "amare" , quattro volte, al
termine agape, "amore", una sola volta (l Gv 5, 3a). Nell'area se
mantica della fede e dell'amore si collocano anche le quattro ricor
renze del verbo gennan, "generare", utilizzato per lo più nella forma
verbale del perfetto sia per indicare Dio che genera, sia quelli che so
no generati da lui, chiamati anche con un'espressione più corrente
tà tékna tou Theou, "i figli di Dio" (l Gv 5, 2a) . Nello stesso ambi
to rientrano le espressioni relative ai comandamenti: "custodire/pra
ticare i comandamenti" ( l Gv 5, 2h.3bc) .
Il verbo nikan, "vincere" - tre volte - e il sostantivo nike, "vit
toria" , - una sola volta - associati al participio del verbo generare
e alla fede, delimitano una seconda area semantica ( l Gv 5 , 4-5).
La vittoria di chi è generato da Dio o del credente riguarda il si
stema mondano, indicato con la triplice ricorrenza del sintagma ho
kosmos,
, "il mondo , .
Un terzo campo semantico è definito dalla terminologia della
testimonianza, ampiamente documentata, sia con le sei ricorrenze
del sostantivo martyria, "testimonianza" , sia con quelle del verbo
martyrein, quattro volte (l Gv 5 , 6- 10. 1 1 a). Con il lessico della te
stimonianza sono connessi tre termini scanditi con particolare in-
.
ststenza: hyaor,
'J " acqua " - quattro volte -, hatma,
, " sangue - tre
,
103
Per quanto riguarda lo stile vanno segnalate le frasi di tipo de
finitorio che iniziano con il dimostrativo haute: "Questo è l'amore
di Dio . . . questa è la vittoria . . . questa è la testimonianza . . " ( l Gv
.
casi le frasi sono collegate tra loro mediante la ripresa di uno stes
so termine, oppure attraverso il parallelismo antitetico dei termini
o categorie.
104
prologo, si dice che quelli che credono nel suo nome (Gesù Cristo)
«sono stati generati da Dio» (Gv l , 12- 13 ). Nella Lettera si preci
sa che è generato da Dio "chi pratica la giustizia" , e "chi ama" ( l
Gv 4, 29; 4,7).
La dichiarazione programmatica iniziale fa da sfondo alla suc
cessiva costruita con i participi del verbo "generare " : «E chiunque
ama colui che genera (Dio) , ami - agapa-i, letto come congiuntivo
- [anche] chi è da lui generato (il figlio)» (l Gv 5 , l ed) . Se la pri
ma perifrasi participiale si riferisce a Dio, il Padre che genera, la
seconda, al singolare, potrebbe alludere al Figlio unico che è da lui
generato. Ma la frase che segue immediatamente fa capire che si
tratta dei "figli di Dio" che devono essere amati (l Gv 5 , 2a). Per
la seconda l'autore richiama l'attenzione sul fatto che l'amore a
Dio abbraccia anche i suoi figli. In questo consiste la pratica effet
tiva dei comandamenti ( l Gv 5 , 2b) . La stessa cosa viene ripetuta
nella terza affermazione relativa all'amore verso Dio che «consiste
nel custodire i suoi comandamenti». A questa frase si salda, me
diante la tecnica della parola-gancio, la dichiarazione che <<i suoi
comandamenti non sono oppressivi» ( l Gv 5 , 3c).
Quest'ultima osservazione, che sembra superflua o fuori con�
testo, potrebbe chiarire le affermazioni precedenti, soprattutto
quella relativa all ' amore verso Dio, proposto come criterio per ve
rificare l'amore ai figli di Dio. Questo modo di pensare e di parla
re a prima vista sembra che non si accordi con quanto l'autore ha
scritto precedentemente circa il rapporto tra amore a Dio e al fra
tello. In realtà egli afferma che l'amore abbraccia in modo inscin
dibile Dio e il fratello. In un nuovo contesto riprende questo tema
per sottolineare che nell'ambito dell'amore a Dio, il Padre, rientra
anche l'amore ai suoi figli. Sono due modi di amare non solo in
dissociabili, ma simultanei. Solo in questa unità profonda dell'a
more a Dio e ai suoi figli si custodiscono in modo effettivo e pra
tico i suoi comandamenti. Dunque il contenuto dei comandamen
ti di Dio è l'amore che si rivolge nello stesso tempo al Padre che
genera e ai suoi figli. Sotto questo aspetto si può dire che i co
mandamenti di Dio non sono oppressivi perché esprimono lo stes-
105
so dinamismo di amore che caratterizza l'identità del credente, ge
nerato da Dio. In breve custodire i comandamenti o attuare l'a
more a Dio e ai suoi figli, è l'altra faccia della fede in Gesù Cristo.
L'autore ora può esplicitare il motivo che sta alla base della sua
affermazione sui comandamenti di Dio che "non sono oppressivi"
dicendo che il credente, cioè chiunque è generato da Dio - il neu
tro esprime la totalità senza limiti - vince il sistema antagonista
chiamato "il mondo" (l Gv 5, 4ab). La vittoria sul maligno carat
terizza i fedeli che sono forti perché la parola di Dio rimane in lo
ro. In pratica essi sono in grado di opporsi al sistema mondano che
sta sotto il controllo del maligno ( 1 Gv 2, 14-15; cf. 5, 19). Quelli
che per la loro fede genuina appartengono a Dio e hanno da lui la
forza possono opporsi vittoriosamente a quanti sono nel mondo,
cioè ai falsi profeti che non riconoscono Gesù Cristo venuto nella
carne ( l Gv 4, 2.4). Lo stesso discorso vale ora per chi crede che
Gesù è il Figlio di Dio. L'autore ribadisce che la vittoria sul mon
do dipende dalla fede caratterizzata dal suo contenuto: «Gesù è il
Figlio di Dio» ( l Gv 5 , 4-5 ) . Questa professione di fede è simme
trica a quella di apertura della sezione, dove si dice che il creden
te proclama: «Gesù è il Cristo».
Nella parte centrale della sezione sono riunite alcune precisa
zioni relative alla fede in Gesù, il Figlio di Dio. Egli è il soggetto
della frase: «Questi è colui che è venuto per mezzo di acqua e di
sangue . . » ( l Gv 5, 6ab). Nell'espressione "è venuto" si avverte
.
l'eco del dibattito con quelli che non riconoscono Gesù venuto
nella carne ( l Gv 4, 2). Infatti subito l'autore puntualizza che Ge
sù Cristo non è venuto solo nell'acqua, «ma nell ' acqua e nel san
gue» ( l Gv 5 , 6cd) . All a fine dice che la comprensione della venu
ta di Gesù Cristo nell'acqua e nel sangue avviene per mezzo dello
Spirito che ha la funzione di testimoniare perché è la verità.
Sullo sfondo della polemica con quelli che non riconoscono il
realismo dell'umanità di Gesù si possono interpretare anche le
espressioni attuali. Il "sangue ", riferito a Gesù Cristo, richiama la
sua morte che purifica dai peccati perché egli è espiazione per tut
ti i peccati e svolge il ruolo di intercessore presso il Padre ( Gv l , 7;
1 06
2 , 1 -2; 4, 10. 14) . n simbolismo dell'acqua, che ricorre solo qui nel
la Lettera, può essere interpretato alla luce della tradizione gio
vannea all'inizio e alla fine della vicenda storica di Gesù. Quando
Giovanni incontra per la prima volta Gesù gli rende testimonian
za riconoscendolo come Figlio di Dio perché vede scendere e ri
manere su di lui lo Spirito santo. Giovanni lo presenta a Israele co
me l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, perché Gesù
battezzerà non con l'acqua, ma nello Spirito santo ( Gv l , 29-34).
A sua volta il discepolo amato rende testimonianza di quello che
ha visto dopo la morte di Gesù in croce: egli ha visto uscire dal suo
fianco aperto sangue e acqua (Gv 1 9, 34-45). Se nella prima testi
monianza l'acqua è associata allo Spirito, nella seconda essa è ac
coppiata al sangue, sia pur in un ordine inverso rispetto a quello
del testo della Lettera.
Dunque accostando acqua e sangue per definire l'identità di
Gesù Cristo l'autore vuole tenere unito quello che gli avversari se
parano, cioè l'esperienza dello Spirito dalla morte di Gesù. Questa
unità è rimarcata nell'affermazione successiva circa i tre testimoni:
«Poiché sono tre che testimoniano, lo spirito, e l'acqua e il sangue
e i tre sono - convergono in - uno» ( Gv 5 , 7-8) . La preminenza da
t a all o "spirito" si spiega ancora con la tradizione giovannea, dove
allo "Spirito di verità" è attribuita la testimonianza a favore di Ge
sù (Gv 15, 26). Anche l'affermazione sull'unità dei "tre" rientra
nell'orizzonte della testimonianza che, secondo la tradizione bibli
ca, per essere valida, deve essere concorde (cf. Dt 17, 6; 1 9, 15 ).
n tema della testimonianza viene ripreso e sviluppato nella
parte conclusiva. L'autore parte da un'affermazione sulla testimo
nianza che sta alla base dei rapporti umani. Su questo fatto egli co
struisce un'argomentazione a fortiori mettendo a confronto la te
stimonianza degli uomini con quella di Dio, definita "più grande" .
Nella Lettera questo comparativo - "più grande" - è riservato a
Dio e alla sua azione ( l Gv 3 , 20; 4, 4). La testimonianza divina è
quella dei tre testimoni riguardanti l'identità di Gesù Cristo, chia
mato ora «il suo (di Dio) Figlio» ( l Gv 5 , 9d) . Per spiegare l'e
spressione "ha testimoniato per il suo Figlio" non c'è bisogno di
. 107
pensare alla tradizione sinottica relativa al battesimo di Gesù o al
la trasfigurazione, dove Dio lo presenta come "mio Figlio" . La
qualifica filiale di Gesù fa parte della professione di fede cristiana.
Questa è la fede che vince il mondo (l Gv 5 , 5 ab).
Infatti l'autore prosegue mettendo in relazione la testimonian
za di Dio con la fede: «Chi crede nel Figlio di Dio ha la testimo
nianza in sé» (l Gv 5, l Oa) . Per mezzo della fede che riconosce in
Gesù il Figlio di Dio, la "testimonianza" - sia dei tre sia quella di
Dio - diventa una realtà interiore come la parola di Dio, il seme
che rende figli di Dio, il crisma che ammaestra, la verità e l'amore
di Dio. Al contrario, chi non riconosce Gesù come il Figlio di Dio,
non solo non dà credito alla testimonianza di Dio, ma fa di Dio,
che è fedele e giusto, un "falso" corpe chi nega la fede in Gesù Cri
sto ( l Gv l , 1 0; 2, 2 1 ).
Alla fine l'autore presenta il risvolto positivo della testimonian
za di Dio sul suo Figlio. Lo scopo e il frutto della testimonianza di
Dio è il dono della vita piena e definitiva, quella che era presso il Pa
dre, che è stata annunciata e promessa ai credenti (cf. l Gv l, 2 ; 2 ,
25). La vita donata da Dio si realizza nella fede in Gesù, il suo Fi
glio. Perciò in modo estremamente conciso l'autore può dire: «chi
ha il Figlio ha la vita». A questa si contrappone l'esperienza contra
ria: «Chi non ha il Figlio di Dio non ha la vita>> ( l Gv 5, 12). 1n que
sta frase si awerte più un appello o una messa in guardia contro un
possibile rischio di essere esclusi dalla vita, che non l'eco della pole
mica contro i negatori della fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
Al centro di queste riflessioni del brano conclusivo della Let
tera si trova il tema della vita donata da Dio ai credenti in Gesù
Cristo, suo Figlio. In tal modo si chiude l'arco aperto con il prolo
go, dove si parla della vita che era presso il Padre, e si è manife
stata ai testimoni e annunciatori della parola. Essi hanno incontra
to la parola che ha la concretezza storica dell'umanità di Gesù, dal
la sua prima manifestazione - attraverso l'acqua del battesimo - fi
no a quella finale nella sua morte violenta, il sangue. Su questa te
stimonianza si fonda la fede inseparabile dalla pratica dell'amore
che abbraccia Dio e i figli di Dio. In breve la fede, che riconosce
nell'umanità di Gesù il Cristo e il Figlio di Dio, non solo vince il
108
male e la morte, ma apre ogni essere umano al dono della vita pie
na promessa da Dio.
XII. EPILOGO
(1 Gv 5 , 13 -2 1 )
Ba
Questo vi ho scritto} l3h a/finché sappiate che avete la vita eterna)
Be
a voi che credete nel nome del Figlio di Dio. 14a E questa è la fidu
cia che abbiamo in lui: 14h se gli chiediamo qualche cosa secondo la sua
109
volontà, l4c ci ascolta. l5 a E se sappiamo che ci ascolta in quello che
chiediamo, 15h sappiamo che abbiamo già quelle richieste l5 c che gli ab
biamo chiesto. 16a Se qualcuno vede il suofratello peccare 1 6h di un pec
cato non per la morte, l 6c preghi e gli darà la vita, 16d a quanti pecca
no, ma non per la morte. t 6e C'è un peccato per la morte; 16f dico di
non /are preghiere per quello. t7a Ogni ingiustizia è peccato, t 7b e c'è
un peccato che non è per la morte. t sa Sappiamo che chiunque è stato
generato da Dio I Sb non pecca, t sc colui che è il generato da Dio lo pre
serva l Sd e il maligno non lo tocca. 198 Sappiamo che siamo da Dio 1 9h e
il mondo intero giace nel maligno. 20a Sappiamo inoltre che il Figlio di
Dio 20h è venuto e ci ha dato l'intelligenza 20c a/finché conosciamo il
vero 20d e siamo nel vero, nel Figlio suo Gesù Cristo. 20e Questi è il ve
ro Dio e la vita eterna. 2 18 Figliolz: guardatevi dagli idoli.
1 10
noscere", che ricorre una sola volta ( l Gv 5, 20c). Esso è associato
al termine didnoia, "intelligenza" , sconosciuto negli altri scritti della
tradizione giovannea. In questo ambito rientra anche il vocabolo
parrhesia, "fiducia" , già utilizzato nel corso della Lettera per espri
mere l'atteggiamento spirituale dei credenti nel loro rapporto con
Dio ( l Gv 2, 28; 3 , 2 1 ; 4, 17; 5 , 14a) . Nell'epilogo la fiducia caratte
rizza la preghiera sicura ed efficace dei fedeli che possono contare
sull'ascolto delle loro richieste da parte di Dio.
Il lessico della preghiera definisce il secondo campo semanti
co dell 'epilogo. n verbo aitein, "chiedere" , compare quattro volte
nei primi due versetti dopo l'annuncio tematico (l Gv 5 , 14- 15).
Anche il sostantivo aitema, "richiesta" , che non ricorre altrove nel
la Lettera e neppure negli altri scritti giovannei, è associato all'area
lessicale della preghiera. Parimenti il verbo erotan, "domandare",
sinonimo di aitein, fa parte dello stesso campo linguistico. Analo
gamente la duplice ricorrenze del verbo akouein, "ascoltare", ap
partiene all 'area semantica della preghiera.
Antitetico a due ambiti positivi è quello negativo, definito dal
la terminologia del peccato e della morte. n verbo hamartdnein,
"peccare", ricorre tre volte, come il sostantivo hamartia, "pecca
to" . Quest'ultimo è associato al vocabolo "morte", nell'espressio
ne ripetuta quattro volte: hamartia pròs tòn thdnaton, "peccato per
la morte" ( l Gv 5 , 16- 17). Nella stessa sfera negativa rientrano le
realtà definite dai vocaboli poner6s, "maligno" - due volte - e k6-
smos, "mondo", che ricorre una sola volta ( l Gv 5 , 1 8d. 1 9b). In
antitesi con la zona della morte è quella della zoe, "vita" - tre ri
correnze - qualificata due volte dall'aggettivo aionios, "eterna" ( l
Gv 5 , 13b. 16c.20e) . Al polo positivo appartengono i credenti
participio del verbo pisteuein - e chi è generato da Dio ( l Gv 5,
13c. 18). In questo sintagma tipico giovanneo "generato da" , il ver
bo genndn, "generare" , viene utilizzato due volte, nella forma del
participio passivo al perfetto e all ' aoristo.
Dentro questi diversi ambiti si muovono i protagonisti. L' au
tore si presenta come colui che scrive la Lettera esplicitandone lo
scopo: rassicurare e confermare la coscienza di fede dei destina-
111
taci ( 1 Gv 5 , 13 a) . In questo brano più volte egli adopera i verbi
alla prima persona plurale per esprimere la coscienza di fede cri
stiana condivisa con i lettori. Alla fine però si rivolge ad essi con
un pressante appello chiamandoli teknia, "figlioli" , per rimarcare
il suo ruolo autorevole ( l Gv 5, 2 1a) . Invece nell'ambito della co
munità il singolo credente è indicato dal termine adelph6s, "fra
tello" (1 Gv 5, 16a) .
n contenuto della professione di fede comune è proposto con
le fornnùe tradizionali. I destinatari dello scritto sono quelli che
credono <<nel nome del Figlio di Dio» ( l Gv 5, 13c). Con l'autore
essi sanno che il Figlio di Dio è venuto per dare l'intelligenza che
consente loro di conoscere l'unico vero Dio e vivere nella comu
nione con "il Figlio suo Gesù Cristo" , riconosciuto a sua volta co
me " il vero Dio" (l Gv 5 , 20). In questa dichiarazione, che precede
l'appello finale, si ha una concentrazione del termine alethin6s, "ve
ro" - tre volte - riferito a Dio. All 'unica vera realtà di Dio si con
trappongono gli idoli - tà eidola - che, quanti sono in comunione
con il "vero Dio", devono assolutamente evitare ( l Gv 5 , 2 1 ).
1 12
- l Gv 5, 18-20: segue un'affermazione fondata sulla fede co-
mune:
a. chi è generato da Dio è sottratto al dominio del peccato e
del maligno, l Gv 5 , 18;
b. mentre i credenti appartengono a Dio, il sistema monda
no è tutto in balia del maligno, l Gv 5, 19;
c. grazie alla venuta del Figlio di Dio i fedeli conoscono il ve
ro Dio e sono in comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, il
Dio vero e vivo, fonte di vita eterna;
- l Gv 5, 2 1 : appello finale ai credenti nel vero Dio perché si
guardino dagli idoli.
1 13
realtà gli stessi termini o espressioni sono utilizzati in un quadro
compositivo diverso e con un'altra prospettiva. Dal confronto appa
re in modo più nitido lo scopo della Lettera. L'autore scrive per ac
crescere la consapevolezza dei suoi lettori cristiani circa il possesso
della vita piena e definitiva. Questa esperienza si fonda sulla loro fe
de che si riferisce al Figlio di Dio. La formulazione del contenuto
della fede riprende quella della sezione precedente, dove si parla
della testimonianza di Dio a favore del suo Figlio ( 1 Gv 5, 10).
Con una fraseologia ricorrente nella Lettera si annuncia il pri
mo tema, riguardante la "fiducia , dei credenti in Dio. n sintagma
pròs aut6n, "verso di lui", può riferirsi solo a Dio, anche se l'ulti
mo protagonista menzionato è il Figlio di Dio. In realtà la fiducia
dei fedeli si esprime e si realizza nell'esperienza della preghiera, in
cui si chiede qualche cosa a Dio "secondo la sua volontà, nella
convinzione che egli ci ascolta. Per la quarta volta nel corso della
Lettera si parla di pa"hesia, "fiducia" in rapporto a Dio: due vol
te nella prospettiva del giudizio finale ( 1 Gv 2 , 28; 4, 17), e due vol
te nel contesto della preghiera ( 1 Gv 3 , 2 1 ; 5 , 14). Anche nel pri
mo caso l'esperienza della preghiera fiduciosa o sicura rivolta a
Dio è accompagnata dall'impegno a custodire i suoi comanda
menti e a fare le cose che gli sono gradite ( 1 Gv 3 , 22). n compi
mento della "volontà di Dio" caratterizza lo stile di vita del cre
dente che si oppone al sistema mondano ( l Gv 2, 17). Nel caso del
la preghiera chi chiede a Dio qualche cosa " secondo la sua volon
tà" è in perfetta sintonia con lui. Perciò ·anche l'ascolto o l'esaudi
re è intrinseco alla preghiera fatta con queste disposizioni. Questa
concezione della preghiera fiduciosa ed efficace corrisponde a
quella presente nelle parole di Gesù ai discepoli nel discorso di ad
dio: «Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò . . » (Gv 14,
.
1 14
Sullo sfondo si intravede lo statuto della preghiera come espres
sione del rapporto vitale con Dio. Egli sa già le cose di cui abbia
mo bisogno prima che gliele chiediamo (Mt 6, 8.32). Pertanto chi
prega non fa altro che aprirsi per ricevere quello che Dio da sem
pre ha disposto di donare.
Le affermazioni sull a preghiera preparano la breve istruzione
che affronta l'argomento connesso: "per chi pregare" . L'autore
presenta una situazione di vita ecclesiale perché parla di " un fra
tello" che in modo pubblico e visibile commette un peccato. Ma
subito precisa che si tratta di un peccato "non per la morte". In
questo caso egli raccomanda la preghiera per il peccatore con la
ferma fiducia che Dio l'ascolterà e gli darà la vita. Ribadisce il suo
pensiero dicendo che questo vale per quanti peccano, "ma non per
la morte" ( 1 Gv 5, 16abcd) . Quindi ritorna sulla distinzione tra i
due tipi di peccato dicendo che «c'è un peccato per la morte». In
questo caso preciso di un peccato per la morte, non vale il suo pre
cedente invito di pregare ( 1 Gv 5, 16ef) . La stessa idea viene ri
presa subito dopo l'affermazione che «ogni ingiustizia è peccato».
Tuttavia egli insiste nel dire che «c'è un peccato che non è per la
morte» (l Gv 5, 17).
Già per sé l'espressione "peccato per la morte" è enigmatica e
oscura, anche se si intuisce che nella prospettiva dell'autore della
Lettera c'è un legame tra peccato e morte. Questo risulta dal suo
commento della storia di Caino, dove afferma che «chi non ama ri
mane nella morte» e «chiunque odia il proprio fratello è omicida»
e «ogni omicida non ha la vita eterna che rimane in lui» ( 1 Gv 3 , 14-
15) . La figura di Caino, che è dal maligno, odia e uccide il suo fra
tello, è il prototipo di quelli che non amano i fratelli e smentiscono
la fede nel Figlio di Dio che ha dato se stesso per noi. Essi negano
che Gesù è il Cristo, venuto nella carne ( 1 Gv 2 , 2; 4, 2 ) . D'altra
parte chi non crede nel Figlio di Dio non ha la vita ( 1 Gv 5, 12) .
Questo modo di vedere l'esperienza di fede cristiana porta a iden
tificare il "peccato per la morte" con la condizione dei negatori del
la fede in Gesù Cristo. Per questi non solo la preghiera è inefficace,
ma non ha senso, perché essi si sottraggono al perdono dei peccati
1 15
che Dio dona a tutti per mezzo di Gesù, il suo Figlio inviato come
espiazione per i peccati della comunità e del mondo intero.
ll brano della Lettera giovannea sul "peccato per la morte,
può essere accostato ad altri testi del Nuovo Testamento, dove si
parla di peccato imperdonabile o apostasia irreversibile (Mc 3 , 28-
29; Mt 12, 3 1 -32; Le 12, 10; Eh 6, 4-6; 10, 26-3 1 ; 12, 16-17). Ma
l'accostamento dei due tipi di peccato non ha precedenti nella tra
dizione biblica e giudaica. Invece la sospensione della preghiera
per le situazioni o le persone che sono refrattarie all'iniziativa sal
vifica di Dio, trova una corrispondenza in alcuni testi dell'Antico
Testamento e nella tradizione giovannea (Ger 7 , 16; 14, 1 1 ; Gv 17,
9). Ma si deve rilevare che l'autore della Lettera giovannea pone
l'accento sulla preghiera a favore del fratello che non commette
"un peccato per la morte" . Per tre volte con una certa insistenza
egli precisa che c'è un peccato che non è "per la morte". Dunque
per questo si deve pregare, secondo una tradizione che affonda le
sue radici nella storia biblica degli intercessori, da Abramo, a Mo
sè e ai profeti.
Dopo l'istruzione sulla preghiera e le precisazioni sui due tipi
di peccato, l'autore si avvia alla conclusione della Lettera con tre
dichiarazioni rassicuranti, introdotte dalla fraseologia: oidamen ho
ti , "sappiamo che . . . " ( l Gv 5, 18a l 9a 20a). Egli esprime la sua
. . . . .
1 16
sivo, ma al tempo aoristo: ho gennetheis ek tou Theou, "il genera
to da Dio" ( l Gv 5 , 18c) . Quello che fa decidere per interpretare
la seconda formulazione in chiave cristologica, cioè riferita a Gesù
Cristo, il Figlio di Dio - "il generato da Dio" - è il ruolo assegna
to: "egli lo presetva" , nel senso che mantiene il credente " che è sta
to generato da Dio" nella sua condizione filiale. TI ruolo salvifico
di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, nei confronti del credente è espli
citato nella proposizione che segue: «e il maligno non lo tocca» ( l
Gv 5, 18d) . Nella preghiera che chiude il discorso di addio nel
Quarto Vangelo il ruolo di custodire - terefn - i discepoli dal ma
ligno è attribuito al Padre (Gv 17, 15). Ma nella Lettera invece è
Gesù, il generato dal Padre, che custodisce il credente sottraendo
lo così all 'influenza negativa del maligno.
L'antitesi tra i due sistemi, contraddistinti dal riferimento a
Dio e al maligno, è ampliata nella seconda dichiarazione, dove si
introduce la categoria "mondo" , posta in relazione con la sfera ne
gativa del maligno ( l Gv 5, 19). L'identità positiva, suggerita pre
cedentemente con il sintagma "essere generati da", ora è segnalata
con un'espressione ricorrente nella Lettera e nella tradizione gio
vannea: "essere da Dio" (cf. l Gv 3 , lOc; 4, le; 4, 2-4.6a; Gv 8, 47) .
Invece il mondo, h o kosmos, è interamente in balia della forza ne
gativa designata come ho poneros, "il maligno" . Questa figura, an
titetica alla realtà di Dio, anche se non simmetrica, esercita la sua
azione nel sistema mondano, dove predominano progetti e aspira
zioni opposte alla volontà di Dio ( l Gv 2, 15- 17). Con una formu
la, che è una contraffazione di quella positiva, costruita con il ver
bo "rimanere" , si afferma che il mondo come sistema globale "gia
ce nel maligno" ( l Gv 5 , 19b).
La terza dichiarazione contiene un'esplicita professione di fe
de cristologica centrata sulla figura di Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
Per la terza volta nella Lettera si afferma la sua venuta con un nuo
vo verbo hekein, "venire " (cf. l Gv 4, 2d; 5 , 6a) . Grazie a questa
missione storica del Figlio di Dio i credenti ricevono la "intelli
genza" per conoscere il vero (Dio) e vivere nella comunione con il
suo Figlio Gesù Cristo. Il termine dùinoia, "intelligenza", potreb-
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be rimandare al testo del profeta Geremia, dove si promette ai fi
gli di Israele una nuova alleanza. Essa consiste nel fatto che il Si
gnore porrà le sue leggi nel loro intimo - eis ten ditinoian (Settan
ta) - e le scriverà sui loro cuori ( Ger 3 1 [3 8] , 3 3 ) . Al tema dell'al
leanza si ispira anche l'idea della comunione dei credenti con il ve
ro Dio, con il Figlio suo Gesù Cristo ( l Gv 5 , 20d) .
In realtà l'autore non dice espressamente che noi conosciamo
Dio e siamo in comunione con Dio, ma che, mediante la cono
scenza data dal Figlio di Dio, noi conosciamo tòn alethin6n, " il
vero " , e siamo en to-i alethino-i, "nel vero" senza nominare "Dio".
Nel Quarto Vangelo il vocabolo alethin6s in un paio di testi è ri
ferito a Dio, il Padre, che ha inviato Gesù ( Gv 7 , 28; 17, 3 ; cf. Ap
6, l O) . Ma questo aggettivo non è mai adoperato in senso assolu
to come sostituto del nome di Dio. L'uso di alethin6s, per espri
mere la fede nel Dio unico, vivo e vero, corrisponde al vocabola
rio della professione di fede monoteistica (cf. Es 34, 6; l Ts l , 9) .
Ma nell'ambito della tradizione giovannea i titoli e le qualifiche
divine possono essere trasferiti a Gesù Cristo, il Figlio (cf. Ap 3 ,
7 . 1 1 ; 19, 1 1 ) . Perciò il sintagma en to-i alethino-i " (siamo) nel ve
ro" si riferisce a Gesù Cristo, il Figlio come viene esplicitato nel
la frase che segue immediatamente senza particelle di coordina
zione. Analogamente la proposizione conclusiva: «Questi è il ve
ro Dio e la vita eterna» ha come soggetto Gesù Cristo, il Figlio di
Dio, l'ultimo protagonista menzionato. Del resto l'attribuzione a
Gesù Cristo del titolo (ho) The6s, "Dio", rientra nella tradizione
giovannea (Gv l , l ; 20, 28) . Proprio in quanto è il vero Dio, Ge
sù Cristo, il Figlio di Dio, non solo dona, ma è la vita eterna (cf. l
Gv 5, 1 1 - 12). Quest'ultima espressione potrebbe essere un'eco
della formula di fede tradizionale in cui si riconosce l'unico Dio,
vivo e vero.
Le ultime affermazioni sul "vero Dio" fanno da sponda all'ap
pello finale: «Figlioli, guardatevi dagli idoli» ( l Gv 5, 2 1 ). Questo
breve secco imperativo, crea un certo imbarazzo e sconcerto. An
che l'appellativo "figlioli '' , che ricorre complessivamente sei volte
nella Lettera, non esprime solo l'autorevolezza di chi scrive, ma
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sottolinea il tono accorato del suo invito. Gli interrogativi si ad
densano sul significato del termine eidola, "idoli". Nelle altre die
ci ricorrenze del Nuovo Testamento con questo vocabolo si indica
la divinità, immagine o altro, oggetto del culto da parte di quelli
che non credono nell'unico Dio vivo e vero (cf. At 15 , 20; l Cor
12, 2; l Ts l , 9; Ap 9, 20) .
TI contesto immediato di l Gv 5, 2 1 non favorisce l'interpreta
zione del termine "idoli" come sostituto dell'espressione "peccato
per la morte" . Invece una interpretazione plausibile di questo vo
cabolo, in sintonia con il contesto generale dell